venerdì 8 marzo 2013

l’Unità 8.3.13
Bersani a Monti: «Non ci sono piani B»
Lettera agli elettori del centrosinistra: «Siate parte attiva del dibattito per un governo del cambiamento»
di Simone Collini


Un’ora di colloquio a Palazzo Chigi con Mario Monti, il giorno dopo aver incassato il mandato della Direzione Pd ad andare a chiedere l’incarico al Quirinale e aver illustrato direttamente a Giorgio Napolitano gli otto punti attorno a cui costruire il «governo di combattimento». La partita di Pier Luigi Bersani entra nel vivo. L’obiettivo è fin d’ora duplice: creare le condizioni per ottenere la fiducia alle Camere e sbarrare la strada, nel caso in cui «il piano» dovesse fallire, a qualunque ipotesi di accordo di governo con il Pdl. E da questo punto di vista l’incontro con Monti convince ancora di più Bersani della necessità di andare «fino in fondo» nel tentativo intrapreso: «Tocca a noi fare una proposta, che non è una pretesa e tantomeno una mia pretesa, ma un dovere», ha detto in pubblico come in privato il leader del Pd. «È un dovere di responsabilità dire attraverso quale via può essere avviata la legislatura e data la governabilità al Paese». E la «via», per quanto stretta e in salita, per Bersani è una sola, quella cioè di un governo di scopo che, contrariamente a quanto sostenuto da Matteo Renzi (sarà una legislatura breve) se riuscirà a insediarsi «potrà durare molto a lungo».
Con il premier uscente il leader del Pd ha discusso anche di Europa, e di come debba presentarsi l’Italia al vertice di Bruxelles del 14. Ovvero spingendo l’Ue, come si legge in una nota diffusa da Palazzo Chigi al termine dell’incontro, «in favore di una maggiore attenzione alla crescita, all’occupazione e alla dimensione sociale della crisi». Argomento estraneo alla crisi in corso? Non tanto, se si pensa che Monti ventiquattr’ore prima aveva detto che era preferibile il voto rispetto a un governo anti-Ue, e che Bersani ha fatto gran parte della sua campagna elettorale sulla necessità (messa anche in testa agli otto punti) di abbandonare la linea dell’austerity fine a se stessa per privilegiare invece le misure a favore della crescita.
L’incontro, che tra l’altro non verrà ripetuto né con Grillo (che non ha neanche risposto all’invito di Monti) né con Berlusconi (sarebbe dovuto andare a Palazzo Chigi oggi ma ha dato forfait ieri sera causa congiuntivite) ha fatto emergere una sintonia che può essere usata per l’oggi e per il domani, anche se Monti non ha scoperto del tutto le sue carte. Per avere la maggioranza al Senato è fondamentale (ma non sufficiente) il sostegno dei 22 senatori di Scelta civica. Ma anche in caso di un precipitare della crisi, sarà importante costruire un rinnovato rapporto tra Pd e Monti.
Bersani va avanti infatti col suo «piano A», aggiungendo che «non tocca al Pd elaborare altri piani» e che il partito si affida «alle valutazioni del Presidente della Repubblica». Un modo per sottolineare come sia «rispettoso di questa prerogativa» del Colle, ma anche per evitare di alimentare tensioni nel Pd, già percorso da una discussione per ora tenuta sotto controllo tra chi, come Matteo Orfini e Stefano Fassina, dice che in caso non veda la luce il «governo di combattimento» si debba andare a nuove elezioni e chi, come Paolo Gentiloni, giudica negativo un ritorno alle urne.
Bersani, che è disponibile a cedere la presidenza delle Camere all’opposizione e che pensa a una «compagine di governo che abbia dentro novità e competenze» (e i boatos di Montecitorio riportano i nomi di Stefano Rodotà, Renzo Piano, Dario Fo, Gustavo Zagrebelsky, Raffaele Guariniello) tira dritto sulla strada tracciata e utilizza gli otto punti, fortemente incentrati sui temi della legalità, della moralità pubblica, del sociale e del lavoro, sia come strumento di sfida a Beppe Grillo che come paletto piantato per tenere a distanza Silvio Berlusconi. Non a caso il Pd farà partire una mobilitazione straordinaria, in questa decina di giorni che mancano all’avvio delle consultazioni al Quirinale. Si legge nella lettera firmata da Bersani che è stata appena spedita a centinaia di migliaia di elettori di centrosinistra: «Vi chiedo di essere parte attiva del dibattito su queste proposte per un governo del cambiamento all’altezza della crisi sociale e politica che l’Italia sta attraversando». E non è neanche casuale che il primo tema messo sotto i riflettori riguardi «l’onestà, pubblica e privata», come si legge nella lettera, ovvero la legge sull’anticorruzione e contro il falso in bilancio presentata ieri insieme a Pietro Grasso.
La sfida a Grillo (che Bersani paragona a Bettino Craxi: «arriva terzo e vuole governare») è per capire se i Cinquestelle vogliono davvero il cambiamento. Dice il leader Pd: «Grillo non vuole diplomazie e scambi di sedie, e noi ne voglio meno di lui. Ha scelto la strada parlamentare, adesso dirà come intende prendersi le sue responsabilità davanti al Paese. L’idea del tanto peggio tanto meglio è distruttiva». Quanto al «rischio violenze» evocato dal leader del M5S, il leader del Pd avverte: «Io so che c’è un’enorme tensione, ci sono tante situazioni al limite e ci vorrebbe grande senso di responsabilità, non bisognerebbe evocare niente di questo. Bisogna dare risposte serie a viso aperto, non risposte incappucciate. Perché questo Paese può morire».

Repubblica 8.3.13
Bersani: “Grillo mi sembra Craxi ma eviti di evocare la violenza”
Renzi: le sconfitte non sono belle ma si può crescere
di Giovanna Casadio


ROMA — Bersani confessa che il risultato delle elezioni per lui «è stata una botta». Ma non molla. Dopo l’ok della Direzione del partito, offre a Grillo un patto di governo su otto punti di programma (già pronto è il disegno di legge contro la corruzione). Il capopopolo dei 5Stelle neppure entra nel merito. Rifiuta, attacca, insulta? Il segretario del Pd gli ricorda che «il paese è al limite, servono delle risposte a viso aperto, non incappucciate» e che «incappucciati si può andare in piazza, non a governare». Incappucciato si presenta Grillo per dribblare i giornalisti italiani, consegnando ai media stranieri sfoghi e progetti politici, e agitando lo spauracchio della violenza di piazza, se il MoVimento venisse emarginato. «Non evochi la violenza, si deve avere senso di responsabilità»: bacchetta Bersani. Il confronto non avanza di un passo. «Grillo mi sembra Craxi, è arrivato terzo e pretende di governare da solo, esagera un po’... a lui direi: dimmi cosa vuoi fare per questo paese», è l’appello del leader Pd in tv, a “Otto e mezzo” su La7.
La missione di formare un governo sembra impossibile. Sarà una legislatura breve, come prevede Matteo Renzi? «Se decolla sono più ottimista di Matteo sulla durata». E il sindaco “rottamatore” torna sulla situazione del centrosinistra: «Le sconfitte non sono belle, però si può crescere». Bersani parla del «dovere» di fare una proposta per la governabilità e che questa non è «una pretesa» del centrosinistra, a cui le urne hanno assegnato una vittoria menomata. È quanto ripete a Monti. Il premier uscente e il premier in pectore (se Napolitano gli darà l’incarico) hanno avuto un colloquio di un’ora a Palazzo Chigi. Hanno parlato di correzione delle politiche europee in vista del Consiglio Ue di giovedì prossimo, perché «ci vuole più crescita e più occupazione». E sul futuro governo «Monti l’ho trovato preoccupato», confessa Bersani. Il sentiero è stretto e avvolto nella nebbia: è l’immagine usata in Direzione, mercoledì. Il Pd con i suoi 460 parlamentari tra Camera e Senato non è disponibile ad «accordi impresentabili» con la destra.
Il centrodestra invece insiste per larghe intese. Ieri è Bobo Maroni, neo governatore lombardo, a rilanciare: «Penso e spero che non si vada a votare... l’unica strada quella di una grande coalizione che duri cinque anni». Il Pd potrebbe dividersi su questa ipotesi? «Scissione? Non esiste», nega Bersani. Una subordinata in questo momento non c’è, per il segretario democratico: «Chi dice in giro di piani B è perché vuole scartare il piano A». Comunque, dichiara che la sua non è una scommessa personale, potrebbe di certo fare un passo indietro. Se non riuscirà a condurre in porto la sua missione, cosa accadrà? Dentro e fuori il partito le ipotesi si rincorrono. Sull’Espresso in edicola, il costituzionalista Michele Ainis lancia l’idea che, in una fase di stallo, possa nascere un governo Napolitano, un esecutivo dell’ex presidente (poiché scade il 15 maggio).
Nelle file democratiche lo scontro resta sotto traccia. Ma da un lato ci sono i “giovani turchi” -Orfini, Fassina, Orlando - che tornano alla carica e avvertono: «Se fallisce Bersani, si va al voto». Dal-l’altro, chi vuole imboccare la strada del governo del presidente. Mentre Franceschini e Letta ritengono che vada fatto di tutto per evitare il ritorno alle urne. Giacomelli, ex capo della segreteria di Franceschini, stoppa Fassina e Orfini: «Basta con la teoria del voto oltranza, con gli insulti a Renzi, è una deriva inaccettabile».

Corriere 8.3.13
Bersani e gli 8 punti: ho più fiducia di Renzi Vertice con Monti
Bindi: «Pronti a un governo di alte personalità»

di Marco Galluzzo

ROMA — Alle cinque del pomeriggio Pier Luigi Bersani arriva a Palazzo Chigi più che mai convinto che la sua offerta di governo sia non solo legittima, ma anche doverosa. Lo ha detto in conferenza stampa, definendo la proposta votata dalla direzione del Pd «non una pretesa ma un dovere».
Ufficialmente un'ora di colloqui che vengono definiti molto cordiali servono al leader del Pd e al presidente del Consiglio per parlare di Europa e del prossimo Consiglio europeo. Se il discorso è caduto anche sulla politica interna, sui prossimi passi istituzionali, non viene detto. Al termine dell'incontro un comunicato congiunto pone l'enfasi solo su «crescita e creazione di nuova occupazione», a livello comunitario.
In un passaggio si rimarca la disciplina di bilancio dell'Italia, si sottolinea «la specificità» della situazione del nostro Paese, ovvero quel misto di conti a posto e grave recessione che dovrebbe indurre qualche riflessione: infatti, si aggiunge, il perdurare della crisi «rischia di indebolire l'impegno nazionale a realizzare le riforme strutturali». Insomma a Bruxelles ci vorrebbe più attenzione alla nostra situazione, «alla dimensione sociale della crisi».
È un po' poco per definirlo un risultato concreto, la debolezza del governo italiano in carica non consente al momento di fare previsioni né chiedere nulla in sede comunitaria: per fare come altri, che hanno ottenuto vincoli di deficit più larghi dei nostri e lo slittamento del pareggio di bilancio, occorrerebbe ben altro esecutivo e un periodo di stabilità politica postelettorale.
Entrambe le cose al momento sembrano miraggi e dunque il colloquio fra i due non può che partorire una nota congiunta che ha anche la funzione di avvertire Bruxelles. Il messaggio è più o meno questo: non chiedete più nulla al Paese e semmai ponetevi il problema di aiutarlo. Del resto poche ore prima lo stesso Bersani non ha nascosto la difficoltà del suo tentativo attuale: «Il problema è l'abbrivio», ha detto, anche «se sono più fiducioso di Renzi, se avviene, sulla durata di questo governo».
Insomma nonostante sia un «dovere», che «non dipende né da me né da Napolitano» (ma dal «piccolo particolare di avere la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato») nemmeno Bersani oggi scommette più di tanto su se stesso. Il 14 marzo, quando Monti sarà a Bruxelles, mancheranno cinque giorni all'inizio delle consultazioni e ai leader stranieri che chiederanno lumi il Professore potrà fornire al massimo delle previsioni, probabilmente incerte.
Oggi identico incontro si sarebbe dovuto tenere con Silvio Berlusconi, ma è saltato per problemi di salute del Cavaliere (una congiuntivite). Da Beppe Grillo invece ancora nessuna risposta all'invito: alcuni grillini dicono che il loro leader non andrà, mentre Bersani avverte che «la logica del tanto peggio tanto meglio è distruttiva». Peccato che lo stesso leader del Movimento 5 Stelle dica al Time, in un'intervista, che aspira «al 100% dei voti»: insomma non la pensa come Bersani.
Al quale invece Grillo ricorda Bettino Craxi: «Da quando in qua governa chi è arrivato terzo alle elezioni? È dai tempi di Craxi che non sentivo una cosa del genere». Nonostante tutto il segretario del Pd è comunque pronto ad un eventuale passo indietro, se fosse necessario per arrivare ad un governo: «Non ne faccio una questione personale, per l'amor di Dio...». Mentre Rosy Bindi, da Michele Santoro a Servizio pubblico, si spinge oltre: «Se ci fosse un governo di alte personalità, il Pd non si sottrarrebbe. Bersani è uno che non ha messo il proprio nome nel simbolo».

Corriere 8.3.13
Voto, governissimo, leader: il Pd è già diviso
di Maria Teresa Meli


Fassina duro sul sindaco di Firenze: «Non abbiamo bisogno di un altro Unto del Signore»
ROMA — Per spiegare quello che sta succedendo nel Pd occorre prendere in prestito le parole di Matteo Richetti, neodeputato renziano, che si è candidato alle primarie e si è dimesso dalla presidenza del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna: «Quello che si dice in Direzione non è la fotografia del vero dibattito che c'è nel partito. Ciò che si dice nel Pd un minuto prima e un minuto dopo quella riunione è diverso da ciò che si dice lì».
Accade così a ogni Direzione del Partito democratico. Ed è successo anche ieri. Dopo la grande prova di unanimità di mercoledì, i dirigenti del Pd tornano a dividersi. E non su un argomento da poco, ma sulle elezioni. Già, se Bersani fallisce, che cosa si deve fare? Consentire comunque la nascita di un governo o correre alle urne? È su questo interrogativo che il Partito democratico si divide e si lacera.
Pier Luigi Bersani non ha dubbi. Innanzitutto il segretario non dispera ancora di riuscire a mettere su un suo governo: «Ci vuole del tempo», spiega ai fedelissimi. Del tempo per convincere una parte dei grillini del Senato a non obbedire ciecamente al loro leader. «Io — è la spiegazione che dà Bersani ai suoi interlocutori di questi giorni — non chiedo a Grillo un'alleanza politica, so che sarebbe una cosa fittizia». Se non va in porto questo tentativo, per il leader del Pd la strada maestra rimane quella delle elezioni: «E la responsabilità sarà di Grillo, perché è lui che fa saltare il banco, perché certo io non mi metto a fare un governo con il Pdl per fare piacere a lui. Il suo gioco è chiaro: vuole mettere gli oneri della governabilità sulle nostre spalle e continuare a prendere i voti della protesta».
Con il segretario su questa linea, senza se e senza ma, ci sono i giovani turchi. Il responsabile economico Stefano Fassina è netto. Anzi, è nettissimo: «Non andremo mai con il Pdl e non appoggeremo un governo tecnico, o riesce questo tentativo del segretario o si va al voto». E tanto per gradire Fassina riserva una stoccata anche a Renzi: «Non abbiamo bisogno di un altro Unto del Signore, come Berlusconi». Un altro esponente di spicco dei «giovani turchi», Matteo Orfini, è altrettanto determinato: «Voto e primarie». La pensano allo stesso modo due fedelissimi di Bersani, come Maurizio Migliavacca e Vasco Errani.
Ma tutti gli altri big non sono su questa linea. Non lo è Dario Franceschini. Il capogruppo in Direzione ha chiesto «una gestione collegiale» del Pd. Il che tradotto dal politichese è una richiesta se non di commissariamento, almeno di condizionamento di Bersani. E il suo braccio destro Antonello Giacomelli ieri ha attaccato proprio il duo Fassina-Orfini. Sulle elezioni, ma anche sul loro atteggiamento nei confronti di Renzi. Pure Rosy Bindi frena il segretario: sarà Napolitano a decidere sulle elezioni. E Paolo Gentiloni è, come al solito, il più chiaro: «Se Bersani fallisce, non si torni al voto». Anche Enrico Letta ritiene che le elezioni sarebbero una sventura. Lo stesso dicasi per Beppe Fioroni. In parole povere tutti gli ex margheritini di peso sono contrari al voto anticipato. Di più: eccezion fatta per Bindi, vedono tutti di buon occhio Renzi come candidato premier, convinti che potrebbe essere l'uomo giusto per guidare alla vittoria un'alleanza tra centrosinistra e moderati. Veltroni ex margheritino non lo è mai stato, però non fa mistero di volere un governo del presidente e non certamente le urne.
Infine, Massimo D'Alema che, per dirla con Renzi, in Direzione ha «dato lezioni di inciucio». L'ex premier in quella riunione ha rifilato una stoccata al segretario che è sfuggita ai più, ma non a chi lo conosce bene: «A Roma, alle elezioni regionali, Nicola Zingaretti ha avuto 6 punti in più di quelli del centrosinistra alle politiche e Grillo ha preso 6 punti in meno». Come a dire: la colpa della sconfitta è anche del candidato premier che non è riuscito a prendere consensi che non erano inafferrabili.
Dunque, al Pd scorrono i veleni e si affilano le armi, insomma si torna alla vita di sempre.

l’Unità 8.3.13
Grillo contro la stampa e poi evoca la violenza
L’attacco dopo la scoperta di 13 società aperte in Costa Rica da autista e cognata
L’idea del comico sulla Rai: «Cedere due reti» Orfini: «A chi vuole venderle, a Berlusconi?»
Fnsi: «Da lui toni da regime, peggio di Berlusconi»
Il leader: «Se falliamo noi, rischio scontri»
di Toni Jop


