domenica 10 marzo 2013

l’Unità 10.3.13
«Un governo per il lavoro. Servono scelte immediate»
Intervista a Camusso: «Situazione drammatica, non si può lasciare il Paese alla deriva»
«Governissimo? No, gli elettori si aspettano un governo politico, che faccia scelte concrete»
«Gli otto punti possono essere una risposta efficace ma bisogna sviluppare quei titoli»
di Maria Zegarelli


«Non si può lasciare il Paese nel nulla». È il messaggio che il segretario della Cgil lancia al mondo politico sollecitando scelte concrete e urgenti. Come lo sblocco dei pagamenti alle imprese e una chiara politica industriale. «Gli otto punti di Bersani sono una risposta efficace ma vanno sviluppati».

«La risposta a un voto che nella sua articolazione può apparire di sfiducia o di prevalente sfiducia che da un lato si affida ai sogni e dall’altro alla rottamazione e non è sufficiente a indicare una prospettiva di cambiamento deve rafforzare le ragioni del cambiamento che si propone. E questo è possibile se si va alla sostanza delle esigenze delle persone». E per Susanna Camusso, segretaria Cgil, le esigenze delle persone ruotano attorno a due grandi questioni: il lavoro e l’equità. Da qui, dice Camusso alla vigilia della sua partenza per New York, dove andrà a rappresentare il sindacato mondiale nella plenaria Onu sulla violenza contro le donne, dovrebbe partire l’azione del prossimo governo.
Napolitano dice che il Paese non può aspettare, c’è bisogno di un governo. Quale deve essere il primo punto all’ordine del giorno dell’esecutivo?
«Il lavoro. È questa la vera emergenza del Paese che implica interventi immediati e di prospettiva. Il quadro diventa ogni giorno più drammatico con moltissimi posti di lavoro in pericolo, un tasso di disoccupazione allarmante e gli ammortizzatori sociali a rischio. Il tema non può essere soltanto quello delle coperture del reddito, che sono importanti, ma come si reimpostano le condizioni per poter guardare al futuro e porre rimedio a ciò che non si è fatto con i governi che abbiamo alle spalle, quello Berlusconi e quello Monti».
Come si reimposta il futuro che intere generazioni non riescono a vedere? «Intanto sbloccando i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni alle imprese per non mandare a gambe all’aria tutti coloro che stanno ancora resistendo e dando la possibilità ai cantieri di iniziare i lavori. E poi bisogna delineare due o tre grandi indirizzi di politica industriale che ricomincino ad attrarre investimenti utilizzando esplicitamente anche le grandi imprese pubbliche, come Eni, che ha alti ricavi, e Finmeccanica. Altro tema: la giustizia sociale. Non possiamo continuare a dare stipendi altissimi ai manager pubblici e delle imprese private e lasciare che i lavoratori continuino a percepire un reddito non sufficiente a garantire una vita dignitosa. Intervenire in questo modo vuol dire dare un segno ai cittadini, mettendoli di nuovo al centro dell’azione politica, questione di cui ci si è preoccupati poco in questi ultimi anni dando l’impressione che l’Italia sia un Paese che non ha risorse e possibilità di farcela».
Anche lei teme una situazione di instabilità che possa aggravare lo stato di cose di cui ha parlato?
«Il governo non è un’astrazione, ha il compito di indicare delle priorità, decidere e fare delle scelte: non si può lasciare un Paese nel nulla. Capisco e condivido l’urgenza del rinnovamento delle istituzioni, di responsabilità e della politica, ma non basta e non credo che la situazione vada cercata in un governissimo».
Non le sembra che gli elettori abbiano voluto dare più importanza a questo aspetto, il rinnovamento, che all’emergenza lavoro?
«Non condivido questa lettura perché questo è stato un voto complesso. È vero che molti hanno anteposto il cambiamento e il rinnovamento a tutto il resto, ma c’è anche un terzo del Paese che ha votato di nuovo per chi ci ha portato in questo grave stato di crisi. In questo voto c’è un segno della sfiducia dopo anni che non cambiavano le cose, e c’è il segno delle paure rispetto alla propria condizione e di una profonda divisione in un Paese dove le diseguaglianze sono fortemente cresciute. Oggi la domanda da porsi è soprattutto una: da dove si ricostruisce una dimensione unitaria del Paese? Non ricomporre la frattura che la maggiore povertà e le diseguaglianze hanno provocato significa mettere l’Italia in condizione di non farcela a superare la crisi che non è finita, sia chiaro, e che nei prossimi mesi è destinata ad acuirsi».
Lei dice non abbiamo bisogno di un governissimo. Eppure sono in molti a invocarlo.
«Come Cgil abbiamo detto con chiarezza che secondo noi non si può tornare alle logiche del governissimo o dell’esecutivo di unità nazionale perché si deve rispettare l’esito del voto. Credo che la risposta che gli elettori si aspettano è quella di un governo politico che possa dare il via a misure concrete per migliorare le condizioni di vita, che guardi all’economia reale, ai redditi, ai posti di lavoro. Soltanto in questo modo si rafforzano gli interventi, altrettanto necessari, sulla trasparenza, la sobrietà e i costi della politica. Quella che stiamo attraversano non è una situazione dalla quale si esce facendo a gara a chi urla di più, bisogna rimettere in moto una tendenza positiva e non ci si può permettere di aspettare tempi migliori: ogni aggravamento della crisi avrà un effetto moltiplicatore perché si somma ad un insieme di fattori già drammatico. Abbiamo un giovane su tre senza lavoro, al Mezzogiorno è uno su due, c’è una popolazione “più anziana” che non riesce a rientrare nel mercato del lavoro e ci sono aziende che ogni giorno chiudono. Questo è il quadro con il quale bisogna fare i conti».
Bersani ha presentato i suoi otto punti e su quelli intende chiedere la fiducia in Parlamento. Le sembrano una risposta efficace?
«Possono esserlo, ma c’è bisogno di sviluppare quei titoli, di tradurli. Ad esempio, c’è molta attenzione a riformare i livelli istituzionali. Giusto, ma è necessario affrontare questo tema insieme ad un altro: la riorganizzazione della pubblica amministrazione per renderla efficace e qualificare maggiormente il lavoro pubblico. Non si può immaginare una diversa concezione delle istituzioni senza contemporaneamente avere una visione avanzata del lavoro pubblico. C’è bisogno di efficienza per far sì che i servizi pubblici locali funzionino e servano ai cittadini, di risparmio che arrivando da uno snellimento delle istituzioni possa diventare volano per i grandi servizi come l’istruzione e la scuola. C’è poi bisogno di qualità nei servizi e nelle istituzioni, che è una delle ragioni dello scollamento con i cittadini. Tutti temi difficilmente risolvibili senza il coinvolgimento di quei lavoratori e un completamento della riforma del lavoro pubblico».
Lei ha anche detto che in quegli otto punti dovrebbero esserci le politiche industriali.
«Ci vorrebbe più coraggio su quel fronte, sul ruolo delle grandi aziende pubbliche, perché da lì si può invertire la rotta. Queste aziende sono partecipate dello Stato e quindi spetta anche a loro in questa fase avere un ruolo. Si deve aprire una stagione di discussione in cui al centro ci siano le persone e l’economia reale. È una discussione che può dar forza alla nostra idea di Europa che è contemporaneamente una questione essenziale ma anche sottotraccia nella discussione. L’Europa è vissuta da tanta parte del nostro Paese come uno dei nemici e non come una possibilità di avere un’economia più forte. Bisogna essere inequivoci su questo punto e dire che la politica europea, come così come è stata finora, ha allontanato i cittadini dall’Europa e per una serie di Paesi come il nostro ha provocato un’accelerazione dell’ineguaglianza e dell’emergenza sociale. C’è bisogno di un doppio messaggio: cambiamo l’Europa e iniziamo noi a fare le cose necessarie a cambiare il segno fin qui dato».
In questo fase della crisi sempre più spesso si dice che gli interessi di imprese e lavoratori sono comuni.
«È un concetto che sento sempre più spesso ma le cose non stanno esattamente così. In questi anni la precarietà è stata largamente usata per abbassare i redditi mentre intere generazioni non hanno mai conosciuto un contratto. Mi sembra semplicistico dire che impresa e lavoratori hanno interessi ormai comuni».

l’Unità 10.3.13
Democrazia ed economia reale: ecco le emergenze
L’offerta politica non può più essere centrata su un guardiano dei conti al quale i partiti affidano il «lavoro sporco», ma su un vero rinnovamento
di Massimo Mucchetti


Caro direttore,
il declassamento delle obbligazioni pubbliche italiane, annunciato venerdì da Fitch, fa squillare un primo campanello d’allarme che alimenta le preoccupazioni del Quirinale. Il giudizio della più piccola delle grandi agenzie di rating, infatti, deriva dal fondato timore che il risultato elettorale renda impossibile dare all’Italia un governo stabile.
Se Fitch sarà seguita da Moody’s e Standard & Poors, qualche conseguenza potrà verificarsi nella riallocazione degli investimenti istituzionali vincolati al rating. Ci sarebbe da chiedersi per l’ennesima volta quale mercato sia quello dove gli investitori non decidono in prima persona ma si consegnano a tre agenzie. E tuttavia questa è la realtà con la quale, ora, il Paese deve fare i conti.
Quasi mai le agenzie intercettano in anticipo i rischi di insolvenza. Di solito alzano o abbassano il rating sulla base delle quotazioni dei titoli e dei credit default swap. Questa volta, il pessimismo d’agenzia non registra le scelte e le previsioni reali già manifestate dagli investitori. Ci dobbiamo dunque chiedere se Fitch abbia anticipato la storia di una prossima impennata dei tassi sui Btp o se il suo responso sia destinato a una sostanziale irrilevanza. Risponderei nel modo che segue.
In questa fase i mercati sembrano di manica larga. Avrebbero già dovuto massacrare l’Italia alla caduta del governo Monti e non l’hanno fatto. L’Europa è percorsa da movimenti che protestano contro l’austerità. Fioriscono partiti populisti. Eppure, nel primo scorcio del 2013, proprio verso le obbligazioni dei Paesi mediterranei si sono diretti ingenti capitali internazionali a caccia di rendimenti. La politica della Bce ha scoraggiato la speculazione contro i debiti sovrani denominati in euro. Se ora stiamo alle ultime dichiarazioni di Mario Draghi, non dovremmo temere Fitch. Il presidente della Bce non vede problemi ravvicinati per il debito pubblico italiano in quanto i conti dello Stato risulterebbero protetti dai provvedimenti fiscali già presi e destinati ad essere via via attuati. Ma siamo sicuri che le parole di Draghi non siano dettate dalla ragion politica più che dalla ragione analitica? E fin dove si spingerà la fame di rendimenti dei money manager della City, di Zurigo e di Wall Street? La risposta autentica verrà dagli stessi mercati, nei prossimi giorni. E avrà un’influenza rilevante sulla formazione del nuovo governo.
Ora, l’esperienza del governo Monti si è rivelata largamente imperfetta. Abbiamo evitato il peggio nell’autunno del 2011. Abbiamo consentito a Draghi di dire che l’Italia faceva i compiti a casa, e dunque che la Bce poteva stendere una cintura di protezione attorno al suo debito pubblico. Lo spread Btp-Bund è tornato attorno a quota 300. Ma abbiamo pure un’economia reale che non ha risolto i problemi di fondo, un Paese in ginocchio e una democrazia parlamentare in crisi evidente. E la stessa quota 300 resta insostenibile nel lungo periodo. Basti ricordare che nella primavera del 2011, Deutsche Bank si liberò dei titoli di Stato italiano quando a quota 300 non eravamo ancora arrivati e Berlusconi negava ancora l’esistenza del problema. Insomma, il bilancio politico del primo governo del Presidente non è univoco, ancorché non possano essere attribuiti al presidente Napolitano gli errori sugli esodati, i pasticci sul mercato del lavoro, il rifiuto della politica industriale e, last but non least, il tardivo e fallimentare protagonismo partitico di Monti.
Un anno e mezzo fa l’alternativa a Monti era quella di andare alle urne, liquidando Berlusconi con un Grillo ancora in gestazione di sé stesso. Il timore delle mazzate dei mercati indusse il Quirinale a evitare la rottura traumatica della legislatura. E l’Italia tutta applaudì attribuendo a Monti simpatie plebiscitarie.
Ma cosa vuol dire nell’Italia tripolare del 2013 fare un governo, mentre Fitch storce il naso e però lo spread pare ancora fermo? Il governo al quale lavora Pierluigi Bersani rappresenta il compromesso possibile sui contenuti tra lo schieramento di maggioranza relativa, sia pure assai risicata, e lo schieramento nuovo. Sarebbero realizzabili provvedimenti che, fin qui, non hanno mai riscosso adeguate maggioranze parlamentari. Se, come pare, il Movimento 5 Stelle lo affosserà, se ne assumerà la solenne responsabilità nelle sedi istituzionali e non solo in comizi urlati senza contraddittorio. Il Quirinale poi prenderà le ulteriori decisioni.
Certo è che un secondo governo del Presidente non potrà essere la fotocopia del primo, quello di Mario Monti. L’emergenza non è più la stessa. E nemmeno l’offerta politica. L’emergenza corrente non è più la finanza pubblica, ma il funzionamento della democrazia e l’economia reale. L’offerta politica non può più essere centrata su un guardiano dei conti al quale i partiti uguali a sé stessi affidano il «lavoro sporco» per poter poi tornare a cassetta, ma su un governo e su partiti capaci di avviare il rinnovamento mancato fin qui. E se la fase di avvio comporta un altro passaggio elettorale con una nuova legge capace di dare comunque un governo al Paese, i mercati capiranno che solo l’esercizio della democrazia può salvare l’Italia (e l’Europa) dall’alternativa tra clown.

Renzi da Fazio
Il titolo de il Fatto: Riunioni Pd? Sembra terapia di gruppo
il titolo di Repubblica: Il sindaco: basta con le terapie di gruppo e niente inciucioni

il Fatto 10.3.13
E Renzi alla fine pugnala Bersani
Contro il segretario: “Non ce la farà”
di Fabrizio d’Esposito


Un canale con Grillo, a tutti i costi. L’ultima iniziativa, in ordine di tempo, è di Pippo Civati, neodeputato del Pd. Sul suo blog ha vergato un post dal titolo “Il Grande Appello”. Ossia, prendere gli otto punti del programma di Pier Luigi Bersani da offrire al Movimento 5 Stelle e tramutarli già in altrettanti disegni di legge di quattro o cinque articoli. Magari aggiungendone un nono, di punto. Come suggerisce Matteo Renzi: l’abolizione del finanziamento ai partiti. Con Civati sarebbero già in venti i deputati del Pd pronti a mettersi al lavoro per questi ddl, nella speranza di aprire un varco nel muro alzato da Grillo.
IN REALTÀ, Civati è anche indicato come uno dei probabili pontieri tra il Pd versante Bersani e il M5s, per il suo rapporto con lo staff di Casaleggio. Ma lui smentisce e dice di non aver ricevuto alcun mandato dal segretario. Il ruolo di pontiere, quantomeno di ambasciatore, sarebbe invece vero per la veneta Laura Puppato, altra neoparlamentare del Pd, figura di confine tra la sinistra e i movimenti. Raccontano dal Nazareno, dove si trova la sede nazionale democrat a Roma, che la missione della Puppato è iniziata già una decina di giorni fa quando riferì a Bersani per conto di Grillo che l’opzione migliore sarebbe stata di mantenere in piedi il governo Monti e votare insieme alcuni provvedimenti anti-Casta. Da qui a venerdì prossimo, quando sono previste le sedute inaugurali del Parlamento, il pressing sul M5s è destinato ad aumentare a dismisura, come dimostra anche l’appello di sei intellettuali pubblicato ieri da Repubblica. E qualora uno spiraglio dovesse aprirsi, Bersani è pronto a infilarci dentro la presidenza della Camera per i grillini, con sommo dolore per Dario Franceschini, successore annunciato di Gianfranco Fini. Il segretario lo dirà chiaramente alla riunione dei gruppi parlamentari in programma domani.
LA PARTITA, solitaria e disperata, di Bersani, cui anche i Giovani Turchi della sua segreteria guardano con scetticismo, ha provocato ieri le attese pugnalate di Matteo Renzi, che in un’intervista televisiva ha cominciato la sua nuova campagna elettorale, in quanto “pronto alle primarie in caso di voto anticipato”. Nell’altro Pd, quello che non crede al dialogo con il M5s, attorno al sindaco di Firenze si tessono trame e progetti, in un risiko di ambizioni personali. Il primo affondo è sul tentativo in atto: “Io non sono molto ottimista ma spero che ce la faccia. Se non ci sarà il governo Bersani mi sembra naturale che si torni a votare. Prediligo qualsiasi soluzione che dia chiarezza: che siano le elezioni o un governo che faccia un piano sul lavoro e poi la legge elettorale”. La seconda pugnalata è sullo scouting verso il M5s, comprese le offerte di presidenze: “Spero che lo scilipotismo non diventi una caccia al grillino. Grillo è diverso non lo compri con l’inciucione”. L’ultimo colpo, mortale, è al partito, dopo lo spettacolo della direzione nazionale di mercoledì scorso in diretta streaming: “Io sono per un partito bello, una comunità di persone che insieme decidono le cose da fare, non un partito che fa riunioni che sembrano terapie di gruppo, sedute di amministratori anonimi che si guardano in faccia e si raccontano”. In pratica, la finta unità del Pd è già conclusa. Ci sono due partiti. Meglio: Bersani contro tutti. Anche perché la questione cruciale del dialogo con Grillo potrebbe passare per il fatidico piano B o C che sia: trovare un altro nome, alternativo a Bersani. L’ideale sarebbe stato Fabrizio Barca, ma lui avrebbe già declinato l’invito. Resta Stefano Rodotà mentre fa capolino l’ipotesi Saccomanni, il dg di Bankitalia. Scenari su scenari che devono fare i conti con un altro nodo destinato a dividere il Pd: elezioni a fine giugno o a ottobre. La prima ipotesi è la trincea bersaniana, ancora supportata dai Giovani Turchi. La seconda è sostenuta da veltroniani, centristi, renziani che sperano in un governo del presidente, che tenga a bada i mercati. Gira il nome di Enrico Letta come “opzione possibile”, ma difficilmente Bersani dirà di sì a un esecutivo guidato da un altro esponente del Pd.

Repubblica 10.3.13
Stefano Fassina difende il dibattito del Pd: abbiamo organismi democratici, forse lui preferisce la cura individuale
“Matteo ora cavalca l’antipolitica”
di G. C.


ROMA — «Le riunioni del Pd sono terapie di gruppo? Lui preferisce le terapie individuali...». Stefano Fassina, bersaniano, dà l’altolà al sindaco “rottamatore”, con cui ha avuto spesso duri scambi di battute.
Fassina, qualche ragione Renzi forse ce l’ha definendo la liturgia delle riunioni di partito
una terapia di gruppo?
«Renzi mostra scarso rispetto per la comunità di cui fa parte e cavalca spregiudicatamente l’antipolitica, provando a ridicolizzare il Pd in una situazione certamente difficile. Non è l’atteggiamento appropriato per un grande leader».
Non gli riconosce alcuna ragione?
«Gli organismi dei partiti democratici discutono e preoccupano le scorciatoie degli uomini soli al comando».
Non è una buona strategia offrire dei posti ai grillini. Condivide questa bacchettata di Renzi?
«Il Pd non offre nulla. Presentiamo al paese proposte per affrontare
l’emergenza economica e politica. Bisognerebbe evitare di dare sponda a Grillo facendo la caricatura delle posizioni democratiche».
Però pensate che la presidenza di uno dei due rami del Parlamento possa essere affidata a un grillino?
«Ma le presidenze delle Camere non sono di proprietà del Pd questa è una discussione surreale. C’è un risultato elettorale che mette in evidenza una sorta di tripartizione, e quindi è naturale che i gruppi parlamento riflettano. Il Pd non offre nulla però, perché non è proprietario di nulla. Alla luce del sole si cercherà di comporre il quadro uscito dalle urne».
Abolire completamente il finanziamento pubblico ai partiti, è d’accordo?
«Mah, Renzi mi pare davvero particolare! Da una parte dice che non bisogna inseguire Grillo e poi fa sue le proposte di Grillo. Il finanziamento pubblico ai partiti è un pezzo fondamentale, un cardine della qualità della democrazia, così da consentire anche a chi non è miliardario di fare politica. Va ovviamente fatta una legge sullo statuto dei partiti, in modo da consentire trasparenza, controlli, certezza nell’utilizzo delle risorse. Dopo di che, inseguire Grillo su queste posizioni non porta da nessuna parte, perché l’originale è sempre preferito alla copia».
Su una cosa comunque vi trovate d’accordo: o Bersani o il voto?
«Questo l’abbiamo sempre detto: non ci sono scenari B e non siamo disposti a governi con il Pdl»
Però la gravità della situazione economica italiana è tale da non consentire di scherzare con il fuoco: è anche l’appello del presidente Napolitano.
«Il punto è che all’Italia non serve un governo qualunque, ma un governo di cambiamento, non in continuità con l’Agenda Monti».
(g.c.)

Repubblica 10.3.13
Patto M5S-Pd, migliaia di sì all’appello Grillo chiude la porta citando Gaber
E gli eletti preparano la marcia sulla Camera: cittadini venite con noi
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Ha raccolto oltre ventimila firme in un giorno l’appello che Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Salvatore Settis, Barbara Spinelli hanno lanciato al Movimento 5 Stelle. Un patto per cambiare l’Italia, cogliendo un’occasione che potrebbe non ripetersi. Per farlo i 5 stelle dovrebbero accettare un’intesa col Pd. Idea che ancora ieri Beppe Grillo rispediva al mittente, mentre uno dei neoeletti, Simone Vignaroli, annunciava: «Il 15 marzo per la prima seduta del Parlamento vorremmo arrivare tutti a piedi, partendo dal Colosseo. Venite con noi ad accompagnarci fino alla porta». E su Twitter qualcuno ha subito ribattezzato come una nuova «marcia su Roma».
A dimostrare l’alterità del Movimento rispetto ai suoi interlocutori è arrivato un chiaro no all’appello degli intellettuali. Sul blog Grillo cita Gaber: «Gli intellettuali fanno riflessioni considerazioni piene di allusioni allitterazioni, psicoconnessioni elucubrazioni, autodecisioni». E aggiunge: «L’intellettuale italiano è in prevalenza di sinistra, dotato di buoni sentimenti e con una lungimiranza politica postdatata. L’intellettuale non è mai sfiorato dal dubbio, sorretto com’è da un intelletto fuori misura per i comuni mortali. Quando il pdmenoelle chiama, l’intellettuale risponde. Sempre!».
Una replica «sorprendente e sprezzante», secondo il regista Paolo Virzì, che su Twitter scrive subito: «Ma che risposta orribile! Cita Gaber ma sembra il peggior Brunetta». E spiega: «Le parole di Gaber erano ironiche e rivolte con intelligenza spiritosa anche a se stesso. Se ci sono persone che in questi anni ho visto coltivare il dubbio, quelle sono Remo Bodei - seguivo le sue lezioni di Filosofia a Pisa - o Barbara Spinelli. Mi piacerebbe che Benni e Fo spiegassero a Grillo che si sbaglia di grosso se considera questa persone degli obbedienti burocrati di partito. Spero sia solo una tattica aggressiva, che si voglia un po’ di bene all’Italia. Chi ha disprezzato gli intellettuali in maniera esplicita è stato Goebbels, voglio sperare che Grillo non se ne sia nemmeno reso conto». Tra gli altri, ieri ha firmato il giurista Paolo Maddalena: «In questo momento bisogna pensare al bene comune, serve un governo per salvarci dal baratro, per fare in modo che le nostre sorti non vengano decise dagli speculatori finanziari, da chi vuole ridurre l’Europa alla miseria». Non è d’accordo Dario Fo: «Se davvero il Pd voleva fare queste cose, perché non le ha fatte prima?», chiede il premio Nobel. «Non hanno mai dato un segno di voler cambiare veramente. Le strade sono solo due: o il governo lo si affida ai 5 stelle, o si torna ad elezioni. E perderanno». Sulla stessa linea il fotografo Oliviero Toscani: «L’incarico lo si dia a Grillo. Non abbiamo nessuna voglia di andare ancora dietro al Pd. Io Bersani l’ho conosciuto quando era governatore ed era bravissimo. Quando ha avuto la possibilità di andare al potere si è perso».
Vito Crimi, il capogruppo designato dai 5 stelle al Senato, conferma la linea. Nessun accordo. E agli eventuali ambasciatori del Pd invia una battuta: «Ditegli di scrivere un sms perché non rispondiamo ai numeri che non conosciamo. Se hanno qualcosa da dirci, ascolteremo, ma gli unici che ci chiedono di appoggiare il Pd sono quelli che l’hanno votato ». Gli eletti si vedranno ancora oggi a Roma per una riunione organizzativa. E mentre la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi annuncia un bando per assistenti parlamentari, e invita a mandare il curriculum, spuntano nuovi resoconti sulla riunione di domenica scorsa. «Casaleggio ha detto che se decidessimo di dare l’appoggio a qualche partito, lui lascerebbe il Movimento», ha scritto Roberto Cotti, neosenatore sardo, in un resoconto fatto ad altri attivisti e intercettato dall’Huffington Post.

Grillo attacca gli intellettuali che gli chiedono di sostenere un esecutivo di “liberazione”:
“E’ troppo tardi per parlare con noi, siete al servizio del Pd”
il Fatto 10.3.13
Il professore. Salvatore Settis
Pier Luigi, approfitta dei grillini per la svolta
di Antonello Caporale


L’intellettuale ha una straordinaria abitudine a servire. Dall’ancien regime alla sacra romana chiesa, al ventennio fascista (trascuro per pietà di giungere ai nostri giorni) è tutto un testimoniare genuflessioni. Che questa sia la verità non c’è alcun dubbio, come però indubitabile è la fragilità, la banalità della risposta di Grillo al nostro appello, Banale, ecco, mi sembra il giudizio più appropriato. Rispolvera un luogo comune e si ferma lì. Deludente”. Salvatore Settis è un biografo meticoloso delle pietre sopra le quali l’Italia è cresciuta. Docente e poi direttore alla Normale di Pisa, decano degli archeologi, intellettuale conosciutissimo all’estero.
Ha firmato l’appello al Movimento 5 Stelle: cambiare si deve e si può. Se non ora quando?
Grillo non mi mette in difficoltà ricordandomi che gli intellettuali hanno servito il potere. Anzi, sono persino felice che si siano autodelegittimati, non devono dimostrare di saperla più lunga degli altri. E forse non la sanno più lunga degli altri. Restiamo cittadini, e abbiamo il diritto e il dovere di interrogarci, di impegnarci.
Lei è pronto all’impegno pubblico?
Usiamo una leggerezza sconsiderata a fare l’elenco dei nomi, a indicare i cosiddetti migliori. Trascuriamo le idee. Costoro sarebbero chiamati a fare cosa, quale è il senso dell’impegno?
L’Italia ha bisogno di un medico che la curi, è un territorio sfinito, seviziato, devastato.
È il nostro corpo e l’abbiamo trattato con ogni impudenza. Cos’è il paesaggio, che valore ha una veduta, un tramonto, le dune? È inconcepibile l’ignoranza con la quale abbiamo stipato cemento, drogato, deviato, divelto ogni profilo del nostro orizzonte. Noi umani prendiamo cura di noi stessi, giusto? E perchè non avere lo stesso riguardo per la nostra storia, per il territorio, che poi è il corpo sociale, il nesso che ci lega e che ci fa riconoscere. Io partirei da qui se dovessi iniziare a costruire un programma di governo. Partirei da questa rivoluzione.
Sarebbe il primo punto.
Primo: coniugare in un unico dicastero le funzioni dell’ambiente, del paesaggio, dell’agricoltura. Sono competenze indivisibili e il loro frazionamento costruisce l’area grigia dentro cui si annidano gli speculatori.
Secondo.
Bloccare le grandi opere. Non hanno senso, non hanno riguardo per la coesistenza pacifica, non producono valore aggiunto. Il Tav in Val Susa, il Tav di Firenze, il Ponte sullo Stretto. Stop, scritto a caratteri cubitali
Qui è Bersani a non udire.
Temo anch’io e rimango stupìto. Ma ora forse possediamo la forza per fargli cambiare idea.
Terzo.
Riconvertire l’industria dell’edilizia, fermare il massacro cementizio e devolvere ogni aiuto pubblico a sanare le ferite delle nostre mura. Il 46 per cento del territorio è ad alto rischio sismico e idrogeologico. Ogni centesimo di euro deve andare a suturare questa ferita, a medicare il nostro corpo sociale. L’associazione dei costruttori ha calcolato un impegno di spesa di un miliardo e mezzo di euro per vent’anni. Ecco le nostre grandi opere. Contemporaneamente riconvertire l’edilizia urbana, ristrutturare, conservare, riabilitare un patrimonio oggi fatisciente e periclitante.
È un bel programma.
Bellissimo.
Lei ci starebbe?
Ci starei io, e anche i grillini. E anche migliaia di elettori che hanno votato Pd. E persino quelli che non si sono recati alle urne. L’aria che si respira invoglia all’ottimismo.
Sembra invece un caos, un gorgo che avviluppa ogni corpo.
Sono più ottimista di lei. Questa esplosione del M5s ha la capacità di restituire passione alla politica e voglia di cambiare da subito e tanto.
Anche a lei toccherebbe di scendere dalla cattedra e di smetterla di indicare il bene e il male.
Le ho detto già: per me è un piacere, veramente una fortuna sapere che l’intellettuale ha perso ogni particolare diritto. Da pari a pari, va bene così?

Corriere 10.3.13
Il fratello del segretario
«Sì, Pier Luigi è su un campo minato Mi ricorda Prodi»

di Francesco Alberti

Indistinguibili al telefono. Lo stesso timbro di voce. Potrebbero architettare scherzi terribili (magari alle spalle di Crozza). A differenza però del fratello, segretario del Pd e aspirante premier, Mauro non smacchia giaguari e nemmeno pettina bambole. Risata rotonda: «Non so dove Pier Luigi abbia preso quei modi di dire. Non sono tipici del Piacentino e di questa valle. Chissà chi glieli ha suggeriti, certo non gli hanno portato una grande fortuna…». Mauro Bersani ha 64 anni e per tutta la vita si è tenuto lontano dalla politica, preferendo le sale operatorie dell'ospedale di Melegnano, nel Milanese, medico chirurgo ora in pensione. Raccontano che si sia sempre rifiutato di partecipare ai concorsi per il primariato in Emilia-Romagna, temendo di infilarsi in un conflitto d'interessi o comunque di esporsi a maldicenze, visto che il fratello Pier Luigi è stato per un certo tempo presidente della giunta regionale: «Sì, è vero, ma non ne farei un eroismo: sono stato benissimo a Melegnano, non è stato un sacrificio», taglia corto dalla palazzina di Bettola, nel Piacentino, da dove si vede il distributore di benzina che fu del padre Giuseppe.
Non abituato a vivere di riflesso, Mauro si è ritrovato all'improvviso al centro dell'attenzione per aver candidamente confessato durante il programma di Radio2 «Un giorno da pecora», di non essere particolarmente ottimista sulla possibilità del fratello di riuscire a mettere insieme qualcosa che assomigli a un governo. Queste le sue parole: «Sicuramente è molto dura, penso che lui (Pier Luigi, ndr) stia dando più che altro una testimonianza». Una pacchia per la giostra mediatica. «Udite, udite: trovato a Bettola un bersaniscettico!». «Viva i fratelli coltelli». «Neanche in famiglia credono a Pigio (soprannome del leader pd da bambino, ndr)». Mauro, al telefono, sogghigna: «Vabbé, c'era da aspettarselo…». D'altra parte, rivela, «mio fratello sta vivendo questi giorni con grande preoccupazione: avverte la responsabilità del momento, ma è convinto di ciò che sta facendo». Lei pare esserlo un po' meno, o no? «Guardi, sono consapevole che il sentiero è molto stretto, ma penso che Pier Luigi faccia bene ad imboccarlo. È l'unico modo per tenere il partito unito e far esplodere le contraddizioni dei 5 Stelle…». Ma prima non c'è il rischio che, in caso di fallimento dei negoziati, esploda il Pd? «Il terreno è minato, ma, se salta tutto, voglio poi vedere come la mette Grillo con i suoi!». Altro che fratelli coltelli. Sarà anche un «bersaniscettico», il medico chirurgo Mauro, ma su «Pigio» ci mette la mano: «Comunque vada — sospira — si capirà tra un po' quello che ha fatto questo ragazzo…». Perché «il ragazzo», il fratello minore, «troppo spesso viene sottovalutato». D'accordo, «non ha un gran carisma e in tv non graffia», ma è un uomo «dai valori molto solidi, che non si svende per tornaconto personale». E qui Mauro si fa finalmente ultrà: «Pier Luigi appartiene a quella schiera di politici, spesso rivalutati a posteriori. È uno che guarda al dopodomani. Mi ricorda Romano Prodi…». E qui per scaramanzia ci fermiamo. Visto che, in materia di durata di governi, il Professore non è il migliore dei portafortuna.

Corriere 10.3.13
Ma i pontieri giocano l'ultima carta
La via della trattativa «alla luce del sole»
E tra i «giovani turchi» si guarda al sindaco
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il treno del Pd continua a correre su un doppio binario. Impresa improba, perché il rischio di deragliare è reale.
Le rotaie lungo le quali Bersani sta inseguendo la sua premiership fanno tappa dai grillini. Convincerli, blandirli, agganciarli... tutti obiettivi difficili, ma il segretario non demorde. E gioca su più piani questa partita. Da un lato c'è Vasco Errani che continua a tessere la rete del rapporto con gli eletti del «Movimento 5 Stelle». A lui e ad altri parlamentari emiliani il compito di capire quale sia la disponibilità degli eletti di Grillo. Poi c'è il canale di comunicazione aperto con Sandra Bonsanti, figura di spicco del movimento Libertà e giustizia: in lei il Pd individua la possibile intermediaria con i parlamentari 5 Stelle. Quindi ci sono le amicizie personali. Il leader toscano del movimento che fa capo al comico genovese si chiama Massimo Artini: frequentava la stessa scuola di Matteo Renzi, ma, soprattutto, è grande amico di Lapo Pistelli. Gli cura il sito Internet e lo conosce da anni. Infine c'è la rete. Che serve per mobilitare un'ondata grillina a favore dell'accordo con il Pd. Ieri c'è stato l'appello via Internet di un gruppo di intellettuali che chiedono ai 5 Stelle di non voltare le spalle al Partito democratico. Ma questo è solo un assaggio perché i maggiorenti del Pd sanno bene che gli intellettuali più che attrarre possono respingere questi ambienti: perciò si punta alla mobilitazione «dal basso» del popolo della rete.
Domani verranno anche scelti i due parlamentari che tratteranno «alla luce del sole» con i grillini. Del tandem dovrebbe fare parte Laura Puppato, ma è chiaro che non è quella ufficiale la diplomazia che riuscirà a sbloccare la situazione. Nessuno in casa democratica crede che alla fine i 5 Stelle accetteranno l'offerta della presidenza della Camera, il che complica ulteriormente i giochi di Bersani. Già, perché se Grillo dicesse di sì il Pd potrebbe offrire la guida dell'assemblea di palazzo Madama al Pdl senza incorrere nell'accusa di voler «inciuciare». In questo schema il nome che era stato scelto era quello di Gaetano Quagliariello. Ma se i grillini insistono nel rifiutare questa offerta allora il Pd terrà per un suo uomo (Dario Franceschini) la poltronissima di Montecitorio e cederà la presidenza del Senato a un esponente della lista Monti (il nome più gettonato fino a ieri era quello dell'ex europarlamentare del Pdl Mario Mauro).
Del resto, lo stesso Bersani non sembra di certo sprizzare ottimismo da tutti i pori e ieri ad alcuni parlamentari che gli chiedevano lumi sulle trattative con i grillini per il governo rispondeva con queste parole: «Non credo che siano possibili cambi di casacca nell'immediato… magari più in là. E questo non risolve il problema, tanto più che in questa situazione così complicata c'è la variabile impazzita di Berlusconi. Se il Cavaliere vuole davvero le elezioni le otterrà, è inutile prenderci in giro. Il quadro è così instabile che basta una qualsiasi forzatura per non farlo reggere».
Ma, come si diceva, il treno del Partito democratico sferraglia anche su altre rotaie. Dietro il Bersani che cerca di dare al suo partito ciò che secondo lui merita, e cioè la guida del Paese, c'è uno stato di agitazione permanente da parte del Pd. Non si sta parlando dei dirigenti che hanno già fatto mostra di essere pronti a ripiegare su Renzi, nel caso in cui il tentativo del segretario non vada in porto. Ora sono i «giovani turchi» a muoversi. E non lo fanno più come una falange compatta sotto l'insegna di «Bersani o morte». Adesso la nuova sinistra del Pd annusa Renzi. Sì, proprio lui, quello che fino a poco tempo fa era lo «spauracchio» dei giovani turchi, l'«uomo nero» contro cui combattere nelle primarie prossime venture. Corre voce che anche Bersani, il quale ha sempre detto di aborrire i «personalismi», abbia aperto uno spiraglio alla via d'uscita che vede nel sindaco di Firenze candidato premier di un centrosinistra alleato con Monti e con Vendola (se ci sta).
L'altro giorno Matteo Ricci, presidente della provincia di Pesaro, bersaniano, vicino ai giovani turchi, ha voluto parlare a tu per tu con Renzi per capirne le mosse e per ribadirgli le sue idee. Ricci aveva già anticipato al Foglio questa inversione di rotta: «Matteo può essere il leader di una nuova generazione». Non si tratta di un caso isolato. Già il sindaco di Bologna Virginio Merola aveva dichiarato che Renzi rappresentava «l'unica speranza di rinnovamento». E persino Orfini, che del sindaco rottamatore è stato acerrimo nemico fino a pochissimi giorni fa, l'altro ieri ragionava così con un compagno di partito: «Non è detto che occorra andare a una sfida all'Ok Corral con Renzi: in realtà le nostre posizioni dopo le elezioni sono più vicine di prima».
D'altra parte è sempre stato Bersani il primo a dire che «la ruota deve girare». E ora potrebbe girare in favore del vento renziano.

La Stampa 10.3.13
Poltrone e dialogo, l’ultima offerta di un Pd senza bussola
Letta: “Dividiamo le presidenze delle commissioni con le opposizioni”
di Federico Geremicca


I nomi sono l’unica cosa che non manca. Per le presidenze di Camera e Senato (prima votazione, venerdì) ne girano talmente tanti che la difficoltà non consiste nel trovarli ma nello scremarli. Per dovere di cronaca si può azzardare che, a oggi, i più gettonati sono i seguenti: presidenza del Senato, Finocchiaro, Monti e Quagliarello; presidenza della Camera, Franceschini, Lupi e Bindi. A questi, andrebbero aggiunti un po’ di altri nomi di eletti del Movimento Cinque Stelle: ma per quanto si lavori di fantasia - e se si escludono i due unici cognomi noti, perchè già eletti capigruppo: e cioè Lombardi e Crimi - azzardarne qualcun altro è operazione più che spericolata.
Si naviga a vista - anzi: si brancola nel buio - per la semplice ragione che non si può contemporaneamente sostenere che le elezioni di febbraio sono state «uno tzunami» e poi immaginare che in quattro e quattro otto ci si accordi su nomine di grande rilievo, che hanno spesso comportato problemi e tempi lunghi anche in situazioni più «normali». Le maggiori difficoltà, naturalmente, le sta vivendo il Pd, incerto sulla strada da seguire e - soprattutto - privo di quei riferimenti politici (o perfino di galateo istituzionale) che hanno spesso aiutato, in passato, a sbrogliare matasse assai intricate.
Una delle regole non scritte (e infatti talvolta non seguite...) nell’attribuzione delle cariche istituzionali, vuole che la presidenza di una delle due Camere venga affidata all’opposizione. Ma qui sorge il problema dei problemi, che sta bloccando il confronto (al momento inesistente) tra le diverse forse politiche: qual è l’opposizione? È Grillo o Berlusconi? E di conseguenza: la presidenza di uno dei due rami del Parlamento va offerta al Movimento Cinque Stelle o al Pdl? L’altro giorno Rosy Bindi - presidente del Pd ha fatto sapere al segretario qual è la sua idea: visto che diciamo «mai con Berlusconi», l’opposizione è lui. Bersani ha nicchiato: anche perchè, considerato che Grillo dice «mai fiducia a un governo Pd», l’opposizione potrebbe essere lui...
Un rompicapo, che potrebbe finire addirittura in un paradosso, se si considera che nessun recente avvio di legislatura ha mai reso così indispensabile - di fatto - la necessità di un dialogo: e che cioè, col calare del quorum necessario all’elezione, il Pd possa «conquistare» sia la presidenza della Camera che quella del Senato. Non si tratterebbe, naturalmente, di un buon viatico per affrontare con serenità e spirito di collaborazione i due successivi e ancor più importanti appuntamenti, e cioè la formazione del nuovo governo e l’elezione del Presidente della Repubblica: ma in una situazione in cui nessuno pare volersi alleare con nessuno (Grillo non con Bersani, Bersani non con Berlusconi, Berlusconi non con Grillo, eccetera eccetera) il rischio che salti tutto per aria e si torni rapidamente al voto, si fa sempre più concreto.
È il timore evocato ieri da Matteo Renzi: se fallisce il tentativo Bersani si rischia giocoforza il ritorno alle urne. Ed è la stessa preoccupazione che ieri ha spinto Enrico Letta, vice di Bersani, ad andare molto avanti: «Nel nostro Paese è sempre accaduto che le Commissioni parlamentari fossero di spettanza del partito di maggioranza: noi proponiamo che siano divise tra i diversi partiti... ». Come sempre in passaggi così, le offerte di dialogo vengono accompagnate (sostanziate) da offerte di ruoli: che sia la via migliore per indurre a ragionevolezza Beppe Grillo è da vedere. Per ora le risposte continuano a essere negative, quando non addirittura offensive...
Bersani, intanto, si guarda intorno e prova a costruire consenso intorno alla sua proposta. Deve farlo, però, con un partito che somiglia sempre più a una pentola a pressione. Le tensioni post elettorali non solo non sono sopite ma vengono addirittura accentuate dalla tornata di nomine alle porte. Si discute (animatamente) sui capigruppo di Camera e Senato: tra proposte vere e autocandidature, anche qui è tutto un fiorire di nomi. In un quadro non certo sereno, fatto di giovani contro meno giovani, bersaniani contro renziani e via discorrendo. Ed è così cioè sotto i peggiori auspici - che si apre la terza settimana post-voto: e dire che i 15 giorni passati abbiano portare chiarezza, sarebbe dire una evidente fesseria...

Repubblica 10.3.13
Il rebus che il Colle dovrà risolvere
di Eugenio Scalfari


IN QUESTI giorni di fitta nebbia politica la domanda che domina tutte le altre riguarda Giorgio Napolitano. Le ipotesi sono molte e contraddittorie poiché per saperlo bisognerebbe entrare nella testa del Capo dello Stato, e dunque soltanto la logica può suggerire la risposta. Napolitano, nel suo recente incontro con la Merkel, ha rassicurato la Cancelliera dicendo che l’Italia avrà sempre un governo in grado di governare. Sembra un’affermazione ovvia, ma non lo è. Significa che il Presidente, cui spetta di nominare il premier, non farà salti nel buio e non nominerà un governo che non abbia una maggioranza parlamentare. Perciò da qui bisogna partire per svolgere correttamente la nostra analisi logica.
Il 19 marzo, dopo che le Camere avranno costituto i gruppi parlamentari, le commissioni previste dai regolamenti e le rispettive presidenze, inizieranno le consultazioni al Quirinale, dopo di che Napolitano incaricherà Bersani, leader del centrosinistra che ha la maggioranza assoluta alla Camera e la maggioranza relativa al Senato.
Non sarà un incarico “esplorativo” che in certe occasioni viene affidato al presidente del Senato o ad altra personalità istituzionale. Sarà un incarico di “scopo”: deve verificare se attorno al suo nome e al suo programma sarà possibile formare una maggioranza. Se il risultato sarà positivo Bersani otterrà la nomina, se sarà negativo no, nominare un governo minoritario sarebbe quel salto nel buio che Napolitano ha escluso.
Che cosa accadrà a quel punto, quando il calendario segnerà più o meno la fine di marzo? Teniamo presente che il 15 aprile il “plenum” del Parlamento si riunisce per eleggere il nuovo Capo dello Stato e quello attuale decade da ogni funzione anche se fino al 15 maggio resta titolare del ruolo. Titolare ma ingessato a tutti gli effetti.
Dal 26-27 marzo al 15 aprile a Napolitano restano dunque una ventina di giorni. In quel limitato spazio di tempo dovrebbe perciò nominare un governo con un premier che non sarà più Bersani, capace di realizzare quella maggioranza che il leader del centrosinistra non ha ottenuto ma che tuttavia dovrebbe esser gradito anche al centrosinistra senza il quale nessuna maggioranza si può formare.
Questo è il problema che Napolitano dovrebbe risolvere nella ventina di giorni a sua disposizione. A questo punto l’analisi si sposta dall’attuale Capo dello Stato alle forze politiche che siedono in Parlamento.
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Movimento 5 Stelle. L’obiettivo che si propone è ormai chiarissimo (salvo il colpo di scena di una rivolta degli eletti rispetto alle indicazioni dei due proprietari del movimento stesso). Vuole la palingenesi politica, cioè il rovesciamento della Repubblica parlamentare nella sua architettura modellata dalla Costituzione. Nel caso specifico palingenesi significa puntare sul “tanto peggio tanto meglio”. Perciò il folto battaglione dei parlamentari 5 Stelle dirà di no ad ogni governo che non sia il suo; ma con il 25 per cento di seggi un governo 5 Stelle è impossibile, a parte le reazioni dell’Europa e dei mercati.
Potrebbe accettare un governo guidato e composto da persone affidabili dal suo punto di vista? Un governo del tipo di quello immaginato da Santoro? Cioè del tutto svincolato dagli impegni europei?
Non credo che il Pd lo voterebbe ma soprattutto non credo che Napolitano lo nominerebbe, non sarebbe nemmeno un salto nel buio ma un suicidio vero e proprio.
Allora, per completare la nostra analisi, resta soltanto l’ipotesi d’un governo istituzionale o del Presidente come si usa chiamare nel lessico corrente. Molti pensano che sia questa l’ipotesi di Napolitano.
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Una siffatta soluzione — che per le ragioni già esposte esclude l’approvazione delle 5 Stelle — dovrebbe ottenere la fiducia del centrosinistra, di “Scelta civica” e del Pdl perché in mancanza di quest’ultimo la maggioranza al Senato non c’è.
L’accordo del centrosinistra con il Pdl è del tutto improbabile, configurerebbe una spaccatura della coalizione ed anche dello stesso Pd. Ma è anche improbabile dal punto di vista di Napolitano.
Berlusconi è stato proprio in questi giorni condannato ad un anno di reclusione per violazione di segreto istruttorio; ma queste sono quisquilie, ben altro lo aspetta. Il 23 marzo la Corte d’appello di Milano emetterà sentenza di secondo grado nel processo sui diritti cinematografici Mediaset (false fatturazioni, falso in bilancio, costituzione di fondi neri all’estero, frode fiscale). Potrà emendare o annullare o confermare la sentenza di primo grado che ha condannato Berlusconi a 4 anni di reclusione.
A fine mese arriverà anche la sentenza del processo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Nel frattempo si profila un rinvio a giudizio della Procura di Napoli che indaga sulla corruzione e il voto di scambio (De Gregorio, Lavitola e compari).
Il tutto è anche complicato dalla vertenza al calor bianco tra Berlusconi e i suoi legali da un lato e i tribunali dall’altro provocata dalla presunta impossibilità dell’ex premier a partecipare ai processi che lo riguardano.
Si può lontanamente immaginare che Napolitano faccia un governo istituzionale “baciato” dalla fiducia di un centrodestra guidato da Berlusconi? Certamente no anche perché sarebbe inutile dato che il Pd esclude quest’ipotesi già da un pezzo.
Ci sono però due subordinate. La prima è che il Pdl esploda in mille pezzi e una parte di essi confluisca con “Scelta civica” che diventerebbe in tal modo determinante per raggiungere la maggioranza in Senato insieme al Pd. Una seconda ipotesi è che il Pdl decida di dare il benservito a Berlusconi; un benservito vero e non soltanto apparente.
Questa seconda ipotesi mi sembra da escludere. La prima invece è possibile. Soltanto a quel punto un governo sarebbe possibile e potrebbe anche avere lunga durata sempre che fosse accettabile. Ma presieduto da chi e composto come?
Personalmente penso che un governo di tal genere debba affrontare i marosi d’una recessione sempre più acuta ed essere pienamente credibile in Europa, ma non possa avere carattere istituzionale, non possa essere un governo d’un Presidente uscente ma debba essere nominato dal nuovo inquilino del Quirinale.
Dopo aver tentato le soluzioni in suo possesso, a Napolitano resterebbe la sola via di lasciare Monti a Palazzo Chigi per l’ordinaria amministrazione che tra l’altro dovrà essere scavalcata almeno su un punto necessario e urgentissimo affinché il “credit crunch” non porti la nostra economia a completa rovina: il pagamento di 50 miliardi da parte del Tesoro alle imprese creditrici.
Il governatore Visco ha lanciato due giorni fa il suo allarme, le rappresentanze delle imprese invocano un’immediata iniezione di liquidità. Tecnicamente ci sono vari modi per renderla possibile, a cominciare dalla cartolarizzazione di beni dello Stato appetibili e vendibili, che servano da garanzia ad obbligazioni scontabili dalle banche e/o dalla Bce direttamente.
Francamente non vedo altre soluzioni per impedire che il “tanto peggio tanto meglio” distrugga lo Stato e le istituzioni repubblicane.
Naturalmente il futuro governo, cioè il primo nella nuova legislatura, dovrà mettere mano come prima misura alla modifica della legge elettorale puntando sui collegi uninominali a doppio turno e ai costi della politica utilizzando gran parte dell’agenda Bersani che merita d’essere tradotta in altrettanti provvedimenti legislativi.
Per il presidenzialismo bisogna fare un discorso a parte. Rappresenta un mutamento radicale della nostra architettura repubblicana, che non può esser certo realizzato come un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall’articolo 138, ma neppure con una legge costituzionale. La Corte la invaliderebbe perché contraria allo spirito della costituzione vigente che, non a caso, esclude la possibilità di abolire la Repubblica.
Un presidenzialismo modifica a tal punto quell’architettura da rendere indispensabile la completa riscrittura della Costituzione. La può fare soltanto una nuova Assemblea costituente. Si può anche imboccare quella via ma un’altra strada non c’è.
* * *
Mentre in Italia accadono questi eventi che tutti ci riguardano, dopodomani si radunerà il Conclave per l’elezione del nuovo Pontefice: curioso destino questo mutamento di scenari che avvengono contemporaneamente in due potenze conviventi e distinte: lo Stato e la Chiesa.
Domenica prossima il Conclave sarà probabilmente già concluso e il nuovo Papa avrà già preso possesso del soglio petrino. Qui possiamo soltanto ricordare due verità, già ampiamente esaminate nei giorni scorsi dal nostro giornale.
La prima: le dimissioni di Benedetto XVI hanno testimoniato che il Papa non è il Vicario di Cristo in terra ma un uomo investito dell’altissima funzione di guidare una comunità di credenti che si estende su tutto il pianeta in convivenza con altre religioni o filosofie religiose.
La seconda: Ratzinger ha constatato di non avere più le forze fisiche e mentali per rinnovare la Chiesa come è necessario ed ha anche ricordato che il volto attuale della Chiesa è stato imbrattato e va dunque ricostruito dalle fondamenta.
Il Conclave si apre dunque in presenza di questi problemi. La Curia farà di tutto per pilotarlo in modo da evitare che quel rinnovamento si compia. Punterà su un Papa “curiale” e verticista, si chiami Pio XIII o addirittura Gregorio riferendosi a quell’Ildebrando da Soana che fu il vero costruttore del regno assoluto del Papa.
Oppure, se il bisogno di rinnovamento prevarrà, potrà chiamarsi Giovanni XXIV o Francesco. Sarebbe il primo con questo nome e c’è tra i papabili anche un cardinale cappuccino, Patrick O’Malley che ha tutte le caratteristiche pastorali delle quali la Chiesa sembra avere urgente bisogno. Da non credente interessato mi auguro che la scelta sia quella che sembra la più idonea a suscitare un vento di spiritualità necessario a migliorare la società e ciascuno di noi, credenti o non credenti.

l’Unità 10.3.13
Uveite e supercazzole
Non c’è riuscito, ma la farsa in pigiama è un successone
di Sara Ventroni


Siamo oltre Mario Monicelli. L’uveite che affligge il Cav spopola nell’immaginario come una «supercazzola». Si tratta di un’invenzione semplicemente cinica. E dunque disperata.
Una zingarata politica che dovrebbe servire a lasciare sbalordite le vittime inconsapevoli: i passanti, i cittadini, i polli. Cioè: gli italiani. Stavolta però non funziona.
Fatta la verifica sulle condizioni del leader ricoverato, la Corte d’Appello dice no al rinvio dell’udienza chiesto dalla difesa. A Silvio va riconosciuto il merito di averci provato. La trovata stava quasi per andare in porto, poi però si sono messi di mezzo i medici burocrati. Mannaggia.
Proprio come un italiano tra gli italiani, il Cavaliere si è dovuto sottoporre al rito così cafone, così umiliante, così formale della visita fiscale. L’accertamento è stato disposto dai giudici che lo stanno processando in appello per la vicenda dei diritti televisivi. I complottardi hanno stabilito che «non sussiste un impedimento alla partecipazione» dell’ex premier all’udienza. I parrucconi in camice bianco hanno spiegato che i problemi visivi lamentati dal paziente dolori all’occhio sinistro e fotofobia tutt’al più possono incidere sull’efficacia psicofisica dell’imputato. Niente di più. Perbacco. Anche se la sceneggiata è andata male, l’ultima versione del Cav il ricoverato in pigiama e pantofole al San Raffaele già spopola. Siamo alla prosecuzione della campagna elettorale con altri mezzi. La nuova mossa non è ammaliare gli italiani con le promesse della vita inimitabile del tycoon, ma riscoprirsi uomini comuni. Acciaccati. Pazienti ipocondriaci in attesa del codice bianco al pronto soccorso, mentre l’ambulanza inforna infarti e ossa rotte, come una democrazia in fin di vita. La campagna elettorale di primavera, immaginiamo, toccherà le corde nascoste della nazione: il senso degli italiani per l’accanimento contro la carta bollata. Chi di noi non ha paura di aprire la porta all’ufficiale giudiziario o a un perfido emissario di Equitalia? Se ci pensiamo bene, siamo tutti perseguitati. Dall’uveite, dalla prostatite o dalla sinusite.
Il mondo è un grande complotto ordito dalla magistratura, dai medici non consenzienti. E, manco a dirlo, dai comunisti. Oggi il Cav ci offre una sintesi strepitosa di due categorie dello spirito: l’ipocondriaco e il tartassato. Il 23 marzo si scenderà tutti in piazza, Angelino Alfano in testa, contro il sistema orwelliano della magistratura e della stampa.
I giornali cattivi già prefiguravano la vendetta dell’otto marzo: la pasionaria Ilda Bocassini era pronta per incassare la vittoria sul caudillo machista. Per fortuna la stampa buona si affrettava a chiosare: ti è andata male, donna.
Noi che siamo molto pazienti, e molto obiettivi, ci limitiamo a constatare che Silvio Berlusconi effettivamente, durante la campagna elettorale, è stato colto da congiuntivite. Chi di noi non ci è passato. Da tempo gli occhi del Cav si sono fatti stretti come bocche di salvadanaio.
Mentre Ghedini ripiega gli alamari e mette il muso, mentre Cicchitto grida ai trattamenti nazisti dei medici della mutua, noi, fuori dal manicomio, aspettiamo che Silvio, come Gabriele D’Annunzio, anche senza vista scriva il suo capolavoro. Un «Notturno». E si ritiri in villa. Una delle tante.

l’Unità 10.3.13
L’Anm: l’ex premier sta sfidando la Costituzione
Il presidente Sabelli: «L’indipendenza dei giudici è un principio fondamentale, non difendiamo privilegi»
Il Cavaliere teme le pene accessorie (interdizione dai pubblici uffici)
di C. Fus.


ROMA Giù le mani dalla magistratura, «ogni attacco è una sfida ai principi che sono fondamento della nostra Costituzione» avverte il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. «Sono i magistrati che non sopportano le critiche a ledere l’autonomia e l’indipendenza delle istituzioni democratiche», lo rimbecca il coordinatore del Pdl Sandro Bondi.
Mentre a Milano si consumava l’ennesimo scontro in uno dei processi del Cavaliere, nel resto d’Italia, per tutto il giorno, si sono rincorse minacce e avvertimenti tra il sindacato delle toghe e il partito del Cavaliere schierato come un solo uomo a difesa del Capo. È campagna elettorale. E la piazza prescelta è la giustizia. Un canovaccio liso, un rito stanco, eppure l’unico su cui le truppe del Cav tentano di giocare il tutto per tutto per restare in campo e puntare al voto a giugno. È una questione di vita o di morte per il partito che ha raggiunto il 30% e gli è mancato lo 0,4 per portare a casa la maggioranza in Parlamento. In gioco non c’è solo la sopravvivenza mai come adesso le truppe resuscitate sono legate al destino del Capo ma ognuno di loro, anche chi ne farebbe volentieri a meno, sa che questa volta Berlusconi rischia di non poter più fare politica. Il processo sulla compravendita dei diritti tv di cui ieri è sfumato il rinvio corre verso la sentenza e entro l’anno potrebbe diventare definitiva in Cassazione. Non sono tanto i quattro anni per frode fiscale a dare pensiero (tre sono già stati condonati dall’indulto) ma le pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici, che impedirebbero questa volta per sempre a Berlusconi di ricoprire ogni tipo di incarico pubblico.
Sabelli è a Catania per un convegno. Non sa cosa sta succedendo a Milano. È lui il primo a dichiarare contro la manifestazione che il Pdl ha convocato da una settimana per il 23 marzo e che al di là dei titoli ufficiali è una marcia su Roma contro la magistratura. Dopo una settimana di silenzi nonostante gli attacchi e le provocazioni (ultime quelle di venerdì nel processo Ruby), il presidente dell’Anm decide di fissare punti di non ritorno. «Qualsiasi generalizzazione, qualsiasi attacco alla magistratura oppure idee di manifestazioni contro la magistratura costituiscono una sfida a principi che sono fondamento della nostra Costituzione e delle democrazie mature. Il principio di autonomia e di indipendenza della magistratura non solo è uno dei fondamentali a cui si ispira l’azione dell’Anm, ma è uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di qualsiasi sistema democratico maturo. Noi difendiamo e difenderemo sempre questi principi che non sono fine a se stessi. Non difendiamo i privilegi della magistratura ma l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge». Più che una dichiarazione è un manifesto di principi che incendia la giornata. Non passerete, dicono le toghe.
Nelle file del Pdl, sospettate dal capo di essere state un po’ troppo tiepide in questi giorni, non aspettavano altro. «Le parole di Sabelli si fa sentire per primo Bondi sono di una gravità senza precedenti. In qualsiasi altra democrazia sarebbero considerate lesive dell’autonomia e dell’indipendenza delle istituzioni democratiche e di conseguenza censurate con forza».
Parlano tutti, uomini e donne, più e meno giovani, Quagliariello, Lupi, Gelmini, Cicchitto, Fitto, Biancofiore, Santelli. Guida il coro il segretario Alfano: «Scenderemo in piazza per difendere Berlusconi da una magistratura politicizzata». Non sarà «una presa della Bastiglia» ma «Berlusconi è il leader politico italiano più votato negli ultimi 20 anni e non può essere eliminato per via giudiziaria». Come se anni di inchieste, processi, condanne in primo e secondo grado poi finite prescritte tra assoluzioni e reati cancellati dalle leggi ad personam, non contassero nulla. Come se il Cavaliere fosse per grazia divina legibus solutus, al di sopra del dettato «la legge è uguale per tutti».
Il numero uno dell’Anm non può tacere. E affonda di nuovo durante la giornata. Si ripete: «Noi difendiamo il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e non i privilegi della magistratura». L’aria è pesante. Prima dell’Anm nei giorni scorsi era finito sotto attacco il Csm. E nei prossimi giorni sarà un crescendo.

l’Unità 10.3.13
Casaleggio agli eletti: alleanze vietate
Il guru del M5S minaccia: se disobbedite lascio il movimento
Grillo contro l’appello lanciato dagli intellettuali: «Se il Pd chiama, loro rispondono»
Un neodeputato: lo staff decide, noi eseguiamo
Il neosenatore Cotti: nessuna fiducia a Bersani o chi per lui, altrimenti rischiamo di scomparire
di Toni Jop