ROMA Ma com’è che le più avvincenti vicende politiche italiane toccano prima o poi i mari dei tropici? Ieri mattina, avvisaglie di uno scoop servito da L’Espresso oggi nelle edicole: l’autista personale e collaboratore stretto di Grillo, Walter Vezzoli, assieme alla sorella della moglie del leader dei Cinque Stelle, Nadereh Tadirijk, sono intestatari di tredici conti in Costarica, uno dei paradisi per capitali scorbutici e allergici alla luce. Non solo: da uno di questi conti si capisce che i due stanno mirando alla realizzazione di un resort di lusso. Grillo direttamente non c’entra, ma i fatti, documentati, sono questi. Così, in contemporanea con quelle anticipazioni, sul blog del Megafono del movimento è apparso un post, verosimilmente scritto dal capo, dal titolo non ambiguo: «Attenti ai lupi». Con chi ce l’ha? Con i giornalisti.
Nessuna novità, solo una eccitante concomitanza: Grillo non sopporta i giornalisti, li disprezza e non da ieri. Poi, questa volta i termini usati sono più aguzzi del solito, confezionati per far male e, soprattutto, per stringere un cordone ben più robusto attorno a tutto ciò che è suo: il movimento Cinque Stelle, i suoi nuovi parlamentari, l’igiene delle comunicazioni fin qui affidate esclusivamente, o quasi, al solito Blog che, appunto, gli appartiene. Come si permettono quelli dell’Espresso di ficcare il naso in cose che riguardano la sua famiglia? Fino a tarda sera, non si è avuta notizia di una reazione di Grillo all’anticipazione sul dossier del settimanale che pure illumina spazi di cronaca rimasti in ombra fin qui, alle spalle consapevole o no dell’implacabile fustigatore dei costumi. Il Costarica resta un paradiso fiscale nonostante da poco sia uscito dall’indice dei paesi canaglia, dove i capitali possono fare quel che vogliono senza quasi lasciare traccia. Secondo l’Espresso, l’autista e la cognata del leader avrebbero impiantato in quella terra una attività finanziaria a quel che pare appena abbozzata: nelle tredici società fluttuano capitali modesti, non più di diecimila dollari per ciascuno dei riferimenti.
Il settimanale spiega che non si riesce a sapere granché sulla operatività di queste società, in virtù del fatto che il Costarica consente schermature efficaci alle loro dinamiche. Più chiaro, invece, risulta il disegno che motiva uno di questi soggetti societari: la realizzazione di un villaggio molto costoso su un’area di decine di ettari, roba fine, messo a punto rispettando tutti i crismi della eco-compatibilità. Ci mancherebbe. Comunque, un riparo non per esodati e precari. In una delle tredici società compare anche il nome di Enrico Cungi, toccato da una vicenda legata al narcotraffico che tuttavia non ha mai portato a giudizi condanna.
Conviene chiarire che Walter Vezzoli non è un banale autista, è persona che Grillo porta sempre con sé anche sui palchi e che presenta volentieri al pubblico con affetto, stima e familiarità. E certamente meriterà tutto questo. Ciascuno fa con i propri soldi quello che vuole, nel rispetto della legge e se non c’è nulla da nascondere Grillo non avrà problemi a sgombrare il campo dalle ambiguità di questa vicenda. Nel frattempo, martella i giornalisti, i «lupi» il cui obiettivo è «sbranare pubblicamente ogni simpatizzante o eletto del M5S», «accanimento televisivo», «vilipendio continuato» etc etc. Attacca frontalmente l’assedio, vero, che il mondo dell’informazione ha messo in campo per il battesimo dei parlamentari Cinque Stelle nei giorni scorsi a Roma. Vuole anche ridurre la Rai a una rete sola, e venderne due. Dal Pd replica subito Matteo Orfini. «Pensa di cedere due reti Rai a Berlusconi?».
Grillo ha tenuto nascosti, silenziosi, inscatolati per settimane gli eletti; ha costruito per loro un micidiale imbuto per un interesse più che giustificato da parte dell’opinione pubblica; la strettoia, sgradevole sì, registrata nei giorni dell’insediamento è una conseguenza meccanica di quell’imbuto informativo. Troppo furbo per essere vero? «Sconvolgente, morboso, malato, mostruoso», così dice Grillo di quel «trattamento» ai danni dei suoi pargoli e della loro immagine mentre invoca, di nuovo, la vendita di due reti pubbliche e la conferma di una sola, libera da partiti e pubblicità.
Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti ha chiesto al leader Cinque Stelle: «Ma lei prova mai vergogna?». Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, ha valutato così: «Sono espressioni e atteggiamenti da oligarchi di regime... nemmeno Berlusconi era arrivato a tanto». Nemmeno Berlusconi dei giorni migliori, o peggiori, aveva mai preteso di azzerare l’articolazione politica italiana, ma Grillo sì e lo precisa, o lo ribadisce con forza, nel corso di una intervista a Time Magazine. Qui, annuncia che il suo obiettivo è il 100% dei consensi, che non gliene frega nulla di percentuali inferiori, e solo allora il movimento Cinque Stelle potrà dissolversi. Molto bossiano. Infine, avvisa tutti: «Se falliamo noi, ci saranno violenze di piazza», quindi conviene dargli quel cento per cento, sennò son guai.
È così o abbiamo capito male?

l’Unità 8.3.13
«Senza noi, tumulti». Time: «Frase fuori contesto»


«Se falliamo, ci sarà la violenza nelle strade. Metà delle persone non ne può più», sono le parole di Beppe Grillo, in un’intervista rilasciata a Time. Il comico sostiene: «Io canalizzo tutta questa rabbia in questo movimento di persone che poi governerà». I partiti, aggiunge, «dovrebbero ringraziarci uno per uno». Certo, il leader del M5s evoca la violenza, ma sulle parole estrapolate dall’intervista da Corriere.it che sul suo sito titola: «Se falliamo noi violenza in strada» nasce un vero caso. Stephan Faris, autore
dell’intervista bacchetta il sito del Corriere, che accusa di «negligenza e ricerca di sensazionalismo». Si tratta di una «citazione fuori contesto», contesta Faris. «Grillo è stato chiaro: lui vede se stesso come una alternativa alla violenza. Giusto per essere chiari, in nessun passo dell’intervista con il Time Grillo ha minacciato che ci sarebbero state violenze. Anzi, stava chiarendo che nella sua visione il M5s previene la violenza incanalando la rabbia del Paese nel dibattito democratico».

Repubblica 8.3.13
Grillo: se falliamo rischio violenze le tv sono pagate per sputtanarci voglio arrivare al 100% dei seggi
Attacco ai giornalisti conduttori: sono dipendenti di Pd e Pdl
di Silvio Buzzanca


ROMA — Beppe Grillo ancora contro tv, giornali e giornalisti. Quelli italiani, perché quelli stranieri vanno benissimo. Nel mirino finiscono in particolare quelli che conducono i talk show che, secondo il comico genovese, agiscono come “Zanna bianca”, la lupa del libro di Jack London, che attirava i cani nella foresta dove li attendeva il branco per sbranarli. Ecco, scrive nel suo blog il leader del movimento 5Stelle, «la tecnica dei conduttori televisivi, dipendenti a tempo pieno di Pdl e Pdmenoelle, è simile». Il conduttore televisivo, affonda Grillo «si succhia come un ghiacciolo il movimentista a cinque stelle, vero o presunto (più spesso presunto), lo mastica come una gomma americana e poi lo sputa, soddisfatto del suo lavoro di sputtanamento. È pagato per quello dai partiti». Con un risultato che agli occhi di Grillo è devastante: «Questa non è più informazione, ma una forma di vilipendio continuato, di diffamazione, di attacco, anche fisico, a una nuova forza politica incorrotta e pacifica». Anche per questo Grillo è convinto che «indispensabile creare una sola televisione pubblica, senza alcun legame con i partiti e con la politica e senza pubblicità. Le due rimanenti possono essere vendute al mercato». Molto meglio allora affidarsi ai taccuini e alle telecamere dei media stranieri. Ieri è toccato ad una televisione spagnola e alla rivista americana Time.
E anche all’intervistatore d’oltreoceano il comico spiega che fra partiti e media, «i peggiori sono i media. Forse - dice Grillo - i quotidiani locali sono a posto, ma quelli che formano la pubblica opinione, sette televisioni e tre quotidiani, fanno parte del sistema. Le Sette Sorellastre televisive non fanno informazione, ma propaganda».
Ma nell’intervista c’è anche un passo controverso sul ruolo del movimento 5Stelle nella realtà politica e sociale italiana. Grillo, infatti, ad un certo punto, rivendica un merito: «Io canalizzo la rabbia in un movimento popolare, che poi va e governa. Dovrebbero ringraziarci uno per uno», dice. «Se falliamo - continua il comico in Italia si rischiano violenze di piazza. Se crolliamo noi, le violenze in strada arriveranno. Metà della popolazione non ne può più».
Grillo ricorda poi che «tutto è nato in Italia: il fascismo, le banche, abbiamo inventato il debito e anche la mafia. Se da qui non parte un'ondata di violenza è grazie al movimento». Parole destinate a fare discutere e a creare polemiche. Che vengono interpretate come una minaccia di volere ricorrere alla piazza contro i partiti. Polemiche nella quali interviene anche il giornalista autore dell’intervista per dire che Grillo non ha mai parlato di uso della violenza da parte del suo movimento.
Per il resto il comico manda in scena il copione di sempre. respinge gli appelli al senso di responsabilità che gli arrivano un po’ da tutti. «Loro parlano di trasparenza dei partiti, noi di scioglimento dei partiti. È diverso, Wellington e Napoleone non possono collaborare», dice. Risponde anche alle critiche di chi gli ricorda che alcune proposte lanciate in campagna elettorale non erano nel programma. Spiega che di nazionalizzazione delle banche o di referendum sull’euro se parlerà: «Abbiamo ancora bisogno di discuterne, e poi lo scriveremo nel programma. Dateci tempo», dice.
Poi cerca di chiarire il suo ruolo: «Io propongo un'idea di base, una visione del mondo. Il mio non è un progetto politico, non voglio sostituire una classe politica con un'altra». Infine assegna un compio ben preciso al suo movimento: «Vogliamo il 100 per cento del Parlamento, non il 20 per cento o 25 per cento o 30 per cento. Quando arriveremo al 100 per cento, quando i cittadini diventeranno lo Stato, il movimento non avrà più bisogno di esistere. L'obiettivo è quello di estinguere noi stessi».

Repubblica 8.3.13
Quella ferocia contro i media
di Michele Serra


“L’UNICO giornale del quale mi fido è la Settimana Enigmistica”. Sono parole di Beppe Grillo. Me le ricordo bene anche perché le ho scritte io.

Non so se su una vecchia Olivetti o sul mio primo computer, nella remota età di transizione dalla scrittura metalmeccanica e quella digitale. Era l’autunno del 1990, lo spettacolo si chiamava “Buone notizie”, la regia era di Giorgio Gaber.
Come è facile immaginare, quelle parole mi sono tornate in mente molte volte, mano a mano che la figura di Giuseppe Piero Grillo detto Beppe, nato a Genova nel luglio del 1948, trasmutava dal comico al rivoluzionario. Soprattutto in questi giorni, assistendo al gigantesco cortocircuito mediatico innescato dal suo movimento, quel “non mi fido” che Beppe traduceva, sul palco, nello sbeffeggiamento della presunzione e dell’invadenza mediatica, mi sembra uno dei germi più importanti della storia in atto, e più esplicativi di quanto sta accadendo.
Con uno slogan, forse con una battuta: la crisi della rappresentanza è anche una crisi della rappresentazione. Quando si dice che l’onda travolgente delle Cinque Stelle è mossa dai “non rappresentati”, non si parla solamente di politica, non solamente della crisi dei partiti. Si parla, anche, di una rivolta dei non raccontati, che per necessità o per scelta hanno deciso che “non si fidano”, e dunque devono-vogliono raccontarsi da soli, con mezzi propri, linguaggi propri. Allo stesso modo, verso la fine degli anni Sessanta, quel nuovo soggetto collettivo che erano “i giovani” decise di fabbricarsi autarchicamente giornali, linguaggi, musica, abbigliamento. Non c’era ancora il web, a sostenere le alternative possibili e a millantare quelle impossibili.
Leviamo dal campo ogni possibile equivoco sulla “libertà di stampa”. E cioè: alle frequenti sbavature paranoiche di Grillo contro i giornalisti, evitiamo di contrapporre paranoie di senso contrario. Chiunque, anche il più devoto frequentatore del blog-tempio di Grillo, se una mattina di queste in edicola davvero trovasse soltanto la Settimana Enigmistica; o vedesse azzerati i palinsesti delle reti televisive; ne dedurrebbe che è tempo di fare i bagagli o entrare in clandestinità, perché il Paese è sotto dittatura, ha perduto le sue voci e dunque la sua libertà. Era, quello di Grillo nel ’90, un paradosso satirico. Ed è, questo di oggi, un paradosso politico: si fugge di fronte alle telecamere, ci si nega ai giorna-listi, non perché si ignori il valore della libertà di parola e della libertà di informazione. Ma perché si vuole manifestare il drastico rifiuto di una serie di convenzioni linguistiche, di abitudini mediatiche, che vengono giudicate inadeguate o distorcenti. Questo è Grillo che corre sulla spiaggia inseguito da torme di onesti lavoratori dei media “costretti” a rincorrere ciò che fugge e che gli sfugge; questi sono i deputati delle Cinque Stelle che fotografano i fotografi e i giornalisti, come la scimmia beffarda e ribelle che decidesse di rilanciare le noccioline al visitatore dello zoo.
Quando il vecchio Cuccia, in questo antesignano di Grillo, si finse muto e trasparente di fronte alla troupe televisiva che lo braccava per la strada, ignorandola, nessuno gridò alla lesa libertà di informazione. Si riconobbe piuttosto il diritto di un anziano esponente del potere a non sottostare alla regola (orribile, e di lì in poi dilagante) secondo la quale qualunque telecamera e qualunque microfono, in qualunque luogo, hanno il diritto assoluto di ottenere una risposta immediata. Magari su questioni complicate, spinose, che richiederebbero tempo e freddezza per essere non dico risolte, ma anche solo accennate; e non possono essere liquidate in una battuta, o nel dileggio stupido e feroce di chi non risponde, e non per reticenza, ma per dignità. La televisione degli ultimi vent’anni è in parte fondata su quel malinteso giornalismo “d’assalto”, che traduce in uno show da quattro soldi l’ansia del pubblico di sapere che cosa viene nascosto e taciuto.
Il diritto di essere informati, e di informare, è una cosa troppo seria, troppo nevralgica per assecondare l’urto polemico di Grillo, e rispondergli sullo stesso piano che – in questo momento – è quello della pura propaganda. A ciascuno il suo: così come “ai politici”, anche “ai giornalisti” viene richiesta una riflessione profonda, se è vero, come è vero, che ci siamo ritrovati più o meno tutti dentro uno scenario imprevisto, pur essendo deputati per mestiere, noi per primi, a prevederlo. Grillo, che spesso è sopraffatto dalle proprie idee, traduce questa crisi profonda della rappresentazione mediatica nella questione, piuttosto meschina, del “chi ti paga” (in questo, è l’autoparodia del ligure diffidente). Non si rende conto di essere molto riduttivo. La crisi è molto di più. È il frutto di linguaggi logori, categorie di giudizio consumate, pigrizie professionali. Un solo esempio: da quanti anni diciamo, noi dei giornali, che le schermaglie politiche romane, le cronache del sottobosco partitico, il gergo interno dei palazzi, non rappresentano più nessuno se non gli attori di quella commediola senza pubblico? E da quanti anni, noi dei giornali (per non dire dei telegiornali) continuiamo a dare spazio a quelle parole vuote e a quelle persone in buona parte poco significanti e poco rappresentative?
Il tanto e ottimo giornalismo che Grillo, per comodità polemica, evita di nominare (quello, per esempio, che su questo giornale raccontò a fondo gli scandali di Parma aprendo la strada alla vittoria di Pizzarotti) non deve servire da alibi a chi lavora nei media, li possiede o li guida o li fabbrica. L’accaduto, anche nei suoi risvolti sgradevoli, costringe a capire che una fetta importante di Italia e di italiani ha messo in moto una sorta di autarchia rappresentativa che può anche sfociare in autismo, e alimentare pulsioni settarie, impoverire la scena. Inseguirli su una spiaggia, o incatenarli a un bavero di microfoni che pare un plotone di esecuzione, non serve che a indurire il loro rifiuto. Parleranno, prima o poi parleranno, e forse parleranno addirittura con noi. Ma non in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio che rendono incongrui e ridicoli alla stessa maniera inseguiti e inseguitori. La libertà di stampa non è in pericolo (lo è stata molto di più sotto Berlusconi). Sono in pericolo l’autorevolezza, l’udibilità, la nitidezza delle parole e delle immagini che hanno rappresentato per anni un Paese, e rischiano di non riuscire più a farlo.

Repubblica 8.3.13
Beppe, permette una domanda?
di Curzio Maltese


A BERLUSCONI abbiamo fatto per anni tante domande, senza successo. A Grillo oggi se ne può rivolgere una sola. Questa: ma perché non consulta la sua base sull’eventuale alleanza col centrosinistra?

Beppe Grillo ha detto alla stampa tedesca che vuole far decidere la permanenza o l’uscita dall’euro dell’Italia attraverso un referendum on-line. Sarebbe una scelta storica, con conseguenze colossali e forse catastrofiche per la vita del Paese e l’economia europea, mondiale. Ma, spiega Grillo, queste sono le regole della nuova democrazia nell’era di Internet, dove non ci sono leader, uno vale uno e su tutte le decisioni, anche le più gravi, bisogna consultare direttamente la base attraverso il voto on-line. Benissimo. E allora perché non chiedere alla base degli elettori M5S, con un referendum, se vogliono o non vogliono allearsi per pochi mesi con il Pd allo scopo di approvare in Parlamento qualche urgente riforma, peraltro contenuta nei loro programmi?
Grillo, Casaleggio e tutti i cantori della democrazia on-line ammetteranno che si tratta di una scelta molto meno importante rispetto all’abbandono della moneta europea. Si tratta semplicemente di votare un accordo a termine, con pochi punti programmatici, dal quale si può recedere in qualsiasi momento, facendo mancare la maggioranza col voto di sfiducia, nel caso in cui gli impegni non vengano rispettati. Poca cosa davvero, al confronto di una drammatica uscita dall’euro, una strada dalla quale l’Italia non potrebbe mai più tornare indietro. E dunque, che cosa aspettano?
In questi giorni non si parla d’altro che di questo, fra italiani. Quelli che hanno votato Grillo e quelli che hanno votato centrosinistra o centrodestra. La domanda è una sola: che faranno adesso Grillo e Casaleggio? Ma perché Grillo? Perché Casaleggio? Non sono i leader, contano come qualsiasi altro, non si sono neppure fatti eleggere.
Il movimento 5 Stelle è nato per tornare a far contare i semplici cittadini, per restituire loro il potere decisionale usurpato dall’orrida partitocrazia. Quindi, di fronte alla prima importante scelta del movimento, dovrebbe essere naturale ricorrere alla consultazione on-line della base. Così come si è fatto per le parlamentarie. Se si è deciso in questo modo chi doveva andare in Parlamento, non si capisce perché non si debba sottoporre ai cittadini le prime scelte degli eletti. Grillo stesso se l’è appena presa con l’articolo 67 della Costituzione, sul libero mandato, sostenendo con qualche approssimazione democratica, che in questo modo i deputati e i senatori sono liberi di tradire il mandato degli elettori. Ha parlato di «circonvenzione di elettori». Ma qual è il mandato? Chi lo stabilisce, Grillo o gli elettori stessi? Come fa Grillo a sapere, senza consultare nessuno, che gli elettori non vogliono l’alleanza col centrosinistra?
Chi scrive ha naturalmente una risposta prevenuta su tutto questo. Grillo e Casaleggio non lanciano la proposta di consultare la base del movimento sull’alleanza col centrosinistra perché, semplicemente, perderebbero. Due elettori del M5S su tre, forse di più, sono favorevoli a un accordo a termine per portare a casa qualche risultato immediato. Ripeto: Grillo e Casaleggio perderebbero. Quindi la consultazione non si fa, non se ne parla nemmeno. La democrazia della rete, la regola uno vale uno, la volontà dei cittadini sono tutte balle, nuova retorica, in realtà vecchissima, per sdoganare un altro partito padronale all’italiana, dove conta quello che decidono Grillo e Casaleggio, nelle belle ville un po’ troppo vicine alle spiagge per degli ecologisti convinti, emettendo di tanto in tanto il comunicato numero 56 o 57 ai fedeli. Come la pensano davvero i fedeli, e magari anche gli eletti, non conta un accidente.
Ma questa è la versione prevenuta di un giornalista mascalzone, servo dei partiti che stranamente ha passato la vita a criticare. Quindi non vale. Sarebbe più interessante conoscere a questo punto la verità, dai soli detentori di verità autorizzati, i leader, pardon: i portavoce del Movimento. Qualcuno vuole rispondere a questa banale domanda: perché non vogliono fare un referendum on-line sulla proposta di governo del Pd? La domanda è rivolta a Grillo e Casaleggio, in primis. Che non risponderanno, perché sono troppo furbi per farlo, come lo era Berlusconi. Ma il grande Dario Fo, padre culturale del movimento, magari potrebbe farlo. O Stefano Benni o uno dei tanti stimabili simpatizzanti del movimento. O la stessa base, gli elettori del Movimento 5 Stelle, che Grillo non consulta, ma dei quali a noi di Repubblica interesserebbe moltissimo conoscere l’opinione su questo tema. Qualcuno insomma in grado di chiarirci questo paradosso. Sì al referendum sull’euro, no al referendum sull’alleanza col centrosinistra. Qual è il problema? Le masse sono mature per scegliere se uscire dall’Europa, ma non abbastanza da decidere se accettare gli otto punti del Pd? In fiduciosa attesa, grazie.

l’Unità 8.3.13
Il fuorionda di Casaleggio: «Attenti a quel che dite»
Resoconto interno sulla prima riunione romana dei neoeletti Cinquestelle all’hotel Universo (prima della diretta on line)
di Rachele Gonnelli


Il cielo a cinque stelle dovrebbe essere terso, la trasparenza nella politica è infatti uno dei cardini della filosofia grillina, per battere corruzione e poteri opachi. Una parte della prima riunione degli eletti del Movimento, la prima parte, non è però stata ripresa in diretta sul web. Le telecamere sono state accese solo a un certo punto, con la cerimonia dell’autopresentazione dei 163 parlamentari. Origliare una porta chiusa è cosa brutta, condannabile. Ma c’è chi da dentro, ottemperando al primo comandamento della trasparenza, ha resocontato nel dettaglio tutto ciò che hanno detto Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio ai parlamentari. Ci ha pensato Samuele Segoni, geologo precario all’università di Firenze, blogger nel tempo libero e ora deputato di Figline Valdarno, 35 anni, un figlio piccolo, una coda di capelli lunghi neri, occhiali e una passione ecologica per la bicicletta. Il suo è un documento accurato, da citizen reporter, postato tramite iPad in tempo reale la stessa sera di lunedì, con la riunione nell’hotel Universo ancora in corso, ad amici del Cinque Stelle in Toscana e poi ripostato da questi in una stretta cerchia.
Gli appunti telematici partono con la pattuglia dei neoeletti che riconoscono il luogo dell’incontro dal muro di giornalisti e telecamere, entrano, si siedono ed entra Beppe Grillo come a uno spettacolo, salutato con un caloroso applauso. «Siamo tanti abbiamo creato un mostro. Applauso a voi, non a me», esordisce. Poi inizia con i consigli, il primo è non concedere interviste come fa lui «e mi trovo benissimo» se non ai giornalisti stranieri «perché sono corretti». E comunque registare tutto. «Vi metto in guardia aggiunge la prima star Come succede già a me, vi violeranno la privacy alla ricerca dello scoop o addirittura inventandoselo. Io non riesco neanche a scaccolarmi in pace a casa mia, mi devo nascondere». Quindi l’invito a rimanere uniti «fiducia non fiducia, Bersani non Bersani, se siete tutti d'accordo, rimaniamo compatti. I partiti annaspano, È un nostro momento di forza. Staniamoli: devono fare alla luce del Sole quello che hanno fatto nell' ombra fino ad oggi». Il blogger del Valdarno spiega con una chiosa che si riferisce agli inciuci e agli accordi. Quanto alla fiducia precisa che è un no scontato, niente alleanze, niente fiducia, «si vede proposta x proposta, scenario per scenario». Queste sono le regole base, «ce le siamo date molto tempo fa e le abbiamo condivise», ribadisce il leader trovando «un consenso generale», scrive il blogger, forse scontato.
Qualcuno ha dubbi? si chiede. C’è chi alza la mano ma il dibattito appena iniziato viene interrotto da una tirata d’orecchi di Casaleggio che lamenta interventi «in politichese» sul tema delle alleanze e delle strategie politiche. Taglia corto: «Basta parlare di alleanze e basta parlare degli altri. Noi abbiamo la nostra strada ed il nostro metodo». Chiuso. Si passa alla scelta dei capigruppo con il metodo dell’alternanza ogni tre mesi. Ma si capisce che deve essere rimasto qualche malumore nell’aria verso lo stop di Casaleggio. Infatti Grillo riprende la parola per dargli una scherzosa stoccata che riporta al riso e attenua il malcontento.
Lo prende in giro chiamandolo «Guru» e chiedendogli se è proprio lui o se è Crozza che sta facendo l'imitazione. Casaleggio resta «serissimo». Di lì in poi sarà lui a condurre il gioco rispondendo alle domande e dando la linea. La prima “dritta” riguarda la privacy, cioè il contrario della trasparenza, per certi versi.
«Occhio ai social media, non avrete più privacy, quello che scrivete ve lo ritrovate nei giornali. Lo so, è molto limitante, ma dovete stare molto attenti, cercano notizie oppure se le inventano direttamente». E lì piazza la citazione da Al Pacino di Ogni maledetta domenica che poi sarà ripreso da senatori e deputati diventando un refrain: o vinciamo come gruppo o veniamo eliminati come singoli. Non c’è una specifica sull’uso del termine «eliminati», non si sa se è un rischio di farsi solo male come nel film o se la paranoia è più grave. Per il resto Casaleggio riesuma il centralismo democratico: portiamo avanti le istanze del gruppo e non del singolo (anche se il singolo in quanto testa pensante può non essere d'accordo su tutto, dovrà adeguarsi perché è solo un portavoce di tutti i cittadini). Rivisita così l’articolo 67 della Costituzione.
E se i gruppi parlamentari devono avere delle regole, è lo stesso Guru con Grillo ad aver «buttato giù qualcosa aiutati da degli studi di avvocati. Ve lo invieremo presto, è una bozza d'indirizzo», modificabile «in piena libertà». Anche il nome su cui convergere per il nuovo presidente della Repubblica «lo sceglieremo tutti insieme sul portale e voi avrete il dovere di portare avanti la candidatura più votata». L’ultima frase è ancora sulla fiducia: «Siamo prosaici: noi non andremo al governo, ci andranno loro, si voteranno la fiducia, noi abbiamo il compito di far passare più leggi possibile per il bene del Paese». Poi entra la telecamera.

La Stampa 8.3.13
“Parlano solo i portavoce” Il diktat ai neo-eletti dopo le ultime gaffe in tv
I parlamentari disorientati: siamo marionette o esseri pensanti?
di Andrea Malaguti


Attenti ai lupi. Nel giorno dei silenzi ufficiali e dei sospetti, delle minacce e delle allusioni maligne, degli insulti e dei distinguo, in questo giovedì freddo come un’alba di penitenza, insomma, in cui l’inferocito papa ligure Giuseppe Piero Grillo decide di spiegare ai suoi chi ha diritto di parola e chi no con un vago atteggiamento da Marchese sordiano (Io sono io, con tutto quel che segue), il dibattito tra i 163 neoeletti del MoVimento Cinque Stelle, piattaforma virtuale fattasi carne con lo scopo di illuminare gli anfratti della vita pubblica, diventa sotterraneamente compulsivo. Mail, sms, dialoghi Skype, incontri su Facebook. Un flusso ininterrotto di pensieri intranet. Il mondo esterno non deve sapere, ma il disorientamento dei cittadini-parlamentari è evidente. «Siamo marionette o esseri pensanti? ». «Ci stanno manipolando o questa contrapposizione con chi fa informazione tradizionale è diventata surreale? ». Una sorta di autocoscienza collettiva che dura ore senza trovare risposte. La nevrosi resta.
A scatenare l’ultimo sgradevole faccia a faccia tra Grillo e i media è la puntata di «Otto e mezzo» di mercoledì sera. Ospite di Lilli Gruber il cittadinoparlamentare Alfonso Bonafede. Un faccia a faccia che il papa ligure non gradisce. Sulla tv credeva di essere stato tassativo. Non basta la notte a fargli passare la rabbia. Al mattino alza il telefono e chiama Bonafede. Lo rassicura. Gli dice: «Tu hai sostenuto quello che dovevi sostenere». Non è lui il problema. Il problema è chi fa informazione. Così si scatena in un post in cui cita Jack London e i lupi che attirano i cani lontani dal focolare per sbranarli. Dunque lui è il grande Jack sulla slitta e i suoi sono meravigliosi e fragili husky? Megafono o capomuta?
Non gli sfugge che diventa difficile attaccare le sette sorelle tv o i tre quotidiani più diffusi quando qualcuno dei suoi parla di chip sottopelle per controllare la popolazione. Meglio alzare il tono della polemica e cancellare le tracce delle fesserie sparse. Decide che d’ora in avanti solo i due capogruppo potranno interpretare pubblicamente la linea del MoVimento. Gli altri - anche i saggi - parleranno a titolo personale. I parlamentari più vicini a lui fanno sapere in camera caritatis che è stato il confronto in rete a produrre la rigorosa sintesi del papa ligure. È Grillo che si è adeguato al suo popolo. Non il contrario. «Stiamo subendo un assedio forte. Anche se non riteniamo che qualcuno lo stia pilotando. È la curiosità. E Crozza ha fatto ridere anche noi», fa sapere l’ala mediatrice. Nessun complotto. Anche se è proprio uno dei due portavoce, Roberta Lombardi, scottata dal blog sul fascismo, a tenere alta la tensione. «È partito l’assalto mediatico, prima avevano solo Grillo e Casaleggio da distruggere, ora hanno me e Vito Crimi. Venghino signori, venghino». Il capogruppo al Senato, Crimi, è quasi irraggiungibile. Il suo cellulare non smette mai di suonare. Viene invaso anche dai cinguettii su twitter. «La tv non è stata bonificata e rimane il terreno degli agguati». Il dibattito si sposta sul blog di Grillo. Decine di commenti contrastanti. «Ormai sembrano tutti (pd-l e giornalai) come quei mosconi che si ostinano a sbattere contro i vetri... Resteranno ancora un po’ lì per terra con qualche ultimo sussulto di ZZZ... poi basterà ramazzarli fuori»: scrive Bruno c.. «Diffamazione un c...!!! certi elementi, somelié (scritto così), ballerini, e ballabiotti (?) a Roma ce li abbiamo messi noi!! TURN OVER A VELOCITA’ LUCE!!!!!!!!!!!!!! », replica ina-ghigliot (a cui manca comunque una t nel cognome fittizio perché riesca il calambour). Caos che si somma al caos, mentre Casaleggio verga un comunicato in cui sostiene che «ci saranno da prendere molte decisioni. Non cercate noi dello staff. Dovete lavorare in autonomia. Casomai ascoltate i cittadini». Favoloso. Una cortina fumogena accecante. Chi è che manipola chi?

Repubblica 8.3.13
Il Cittadino Bonafede
di Natalia Aspesi


Il Cittadino Bonafede, avvocato, senatore M5S, con irrefrenabile eloquio ha travolto a “Otto e mezzo” Lilly Gruber che, pur con la sua elegante sapienza, non è riuscita a stanarlo dall’ovvio. Non sono stati carismatici neppure il Cittadino vegano, la Cittadina infermiera, i Cittadini capogruppo, né quelli in maglietta, visti a Repubblica TV, nemici dichiarati dei deprecati Onorevoli dei Partiti (parolaccia sporchissima). Si capisce adesso perché il leader del movimento proibisce ai suoi ragazzi di farsi avvicinare dalla casta patibolare dei giornalisti pagati non tanto per sputtanare il movimento quanto per fare i giornalisti. Si sa che durante la Rivoluzione Francese il termine
Citoyenfu
usato per instaurare un’eguaglianza senza gerarchie di nascita ma, purtroppo, neanche di merito, come del resto accadde con la Rivoluzione Culturale di Mao. Anche questa Rivoluzione non tiene conto del merito, del resto già fuori moda, ma neppure dell’eguaglianza, essendo esclusi milioni di cittadini non irretiti dalla rete.

Corriere 8.3.13
Aids e chip sottopelle, i dogmi (complottisti) a 5 Stelle
Sul sito del Movimento spopolano i cospirazionismi
La fede in una Rete salvifica
di Pierluigi Battista


Adesso sono tutti impressionati dall'onorevole («cittadino») Paolo Bernini, neodeputato del Movimento 5 Stelle che ha sconvolto tutti quando ha rivelato di credere che «in America hanno già cominciato a mettere i microchip all'interno delle persone, è un controllo su tutta la popolazione». Ma mica è il solo e nemmeno il più estremista.
Un altro che esibisce con orgoglio la sua identità «vegana», e che dunque considera i vegetariani dei tiepidi troppo blandi nella lotta contro il nemico, illustra i dettagli di un Grande Complotto Carnivoro.
E nel blog, in quella grande democrazia della Rete che macina e amplifica il messaggio sacro del grillismo-casaleggismo, si è aperto il grande dibattito su chi avrebbe interesse (la Cia, il Mossad, i residui del Kgb, il club Bilderberg, la grande finanza internazionale, le oligarchie bancarie, i poteri forti e fortissimi?) a immettere nell'atmosfera nocive sostanze chimiche rilasciate dagli aerei per avvelenare il mondo. Non è un'esagerazione. C'è un sito «anti-bufala», dal nome «Perle complottiste», che registra con meticolosa precisione ogni refolo di febbre cospirazionista che spira nel grande chiacchiericcio di Internet e che ha individuato nel mondo virtuale degli adepti di Grillo, dei seguaci di Casaleggio, dei discepoli del cinquestellismo, un concentrato di complottismo sfrenato ad altissima intensità emotiva. Nel mondo dei grillini il complotto non è un'ipotesi, è un dogma. E il primo complottista è lui, il Grande Capo che la dissidente cacciata con ignominia perché aveva osato comparire in televisione senza permesso ha paragonato al leader di Scientology. Se si scruta nel passato, non decenni fa, ma solo pochi anni fa, si scopre che per Grillo anche il Premio Nobel a Rita Levi Montalcini è stato il frutto di una macchinazione di una casa farmaceutica, anche l'Aids è un'invenzione legata a «certi interessi», anche il cancro, messo nelle mani dell'establishment oncologico di grandi luminari come Veronesi che Grillo ribattezzò «Cancronesi», è un veicolo di menzogne elaborate nelle segrete stanze. A Grillology, nulla è come appare. Tutto ha qualcosa «dietro», si nasconde nell'ombra, si rinchiude nelle tenebre prima che la potenza salvifica dei nuovi partigiani della Rete non illumini le magagne, non renda tutto trasparente e puro. Il complottismo così potente nei codici culturali del grillismo si sposa perfettamente a una visione mistico-futuribile della storia, quella che ispira a Casaleggio un impegnativo paragone tra Grillo e San Francesco e fa assomigliare i comizi in piazza a delle messe in cui la parola del Profeta risuona isolata, con le folle che applaudono veneranti e nessuno che possa interrompere l'interminabile monologo.
Che poi il complottismo è una creatura multiforme in cui tutto si intreccia, tutto rimbalza, tutto è immerso nei vapori di un cospirazionismo mistico che abolisce ogni principio di realtà. Per cui si ha il neosenatore («cittadino») Pepe del M5S (quello che ha detto, con il turpiloquio che fa molto anti-sistema, che si va nelle istituzioni per «fare il c.. a tutti») che elogia lo scomparso compagno Chávez. Lo stesso compagno Chávez che una volta disse: «C'è un film sugli americani che sbarcano sulla Luna», aderendo a uno dei ritornelli preferiti, insieme a quello che nega i due aerei che sbriciolarono le due Torri l'11 settembre, dei complottisti di tutto il mondo: lo sbarco sulla Luna non c'è mai stato, è stata tutta una messinscena degli imperialisti americani dentro un segretissimo set cinematografico. Lo stesso compagno Chávez la cui morte viene considerata essa stessa un complotto da Ahmadinejad, a sua volta uno dei principali divulgatori delle nefandezze del grande complotto «ebraico-sionista» ai danni del mondo. Tutto si tiene ed è un tassello di una filosofia cospirazionista onnicomprensiva che non ammette deroghe e indulgenze. Uno dei teorici più ascoltati del movimento grillino, Serge Latouche, paladino della «decrescita felice» che impazza sul web frequentato dai discepoli del Movimento 5 Stelle, ha esposto il principio dell'«obsolescenza pianificata», l'occulta e diabolica strategia delle industrie diretta a creare oggetti deteriorabili al fine di indurre all'acquisto di nuove merci, via via sempre più effimere. Il virus complottista entra nel programma, impone scelte politiche. C'è sempre l'idea che una Spectre di malvagi, i «privatizzatori» dell'acqua, i paladini degli inceneritori, gli artefici dell'Alta velocità che violenta la placida tranquillità delle verdi vallate, cospiri a far del male al mondo e ai suoi ignari cittadini. Per ora si limitano a sparare microchip sotto la pelle degli americani, ma non si sa mai. E del resto nel blog grillino c'è chi non esclude che un'invasione degli alieni sia già avvenuta senza che il mondo se ne accorgesse. Armati di tutto punto, a cominciare da manciate di microchip.

il Fatto 8.3.13
E spunta l’investimento nel paradiso fiscale
L’Espresso: in Costa Rica 13 società riconducibili all’autista e alla cognata del leader del M5S
Di Walter Vezzoli, Grillo dice: «Sta con me mi protegge fa la logistica e ha tutto sotto controllo»
di Fra. Gri.


A che cosa servono ben 13 società aperte in Costa Rica, un paradiso fiscale, da Walter Vezzoli, l’autista di Beppe Grillo? Se lo domanda, senza potersi dare ancora risposte, il nuovo numero dell’Espresso, che ha scoperto gli investimenti e le operazioni immobiliari di Vezzoli oltre oceano.
Spicca il progetto di resort di lusso, Ecofeudo, 30 ettari sulla baia incontaminata di Papagayo. Secondo l’Espresso, oltre l’angelo custode di Grillo (che in piazza San Giovanni lo presentò così dal palco: «Sta con me, fa la logistica, mi protegge, ha tutto sotto controllo») nell’organigramma della società immobiliare compare anche «Nadereh Tadjik, ovvero la cognata di Grillo, la sorella di sua moglie Parvin, di origini iraniane». Da notare che tra le 13 società ce n’è una che si chiama “Armonia Parvin sa”. Quattro di queste società risultano immatricolate con la formula della «sociedad anonima». Impossibile conoscere l’identità degli azionisti dei finanziatori.
A compulsare Internet, si scopre che Ecofeudo è un’iniziativa che ha tutto per piacere a un grillino ricco: la baia è un piccolo paradiso naturale; le ville saranno costruite secondo i dettami della bioarchitettura; ci sarà massima attenzione al risparmio d’acqua, alle energie alternative, al recupero dei rifiuti, alla bioclimatica e alle tecnologie telematiche. L’agricoltura sarà rigidamente biologica e così l’allevamento.
Ma il villaggio proposto da Walter Vezzoli vuole essere molto di più di un ecoresort. Aspira a diventare un’utopia realizzata. Sul versante tecnologico si spinge a promettere batterie a idrogeno, collegate agli impianti eolico e fotovoltaico, che dovrebbero garantire l’alimentazione di macchine a idrogeno (peccato però che per il momento la tecnologia sia limitata a prototipi o applicazioni militari). Sarà bandita la moneta: per gli scambi si userà il «feudo».
Non sarà però un’utopia a buon mercato. Anzi. E magari qualcuno dei possibili ricchi acquirenti potrebbe anche spaventarsi all’idea dell’isolamento in un Paese povero quale il Costa Rica. Ogni villa sarà quindi dotata di un rifugio antiatomico. L’intero villaggio sarà costruito oltre la quota di 155 metri sul livello del mare per stare sicuri di fronte allo scioglimento dei ghiacciai. E comunque sarà «circoscritto da mura in pietra e equipaggiato con un sofisticato sistema d’allarme a raggi infrarossi». In ultima istanza, «la sicurezza è tutelata anche dalla perfetta armonia di convivenza con il “pueblo” locale».
E qui si viene al cuore del progetto: chi dovrebbe zappare gli orti, allevare gli animali, coltivare gli appezzamenti, curare le ville? «Non può esserci crescita scrive Walter Vezzoli - se non attraverso l’integrazione con il pueblo originario». Promettono 30 case in regalo, strade, scuola, centro medico, corsi di ecosostenibilità. «Ogni casa sarà dotata di un computer e connessione gratuita. Il pueblo avrà acqua e energia gratuita per tutta la vita. L’acqua è vita e deve essere un bene primario gratuito! ».