Casaleggio dice che se passa l’idea dell’accordo con qualsivoglia partito, lui se ne va dal Movimento. Sgomento generale e molte domande che si rincorrono: ok, ma Casaleggio chi è per poter decidere da che parte devono girarsi i gruppi parlamentari Cinque Stelle? E chi ha detto al povero Casaleggio che invece l’accordo si farebbe volentieri? E chi è che lo promuoverebbe volentieri in quel piccolo esercito di onorevoli e senatori tenuti dallo staff in una verginale latitanza rispetto ai mezzi di comunicazione di massa?
IN BICICLETTA
Conviene fermarsi e controllare le pezze d’appoggio di questa nuova puntata dedicata agli orientamenti e ai livelli di democrazia interna che spingono impetuosamente il movimento verso il cento per cento dei consensi. Intanto, il racconto di un nuovo senatore grillino, sardo e bocconiano, che si chiama Roberto Cotti. È lui che riferisce questo decisivo passaggio, di potere e malanimo, ai vertici stellati. Lo fa tornando a quei contatti riservati tra Grillo, Casaleggio, appunto, e i due gruppi parlamentari, in-
tercorsi nei giorni del loro emozionante battesimo pubblico. «Gianroberto Casaleggio ha detto che se decidessimo di dare l’appoggio a qualche partito, lui lascerebbe il Movimento Cinque Stelle»: questo lo spunto di Cotti, mentre annuncia che, tornando nei prossimi giorni a Roma, userà, da Ciampino, la bicicletta; per sostenere, afferma, «il nostro modello di mobilità». Mai buttare il tempo. «Nessuna fiducia – prosegue Cotti tornando ai ricordi di quei bei giorni e alle disposizioni raccolte – a Bersani o chi per loro. Se lo facessimo rischieremmo di scomparire».
La vedono così, o gliel’hanno fatta vedere così. Poi, muovendosi tra frattaglie di dichiarazioni e di ammissioni, eccoci alle parole utilissime di un altro nuovo eletto, Alessio Tacconi, circoscrizione estera europea, che nel suo sito facebook annota diligente: «Casaleggio come sempre ci ha confermato che il ruolo dello staff è quello di dare un indirizzo politico che i nuovi eletti avranno la responsabilità di trasformare in decisioni e iniziative». Così, si possono fare delle banali riflessioni: Casaleggio è lo staff, lo staff è la linea politica, i gruppi parlamentari sono tenuti a fare concretamente quello che decide lo staff, e cioè Casaleggio.
Ce n’è abbastanza per oscurare il cielo di Grillo, che fin qui non abbiamo mai nominato ed è, di questi tempi, una notizia. Grillo fa il megafono, Casaleggio fa lo staff, la linea la fa lo staff e se qualcuno non è d’accordo e si muove negandone le disposizioni, lui, come abbiamo visto, se ne va, si arrabbia forte e li saluta. Compreso Grillo: perché non avrebbe detto «io e Grillo ce ne andiamo», ha detto che se ne va lui.
Ma che bisogno ha questo esperto di sistemi di condizionamento di massa on line di metterla giù così dura? È chiaro che si fa solo quello che dice lui. Non a caso le materne preoccupazioni dello staff hanno provveduto a stendere un cordone di sicurezza triplo attorno ai teneri germogli parlamentari dei Cinque Stelle. Li hanno sconsigliati di stare con altri onorevoli, di accettare contatti con la stampa; si sono raccomandati affinché stiano tra loro. Sanno già, perché glielo ha detto sempre Casaleggio, che devono stare attenti a Facebook. Insomma, li hanno ibernati per tenerli al riparo dalle brutture di questo mondo corrotto e cattivo e sono quasi riusciti a convincere questo mondo che fare i parlamentari per i Cinque Stelle è una sfiga e una disgrazia, non fosse che anche l’onorevole stipendio tagliato alla bisogna è comunque meglio che niente stipendio.
In sostanza, colore a parte, da questo non nuovo modello di comunicazione con l’esterno escono tutti messaggi tesi a togliere a Bersani ogni speranza di intesa con il Movimento. Lo staff non vuole: questa è la democrazia a cinque stelle e il resto è fuffa. Sulla linea, ecco apparire, finalmente in questo diario quotidiano, il nome di Grillo: a lui si attribuisce, infatti, il post-editoriale inchiodato in testa al blog del Megafono in cui con abituale sarcasmo – non temono l’ulcera – deridono l’appello degli intellettuali in favore di una intesa tra Cinque Stelle e sinistra. Il divertito messaggio usa a piene mani Gaber («Gli intellettuali sono razionali, lucidi, imparziali») e la sua ironia sulla bistrattata categoria.
LE PAROLE DI GABER
Tra un brano e l’altro del grande cantautore, il pensiero di Grillo in materia: «L’intellettuale italiano è prevalentemente di sinistra, dotato di buoni sentimenti e con una lungimiranza politica postdatata... se si schiera lo fa per motivi etici, morali, umanistici su indicazione del partito. Quando il pdmenoelle chiama, l’intellettuale risponde. Sempre! In fila per sei col resto di due». È quanto: Grillo dà la sensazione di essere ancora afflitto dal vecchio Pci e dal suo, vero, rapporto organico con l’intellettualità di questo Paese. Magari fosse vero oggi. In secondo luogo, trova divertente trattare gli intellettuali come fossero grillini, e cioè due sberle e zitti, si fa come dice lo staff. Pardon, come dice Grillo.

l’Unità 10.3.13
Il 15 «marcia» grillina dal Colosseo alle Camere


«Il 15 marzo per la prima seduta del Parlamento vorremmo arrivare tutti a piedi, partendo dal Colosseo. Venite con noi ad accompagnarci fino alla porta». Così il neo deputato M5S Simone Vignaroli a una conferenza di attivisti a Cinque stelle a Roma annuncia l’iniziativa dei parlamentari del Movimento di Grillo e Casaleggio.
Non è l’unica iniziativa dei 5 stelle. I grillini fanno infatti sapere che promuoveranno attraverso la rete, la ricerca di «tutte le figure professionali che saranno utili ai gruppi parlamentari» del movimento di Beppe Grillo. Lo annuncia la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi finita nei giorni scorsi nella bufera per aver rivalutato «il fascismo buono» con un post sul sito del M5s e sulla sua bacheca Facebook. «Il 15 marzo informa la neodeputata entreremo nelle aule parlamentari, non lasciateci soli. Cerchiamo persone che vogliano aiutarci a far uscire dal buio questo Paese da affiancare ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. Sceglieremo i migliori tra i curricula che riceveremo, perché vogliamo svolgere un lavoro eccellente».

l’Unità 10.3.13
Grillo, gli intellettuali e la regressione politica
di Massimo Adinolfi


EH, GIÀ: QUAL È LA FUNZIONE DELL’INTELLETTUALE? NESSUNA, VOLETE CHE SI SALVINO SOLO LORO? NON SI DEVONO salvare i politici, che anzi sono i primi a dover morire, non si devono salvare i giornalisti, che non fanno informazione ma propaganda: volete che si possano salvare proprio loro, gli intellettuali, i più impannucciati di tutti? E perciò, sotto la definizione del Devoto-Oli che il blog di Grillo ossequiosamente riporta, gli intellettuali, colpevoli di essersi rivolti al leader dei Cinque Stelle per invitarlo a un supplemento di riflessione sulla proposta di formazione del nuovo governo, sono presi di mira in quanto buoni solo a lanciare appelli postdatati, mentre marciano intruppati, «in fila per tre col resto di due», sotto le comode insegne di Partito (la maiuscola la metto solo per un omaggio intellettuale alla tradizione, ché magari i partiti la meritassero ancora!).
Orbene, passi che ancora una volta Grillo, invece di accontentarsi di respingere cortesemente l’appello, senta in più l’esigenza di deridere i firmatari, rimane il fatto che la feroce ironia che riversa sul web (e solo là: altrove non si fida) ci lascia in debito di una risposta: preoccupato infatti di ridicolizzare gli intellettuali, e in particolare la variante specialmente abietta degli intellettuali italiani, non prova a dirci lui quale mai sia questa benedetta loro funzione, forse perché sospetta che non ne abbiano alcuna. Parassiti della società, sono buoni solo a firmare appelli, e a sentenziare col senno di poi.
E però si potrebbe provare a dire qualcosa al riguardo, anzi una cosa semplice semplice, e abbastanza inoppugnabile: la funzione dell’intellettuale è anzitutto una funzione intellettuale.
Lo so che è ovvio, ma siccome Grillo ci sta abituando a prendere di mira le persone, saltando a piè pari quello che dicono, molto meglio riformulare la domanda così: in cosa consiste la funzione intellettuale? Beh, in una cosa soltanto: in un’opera di distanziamento, in un esercizio di mediazione. Se Grillo oltre ai vocabolari consultasse pure gli antropologi oppure non oso dirlo i filosofi, ne troverebbe abbondante conferma.
Ma qui casca l’asino: perché chi vuol sentir parlare oggi di mediazione? Chi è disponibile a rimettersi alle parole di un altro, anche solo perché riporti le proprie? Nessuno, purtroppo. L’avversione nei confronti dei media tradizionali dei grillini va ben al di là di una critica (sacrosanta) dell’attuale assetto del sistema dell’informazione, per investire in generale l’insopportabile presunzione che le parole proprie possa essere mediate e interpretate dalle parole altrui. Non sia mai! Cosa c’è di più falso, che un altro parli al posto mio? Dunque: nessuna mediazione e, va da sé, nessuna rappresentanza. Il povero filosofo – o lo psicanalista, altro sciagurato pure lui che ha lavorato per tutto il secolo scorso su quanto sia ingannevole questo mito del «proprio» e dell’«autentico», è letteralmente schiantato, povero intellettuale, di fronte al nuovo, prepotente mito della democrazia diretta e della comunicazione immediata, alimentato dalla Rete: l’autopresentazione dei parlamentari, quello che non rilascia interviste ma solo comunicati, quell’altro che vuol mandare tutto in diretta (a proposito: perché il Quirinale le consultazioni non le fa davanti alle telecamere? Non vorrà forse inciuciare?). Uno si ricorda di aver appreso che altri possano saperla sul proprio conto più di se stessi, o di aver scoperto la propria più intima verità nello specchio di un saggio o in un romanzo, ma è tutto inutile: ormai trionfano così direbbe Hegel, che in fatto di mediazione la sapeva molto lunga solo degli «io» immediati e (Grillo me lo consentirà) spesso anche parecchio ingenui.
Perché c’è una bella differenza una differenza intellettuale, vorrei dire fra un «io» immediato e un «sé» riflesso. Poi Grillo rifiuti pure questa roba vecchia che sono gli appelli degli intellettuali. Rifiuti di parlare ai giornalisti, anzi alla variante abietta dei giornalisti italiani. Ma faccia il favore di risparmiare il valore della mediazione, il bene della diversità almeno nel luogo politicamente deputato, il Parlamento. E perciò non chieda più il 100% alle prossime elezioni. Perché il solo auspicare una roba simile è una spaventosa regressione politica. E pure intellettuale.

La Stampa 10.3.13
Vegani, complottisti, webbisti
Il partito Arlecchino di Grillo
Fra i sostenitori del MoVimento convivono posizioni e battaglie molto diverse
di Mattia Feltri

qui

Repubblica 10.3.13
Piazze, web e canali YouTube così Grillo ha costruito il palinsesto della spontaneità
Facce e voci dal basso, per una rivoluzione mediatica
di Michele Smargiassi

O È il talk show più sbilenco della storia, o è una rivoluzione. Forse la seconda. È lo stile de La Cosa, la contro-tivù di Beppe Grillo. Ma non è solo stile. È la punta di una rivoluzione copernicana della comunicazione politica su cui non conviene fare ironie.
La mano piantata dall’attivista del MoVimento davanti alla telecamera di Tgcom24, il 16 febbraio in piazza Castello a Torino, non intimava solo di inquadrare la piazza del comizio del capo, per «far vedere quanti siamo». Era un gesto simbolico, carico di significati. Non a caso è diventato un tormentone Twitter, #inquadralapiazza. Poteva essere #giralatelecamera, perché è questo il movimento che i cinquestelle stanno imprimendo alla scena mediatica: una torsione di 180 gradi del paradigma politico-televisivo berlusconiano (poi accettato da tutti) dominante da trent’anni. Un ribaltamento da osservare in sé, mettendo da parte le querelle sul populismo, il destra- o-sinistra, l’euro, la fiducia eccetera.
E qui, dire che Grillo vince perché sa usare la Rete meglio degli altri è cavarsela con poco. Non fossero bastate le piazze grilline colme di gente in carne ed ossa a smentire la mera virtualità del MoVimento, ecco un dato curioso che troviamo fra le pagine di Il partito di Grillo di Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini: i candidati 5Sstelle sono attivi sul Web meno di quelli Pd (il 97% dei quali è presente su almeno tre social network) e perfino di quelli del Pdl (75%). Solo il 42% dei grillini va oltre la classica doppietta Facebook-Twitter. Ma sapete dove non li batte nessuno? Su YouTube. Dove i loro video sono da sette a venti volte più visibili di quelli dei concorrenti.
Il mito del “partito Web” è da ricalibrare. Per il MoVimento, la Rete come luogo di democrazia dal basso è più che altro un richiamo mitico, una personificazione dell’idea di popolo, «ecco come ha reagito Internet». La “piattaforma” certificata per le votazioni online, più volte promessa, non esiste ancora, Gianroberto Casaleggio è tornato ad annunciarla senza troppa enfasi ai neoeletti riuniti a Roma. Le reti dei meetup grillini, versione Web delle sezioni di partito, sono soprattutto uno strumento di mobilitazione (formidabile: nel 2012 sono raddoppiati sfiorando i centomila iscritti). Il blog di Beppe Grillo, con un paio di milioni di follower, “sede del MoVimento” a termini di “Non-Statuto”, non è un’agorà da polis greca, è una provvista di argomenti da spendere, e uno scandaglio di umori. Le discussioni lunghissime appagano, ma non decidono. Però rafforzano la linea: e non c’è bisogno di sospettare trucchi da e-marketing, come infiltrare falsi utenti o dissimulati influencer, basta l’entusiasmo dei fedelissimi a fare da contraerea implacabile alle obiezioni sgradite.
Il Web è solo la condizione tecnica di un palinsesto più sofisticato, che intreccia corpi fisici e schermi luminosi in un cocktail per spiazzare gli avversari. Lo capì Berlusconi, quando inventò il formato politico della tivù commerciale, sgonfiando le tribune elettorali Rai, mettendo Iva Zanicchi al posto di Jader Jacobelli, traslocando i politici nei salottini dell’intrattenimento. La sua prima apparizione “politica” fu sulla poltrona di Funari. Gli altri dovettero adeguarsi mentre lui, sul suo terreno, partiva in vantaggio.
Bene, Grillo trent’anni dopo fa lo stesso. Butta per aria il vecchio tavolo e impone il suo. “Spegni la tivù e accendi La Cosa” è la sfida del canale condotto dal dj Matteo Ponzano, milanese dai toni affabili; strumento nato per supportare le dirette dello Tsunami Tour, non a caso è stato mantenuto in vita. Fatelo: accendetela. L’impatto è straniante. Altro che la calza di nylon sulla telecamera, qui gli errori imperdonabili nella tivù classica sono commessi di proposito. Inquadrature storte da webcam, pixellature, sonoro approssimativo, colori improbabili, tempi scoordinati, volti tagliati dai bordi dello schermo. Niente salotti, i dibattiti sono conference callcon tre o quattro schermini in fila che si ingrandiscono quando uno parla. Ma è l’estetica Skype o Facetime, ed è familiare a milioni di persone. Comunica il messaggio: “adesso l’informazione sei tu”. «Non è più televisione, il palinsesto siamo noi, non abbiamo spettatori ma interattori», butta lì con intuito Ponzano. Il telespettatore berlusconiano era trattato come un ospite gradito: qui viene trattato come fosse il padrone di casa, anche se poi i contributi “dal basso” sono più che altro interventi in lunghe chat, clip autoprodotte, interviste sui bus o nei mercati raccolte da Piero Ricca (quello che gridò «Buffone» a Berlusconi). Ma il mito della dis-intermediazione, l’abolizione del filtro dei giornalisti, sembra avverato: mentre in realtà è una diversa mediatizzazione. Genio naturale della costruzione della spontaneità è Salvo Mandarà, ingegnere siciliano trapiantato ad Abbiategrasso, apparso con telecamerina sui palchi di Grillo e poi “scritturato” sempre più ufficialmente, fino alla consacrazione come una delle voci del movimento.
Salvo channel5 puntozero ha debuttato il 6 marzo: guardate i suoi editoriali a braccio dal titolo Miscappaladiretta, ripresi dal cruscotto dell’auto, o sotto l’ombrello, o nell’officina del meccanico che «mi sta facendo il tagliando» o in cucina fra rumori di stoviglie, e ne capirete la forza mediatica, forse costruita, forse naïf.
Il tecno-pauperismo esibito visualizza i confini di un orgoglioso “altrove”, un po’ come negli anni Sessanta fece il ciclostile. In questa luce si capiscono meglio sia la “strategia dell’assenza” dai media tradizionali che le tirate di guinzaglio a chi è tentato dai network: «andare in tivù è come andare al proprio funerale», niente pietà né fiori al nemico morente, attenti, le «sette sorellastre» della tivù possono ancora azzannare come lupi feriti, meglio costringerle a inseguirci col fiatone, come i cameraman dietro al Grillo mascherato sulla spiaggia di Marina Bibbona, siparietto altamente metaforico. Ecco perché YouTube e le telecamerine sono preferite a Twitter. Perché ostentano di ribaltare la direzione della comunicazione, da verticale a orizzontale, senza però rinunciare all’ingrediente ormai insostituibile di ogni successo politico: il corpo.
Importato nella politica un secolo fa da D’Annunzio, messo in sordina dai doppipetti democristiani, riesploso iperbolicamente con Berlusconi, il corpo è anche nel nuovo palinsesto «l’arma più forte », come diceva Mussolini del cinema. Grillo, uomo di scena, lo sa meglio di tutti. Le sue tranceattoriali sui palchi che misura a falcate, che riempie di sé, la sua voce dalle escursioni estreme, i gesti che sembrano acchiappare lo spettatore (surrealmente duplicati da quelli del traduttore per non udenti), il suo vocabolario irridente, la veemenza sdoganata e sbattuta in faccia alla «Lourdes linguistica» dei suoi critici, la neolingua che trasforma onorevole in cittadinoe dirigentein portavoce, tutto questo, replicato migliaia di volte in streaming, produce un effetto di autoriconoscimento, distanza abissale dal nemico, identificazione ed amalgama. «Non siamo più un movimento, siamo una comunità! », «Non è un comizio, è uno scambio d’affetto! », gridava Grillo abbracciando le sue piazze, che rispondevano empatiche. È così che il tribuno-aspirapolvere è riuscito dove i movimenti anti-casta (radicali, girotondini, popolo viola...) hanno fallito: nel raccogliere l’universo polverizzato e centrifugo delle mille proteste in un unico frame, dove il principio “uno vale uno”, più che un inno all’individuale, è l’apologia dell’omogeneo. «O vinciamo come gruppo o ci eliminano come singoli», insegna Casaleggio d’aprés Al Pacino. E questo è qualcosa di molto più profondo di un “partito del Web”.

Corriere 10.3.13
La voce dei portavoce Una stella fra le stelle
In tv è diventata subito un personaggio: poi l’oblio
di Aldo Grasso

Si chiama Marta Grande, ha 25 anni ed è di Civitavecchia. L'hanno già ribattezzata la «Pivetti grillina», perché nelle frenetiche trattative del dopo voto, si è parlato di lei come possibile presidente della Camera. Se succedesse, speriamo non diventi poi opinionista televisiva. Subito dopo le elezioni, è apparsa in collegamento a «Otto e mezzo» per ribadire, con un sorriso monellesco, un concetto unico: noi non ci poniamo il problema della governabilità, noi votiamo le idee che ci piacciono, le idee che siano in linea con le nostre.
Lilli Gruber, da maestrina, l'ha interrogata e Grande si è ingarbugliata fra voto di fiducia (passaggio parlamentare indispensabile per la creazione di un governo) e questione di fiducia.
Nel baraccone mediatico è già una stella. Si scopre che è laureata in America, a Huntsville (Alabama) e che ora sta conseguendo una laurea italiana, in Relazioni internazionali a Roma Tre. Le manca solo la tesi.
Ha cominciato a frequentare il blog di Beppe Grillo (come un tempo si frequentavano le sezioni di partito) da poco più di un anno, ma alle parlamentarie del Movimento è risultata la seconda più votata della circoscrizione Lazio1: solo 335 voti, pochini ma sufficienti. Nel video di presentazione propone la riduzione del traffico di Civitavecchia, la tutela dei parchi e un ambiente salubre e vivibile per tutti (un programma minimo per una laureata in America, ma sufficiente). Ha fatto anche la volontaria per Greenpeace.
Di Grillo ha detto: «È il megafono del Movimento, niente di più». Non si sa se il diretto interessato l'abbia presa bene. Sta di fatto che dopo le prime apparizioni (in molti l'hanno accusata di pressapochismo) è scomparsa.
A prima vista Marta risulta più affabile del «Trio Bersani» (la portavoce del comitato Alessandra Moretti, la direttrice di YouDem Chiara Geloni e il portavoce del segretario, Stefano Di Traglia), però i grillini dovrebbero dimostrare di non essere solo portavoce del loro portavoce.
Il problema non è di votare le idee che piacciono, ma di averle. Non di dire ciò che pensa la «democrazia digitale», ma di pensare.

Repubblica 10.3.13
La grillina del “fascismo buono”: “L’articolo 18 è un’aberrazione”
di Giovanna Vitale


ROMA — L’articolo 18? «Un’aberrazione». Chissà se Grillo lo sa. Chissà se il leader del Movimento 5 Stelle è a conoscenza del fatto che mentre lui tuonava contro il ministro Fornero e la sua riforma del lavoro, demolita per mesi pezzo a pezzo in ogni piazza reale o virtuale, sulla stessa Rete una delle sue attiviste più alacri e faconde – quella Roberta Lombardi che prima è riuscita a farsi eleggere il Parlamento e poi a farsi nominare capogruppo alla Camera – difendeva a spada tratta la legge del governo Monti. Schierandosi senza se e senza ma contro il reintegro dei lavoratori, anche quelli licenziati senza motivo o giusta causa, in perfetta linea con il ministro “Frignerio” ma in evidente antitesi con il leader maximo che, giusto per far capire come la pensa, un anno fa aveva pubblicato sul suo sito una vignetta con il premier dentro una bara a forma di automobile e sopra la scritta “articolo 18”.
E così dopo “il fascismo buono” ecco una nuova perla dell’onorevole grillina. Che il 6 dicembre, sul forum romano del Movimento, a precisa domanda di un iscritto (“Come valuti la riforma del mercato del lavoro, segnatamente sotto il profilo della modifica dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori? Sei favorevole al testo novellato o appoggeresti le iniziative referendarie volte a ripristinare il testo originario? ”) rispondeva senza esitazione alcuna che «rintrodurre il testo così come era, è a mio avviso un errore». E’ consapevole, la Lombardi, che «probabilmente su questo punto sono in contrasto con molti» scrive. Ma lei ha le sue idee e le esprime con veemenza, errori di ortografia compresi: «Pensare di poter reintegrare un lavoratore nel posto di lavoro da cui è stato licenziato senza giusta causa o giustificato motivo è secondo me un'aberrazione – prosegue - e crea uno stato di tensione (relazionale, discriminatoria o di natura economica) maggiore tra datore di lavoro e lavoratore stesso di quello che ha dato origine al licenziamento». E pazienza se chi viene cacciato è vittima di un abuso, una prevaricazione, un’ingiustizia. «Meglio a mio avviso prevedere invece un veramente congruo indennizzo a favore del lavoratore ove venisse riconosciuta dal giudice del lavoro la illeggitimità (scritto con due “g”, ndr) del licenziamento. Qualcosa che gli dia veramente la tranquillità di potersi guardare intorno in cerca di nuove opportunità».

Repubblica 10.3.13
Parla la base: questa sinistra ci ha deluso, ha sempre le stesse facce, ma condividiamo i singoli punti
Nell’assemblea dei militanti a Roma “Bene le proposte, ma niente accordi”
di Gabriele Isman


ROMA — «È un appello di speranza che ci dice “vediamo cosa sapete fare”. Un’alleanza col Pd non è la strada da prendere ma se vengono presentate proposte come queste che vanno nella direzione del programma del MoVimento, vanno approvate ». Martina è una studentessa di 23 anni, e ieri ha partecipato alla sua prima riunione a 5 Stelle, alla Città dell’altra economia, nel primo meeting romano per accogliere i neo attivisti dopo il boom post-elettorale. «È la prima volta che mi avvicino alla politica: prima mi faceva tutto schifo. Poi ho scoperto il Movimento di Grillo e ho capito che la politica siamo noi». Nell’ex Mattatoio di Testaccio, fuori dal padiglione dove si tiene la riunione, capannelli di persone si confrontano anche sulle liste da votare online per le prossime elezioni romane nell’ultimo week end di maggio. Alessio Donigi, 32 anni, lavoratore precario, legge l’appello apparso ieri su Repubblica poi riflette ad alta voce: «Se Berlusconi è entrato a far parte del panorama politico è perché la sinistra lo ha permesso negli ultimi 20 anni. Ha avuto svariate occasioni per mandarlo a casa e non lo ha fatto, ma se nell’appello vi sono proposte proprie del MoVimento, saranno approvate. La verità è che siamo diventati il primo partito italiano senza neanche essere un partito e ora tutti ci tendono la mano, anche quella sinistra che ai tempi del primo V-day ci attaccava citando soltanto il nostro linguaggio scurrile. Il MoVimento ha teso più volte la mano alla politica ma ne è sempre stato rifiutato: ora è troppo facile corteggiarci con la scusa di Berlusconi». E Donigi rincara: «Perché da elettore non del MoVimento non voglio che ci mettiamo con la sinistra? Hanno già perso troppo tempo e le loro facce sono sempre le stesse ». Simili le parole di Marco Pellicciari, 32 anni, laureato e cuoco disoccupato: «La sinistra ha avuto più occasioni di eclissare la figura di Berlusconi e non l’ha mai fatto. Se però in Parlamento emergono proposte valide come quelle dell’appello, è giusto che siano vagliate. Ma non ci sono punti sufficienti con quei partiti e quelle persone che sono andate a braccetto per anni col sistema». Le proposte dell’appello degli intellettuali non spiacciono alla base del movimento di Grillo e Casaleggio: «L’appello indica l’unica strada possibile. Indica provvedimenti come la riforma della legge elettorale, oltre alla diminuzione del numero dei parlamentari e dei loro privilegi, che avrebbero già dovuto essere realizzati dai passati governi. La verità è che a questo Paese serve un reboot per farlo ripartire. Io tanto non ci sarò: il mese prossimo lascio l’Italia e vado a vivere in Australia. Ho studiato per passione, ma la mia laurea con il massimo dei voti in Economia sembra che non serva a questo Paese. Parto, e spero di non tornare mai più» dice Stefano, 31 anni. Andrea, 52 anni, si definisce «lavoratore eco-sostenibile». «Da casa col webmarketing faccio lavorare 20 persone. L’appello? Non l’ho letto, ma lo leggerò, però Bersani mi pare una brava persona. A questo Paese serve un reset completo, e glielo dice uno che è tornato a fare politica dopo 30 anni e dopo aver persino lavorato alla Camera come restauratore». All’interno della sala in cui i neofiti approfondiscono le tematiche del MoVimento, tra le proposte c’è anche il farsi il sapone in casa, e si parla di temi come la depletion geologica, il consumo dei Paesi esportatori di petrolio e il suo decadimento qualitativo. Francesca, 47 anni, impiegata, sull’appello dice: «Facessero pure il governo, noi non siamo contrari all’esecutivo del Pd. E se portano avanti le proposte che sono nel nostro programma, le approviamo. Non è vero che vogliamo sfasciare tutto».