Repubblica 8.3.13
Le 13 società in paradisi fiscali della cognata e del factotum di Beppe
L’Espresso rivela: le aziende sono tutte in Costa Rica
di Wanda Valli


ROMA — Sono 13, sono società off shore con sede in Costa Rica, in pratica una holding per compiere investimenti, operazioni immobiliari, costruzioni, compreso il progetto per un resort di lusso. Il tutto in un Paese inserito nella “black list”, la lista nera, dei paradisi fiscali. Tra gli ammini-stratori, c’è uno stretto collaboratore di Beppe Grillo e sua cognata, la sorella della moglie. Lo rivela “l’Espresso” nel numero in edicola oggi. Al centro di questo “movimento”, secondo l’inchiesta e i suoi documenti, c’è Walter Vezzoli, 43 anni, da almeno dieci autista e factotum di Beppe Grillo, uno che lo segue come un’ombra, di cui il leader di M5S si fida totalmente. Lo ha detto a Rimini, in una tappa elettorale del suo tsunami tour, quando lo ha presentato così: «Ecco vedete qui c’è Walter che viene da Costa Rica», lo ha ripetuto nella chiusura di campagna elettorale a Roma, in piazza San Giovanni: «Walter sta con me, guida, fa logistica, mi protegge, ha tutto sotto controllo. È un ragazzo formidabile». Walter Vezzoli é anche qualcosa di più e di diverso dal fidato factotum di Grillo, almeno in Costa Rica. Perché, secondo i documenti, pubblici e ufficiali, che l’Espresso ha esaminato, Walter Vezzoli è l’amministratore di queste 13 società quasi tutte con sede a Santa Cruz, la provincia più turistica del Costa Rica. Accanto a Vezzoli, in molte occasioni, appare il nome di Nadereh Tadijk, cognata del leader di M5S, mentre una società la “Armonia Parvin sa” ha lo stesso nome della moglie di Grillo. Quattro società risultano immatricolate con la formula “sociedad anonima”, formula che consente di mantenere l’anonimato sugli azionisti. Come a dire che non si può sapere chi ha fornito i finanziamenti. E’ sicuro e documentato, invece, che tra gli amministratori, compare più volte, il nome di Nadereh Tadijk, con incarichi diversi, a seconda delle società: a volte risulta presidente, altre tesoriere. E nella “Armonia Parvin” accanto a Nadereh e a Vezzoli, spunta un altro amministratore. E’ un italiano, si chiama Enrico Cungi, toscano, 60 anni. Coinvolto nel 1996 in un’inchiesta per narcotraffico, è stato arrestato, prosciolto, e ha scelto di vivere in Costa Rica. Le società hanno tutte capitali minimi: una media di 10.000 dollari ciascuna, quindi resta da capire bene, al di là dei “cattivi pensieri” a che cosa serva questa holding. E’ certo che una delle 13 società rette dal binomio Vezzoli-Tadijk ha un progetto ben chiaro che vorrebbe realizzare: si chiama “Ecofeudo”, è un resort extra lusso, dovrebbe essere costruito sulle colline intorno alla baia di Papayago. All’insegna di un lusso ecologico e new age perfetto per chi, come Gianroberto Casaleggio, nel 2008 immaginava l’eventuale post guerra atomica (data di inizio il 2020, durata 20 anni) con la salvezza affidata a rifugi antiatomici, filtri per proteggersi da contaminazioni chimiche, biologiche e batteriologiche. Per ora si sa che il resort vuole offrire ville fino a 750 metri quadri su un’area di 5000 metri. Così segnala il sito “ecofeudo.com”, e l’idea è firmata da Walter Vezzoli e dalla Penny production, sigla che riporta a un altro esponente storico di M5S, Simone Pennino, che in Costa Rica è segretario della “Ecofeudo”. Intanto Walter Vezzoli, sul suo profilo Facebook respinge alle brusche inchiesta e insinuazioni. Scrive: «Siete marci, giornalisti marci, lavori socialmente utili per tutta questa gentaglia ». Conclusione: «Fottetevi tutti e sciacquatevi la bocca prima di parlare». Gli sono arrivati 295 “mi piace”, oltre ai messaggi di solidarietà. Ma c’è chi, la neo senatrice M5S Alessandra Bencini, dichiara a Radio 2: «Se fosse vero Grillo ha fatto male a fondare il Movimento 5 Stelle, noi siamo contro i paradisi fiscali, per cui si dà la zappa sui piedi». Se fosse vero, insistono, Grillo dovrebbe lasciare il M5S? La senatrice: «Lasciare non lo lascia perché è suo e comunque non è candidato ». E non lascia nemmeno lei, perché vuole portare avanti, tra le altre a anche «l’istanza sulla fiscalità ». Italiana, naturalmente.

La Stampa 8.3.13
L’economista Jean-Claude Casanova
“Ma i grillini sono anti tutto. Temo il contagio”
di Alberto Mattioli


Il liberale francese Economista, cofondatore di «Commentaire», bibbia del pensiero liberale francese, presidente della Fondazione nazionale di Scienze politiche
«Un parallelo fra i Grünen e i grillini? Interessantissimo. Però i Verdi tedeschi li conosciamo bene, il

Movimento Cinque Stelle italiano è un enorme punto interrogativo». Parola di Jean-Claude Casanova, economista, cofondatore con Raymond Aron della rivista «Commentaire», bibbia del pensiero liberale francese, e presidente della Fondazione nazionale di Scienze politiche.
Proviamoci, professore.
«I Verdi appartengono appieno alla storia politica tedesca. Intanto perché c’è in Germania una lunga tradizione di movimenti ambientalisti, e poi perché le loro radici sono nella sinistra post sessantottina. I grillini sono molto più difficili da definire. Direi che sono gli eredi delle pulsioni antiparlamentari del Novecento italiano e della delusione per il fallito rinnovamento della politica dopo la fine della lunga egemonia democristiana. Però non si era mai visto un movimento così “anti”, di rifiuto completo: antimercato, antiEuropa, antiStato, in ultima analisi antipolitico».
Anche i Grünen erano contro tutto e contro tutti. Poi diventarono ministri e a votarono l’intervento Nato in Kosovo...
«Nulla impedisce che con i grillini succeda lo stesso. Non bisogna sottovalutare la potenza corruttrice della democrazia parlamentare. Per carità, non parlo di corruzione come reato. Parlo del fatto che, se si entra in Parlamento, allora si accetta di fare politica. E fare politica significa trattare. Nel caso dei grillini, però, c’è una difficoltà in più».
Quale?
«I Verdi tedeschi, per quanto anarchici, erano un movimento strutturato. C’era una classe dirigente, uscita dai partiti di estrema sinistra degli anni Settanta, e una base, che pescava in un vasto movimento associativo, in un militantismo diffuso. Nel caso del M5S mi sembra che tutto questo manchi. C’è solo un leader carismatico. Questa è la sua forza ma anche la sua debolezza. Non so quanto Grillo potrà controllare i suoi parlamentari».
Altre differenze?
«Sarebbe interessante fare uno studio sociologico sui grillini. Mi sembra siano l’espressione di nuove classi sociali, semintellettuali, professionalmente instabili, attente all’ecologia e alla rete. Penso per esempio agli “intermittants” dello spettacolo francesi. Nei cortei contro il sistema ci sono loro, non certo gli operai».
I Grünen furono un esempio, o forse un contagio, per tutta l’Europa. Crede che con i grillini possa succedere lo stesso?
«Lo temo. Perché finora l’opposizione all’Europa era affidata a movimenti molto connotati ideologicamente, o all’estrema sinistra o all’estrema destra. Il successo di Grillo, che non saprei dire se sia di destra o di sinistra, rinforzerà la grande voga euroscettica. Sta nascendo un’immensa coalizione di diversi che ingloba l’estrema destra inglese, l’ultragauche e il Fronte nazionale in Francia, e domani chissà chi altrove».

il Fatto 8.3.13
Visti da destra Pietrangelo Buttafuoco
“Ma quale fascista, Grillo è un attore di successo”
di Malcom Pagani


Confusi dal frinire del Grillo, errando nella steppa dell’interpretazione, secondo Pietrangelo Buttafuoco si finisce sempre dalle parti del russo Ivan Pavlov e del suo celebre riflesso. “Se l’atavica aspirazione cechoviana ‘A Mosca, a Mosca! ’ è per i dirigenti Pd meno di una nostalgia repressa nel-l’abiura, la lettura del presente somiglia a un tormento. Demonizzano Grillo senza capirlo. Lui utilizza un canone teatrale, un lampo petroliniano: ‘Bene, bravo, grazie’. Poi si volta e si compiace: ‘Guarda ‘sti fessi come mi vengono dietro’. Il pifferaio magico non attira la plebaglia e gli stolti sono solòni, burocrati, venerandi somari, opinionisti dei giornaloni, ‘addottorati”.
È inutile?
Nel più arcaico ethos siciliano si recita: “È lo stesso morto che ti insegna come piangere”. È la realtà che ti piega alle sue necessità, non il contrario. Questo bel catafalco, la novità emersa dalle urne, ci stimolerà a inseguire una soluzione, una trovata, un’idea. Siamo in piena effervescenza anarcoide. Non c’è il Papa né governo. È vacante anche il Quirinale. Non è ghiotta la possibilità di essere contemporanei a questo caos? Siamo sufficientemente stronzi o cinici per resistere. Educati al più crudo realismo, godiamo della messa in scena. Che si sia a 500 anni dal Prìncipe di Machiavelli non è un caso.
Chi è davvero Grillo?
Un attore. Non un comico né un guitto. Viene da una scuola antica. Lima, non improvvisa, ha un copione studiato. A differenza di Benigni, integrato nel sistema, Grillo è un vero censurato (e senza editto), ma non ha mai piagnucolato da martire. È meglio di Benigni e pure di Umberto Eco che dopo non aver capito il santo protettore di Fazio, Mike Bongiorno, si è nuovamente smarrito.
Quindi?
Mentre altri si dirigevano a Gargonza, Grillo costruiva i suoi opliti a teatro. Geniale raccolta del consenso. E il risultato strania. Pensi al ’94. Su Roma calarono truppe con kit di plastica, inno di Forza Italia, lubrica atmosfera gonfia di cravatte grosse e tacchi a spillo. Ora invece jeans e computer sguainati come armi. Un’ondata di nerd. Un inedito. Vedere i grillini ardere nei buoni propositi fa venire immediatamente voglia di leggere De Maistre.
E il riflesso pavloviano?
Nel maldestro tentativo di cooptarlo prima gli dicono fascista, poi lo elevano a costola della sinistra, infine lo ricriminalizzano arando il blog in cerca di un dittongo a cui impiccarlo. Non dimentichi che Grillo è sposato con un’iraniana. Assecondando un sillogismo ignorante, è un terrorista. Quanto avrebbero pagato una sua foto a Teheran in occasione dei funerali del suocero? Come se la sarebbero giocata?
Grillo, l’amico di Ahmadinejad.
La demonizzazione non riesce perché Grillo ha i numeri e non è residuale. Alla supplenza del povero Bersani, provvede il sistema dell’informazione. La messa cantata dei grandi giornali.
Anche il Foglio è ostile.
Ferrara ammira l’attore, ma lì politicamente prevale la Repubblica di Platone. Poi Grillo non scatena l’odio che accendeva Berlusconi. Silvio è un analogico uomo del ‘900. Destra, sinistra, comunismo, anticomunismo. Grillo è avanti. È digitale.
E anche fascista?
Ancora Pavlov. Ho parlato con il magnifico Tom Staiti di Cuddia. È perseguitato da giornalisti democratici alla ricerca dell’archeologia missina di Grillo. Tom dice a tutti loro: “Battisti è dei nostri, Caputo anche, Romano Mussolini va da sé, Grillo mai visto. Se qualcuno lo sostiene è un mitomane”. In Italia l’antifascismo coincide con il conformismo, per dirla con Berselli, trionfa l’indignazione delle professoresse democratiche.
E i giudizi sul ventennio della neocapogruppo del M5s Lombardi? Gramellini ne ha auspicato le dimissioni.
Che il raffinato Gramellini sia caduto nella trappola mi ha stupito. Lisciare il pelo alle professoresse democratiche è sconveniente. Ne indossano solo di ecologico. Ecompatibile. Inadatto a Crepax come a Pratt. Lombardi ha fatto né più e né meno il discorso di un’antifascista onesta.
D’Alema dice che Grillo è un vecchio.
‘Ste cose non ce le devono raccontare. Il più giovane degli scrittori italiani è Arbasino, nato nel ’30.
Il domani, Buttafuoco?
Archiviato il melodramma, siamo alla commedia dell’arte. Non basta più il sacro testo di Bobbio, “Teoria generale della politica”. Urgono i volumi del D’Amico. È la storia del teatro a decifrare Grillo. Vedi mai che in un niente questo realizza la libera città di Fiume? Ce ne andremo tutti, irresponsabilmente, in trasvolata sui cieli di Roma, a gettar pitàli pieni di pupù su Montecitorio e fasci di rose sul Vaticano come Guido Keller. Come D’Annunzio.

il Fatto 8.3.13
Sapone, sesso e diagnosi: idee da Beppe


L’acqua come detersivo, il futuro di YouPorn, le diagnosi fai da te. Prima da comico, oggi da aspirante rivoluzionario, Beppe Grillo ha raccontato in spettacoli e post la sua idea del nuovo mondo. Dentro c’è un po’ di tutto: dai prodotti che potrebbero cambiarci la vita alle tecnologie che, addirittura, ci aiuterebbero a salvarla. Piccolo manuale della vita quotidiana a cinque stelle.
Tecniche da massaia
Sostiene Parvin Tadjik, seconda moglie, che Beppe non sia esattamente un casalingo provetto. Diceva nel 2009, intervistata da Carla Signoris: “Beppe è entrato in cucina... nascondete i detersivi! Perché lui ha la pretesa che si possa pulire tutta la casa con un detersivo solo: l’acqua”. Quanto alla spesa, racconta ancora la moglie, è da lì che ha cominciato con i tagli. “La vera politica si fa al supermercato”, è il suo motto: “In casa siamo in otto o dieci, di media. Ho provato a chiedergli di comprare il pane: è tornato a casa con due panini”.
Palla in lavatrice
Sempre in tema di faccende domestiche, Grillo ha a lungo elogiato le mirabolanti prodezze della Biowashball, una pallina di plastica al cui interno ci sono alcuni pezzi di ceramica: inserita in lavatrice, sostengono i produttori, dovrebbe garantire un bucato perfetto praticamente senza usare detersivo. “Io l'ho provata – scriveva Grillo sul blog nel 2008 – La mia famiglia usa Biowashball da due mesi e anche le famiglie di alcuni miei amici. Per noi funziona”. Alcuni test del giornale dei consumatori Il Salvagente hanno dimostrato che la Biowashball lava come l’acqua, niente di speciale: “Perché – scrivevano – spendere 35 euro in più? ”
Fuori dal cancello
A parlare è ancora Parvin Tadjik: “Da solo con i bimbi non esce quasi mai, anche perché io non mi fido molto, ho paura che li perda: perché lui si mette a chiacchierare, lo fermano, praticamente dopo un attimo forma un comizio e il bambino intanto va da un'altra parte”. Ancora dovevano arrivare i tempi in cui, di casa, usciva mascherato in tuta da sci.
Medico addio
È l’imperativo categorico di ogni medico: quando si sta male, mai guardare su Internet. Per Grillo invece funziona esattamente al contrario. Spiega nel dialogo a tre con Fo e Casaleggio – Il Grillo canta sempre al tramonto – che il futuro è il fai da te: “Se ti fa male il gomito o hai male a una gamba, la prima cosa che fai è andare su internet e verificare da cosa dipende il problema. In pratica fai l’autodiagnosi. Poi sulla rete scopri che altri hanno lo stesso sintomo ed entri in un forum specializzato cui partecipano esperti e malati, e riesci ad avere in poco tempo un quadro di quello che hai e delle possibili soluzioni”.
YouPorn vi salverà
Sfruttamento, prostituzione, tratta delle schiave. Tutto sparito. Con un clic. Sostiene Grillo che il futuro è You-Porn. “Se prima andavi per le strade, ti mettevi d’accordo con una prostituta e la portavi in albergo, adesso ti colleghi al sito YouPorn, vai a vederti un filmetto porno che ti piace, due donne insieme, in tre, con un cavallo, quello che vuoi. Dopo che hai visto questo filmato gratis, sul monitor appare automaticamente il genere di donna che hai visto. Lei è in casa sua che ti guarda con una webcam e tu guardi lei. Se vuoi parlarle clicchi, fai conoscenza e ti metti d’accordo per una prestazione. In questo modo il rapporto è diretto, non c’è più il magnaccia, lo sfruttatore”.
Scosse prevedibili
Ricorda il giornalista Federico Mello nel suo Il lato oscuro delle stelle l’intervista fatta dal blog di Grillo a Giampaolo Giuliani, il ricercatore che nel 2009 disse di aver previsto il sisma abruzzese. “Così lo presentava in un video del maggio 2012: 'Giampaolo Giuliani è in grado di anticipare di 6-24 ore il manifestarsi di un terremoto'”. Che non sia così semplice, lo abbiamo verificato. Ma il blog canta. “Quando comincia a parlare di quello, scappiamo – racconta ancora la moglie – È una parola che mi terrorizza: molte volte mi insegue per casa gridandomi ‘bloooog bloooog blooog’. Forse vorrebbe che anche io fossi una sua adepta”.
(pa.za.)

Sette del Corsera 8.3.13
Il meraviglioso mondo Di Beppe e Marta
Pensare che si esca dalla crisi dando mille euro a tutti e lavorando 30 ore alla settimana è consolatorio, ma falso
di Aldo Cazzullo

qui

il Fatto 8.3.13
Pd e M5S, per capirsi ci vorrebbe l’esperanto
di Andrea Scanzi


Dobbiamo recuperare lo scollamento tra politica e paese”. Così parlò Alessandra Moretti, professione “giovane apparente”.
La direzione Pd è stata trasmessa in streaming, per mostrarsi gggiovani, ma le parole erano ancora quelle da “grigi compagni del Pci” (cantava Gaber). Burocratese, lessico bolso, carisma ipotetico. La zuppa del Bersani. Un nulla pensoso, saturo di quasi-sapienza e pseudo-autocritica. Gli happening della “sinistra” italiana, ancor più dopo una sconfitta (cioè sempre), hanno il gusto agrodolce dell’autoanalisi. Dell’autoflagellazione. Ha riverberato il cliché anche Zoro, nella prima puntata di Gazebo: si piange, ci si interroga, ma alla fine ci si autoassolve. Il sottotesto è sempre: “Sì, abbiamo non-vinto, ma solo perché il popolo non ha capito”. Interventi a grappolo e la sensazione eterna che il politburo continui a vivere su Marte. “Conosciamo bene il paese”, ripeteva la Finocchiaro (forse, ma quel paese non è l’Italia). I migliori? Emiliano, Civati. Figure di nicchia, diverse e dunque eretiche. Se la comunicazione è un’autostrada, il Pd la affronta guidando con pigra baldanza una Duna smarmittata (color cacchina).
SPINGE IL PEDALE, accelerando per restare fermo. In Rete rimbalza ancora lo spot elettorale (sic) in cui una ventina di martiri, a metà tra la danza maori e un waka waka per artritici, scandisce il mantra: “Lo smacchiamo, lo smacchiamo! ”. La grinta è quella dei panda che dormono, la sfiga che ha portato paragonabile a un esercito di Cassandra effe-rate. A fine filmato parte We Will Rock You (poveri Queen). Poi, in chiusura, le parole guerreggianti di Bersani dal pulpito. La trovata – by Youdem e Chiara Geloni, che stanno al Pd come Lippi all’Inter – non era piaciuta a Nanni Moretti, che aveva comunque presenziato alla “festa” finale. Dove? In un teatro. La piazza era roba da populisti: il centrosinistra – invece – si riuniva a teatro, ostaggio di una comunicazione autoreferenziale che ne conclama il distacco (“scollamento”, direbbe la Moretti) con la realtà. Anche due giorni fa il linguaggio era polveroso, stantio. Un grammofono rigato nell’era dell’iPod: un calesse mentre gli altri sognano astronavi. Enrico Letta elettrizzava la folla col brio di un fermo immagine di Kiarostami. Bersani – lo smacchiatore ipotetico – agonizzava tra “Sentiero stretto”, “diradare la nebbia”, e “sparare a palle incatenate” (“palle incatenate” non si sentiva dai tempi della conferenza di Yalta). Fino alla catarsi finale in latino: “De hoc satis” (“di questo basta”).
L’anzitempo antico Orfini arringava i fedelissimi (se stesso) con voce sottratta a Sabina Guzzanti mentre imita D’Alema. Quel D’Alema che, con supponente dovizia, spiegava la crisi della sinistra (cioè si raccontava). Per poi citare Gramsci, che è un po’ come se la Binetti citasse Moana: “La paura dei compromessi è una manifestazione di subalternità culturale” (e il desiderio di un altro inciucio è una manifestazione di perversioni estreme). Ancora la Moretti, qualche sera fa a Porta a Porta, ripeteva: “Mi sento molto vicina ai giovani del Movimento 5 Stelle”. Forse lei sì, ma loro mica tanto. La frattura tra pidini e grillini è netta. Il Pd è apparato, il M5S istinto. La distinzione non è qualitativa, ma oggettiva. Il M5S è un alieno anche nel linguaggio. Una supernova a tre facce. Grillo parla alla pancia e al cuore, un colpo a Gargamella e uno ai sogni, qua e là inciampando in immagini prebelliche (“I capogruppi sono titolati a parlare”: roba che neanche Breznev).
POI CI SONO i grillini che imperversano in Rete, incazzosi e troppo spesso sprovvisti di (auto) ironia. E infine gli eletti, deputati e senatori, consiglieri e assessori. Non somigliano né a Grillo-Casaleggio, né alla frangia verbalmente estremista: teneri e candidi, passionali e ingenui (pure troppo: a Otto e Mezzo, il neodeputato Bonafede è parso assai vago).
Più chierichetti che pasdaran. È la normalità al potere, il cittadino über alles, il parla come mangi (e a volte mangiano vegano). “Mi chiamo Pino, faccio il sommelier e vorrei occuparmi di Agricoltura”. Una semplificazione forse caricaturale (infatti li hanno massacra-ti, da Crozza a Twitter), che però sottolinea una cesura netta anche nella comunicazione. Il centrosinistra è un Commodore 64 che nessuno vuol potenziare, il M5S un iPad evoluto che non tutti sanno usare (il fascismo buono, i microchip: ma de che?). Mondi, facce e lingue diverse. Niente alleanze. Niente fiducia. E nemmeno un esperanto all'orizzonte.

Corriere 8.3.13
Il voto di quell'Italia insoddisfatta che da quarant'anni cerca di cambiare
di Ernesto Galli della Loggia


Nell'interpretazione che viene data del massiccio consenso elettorale ottenuto dal Movimento 5 Stelle si nota spesso un fraintendimento: cioè l'assunto che votare per M5S abbia significato aderire al programma del movimento stesso o, ancora di più, confidare nelle capacità di leadership politica di Beppe Grillo. Sicché ci si chiede scandalizzati come sia stata possibile questa apertura di credito da parte di tanti pur dotati di qualche giudizio.
Non sapendo darsi una risposta, allora, secondo un antico costume nazionale, si avanza immediatamente il sospetto di opportunismo, trasformismo, «voltagabbanismo», e quant'altro.
A mio giudizio chi vede le cose a questo modo si condanna a capire poco o nulla della storia recente e meno recente d'Italia. A non capire un dato di fondo: che c'è una generazione d'Italiani, c'è una parte del Paese, la quale già a partire dalla fine degli anni Settanta si accorse di quattro fatti che solo ora, dopo decenni, stanno entrando nella consapevolezza di tutti. Questi: a) che il sistema di governo sancito dalla seconda parte della Costituzione, nonché la legge elettorale proporzionale, erano ormai del tutto inadeguati ai bisogni del Paese; b) che esisteva un fenomeno come la partitocrazia, responsabile non solo di aver distorto profondamente il funzionamento del sistema suddetto ma anche di un malcostume e di un malgoverno sempre più vasti e opprimenti, c) che la Democrazia cristiana stava esaurendo la sua originaria spinta propulsiva e la sua funzione di salvaguardia democratica; d) che la presenza egemone a sinistra del Partito comunista equivaleva alla perenne subalternità della sinistra italiana, e cioè che con il Pci questa sinistra non avrebbe mai vinto un'elezione, non sarebbe mai andata al governo. Quella parte del Paese, insomma, vedeva con molto anticipo che un'intera fase storica — la fase del dopoguerra — andava ormai terminando, pur potendo continuare a contare sull'immane forza di una vischiosa continuità. E che dunque era necessario imboccare strade nuove.
Da allora — dapprima esigua, poi negli anni sempre più numerosa — quell'Italia del cambiamento è alla disperata ricerca del modo in cui riuscire finalmente a mutare lo stato delle cose: di uno strumento, di un'idea, di un varco. Ed è così che da allora quella parte del Paese, e con lei una fascia generazionale d'Italiani, di volta in volta ha guardato con simpatia al Partito radicale, ha sperato in Craxi, si è schierata con le iniziative referendarie di Mario Segni, ha cercato di capire le ragioni della Lega, ha puntato inizialmente su Berlusconi. Così come adesso fa un'apertura di credito a Grillo. Ma vogliamo dirlo? Non identificandosi mai, realmente, con le scelte di volta in volta compiute. Vedendone benissimo limiti e contraddizioni, ma sperando sempre, se si vuole illudendosi di servirsene strumentalmente: come una sorta di grimaldello.
Ingenuità? Certo, ingenuità. È facile dirlo (dirlo ieri e dirlo oggi), ma l'alternativa quale era? Una sola, evidentemente: stare dall'altra parte. Dalla parte, cioè, che fino ad oggi ha resistito o si è opposta ogni volta al cambiamento, o vi si è adattata solo perché non poteva altrimenti; di chi ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per decidere di non dirsi più comunista; dalla parte che ha preferito vedere la Dc disintegrarsi piuttosto che fare qualcosa prima; che fino a ieri giurava sull'intangibilità della Costituzione; dalla parte di chi a suo tempo (per quanto tempo!) giudicava una bestemmia qualunquistica parlare di partitocrazia; di chi per decenni non ha mai fatto nulla di concreto, mai nulla, per arginare corruzione e sperperi di misura inaudita. Ma che naturalmente — proprio come sta facendo anche oggi — ogni volta non mancava di arricciare il naso atteggiandosi a custode del bon ton politico, esibiva la propria educata compostezza di Padre Fondatore di fronte alla sgarbata impertinenza dei nuovi venuti, impartiva a destra e a manca lezioni di coerenza. L'Italia del cambiamento, così, si è dovuta (e si deve) sentire dare dell'opportunista e del voltagabbana da chi in quarant'anni è passato tranquillamente dal Pci di Togliatti e Longo al Pd di Bersani ma è convinto che però lui no, per carità, lui non ha mai cambiato idea! Solo gli altri fanno queste cosacce.
Un'Italia del cambiamento, irrequieta, sempre divisa, destinata regolarmente a vedere le sue speranze deluse per mille motivi, tra cui non da ultimo l'inadeguatezza dei partiti e degli uomini cui è stata fin qui costretta ad affidarsi. E molto probabilmente sarà così anche stavolta, con gli sprovvedutissimi parlamentari del M5S e con il loro capo. «Ma non era ogni volta prevedibile?» — mi sembra già di sentire chiedere dall'immancabile censore. Sì, forse sì: era prevedibile (e anche previsto, aggiungo). Ma almeno un dubbio, una sia pur tenue possibilità ogni volta c'era. Mentre dall'altra parte che cosa c'era ancora alla vigilia delle ultime elezioni? Il tetragono immobilismo di chi in dodici mesi non aveva trovato il modo di cancellare una legge elettorale nefanda o di avviare la minima riforma istituzionale, l'insensibilità di chi in un anno intero non aveva mosso un dito per tagliare davvero costi e privilegi della politica, neppure per abolire una manciata di province. E come sola alternativa accreditata la presunzione che per governare bastino i conti in ordine.
Prigioniera di un lungo passato, tramutatosi in un eterno e soffocante presente, l'Italia del rinnovamento ha preferito chiudere gli occhi. E fare un salto nel buio.

Repubblica 8.3.13
Ma l’Italia non fa eccezione
di Marc Lazar


Le elezioni del 24-25 febbraio sono state commentate in Italia soprattutto in funzione di criteri nazionali. Si è sottolineato, cercando di spiegarlo, il formidabile successo di Beppe Grillo, la vittoria strappata dal centro-sinistra, la rimonta di Silvio Berlusconi, il flop di Mario Monti. E si continua a disquisire sulla situazione inestricabile in cui il Paese si è venuto a trovare, con grave rischio di ingovernabilità. Se però questo voto interessa tutta l’Europa, non è solo per il profumo esotico che emana dai «due comici», secondo una formula in uso che ha suscitato molte polemiche; ma anche perché quanto avviene in Italia si riscontra, sotto forme diverse, in quasi tutti i Paesi europei. Di fatto, le elezioni nel Bel Paese sono state inficiate da tre crisi strettamente interconnesse: una crisi sociale, una crisi politica e una crisi europea. E la combinazione di questi tre ingredienti esplosivi non è certo una particolarità italiana.
Nell’Eurozona, fatta eccezione per la Germania, l’Austria e la Finlandia, le politiche di austerità e di rigore stanno provocando effetti recessivi più o meno accentuati. Ne consegue, oltre all’aumento della disoccupazione (che supera l’11%) e della povertà, l’aggravamento delle disuguaglianze sociali, territoriali e generazionali, nonché di genere e tra nativi e immigrati. In queste condizioni, è difficile spiegare agli europei che in prospettiva il risanamento dei conti pubblici dovrebbe favorire il ritorno alla crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. La loro esasperazione cresce e si manifesta, oltre che nelle urne, anche sulle piazze, come è avvenuto in Portogallo. Ormai il dibattito non coinvolge più soltanto gli economisti, divisi tra difensori del rigore e adepti del rilancio, ma sta diventando apertamente politico. È ancora politicamente possibile sostenere l’imperativo di ridurre i debiti e i deficit pubblici senza rischiare di far esplodere tutto?
Su questo terreno si innesta un profondo malessere politico, più fortemente sentito in Italia, ma che non risparmia gli altri Paesi. Dovunque si evidenzia la sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei partiti, la disaffezione per la politica, il rifiuto, se non addirittura l’odio nei confronti dei suoi leader, ma anche di tutte le élite, economiche, finanziarie, mediatiche e culturali. Tutto ciò ha investito in pieno i principali partiti, di destra o centro-destra, di sinistra o centro-sinistra, che si sono alternati al potere, ben sapendo che i governi uscenti sono quasi sistematicamente penalizzati. Tanto più che le formazioni populiste protestatarie sono in piena espansione. Indubbiamente questi schieramenti presentano grosse differenze da un Paese all’altro (il Movimento Cinque Stelle non è il Fronte Nazionale di Marine Le Pen), ma hanno anche molte caratteristiche in comune: come quella di stigmatizzare le élite, criticandone le pratiche e i costumi, di esaltare il senso comune popolare, di propugnare soluzioni semplici per le questioni più complesse, di mescolare i temi più eterogenei, di rimettere in discussione l’Europa; e inoltre il ruolo centrale dei leader, la rivendicazione di una prassi di democrazia diretta ecc. L’avanzata di questi movimenti colpisce tutto il sistema dei partiti tradizionali. I quali cercano o di coinvolgerli in alleanze per meglio soffocarli, o di radicalizzarsi facendo propri alcuni dei loro argomenti. Come David Cameron, che sotto la pressione dell’Ukip (Partito dell’indipendenza del Regno Unito) ha proposto un referendum sull’Europa. C’è anche chi cerca di contenere la loro avanzata mediante cordoni sanitari, e finisce così per collaborare con i propri rivali di sempre, rischiando di prestare ancor più il fianco alle denunce di collusione dei populisti.
Infine, quest’Europa che rappresentava un’opportunità sta diventando ovunque un problema: perché è associata al rigore e all’austerità, perché nonostante alcuni innegabili sforzi appare poco democratica, perché non fornisce ancora un progetto mobilitante, nel momento in cui i cittadini dell’Unione percepiscono, più o meno nettamente, che oramai lo stato-nazione non è più un contesto adeguato, e sono quindi alla ricerca di nuovi quadri di riferimento. Ma c’è di peggio. L’Europa è sempre più divisa tra i Paesi che seguono il modello tedesco, eretto ad esempio e motivo di speranza, e quelli — soprattutto al Sud — che lo vedono come un vero e proprio incubo, alimentando oltre tutto sentimenti antitedeschi. L’idea europea sta arretrando, anche se agli occhi della maggioranza dei suoi abitanti l’Europa rimane un orizzonte di aspettative irrinunciabili. Ma per quanto tempo?
L’Italia non è dunque un’anomalia, ma una realtà rivelatrice del dramma dell’Europa e dei dilemmi degli europei. È il caso di disperarsi, richiamando sempre più i paralleli con gli anni 1930, quando la crisi economica fece vacillare tante democrazie europee? Sappiamo bene che un paragone non autorizza una conclusione. Dal 1945 in poi, la ragione democratica ha sempre avuto la meglio sulle passioni antidemocratiche. Ma è ormai sempre più urgente prendere sul serio il segnale d’allarme che viene dall’Italia, grande Paese dell’Eurozona, forte potenza economica, pilastro della costruzione europea. Aprendo un dibattito sulle politiche economiche e sociali a livello europeo per tornare alla crescita. Rinnovando profondamente le prassi democratiche in ciascuno dei Paesi membri. Rilanciando la costruzione europea, e dotandola dei mezzi per essere una vera potenza pubblica — cosa che i dirigenti dei vari Paesi membri rifiutano. Non agire in questo senso vuol dire rischiare di essere travolti dallo tsunami scatenato da Beppe Grillo, che in questi giorni scuote la Penisola, ma presto si estenderà a tutto il continente europeo.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 8.3.13
Porto d’armi e pistola, a Perugia un massacro annunciato
Nonostante due Tso Andrea Zampi ha avuto il certificato per l’arma
I dipendenti con il lutto
di Salvatore Maria Righi


La cronaca della morte annunciata di Margherita Peccati e Daniela Crispolti è cominciata circa sei mesi fa, quando il loro killer, Andrea Zampi, aveva riottenuto la abilitazione per il tiro sportivo che gli era stata tolta anni fa, quando i suoi disturbi psichici lo spinsero a sottoporsi a cure presso le strutture di igiene mentale di Perugia e poi da specialisti in Toscana. Zampi, l’omicida suicida che il giorno dopo la strage viene dipinto a tinte abbastanza problematiche da vicini e conoscenti, è stato anche sottoposto a due Tso nel corso della sua malattia. Nonostante questo, presentando due certificazioni mediche che attestavano la sua idoneità, il titolare di “Progetto Moda” ha riottenuto il permesso di sparare al poligono e di poter detenere una pistola (ne aveva due, prima del ritiro del permesso), anche se non avendo il porto d’armi non avrebbe potuto portarla con sé in tasca e caricata, come ha fatto l’altra mattina prima di andare al Broletto a compiere il suo folle gesto. Una delle due certificazioni è stata presentata dal suo medico di base, che lo aveva in cura da meno di un anno e che lo descrive come «una persona che non mostrava disturbi». Sarà. È questo comunque il punto chiave di una vicenda che si delinea sempre di più come il folle disegno criminale di un uomo che, come dice qualcuno in città, «ce l’aveva con tutti». Compresa, racconta qualcuno, una farmacista che Zampi avrebbe quasi aggredito per la presenza di preservativi in vendita nel suo esercizio. Mentre la questura fa accertamenti sulla sua «abilitazione al tiro sportivo», per conto del pm Casucci che ha il fascicolo del duplice omicidio-suicidio, e sul possesso dell’arma che ha sparato e ucciso, è trapelato un particolare piuttosto importante. Zampi ha acquistato la Beretta semiautomatica 9x21 appena il giorno prima del fatto, evidentemente dopo aver perfezionato e deciso di mettere in pratica il suo piano di sangue culminato con la sparatoria al quarto piano degli edifici in piazza del Bacio. Nella sua mente era tutto pronto e chiaro, e dietro agli occhiali scuri che era solito indossare senza sosta, avrà immaginato forse la scena di paura e morte che si è svolta nell’ufficio delle due donne, brutalmente ammazzate con due colpi di pistola ciascuna.
La Regione Umbria, col lutto al braccio per la perdita delle due impiegate, fa intanto sapere che «l’associazione “Progetto Moda” non risulta né titolare né gestore di alcun progetto formativo finanziato con risorse pubbliche di competenza regionale». Zampi, in realtà, non ha mai preso un soldo dall’ente perché il finanziamento di 54mila euro chiesto e ottenuto nel 2009, su però congelato da una brutta storia che riguarda la sua impresa, con segnalazioni alla Guardia di Finanza da parte di frequentatrici dei corsi per presunte truffe. L’accreditamento di “Progetto Moda” fu cancellato, per poi essere concesso di nuovo nel 2011, ma senza mai accedere a crediti o prestiti. «L’associazione Progetto Moda precisa la Regione già accreditata fino al 2009, è incorsa, in quel periodo, nella sospensione temporanea di tale accreditamento, a seguito di accertamenti svolti in seguito a segnalazioni di presunte irregolarità pervenute da parte di soggetti frequentanti corsi di formazione tenuti dalla stessa»

il Fatto 8.3.13
Gulag e Shoah, il gioco della memoria
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, trovo una pagina intera del Corriere della Sera (4 marzo) con questo titolo: “La prima giornata dei Giusti che ricorda tutti i genocidi”. Ma allora ce l’hanno fatta coloro che volevano ricordare i gulag di Stalin insieme ai campi di Hitler in modo che dalla tragica scena scomparissero del tutto i fascisti italiani?
Ginevra

DIREI DI SÌ, direi che ce l'hanno fatta, con una mossa accorta e la collaborazione di molta gente perbene. Spiego meglio per i lettori. Gabriele Nissim, uno scrittore degno di nota perché autore de “L'uomo che fermò Hitler” (storia vera di un gerarca fascista bulgaro che ha impedito le leggi razziali nel suo paese), ha lanciato l'idea di una “giornata internazionale dei Giusti”. Proposito nobile che copre un equivoco. La pagina del Corriere della Sera di cui parla la lettrice induce infatti a pensare che la nuova data del 7 marzo sia una ripetizione, con altra data (e benedizione del Parlamento europeo) del “Giorno della Memoria”. Propone la figura del “Giusto universale”, che è quello che aiuta e salva in qualunque circostanza ed epoca storica. Qui, certo per gli italiani, si costruisce l'equivoco. Se il gulag sovietico di cui è tragico autore il comunismo, è uguale ai pattugliamenti e rastrellamenti e arresti e consegna ai tedeschi e campo di Fossoli e Risiera di San Saba e Fosse Ardeatine e cacciata di docenti e studenti ebrei dalle scuole del Regno italiano e sequestro dei beni e alacre lavoro (anche a pagamento, 5.000 lire per ogni ebreo consegnato) di tanti italiani fascisti per impedire ai concittadini ebrei italiani di mettersi in salvo, per occupargli le cattedre e le abitazioni, sequestrargli beni e consegnare ai treni della deportazione anche i neonati e i morenti legati alle sedie (si veda “16 ottobre 1943” di Giacomo De Benedetti, Sellerio), che è uno spaventoso delitto italiano, allora per forza si sposta il senso della celebrazione. Infatti, i comunisti sono ancora in mezzo a noi, come ci racconta Berlusconi a ogni comizio, e Bersani viene ancora descritto come diretto erede dei gulag, mentre CasaPound è stata appena accolta e festeggiata nelle ultime elezioni e dagli eletti più nuovi. E poi perché tanto impegno per far dimenticare che da un gulag ti salvavi con servile obbedienza (si veda il bel libro di Carrere sul vero-finto dissidente Limonov, Adelphi) mentre l'essere ebreo era di per sé una condanna perenne persino per gli ebrei fascisti (vedi il bel libro di Elkann “Piazza Carignano”, Bompiani). Il Giusto universale esiste. Ma non esistono le vittime universali. Sono le vittime di qualcuno e di qualcosa che non possono essere fatti uguali. A volte la motivazione del delitto è immensa: tutto un popolo deve scomparire per sempre. Si è appena scoperto che l'universo concentrazionario nazista, alimentato da tutto il fascismo europeo – primo fra tutti il fascismo italiano – ha coinvolto oltre 20 milioni di esseri umani, in grandissima parte ebrei La memoria richiede di sapere tutto. Gli ebrei italiani sono stati preda del fatuo e criminale regime fascista, qui in Italia, non del destino. E le leggi razziali sono state votate all'unanimità a Montecitorio, non a Mosca. E chi le ha volute e firmate, da queste parti, viene descritto come uno che “ha fatto molte cose buone”. E si dice di lui che “aveva un alto senso dello Stato”. Attenzione all'inganno.