Corriere 10.3.13
Il referendum sull'euro non entusiasma
Contro la lira anche il 67% dei 5 Stelle
di Renato Mannheimer


Beppe Grillo ha proposto, come una delle prime iniziative che un governo dovrebbe prendere, l'indizione di un referendum (che, secondo il leader genovese, dovrebbe svolgersi online) sull'opportunità o meno che l'Italia resti nell'euro o che si ritorni alle vecchie lire. Quest'ultima ipotesi darebbe, a suo avviso, più libertà di movimento alla politica finanziaria e, specialmente, la possibilità di stampare moneta e di svalutare, come si faceva periodicamente prima dell'avvento della moneta unica.
Ma la maggioranza della popolazione (70%) non ritiene opportuna questa iniziativa (il 36% la reputa «per nulla opportuna» e il 34% «poco opportuna»). Appaiono in particolare più avversi gli elettori più giovani e quelli con titoli di studio più elevati. Ma, ciò che appare più importante, risulta sfavorevole all'idea di indizione di un referendum siffatto anche la netta maggioranza (65%) degli elettori del Movimento 5 Stelle, così come di tutti gli altri partiti, in particolare del Pd.
C'è però una quota importante di elettori (30%) che vede con favore una consultazione popolare sulla permanenza nell'euro. Come era facile immaginarsi, costoro si trovano in particolare, seppure in minoranza (34%), nel Movimento 5 Stelle, ma in misura analoga anche tra i votanti del Pdl. In più, una quota elevata (35%) di fautori del referendum non ha partecipato alle ultime elezioni. Ma la percentuale massima di chi auspica un voto sull'euro si trova tra gli elettori della Lega Nord (44%). Insomma, il sostegno al referendum è minoritario in tutti i partiti e si distribuisce in quasi egual misura tra gli elettori del M5S e quelli del centrodestra, oltre agli astenuti.
In ogni caso, se fosse indetto il referendum, quasi tre italiani su quattro (74%) voterebbero per il mantenimento dell'euro. Solo il 16% dichiara che opterebbe per il ritorno alle vecchie lire. Ancora una volta, appaiono più favorevoli all'euro i più giovani e i possessori di titoli di studio più elevati che, come è noto, sono più diffusi tra le nuove generazioni. Il favore all'euro è maggiore nel Nord, ma anche nel Meridione la netta maggioranza opta per il suo mantenimento. E, anche in questo caso, la netta maggioranza dei votanti per il M5S (67%) dichiara di volere conservare l'appartenenza all'euro. Il favore più diffuso per il ritorno alla lira si trova invece nell'elettorato della Lega Nord (25%) e, in misura ancora maggiore (26%), tra quanti alle ultime elezioni si sono astenuti.
Questi dati mostrano come il sostegno all'euro venga tutt'ora espresso dalla gran parte della popolazione, anche se vi è una consistente minoranza che esprime una contrarietà. Il fatto è che un ritorno alla lira verrebbe visto come un avvenimento negativo dalla maggioranza (82%, tra i quali il 53% lo reputa «un vero disastro per l'economia») degli italiani. È un'opinione che si è andata accrescendo nel tempo: a giugno la sosteneva il 70% e a settembre il 74%. Nuovamente, è il caso di notare che, malgrado tutto, la maggioranza (77%) degli elettori per il M5S ritiene un'uscita dall'euro come un dato negativo.
Al di là del risultato in sé, che conferma un atteggiamento della popolazione già rilevato più volte (e che mostra come le più importanti aggregazioni antieuro siano la Lega Nord e i cittadini più lontani dalla politica come gli astenuti), anche questi dati indicano come gli atteggiamenti e gli orientamenti degli elettori del M5S non seguano sempre e necessariamente le opinioni dei vertici del Movimento. Lo si è visto anche riguardo alla possibilità di partecipare a un governo assieme al Pd: la base elettorale di Grillo risulta tendenzialmente più aperta della leadership cui fa riferimento. Insomma, il voto per il M5S sembra essere stato in molti casi più l'espressione di una protesta (spesso giustificata) verso i partiti tradizionali che l'adesione in toto alle idee e ai programmi del Movimento. Ciò significa che i partiti tradizionali possono sperare di «recuperare» i voti del M5S? Sì, ma dipende dalle proposte che i partiti sapranno fare e dal loro grado di persuasività.

il Fatto 10.3.13
E se dopo arrivano i bastoni?
Era una spallata poderosa per abbattere la porta e impossessarsi della cittadella del potere
Ma non c’era la porta, l’irruzione è stata facile e immediataGrillo e dintorni
Invertire la marcia prima dell’irreparabile
di Furio Colombo


Era una spallata poderosa per abbattere la porta e impossessarsi della cittadella del potere. Ma non c’era la porta, l’irruzione è stata facile e immediata, e nasce di qui il frastornato disorientamento dei vincitori. Pensavano di dover disputare a una a una, se necessario con durezza, i punti di controllo. Hanno trovato impiegati disorientati e divisi che prima hanno fatto largo attoniti, poi hanno cominciato una sorta di goffo corteggiamento. La risposta è stata rude e ha due voci. Una, la più istituzionale parla di lupi in agguato (in un paesaggio che è allarmante per la sua inerzia, non per la sua aggressività) e di violenza che dovrà seguire per forza le buone maniere se quelli dentro la Bastiglia espugnata non cesseranno la resistenza (ma non ci sono mai state né buone maniere né resistenza). L’altra voce si è sentita verso la fine del programma Servizio Pubblico di Santoro (7 marzo). Un partecipante che era, o sembrava, un elettore esasperato del Movimento 5 Stelle, ha gridato più e più volte che “sta per venire la rivolta dei bastoni” e che l’esasperazione è tale che si può rispondere solo in modo brutale e finale. Era, ho capito, un piccolo imprenditore reso furibondo da qualcosa fra le tante omissioni di un governo (Monti) sbadato verso (dunque contro) le persone, come quello di Berlusconi era stato sbadato verso (dunque contro) lo Stato.
MA È TOCCATO a quella persona, apparentemente “semplice” e “comune” dare un annuncio che potrebbe, in poco tempo, rivelarsi una profezia. E che personaggi più illustri e più noti della politologia e del sondaggio dovrebbero essere in grado di intravedere. Diventa evidente, infatti, che il M5S ha visto e raccolto con bravura il vero frutto di una lunga stagione di danno, di sofferenza e di inerzia politica: la rabbia. Ma ha avuto una bravura in più. Non ha promesso di rifare bene ciò che è stato fatto male, di mettere in moto ciò che è rimasto fermo, di “risarcire” i lavoratori abbandona-ti (secondo la bella espressione di Adriano Olivetti, che intendeva dire “non basta il salario a compensare il lavoro”).
Ha promesso di ripagare la rabbia con la vendetta. Questa promessa porta a schieramenti vasti e destinati a crescere. Nei momenti di patimento della storia è grande il numero di coloro a cui non basta più di essere la folla della rabbia, e che sono disposti a farsi avanti per partecipare alla vendetta. È vero che, per coloro che lo ascoltano e lo seguono come un culto, il nuovo movimento ha piani dettagliati e mai sentiti prima per un dopo inimmaginabilmente diverso dal prima, lungo percorsi che sembrano strani ma certo sono nuovi.
È anche vero che c’è, in mezzo, fra il prima della politica (aggiungere tutte le definizioni in gran parte vere, purtroppo, del M5S sulla politica tradizionale) e il dopo di un mondo diverso, una smilitarizzazione anche rituale, in cui si abbandona pubblicamente lo strumento della vendetta e “la giornata dei bastoni” invocata da persone che o si uccidono o sparano e uccidono altri prima di uccidersi o cercano di darsi fuoco. L’errore di chi fronteggia e vuol tenere a bada il M5S è credere che si possa “forzare” o comunque ottenere quella smilitarizzazione con abile e astuta mossa della politica tradizionale. È un errore e una illusione.
Ma anche il M5S dovrebbe sapere, almeno dai libri di storia contemporanea, che l’impegno di vendetta che mobilita una folla vincente non è facile da smobilitare. Nel dopo tragedia italiana del 1945 ci è voluto uno come Togliatti, capo potente della parte estrema dei “nuovi” (dunque la parte votata alla violenta riscossione del debito) per fermare e impedire la stagione della vendetta, e far seguire subito la ricostruzione più o meno con la partecipazione di tutti. Oggi, in questo altro “dopo” che non è neppure cominciato, ci sarà un Togliatti (o, se volete l’esempio della storia recente francese, uno come De Gaulle)? L’inversione di marcia di cui sto parlando (il movimento vince e torna a raccogliere il resto del Paese invece di espellerlo) è difficile, e lo sarà ancora di più in caso di rafforzamento e di crescita (che al momento resta probabile).
VUOL DIRE accettare la responsabilità del bene comune, senza rischiare lo sfogo della distruzione. Vuol dire passare da una opacità e misteriosità stile “underground” (che consente anche strani sbandamenti su fatti fondamentali della Storia) a una condivisione aperta e – almeno intenzionalmente – affettuosa dello spazio conquistato. Vuol dire sapere subito che la contro-casta, se non si scioglie nella condivisione di progetti e di visione comune, diventa “la casta due”. Col tempo sarà altrettanto odiosa. Vuol dire trasformare il club, fondato su una affiliazione che diventa subito disciplina, in una comunità aperta, civile, rispettosa, attenta ai diritti degli altri (non si parla mai di immigrati, di rom, di veri poveri, di carcerati) e in movimento verso un orizzonte non di carismatici addetti ai lavori, ma di aperta e libera partecipazione, critica inclusa. Bisogna sapere che passaggi come questi, quasi mai avvengono senza traumi (che vuol dire pericolo fisico ed esito imprevedibile). Attenzione a proclamare la comunità senza leader. Non esiste. Ma il vuoto crea sempre un leader fortissimo e unico. Sarebbe un progetto antico e non indolore.

l’Unità 10.3.13
Cultura è lottare contro l’avvilimento dei cuori
di Davide Rondoni


STRUGGIMENTO. COSÌ HA SCRITTO ANDREA DI CONSOLI IN UN PEZZO CHE QUESTO GIORNALE HA PUBBLICATO IERI. STRUGGIMENTO PER L’ITALIA. LO HA DICHIARATO, impudicamente ma senza nascondere la faccia il poeta e scrittore. E non c’era retorica, ma solo una miseria a mani nude. Le mani nude delle parole. Contro la malora. Quella che chiunque non sia accecato vede in notizie di suicidi e ammazzamenti, di violenze verbali. Di fiori neri che si aprono nelle case visitate in misura sempre più vasta da fatica e solitudine. Un lacrimare intellettuale che lo scrittore ha offerto non per rivendicare una ragione personale o di parte, ma per lanciare un grido. Come per dire: nessuno ha ragione se il Paese va a fondo. Passare dal grillino «vaff a tutti» al grilletto e «poi tutto aff» non è così remoto. Si va a fondo in un avvilimento delle vite, provate dalla crisi economica, in un avvilimento dei rapporti stretti tra gioco della finzione (virtuale o retorica) e morso dell’interesse. Insomma, in un avvilimento del popolo reale che siamo tutti. È come se stessimo perdendo la nostra particolare luce. Quella luce strana e venata di ombre che però ha sempre distinto l’essere italiani non come banale patriottismo o come macchiettismo, ma come consapevolezza d’esser nutriti da grandi tradizioni cristiana, laica e socialista capaci di affrontare tempeste e paludi, con la fierezza bizzarra d’esser concittadini di santi, poeti, navigatori, inventori, e gente di vario ingegno. Un popolo da sempre (non dal 24 marzo) ingovernabile non solo perché indisciplinato e pronto a votare «l’antipolitico» di turno, ma anche perché educato a diffidare di governi in vario modo «stranieri» nel passato o più di recente. Un popolo che ha nelle viscere il fatto che la prima politica è vivere. Che è in una certa sana misura restìo ad affidare alla politica e alle sole istituzioni il realizzarsi del bene comune che nasce innanzitutto come condivisione di base, come mettersi insieme. Questa perdita di luce chiede a chi fa cultura d’esser guardato senza i paraocchi della lotta politica faziosa. Invece il mondo della cultura è spesso più fazioso e sterile della politica. Le incapacità di ascolto del diverso sono frequenti in un mondo culturale fatto di giri autoreferenziali, intristiti e impigriti nel sentirsi dalla parte giusta. Già a metà degli anni 70 Pier Paolo Pasolini che viveva nella città dove vivo anch’io, Bologna, intravvedeva in questo luogo pur ricco di fermento la mancanza di un vero senso dell’alterità e una chiusura di sapore conservatore, se pur ammantata da slogan progressisti.
Come avvisava il grandioso tremendo Baudelaire, le civiltà non finiscono per la crisi di una o dell’altra istituzione ma per «l’avvilimento dei cuori». Ora compito degli uomini cosiddetti di cultura è combattere contro l’avvilimento dei cuori. Occorrono coraggio e umiltà per guardare dentro al reale e ai suoi movimenti. Di leggere non solo in chiave politica la verità delle cose. Di struggersi, appunto, per la malora che avanza senza opporre solo i facili «j’accuse» su cui è semplice costruire carriere. Ci vuole coraggio, cioè cuore, prendere sul serio l’esigenza di verità e di giustizia che animano il petto non avvilito. La cultura che ama definirsi di sinistra ha grande responsabilità in questo compito. E lo ha chi come me è una specie di cristiano «anarchico». Ci sono due cose in questa malora, ad esempio. Le vedo grazie anche a un’attività di carità solidale che realizzo con amici verso i poveri della mia città. Una è la mancanza di speranza. La quale spesso avvelena specie chi non è povero davvero. Come se l’unico modo per affrontar la crisi fosse un cinico cavarsela o un vacuo aspettare tempi migliori. Dunque cosa nutre ora la speranza? Possibile puntare solo sull’attuale riduzione di tutto a un orizzontale individualismo (economico, etico, politico)? La continua rivendicazione di diritti individualistici in ogni campo non porta a disegnare un profilo di persona grottesco, sempre in lotta per l’affermazione di sé e incapace di sacrificio, di lavoro per qualcosa di più grande di sé? La crisi demografica, la carenza di iniziativa giovanile e la diseducazione all’arte sono più che un segnale. La seconda cosa è l’affermarsi di una presunta distinzione «antropologica» tra le persone. Come se la scelta politica fosse indizio di una natura diversa, invece che semplicemente una valutazione sociopolitica. Ho sentito troppo spesso in questo periodo parlare degli «altri» come se si trattasse di subumani, diversi solo perché scelgono una linea o un leader differente. La politica, si sa, deve teatralizzare certe differenze. E visto che noi siamo un popolo «teatrale» qui tutto ciò avviene con un certo pur gustoso «colore». Ma è compito della cultura far esistere anche un altro teatro, più ombroso e profondo, e però anche più libero e bello, in cui lo struggimento per il bene di tutti sia riconoscibile, sia fuoco, pane di parole per un rilancio sempre positivo del vivere.

l’Unità 10.3.13
Così, davanti al supermercato, ho visto crescere una rivoluzione
Non c’è solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro al voto, c’è anche tanto risentimento
di Michele Nicoletti


CHIUNQUE ABBIA FATTO LA CAMPAGNA ELETTORALE VOLANTINANDO FUORI DAI SUPERMERCATI là dove hai modo di incontrare lo spaccato del Paese reale e non una sua fetta che ti scegli a piacimento perché a fare la spesa ci vanno tutti si è reso facilmente conto che era arrivato il dies irae, il giorno dell’ira e della punizione divina. «Fate campagna elettorale con i soldi nostri» dicevano i pensionati. «I soldi per pagarvi i volantini lo Stato ve li dà, a noi non dà i soldi per comprarci il pane. È giustizia questa? È uguaglianza di trattamento?» Agli imprenditori piaceva l’idea di sbloccare i crediti che le imprese vantano nei confronti dello Stato, ma la musica era la stessa: «Non ci importa quanto siete pagati, ma perché i vostri crediti non si bloccano mai? Perché ogni mese arrivano puntualmente i pagamenti delle indennità, dei costi per i gruppi consiliari, dei rimborsi elettorali e i pagamenti alle imprese non arrivano mai? Bloccate i finanziamenti ai partiti fino a che non avrete sbloccato i crediti alle imprese, così sarete più credibili e convinti quando vi batterete per sbloccare tutti i crediti, i vostri e i nostri! » Di nuovo il problema dell’uguaglianza di trattamento. Insomma non era difficile respirare l’atmosfera che prepara i grandi rivolgimenti, le grandi rivoluzioni.
E venivano alla mente le pagine straordinarie che Tocqueville, nel suo «L’ancien regime e la rivoluzione», dedica al crollo dell’aristocrazia francese allo scoppio della Rivoluzione. La nobiltà francese era morta anzitutto nel cuore della gente. Per secoli il sogno di ogni persona era stato quello di nascere nobile o di poter conquistare un qualche grado di nobiltà con la spada, il commercio o l’intrigo: la nobiltà era l’oggetto del desiderio. Ora, quasi all’improvviso, era diventata l’oggetto del disprezzo e di un odio profondo, perché aveva perduto la sua funzione sociale. Detentrice di privilegi ingiustificati, svelava la sua natura di classe parassitaria: non solo inutile, ma dannosa. E come non abbiamo fatto ad accorgercene, noi, cresciuti sui banchi di scuola imparando i versi del Parini sul «Giovin Signore»: colui «che da tutti servito a nullo serve»? Gli aristocratici come «sanguisughe» del popolo. Per questo da eliminare.
Non c’è solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro al voto, c’è anche risentimento. Bisogna riandare alle pagine di Nietzsche sul risentimento per capire il suo nesso profondo con il populismo novecentesco. Odio verso tutto ciò che sta in alto. Non potendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E dunque identificazione con chi propone di abbattere, azzerare, mandare tutti a casa. Non è vero che l’umiliazione di chi sta in alto non porta immediato giovamento alla condizione del risentito. Non si capirebbe il ruolo della satira. E non c’è forse uno strabordare della satira nella politica italiana? Nel dileggio di chi sta in alto, nel vederlo cadere, inciampare, balbettare, nella dissacrazione esasperata, nella sua spoliazione vedo compiersi un’anticipazione del giudizio finale, quando arriverà la grande Eguagliatrice. Chi ripete che i tagli ai costi della politica non muterebbero di molto le condizioni del Paese, sembra non vedere questa dinamica: la condizione di privilegio è insopportabile alla vista. Tanto più quando quella «aristocrazia» non è il frutto di una conquista militare o di una potenza economica, ma quando è il frutto della rappresentanza popolare. Insopportabile non è il miliardario, ma il popolano che in forza del mandato popolare si eleva e si sottrae al destino di miseria del suo padrone: il cittadino.
«Non chiamatemi onorevole, ma cittadino» dicono i neoeletti del Movimento 5 Stelle in Parlamento. Basterebbe questo per respirare aria da Rivoluzione Francese. Come non sentire in questa parola le antiche aspirazioni dei levellers all’uguagliamento? Un po’ di Rousseau, un po’ di anarcoprimitivismo. L’onore ci insegna Montesquieu è il tratto distintivo delle monarchie e della nobiltà ad esse legata. Nelle repubbliche l’unico onore che può essere tributato è quello a chi ha servito la patria, non certo a chi si è servito di essa. E quanto molti «onorevoli» precedenti hanno disonorato la funzione di rappresentanti del popolo? Davanti ai supermercati non è facile spiegare la funzione dei partiti, snodo essenziale delle democrazie rappresentative. «Se ritenete che siano così importanti dicono perché non ve li pagate?» «Se non credete voi, fino in fondo, in ciò che fate, se non ci credete al punto di sacrificare qualcosa di vostro per questo ideale, perché dovremmo crederci noi?» E noi a parlare dei rischi del populismo e dell’involuzione autoritaria di una democrazia plebiscitaria. E allora l’inevitabile ironia: «Perché Sturzo, Gobetti, Turati e Gramsci ricevevano soldi dallo Stato?» In tanti discorsi di casa nostra sui partiti permane ancora l’idea del partito come Grande Mediatore secondo quella catena di successione teologico-politica che dal Cristo dei primi secoli va alla Chiesa medievale e poi allo Stato moderno e infine al Partito contemporaneo, secolarizzazioni successive del Corpo Mistico, retto da un funzionariato che è l’esatta replica del clero organizzato. Ma davanti al supermercato una signora si ferma davanti al nostro gazebo, posa le borse a terra e sconsolata ci dice: «Pure il Papa si è dimesso ed è tornato umano. Ed era stato eletto dallo Spirito Santo. E voi che siete stati eletti da noi, quando tornate umani?».
E dunque questo è il tempo di tornare umani, di spogliarsi della natura divina e di assumere fino in fondo la conditio humana. Al populismo non si reagisce riproponendo il paternalismo delle oligarchie o quello delle elites tecnocratiche, ma riproponendo con coraggio la via di un nuovo repubblicanesimo che metta al centro la sovranità del popolo e la centralità del Parlamento. Non sarà certo ai democratici che farà paura riprendere lo spirito della Dichiarazione dei diritti della Virginia: «Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso». Con questo sentimento nel 1789 i rappresentanti del Terzo Stato nella Sala della Pallacorda giurarono che non si sarebbero sciolti fino a che non avessero dato una Costituzione alla Francia.

l’Unità 10.3.13
Messina, indagata neo-eletta Pd per le elezioni «falsate» di Patti
Maria Tindara Gullo è stata la più votata alle «parlamentarie». 156 sotto indagine
di Jolanda Bufalini


ROMA Ma «chi è»? Si sono chiesti quando il suo nome è comparso nelle schede delle primarie. «Chi è?» Si sono chiesti di nuovo quando Maria Tindara Gullo è risultata alle «parlamentarie» la donna più votata d’Italia, a Messina seconda solo al suo mentore, Francantonio Genovese. 11.350 lei, 19.360 l’ex segretario del Pd siciliano. Un risultato che le ha garantito il posto alla Camera, peccato che Maria Tindara Gullo non si è ancora insediata ed è già indagata. Sconosciuta ai più, Maria Tindara (il nome richiama la devozione popolare al santuario di Tindari che si erge sopra Patti) è figlia di Francesco Gullo, ex vicesindaco della città del messinese, sodale di Francantonio Genovese.
Padre e figlia sono entrambi finiti nelle maglie della giustizia per una storia che risale alle amministrative del 2011, quando a Patti era candidato sindaco il cugino e nipote Luigi Gullo, con loro altri 153 indagati. Francesco (detto Cisco) Gullo è finito ai domiciliari. La vicenda è degna di Cicikov, l’eroe delle anime morte di Gogol’: «Associazione per delinquere finalizzata ad interferire sul voto delle amministrative accusa il procuratore capo di Patti, Rosa Raffa con vere e proprie migrazioni su Patti dai comuni di Oliveri, Gioiosa Marea e Montagnareale». Donde il nome dato all’inchiesta della polizia, «fake», falso, falsa identità nel linguaggio di internet. Decine di persone ammassate in pochi appartamenti, come fossero immigrati sfruttati, ma che in realtà a Patti non hanno messo piede, se non per andare a votare. L’insolito incremento di popolazione ha insospettito la polizia e le intercettazioni hanno
rivelato veri e propri pagamenti in cambio del voto. C’è un elettore che vorrebbe pagate le bollette. «Ti pago la luce è la risposta ma l’abbonamento alla tv digitale è un lusso che non mi permetto nemmeno io». In alcuni casi lo scambio sarebbe stato in contanti, il biglietto da 50 diviso in due, una metà prima e l’altra consegnata dopo le elezioni. In altri casi la promessa era la partecipazione virtuale a un corso professionale che prevede il pagamento di una piccola prebenda. In altri casi il favore consisteva nel togliere una multa.
«Sono sconvolto dice Filippo Panarello, deputato regionale del Pd eletto nella Sicilia orientale se si confermerà nel processo che esponenti del partito democratico si sono comportati in questo modo il problema è molto serio» ma, aggiunge, «c’è un aspetto grottesco, tutti questi traffici sarebbero stati fatti in favore di Luigi Gullo che prese il 20 per cento in meno dei voti della coalizione e perse». Dopo un giudizio tanto negativo dell’elettorato, «a dicembre viene presentata alle primarie una signora che fa parte dello stesso gruppo familiare. Signora che ottiene un plebiscito. È una situazione allarmante dal punto di vista politico prima ancora che giudiziario». La valutazione di Filippo Panarello è condivisa da Angela Bottari, presidente della Assemblea del Pd di Messina: «È evidente che il partito di Messina va attenzionato, è arrivato il momento di una gestione politica, aperta, democratica, trasparente».
È probabile che l’inchiesta non sia finita, l’uso clientelare dei corsi professionali è una pratica molto diffusa in Sicilia, anche ieri c’è stato un richiamo della Corte dei conti. E molti destinatari dei provvedimenti restrittivi hanno a che fare con i servizi sociali e i corsi di formazione: Domenico Pontillo, presidente della Commissione Servizi Sociali a Patti, Irene Cappadona, presidente del Consorzio Sociale «Insieme» e Antonella Cappadona, impiegata presso lo stesso consorzio, che si occupa di corsi di formazione. Ai domiciliari anche Maria Pia Germanà, consigliere comunale. In divisa molti dei destinatari dei provvedimenti restrittivi: Carmelo Lembo, ex vicecomandante della polizia municipale, consigliere comunale ai domiciliari, Giuseppe Panzalorto, ispettore della polizia municipale (obbligo di dimora). Divieto di dimora, per il maresciallo della GdF Pasqualino La Macchia e per Francesco Tripoli, maresciallo dell’esercito. Obbligo di dimora per Giuseppe Foresti, ispettore della Polizia Municipale di Oliveri. Fra i 156 indagati c’è anche l’ex sindaco di Patti, Giuseppe Venuto. Il Pd ha sospeso i destinatari dei provvedimenti restrittivi ma non la neodeputata. Il regolamento, dicono, prevede in automatico la sospensione solo per l’arresto.

l’Unità 10.3.13
Megastipendi ai manager, il no svizzero e il silenzio italiano
Il referendum elvetico contro i superbonus ha aperto un dibattito ovunque ma non da noi
Sarebbe un’occasione da cogliere visto che deteniamo il record Ue delle disuguaglianze
di Nicola Cacace


IL RISULTATO VINCENTE COL 70% DEI SÌ, DEL REFERENDUM IN SVIZZERA CONTRO I MEGASTIPENDI o «contro i salari abusivi», come è stato ribattezzato, ha aperto un dibattito importante in molti Paesi europei e nelle stesse istituzioni internazionali, ma non in Italia, dove ha avuto qualche titolo di coda dei giornali e nessun talk show. Perché nel Paese che ha il record europeo delle diseguaglianze, con l’indice di Gini (misura delle diseguaglianze sociali) più alto, il referendum svizzero contro i megastipendi non ha fatto notizia? Eppure la Svizzera non è un Paese di matrice comunista, anzi, è il Paese più ricco d’Europa per Pil procapite.
È successo che il senso morale di un Paese non contrario alle logiche del capitalismo, l’intelligenza economica collettiva e l’iniziativa di un piccolo industriale come Thomas Minder hanno fatto il miracolo di trascinare la stragrande maggioranza della popolazione a vincere una battaglia difficile, contro le strenue resistenze di molte forze imprenditoriali e bancarie e della stessa Confindustria. La battaglia era difficilissima perché, trattandosi di un referendum costituzionale doveva avere non solo la maggioranza dei cittadini ma prevalere anche in tutti i 26 Cantoni. Ma non è solo il senso morale e civico degli svizzeri ad aver prevalso, è anche il senso economico di un capitalismo moderno, globale, del XXI secolo.
Da tempo i dati dimostrano che lo sviluppo di un Paese è strettamente legato alla equa distribuzione dei redditi e delle ricchezze. In Europa gli otto paesi a minor diseguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono anche quelli che più si sono arricchiti e che meglio se la stanno cavando in questa crisi, Austria, Olanda, Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia. Il referendum svizzero stabilisce una cosa semplice ed intelligente, da ora in poi lo stipendio dei manager di tutte le aziende quotate in Borsa, private e pubbliche, per conflitto d’interesse, non sarà fissato dai consigli d’amministrazione, bensì dall’assemblea degli azionisti in base ai risultati aziendali ottenuti: la meritocrazia avrà dunque un ruolo centrale nei guadagni dei dirigenti evitando scandali come quelli di manager liquidati con decine di milioni di euro anche quando lasciano aziende in crisi (Alitalia docet).
Non si tratta quindi solo di senso civico e morale quello che ha prevalso nella vicina Confederazione, ma anche di senso economico. In Italia, nei provvedimenti presi dal governo Monti per «mettere i conti a posto» si è preferito toccare le pensioni di 1000 euro e non ritoccare i superstipendi degli alti burocrati che -nel Paese dove il capo della polizia guadagna più del doppio del capo di Scotland Yardné di chiedere sacrifici patrimoniali a quel 10% di famiglie che possiedono il 45% della ricchezza privata, né tantomeno di chiedere un contributo straordinario ai pensionati d’oro. Si è preferito toccare record negativi come la più alta età pensionabile (nel 2020 saremo l’unico Paese europeo con 67 anni di età pensionabile), i più bassi tassi di occupazione (56% contro il 70% degli altri), la più alta disoccupazione e gli orari di lavoro più lunghi, dimenticando che, come studi e dati dimostrano, innovazione e produttività non si legano con lunghi orari di lavoro. Siamo l’unico Paese europeo, forse mondiale, dove l’ora di straordinario costa più dell’ora ordinaria mentre in Francia, Germania ed Olanda, lo straordinario si comincia a pagare dopo le 35 ore. Proprio mentre assistiamo ad un dibattito difficile sulle alleanze di governo possibili, dalla Svizzera ci viene un messaggio di umanità, di cultura economica e di cambiamento che... non abbiamo il tempo di cogliere. Peccato!

l’Unità 10.3.13
Università, 70mila iscritti in meno in soli dieci anni
I dati del Cineca confermano l’allarme negato poche settimane fa dal ministro Profumo
Numeri in peggioramento: in tre anni un calo di 30mila domande. Il peso delle tasse tra le cause
Siamo penultimi in Europa
di Mario Castagna


Poche settimane fa era stato il Consiglio Universitario Nazionale a dare l'allarme: le iscrizioni all'università crollano inesorabilmente. Ora arriva anche la conferma del Cineca. Questo consorzio, nato nel 1969 per costituire una struttura dedicata al super calcolo, oggi si occupa anche di quasi tutti i servizi informatici del ministero dell’Istruzione e dell’Università e di molti atenei italiani. Si trova inoltre a gestire l’elaborazione informatica delle immatricolazioni universitarie e dispone quindi della banca dati più aggiornata in materia. Secondo il Cineca, negli ultimi dieci anni le iscrizioni sono diminuite di 70.000 unità mentre, addirittura, negli ultimi tre anni sono 30.000 i ragazzi che hanno deciso di non iscriversi negli atenei italiani. Si è tornati indietro di quasi un quarto di secolo. Nel 1988-1989 gli immatricolati erano 276.249, mentre quest'anno i diplomati iscritti alle varie facoltà sono stati appena 267.076.
La notizia data dal Cun qualche settimana fa aveva riempito le pagine dei giornali ma subito il ministro Profumo aveva provato a gettare acqua sul fuoco. In un'intervista sul quotidiano La Stampa aveva provato a minimizzare: «Credo che per dare giudizi si debba partire da dati che abbiano valore statistico reale. In quel caso invece è stato considerato un anno di riferimento in cui c'è stata una bolla di iscrizioni». Il Ministro si riferiva al grande numero di iscrizioni «tardive», spesso lavoratori che ricominciavano il loro percorso universitario, dimenticando però il valore sociale di queste iscrizioni. L'Italia infatti è il paese con il minor numero di lavoratori formati e qualificati durante la loro carriera lavorativa.
Secondo Profumo quindi non erano diminuite le iscrizioni dei ragazzi appena diplomati. A confutare questa notizia arrivarono i dati del Cnvsu, che attraverso il proprio rapporto annuale sullo stato dell'università italiana, ha denunciato per anni il crollo, non solo delle iscrizioni universitarie, ma addirittura degli studenti che raggiungevano il traguardo del diploma di maturità. Se nel 1980 solamente un diciannovenne su tre si iscriveva all'università, dopo circa 25 anni si era arrivati al massimo storico. Infatti nell’anno accademico 2003-2004 il 56,5% dei diciannovenni decise di immatricolarsi. Da quel momento in poi è iniziato però un lungo ed inesorabile declino che ha visto crollare questa percentuale del 9%. Nel 2010 solamente il 47,7% dei ragazzi ha deciso di iniziare il lungo percorso verso una laurea, più o meno il livello raggiunto alla fine degli anni 90. Purtroppo sono due anni, da quanto Francesco Profumo si è insediato a viale Trastevere, che il CNVSU non pubblica più il proprio rapporto ed è diventato estremamente difficile avere dei dati ufficiali sullo stato dell’Università italiana. Non proprio la rivoluzione della trasparenza che tutti si aspettavano.
Oggi purtroppo si deve fare affidamento ai dati forniti dal Cineca che, seppur non sia l’ufficio statistico ufficiale del ministero, è oggi la migliore fonte disponibile. I corsi di laurea triennali sono stati i più colpiti dalla diminuzione di iscritti. In dieci anni hanno perso poco più di 90.000 iscritti, un terzo del totale. Quest’anno gli iscritti sono stati 226.283, ottomila in meno rispetto ad un anno fa ed il crollo demografico purtroppo non c’entra nulla. Infatti il numero dei diplomati è cresciuto nell’ultimo anno di 11.000 unità. Gli studenti quindi decidono di non iscriversi all’università e di fermarsi al diploma di maturità.
Tra le motivazioni sicuramente è l'aumento dei costi da sostenere durante la frequenza dei corsi. «Negli atenei abbiamo assistito a pesanti aumenti delle tasse: ben 283 milioni in più negli ultimi 5 anni», racconta Luca Spadon, portavoce nazionale di Link, Coordinamento universitario. Ma non sono solo i costi a rendere difficile la vita degli studenti italiani. Sempre Luca Spadon accusa il blocco del turnover: «Con la perdita di oltre il 22% dei docenti in 5 anni, molte università hanno ridotto la loro offerta didattica. Questo ha portato ad un aumento sconsiderato dei corsi a numero chiuso». Se non si fa nulla per invertire il trend, l'Italia rischia di precipitare all’ultimo posto nella classifica europea dei giovani laureati. La Norvegia surclassa tutti con il 46,1% di laureati nella fascia d’età tra i 25 ed i 34 anni. L’Italia è penultima, superando solo la Turchia.