Corriere 8.3.13
Il cinese Yan rompe l'omertà: sfruttato dai miei connazionali
«Un euro all'ora dalle 7 di mattina all'una di notte»
di Marco Gasperetti


PRATO — Una parola, due, la bocca che trema, la gola secca per la tensione. Minuti di pausa e sudore. Poi Yan il clandestino ha iniziato a parlare. Si è alzato dalla sedia e in cinese al traduttore ha raccontato quei giorni terribili di sfruttamento nella fabbrica fantasma gestita da un gruppo di connazionali: diciotto ore al giorno di lavoro in nero, dal lunedì alla domenica, dalle 7 del mattino sino all'una di notte, per circa un euro all'ora. E poi sei ore di sonno in luridi giacigli, sempre nel laboratorio prigione.
Si è pure infortunato, Yan, quando sfinito, è caduto sui macchinari del laboratorio alla periferia di Prato rimanendo gravemente ustionato. I suoi compagni, di notte, l'hanno lasciato davanti al pronto soccorso e i medici l'hanno salvato per miracolo. Ed è stata la sua salvezza perché quella terribile avventura gli ha dato la forza, per la prima volta nella storia della tormentata immigrazione della città toscana, di presentarsi all'Ufficio immigrazione del Comune di Prato e nonostante fosse un «lavoratore invisibile» denunciare lo sfruttamento e rompere quel muro di omertà che da anni rende impenetrabile la Chinatown di Prato, oltre 30 mila cinesi, e un nero che difficilmente si riesce a quantificare. Lo hanno isolato, scomunicato, minacciato. Ma Yan si è fidato di un italiano, Giorgio Silli, l'assessore all'Integrazione, non si è fermato e adesso è in salvo. Grazie al lavoro dei servizi sociali del Comune, della questura e della procura di Prato, vive in un'altra città. È stato inserito in un programma «anti-tratta» che cerca di combattere la schiavitù del lavoro nero e ha vinto la sua battaglia. Ha un lavoro e come prevede la legge ha ottenuto un regolare permesso di soggiorno.
I suoi aguzzini, tutti connazionali, sono già stati individuati e la procura di Prato ha aperto un'inchiesta per sfruttamento dei lavoratori clandestini, ma anche per lesioni e riduzione in stato di schiavitù.
«Ho visto tanti operai che lavoravano nelle mie stesse condizioni», ha raccontato l'uomo agli investigatori che adesso cercano di individuare quegli sfruttati. «Anche loro hanno da raccontarci anni di soprusi — dicono in questura a Prato — e la sensazione è che adesso qualcosa si sia infranto in quel muro invalicabile di silenzio».
Yan è arrivato grazie a un'organizzazione clandestina gestita dalla mafia. «Mi avevano detto che se avessi avuto forza, coraggio e fossi stato ubbidiente — ha raccontato — avrei potuto cambiare la mia vita e quella dei miei familiari». Invece sono arrivate le catene, le minacce e la paura d'essere entrato in un labirinto senza uscita. «Non sapevo neppure una parola in italiano, non conoscevo nessuno, come potevo denunciare e a chi?», ha più volte ripetuto.
Potrebbe essere l'inizio di una nuova storia per Prato? Yan è stato molto coraggioso. «Quando ha raccontato la verità non sapeva neppure che per lui era pronto un permesso di soggiorno come previsto dalla legge — spiega l'assessore Giorgio Silli — ed è stato il primo in assoluto a verbalizzare dettagliatamente e senza reticenze, la situazione di sfruttamento. E per questo è stato scomunicato dalla sua gente, ma per fortuna si è fidato di me».
Chi abbia dato la forza a quell'uomo con bruciature sul corpo di secondo e terzo grado, resta ancora un mistero. Chi lo sta seguendo dice che da quelle ferite, per le quali ha dovuto affrontare tre interventi chirurgici, è quasi guarito. Resta il solco profondo nell'anima per una schiavitù terribile. Ma Yan adesso si sente forte e coraggioso. E ha iniziato a parlare anche un po' in italiano.

Corriere 8.3.13
Cinese rompe il patto di omertà a Prato
Senza il sindacato il coraggio non basta
di Dario Di Vico


A Prato un giovane operaio cinese, che chiameremo Yan, ha denunciato i suoi datori di lavori che lo sfruttavano per 18 ore al giorno, dal lunedì alla domenica. E che dopo un incidente sul lavoro, che gli aveva procurato gravissime ustioni, lo avevano abbandonato davanti al pronto soccorso. È la prima volta che si apre una crepa nei meccanismi di controllo e asservimento di cui si giovano le ditte cinesi per operare nella piena illegalità e schiavizzare i loro stessi connazionali. Vale la pena di ricordare che alla Camera di Commercio di Prato sono iscritte circa 5 mila imprese asiatiche e in città si stima che vivano almeno 20 mila clandestini.
Finora il muro dell'omertà aveva retto e la comunità cinese pratese aveva potuto continuare nella comunicazione propagandistica secondo la quale i controlli fiscali e sanitari delle autorità italiane altro non erano che una discriminazione nei loro confronti. La verità è un'altra: il modello di business che ha permesso il successo del pronto moda cinese è imperniato sullo schiavismo e la comunità cinese non ha finora palesato nessuna intenzione di separare il grano dal loglio, gli imprenditori disposti ad accettare le regole dagli irriducibili. Questa commedia degli equivoci va avanti ormai da troppo tempo (quasi venti anni) e in questo lungo lasso di tempo ogni prova di dialogo tra italiani e cinesi ha mostrato la corda. Anche la creazione di un gruppo di sette saggi, indicati dalla comunità e dall'ambasciata cinese, per dialogare con le amministrazioni locali non ha dato i frutti sperati. Eppure poteva essere l'inizio di una collaborazione basata sul reciproco rispetto.
Il coraggio di Yan, però, apre una pagina nuova, è una voce che dobbiamo ascoltare perché non ci parla solo della protervia dei suoi aguzzini. È anche una chiamata per le nostre organizzazioni sindacali italiane, che hanno scarsissima presa sui lavoratori asiatici di Prato (i tesserati Cgil sono meno di 10), ma che finora poco hanno fatto per combattere l'incredibile asimmetria di diritti tra operai italiani e cinesi nella civilissima Toscana.

Corriere 8.3.13
La carica dei milionari al Parlamento cinese
I delegati super ricchi aumentati del 20 per cento
di Guido Santevecchi


PECHINO — «Sotto la guida del compagno segretario generale Xi Jinping, uniamoci e lavoriamo duro per finire di costruire una società moderatamente prospera e ottenere il grande ringiovanimento della nazione cinese». Pronunciato questo slogan, il primo ministro uscente Wen Jiabao si è inchinato tre volte ai 2.987 deputati del Congresso nazionale del Popolo e ha passato le consegne alla «quinta generazione» di leader della Repubblica popolare cinese, che governeranno per i prossimi dieci anni.
Xi Jinping non parlerà dalla tribuna in questa sessione dell'assemblea legislativa che ne ratificherà l'ultimo stadio dell'ascesa al vertice: la nomina a capo dello Stato. Il rituale non lo prevede. Ma il nuovo timoniere ha già fatto conoscere le sue prime disposizioni: ritorno alla frugalità, basta con la stravagante esibizione della ricchezza, crescita economica meno tumultuosa per ridurre il divario nella distribuzione del reddito «perché per moltissimi cinesi la vita è ancora troppo dura».
Così, quest'anno, i delegati del Congresso che salgono la scalinata del Grande Palazzo del Popolo sulla Tienanmen non possono più sfoggiare orologi di marca e vestiti griffati; banditi anche i lunghissimi pranzi ufficiali con aragoste, pinna di pescecane e liquore che allietavano le loro giornate pechinesi: ci si nutre in sobri buffet. Si dice che per far passare la sua campagna moralizzatrice Xi si stia appoggiando all'esercito: per questo, mentre l'obiettivo di crescita del Pil per il 2013 è stato fissato al 7,5% (il più «basso» dal 1990), il bilancio delle forze armate crescerà ancora del 10,7%.
Ma forse il segretario Xi più che da generali e colonnelli (ce ne sono 268 nell'assemblea legislativa) e dalla sterminata burocrazia del partito, deve guardarsi da una pattuglia di 90 uomini che non hanno bisogno di indossare orologi d'oro sulla Tienanmen per far sapere di contare. Questi 90 sono i deputati del popolo che figurano nella lista dei mille cinesi più ricchi. E il loro numero nel Congresso è in costante crescita: erano 75 l'anno scorso. Il più povero di questi politici del socialismo di mercato ha un patrimonio di 225 milioni di euro, la media è 846 milioni, ma ci sono molti multimiliardari: secondo l'agenzia Bloomberg, che ha elaborato i dati, sono questi capital-comunisti l'ostacolo più insidioso alle riforme del nuovo leader Xi.
A questo fronte dei ricchi la ricetta moralizzatrice non piace, l'idea di tagliare il divario dei redditi fa venire i brividi. Sommando il contenuto dei portafogli dei 90 industriali-deputati si raggiungono i 637 miliardi di yuan, pari a 80 miliardi di euro. E non cercano il profilo politico basso. Per esempio c'è tra di loro Zong Qinghou, 67 anni, presidente dell'Hangzhou Wahaha Group che produce bevande e vestiario per bambini (Wa ha ha vuol dire bambino che ride). Zong secondo Bloomberg ha un patrimonio di 13 miliardi di euro, è l'uomo più ricco della Cina. E in una bella intervista sulla scalinata del Grande Palazzo del Popolo, l'altro giorno il compagno Zong si è detto fermamente contrario all'imposizione di patrimoniali o tasse sulle case. Quanto ai piani del Politburo per ridurre il gap nei redditi, ha assicurato: «L'economia cinese continuerà a svilupparsi così rapidamente che il numero dei ricchi aumenterà». Quindi, inutile rallentare la marcia per aspettare i più deboli.
Al compagno-deputato Liu Yonghao, magnate della distribuzione di polli, anatre e volatili vari è stato chiesto se con i suoi 3 miliardi non si trovi fuori posto nel tempio del comunismo (pur se di mercato). «No, è normale che tra i delegati ci siano businessmen come me, ci siamo fatti largo con i nostri sforzi». Pony Ma, fortuna da 7 miliardi, cofondatore del social network Tencent Holdings, ha replicato così alla domanda se non trovasse troppi 90 miliardari nell'assemblea comunista. Risposta: «Al contrario, siamo solo una minoranza». Una minoranza che potrebbe rappresentare una grande muraglia.

La Stampa 8.3.13
“La grande storia della diversità umana non ha più segreti”
Oggi a Novara apre la mostra che racconta i Sapiens Cavalli Sforza: “Vi racconto le nostre origini africane”
Pensiero simbolico. I nostri progenitori di 40 mila anni fa avevano capacità cognitive uguali a quelle attuali
I reperti. Dai fossili alle pitture nelle caverne: i nostri progenitori hanno lasciato tante testimonianze preziose
di Francesco Rigatelli


La natura dell’uomo è per strada. Da due milioni di anni. «Siamo in viaggio. Da quando i primi esemplari del genere Homo si diffusero dal continente africano e colonizzarono anche l’Eurasia. Da quando, molto tempo dopo, piccoli gruppi appartenenti alla nostra specie, Homo sapiens, uscirono ancora dall’Africa e a f f r o n t a r o n o l’esplorazione di vecchi e nuovi mondi», scrive Luigi Luca Cavalli Sforza, professore emerito di Genetica a Stanford, con Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza a Padova, nell’introduzione alla mostra da loro curata «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana», che dopo Roma e Trento apre oggi al pubblico nel Complesso monumentale del Broletto di Novara.
«Adesso - si legge - quell’avventura non è ancora finita, e non esiste frammento delle terre emerse di questo Pianeta che non abbia visto il passaggio o l’insediamento di esseri umani. Da quegli sparuti pionieri si è generata una popolazione che sfiora i sette miliardi di individui». Dunque siamo una specie planetaria, diffusa ovunque, eppure con un’origine africana recente. Ma com’è avvenuta la straordinaria globalizzazione di Homo sapiens? E a spese di chi? Fino a una manciata di millenni fa sulla Terra esistevano più specie umane, ma poi siamo rimasti soli…
Per rispondere a questi interrogativi, alla base della mostra, non si può non approfittare di Cavalli Sforza, genovese classe 1922, professore a Pavia fino al 1971, poi volato a Stanford e ora tornato a Milano nel suo studio in zona Repubblica. Un’autorità sulla ricostruzione della storia dell’uomo, con la particolarità di aver sempre seguito un metodo multidisciplinare, approfondendo, nell’ottica di un’evoluzione biologica e insieme culturale, tematiche diverse: archeologia, demografia, linguistica, studio dei cognomi e della consanguineità. Le sue ricerche, anche sul campo tra i pigmei dell’Africa centrale, hanno dimostrato che le popolazioni di Sapiens attuali discendono dalla prima diaspora di due milioni di anni fa dall’Africa dell’Homo erectus. Scoperta che tra i suoi effetti ha avuto quella di far cadere qualsiasi separazione dell’umanità in razze per motivi biologici.
Professore, com’è nata l’idea di una mostra sulla storia dell’uomo?
«L’iniziativa è stata di Telmo Pievani. Come abbiamo scritto con lui, la stupefacente vicenda di un mammifero bipede diventato cosmopolita merita di essere raccontata, perché ci svela da dove veniamo, quali innovazioni ci hanno reso ciò che siamo e in che modo siamo stati capaci di produrre un ventaglio meraviglioso di diversità culturali e linguistiche. È una moltitudine di storie affascinanti che viene prima, molto prima, della Storia con la maiuscola che si studia a scuola. Eppure, sono vicende che ci riguardano e che forse ci insegnano qualcosa su come costruire un futuro ancora all’insegna dell’unità di tutti gli esseri umani e al contempo della loro diversità».
La mostra ha attratto 180 mila visitatori a Roma e 40 mila a Trento. A Novara si prefigura un successo anche perché oltre a video, mappe, riproduzioni e ricostruzioni sono esposti gli 83 reperti delinediti, tra cui un cranio di Homo neanderthalensis trovato in Pianura padana. Come spiega tanta attenzione?
«Le storie delle prime volte dell’umanità sono state per lungo tempo avvolte nell’oscurità, a causa della mancanza di evidenze scientifiche e storiche. Ora, grazie alla convergenza di dati archeologici, paleontologici e genetici possiamo finalmente ricostruire i sentieri dei primi esploratori e con essi la grande storia della diversità umana letta attraverso i geni, i popoli e le lingue».
Qual è la novità più sorprendente?
«L’evidenza dell’unicità della nostra specie sul piano di un’intelligenza resa più potente da un cervello di sviluppo eccezionale».
Nell’evoluzione siamo usciti dall’Africa più volte e prima del previsto. Come mai?
«Il motivo deve essere stato una forte crescita demografica, resa possibile dallo sviluppo dell’intelligenza dedicato alla soluzione dei problemi pratici, generati da una prole numerosa».
Sulla Terra convivevano quattro specie oltre all’Homo sapiens: perché abbiamo vinto proprio noi?
«Grazie alla capacità di risolvere problemi medici dovuti al grande sviluppo demografico causato dall’aumento della figliolanza».
Dall’Africa ai ghiacci, com’era il mondo di due milioni di anni fa e come ci siamo adattati ad esso?
«La Terra variava enormemente come clima e l’adattamento è consistito nell’allevamento di piante ed animali che abbiamo usato come nutrimento, nonché negli sviluppi medici».
Secondo lei quali altri grandi cambiamenti attendono il mondo e la nostra specie?
«Il futuro dipende molto dalla nostra capacità di usare l’intelligenza per limitare in modo razionale la crescita, per non litigare e per sviluppare un rispetto universale all’interno della nostra specie, ma anche verso tutto il resto del mondo vivente».

La Stampa 8.3.13
Le scoperte della biologia molecolare
Così ci incrociammo con i cugini neanderthaliani
di Valentina Arcovio


I Neanderthal Questa specie e quella dei Sapiens hanno lottato a lungo per il dominio dell’Europa

Per anni il suo aspetto ha ingannato molti. Di corporatura massiccia, con gli arti corti, il torace lungo, le arcate sopraccigliari fuse e sporgenti, sono ancor in tanti che, pensando all’uomo di Neanderthal, arricciano il naso. E sbagliano, come dimostrano i numerosi ritrovamenti avvenuti di recente. Infatti il nostro lontano cugino, pur di aspetto goffo, era un abile cacciatore in grado di catturare le stesse prede dei Sapiens. Non solo. Produceva oggetti di pietra, si ornava il corpo con pigmenti, controllava il fuoco, seppelliva i morti e mostrava anche una certa propensione all’arte. I neanderthaliani erano addirittura in grado di emettere suoni complessi. Non probabilmente come noi, ma comunque avevano tutte le carte in regola per sviluppare una forma anche elementare di linguaggio.
Alla luce di tutte queste informazioni, che di fatto ridanno dignità all’uomo di Neanderthal, la conoscenza della storia dei nostri lontani «cugini» continua a rimanere avvolta nel mistero. Almeno in parte. Ci sono infatti ancora due i tasselli della loro vita a cui non siamo riusciti a trovare il loro giusto posto. Il primo tocca direttamente la nostra storia evolutiva: i Neanderthal e i nostri antenati si sono mai accoppiati tra loro? Il secondo tassello da svelare è la causa che ha portato i nostri «cugini» a sparire dalla faccia della Terra.
Riguardo al primo grande mistero abbiamo già fatto un po’ di strada, anche se non siamo ancora arrivati a dare una risposta definitiva. Di certo i neanderthaliani e i sapiens hanno coabitato per un lungo periodo. «L’ Homo neanderthalensis e l’Homo sapiens – spiega Olga Rickards, antropologa molecolare dell’Università Tor Vergata di Roma hanno convissuto in Europa nel pieno dell’ultima glaciazione quaternaria, tra i 40 e i 28 mila anni fa. Per più di 10mila anni, quindi, hanno condiviso le ricchezze offerte dal nostro pianeta». L’occasione di un incrocio tra le due specie non sarebbe quindi mancata. Capire se è stata sfruttata o meno è un’altra cosa. A cercare di trovare una soluzione all’enigma è stata l’iniziativa «Neanderthal Genome Project», condotta dal biologo molecolare Svante Paabo del Plank Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia. Si è trattata di una vera e propria impresa, alla fine riuscita, per ora solo parzialmente, grazie ad avanzatissime tecniche di sequenziamento. In tutto è stato sequenziato oltre un miliardo di paia di basi e poi il genoma è stato confrontato con quello di 5 persone. «Il lavoro ha permesso di arrivare al sequenziamento del 60% del genoma neanderthaliano e di fare un confronto con il Dna moderno, rivelando che Neanderthal e Sapiens hanno in comune tra l’1 e il 4% dei geni», riferisce Rickards.
Queste nuove informazioni, più che dirimere l’annoso dibattito sull’incrocio fra le due specie ha per alcuni versi reso più spinosa la questione: questi geni in comune sono frutto di un’ibridazione, ipotesi esclusa dalle teorie precedenti, o semplicemente il residuo tramandato da uno stesso antenato. «Se da un lato il sequenziamento del genoma ha mostrato un quadro che potrebbe essere interpretato come la prova di un mescolamento fra Nenderthal e Sapiens – commenta l’antropologa molecolare - sarebbe ancora più plausibile la tesi secondo cui le due specie hanno quello stesso pezzetto di materiale genetico perché deriverebbero dall’ultimo antenato in comune, l’Homo ergaster». Anche i risultati del sequenziamento dell’intero genoma mitocondriale dell’uomo di Neanderthal, avvenuto qualche anno prima a opera degli stessi scienziati tedeschi, ha fornito maggiori prove a favore dell’ipotesi secondo cui tra Sapiens e Neanderthal non c’è stata alcuna ibridazione.
Quindi due potrebbero essere gli scenari possibili: i due homo avrebbero convissuto ma non si sarebbero mai incrociati oppure, se l’incrocio c’è stato, si tratterebbe solo di pochi casi isolati. Ancora più misteriose sarebbero le cause che avrebbero portato alla scomparsa dei Neanderthal dalla faccia della Terra. L’ipotesi secondo cui furono i Sapiens a sterminarli tutti è stata da tempo abbandonata. «Fino ad oggi niente indica la validità di questa ipotesi», precisa Rikards. Troppo astratta anche l’idea che sia stato un virus o un batterio killer ad uccidere i nostri cugini e a risparmiare i Sapiens. Quello che invece sappiamo di sicuro è che a partire da 30mila anni fa Neanderthal e Sapiens si sono ritrovati ad affrontare una nuova glaciazione. «È possibile che i Sapiens si siano adattati meglio alle nuove condizioni e che i Neanderthal, una specie allora molto poco numerosa, non ce l’abbia fatta», conclude Rickards.