Corriere 10.3.13
Quelle leggi antimatrimonio
La colpa di essere sposati Troppi ostacoli al matrimonio
di Antonio Polito


Tranne che in una parte del mondo gay, dove va di moda, il matrimonio non se la passa molto bene. Si sa del calo numerico: in tre anni, quarantamila nozze in meno. Sempre più forte è la concorrenza di altre forme di vita familiare, dai single ai conviventi, alle coppie di fatto: 12 milioni di italiani, circa il 20% dell'intera popolazione, vivono oggi al di fuori della famiglia tradizionale, e sono il doppio di quanti erano appena quindici anni fa. Ma quello che si vede meno è la pletora di leggi e regolamenti che in Italia disincentivano a sposarsi.
Gli esempi sono tanti. Uno è stato raccontato di recente dal Corriere: l'università di Genova ha emesso una circolare che proibisce di assumere docenti sposati con altri docenti che già insegnano nell'ateneo. Intervenendo sul caso di una ricercatrice moglie di un professore ordinario, il Senato accademico ha così esteso ai coniugi una norma della legge Gelmini che punta meritoriamente a contrastare il diffusissimo fenomeno del nepotismo baronale. Però, si sa, il nepotismo è subdolo, e si insinua anche nelle coppie di fatto, nelle coppie clandestine, nelle coppie omosessuali. Ma siccome tutte queste forme di relazione non sono disciplinate dalla legge, come si fa a inserirle in un divieto? Ecco così il paradosso: un aspirante ricercatore dell'Università di Genova in amore con un collega farà dunque bene a non impalmare o farsi impalmare intra moenia.
Il che già accade in Rai. Chi abbia dovuto compilare un modulo per una collaborazione temporanea con l'azienda di Viale Mazzini sa infatti che contiene un'esplicita domanda circa l'esistenza in Rai di parenti e affini, al fine di evitare accuse di favoritismo. Ma le redazioni sono galeotte, e Cupido colpisce di preferenza nei luoghi di lavoro. Che si fa in quel caso? Non si fa. Conosco una giornalista che, pur fidanzata con un collega, non l'ha sposato con rito civile finché è rimasta precaria. Trattandosi di una signora credente, ha fatto ricorso al matrimonio religioso per santificare la sua relazione; ma si può immaginare che molte altre coppie, meno devote, abbiamo preferito la convivenza o la clandestinità.
Chi ha già fatto una volta l'esperienza del matrimonio è d'altra parte sconsigliato dal riprovarci; non solo dal comprensibile timore di un nuovo insuccesso, ma anche dalla rigidità delle norme che regolano sia le separazioni sia i divorzi. Intanto il procedimento è lungo, porta via anni, e a quelli richiesti dalla legge si aggiungono quelli imposti dalla burocrazia, perché in Italia nessun atto è valido se non è stato prima «registrato». Ma anche quando finalmente arriva la sentenza di divorzio, risposarsi può essere economicamente costoso per il coniuge (più spesso la donna) che riceve un assegno di mantenimento, perché così lo perderebbe. Se poi il nuovo compagno è anch'egli divorziato, cosa che accade di frequente, su di lui continuerebbero a pesare invece gli oneri derivanti dal vecchio matrimonio. Tutto così complicato che in tanti lasciano perdere. Questa difficoltà ha effetti anche sul calo delle nascite: in condizioni così precarie è ovviamente più difficile programmare figli. Si può anzi dire che ci sono padri separati i quali stabiliscono rapporti con le nuove compagne sulla base della condizione che esse accettino di non fare figli, perché credono di non poterselo permettere. Un caso estremo mi è stato raccontato da un quarantenne, separato, padre di due figli e determinato a non averne altri: la sua nuova donna ne voleva invece così tanto uno, che se l'è fatto da sola in Spagna con la fecondazione eterologa (donazione di sperma) con l'accordo che lui non lo riconoscesse come proprio. Motivi economici frenano anche il matrimonio tra anziani vedovi. E non è fenomeno sociale irrilevante. Chiunque abbia la fortuna di avere una madre o un padre, una nonna o un nonno, in buona salute e in tarda età, sa che la loro vita di relazione, soprattutto nel Centronord dove ci sono più luoghi pubblici che la ospitino (pensiamo alle balere, ai centri anziani, alle case del popolo), è intensa, ricca di occasioni e mai priva di fremiti affettivi e sessuali. Molte coppie nascono, ma restano fuori dal matrimonio per evitare di perdere i benefici della condizione di vedovi, dall'uso della casa all'assegno di reversibilità.
C'è poi il mondo a sé dei matrimoni tra extracomunitari. Una parte non piccola di questi sono infatti fasulli, combinati, un modo per far entrare parenti e amici in Italia sotto la fattispecie del «ricongiungimento familiare». Lo strumento giuridico è dunque abusato, spesso con conseguenze anche sullo status della prole. Se infatti la moglie di un matrimonio finto si innamora e fa un figlio con un potenziale vero marito, la donna può diventare una mamma single nonché sposata. Condizione sicuramente singolare, ma che non sempre dispiace a una madre che abbia il resto della sua famiglia nel Paese di origine, e che può così uscire ed entrare col minore dall'Italia senza dover dipendere dall'autorizzazione di un uomo che non è neanche il padre biologico.
Sono tutti casi in cui gli sposati stanno peggio dei non sposati. Se ne può trarre motivo per una polemica politica, e i sempre più sporadici difensori del matrimonio la fanno, protestando contro quella che ritengono essere un discriminazione, magari politicamente corretta ma pur sempre una discriminazione. Ma forse ancora più interessante sarebbe cominciare a chiedersi se l'istituto giuridico del matrimonio, così come è regolato nel nostro diritto, non sia diventato troppo rigido per una società tanto flessibile, e se non debba essere reso anch'esso più flessibile per poter continuare ad esistere e funzionare. Fermi restando gli obblighi che generare figli produce in ogni caso verso i minori, sarebbe forse utile offrire una scelta più ampia tra varie forme matrimoniali, per esempio lasciando ai coniugi di pattuire tra di loro le condizioni legali della loro unione, limitando invece gli obblighi che essa produce inevitabilmente verso la collettività. Oppure rivedendo le norme sull'asse ereditario, per consentire un uso più discrezionale del proprio patrimonio (questione non di poco conto nel passaggio generazionale delle imprese familiari). Insomma: bisognerebbe provare a salvare il matrimonio da se stesso.

Corriere 10.3.13
Una suora arrestata per maltrattamenti
di F.C.


TRAPANI — Picchiato, malnutrito e punito perfino con le docce fredde, un bambino di otto anni vessato da una suora che lo terrorizzava anche fulminandolo con lo sguardo minaccioso è riuscito a scrivere un messaggio disperato, a consegnarlo a un istitutore della casa del fanciullo «Pio X» e a farlo recapitare al giudice tutelare da quest'inferno gestito a Valderice dalle sorelle «Oblate al divino amore». Primo atto di un'inchiesta che, svelato l'orrore maturato a due passi da Monte Erice contro una decina di piccoli ospiti, ha consentito alla procura di Trapani di chiedere e ottenere ieri l'arresto della suora, Teresa Mandirà, 76 anni, nata a Mazara del Vallo, una lunga esperienza in diversi istituti simili.
Arresti domiciliari per lei. E denunce a piede libero, ma col divieto di avvicinarsi ai bambini, già trasferiti altrove, per una seconda suora di origine camerunense, Yvonne Noah, e per quattro dipendenti della struttura, Maria Mazzara, 50 anni, Carlo Cammarata, 49, Laura Milana, 34, e Giuseppa Ruggeri, 74. Un'indagine culminata a metà febbraio nell'immediato trasferimento dei minori in altra struttura, con gran sorpresa degli indagati per un paio di settimane rimasti in ansia, allarmati quando hanno capito che la Squadra mobile di Trapani stava raccogliendo prove contro di loro. Ma forse senza immaginare né che esistesse quella letterina-denuncia con cui il bimbo di otto anni chiedeva «di tornare in famiglia», né una circostanziata denuncia degli stessi genitori del piccolo. Ignorando soprattutto che uno dei ragazzini più grandi, acquattato dietro una parete, fosse riuscito a filmare col suo telefonino suor Mandirà mentre picchiava il bimbo. Come avrebbero spesso fatto anche altri dipendenti della struttura, stando ad accuse da tutti respinte senza convincere il giudice per le indagini preliminari.

Repubblica 10.3.13
Dall’Opus Dei a Sant’Egidio la sfida all’ultimo voto tra le Sacre armate della Sistina
Le sei lobby più influenti alle spalle dei cardinali
di Marco Ansaldo e Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO SODALIZI per lingue di appartenenza ci possono essere, ma non è lì che si decidono i giochi per l’elezione. Molto fanno i gruppi di potere, le lobby spesso trasversali alle appartenenze geografiche che formano quel mondo variegato e complesso che è la Chiesa cattolica. Lobby che lavorano, sotterraneamente o alla luce del sole, per fare prevalere la propria sensibilità sulle altre, fino a cercare di far arrivare un proprio candidato al Soglio.
CAVALIERI DI COLOMBO
Difficile eleggere un Papa senza il loro consenso. Capaci di convogliare ingenti quantità di offerte, contano 1,8 milioni di aderenti nel mondo. Nati negli Stati Uniti negli anni Venti fondando principalmente centri ricreativi (come i nostri oratori), hanno guadagnato consenso in Vaticano a furia di finanziamenti, come quello poderoso messo in campo per la ristrutturazione della facciata della Basilica di San Pietro: «Erano 350 anni che nessuno la ristrutturava », scrivono nel loro sito. Godono di appoggi potenti. Anzitutto il loro leader, quel Carl Anderson che siede nel board dello Ior. È bastato un suo “sì” perché la scorsa primavera venisse licenziato in tronco il presidente Ettore Gotti Tedeschi. C’è voluto un suo assenso perché il nuovo presidente Ernst Von Freyberg venisse eletto. Conservatori, impegnati in modo deciso sul fronte pro-life, sono i Cavalieri a spingere da dietro le quinte la linea dura dell’episcopato americano contro la politica sanitaria di Barack Obama. Gestiscono un immenso patrimonio assicurativo negli Stati Uniti che ha ricevuto nel 2011, per il diciannovesimo anno consecutivo, la tripla A dall’agenzia di rating Standard & Poor’s. Grazie alle loro donazioni sono riusciti più volte a risanare i bilanci esangui della Santa Sede. L’appoggio ai vescovi americani è un endorsement a una certa idea di Chiesa: combattiva, ancorata alla Tradizione. L’ascesa dell’arcivescovo Timothy Dolan di New York alla guida dell’episcopato statunitense è figlia anche del loro appoggio. Per loro Dolan sarebbe un Papa perfetto. Ma anche Sean O’-Malley, il cappuccino di Boston.
SANT’EGIDIO
Abbandonato per ora il rassemblement di centro che ha visto molti suoi aderenti schierarsi con Mario Monti alle scorse elezioni italiane, la Comunità di Sant’Egidio e il suo leader Andrea Riccardi si sono concentrati sul Conclave. Voci molto ascoltate — vengono definiti una «segreteria di Stato parallela » — si muovono con più prudenza rispetto al Conclave del 2005 quando appoggiarono, senza successo, l’allora arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi,
che perse con un discorso molto debole nella Cappella Sistina. Una discreta influenza ha oggi Riccardi su Georg Gänswein, segretario particolare di Ratzinger e prefetto della Casa Pontificia, che in questi anni ha visto in Sant’Egidio un appoggio esterno all’attività diplomatica ufficiale del Vaticano non sempre impeccabile. Sintomatico di questo feeling è stata la visita di Ratzinger a un centro per anziani a Roma gestito dalla comunità poco prima di Natale: non poca cosa. Monsignor Vincenzo Paglia, escluso dal Conclave da un ultimo concistoro che per esplicito volere di Benedetto XVI ha concesso la berretta rossa a soli cardinali stranieri, guida il Pontificio Consiglio per la Famiglia e si segnala in questa fase molto attivo. I loro candidati di peso sono due figure molto vicine alla comunità: Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia ed ex segretario di Wojtyla, e il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli.
LEGIONARI DI CRISTO
Caduta definitivamente la mannaia della damnatio memoriae per il padre fondatore Marcial Maciel Degollado, prete dalla doppia e anche tripla personalità, pedofilo e insieme padre di famiglia, i Legionari restano una potenza quasi inarrivabile nel vasto mondo degli istituti e dei movimenti religiosi. Arrivati in alto durante il pontificato wojtyliano perché sulla carta impegnati a combattere contro il comunismo, la teologia della liberazione, la New Age, oggi restano una potenza economica notevole. Oltre a Roma, sono i loro numeri nel mondo a fare impressione. Si tratta di una multinazionale della formazione: 15 università, 43 istituti di studi superiori, 175 collegi, 125 case religiose e centri di formazione, 200 centri educativi, 1.200 oratori, 34 scuole Mano Amica, che si occupano di ragazzi senza risorse. Il legame col decano del Collegio cardinalizio Angelo Sodano è sempre forte ed è negli addentellati della curia romana di wojtyliana memoria che ancora contano e si faranno sentire in questi giorni di Conclave.
I FOCOLARINI
Nell’era del cardinale salesiano Tarcisio Bertone sono saliti in posizioni che contano in Vaticano i focolarini, del cui movimento fanno parte sia il cardinale Ennio Antonelli, presidente emerito del Pontificio consiglio per la Famiglia, sia monsignor Vincenzo Zani, dal 2002 sottosegretario della Congregazione per l’Educazione cattolica. Sono focolarini anche il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, che nel 2011 è stato nominato prefetto della Congregazione per i Religiosi e l’arcivescovo Angelo Becciu che nel 2011 è stato scelto come nuovo Sostituto della Segreteria di Stato. Becciu appartiene alla diplomazia pontificia ed è stato nunzio a Cuba, come molti suoi confratelli oggi nel mondo, tutti ambasciatori sperimentati. Si dice che Bertone, che non disdegnerebbe l’ascesa al soglio del cardinale Gianfranco Ravasi, potrebbe anche fare corsa a sé. Se così fosse, è su di lui che i focolarini sono pronti a scommettere.
COMUNIONE E LIBERAZIONE
Candidato di peso è il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, seppure da Cl abbia cercato di distanziarsi negli anni. Guzman Carriquiri, uruguaiano vicino al movimento, è la più alta carica laicale della Santa Sede, come segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina. Ma ciellini sono anche Carlo Caffarra, arcivescovo metropolita di Bologna; Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita di Mosca; Francisco Javier Martínez Fernández, arcivescovo metropolita di Granada, in Spagna; Filippo Santoro, arcivescovo metropolita di Taranto; Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio; Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale; Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla. Cercheranno di fare quadrato su Scola o su un candidato dal profilo forte come è il curiale Marc Ouellet, capace di riformare daccapo la Curia romana e di usare il bastone laddove la Chiesa tradisce la dottrina.
OPUS DEI
Non è un movimento, è un prelatura, ma sa come influenzare. Un peso enorme ha il cardinale Juliàn Herranz, capo del dossier segreto redatto per il Papa su Vatileaks. Al recente Sinodo dei vescovi erano presenti il secondo successore di san Josemaría Escrivá, il vescovo spagnolo Javier Echevarría Rodríguez, nonché l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gómez e l’arcivescovo di Guayaquil, Antonio Arregui Yarza. Dell’Opus è anche il cardinale arcivescovo di Lima Juan Luis Cipriani Thorne. Vicini a Scola e Ouellet, vedono come scelta da non sottovalutare anche il primate d’Ungheria, Peter Erdo.

Corriere 10.3.13
Perché si può anche essere ottimisti
Nel decennio, l’economia del mondo crescerà del 4,1% l’anno Mai così forte
di Danilo Taino


Un paio di giorni fa, l'economista Jim O'Neil ha stupito un gruppo di manager italiani che partecipavano a un incontro della European House Ambrosetti a Cernobbio. Arrivato in uno dei Paesi con il più alto tasso di cattivo umore d'Europa, ha sostenuto che la O-word esiste ancora. Che basta alzare lo sguardo per resuscitare la parola Ottimismo. Di base, l'inventore del termine Bric (Brasile, Russia, India, Cina) sostiene che nel decennio in corso il Prodotto interno lordo (Pil) mondiale salirà in media del 4,1% l'anno. Sarebbe un risultato straordinario: negli anni Ottanta e Novanta la media era stata del 3,3%, nei primi dieci anni di questo secolo del 3,5%. Significa che l'onda dell'economia è e sarà alta: chi saprà starci sopra avrà opportunità addirittura maggiori che in passato.
O'Neil — che è presidente di Goldman Sachs Asset Management — sostiene però che per leggere il mondo d'oggi serve avere il punto di vista giusto. Un suo cavallo di battaglia (ripreso alla Camera dei Comuni anche dal primo ministro britannico David Cameron) è che la Cina realizza un'economia pari a quella della Grecia ogni 11 settimane e mezzo. Il Pil greco, infatti, è pari a 300 miliardi di dollari e l'economia cinese nel 2011 è cresciuta di 1.370 miliardi di dollari. Ancor più impressionante: la Cina aggiunge alla sua economia un'Italia — il cui Pil è di circa 2.200 miliardi di dollari — ogni anno e sette mesi. Se invece si considerano tutti e quattro i Paesi Bric, ogni anno viene creata più di un'economia italiana (il loro Pil aggregato è cresciuto nel 2011 di 2.280 miliardi di dollari). Questo per dire come sia ormai cambiata la dinamica mondiale. Il baricentro è nei Paesi emergenti, soprattutto asiatici, tanto che O'Neil sostiene di essere più interessato all'andamento del mercato immobiliare cinese che al dibattito sui tagli del bilancio degli Stati Uniti.
L'economista di Manchester calcola che tra il 2011 e il 2020 il Pil della sola Cina crescerà (senza considerare l'inflazione) di più o meno ottomila miliardi di dollari: non solo ben più del doppio di quanto crescerà quello degli Stati Uniti (circa 3.700 miliardi) ma anche più di quello dei Paesi del G7 sommati (5.500 miliardi). Nel decennio, i quattro Bric aggiungeranno alle loro economie un Pil pari a 12 mila miliardi di dollari. E i Paesi che O'Neil chiama i Growth Eight (Cina, India, Russia, Brasile, Indonesia, Turchia, Corea del Sud, Messico) cresceranno di 15 mila miliardi di dollari.
È tutto un altro mondo, rispetto a quello che abbiamo vissuto finora. Si tratta di previsioni che possono essere lette come la condanna dell'Occidente a un declino relativo. Ma anche come la possibilità di inserirsi in un'onda lunga creatrice di ricchezza. Ma occorrerà essere flessibili, aperti, liberi di innovare e produrre. Se piace la O-word.

l’Unità 10.3.13
Insegnanti con la pistola In South Dakota è legge
La risposta alla strage di Newtown: sentinelle armate in classe
Esulta la National Rifle Association, contraria alle restrizioni inseguite da Obama
di Marina Mastroluca


«Una risposta all’attenzione nazionale sulla sicurezza nelle scuole». Il repubblicano Scott Craig che l’ha sponsorizzata, è pronto a giurare che la legge appena varata dal South Dakota è la scelta giusta dopo la strage di bambini nella scuola elementare di Newtown. E persino banale nella sua semplicità: armare gli insegnanti. La nuova norma è stata firmata venerdì scorso dal governatore Dennis Daugaard, anche lui repubblicano e convinto che il sistema di «sentinelle armate» scoraggerà i malintenzionati e garantirà la stessa sicurezza che potrebbero assicurare degli agenti di polizia.
La legge, la prima nel suo genere negli Usa dove pure altri Stati consentono o comunque non vietano esplicitamente di portare armi nelle aule, lascia ai distretti scolastici la facoltà di decidere se ricorrere o meno alla vigilanza armata. Che potrà essere affidata sia agli insegnanti e ai dipendenti delle singole scuole, come pure a vigilantes appositamente assoldati o volontari. In ogni caso spetterà alle forze dell’ordine rilasciare un permesso, mentre le «sentinelle» dovranno frequentare un corso pratico.
VECCHIO WEST
La National Rifle Association, la principale lobby di produttori di armi, la prima a proporre di armare gli insegnanti dopo la strage di Newtown, non può che felicitarsi per la scelta del South Dakota, fortemente sponsorizzata dall’associazione. «Non c’è un approccio valido per tutti in materia di sicurezza nelle scuole ha detto il portavoce Andrew Arulanandam -. Tocca agli Stati e ai governi locali decidere come».
La Nra sta investendo tutta la sua capacità di pressione per evitare che arrivi in porto una legge federale sul controllo delle armi. Promessa da Obama, fortemente osteggiata dai repubblicani, ma anche da settori democratici, la legge auspicata dal presidente vorrebbe reintrodurre un bando sulle armi semi-automatiche e sui caricatori multipli, oltre a controlli sul background degli acquirenti: misure analoghe a quelle che il Colorado di appresta a varare la prossima settimana. L’iter a livello federale non sarà facile, ma l’amministrazione Obama sembra determinata a portare a casa qualcosa, un’eventualità che ha talmente allarmato i fautori del grilletto che la vendita di armi negli Usa ha avuto un’impennata sensibile. La Smith & Wesson, produttrice della famosa 357 Magnum ha registrato un aumento vertiginoso dei suoi introiti nel trimestre concluso il 31 gennaio 2013: più 228% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Difficile dire quante scuole del South Dakota sceglieranno la strada del vecchio west e dei pistoleros. Il provvedimento è controverso, e se qualcuno lo difende vista l’abitudine alle armi nello Stato dove i ragazzini di 8 anni già vanno a caccia, altri al contrario preferirebbero lasciare alle forze dell’ordine il compito di garantire la sicurezza.
Quanto alla possibilità che il South Dakota faccia da apripista il rischio c’è. Stando al New York Times, non è chiaro quanti siano i distretti scolastici in tutti gli Usa dove è già possibile portare armi. Hawaii e New Hampshire prevedono uno specifico permesso, in
Texas possono girare armate persone appositamente autorizzate dalle scuole, in un distretto dello Utah gli insegnanti possono portare pistole ma non le devono mostrare.
Non ci sono statistiche che possano provare una maggiore sicurezza nelle scuole «armate». Al contrario di recente si sono registrati alcuni incidenti colpi partiti inavvertitamente nel perimetro scolastico da personale di sorveglianza fortunatamente senza gravi conseguenze. Casi circoscritti, per il momento. Ma una ricerca del Boston Children’s hospital ha di recente mostrato una stretta corrispondenza tra norme restrittive e minore incidenza di mortalità: negli Stati Usa che impongono maggiori controlli sull’uso delle armi la percentuale di suicidi scende del 37%, quella degli omicidi addirittura del 40.

l’Unità 10.3.13
F-35 da bocciare, lo dice il Pentagono
Un rapporto evidenzia i limiti tecnici dei nuovi caccia: scarsa visibilità e eccessiva vulnerabilità
di Paolo Soldini


Gli F-35 fanno veramente schifo. L’espressione può sembrare un po’ forte, ma basta buttare un occhio sul rapporto consegnato dal capo dell’ufficio del Pentagono al Segretario alla Difesa sui pregi (pochi) e i difetti (moltissimi e gravi) dei nuovi caccia-bombardieri per capire che le cose stanno proprio così. Anche perché la fonte delle critiche è insospettabile e non potrebbe essere più autorevole. E i giudizi scritti nero su bianco dal responsabile dell’ufficio Michael Gilmore sulle prove di collaudo degli aerei usciti dai cantieri della Lockheed Martin sono tali da mettere totalmente in discussione tutto il programma Joint Strike Fighter, il piano di costruzione e di consegna degli apparecchi, sul quale l’amministrazione Usa è impegnata per oltre 130 miliardi di dollari e che coinvolge diversi altri paesi. Tra questi l’Italia, che dovrebbe sborsare la bellezza di 17 miliardi di euro. Un salasso praticamente a fondo perduto perché dei «ritorni» in investimenti industriali che erano stati calcolati sull’ordine dei 13 miliardi di dollari per ora, secondo Il Sole 24 ore, si son visti appena 650 milioni.
Il rapporto Gilmore pare inevitabilmente destinato a rimettere in discussione gli accordi già sottoscritti. La stessa amministrazione Usa, già prima della pubblicazione della relazione, aveva ridimensionato il proprio impegno finanziario, mentre l’Australia, la Norvegia e la Danimarca avevano già rinunciato alle commesse e i Paesi Bassi, secondo indiscrezioni dall’Aja, si preparerebbero a farlo. La Turchia ha annunciato, proprio l’altro giorno, di aver tagliato i fondi per uno dei primi due jet che avrebbe dovuto ricevere prossimamente. I governi di altri paesi hanno ridotto gli stanziamenti o si preparano a farlo. Non è fra questi quello italiano che, per ora, resta fermo sul suo piano di acquisti, pur se le polemiche crescono. E non c’è dubbio che adesso cresceranno ancora.
Secondo il rapporto, gli F-35 sarebbero addirittura inferiori, per qualità ed efficienza, ai caccia-bombardieri di costruzione americana in servizio da decine di anni, come gli F-15, gli F-16 e gli F-18. Particolarmente inefficienti e pieni di difetti sarebbero i modelli a decollo verticale previsti per la Marina, che in Italia dovrebbero equipaggiare la portaerei Cavour, e che sono i più costosi. Ma anche gli altri modelli non scherzano. La relazione si dilunga per molte pagine sulle incredibili manchevolezze degli Strike Fighter che avrebbero dovuto rivoluzionare l’aviazione militare e assicurare il dominio dei cieli ai paesi che ne fossero entrati in possesso.
COLLAUDI MANCATI
Di alcuni difetti si era già parlato in passato, come la particolare esposizione dei jet al pericolo dei fulmini o l’inaffidabilità del sistema di comando vocale. Ma nel rapporto si legge anche ben altro. La visibilità dalla cabina sarebbe particolarmente ridotta, molto inferiore a quella che si ha negli F-15 e 16, e, soprattutto, del tutto carente alle spalle del pilota, cosicché questi sarebbe pericolosamente vulnerabile ai colpi sparati durante gli inseguimenti. Da questo punto di vista l’F-35 sarebbe inferiore non solo ai suoi «progenitori», ma anche a modelli potenzialmente «nemici», come il Sukhoi russo o i nuovi caccia cinesi. Il difetto sarebbe reso ancor più pericoloso dal funzionamento difettoso del sistema di informazioni a display inserito nel casco del pilota. Questo non darebbe una visione veritiera dello spazio esterno e risulterebbe o troppo chiaro o troppo scuro. Il radar funzionerebbe a singhiozzo, le batterie soffrirebbero a temperature troppo basse, i tempi dei lavori di manutenzione sarebbero troppo lunghi, la protezione anti-fulmini (s’è già detto) carente. Una quantità di manchevolezze che, si legge nel rapporto, hanno impedito persino il collaudo dei prototipi in condizioni particolari, come il volo notturno o in condizioni meteo difficili, o nelle simulazioni di battaglie. Insomma, basterebbe la metà di quello che Michael Gilmore ha scritto per imporre una riflessione molto seria su tutto il progetto.
Al di là del costo, già oggetto di polemiche tra il Governo e i movimenti pacifisti, il programma mantiene per l’Italia importanti criticità che riguardano l’utilizzo a regime ridotto dell’impianto Final Assembly and Check-Out (FACO) costruito dall’Italia sulla base aerea di Cameri con un costo di 800 milioni di euro e le incertezze circa le ricadute per l’industria italiana.

Corriere 10.3.13
Nazionalisti contro Miss Russia Costretta a chiudere il suo sito
di Maria Serena Natale


I grandi occhi a mandorla, il naso pronunciato, i capelli corvini e le labbra carnose. «È questo il volto della Russia?» scrivono i blogger nazionalisti accanto a foto e caricature della radiosa Miss eletta lo scorso 2 marzo, Elmira Abdrazakova, 18 anni, studentessa siberiana di madre russa e padre di etnia tartara.
L'ascesa di Elmira ad ambasciatrice della bellezza russa nel mondo è stata vissuta negli ambienti dell'estrema destra come deviazione dai classici canoni slavo-orientali e tradimento di una presunta purezza etnica che di fatto non ha mai contraddistinto l'identità della grande Russia multiculturale nelle diverse fasi della sua storia. Oggi l'intreccio di etnie e culture intorno al granitico nucleo slavo-ortodosso è uno dei punti di forza della Federazione, che solo nel recente passato ha affrontato le violente spinte separatiste nel Caucaso e ora, sotto la guida di «Zar Putin», sta gradualmente ritrovando il sentimento di orgoglio nazionale dissipato dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Il movimento nazionalista in rimonta si nutre di campagne d'odio come quella scatenata contro Elmira. Poche ore dopo l'elezione, il suo profilo sul social network «Vk» è stato sommerso da una valanga di commenti contro «le donne tartare che non dovrebbero partecipare ai concorsi di bellezza» e «le zingare che non possono rappresentare il Paese». Il mese scorso attacchi simili erano stati rivolti alla cantante tartara Dina Garipova, in gara per Mosca al prossimo Eurovision. Forte degli studi in Gestione delle crisi all'Università di Novosibirsk, Elmira risponde con classe e sangue freddo. Un personaggio pubblico deve mettere in conto reazioni negative, dichiara dopo aver oscurato la sua pagina web «per evitare ulteriori provocazioni razziste».
I fan la chiamano «la nostra Angelina Jolie», lei si definisce una moderna Cenerentola, mette da parte il premio da 100 mila dollari e procede spedita verso le passerelle di Miss Mondo e Miss Universo. Tanto sicura da permettersi una dichiarazione in difesa delle Pussy Riot, le attiviste condannate a due anni di lavori forzati per la blasfema «preghiera punk» contro il presidente Putin intonata nel febbraio 2012 nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. «La pena inflitta è troppo dura. Lo dico anche se per me la Chiesa è qualcosa di sacro, ho studiato in una scuola religiosa», ha detto in un'intervista radiofonica la più bella di tutte le Russie che si professa cristiana ortodossa (come la minoranza della Siberia sudoccidentale alla quale appartiene, mentre i tartari sono tradizionalmente musulmani). «Forse — ha aggiunto con una presa di posizione che è una piccola scossa per un Paese che non apprezzò la performance delle cantanti in passamontagna — sarebbe stato meglio avviare un dialogo per cambiare la loro concezione del mondo».

Corriere 10.3.13
Il nuovo attacco di Gorbaciov contro Putin il «Truffatore»
di Fabrizio Dragosei


I toni non sono ancora quelli del blogger Aleksej Navalny che definì Russia Unita di Vladimir Putin il partito «dei ladri e dei truffatori», ma siamo vicini. Mikhail Gorbaciov, l'ultimo segretario generale del Pcus, il leader che fece cadere il comunismo, sembra essersi deciso a rompere con il presidente russo. A meno che questi non si ravveda e abbandoni la linea repressiva che sta seguendo. «Non avere paura del tuo stesso popolo!» gli ha detto parlando tramite la Bbc. Le leggi approvate ultimamente vanno tutte nella stessa direzione, secondo Gorbaciov. Quella di limitare i diritti dei cittadini, di impedire la libertà di parola, di proibire alla gente di scendere in piazza e protestare per le cose che non vanno bene.
E in quanto ai «ladri e truffatori», Gorbaciov non si è tirato indietro: «Anche nel circolo più ristretto di quelli che stanno attorno a Putin, ci sono tanti ladri e pubblici ufficiali corrotti. Se le cose non cambiano, la Russia continuerà ad andare alla deriva come un pezzo di ghiaccio nell'Oceano Artico». E pensare che all'inizio il vecchio leader aveva accolto con grande favore l'arrivo al potere di Putin, il ricostituirsi di un forte potere centrale dopo gli anni di anarchia del suo storico nemico Boris Eltsin. Con Vladimir Vladimirovich, la Russia tornava ad essere grande. Il nuovo presidente a sua volta sdoganò Gorbaciov che era stato relegato nel dimenticatoio, visto anche che la maggioranza dei russi gli imputava lo scioglimento dell'Urss («La più grande catastrofe geopolitica del secolo», la definì Putin).
Ma la svolta autoritaria ha fatto allontanare i due uomini e oggi Gorbaciov sembra essere più apprezzato dai giovani professionisti urbani insoddisfatti, quelli che regolarmente scendono in piazza contro Putin. Se quasi la metà dei russi rimpiange di non vivere più in un regime sovietico, i giovani la pensano diversamente. Per loro è un bene che l'Urss non esista più e il sistema democratico occidentale rappresenta un valore positivo. Esattamente come per il primo e ultimo presidente dell'Unione Sovietica.

l’Unità 10.3.13
Continuando Spinoza per proseguire
a scoprire il mondo
Un libro di Massimo Adinolfi riporta l’attenzione sul grande filosofo e sulla sua analisi
di Vincenzio Vitiello


L’INTERESSE PER SPINOZA È IN COSTANTE CRESCITA: NE TESTIMONIANO LE RECENTI EDIZIONI ITALIANE DELL’OPERA OMNIA, QUELLA DI FILIPPO MIGNINI per Mondadori, e l’altra, con originale a fronte, di Andrea Sangiacomo, presso Bompiani; i fascicoli speciali del Pensiero (2011/1) e di Teoria (2012/2) dedicati appunto al filosofo olandese; i libri di Sini (Archivio Spinoza) e di de Giovanni (Hegel Spinoza. Dialogo sul moderno), di cui ci siamo occupati su questo giornale alcune settimane orsono, e più recentemente il saggio di Massimo Adinolfi, dall’impegnativo titolo: Continuare Spinoza. Un’esercitazione filosofica (Editori Internazionali Riuniti, 2012). Un libro, questo, fuori degli schemi della cultura filosofica tradizionale. Adinolfi, infatti, non «analizza» Spinoza, non lo spiega, né lo «contestualizza»: lo continua. Fa filosofia con Spinoza. La sua «scrittura» è pienamente conforme all’esercizio: il libro non ha note, né divisioni in capitoli e paragrafi. Certo discute le principali interpretazioni che del pensiero del filosofo olandese sono state date da filosofi e da storici, ma nella forma di un dialogo ininterrotto, meglio ancora di un transito continuo da pensiero a pensiero, senza pause come in un unico respiro; e senza ritorni, dacché riflettere per Adinolfi non è piegarsi sul già fatto, al contrario è andare-innanzi, proseguire. Il pensiero come vita. Ove il primato spetta alla vita, non al pensiero. Di qui la critica radicale d’ogni logicismo e gnoseologismo: ciò da cui muove la filosofia non è il pensiero, ma il mondo. E mondo è ciò che Spinoza chiama «sostanza», che non attende il pensiero che la dimostri, perché è la dimostrazione che sta nella sostanza-mondo, e ne dipende. Questo il senso della definizione spinoziana del pensiero quale attributo della sostanza. Attributo al pari del corpo (o estensione) pur esso espressione del mondo. Qui l’ordo e la connexio tra idee (pensiero) e cose (corpo), non indica un parallelismo tra due, ma l’esporsi della sostanza-mondo in forme diverse, che non sono due, più che una, essendo l’idea pensiero del corpo, nel senso soggettivo ed oggettivo del genitivo, e quindi il corpo espressione «materiale», estesa del pensiero. Palese l’influenza della interpretazione spinoziana di Sini, che si mostra anche nell’insistenza di Adinolfi nell’affermare il carattere di evento della sostanza. Continuare Spinoza ha anche questo significato: togliere alla sostanza ogni e qualsiasi stabilità, fissità. Sostanza è movimento, divenire, transito. Dio, la sostanza spinoziana, è solo nei modi, nelle affezioni, e cioè: non genericamente nel mondo, bensì negli enti. Ché mondo non è il contenitore degli enti, ma l’eterno transitare negli enti, eterni pur essi in e per questo transitare. In e per questo farsi ente del mondo, farsi cose della sostanza. Eterno è l’ente nel flusso della vita, nel flusso eracliteo della Lebenswelt, del mondo della vita. Continuare Spinoza è quindi continuare a pensare, e continuare a pensare è continuare a vivere. In ciò il conatus di Spinoza: la volontà e la potenza di essere, di ek-sistere dell’ente nel mondo, del mondo nell’ente. Spinoza – afferma Adinolfi – ribalta il rapporto essenza-esistenza: è l’esistenza la base, il fondamento dell’essenza. «Viva chi vita crea!» – possiamo ripetere con Goethe a commmento di queste pagine personalissime, in cui avverti la potenza del pensiero di Spinoza.
E tuttavia a libro chiuso vien fatto di dire: propter philosophiam, philosophandi perdere causas. Come sempre nelle filosofie «arcontiche» – quelle che, a partire da Aristotele, s’afferrano a quel «primo» che non cade nel dubbio perché è ciò che ogni dubbio sostiene, che si sottrae al domandare perché è all’origine di ogni domanda –, anche in questa impegnata ed impegnativa esercitazione filosofica alla fine tutto si salva, tranne la filosofia. Tranne la domanda sul mondo. Perché sarà pur vero che la domanda sorge nel mondo, ma in filosofia ciò che anzitutto è in questione, è il luogo della domanda. Un circolo non virtuoso, questo tra domanda e mondo, anzi vizioso, viziosissimo, perché nell’atto stesso di sottrarsi alla domanda il mondo ricade in essa, e nel punto in cui è oggetto di domanda vi si sottrae. In questo circolo, volens nolens, è anche Adinolfi, quando distingue il pensiero dell’essere dall’essere del pensiero (l’essenza formale dell’idea dal suo contenuto obiettivo: p. 235 e ss.). Chi o che cosa opera questa distinzione? E dove? La ri-flessione torna ad imporsi. Torna ad imporsi il pensiero sempre in lotta con sé, diviso: inizio anche quando rifiuta d’esserlo.

l’Unità 10.3.13
La memoria di Benedetto Croce
Colloquio con Marta Herling, a capo dell’Istituto italiano di studi storici
La nipote del filosofo e figlia dello scrittore polacco Gustaw è la custode di un patrimonio gigantesco in un luogo complesso come Napoli «Una metropoli dura ma dove la cultura può risultare come un antidoto»
di Stefania Miccolis


PALAZZO FILOMARINO? I NAPOLETANI DI SPACCANAPOLI NON SANNO DOVE SI TROVA, MA SE CHIEDI LORO PALAZZO CROCE NON ESITANO CON QUELLA LORO CADENZA MUSICATA a indicarti quel possente grandioso e bellissimo palazzo, con l’ampio atrio ad archi nel quale visse il filosofo Benedetto Croce dal 1911 fino alla sua morte e nel quale oggi oltre alla Fondazione a lui dedicata si trova l’Istituto italiano per gli studi storici fondato proprio da Croce nel 1946.
Entrare nella casa che contiene ancora intatto l’archivio e la biblioteca del filosofo e camminare per i lunghi corridoi e le sale laterali piene di luce e ricoperte di libri, fa sentire tutto il peso della cultura e della tradizione italiana sulle spalle, e quell’orgoglio di identità nazionale che è forse l’unico valore che ci tiene ancora uniti in un Paese politicamente martoriato e culturalmente ferito.
Marta Herling, la nipote di Benedetto Croce, ma anche la figlia dello scrittore polacco Gustaw Herling, è il segretario generale dell’Istituto italiano di studi storici ed è erede di un grande patrimonio intellettuale. Dice: «Il confronto con questi due cognomi non era semplice, ma la cosa più importante è stato instaurare un dialogo, nel senso di continuità, su un piano che era un piano possibile, sia con mio nonno che con mio padre. Il caso vuole che una delle prime case in cui viene accolto Gustaw Herling durante la guerra – dopo l’esperienza nel gulag sovietico sia proprio quella di Croce, villa Tritone a Sorrento. E l’incontro fra i due segna anche l’incontro con la figlia del filosofo, Lidia Croce, una donna dall’intelligenza viva, tutt’ora irrinunciabile consigliera della Fondazione. «Una storia in un certo senso simbolica».
Marta Herling ha scelto di dedicarsi all’Istituto, creato e fondato (grazie soprattutto all’apporto economico della Banca Commerciale Italiana e al direttore Raffaele Mattioli) con una visione per l’avvenire: «In qualche modo un lascito alle giovani generazioni, un lascito al Paese negli anni del dopoguerra, una istituzione che ha avuto poi una importanza straordinaria». Istituzione che ha rischiato grosso per la politica dei tagli più di una volta. Ma resta ancora stabilmente a galla riconosciuto nella sua importanza e nel suo valore da molti, dal presidente Napolitano in primis che anche l’anno scorso ha fatto visita a palazzo Filomarino. «Una grande gioia», ricorda Marta Herling, una donna che nella vita ha superato numerose sfide. Una è stata quella di cercare un dialogo col padre «tanto che ho a un certo punto deciso di studiare e imparare il polacco perché era uno strumento importante per entrare in contatto con lui, col suo mondo, le sue radici e naturalmente la sua opera». Ora l’archivio di Gustaw Herling si trova nella Fondazione Croce, insieme a quelli delle figlie Alda, Elena, Silvia e della moglie del filosofo, Adele Rossi.
Bisogna distinguere le due istituzioni che hanno due vocazioni differenti, ma profondamente congiunte: la Fondazione biblioteca Benedetto Croce nata dopo la morte del filosofo grazie alla nonna Adele e alle quattro figlie, con lo scopo di conservare e valorizzare il patrimonio bibliotecaarchivio nella dimora di Croce, e l’Istituto italiano per gli studi storici con la funzione diversa di formazione e di ricerca, per giovani laureati e dottori di ricerca.
CARATTERE FAMILIARE
La Fondazione ha un carattere familiare; composta dalla famiglia segue le edizioni delle opere di Croce. Alda Croce ha sempre vissuto a Palazzo Filomarino; garante della continuità, ha tenuto il legame della famiglia all’interno dell’Istituto, ha curato la biblioteca e l’archivio del padre ed è stata il punto di congiunzione, il motore delle due istituzioni che entrambe hanno l’impronta dell’eredità di Croce ma in modo differente: «Una più legata al patrimonio, l’altra con una trasmissione al mondo esterno attraverso l’attività di alta formazione e di ricerca».
Alla fine degli anni ‘90 sono iniziati i progetti di informatizzazione per conservare e tutelare i documenti, oltre a renderli più facilmente accessibili. Si è iniziato col fondo imponente dei carteggi di Benedetto Croce «si valutano più o meno centomila documenti spiega già ordinato in vita da Croce, per anno e per corrispondenti, col suo collaboratore Giovanni Castellano».
Marta Herling racconta: «I documenti vengono schedati analiticamente, riprodotti in formato digitale con un programma che consente poi chiavi di ricerca; adesso c’è la possibilità di consultare un inventario informatico dal 1888 al 1928». Accanto a tale impegno, sin dagli anni ‘60 è stata avviata l’edizione dei carteggi: «Ne sono usciti circa 25 volumi; a seguirli con attenzione e a collaborare all’edizione di alcuni di essi vi era lo studioso Stefano Miccolis e dopo la sua scomparsa non è stato semplice continuare con la stessa scrupolosità».
L’informatizzazione e inventariazione riguarda anche altri fondi dell’archivio e della biblioteca, come per esempio la serie della miscellanea degli scritti su Croce, raccolti da lui stesso: «Raccoglieva, selezionava e annotava tutto ciò che veniva pubblicato su di lui e sulla sua opera: riviste, giornali, molti materiali che è difficile reperire altrove»
L’Istituto di studi storici ha una sua biblioteca che è cresciuta nel corso degli anni: all’inizio è nata col nucleo della biblioteca di Adolfo Omodeo e Federico Chabod , poi è aumentata fino agli attuali 130.000 volumi (donazione più consistente quella di Benedetto Nicolini), con un’importante collezione di riviste soprattutto straniere. È consultabile e aperta agli studiosi, agli studenti, ai laureandi e ai dottorandi che fanno riferimento soprattutto alle università napoletane.
Ogni anno ci sono circa quattordici borsisti che «si stabiliscono a Napoli per i sei mesi della borsa, vivono questa esperienza significativa e importante nell’Istituto: hanno la possibilità di seguire corsi e seminari di studiosi insigni, maestri, di avere rapporti con loro per le proprie ricerche, con un dialogo e uno scambio continuo».
Ci sono poi iniziative alle quali è stato dato il sostegno dell’Istituto: «Di recente le scuole storiche di Napoli hanno costituito un’associazione con l’intento di valorizzare i propri patrimoni, e abbiamo voluto dare la nostra collaborazione ed essere un punto di riferimento per questo progetto, anche per creare un contatto maggiore con il mondo della scuola e dei docenti», «Tenere vivi questi luoghi cotinua Marta Herling è un compito molto bello, ma non semplice in una città dalla realtà molto dura; preservare queste istituzioni con il loro patrimonio, la loro storia, i loro legami a livello nazionale e a livello internazionale, è impegnativo. Questo cuore di Napoli, questo centro antico, è punto di riferimento di studiosi italiani e stranieri, di giovani borsisti che provengono da esperienze e università diverse, da ambiti disciplinari che vanno dalla storia, alla filosofia, alla letteratura. C’è un’impronta di grande apertura, e l’Istituto ha preso una responsabilità in questa direzione umanistica». «Sono patrimoni e tradizioni fondanti della nostra identità e nonostante le difficoltà, c’è qualcosa di molto forte che fa sperare». Continuano ad esserci personalità e giovani che credono, che si impegnano e che vogliono tutelare e preservare il patrimonio culturale: «È segno che tali istituzioni possono andare avanti sia con la presenza familiare, che è importante, sia con apporti esterni, come è sempre stato nella compagine dell’Istituto e nella struttura organizzativa».

il Fatto 10.3.13
Il bottino dei nazisti
Il reporter e la caccia grossa al tesoro di Göring
Cinque casse piene d’oro in fondo al lago di Stolpsee:
il team di Svoray, figlio di due sopravvissuti ai campi, pronto al recupero
di Valeria Gandus


Il tesoro giace a circa 30 metri di profondità, adagiato su uno spesso strato di fango, alghe e detriti: almeno cinque casse piene zeppe di oro e platino immerse da quasi settant’anni nelle gelide acque del lago di Stolpsee, nel Brandeburgo (ex DDR), pochi chilometri a Nord di Berlino. Le casse fanno parte dell’immondo bottino di guerra dei nazisti: gioielli, monete, preziosi depredati agli ebrei sterminati nei campi. Un bottino al quale aveva attinto a piene mani Hermann Göring, il numero due di Hitler che, probabilmente, conservava quelle casse assieme a quadri, statue e reperti archeologici di immenso valore, a Carinhall, la sua villa vicino a Berlino. Il 28 aprile 1945 la villa fu distrutta da un bombardamento della Luftwaffe ordinato dallo stesso Göring. Ma solo dopo che i suoi tesori erano stati dirottati altrove: le opere d’arte a Berchtesgaden, nelle Alpi bavaresi, l’oro e i gioielli, 750 chili per un valore valutato, oggi, in oltre un miliardo di sterline, affondati nel lago di Stolpsee.
Quei 750 kg di preziosi e il fallimento della Stasi
Ed è lì che l’israeliano Yaron Svoray, 59 anni, a capo di un team internazionale specializzato in giornalismo archeologico-investigativo, le ha individuate. Un’impresa durata anni e che si concluderà solo a primavera, quando il suo gruppo (del quale fanno parte due italiani) perfezionerà la localizzazione del tesoro grazie a più sofisticate apparecchiature sonar messe a disposizione dal governo del Brandeburgo (che collabora all’operazione insieme con l’Ufficio tutela beni archeologici della regione), mentre un clima più mite consentirà ai ricercatori di calarsi in acqua e recuperare le casse. Ma chi è Svoray e come è arrivato a dipanare un mistero sul quale si era accanita, senza successo, perfino la Stasi, la famigerata polizia segreta della Germania dell’Est? Intanto, questa dell’oro di Göring non è la sua prima impresa. Figlio di due sopravvissuti ai campi di sterminio, negli anni Novanta Svoray si è infiltrato in un gruppo di neonazisti tedeschi e ha raccontato in un libro diventato poi anche film (in Italia l’ha pubblicato Mondadori con il titolo Neonazi) la sua esperienza. Nel libro successivo, Blood from a stone (Sangue da una pietra) ha invece ricostruito la storia del ritrovamento, oltre mezzo secolo dopo, di un sacchetto di diamanti che due soldati americani avevano sequestrato ai nazisti e sepolto in una trincea. Lo stesso è accaduto con la cassa piena di sterline false (giaceva sulf ondo di un altro lago, quello di Topliz, sempre in Germania) che erano state messe in circolazione dai nazisti per affossare l’economia britannica. Ma il ritrovamento più emozionante e commovente è stato quello, nel 2006, dei poveri averi (anelli, occhiali, orologi, braccialetti, monete) che i deportati del campo di Majdanek, in Polonia, avevano seppellito quando, ormai certi di non poter più lasciare il campo se non attraverso il camino, avevano deciso di consegnare ai loro aguzzini null’altro che la vita. Gli scavi a colpo quasi sicuro in quel che resta del campo di sterminio erano avvenuti sulla scorta delle testimonianze di alcuni sopravvissuti che, tornati sul luogo dei loro tormenti, avevano indirizzato le vanghe verso i punti in cui ricordavano di aver scavato loro, tanto tempo prima, a mani nude. Anche oggi l’operazione di recupero delle casse d’oro e preziosi parte dalla testimonianza, resa molti anni orsono, da gente del posto. Uno dei testimoni, Eckhard Litz, ha dichiarato a una commissione d’inchiesta degli Alleati: “Ricordo bene la notte in cui gli autocarri arrivarono in riva al lago. Ho visto circa venti-trenta figure scheletriche vestite con le uniformi a strisce dei campi di concentramento costrette a scaricare pesanti scatole. Queste sono state poi messe su due barche a remi che hanno fatto sei viaggi al centro del lago. Quando l'ultima cassa era stata gettata in acqua, gli uomini sono stati allineati e l'ultima cosa che ho visto sono stati i lampi delle mitragliatrici delle guardie”. Il testimone ha aggiunto che i corpi sono stati poi caricati nuovamente sulle barche a remi e affondati anch’essi al centro del lago.
I prigionieri fucilati dopo il trasbordo al largo e la mappa dell’ufficiale della Luftwaffe
A dirigere l’operazione era un ufficiale della Luftwaffe che, eseguito il suo compito e prima di darsi alla fuga verso il Sudamerica, schizzò su un foglio un’approssimativa mappa del tesoro: la stessa che per vie traverse è arrivata nelle mani di Svoray. Una copia della stessa mappa era giunta, negli anni Settanta, anche nelle mani della Stasi che, nel 1981, affidò al comandante Erich Mielke il compito di ritrovare le casse attraverso la cosiddetta operazione “Herbstwind”. “Ma lo Stolpsee è un lago difficile, tortuoso, la mappa non è di semplice interpretazione e le attrezzature dell’epoca non permettevano di dragarlo in maniera corretta”spiega Luca Masiello, uno dei due investigatori italiani, altoatesino come la collega Franziska Stubenruss. “Così, dopo qualche tentativo, la Stasi ritirò le sue truppe rinunciando al progetto”. Svoray, invece, sembra aver centrato l’obiettivo. Da pochi giorni i due italiani sono tornati dalla missione e raccontano al Fatto i retroscena dell’operazione: “Il team, del quale facciamo parte, oltre a Yaron e a suo fratello Ori, è formato da un’élite di investigatori, professionisti dell’indagine, ‘profilers’, esperti di storia contemporanea, che segretamente e periodicamente si tuffano in un’altra vita e affrontano mille difficoltà per seguire quella X sulla mappa, trovarla e poi scavare” spiega Masiello. “I detective si sono attivati nell’ex quartier generale della Stasi, dove hanno intervistato decine di persone anziane che vivono lungo le rive del lago. Fra queste Erich Koehler, un’arzillo ottantenne già pastore protestante e sindaco del maggior centro sullo Stolpsee, che ricorda ancora le operazioni della polizia segreta”. “Siamo certi che l’oro sia lì, e adesso tocca a noi riportarlo alla luce” aggiunge Franziska Stubenruss. “Ci sembra un atto dovuto, un riconoscimento alla storia e soprattutto il nostro modo per riportare un minimo di giustizia alle vittime dei nazisti”.

il Fatto 10.3.13
In Israele
Se il fratello Albert diventa “giusto”
di Rob. Zun.


Che cosa significhi portare il cognome Göring lo ha spiegato bene Bettina, la pronipote del braccio destro di Hitler, Hermann, principale responsabile dell'Olocausto. Intervistata qualche anno fa a proposito della pesante eredità con cui doveva fare i conti tutti i giorni della sua vita, confessò di essersi fatta sterilizzare per evitare il rischio di generare altri mostri. Così fece suo fratello. Ma nemmeno quella scelta dolorosa e senza ritorno sembra aver placato il loro dolore. Oggi però un libro, scritto dall'australiano William Hastings Burke intitolato Il fratello di Hermann, chi era Albert Göring? potrà dare loro un po' di sollievo. Nel libro si racconta la storia di Albert, il fratello minore di Hermann che salvò almeno 34 ebrei da morte sicura nei lager. I suoi gesti descrivono un uomo che ha messo a rischio più volte la propria esistenza pur di salvare quella degli ebrei con i quali era entrato in contatto. E lo fece proprio utilizzando il suo cognome, che incuteva terrore anche tra i soldati nazisti, che ovviamente non immaginavano il suo doppio gioco. Il 9 maggio 1945, si arrese agli americani che non credettero alla sua versione dei fatti fino a quando non compilò una lista di nomi di ebrei da lui salvati. Tra questi c'era il nome della zia di chi lo stava interrogando cioè la moglie ebrea del noto compositore d’opera Franz Lehar. Nonostante questo fu mandato a Praga, nella prigione di Pankrác assieme a criminali di guerra tedeschi e processato nel 1947. Solo la testimonianza dei lavoratori dello stabilimento Skoda lo salvò dalla condanna a morte. Albert aveva infatti diretto la Skoda automobilistica, in Cecoslovacchia, e la Gestapo lo guardava con sospetto. L'intervento di Hermann in persona aveva evitato che finisse dentro più di una volta. In una lettera al presidente della corte, l’intellettuale e regista Ernst Neubach scrisse che "centinaia di uomini e donne avrebbero dovuto ringraziare Albert Göring per averli salvati dalla Gestapo e dai campi di concentramento". Quando Neubach cercò di portare il suo amico Albert Göring all'attenzione del mondo nel 1962, i tedeschi stavano ancora cercando di mettere a tacere il passato. Nessuno, né il pubblico né gli storici, era interessato a un Göring. Morto da solo e in povertà nel 1966 a Monaco - la sua tomba è stata livellata nel 2008 - ora la sua memoria potrebbe trovare finalmente il giusto riconoscimento, nel giardino del museo dell'olocausto di Tel Aviv, lo Yad Vaschem, assieme agli altri Giusti delle Nazioni. Sembra che l'iter sia ormai completato e che Israele abbia deciso di piantare un albero che porterà il suo nome per ricordare l'Abele della famiglia Göring.

La Stampa 10.3.13
Professione Antonioni architetto dell’immagine
A Ferrara una mostra sul rapporto del regista con le arti
di Marco Vallora


Michelangelo Antonioni, nato a Ferrara nel 1912, è morto a Roma nel 2007

Che miracolo, che Ferrara, per celebrare senza noia filologica un artista come Antonioni per il suo centenario (1912), abbia avuto il colpo di genio di chiamare un genio delle rassegne-retrospettive «impossibili» quale Dominique Païni. Che a Parigi è riuscito a rendere «visibili» mostri sacri e inafferrabili come Barthes, Cocteau, Godard, «regista» inoltre d’una mostra insuperabile come «Hitchcock e le arti». «Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti» è aperta da oggi al 9 giugno nel Palazzo dei Diamanti.
A questo punto il critico si trova di fronte a un bivio. O documentare tutte le mille gemme di questo scavo inedito, nell’archivio privato di Antonioni: lettere, brogliacci, finzi-continiana racchetta da tennis, sceneggiature biffate, affiche, spezzoni, oggetti e tele, che hanno avuto un ruolo nel suo immaginario ottico o nel décor stesso dei suoi film (dal simbolico «deserto rosso» di un Burri combusto, in suo possesso, allo Spettro cromatico di Futurballa, ingrandito ad affresco, per una scena di danza di film). O invece lasciarsi catturare dal flusso elettrico della «sceneggiatura visiva», dell’abilissimo «film» polifonico e stratificato che Païni ha saputo «girare», in queste sale, rivoluzionando del tutto, con la sua passione bruciante per il Ferrarese, i luoghi comuni e gli stereotipi assassini, anche critici, che hanno ucciso lentamente il magistero «strano» del proverbiale «regista dell’incomunicabilità».
Altro che incomunicabile!, sembra gridare dalle pareti il suo paladino ariostesco e furioso. A partire proprio dal Grido, e dal primo Antonioni, à la Visconti ( Gente del Po, come sua versione o premonizione di Ossessione; La signora senza camelie quale variante di Bellissima; e la magnifica preda Lucia Bosé, «bella come Greta Garbo», in contrapposizione, speculare, con Anna Magnani). Anzi, iper-comunicante, sostiene: soltanto non con parole inutili («se parlassimo meno saremmo salvi», predicava agli amici-storici Bassani e Caretti, l’italianista votato all’Ariosto) ma di gesti, di comunicazione semiotica, di «cose». Basterebbe l’iperfotogramma della Notte, con seggiola Eames, libreria Albini, Sironi e Campigli alle pareti, e un giornale caratterizzante come La Stampa in mano a Mastroianni, a dirlo architetto dell’immagine.
Pittore-nato, e poi per tutta la vita, studente di architettura (i titoli di testa della Notte scivolano su una panoramica verticale del Pirellone di Giò Ponti, poi macchiato dalla politica; molti dei suoi primi film si giocano claustrofobici tra gli scenari urbanistici d’una Milano littoria, pre-Basilico), Antonioni odia l’ideologia, la parodizza nei suoi dialoghi vuoti (che attiravano l’ironia di Arbasino, ma anche il plauso di Eco e di Barthes), lavora di spazi e d’assenza, di latitanza narrativa, più che non di densità significante. Annoiando i contenutisti e sgomentando i predicatori marxiani. C’è una interessantissima lettera, pur intelligente, di Fortini, che bacchetta come un maestro di scuola l’evasivo Antonioni. Rispondono imbarazzati gli sceneggiatori Ottieri e Guerra.
«Ma è ovvio che aveva ragione Antonioni, a distanza. Era lui che aveva capito tutto», insiste Païni. Non Calvino, che si sfila dal rischio-tentazione di collaborare a Blow up (tratto da un racconto del suo amico Cortázar) perché ritiene troppo debole l’intreccio «giallo«. Non Sciascia, che fa il pignolo neorealista («impensabile una corriera MilanoNoto, e poi un tenente, simbolo del potere, che parla in dialetto! »), passi semmai il più osmotico Fellini, che candidamente ammette, in visita a Professione reporter: «Caro amico, adesso ti conosco meglio e ti voglio più bene», anche «dopo aver vissuto come in sogno le tue angosce, sincero fino a farmi provare imbarazzo».
E non è vero nemmeno che Deserto rosso sia un film finalmente impegnato, «è già una fuga-condanna», spiega Païni, «dall’Italia della corruzione industriale, del comunismo avanzante, dalla malattia dell’eros. Basta riflettere al titolo». E non è vero nemmeno l’approdo vero al colore: Antonioni continua a vedere in bianco e nero (Courrèges) aggiungendo pennellate innaturali, artificiali, industriali. Va a visitare Rothko a New York, vuole compragli un quadro fatto di puro nulla, nella distruzione esplosiva del consumismo di Zabriskie pare guardare a Schifano, che quasi autonomamente firma la deflagrazione parallela di Tutti morti. E poi, fuga nel verde «green» e liberatorio del parco poliziesco di Blow up. Ma tutta la sua poetica è un ingrandimento. Per leggere meglio un enigma, che non si può spiegare: se esageri con lo zoom, la visione si disfa. Un po’ quello che succede con le sue Montagne dipinte, ingrandimenti leonardeschi di piccoli cammei di natura che, ingranditi, rivelano, anche al suo autore, paesaggi imprevisti.
Nemmeno la tesi d’Antonioni regista-intellettuale resiste più: «No, lui era solo un sentimentale innamorato del mélo». L’unico a essere tradotto in fotoromanzo. Da sempre affascinato dalla fotogenia del divismo: la bruna Bosé, la bionda Vitti. Ma, anche qui, cade pure il luogo comune del regista delle donne. «Lui le guarda sempre attraverso il filtro di figure di latin lovers che gli assomigliano (Girotti, Ferzetti, Mastroianni, Rabal), e quando tenta di capire, proustianamente, il femminile, in Identificazione di una donna, è una catastrofe». In fondo non è che un discepolo rinascimentale di Piero della Francesca, che si prova a capire la Contemporaneità. L’Unico, sostiene Païni.

La Stampa 10.3.13
Gli antichi Romani commerciavano con le Americhe?