La Stampa 8.3.13
«Homo sapiens»
Fino al 30 giugno: le istruzioni per l’uso


Un’esposizione internazionale con oltre 200 reperti provenienti da tutto il mondo racconta da dove veniamo e come siamo riusciti a popolare l’intero pianeta in un percorso che ci aiuta a comprendere le affinità e le diversità che uniscono i popoli del mondo.
La mostra «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana», a cura di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, apre oggi è sarà visibile fino al 30 giugno al Complesso Monumentale del Broletto di Novara. Promossa da Comune di Novara, Provincia di Novara e Regione Piemonte e prodotta da Codice-Idee per la cultura, 24 Ore Cultura Gruppo  24 Ore e Fondazione Teatro Coccia, è visitabile il lunedì dalle 14 alle 19 e dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19. Il catalogo è edito da Codice.
Dopo le tappe di Roma e di Trento, «Homo Sapiens» è arrivato a Novara in un allestimento rinnovato e collocato in un’area recentemente restaurata nell’ambito delle iniziative per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Tutte le informazioni sul sito www.homosapiens.net .

Corriere 8.3.13
Una mostra a Ferrara
Antonioni Il tesoro svelato
Il suo sguardo (non solo da cineasta) sulla vita
Tra foto e lettere anche la racchetta da tennis
di Andrea Rinaldi


Una carrellata tra le brume ferraresi, che si innalza poi su deserti e plana dolcemente sul bianco e nero e sulla scoperta del colore, indugiando sui ricordi di casa, sui dipinti e sulla candida bellezza di Monica Vitti e Lucia Bosè. È questo «Lo sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti» da domenica nelle stanze di Palazzo dei Diamanti a Ferrara per celebrare la poetica del regista premio Oscar, scomparso 6 anni fa nello stesso giorno di Ingmar Bergman.
Una mostra (a giugno sarà a Bruxelles) che annovera solo una minima parte dei 47mila pezzi custoditi nell'archivio Antonioni del comune emiliano e che sottolinea la sua eccezionalità già dall'inaugurazione di domani pomeriggio: accanto alla stessa Lucia Bosè ci saranno infattiil direttore del Festival di Cannes, Thierry Frémaux, il direttore generale della Cinémathèque française di Parigi, Serge Toubiana e Frédéric Bonnaud, a capo della rivista di culto «Les Inrockuptibles».
«Antonioni è stato un grande anticipatore della modernità, si pensi a Piero, il trader de "L'Eclisse" — spiega il curatore Dominique Païni, già al lavoro su esposizioni di Hitchcock e Jean Cocteau al Centre Pompidou — il cineasta vede il mondo come un enigma e, a differenza degli altri registi italiani del Novecento, non offre soluzioni». «Lo sguardo di Michelangelo» è stato organizzato dalla Fondazione Ferrara Arte e le Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Cineteca di Bologna. A Palazzo dei Diamanti l'arte del maestro riecheggia in un susseguirsi di contrasti, che si avvicendano lungo 9 sezioni: Nebbie, Deserti, Realtà, Scomparse, I colori del mondo e dei sentimenti, Simulazioni, Le montagne incantate, Altrove, Identificazione di un maestro. La prima opposizione è quella tra la Ferrara delle origini e la Ferrara del poi, finita in molti lungometraggi di Antonioni. Qui tra le tante opere si trova la sua racchetta Maxima Aurea e i risultati del punteggio di singolare maschile in cui vinse su Giorgio Bassani, accanto a cartoline, un bozzetto a matita di Greta Garbo e una parete decorata con le foto degli attori che il maestro amava raccogliere.
Dalle nebbie della bassa e dal Po, la mostra passa alla luce abbacinante del deserto di «Zabriskie point». Il finale esplosivo della pellicola, proiettato alle pareti, rimanda al «Watery paths» di Pollock, mentre i corpi nudi degli hippie nella Valle della morte si rispecchiano in «Tutti morti» di Mario Schifano. L'orizzonte arido e montuoso di molti suoi film si incarna nelle stampe «Le montagne incantate», realizzate da Antonioni proprio con la tecnica del blow-up e le foto di scena di Bruce Davidson ci consegnano ancora una volta l'incantesimo di quel set.
«Il nostro lavoro sugli archivi degli autori che hanno fatto dell'Emilia-Romagna una regione davvero "cinematografica", assieme a quello che Ferrara fa appunto su Michelangelo Antonioni, che Rimini fa su Federico Fellini, o che Reggio Emilia fa su Cesare Zavattini, ci fa sognare che un giorno tutto questo sapere possa essere riunito e a disposizione degli studiosi e dei cinefili di tutto il mondo», è l'augurio di Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. Spuntano le lettere di scuse di Alain Delon, di Sciascia, Flaiano, telegrammi di Scorsese, le bozze di Tonino Guerra, «Le amiche» diventato fotoromanzo, dischi degli Stones, Grateful Dead, Herbie Hancock, un articolo del Gazzettino con la foto sbagliata, commentata da Antonioni, oltre agli scatti di Sergio Strizzi. La cupezza di Lucia Bosè in «Cronaca di un amore» sbiadisce nel bianco solare di Monica Vitti della Trilogia esistenziale e poi trascolora ne «Il deserto rosso» e nei suoi provini. La sala verde di «Blow up» è dominata dalla gigantografia di Veruschka poi sbuca sul campo da tennis, creato dal Tennis club Marfisa di cui Antonioni fu socio, che omaggia la partita tra mimi a cui assiste David Hemmings. È infine sulle ultime opere del cineasta, che lo sguardo di Michelangelo termina, come «Identificazione di una donna» o quel nervoso tratto rosso su un album appena cominciato. Poi il silenzio. Fino al 9 giugno. Info: 0532/244949.

Corriere 8.3.13
Tutt'altro che incomunicabilità. Faceva già il nuovo cinema
di Paolo Mereghetti


Introducendo il catalogo dell'esposizione di Ferrara, il curatore Dominique Paini sostiene che «l'attualità politica e artistica di questo inizio di ventunesimo secolo attribuisce ad Antonioni una rinnovata pregnanza». Potrebbe sembrare un'affermazione azzardata (che naturalmente il percorso espositivo si incarica di smentire) eppure a sei anni dalla sua scomparsa — avvenuta il 30 luglio del 2007 — è incontestabile che l'opera di Michelangelo Antonioni assuma un'importanza e un peso (estetico, intellettuale, culturale) sempre più importante, che il calvario dei suoi ultimi anni di vita aveva in qualche modo rischiato di sfumare o sminuire.
Le mode e la labilità della memoria hanno finito per ridurre tutta una carriera in pochi, esangui luoghi comuni, a cominciare da quello di essere stato il campione della incomunicabilità. Qualche lettura superficiale, qualche «cattiveria» di facile conio (celebre l'opinione di Welles: «se Antonioni filma un uomo che cammina per strada e l'uomo gira dietro un angolo, lui continua a filmare»), qualche passo falso hanno finito per stampargli addosso l'immagine di un regista nemico del pubblico, astruso, in fin dei conti noioso. E invece a riguardare i suoi film, oggi, si resta a bocca aperta per la bellezza delle riprese, per l'intelligenza della costruzione narrativa e anche per la preveggenza con cui ha saputo vedere temi e snodi che sarebbero esplosi nel prossimo futuro.
Torniamo ai suoi film. Spesso sono costruiti sulla falsariga di un giallo: è così «Cronaca di un amore», «L'avventura», «Blow up», «Identificazione di una donna». Altre volte su quella del road-movie («Il grido», «Zabriskie Point», «Professione: reporter») o di un melodramma raggelato («La notte», «L'eclisse», «Deserto rosso»). Film «di genere» dunque, dove però la soluzione spesso spiega poco o nulla perché Antonioni intuisce che la struttura narrativa è diventata, dopo il suo momento di fulgore «classico», una gabbia troppo stretta per raccontare una qualche verità. Il mondo intorno sta cambiando rapidissimamente e quei generi diventano sempre più stretti.
Ecco che allora la macchina da presa del regista finisce per indugiare nei meandri del racconto, inseguire piccoli particolari apparentemente insignificanti, magari chiedere aiuto a un panorama, a un arredamento, a un'ambientazione. La città — la Roma di «La signora senza camelie» e «L'eclisse», la Torino delle «Amiche», la Milano di «La notte», la Ravenna di «Deserto Rosso», la Londra di «Blow up», la Barcellona di «Professione: reporter» — diventa lo specchio dentro cui cercare quelle risposte che la «storia» sembra incapace di trovare. E che Antonioni riprende con la stessa tensione e bellezza di un volto o di un corpo.
Certo, a volte sembra crearsi una specie di frattura tra l'ambiente e i personaggi, tra il «tempo esterno» e quello «interno», che la regia si incarica di sottolineare con un silenzio o uno sguardo svagato, ma è proprio così, mettendo in discussione il modo tradizionale di raccontare che Antonioni anticipa i tempi, che apre le strade al nuovo, che rivendica alle immagini la stessa importanza dei dialoghi, alla regia lo stesso peso dell'interpretazione. La sua carriera è stata quella del cinema che si libera dei limiti e delle corazze della classicità per aprirsi a un nuovo di cui spesso intuisce solo vagamente la portata (come nella fotografia al centro di «Blow up») ma di cui oggi sappiamo finalmente valutare pienamente l'importanza.

Corriere 8.3.13
Wenders: «Lasciava le attrici libere di essere se stesse. Era l'unico»
«Blow up, per me esordiente, fu un faro. Un vero inno rock»
di Alberto Pezzotta


Pochi registi hanno conosciuto Antonioni da vicino come Wim Wenders. Insieme hanno realizzato «Al di là delle nuvole» nel 1995. Una volta Wenders ha detto che Antonioni è stato uno dei primi cineasti moderni, e uno dei primi a lavorare come un pittore. Gli chiediamo di spiegarci questa intuizione.
«Antonioni aveva la mente analitica di un architetto; era uno scrittore, un pittore, e sapeva far confluire tutto questo nei film. All'epoca era una novità: di solito i registi venivano dal teatro, dalla fotografia e dalla narrativa. Inoltre, in un mezzo così monopolizzato dagli uomini, aveva il grande dono di vedere le donne e lasciare che fossero più "se stesse" di quanto era successo finora nella storia del cinema. Non dico che le capisse meglio di altri: di certo dava loro una libertà diversa di fronte alla macchina da presa. La sua modernità nasce da tutte queste cose».
Che cosa la affascina nelle sue immagini?
«Le sue inquadrature erano più rigorose e controllate di quelle di chiunque altro. Fu il primo a sapere esattamente come utilizzare il CinemaScope. Altri, come Godard, si limitavano a giocarci. C'era stato Fuller, che lo usava con grande efficacia, e il western. Ma un conto è il paesaggio americano e un conto il nostro mondo, le nostre città. E in ciò Michelangelo è stato unico. Tutte le sue inquadrature erano necessarie ed evidenti. Erano un linguaggio, non solo uno strumento».
A quali suoi film è più legato?
«Ho imparato molto da "Blow-up", che vidi proprio quando iniziavo a studiare cinema. Che film cool, sexy e intelligente! Non potevo credere che ci fossero Jeff Beck e gli Yardbirds che suonavano e spaccavano le chitarre. Un inno al rock'n'roll! Fu travolgente. Ovviamente amo molto "L'avventura". E poi "Il grido", "Professione reporter", l'inquietante "Zabriskie Point". Ogni volta si vede un regista che racconta una storia ma non ha la ricetta già pronta, e la inventa dalla base».
Anche all'estero si è parlato di «incomunicabilità»?
«È stato il termine-chiave nella ricezione dei suoi film ovunque, forse per mancanza di fantasia da parte dei critici. In ogni caso nella modernità postbellica ci fu un collasso comunicativo, di cui Antonioni fu probabilmente il primo acuto osservatore».
Quando lo conobbe di persona?
«Quando presentò "Identificazione di una donna" a Cannes, nel 1982. Così gentile, modesto e misurato: il contrario di quello che mi aspettavo. Apparì nel mio corto "Room 666", dove fu molto acuto ed eloquente. Quando seppi dell'ictus, fu molto doloroso. Per anni cercai senza successo di aiutarlo a realizzare "Due telegrammi", una sceneggiatura che aveva scritto prima dell'ictus. Poi fui contattato dal produttore Stéphane Tchalgadjieff, che mi chiedeva se ero disposto a fare da stand-by director, per motivi di assicurazione, durante le riprese di "Al di là delle nuvole". Inoltre avrei scritto (con il grande Tonino Guerra) e diretto una storia-cornice attorno alle quattro "storie d'amore impossibile" tratte da "Quel bowling sul Tevere". Accettai, non appena seppi che era stata un'idea di Michelangelo. Il progetto prese un anno della mia vita, ma fu un periodo memorabile».
Ci racconti della lavorazione di «Al di là delle nuvole».
«Ero sul set dal mattino alla sera, tutti i giorni. Cercavo di aiutare come potevo, "traducendo" i suoi desideri alla troupe. Non era sempre facile, a volte dovevo indovinare. Deve averlo fatto impazzire il fatto che non sempre capivamo che cosa avesse in testa. A volte si metteva un dito sulla fronte, per dire "Siete tutti matti", e scoppiavamo a ridere. Il fatto che non potesse parlare non gli impedì di fare esattamente il film che voleva».
Come lavorava con gli attori?
«Il rapporto che aveva con le attrici per me rimane un po' un mistero. Era molto speciale e diverso da quello con tutti gli altri. Ovviamente l'impossibilità di parlare qui diventava nodale e dolorosa. Ma Michelangelo aveva un modo di osservarle, e di accompagnarle con gli occhi durante ogni ripresa (posso assicurare che non aveva la stessa attenzione per gli uomini...), che dava loro molta sicurezza. A volte, finita la scena, rivolgeva loro un piccolo gesto delicato, in cui condensava le sue sensazioni».
Che cosa le manca di Antonioni?
«Quando penso a Michelangelo, rivedo il suo sorriso triste. Erano gli occhi, più che la bocca, a mostrare che sorrideva. Lo vedo che guarda Enrica. Il suo nome era una delle poche parole che riusciva a pronunciare. E vedo una lacrima nei suoi occhi. In quegli ultimi anni, a volte, era molto emozionabile, ma lo si capiva solo dal quel piccolo luccichio. Dava l'impressione di essere una persona dura, ma si commuoveva facilmente per ciò che amava».

Corriere 8.3.13
L'equilibrio difficile tra L’eclisse e il successo
Monica Vitti, compagna e musa, lo salvò dalla depressione. Poi diventò «trendy»
di Maurizio Porro


Antonioni fu il cineasta dell'incomunicabilità, secondo un luogo comune anni '60 che gli creava intorno un alone intellettuale. Ma questa incomunicabilità la comunicava: e allora? Da quell'anno magico che fu il 60, quando il pubblico sposò la causa dei grandi registi, anche il più difficile ma il più moderno dei nostri autori, il rampollo della borghesia Antonioni, vicino ai campi da tennis dei Finzi Contini, è una storia ferrarese. Oggi avrebbe 100 anni e 5 mesi e chissà cosa farebbe col digitale. Come spesso accade, è stato scoperto prima dai francesi, come accadde con Hitchcock.
La carriera, prima da critico poi da documentarista, si era arenata in film amatissimi dai cinefili ma disertati dal pubblico. «Il grido», fiasco annunciato di nebbie padane, neorealismo interiore (pochi slogan possono essere più respingenti), lo portò sull'orlo del suicidio come il suo protagonista Steve Cochran. Pensò di aver sbagliato tutto, provò anche a far teatro, ma fu infine salvato dall'amore: fortuna che in sala doppiaggio c'era Monica Vitti che dava la sua voce roca alla benzinaia Dorian Gray. Così la bella ragazza bionda che faceva ridere e offriva i suoi capelli via col vento, divenne sua Musa e compagna, un doppio appartamento. Ma anche lei, per avere un gossip dovevi parlarle degli inediti di Joyce che teneva pronti in borsetta. Quando in «Deserto rosso», Leone d'oro a Venezia, dice «Mi fanno male i capelli» ecco che la platea è sgomenta: perché, non è possibile? Fu una battuta chiave nella sua carriera, rinfacciata spesso. Ma Antonioni ancor oggi dimostra che vedeva più lontano, interessato alla logica interna della storia, convinto che col cinema fosse semplice mentire ma difficile seguire la coscienza.
Era passato attraverso ogni sofferenza morale e materiale, compreso l'abbandono della troupe sul set de «L'avventura», tra le isole Eolie, senza una lira e nulla da mangiare, se non le radici come Robinson Crusoe.
Quando il film, grande detective story dell'anima che finisce con una escort di Taormina, fu proiettato a Cannes, si sprecarono risate e dileggi, sicché lui e Monica stavano partendo silenziosi quando li avvertirono che avevano vinto il premio speciale. Da allora fu regista acclamato e very snob, in giro nella swinging London e scritturato dagli yankees per far scoppiare in aria il consumismo. Capace di creare suspense intellettuale, pagava lo scotto espresso da Risi che lo prende in giro nel «Sorpasso»: ma confessò che era tutta invidia.
Così lontano dal pettegolezzo e austero nello sguardo, Antonioni era capace di comunicare ogni cosa con un taglio d'immagine, un silenzio, un accordo jazz o la canzone sulla Radioattività di Mina sui titoli di testa dell'«Eclisse»: si poteva perfino capire anche se nella storia era martedì o mercoledì. Fu il primo a esaminare la psicologia delle donne, considerate forti e interessanti, e il primo a introdursi nei salotti della borghesia anni 50 e 60, tra sfilate di moda e ville in Brianza.
Certo la famosa trilogia gli diede fama e stellette: «L'Avventura», «La notte», «L'eclisse», con la ripresa della vera eclisse di sole ed ampia facoltà di metafora nel meraviglioso finale muto beckettiano come l'atto senza parole: se ne parlava in aula con Paci, il prof. di filosofia teoretica. Certo che Totò e Peppino erano più popolari della fenomenologia di Husserl, ma Antonioni anche per questo rimane ancora oggi in anticipo, se non fosse per quelle pecche di sceneggiatura che ogni tanto affiorano, battute un poco ammuffite.
Il problema è che le parole invecchiano più in fretta delle immagini. Ma gli sguardi di Lucia Bosè in «Cronaca di un amore», della Cortese e la Fourneaux nelle «Amiche», della Valli nel «Grido», della Moreau nella «Notte» che fa a piedi, lasciando Eco in happy hour, dagli uffici Bompiani di via Senato a Sesto (potenza della cine geografia), della Schneider in «Professione reporter» e della «sua» Vitti prima che il suo Dna si legasse alla «Ragazza con la pistola» e alla commedia all'italiana; e poi i volti non amichevoli di Nicholson, Ferzetti, Milian, Mastroianni, Hemmings («Blow up»), fino agli ultimi anni dedicati alla pittura e a Eros, restano patrimonio dell'umanità e della sua ricerca d'infelicità no stop. Malato per anni costretto immobile al silenzio, era ancora vivissimo e capace di battute. Come quella che oggi racconta Sarah Miles, sul set di «Blow up», che gli chiese come mai, nel finale il parco fosse tutto dipinto. Rispose: «Niente, quella è roba per i critici».