Gli antichi Romani avevano navigato fino alle Americhe? Ne è convinto il divulgatore scientifico Elio Cadelo, che ha tenuto una conferenza a margine della rassegna bolognese di cinema archeologico «Storie dal passato». A sostegno delle sua tesi ha citato le analisi del Dna dei farmaci fitoterapici rinvenuti in una nave romana naufragata davanti alle coste toscane tra il 140 e il 120 a.C. Sull’imbarcazione viaggiava anche un medico, del quale il relitto ha restituito il corredo: fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette chiuse contenenti pastiglie molto ben conservate. Tra gli altri reperti, ha fatto osservare Cadelo, due piante officinali «che hanno destato forte perplessità fra gli studiosi: l’ibisco, che poteva solo provenire da India o Etiopia, e, soprattutto, i semi di girasole». Ma il girasole, secondo le cognizioni fino a ora accettate, arrivò in Europa solo dopo la conquista spagnola delle Americhe: il primo a descriverlo fu Pizarro, raccontando che gli Inca lo veneravano come l’immagine della loro divinità solare.

Corriere 10.3.13
Se il suono spodesta l'idea
Per Morton Feldman la musica sfugge a ogni sistema «No alle pretese autoritarie di Boulez e Schoenberg»
di Mario Andrea Rigoni


Benché fossi stato da sempre un ammiratore istintivo, qualche volta estatico, delle musiche del compositore americano Morton Feldman, non immaginavo che la raccolta dei suoi brevi scritti, per lo più di carattere occasionale, adesso pubblicati da Adelphi sotto il titolo quanto mai appropriato di Pensieri verticali (traduzione di Adriana Bottini, pp. 306, 30), avrebbero costituito una lettura tanto rivoluzionaria, elettrizzante e poetica.
Tutti gli artisti, musicisti compresi, inseguono costantemente un'idea: il genio di Feldman è stato invece quello di andare alla ricerca di una non-idea. Chi abbia un minimo di familiarità con la storia dell'estetica sa che, quantunque Feldman non citi mai Wackenroder o E.T.A. Hoffmann o Schopenhauer, in ogni caso la sua posizione rimanda alla scoperta romantica della musica assoluta, ossia all'esaltazione della musica strumentale come arte suprema in quanto arte extraconcettuale: a differenza della letteratura e dell'arte figurativa, ineluttabilmente complici del concetto, la musica si sottrae alla sfera del significato e, proprio per questo, è la sola arte capace di affacciarsi sull'essenza metafisica del mondo.
Ma la singolarità e l'interesse sia della riflessione sia della musica di Feldman consistono nell'aver compiuto un passo ulteriore rispetto al romanticismo nel cui cerchio noi, in realtà, ancora e sempre viviamo e operiamo: sulle tracce di Varèse, al quale riconosce il merito di avergli fatto intuire «come si può separare il talento dai modelli e dalle estetiche», Feldman cerca il suono puro, il suono isolato, il suono sottratto alla costruzione e al sistema. Ciò comporta svariate conseguenze, innanzitutto una diversa esperienza del tempo, che Feldman descrive con una di quelle fulminee metafore che fanno di lui anche un eccellente scrittore aforistico. Infastidito dall'uso di organizzare, manipolare e scandire questa esperienza, egli osserva: «Se devo essere sincero, questo modo di considerare il Tempo mi annoia. Non sono mica un orologiaio. A me interessa arrivare al Tempo nella sua esistenza non strutturata. Vale a dire, a me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo».
La metafora animale non si insinua per caso, dato che l'espressionismo astratto di Feldman e del suo gruppo di amici (John Cage, Earle Brown, Christian Wolff e David Tudor), che dall'inizio degli anni Cinquanta intendevano proporre una musica indeterminata, implica un abbandono della storia: «Quello che facevamo non voleva essere una protesta contro il passato. Ribellarsi alla Storia è pur sempre segno di coinvolgimento. Noi, semplicemente, non provavamo interesse per i processi storici. A noi importava il suono in sé. E il suono è ignaro di Storia». Tanta aerea indipendenza e libertà si pone in inevitabile antitesi con la scuola di Darmstadt: «Alla stessa stregua, il nostro lavoro non possedeva l'autoritarismo, starei per dire l'elemento di terrorismo, insiti negli insegnamenti di Boulez, di Schoenberg e ora di Stockhausen». La faccenda si può anche riassumere in questo aforisma: «Stockhausen crede in Hegel; io credo in Dio. Tutto qui». In tale prospettiva Feldman non risparmia del tutto il suo meraviglioso maestro e amico John Cage: «Luigi Nono vuole che tutti si indignino. John Cage vuole che tutti siano felici. Entrambe sono forme di dispotismo, anche se noi ovviamente preferiamo quella di Cage». All'artista non si può chiedere di interessarsi della società perché questo non può essere il suo mestiere né il suo dovere: «Chiedere a noi di parlare della società è come chiedere un fiammifero a qualcuno che sta reggendo una pila di piatti». L'artista, nella fattispecie il musicista, deve sprofondare dentro il suo materiale, la sua atmosfera, il suo strumento, dai quali soltanto può venire quel contributo personale che è la sola cosa che conti. D'altronde proprio questo tipo di artista antiaccademico, apparentemente disimpegnato e tipicamente americano (Feldman era uno che lavorava nell'azienda paterna di abbigliamento per bambini), può avere la serietà d'impartire una lezione morale anche all'Europa: «Soltanto in Europa si trovano persone così: che fanno una rivoluzione radicale, ghigliottinano a destra e a manca tutti quelli che non sono d'accordo, e poi dicono: scusate, abbiamo cambiato idea».
Il libro di Feldman, accompagnato da un'introduzione di B.H. Friedman, da una postfazione di Frank O'Hara e una nota, al solito acuta, di Mario Bortolotto, offre svariate suggestioni, a incominciare dall'aspetto biografico del falstaffiano autore. Feldman, un omaccione alto un metro e ottanta, taglia da centotrenta chili, avido amante della vita, lettore tenace, si interessa vivamente di pittura frequentando Rothko, Pollock, Rauschenberg, Philip Guston, le cui opere in effetti presentano affinità con la sua musica. Rothko Chapel, una delle sue composizioni più note, ispirata alle quattordici austere, mistiche tele che Rothko dipinse per la Cappella de Menil a Houston, esemplifica magnificamente questo rapporto, al tempo stesso in cui mostra come il suono, svincolato da tutto al di fuori che dalla propria tensione o dalla propria stasi, si libra in «una processione immobile, un po' come nei fregi dei templi greci».
Infine, oggi che non sembra esserci più niente tanto nella musica quanto nell'arte, come non provare un piccolo spasmo al cuore pensando agli anni in cui nel Village succedevano ancora tutte queste cose?

Corriere Salute 10.3.13
I rischi dell’intelligenza artificiale
Futuri computer cui tener testa


Succederà nel 2029. L'enorme progresso nel settore dei computer, sempre più potenti, piccoli ed economici, avrà reso le macchine intelligenti quanto l'uomo. A quel punto dovremo usare la tecnologia in modo diverso, impiantandoci nel cervello chip e strumenti che aumenteranno le nostre capacità mentali. Parola di Ray Kurzweil, scrittore, inventore e futurologo statunitense, che chiama singolarità questo punto di non ritorno verso un sempre più stretto connubio fra uomo e macchina.
Un argomento da prendere sul serio, come ha spiegato Luke Muehlhauser, direttore del Machine Intelligence Research Institute di Berkeley, in California, durante l'ultimo Singularity Summit, che si è tenuto in ottobre a San Francisco: «L'intelligenza artificiale tra breve sarà molto superiore a quella umana, che è considerevole, ma di certo migliorabile: dobbiamo essere pronti e, nel frattempo, indirizzare l'intelligenza artificiale in modo che faccia quello che vogliamo». Il sottinteso è chiaro: robot intelligenti come e più dell'uomo potrebbero pure soppiantarci come specie, se non stiamo attenti.
La strada per tenere testa alla carica di macchine al cui confronto il cervello di Einstein parrà quello di un insetto sarà davvero aumentare artificialmente le nostre potenzialità cerebrali, che tanti giudicano enormi e ancora per lo più inesplorate? «L'argomento ha risvolti etici non indifferenti — dice Giulio Sandini, direttore del Dipartimento di robotica, scienze cognitive e del cervello dell'Istituto italiano di tecnologia di Genova —. Come potrebbe essere questo "superuomo"? Che uso potrebbe fare della sua intelligenza superiore? In fondo strumenti che aumentano le nostre capacità cerebrali già ci sono, solo che sono esterni a noi: il cellulare che ci ricorda gli appuntamenti o il web che ci fa accedere in un attimo a informazioni che in passato avremmo dovuto cercare per ore in una biblioteca esistono già, si tratta di capire quanto riterremo accettabile impiantarci un chip o altri apparecchi che portino tutto questo direttamente dentro il cervello».
La realtà aumentata degli occhiali di Google va in questa direzione, che secondo molti è anche il primo passo verso una tecno-delega della memoria: telecamere registreranno ogni cosa che vediamo, sarà come avere una memoria perfetta, visto che la nostra, valutata dal punto di vista di un computer, è piena di buchi. «Studiare seriamente questi argomenti ci aiuterà a capire un pò meglio come funziona il nostro cervello — osserva Sandini —. Prima di arrivare alla possibilità reale di aumentare l'intelligenza umana con un chip abbiamo ancora un pò di tempo: questo ci consentirà di adattarci senza traumi all'idea, affrontandone le implicazioni etiche». Guai a credere che si tratti di un futuro molto lontano: poche settimane fa, su Nature, ricercatori svizzeri hanno presentato le prime «cellule bioniche» in grado di far di conto, sommando o sottraendo i numeri binari zero e uno. Un «computer biologico», dicono gli autori, che potrebbe esserci impiantato per diagnosticare malattie, gestire terapie, interfacciarsi con strumenti elettronici.

Corriere Salute 10.3.13
Donazione di organi
Il consenso espresso all'anagrafe abbatte il tasso di opposizioni
di Ruggiero Corcella


Sta funzionando bene l'esperienza di consentire di esprimere la volontà (consenso o diniego) alla donazione di organi e tessuti al momento del rinnovo o del rilascio della carta di identità. Nata dalla collaborazione tra ministero della Salute, Centro nazionale trapianti e Federsanità Anci, questa esperienza, partita il 23 marzo 2012 come progetto pilota a Perugia e Terni, è stata estesa dalla Regione Umbria a tutti i suoi 90 Comuni. Da dicembre scorso, poi, Cesena ha accettato di fare da battistrada in Emilia Romagna dove presto sarà seguita da Bologna.
Ebbene, in 11 mesi sono stati raccolti a Perugia e Terni 4.481 consensi e 204 opposizioni. In pratica, come fanno osservare dalla Regione, «più della metà delle dichiarazioni inserite in oltre 10 anni dalle Asl umbre e dal Centro regionale trapianti». A Cesena, sono già stati dichiarati 336 consensi e 9 opposizioni. «Ma abbiamo ricevuto richieste anche da Toscana, Veneto, Marche e Provincia autonoma di Bolzano, — spiegano dal Centro Nazionale Trapianti, direttore del Centro nazionale trapianti — tanto che abbiamo portato la questione in Conferenza unificata perché sia emanata una specifica direttiva valida su tutto il territorio nazionale». Per capire meglio la novità, occorre spiegare il quadro legislativo in vigore. La donazione è regolata dalla legge 91 del 1999 sui prelievi e i trapianti di organi e di tessuti. La normativa introduceva il principio del silenzio-assenso informato: ogni cittadino doveva essere interpellato ed esprimere obbligatoriamente il proprio assenso o dissenso al prelievo degli organi post mortem, con una notifica dell'Asl. In caso di mancata risposta, si veniva riconosciuti come donatori. Per una serie di motivi, legati da una parte a difficoltà organizzative e dall'altra alle remore di bussare alla porta degli italiani su un tema così delicato, la legge è rimasta in regime transitorio. Nelle more, un decreto successivo ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, per cui a chiunque è data la possibilità (non l'obbligo) di dichiarare validamente la propria volontà.
Ma come? Oggi è possibile riempire un modulo agli appositi sportelli delle Asl o delle Aziende ospedaliere, dal proprio medico di famiglia o anche sul sito del Centro nazionale trapianti. Oppure si può scrivere se si vuole o non si vuole donare su un comune foglio bianco, che riporti nome, cognome, data e luogo di nascita, data della dichiarazione e firma. O ancora, si può far risultare la propria volontà dalla tessera o da un atto olografo dell'Aido (l'Associazione italiana donatori organi) o dal cosiddetto «tesserino blu» del ministero della Salute.
Nel 2008, un decreto aveva esteso ai Comuni la possibilità di ricevere le dichiarazione, previa convenzione con le Asl, ma di fatto era stato utilizzato molto poco. Nel 2010, il cosiddetto decreto Milleproroghe ha aggiunto alle modalità già in vigore anche la dichiarazione all'ufficio anagrafe, legata alla carta d'identità. La soluzione studiata e applicata in Umbria, diventata il modello per tutti, contempla due passaggi: quando un maggiorenne si rivolge allo sportello anagrafe del Comune per avere il documento di identità, l'impiegato (appositamente formato) lo informa della possibilità di inserire nel Sistema informativo trapianti (Sit) la dichiarazione sulla donazione di organi e tessuti. L'impiegato poi trasmetterà la dichiarazione di volontà al Sit. «Questa strada per noi è importantissima — sottolinea Vincenzo Passarelli, presidente Aido —. Non ci sono state reazioni negative agli sportelli dell'anagrafe, perché dipende anche dal modo in cui si chiedono certe cose. Ecco l'importanza della formazione dei dipendenti dell'anagrafe, alla quale contribuiremo anche noi».
In Italia, esiste una percentuale di opposizioni (oggi pari al 26,8%) alla donazione di organi e tessuti, considerata "fisiologica" dagli esperti. Il Centro nazionale trapianti ritiene tuttavia che si potrebbe recuperare almeno un ulteriore 20% di consensi alla donazione, così da potere disporre su tutto il territorio nazionale di un milione in più di potenziali donatori.

Corriere Salute 10.3.13
Arnaldo di Villanova
Il medico di quattro Papi che voleva riformare la Chiesa
di Armando Torno


Arnaldo di Villanova (in catalano Arnau de Vilanova) si incontra nella storia della medicina e non manca in quella dell'alchimia; spunta nei repertori di filosofia, ha persino un suo posto nella botanica, è importante per comprendere talune correnti della spiritualità e della teologia medievali. Potremmo aggiungere che ebbe anche incarichi politici o meglio diplomatici, ma forse è il caso di limitarsi a ricordare che fu uno di quegli spiriti medievali umanisti ante litteram. È da evidenziare il fatto che lasciò tracce del suo sapere anche in farmacologia, in chimica e in astrologia. La sua data di nascita è posta tra il 1234 e il 1240, ma della prima parte della sua vita conosciamo pochissimo, tanto che è persino difficile stabilire con certezza la sua città di nascita (il toponimo Villanova era diffuso in Italia, Spagna e Francia, anche se — nonostante i suoi studi universitari a Montpellier e a Parigi — ha lasciato opere in catalano e latino). La data della morte oscilla, a seconda delle fonti, tra il 1311 e il 1313. Finì i suoi giorni al largo di Genova, nel 1312. Si stava recando ad Avignone per curare papa Clemente V, uno dei suoi illustri pazienti. Perché occuparsi di Arnaldo? Per un semplice motivo: Antoine Calvet ha raccolto le opere alchemiche a lui attribuite, mettendo così a disposizione i suoi scritti medico-profetici con testo e traduzione francese.
Viaggiatore instancabile, aveva appreso sia l'ebraico che l'arabo. Tra i suoi allievi spicca il celebre mistico spagnolo Raimondo Lullo, che le storie della filosofia ricordano anche come Doctor Illuminatus. La sua fama di medico fu tra le più grandi; curò quattro Papi: Innocenzo V (1276), Bonifacio VIII (1294-1303), Benedetto XI (1303-1304) e Clemente V (1305-1314). Non solo, a questo dottore, allievo delle scuole di Montpellier e Parigi, si affidarono diversi re, a cominciare dai due d'Aragona, Pietro III il Grande (1276-1285) e Giacomo II il Giusto (1285-1327), sino a Roberto d'Angiò (1309-1343) di Napoli; né sarebbe mancato in Sicilia Federico II d'Aragona (1296-1337). Nel suo Breviarium practicae, che ebbe una prima edizione a stampa a Venezia nel 1483, si possono trovare osservazioni sulle malattie conosciute al tempo: Arnaldo aveva utilizzato per la bisogna raggruppamenti che consideravano i sintomi fisici, funzionali e soggettivi; soprattutto egli si concentrava sulle cause, che differenziava in determinanti (eziologiche), antecedenti (ereditarie) e congiunte. Le sue opere di medicina, comunque, vennero più volte ristampate, anche se in edizioni incomplete: da quella di Lione del 1504 alla parigina del 1509 o alla veneziana del 1514. Per tutto il XVI secolo Arnaldo è considerato un riferimento, come prova del resto ancora l'impressione degli scritti uscita a Basilea nel 1585. Del resto, i suoi molteplici interessi lo ponevano continuamente al centro dell'attenzione: per esempio, in botanica si dedicò allo studio dei semplici (ovvero alle varietà vegetali con virtù medicamentose) ; il suo nome resta legato a taluni usi terapeutici delle piante e all'utilizzo della teriaca (antico rimedio che si usava contro il veleno da morsi di serpente). Nè va dimenticato che, grazie agli interessi alchemici, resta un punto di riferimento quando si parla dell'estrazione dell'alcol dal vino o per l'essenza di terebentina (un'oleoresina che si ricava per incisione della corteccia di una pianta della famiglia delle anacardiacee: si usava per le affezioni bronchiali). Come se ciò non bastasse, al suo nome, per varie ragioni, si rimanda parlando degli acidi solforico, muriatico e nitrico (anche se, quasi sicuramente, si è limitato soltanto a scriverne) ; comunque il suo Commentario al regime salernitano, che venne già stampato nel 1479, ebbe una diffusione notevolissima. Infine — è qualcosa che oggi potrebbe farci sorridere ma allora fu un'indicazione preziosa — nel suo Libellus de improbatione maleficiorum, anche se ammetteva la realtà degli incantesimi, parlò dell'esistenza di cause morbose nelle manifestazioni di stregoneria. Il suo sapere medico, pur restando quello di un vero maestro, sconfinava, come per molti personaggi del mondo medievale e umanistico, in numerose discipline: Arnaldo non riuscì a tenersi lontano da considerazioni escatologiche sulla fine del mondo o dai pronostici riguardanti l'avvento dell'Anticristo (da lui previsto nel 1367). Diremo, tra l'altro, che ispirandosi alle dottrine di Gioacchino da Fiore e Pietro di Giovanni Olivi scrisse una Expositio Apocalypsis e, appunto, un De adventu Antichristi: non occorre aggiungere altro per spiegare la denuncia dei teologi di Parigi e, dopo la sua morte nel 1316, la condanna dell'Inquisizione di Tarragona.
Non si limitò comunque a questo: nel 1304 presentò a papa Benedetto XI un progetto per la riforma della Chiesa, invocante povertà, purezza, umiltà e carità. L'improvvisa morte del Pontefice, il 7 luglio di quell'anno, impedisce di conoscere gli esiti dell'iniziativa. Ma tale fine è avvolta da fumi e incertezze: gli storici parlano di un'acuta dissenteria, talune fonti religiose sostengono l'avvelenamento. In quest'ultimo caso spunta il nome di un francescano, Bernard Délicieux, il quale ebbe occasione di scrivere ad Arnaldo che, stando alle profezie di Gioacchino da Fiore, la morte del Papa sarebbe avvenuta proprio nel 1304: il poverino fu incolpato senza eccessive difficoltà. Altre fonti religiose, registrate soprattutto nelle storie della Chiesa o del papato di età rinascimentale e barocca, ricordano che il vicario di Pietro in questione morì a causa di una scorpacciata di fichi trattati in precedenza con polvere di diamante. Come «sistematore» di un simile piatto venne chiamato in causa Guglielmo di Nogaret, cancelliere di Filippo il Bello, passato alla storia quale autore dello schiaffo a Bonifacio VIII. Un atto che non commise, o almeno si trattò di una sberla morale, non fisica: i suoi scritti rivendicavano l'autonomia del potere regio rispetto a quello pontificio.
Per tornare ad Arnaldo di Villanova, aggiungiamo che ostinatamente ripropose il progetto a papa Clemente V (1305-1314), successore di Benedetto XI: questa volta sua santità non gradì l'orizzonte di ristrettezze paventato per la Chiesa e fece mettere in prigione il medico zelante. D'altra parte, il nepotismo di Clemente V fu dei più forti, tanto che cinque membri della sua famiglia vennero creati cardinali e ad altri lasciò somme ingenti. In prigione Arnaldo non restò per molto, giacché nel 1309 sarà richiamato dal medesimo Papa, grazie alle sue indiscutibili capacità mediche, per le cure di cui necessitava. E quel sant'uomo gli aggiunse un incarico all'Università di Montpellier.

Corriere La Lettura 10.3.13
C'è vita nella spazzatura
La parte del Dna ritenuta inutile svolge in realtà un ruolo cruciale
di Edoardo Boncinelli


Da tempo abbiamo appreso due cose sorprendenti ma inoppugnabili sul nostro genoma: possediamo più Dna di quanto ci sembra necessario, così che qualcuno ha potuto parlare in passato di Dna in eccesso o «Junk Dna», cioè «Dna spazzatura», e inoltre l'Rna, il cugino minore del Dna, è sempre più importante per la fisiologia della cellula, cioè in definitiva del nostro corpo. Nella considerazione di questo problema esistono almeno due aspetti, uno qualitativo e uno quantitativo. Su quello qualitativo non ci sono dubbi: molta parte del nostro Dna totale è tirato in ballo dalla cellula in una maniera o nell'altra. I dubbi possono sorgere sul piano quantitativo: quanta parte del nostro Dna è così effettivamente tirato in ballo? 10, 30, 70 o 100 per cento?
Consideriamo il primo aspetto del problema, biologicamente più interessante, che si riassume dicendo che l'Rna sembra fare sempre più cose nella cellula e che anche la parte del Dna che sembrava non utilizzata viene copiata in molecole di Rna che hanno diverse funzioni.
Il nostro patrimonio genetico è costituito da molecole di Dna, che se ne stanno ben protette all'interno del nucleo delle cellule. Perché il suo messaggio esca però dal nucleo e venga recepito e realizzato dalla cellula, occorre l'intervento di un altro acido nucleico, l'Rna. Questo lo sappiamo da decenni. Quando una particolare regione del Dna deve attivarsi per produrre la proteina che specifica, occorre per prima cosa che se ne faccia una «copia conforme» costituita di Rna, chiamato Rna messaggero. Si dice che quel tratto di Dna viene «trascritto» per dare quel messaggio. Si chiama «trascrizione», infatti, l'operazione di copiatura del messaggio portato dal Dna in una molecola di Rna. Questo Rna messaggero esce dal nucleo, va nel citoplasma, si adagia su una successione di ribosomi in fila e lì ottiene che il suo messaggio venga «tradotto» in una proteina. Si chiama «traduzione» la sintesi di una specifica proteina come realizzazione finale di un particolare messaggio genetico.
Da tempo non ci si sapeva spiegare perché il ruolo dell'Rna, più fragile ma più duttile del Dna, fosse così limitato, considerando soprattutto che molti ritengono che sia esistito in un lontano passato un «mondo a Rna», nel quale la maggior parte delle operazioni genetiche, compresa la stessa codificazione del patrimonio genetico, era opera dell'Rna in congiunzione con alcune proteine. Negli ultimi trent'anni è apparso sempre più chiaro che il ruolo dell'Rna non è confinato al semplice schema riportato sopra. L'Rna sembra anzi farne di tutti i colori, per regolare in ogni particolare l'attività dei diversi geni, tanto a livello trascrizionale, che post- trascrizionale e traduzionale. Ciò non appare solo dalle ricerche del consorzio internazionale Encode, ma anche dal lavoro di molti altri gruppi attivi nel mondo, e per fortuna anche in Italia.
Il primo punto chiaro è che buona parte del genoma, un'elica del Dna come l'altra, appare trascritta in lunghe molecole di Rna. Gli Rna messaggeri che codificano le loro rispettive proteine appartengono ovviamente a tale categoria, ma esiste anche una moltitudine di molecole di Rna che non sono in grado di codificare proteine e che sono perciò dette non-codificanti. Tra quelle che raggiungono una certa stabilità, si usa distinguere quelle di lunghezza inferiore a 200 nucleotidi, detti piccoli Rna non codificanti e quelle di lunghezza superiore, detti grandi Rna non codificanti, che esplicano ruoli parzialmente diversi.
I grandi Rna non codificanti sono trascritti, provenendo da diverse regioni del genoma, sia sull'elica di Dna su cui si trova il gene in questione, elica di solito detta «elica senso», che sull'altra, di solito detta «elica antisenso», e possono comprendere tratti molto vasti di Dna. Le loro funzioni sono svariate e spaziano dal controllo della vita media e della traducibilità dell'Rna messaggero in questione, al controllo della trascrizione del tratto di Dna dove risiede il gene stesso. Questo tipo di controllo può essere a sua volta esercitato attraverso meccanismi detti epigenetici, che tengano cioè conto di quanto è successo un momento prima nella cellula e ne conservino la memoria. Senza alterare la sequenza del tratto di Dna in questione, ne può promuovere o bloccare la trascrizione, attraverso un certo numero di modificazioni del cromosoma, che possono andare dalla modificazione del Dna alla modificazione chimica delle proteine che avvolgono il Dna stesso e che costituiscono insieme a esso la cosiddetta cromatina. I complessi proteici che realizzano queste modificazioni hanno bisogno di essere guidati con precisione verso i tratti di Dna in questione e sembra che in questo possano essere aiutati da appositi grandi Rna non codificanti.
Più variegato, ma anche più avanzato, è il quadro dei piccoli Rna non codificanti, fra i quali spiccano i cosiddetti microRna (miRna), lunghi solo 21-23 nucleotidi, che hanno la funzione di regolare la stabilità e la traducibilità degli Rna messaggeri sui quali agiscono appaiandovisi. Questa costituisce probabilmente la più grande novità degli ultimi vent'anni e sta suggerendo un'enorme mole di esperimenti. Questi piccoli Rna fanno a loro volta parte di trascritti molto più lunghi, che vengono poi tagliati e rielaborati: le parti corrispondenti ai microRna vengono conservate e sopravvivono, mentre tutto il resto viene frammentato e metabolizzato. L'azione dei microRna avviene dopo l'appaiamento di questi con sequenze specifiche presenti sull'Rna da regolare, e che costituiscono il vero bersaglio dei diversi microRna. Solo piccole regioni di questi grandi trascritti sono quindi attive nel controllare gli Rna che daranno luogo a messaggeri veri e propri e quindi alle proteine finali.
È abbastanza evidente che, accanto ai geni veri e propri che codificano proteine, devono esistere nel genoma molti altri quasi-geni che codificano i diversi Rna non codificanti proteine. Inoltre il numero di tali quasi-geni sembra più alto nella nostra specie che in altre, abbastanza alto in verità da giustificare la nostra complessità paragonata a quella di altri organismi.
Quello che è certo è che bisogna smettere di immaginare il genoma come pieno di materiale inutile e prepararsi a ripensare dalle fondamenta il concetto di gene. Il nostro patrimonio genetico, infatti, brulica di geni, se solo li si sa vedere. È noto da tempo che solo un 2 per cento del nostro Dna specifica direttamente la struttura delle proteine e quindi se chiamiamo gene quel tratto di Dna che specifica la sequenza di una determinata proteina, solo il 2 per cento del Dna contiene geni.
E tutto il resto del Dna del nostro genoma che cosa ci sta a fare? C'è da considerare inoltre che il Progetto Genoma ne ha contati solo 24 mila di tali geni nell'uomo, un numero piuttosto basso, paragonabile a quello posseduto da un moscerino o da una piccola piantina. Se si considera poi che molti geni si assomigliano considerevolmente in molte specie, non si capisce bene quale sia la nostra peculiarità, e in che cosa ci distinguiamo da una scimmia, ma anche da un lupo. È noto, per esempio, che i nostri geni sono simili al 98,6 per cento a quelli di uno scimpanzé, che pure è abbastanza diverso da noi. C'è quindi qualcosa che non va.
Una maniera per uscire da queste difficoltà è quella di pensare che la natura delle proteine di cui siamo fatti non sia tutto, e risulti al contrario di gran lunga più importante il modo con il quale queste sono combinate tra di loro. Possiamo pensare le diverse proteine un po' come i diversi mattoncini del Lego, che sono sempre fondamentalmente gli stessi, ma con i quali si può costruire una casetta, una cattedrale o un autocarro. Se è così, allora non contano tanto il numero e la struttura delle proteine, ma come vengono accostate e giustapposte. Non sono quindi solo i geni direttamente codificanti proteine che contano, ma il modo con il quale quelli vengono accesi o spenti e più in generale fatti agire. Ebbene, emerge ora che il Dna in eccesso è la sede di una frenetica attività, tutta finalizzata, direttamente o indirettamente, a controllare le proteine del corpo.
Ciascuno dei passi che portano alla produzione delle diverse proteine deve essere infatti finemente controllato ed è controllato in maniera piuttosto complessa ma ferrea proprio dal Dna che si riteneva inutile! La verità è che il Dna di buona parte del genoma viene trascritto, cioè copiato in molecole di Rna più o meno lunghe e sono proprio queste molecole che, anche se non sono direttamente tradotte in proteine, ne controllano la sintesi finale. Come dire che nel genoma ci sono numerosissimi geni dei quali prima non ci eravamo accorti. Se chiamiamo geni soltanto i tratti di Dna che specificano direttamente la sequenza di una determinata proteina, questi non sono più di una ventina di migliaia, ma se chiamiamo geni tutti i tratti di Dna che sono trascritti in altrettante molecole di Rna e che cooperano al controllo della sintesi delle diverse proteine, questi sono tanti di più, un numero che ancora non conosciamo in tutta la sua estensione. Queste molecole di Rna fanno tutti i mestieri possibili: controllano la trascrizione degli Rna messaggeri, ne determinano la sopravvivenza e perfino l'efficienza della traduzione finale in proteine funzionanti.
Il problema che si pone ora riguarda quanto del Dna totale serve veramente alla cellula, contribuendo a modellare il corpo di un organismo e si presta così a essere un bersaglio della selezione naturale. Calcoli evolutivi piuttosto complessi dicono che solo il 10 per cento del genoma è oggetto di questo processo di selezione. Se questo è vero, come spiegare le affermazioni che vogliono che quasi tutto il Dna del genoma sia effettivamente trascritto e quindi verosimilmente funzionale? Trattandosi di una scienza sperimentale, la risposta più giusta sembra essere: «Vedremo». Ma possiamo già farci un'idea di come tratti di Dna trascritti possono non essere critici nella formazione dell'individuo e quindi «funzionali» nel vero senso della parola. Basta che le sequenze significative, e quindi intoccabili, siano un po' qui e un po' là, come i microRna, mischiate con lunghe sequenze che fanno solo da «ponte» o da «riempitivo» fra quelle che contano veramente. A me sembra onestamente che siamo di fronte a un problema abbastanza semplice, ma nella scienza «mai dire mai».