Corriere 8.3.13
Il Diavolo
Tullio Gregory racconta le fasi di formazione della celebre figura malvagia
Storia della tentazione. La via nera del Nemico dall'antichità ad oggi
I segni e le metamorfosi del diavolo
Secondo una tradizione giudeo-cristiana i demoni abitano nello spazio che avvolge la terra
di Armando Torno


Nella Galleria Tretjakov di Mosca si conserva un dipinto di Ivan Kramskoj, «Gesù tentato», del 1872. Cristo è seduto, svigorito, pensoso; le sue mani si intrecciano con ansia, si coglie nelle dita un fremito nervoso. Lo sguardo si perde nel nulla. Sono i segni lasciati dal diavolo sul suo corpo. Soltanto una luce prestata dal cielo russo, con riflessi polari, reca requie all'osservatore. Il deserto in cui sono avvenute le prove sembra il mondo intero.
Non c'è a Mosca la presenza visibile del diavolo come negli affreschi conservati a Orvieto di Luca Signorelli, dove entra in scena con le sue corna e si accosta all'Anticristo; non si pone accanto al Signore come lo immaginò Duccio nella Predella della Maestà di Siena; non precipita nel modo in cui lo dipinse Mattia Preti in un quadro conservato a Napoli, al Museo di Capodimonte. Nella Galleria Tretjakov, semplicemente, c'è il nostro diavolo: nevrosi, vuoto, paura, solitudine, abbandono. Chissà perché ha smarrito i suoi lineamenti. Chissà perché Kramskoj lo vide così, mentre era da poco uscita un'opera intitolata I demoni, scritta da un russo straziato dal gioco: Fëdor Michajlovic Dostoevskij.
Questi e altri rimandi vengono alla mente ripercorrendo le dense e fascinose pagine dell'ultimo saggio di Tullio Gregory, Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente (Laterza), dove si ricostruiscono le fasi di formazione della celebre figura malvagia sino alle soglie dell'Illuminismo. L'autore, esaminando attentamente i testi biblici e dei Padri della Chiesa, soffermandosi sulle sottili ragioni dei medievali, giunge a Martin Lutero, a Descartes, ma anche a Cyrano de Bergerac che decide di far confluire le dottrine demonologiche nella «Gazzetta degli sciocchi». È un affresco culturale di quella creatura negativa dall'ubiqua presenza che — si ricorda all'inizio del saggio — un predicatore della seconda metà del Trecento vedeva ovunque moltiplicarsi e diffondersi. Anzi, secondo una tradizione giudeo-cristiana analizzata da Jean Danielou, i demoni abitano nello spazio che avvolge la terra, in aere caliginoso.
Del resto, se il loro numero è noto solo a Dio, è altresì vero che alcuni Padri ritennero che gli uomini avessero accanto, insieme all'angelo custode, anche una creatura malvagia. Per questo, osserva Gregory, Ignazio di Loyola nei suoi magistrali Esercizi spirituali lascia regole per distinguere tra angelus bonus e malus. Non è forse vero che «tutte le vite e passioni dei martiri sono esempi della continua lotta tra il bene — il messaggio cristiano — e il male impersonato nelle figure dei persecutori e nelle istituzioni pagane, manifestazioni di Satana»?
Il libro è una ricostruzione attenta e ogni riga è stata verificata con una selezionata bibliografia. Tra l'altro si evidenzia che nel Genesi ci troviamo dinanzi al serpente creatura di Dio «astuta», ma ancora senza caratteri demoniaci: diventerà tale soltanto in un testo del I secolo avanti Cristo, la Sapienza di Salomone, estraneo al canone ebraico ma accolto in quello ecclesiastico. Fu per l'invidia di questo essere che il male entrò nel mondo: nella traduzione dei Settanta, in genere, il Satân ebraico portò all'identificazione del diavolo greco con il serpente. La responsabilità di Eva è recata dall'Ecclesiastico o Siracide (testo del II secolo prima di Cristo): «Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo» (25,24).
Inoltre, la figura di Satana prenderà forma «utilizzando alcuni versetti biblici che torneranno continuamente citati». A questo essere negativo, e alla sua maledizione, è legato un passo di Isaia che schernisce il re di Babilonia: «Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora?» (14,12). Osserva Gregory: «Così Lucifero, da astro del mattino, diventerà Satana, il nemico di Dio, l'"antico avversario" dell'uomo». Un testo che, d'altra parte, è accostato a un passo del Vangelo di Luca: «Io vedevo Satana cadere dal cielo come folgore» (10,18). L'Apocalisse suggella queste immagini: «Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli» (12,9).
Il saggio si sofferma sulle interpretazioni del commento al Genesi di Agostino che orienterà l'esegesi latina medievale («... fu anch'egli un tempo in cielo, stette tra i santi, partecipò della luce...»; non tralascia Pietro Lombardo che si chiede nel XII secolo se e in che modo angeli e demoni possono «insegnare» agli uomini intervenendo sui processi conoscitivi; analizza tra l'altro le radici della «via del nero». Se nera è la valle dell'inferno dantesco, neri sono i demoni, neri diventano anche i rappresentanti del diavolo. Forse per tale motivo nella Chanson de Roland e in tutta la letteratura del genere i musulmani sono neri, anzi il Paese dal quale provengono è senza sole. Vani gli sforzi di Nicola Oresme che ritiene impossibile, per coloro che abbiano studiato filosofia, credere all'esistenza dei demoni. È una voce isolata.
Nel capitolo dedicato a «Il principe di questo mondo», che dà il titolo al saggio, si ricorda tra l'altro che Innocenzo III nel 1213 era tornato a indicare in Maometto la bestia dell'Apocalisse (13,18), ovvero l'Anticristo. Gregorio IX in una lettera del 1° luglio 1239 alle autorità ecclesiastiche e civili della cristianità evocò la figura della «bestia che sale dal mare» (Apocalisse 13,1) per identificare Federico II; l'imperatore, che mal sopportava i pontefici, rispose rapidamente rovesciando la prospettiva: il Papa è il «cavallo rosso fuoco e colui che sedeva su di esso toglieva la pace sulla Terra» (Apocalisse 6,4). Lutero negli Articoli di Smalcalda vedrà nel vicario romano e nella sua corte «il regno dell'Anticristo»; dall'Urbe è quasi inutile aggiungere quel che risposero allo zelante riformatore. Il nemico diventa il diavolo; i dibattiti e le reciproche accuse alimentano questa tendenza, anzi la trasformano in letteratura. Descartes, con un colpo di modernità, farà sapere che è il «genio maligno» a mettere in dubbio l'esistenza del mondo fisico. E oggi?
Gregory si ferma, dicevamo, alle soglie dell'Illuminismo. Chi scrive ha trovato tracce dell'opera del diavolo alla Galleria Tretjakov di Mosca. Grazie al libro qui segnalato ha conosciuto le sue origini, nonché le astuzie che seppe escogitare nei secoli per stupire la cultura. Nell'opera di Ivan Kramskoj «lui» non si vede ma c'è. L'abilità della tentazione oggi strazia il Cristo.

Sette del Corsera 8.3.13
Così la barbarie uccide Aleppo, perla dell’umanità
di Lorenzo Cremonesi, foto di Franco Pagetti

otto pagine su Sette, nelle edicole in allegato al Corriere della Sera

Repubblica 8.3.13
Al Vittoriano di Roma una mostra che mette insieme opere di pittura, poesia, design, architettura
Così all’inizio del secolo scorso nacque una nuova estetica destinata a cambiare il Novecento
Cubismi
La rivoluzione di Picasso che contagiò ogni linguaggio
di Lea Mattarella


«Il Cubismo ha scomposto forme esistite per secoli e ne ha utilizzato i frammenti per creare nuovi oggetti, nuovi modelli e, in definitiva, mondi nuovi». Chi parla è Diego Rivera, muralista messicano, che non è rimasto immune al fascino del movimento nato a Parigi dalle intuizioni di Pablo Picasso e Georges Braque. La mostra Cubisti Cubismo aperta da oggi fino al 23 giugno al Complesso del Vittoriano, curata da Charlotte N. Eyerman in collaborazione con Simonetta Lux, realizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (catalogo Skira), vuole proprio rintracciare tutti i possibili cubismi che si diffondono nel mondo come un virus che trasmette modernità, innovazione, rovesciamenti di forme e spazi. Per questa ragione è costruita con un doppio passo: da una parte ci sono i cubisti, cioè gli artisti che hanno sperimentato il nuovo linguaggio sulle tele, sfaccettando oggetti, figure e paesaggi, mettendo insieme dinamismo, simultaneità e un imperioso desiderio di capire la realtà attraversandola, scomponendola e riassemblandola secondo un nuovo principio della visione. Dall’altra la rassegna va a caccia, con esiti sorprendenti, di diverse tracce di cubismo nelle varie discipline: dalla poesia al cinema, dall’architettura al design, dal teatro alla moda. Per dirne una: l’esposizione rivela una Praga inedita con fotografie, modellini, progetti (in particolare di Pavel Janák) che nascono proprio dalla rottura della forma iniziata a Parigi tra il 1908 e il 1909. È il critico Vauxcelles che utilizza per primo la parola “cubi” parlando di Brauqe. Non vuole certamente elogiarlo, ma gli artisti sono più avanti di chi li critica e si appropriano del termine facendolo diventare sinonimo di avanguardia. E qui il senso della loro gioiosa sfida si vede nei tessuti (Sonia Delaunay), nella musica, nelle parole (Apollinaire), sul palcoscenico (Léger e Picasso), oltre che, naturalmente, nei quadri. Ad accogliere il visitatore è la voce di Gertrude Stein che legge If I told him. A portrait of Picasso, una poesia dedicata all’artista spagnolo e pubblicata nel 1924 su Vanity Fair.
Diciotto anni prima Picasso l’aveva ritratta in un quadro- icona. Se lì il cubismo era ancora in fase di divenire, gli scoppiettanti versi della scrittrice americana ne sono l’esplosione sonora e il suo approdo in letteratura. Qualche anno dopo la Stein scriverà il suo celebre saggio sul pittore spagnolo e nell’Autobiografia di Alice Toklas farà dire all’amica di aver conosciuto solo tre “geni di prima classe”: Pablo Picasso, Alfred Whitehead e – perché no? – la stessa Gertrude.
Di Picasso in mostra ci sono diverse opere che raccontano le svolte, i passaggi, il suo cammino tra differenti momenti del movimento di cui questo spagnolo, arrivato a Parigi per conquistarla, è sicuramente il più grande esponente. C’è una figura che sembra una maschera e nasce dalla scoperta dell’arte africana che, come lui stesso ha dichiarato, lo trasforma in uno “sciamano”. E poi un nudo femminile tutto spigoli e contorsioni e un capolavoro dipinto tra il 1912 e il 1913, Chitarra e violino che fa venire in mente Jean Cocteau e il suo sogno di sentire la musica delle chitarre di Picasso.
Accanto ecco il Violinista di Braque che dimostra come ci sia stata una stagione del cubismo severa, ponderata, addirittura matematica. Non a caso Braque, che qui è rappresentato, tra le altre cose, anche con un paesaggio di ispirazione cézanniana che trasforma la natura in un mondo di cubi, sosteneva di amare «la regola che corregge l’emozione». E per tornare a Picasso la mostra si chiude con la sua Donna accovacciata del 1958 che dimostra come, molti anni dopo, l’artista torni a rileggere se stesso, con la libertà che lo contraddistingue nel corso di tutta la sua lunghissima carriera. Da questi due incorreggibili innovatori parte una vera e propria rivoluzione. In Francia Albert Gleizes e Jean Metzinger scrivono Du Cubisme.
E i due teorici mostrano visivamente il loro sodalizio tra le sale del Vittoriano con il bellissimo ritratto che il secondo fa del primo: costruito per piani paralleli, si rivela geniale nel bianco e nero interrotto da una sottile striscia in cui compare il colore in cui lo sguardo del fruitore e quello dell’effigiato si incontrano. Un effetto che ha qualcosa di cinematografico. E infatti eccolo, il cinema: in primo luogo quello di Fernand Léger che firma le scenografie de L’inhumaine di Marcel L’Herbier oltre a realizzare il suo celebre Ballet mécanique che mostra oggetti, forme geometriche, silhouettes, figure che si scompongono, si aprono, si chiudono, si rovesciano in un gigantesco caleidoscopio. È lo stesso Léger a dichiarare che «il film è nato dalla mia pittura». Dalla sua parete in mostra emerge un mondo di figure e di paesaggi costruiti come bizzarri ingranaggi. Magnifico. Accanto a lui c’è la sintesi di Juan Gris, l’altro spagnolo del gruppo.
Da Parigi il Cubismo prende il volo. Atterra sulle tele dei pittori di ogni parte del mondo: ci sono il messicano Rivera e il ceco František Foltyn con il suo Ritratto di Dostoevskij a tocchi sfaccettati. Ci sono gli inglesi: Vanessa Bell, Wyndham Lewis, gli Omega Workshop, Roger Fry, sul quale è appena uscito una nuova edizione del libro di Virginia Woolf che della Bell è la sorella (Roger Fry, a cura di Nadia Fusini, Mondadori). Al gruppo di Bloomsbury è lasciato il compito di rappresentare il design. E appare evidente come le diverse culture assimilino il cubismo facendolo dialogare con la propria storia, anche se, spesso, per contrasto. Ecco gli americani: Mardsen Hartley, Stanton Mc-Donald Wright. E anche Gino Severini e Ardengo Soffici: l’avanguardia francese incontra quella italiana, cubismo e futurismo si spiano, si intrecciano. E poi ci sono i russi: El Lissitsky, Liubov Popova, Alexandra Exter con le sue brillanti scenografie teatrale. A questo proposito ecco i costumi di scena di Parade progettati da Picasso per il balletto dei Balletti Russi di Diaghilev su libretto di Cocteau, coreografia di Léonide Massine e musica di Eric Satie, andato in scena nel 1917. Apollinaire definisce lo spettacolo “il primo balletto cubista”. I ballerini indossavano pezzi di città (il manager americano i grattacieli e quello francese i boulevards) danzando, per la prima volta sul palcoscenico del Théatre du Chatelet i passi di una modernità fino allora sconosciuta.

Le immagini che corredano l'articolo
Pablo Picasso: Nudo (1909) San Pietroburgo, ErmitageFrancis Picabia: The Procession, Seville (1912) olio su tela Washington, National Gallery
Gleizes: Ritratto di Jacques Nayral
Cendrars-Delaunay: La prosa della transiberiana
Fernand Léger: costume di scena per Skating Rink

Repubblica 8.3.13
Il movimento diventato pura musica
Da Satie a Poulenc, i compositori ispirati dagli artisti
di Claudio Strinati


Il cubismo musicale si può far cominciare dallo spettacolo Parade di Jean Cocteau e Erik Satie per il quale Picasso dipinse il celebre sipario. Satie era all’epoca verso la fine della sua carriera. Dandy aristocratico e elegante, nato nel 1866, aveva alle spalle una lunga attività di stralunato riordinatore del discorso musicale da lui ridotto a una essenzialità ripetitiva apparentemente indifferente alle suggestioni del sentimento ma in realtà delicata e ipersensibile. Era come se fosse ritornata in lui la dottrina rinascimentale della “sprezzatura” di Baldassar Castiglione nel Cinquecento, per cui bisogna che il creativo sia indifferente alle lusinghe dell’edonismo esprimendosi secondo accorta verità per cassare ogni atteggiamento servile e acquiescente al luogo comune. Con alle spalle Wagner e con accanto Debussy, Satie aveva introdotto un nuovo modo di pensare la musica ma aborriva l’idea di porsi come caposcuola. Cocteau quasi lo costrinse e sei musicisti gli si incamminarono dietro all’inizio del terzo decennio sull’influsso di un brillante testo teorico di Cocteau stesso, del 1918, Le Coq e l’Arlequin.
La definizione di Group des Six fu coniata nel 1926 dal critico Henri Collet per analogia con il Gruppo russo detto dei Cinque, formatosi nel 1860 e annoverante Cui, Borodin, Balakirev, Musorgskij e Rimskij-Korsakov. In realtà i francesi fecero gruppo per breve tempo anche se inizialmente con vera convinzione. Ma le loro idee erano ben più complesse del rapporto con il Cubismo. Se per Cubismo si definisce la tendenza a scomporre e ricomporre l’oggetto della propria rappresentazione, non c’è dubbio che l’esponente maggiore di quel gruppo fosse Darius Milhaud (nato nel 1892), l’unico cui la definizione di “cubista” spetterebbe di diritto. Milhaud era vicino a Satie ma fu soprattutto condizionato dalla cultura latino-americana essendo stato, tra il 1917 e il 1919, all’ambasciata francese di Rio de Janeiro, e i suoi capolavori Le Boef sur le toit (il bue sul tetto, del 1920) e il balletto La Création du Monde (1923) sono memorabile dimostrazione di una sorta di caotico e insieme lucido andirivieni di tango, samba, fado e jazz delle origini, che danno a chi ascolta la sensazione di un formidabile scompaginamento e riassemblaggio delle forme musicali in una acuta eccitazione ritmica e melodica. Fu un metodo compositivo che trovò riscontri altrettanto notevoli nei lavori di Arthur Honegger (coetaneo di Milhaud), più affascinato però da tematiche futuriste (è suo l’eccezionale poema sinfonico Pacific 231 del 1923 che descrive la partenza e l’avanzata di una, all’epoca, ultramoderna locomotiva) e di Francis Poulenc (il più giovane del gruppo, 1899) i cui lavori sono una sintesi, vagamente dadaista, del più puro classicismo mozartiano con il più impuro sovraccarico di jazz cabarettistico. Poulenc è uno dei grandi compositori del ventesimo secolo e il suo influsso è stato enorme. Meno incisivi furono, invece, gli altri membri del Gruppo, Louis Durey (1888) che partecipò ben poco al Gruppo stesso, George Auric (1889) brillantissimo “sportivo” della musica e l’unica donna, Germaine Tailleferre (1892), fine musicista più morigerata e vigilata da un gusto sopraffino. Certo è che l’attività di questi musicisti nel corso degli anni Venti non fu affatto demolitoria, come taluni avrebbero potuto credere, ma ispirata veramente all’idea della ricostruzione di un’armonia dinamica persasi per colpa della perentoria solennità a tutti i costi wagneriana. Per prendersi più sul serio bisognava dare l’idea di non fare troppo sul serio.