Corriere 10.3.13
Ma è più grande il genoma della cipolla di quello dell'uomo
di Telmo Pievani


Il «Dna spazzatura» aveva appena compiuto quarant'anni, essendo stato così battezzato dal genetista Susumu Ohno nel 1972. Era il periodo in cui si scopriva che ampie porzioni del patrimonio genetico sembravano «neutrali», cioè indifferenti all'azione della selezione naturale. Il «Junk Dna» fu definito da Ohno come un qualsiasi segmento di genoma che non ha un'utilità immediata, ma che potrebbe occasionalmente acquisire una qualche funzione in futuro, come quando accumuliamo i ferrivecchi in garage con la vaga speranza di poterli un giorno, chissà, riciclare.
Il Dna spazzatura parve a molti come il vero dominatore statistico del genoma, rimasuglio di esperimenti falliti della natura, trattenuto nell'evoluzione perché i processi molecolari che generano Dna extra, notò Sydney Brenner, sovrastano quelli che lo ripuliscono e lo riducono. Finché non dà fastidio, la selezione naturale lo tollera. Il concetto e l'annessa metafora ebbero un enorme successo. François Jacob descrisse l'evoluzione del genoma come un bricolage di parti riciclate e riutilizzate per nuove funzioni.
Quando poi, nei primi anni del nuovo millennio, si scoprì, con il progetto Genoma Umano, che soltanto una piccola percentuale del patrimonio ereditario è costituito da geni che codificano proteine (non più di 25 mila geni per la specie umana, cifra di vari ordini di grandezza inferiore a quanto era stato previsto considerando la nostra complessità biologica) il «Junk Dna» ebbe il suo trionfo. Si concluse che il genoma umano era ridondante, pieno di materiale di risulta e di rumore di fondo. I minuscoli frammenti di Dna che codificano proteine galleggiano come zattere in un vasto oceano genetico privo di senso.
Ma uno sguardo più attento e più sistematico ha in questi anni rovesciato la prospettiva. Secondo il consorzio internazionale che sta scrivendo l'«Enciclopedia degli elementi del Dna» (Encode), è vero che meno del 2 per cento del genoma è costituito da geni che codificano proteine, ma una porzione più consistente (tra il 9 e il 18 per cento) potrebbe essere legata a funzioni di regolazione. Ecco perché i primi sono così pochi: ciò che conta sono le loro relazioni e regolazioni. Nel Dna spazzatura forse si nascondono tesori, in particolare le sequenze che trascrivono le tante forme di Rna implicate nell'intricata trama delle regolazioni geniche. È in questo groviglio di prodotti genici che si annidano le cause di molte malattie, e soprattutto le dinamiche di trasformazione tumorale. Dunque la posta in gioco è molto alta.
Dopo i primi risultati pubblicati nel 2007, le centinaia di scienziati di Encode hanno continuato il loro lavoro, giungendo nel settembre 2012 a una conclusione ancor più radicale: addirittura l'80 per cento del genoma risulta trascritto in Rna e dunque, si suppone, funzionale. Il messaggio è chiaro: l'apparenza di inutilità era dovuta alla nostra ignoranza circa la complessità del codice genetico. È tipico della scienza: grazie a nuovi studi ci rendiamo conto di quanto non sapevamo. Il «Junk Dna» è un concetto fuorviante, meglio archiviarlo dopo quarant'anni di onorata carriera.
Nel genoma c'è dunque un linguaggio nascosto che non avevamo visto? Posta così, la domanda ha attratto i sostenitori dell'Intelligent Design, la dottrina neocreazionista americana, che infatti hanno festeggiato la notizia. Naturalmente è un'inferenza del tutto impropria, visto che la funzionalità di un sistema non implica affatto che sia stato intenzionalmente «progettato» per un fine da qualcuno.
I risultati di Encode non sono invece piaciuti per niente ad altri biologi, che in un articolo apparso alcuni giorni fa su «Genome Biology and Evolution» hanno attaccato duramente il progetto. «Le loro statistiche sono orribili, è il lavoro di un gruppo di tecnici male addestrati», ha sentenziato senza mezzi termini il primo firmatario, Dan Graur, biologo molecolare alla Houston University.
Avere un'attività biologica (essere trascritto) non significa necessariamente avere una funzione, secondo i dissenzienti. Le stime sono imprecise e l'intero lavoro sembra «un vangelo senza evoluzione», perché non avanza ipotesi su come quelle parti non codificanti, ma trascritte, possano essersi conservate nell'evoluzione. Ma l'accusa è anche di politica della ricerca: è sbagliato investire tutti questi soldi in progetti di «Big Science» se non si è poi in grado di interpretare l'enorme massa di informazioni, trasformandola in modelli di spiegazione attendibili. Il dato grezzo dei bioinformatici va tradotto in conoscenza.
Tutto sommato, la notizia riguardante la morte del «Junk Dna» potrebbe essere alquanto esagerata, o se non altro prematura. Come spiegare, altrimenti, il fatto che la cipolla ha un genoma cinque volte più grande di quello di un essere umano? Difficile ammettere che la pur dignitosa cipolla sia cinque volte più complessa di noi. Il tema della ridondanza era già ben presente in Darwin, secondo il quale non tutto in natura deve essere utile: la selezione fa i conti con molte strutture in eccesso che non hanno alcuna funzione, come gli organi vestigiali e le correlazioni di crescita. Ma «l'impronta dell'inutilità», come la definì Darwin nell'Origine delle specie, solleva ancora avvincenti controversie scientifiche. I genetisti di Encode potrebbero essere vittime dell'umana propensione a vedere schemi pieni di significato in un mare di dati casuali. Oppure, come pensano i più, hanno scoperto che almeno una parte del Dna spazzatura custodiva in realtà funzioni finora sconosciute.
Come ha scritto il coordinatore di Encode a Cambridge, Ewan Birney, «quello a cui somiglia il genoma è un'autentica giungla, una foresta fitta, una muraglia di elementi attraverso la quale bisogna aprirsi il passaggio»: dal «Junk Dna» al «Jungle Dna». E allora per farsi strada nella giungla non resta che continuare la ricerca, finanziando sia quella «Big» sia quella «Small».

Corriere La Lettura 10.3.13
Responsabili sì. Ma verso chi?
Un valore che vuol dire «risposta a una sola voce» Se si inseguono più interlocutori perde significato
di Umberto Curi


«Raccomando misura, realismo e senso della responsabilità». In questi termini, il presidente Napolitano ha invitato tutte le forze politiche a lavorare per il superamento della crisi politica in corso. Ma il riferimento alla responsabilità è comparso nei discorsi di quasi tutti i leader politici nel corso di queste ultime settimane. Usata per lo più senza aggettivi, e senza ulteriori precisazioni, adoperata quasi come una parola magica, in grado di risolvere d'incanto difficoltà altrimenti insormontabili, la responsabilità viene invocata per legittimare scelte e comportamenti, altrimenti imbarazzanti o comunque difficili da giustificare. Ma è davvero così trasparente il significato di questo termine? Si può veramente ritenere di sapere che cosa si dice, quando si chiede o si afferma di agire in nome della responsabilità?
Nelle lingue moderne — in italiano, francese, spagnolo, inglese — la connessione fra il termine che designa la responsabilità e la radice latina respondeo è evidente. Di qui il fatto che, in qualunque contesto compaia, responsabilità vuol dire sempre e comunque rispondere. Pur mancando una diretta derivazione dal latino, in tedesco la parola impiegata per indicare la responsabilità è perfino più significativa dei corrispondenti termini delle lingue romanze. In quanto contiene in sé un immediato riferimento alla parola che indica la risposta — Antwortung, appunto — il termine Verantwortung si forma proprio mediante rafforzamento del carattere di «risposta» che è insito nella «responsabilità».
Di qui una prima e fondamentale conseguenza. La responsabilità non può indicare una condizione originaria, ab-soluta, indipendente, ma coincide piuttosto con una relazione, segnala un rapporto, che presuppone qualcosa ad esso precedente e dal quale esso è in una certa misura determinato. Più in particolare, in quanto parola di risposta, la responsabilità presuppone una voce che chiama, alla quale si fornisce una risposta, ovvero alla quale ci si rifiuta di rispondere. Non è concepibile alcuna responsabilità, se non come risposta a una chiamata.
Emerge qui un primo aspetto fortemente problematico, se non addirittura paradossale, connesso al termine di cui ci stiamo occupando. Se l'elemento fondante e intimamente caratterizzante della responsabilità è il rispondere, e se pertanto essa rinvia necessariamente all'ascolto di una voce che chiama, è evidente che il rispondere non può essere univoco, ma al contrario esso non può che essere almeno ambivalente. Per rispondere alla chiamata di qualcuno, per ciò stesso è necessario che non risponda alla chiamata di altri. O la voce a cui rispondo è la stessa voce che mi chiama, sia pure in altri modi e altre forme, ovvero, se si tratta di voci che sono effettivamente diverse e discordanti, la mia risposta a una di esse esclude che io risponda anche ad altre. Se ricondotta al suo fondamento di parola-di-risposta, la responsabilità è intrinsecamente connessa — e indissolubile — rispetto alla irresponsabilità. Si esprima come ascolto (ob-audire), o come risposta, come obbedienza, dunque, o come responsabilità, l'atteggiamento nei confronti di una voce che chiama si manifesta dunque in forma costitutivamente ambivalente.
Questo significato originario e decisivo del termine responsabilità è efficacemente sottolineato da Jacques Derrida nella «grammatica della risposta», da lui delineata in un saggio che risale al 1981. Osservando che la modalità originaria della responsabilità è quella del «rispondere a», in rapporto alla quale si determinano il «rispondere di» e il «rispondere davanti a», il filosofo francese sottolinea che proprio l'anteriorità e il primato del «rispondere a» rispetto agli altri pone il riferimento all'altro — inteso come totalmente altro — come riferimento fondamentale. Ogni responsabilità si annuncia e obbliga a partire da questa anteriorità asimmetrica. Una responsabilità che è dunque anzitutto risposta all'appello dell'altro, e che, prima ancora di ogni autonomo dire, non può che corrispondere alla parola dell'altro.
Come già aveva sottolineato Søren Kierkegaard in Timore e tremore, il riferimento alla richiesta rivolta ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, descritta nel Genesi, consente di far emergere pienamente il groviglio di motivi teorici e pratici che si addensano intorno alla nozione di responsabilità. Ciò che si pone è una contraddizione insolubile, e perciò paradossale, fra la responsabilità in generale e la responsabilità assoluta. Abramo, infatti, dimostra che l'assoluto del dovere e della responsabilità presuppone che ogni dovere, ogni responsabilità e ogni legge umana vengano denunciati, ricusati, trascesi. Abramo è al contempo il più morale e il più immorale, il più responsabile e il più irresponsabile degli uomini — assolutamente irresponsabile perché assolutamente responsabile. Assolutamente irresponsabile davanti agli uomini e ai suoi, davanti all'etica, perché risponde assolutamente al dovere assoluto, senza interesse né speranza di ricompensa, senza sapere perché e in segreto. Non riconosce alcun debito, alcun dovere davanti agli uomini perché è in rapporto con Dio.
Dal riferimento all'emblematica vicenda di Abramo, Derrida fa scaturire una conseguenza fondamentale: il segreto della responsabilità consiste nell'ospitare in sé un nocciolo di irresponsabilità. Fra la responsabilità assoluta, che pone di fronte due singolarità irriducibili, e la responsabilità generale, la quale implica invece l'urgenza di un calcolo che universalizzando ricerchi l'equilibrio e fondi l'equità — vi è uno scarto che resta incolmabile.
Per ritornare alle recenti vicende di casa nostra, si può allora dire che coloro che indicano quale motivazione della loro condotta il «senso della responsabilità», senza ulteriori precisazioni, in realtà implicitamente annunciano la loro intenzione di rispondere a una voce, con ciò stesso scegliendo di non rispondere a tutte le altre. Per esemplificare: di rispondere alla voce dell'interesse del Paese, non obbedendo alla voce dei propri interessi, personali o di partito, oppure tutto al contrario. Ciò che emerge, insomma, è la genuina drammaticità di un conflitto fra istanze diverse e non ricomponibili, fra voci che chiamano in direzioni differenti, alle quali è possibile rispondere solo attraverso una decisione che valorizza soltanto una di esse, lasciando inevitabilmente senza risposta tutte le altre.

Corriere La Lettura 10.3.13
Il ponte sospeso tra due sponde franate
Il passato non c'è più, il futuro non c'è ancora. La parentesi temporale del presente fotografa la nostra condizione. Però non esaurisce il nostro mondo
di Sandro Modeo


Benvenuti nella dimensione del Non più e Non ancora. Così recita uno degli slogan-precetto nel coaching ossessivo della Scuola dei disoccupati di Joachim Zelter (fiction del 2006, edita in Italia da Isbn, ma ambientata nella Germania dietro l'angolo del 2016); cioè di un campus asettico e carcerario — ricavato da una fabbrica dismessa — in cui si cerca di istruire allievi tra i 25 e i 45 anni a trovare lavoro a ogni costo, monitorando necrologi e vampirizzando posti vacanti.
Un simile slogan — assieme ad altri di carattere più percussivo: «diversità, novità, contingenza» o «mobilità, elasticità, imprevedibilità» — dilata nella fiction la precarietà occupazionale in esistenziale, dando tonalità neo-orwelliane a consolidate verifiche sociologiche. E in effetti, per molti di noi — almeno qui, nell'Occidente decaduto — il Non più e Non ancora è ormai la sola dimensione possibile, ben oltre il brutale condizionamento economico: un più o meno latente — più o meno cosciente — senso di dispersione dell'identità e della continuità dell'esperienza, in cui tutte le unità oggettive o soggettive — stati e fatti, percezioni e pulsioni — sembrano morire mentre nascono, come un brulichio di microrganismi che perdano la coda prima di aver sviluppato la testa (o viceversa).
Questa dimensione di impermanenza permanente — dove la logica della «tendenza» sembra mangiarsi la sostanza, e la stessa idea di «crisi» cronicizzarsi — viene descritta da molti studiosi del web come un'«invasione del presente», a indicare nel presente stesso un ponte fragile tra due sponde franate, il passato (il non più, la memoria) e il futuro (il non ancora, il progetto). Non è certo un caso che siano proprio quegli studiosi, più ancora dei sociologi, a formulare la diagnosi, dato che un ruolo decisivo, in questo processo, è giocato proprio dall'insinuarsi pervasivo della morfologia online in quella offline; dal modo in cui il web e il nuovo hi-tech plasmano spazi e tempi del nostro assetto percettivo-emotivo. Né è un caso che siano proprio loro a vedere in questa «invasione» rischi e perdite subdolamente velati da opportunità e acquisizioni: basti pensare ai libri di prossima uscita di tre guru del settore quali Jaron Lanier, Douglas Rushkoff ed Evgeny Morozov (i primi due cyber-entusiasti pentiti), tutti, con sfumature diverse, critici verso la deformazione web-centrica della realtà.
La sospensione fluttuante del Non più e Non ancora, sia chiaro, non è necessariamente un luogo di disagio-sofferenza. L'ablazione del passato è anzi, a volte, una liberazione da fallimenti, lavori alienanti, rapporti incancreniti: sulla falsariga del toccante antieroe di uno dei capolavori di Aki Kaurismäki (intitolato proprio L'uomo senza passato), in tanti vorrebbero resettare il quadro e giocarsi una «seconda chance», che sia nel mondo reale (i giapponesi che «spariscono», appoggiati da agenzie che offrono loro nuove identità e nuovi mestieri) o almeno in quello virtuale (giocare a Second Life, ha mostrato una ricerca, offriva a un disoccupato lo stesso conforto neurobiologico di un impiego offline). Così come, a rovescio, si può rinunciare al futuro e adagiarsi nell'Eterno Presente della Rete — nelle sue tante addiction — con un sorriso, come cantavano i Pink Floyd, Comfortably numb, piacevolmente anestetizzato.
Ma la complessa costruzione filogenetica che ci ha portato alla coscienza di ordine superiore (alla coscienza di essere coscienti) non può rinunciare davvero alla scansione temporale e alle sue profondità affettivo-cognitive. Lo tocchiamo con mano nella reazione uguale e opposta delle vecchie e nuove generazioni, a livello intellettuale, davanti a una dimensione che degerarchizza e riazzera valori e percorsi, attenua o cancella competenze e leadership, concretizzando — in sintesi — l'assunto postmoderno dell'alto/basso mescolati. Con ottime ragioni da tutte e due le parti, ecco allora da un lato over 50 travolti dal rimpianto e dall'incredulità nel vedersi gavette e curriculum sottratti d'un colpo, attoniti davanti all'ultimo blogger che dà del «rosicone» a un Nobel per la fisica; dall'altra, teenager sprezzanti, ma inascoltati, che sembrano compiacersi nel negare il passato (e quindi l'autorità) a chi, in una società gerontocratico-nepotistica, ha negato loro il futuro. Significative, nel dettaglio, le fruizioni letterarie: da un lato, un rifugiarsi nostalgico-difensivo nella società letteraria ante web (i classici, la poesia, i grandi scrittori di lingua e stile); dall'altro, l'adesione acritica a fiction di genere (vampiri, zombie, le stesse distopie). Come a dire: un ripiegamento museale contro una proiezione esorcistica (la distopia, rinunciando all'illusione dell'utopia, prefigura un futuro in negativo per scongiurarlo): e in mezzo, l'erosione di ogni terreno condiviso, riempito solo da un reciproco risentimento.
In quest'ottica, se si astrae dalla comune fuga in un meta-Medioevo protettivo (basti pensare a quello leghista, ai romanzi fantasy o ai castelli di tanti videogame), vecchi e giovani sembrano potersi incontrare solo per tangenze dolorose, come succede in un'altra fiction distopica, Starters di Lissa Price (Sperling & Kupfer), simile a quella di Zelter per l'ambientazione in un futuro prossimo (con Los Angeles in luogo della Germania), ma opposta nella scelta dei protagonisti sociali, bambini-adolescenti e anziani sopravvissuti a una violenta pandemia in quanto sole categorie vaccinate (Starters e Enders); con le ragioni degli uni (orfanità e disoccupazione) fuse con quelle degli altri (la nostalgia del proprio passato biologico) grazie al cinismo di una Corporation che paga i teenager per trasmettere agli anziani — tramite un neurochip — le loro sensazioni corporee.
Davanti a scenari così chiusi e opachi, dovremmo mantenere freddezza analitica: vedere nel conflitto tra generazioni la velatura di un soggiacente, ibernato conflitto di classe (con lo scontro che oppone esodati e precari come guerra tra poveri) da contrastare con soluzioni politiche; o non dimenticare come, a monte, la dimensione del Non più e Non ancora sia un prodotto di ferrei vincoli biotecnologici (sovrappopolamento, specie urbano, e conseguente sovrainformazione) destinato ad assestarsi nei prossimi decenni, fino a risolvere la temporanea ambivalenza tra maggior democrazia e maggior anomia, mistica della trasparenza e propensione alla rissa.
Ma tutto questo è più o meno ottimismo retorico. E non basta certo che qualcuno (parodiando il protagonista di Ubik di Philip Dick) urli al mondo «io sono vivo voi siete morti» per riuscire a riscuoterlo dal suo sonno ipnotico. Se non saremo capaci di contrastare vetero e neoanalfabetismi e capovolgere la metafora del ponte come presente instabile tra le sponde franate del passato e del futuro (comprendendo che a mancare è invece proprio il ponte, cioè un nuovo terreno condiviso tra generazioni, ma anche tra classi ed etnie), il sigillo saranno le parole della Fata Turchina a Pinocchio: «In questa casa non c'è nessuno. Sono tutti morti».

Corriere La Lettura 10.3.13
L'altro Newton, alchimista e teologo che si appassionava agli Argonauti
Nelle opere minori dello scienziato, spesso svalutate dai biografi, ritroviamo lo stesso metodo empirico delle sue grandi scoperte
di Stefano Gattei


Accanto ai suoi fondamentali lavori di matematica, scienza del moto, ottica e teoria della gravitazione, Isaac Newton (1642-1727) coltivò profondi interessi per l'alchimia, la teologia (abbracciando una qualche forma di eresia antitrinitaria), l'esegesi biblica e la cronologia. Pubblicati postumi, i suoi scritti su questi temi non mancarono di suscitare critiche accese, in Inghilterra come in Francia, contribuendo a una progressiva erosione dell'immagine del loro autore già nel Settecento. Tanto che nel 1822, nella memoria scritta per la Biographie universelle, Jean-Baptiste Biot — allievo di Laplace, e come lui convinto che ogni riferimento a Dio o alle cause finali non potesse trovare posto nel discorso scientifico — suggerì che l'esaurimento nervoso di cui Newton fu vittima nel 1693, causato da un'applicazione ossessiva alla scienza, avesse lasciato tracce indelebili nella sua mente, ripercuotendosi negativamente sulle opere successive.
Nel 1980, in quella che è tuttora la biografia più completa e accreditata del grande scienziato, Richard Westfall osservava come la Cronologia degli antichi regni (1728), in particolare, fosse un'opera sconclusionata, «di una noia colossale, che dopo aver suscitato per breve tempo l'interesse — e l'opposizione — di un ristretto numero di persone capaci di appassionarsi per la data della spedizione degli Argonauti, cadde nel più totale oblio. È letta oggi da quei pochissimi che, a sconto dei loro peccati, devono passare attraverso quel purgatorio».
Un giudizio duro e autorevole, quello di Westfall, che non poteva non pesare sugli studi successivi. Ma che non ha impedito a due prestigiosi storici della scienza del California Institute of Technology, Jed Buchwald e Mordechai Feingold, di rileggere quelle pagine «minori» alla luce dei molti manoscritti inediti e della corrispondenza di Newton. Il risultato è un contributo originale ed estremamente ricco, che getta nuova luce sulle modalità di indagine e di argomentazione di una delle menti più fertili della storia del pensiero scientifico.
In Newton and the Origin of Civilization (Princeton University Press), Buchwald e Feingold mostrano per la prima volta l'importanza di quelle pagine al fine di comprendere la straordinaria complessità della figura di Newton che, scrivono, «non fu semplicemente portato da questo a occuparsi di quello; piuttosto, il suo modo di lavorare rivela una modalità di pensiero e di azione che è alla base tanto dei suoi sforzi di svelare l'opera di una divinità nella storia, quanto di afferrare i misteri più reconditi dei meccanismi della natura».
Grazie a un'analisi scrupolosa dei testi, i due autori ricostruiscono i passi argomentativi che guidarono Newton alle proprie conclusioni, individuando in una sostanziale continuità metodologica l'elemento caratterizzante della sua riflessione. In particolare, fu durante i primissimi anni a Cambridge che egli sviluppò le caratteristiche fondamentali del metodo per generare e sviluppare una conoscenza affidabile — un metodo che egli applicò tanto nei Principia mathematica (1687) e nell'Ottica (1704), quanto nei suoi scritti sull'Apocalisse, sulla corruzione di alcuni passi biblici e sulla cronologia. Ciò non significa che Newton non abbia mai cambiato idea nel corso della sua lunga vita, anzi; ma che l'approccio maturo che egli dimostrò alla natura, alla storia e alla teologia affonda le proprie radici nel suo primo sviluppo intellettuale, fin dagli anni universitari. Comune denominatore a studi e interessi a prima vista disparati, come la meccanica celeste e l'esegesi biblica, l'analisi matematica e la cronologia, è un modo radicalmente nuovo di comprendere e di accettare (o rifiutare) l'evidenza empirica alla luce di considerazioni di natura teorica. E proprio in questa radicale novità va ricercata la ragione profonda della dura opposizione che le sue opere incontrarono. Con il proprio approccio, infatti, egli poneva con forza un quesito metodologico di fondo: quale tipo di evidenza empirica e di ragionamento teorico governano la comprensione storica e quella teologica?
Le tesi storiche e teologiche che Newton sviluppa, in altre parole, sono profondamente permeate dal suo modo di intendere e di fare scienza, così come la fede nell'azione divina — nella natura o nella storia — non può essere separata dal suo modo di concepire come sia possibile una forma di conoscenza affidabile in entrambi gli ambiti. Come ha osservato Niccolò Guicciardini, il Newton alchimista, storico e teologo non è meno lontano da noi del Newton «tradizionale», matematico e fisico. Da qui il fascino — e la difficoltà — della sua figura.

Corriere La Lettura 10.3.13
L'autoritratto della follia
Dalì accanto allo schizofrenico Zinelli, Basquiat accanto all'ossessione muta di Fusco
Il percorso intellettuale degli «artisti ufficiali» e l'urgenza istintiva degli «alienati»
di Francesca Ronchin


Un foglio da disegno come unica via d'uscita. Non dalle mura del manicomio ma dalla costrizione della propria mente. Ed è così che il pensiero ricorrente esce dal corpo e diventa tela. Quelle raccontate dai dipinti di «Borderline», in mostra al Museo dell'Arte di Ravenna, sono storie di ossessioni dove la forza espressiva è così prepotente che nel 1945 il pittore francese Jean Dubuffet conierà per loro il termine Art Brut, arte grezza, a indicare le opere di pazienti psichiatrici autodidatti non soggetti a canoni e correnti estetiche.
Negli ospedali dell'epoca era pratica comune far dipingere i matti. Si parlava di «arte psicopatologica», un metodo per calmare i pazienti che nella pittura canalizzavano la parte più violenta di sé e, per i medici, un modo per arricchire diagnosi e cartelle cliniche con quella lente d'ingrandimento della psichiatria dell'epoca secondo la quale i disegni non erano altro che sintomi. Per questo, Carlo Zinelli (1916-1974), internato nel San Giacomo di Verona, trasporta su tela l'evento che ha scatenato la sua schizofrenia, la guerra civile spagnola. E quindi il campo di battaglia, macchinari bellici, file di piccoli uomini neri, soldatini e piccoli preti, con una serialità che assurge a tratto tipico della schizofrenia. Psicosi per eccellenza, la malattia è quella della mente divisa, dove lo svolgimento logico del pensiero si sfilaccia in uno stato di totale scollegamento dalla realtà.
La sua è schizofrenia paranoide e il mondo è vissuto «come ostile, votato alla sua rovina», scrive ne I miei matti Vittorino Andreoli che scopre l'abilità artistica di Zinelli e lo fa conoscere a Dubuffet. Dipingendo, le condizioni di Zinelli migliorano, ma il delirio di persecuzione riempie la tela in ogni suo centimetro quasi a voler tenere insieme una realtà che sfugge. Unico spazio vuoto quello ricavato da stelle e quadratini che perforano le figure a racconto di un corpo che Zinelli vive come lacerato.
Gli incubi sono quelli di un veterano di guerra che soffre di disturbo da stress post traumatico, ma in Sylvain Fusco diventano quelli del rimorso e dell'ossessione amorosa. Non ancora ventenne Sylvain commette un delitto passionale cui seguiranno il carcere e il manicomio dove si chiuderà in un mutismo totale. Sulle sue tele ricorre un volto di donna dai capelli corvini e la bocca a forma di cuore. Una, cento volte fino a riempire tutto lo spazio. Perché dietro le tele di ogni «matto» sembra di ritrovare la variazione di un unico identico tema, ripercorso senza tregua in un circuito cerebrale che è ormai un solco. Un loop mentale che sforna repliche, seriali, dello stesso punto di partenza, quello dove la sua mente, e la sua vita, si è interrotta.
Quella di Aloise Corbaz (1866-1964) si cristallizza nella cappella privata di Guglielmo II. Un amore solo immaginato che inizia cantando per il Kaiser e che non le darà pace fino a diventare delirio passionale e solitario vissuto nel segreto dei bagni del manicomio dove Aloise dipinge su carte di fortuna a volte cucite con ago e filo. Resta in isolamento quasi 50 anni, sino alla fine dei suoi giorni, ma anche in tarda età il suo disegno è quello di una bambina che aspetta il suo principe azzurro in una regressione che oltre che psichica è pittorica. Se in Aloise si ritrova l'arte dei bambini, in Adolf Wolfli (1864-1930) si ritrova quella dei primitivi. Dopo un'infanzia di abusi in una famiglia di alcolisti, viene accusato di pedofilia ed entra in manicomio a 31 anni. Inizia a dipingere per 8 ore al giorno, ininterrottamente. Una produzione quasi compulsiva, geometrica, in un estremo tentativo di mettere ordine in un mondo che la psicosi rende incomprensibile. Tra deliri e allucinazioni, presenze che gli altri non sentono e non vedono, gli schizofrenici dell'epoca tendevano ad autoisolarsi. «La pittura invece — spiega Giorgio Bedoni, psichiatra e curatore della mostra — permetteva a chi è nessuno di diventare uno», in un processo di individuazione senza il quale la follia sarebbe stata assoluta e incontrollabile. Anche Federico Saracini cerca di mettere ordine nella sua testa e, dalle stanze del San Lazzaro di Reggio Emilia, realizza cartografie per spiegare a se stesso e agli altri pazienti le teorie divine che non gli danno pace. La diagnosi è quella di «delirio ambizioso», Saracini è convinto di avere la chiave per risolvere i mali del mondo. Se l'elemento religioso è comune a molti psicotici, nel caso di Madge Gill (1882-1961) sfocia nell'esoterico. Convinta di essere una medium, organizza sedute spiritiche e dipinge in modo ossessivo sempre un unico soggetto. Il volto di una giovane donna, forse il fantasma della figlia nata morta o dello spirito guida da cui si sentiva posseduta. Non viene internata. A salvarla dalle diagnosi forse l'aver dato un nome al proprio mondo visionario prima che a farlo fosse la medicina. «All'epoca le diagnosi erano sommarie — spiega Bedoni — e i manicomi strutture di contenimento sociale. Questa mostra vuole fare un passo avanti, le tele non sono semplici sintomi. In questa ottica, il termine borderline, prima che una condizione clinica, indica una condizione antropologica critica della modernità dove le categorie di normalità e follia sono campi aperti».
Aggiunge Claudio Spadoni, direttore scientifico del museo, che la mobilità dei confini riguarderebbe anche l'area della creatività. «Per questo accanto ai pittori "matti" che negli anni 70 chiamavano outsiders abbiamo apposto artisti ufficiali come Dalì, Basquiat e Moreni». A distinguere gli uni dagli altri sarebbe soprattutto il grado di consapevolezza che negli artisti manicomiali è totalmente assente. Non solo. Se negli artisti ufficiali il surreale è raggiunto attraverso un percorso intellettualizzato, negli alienati sarebbe un'urgenza istintiva, quasi di sopravvivenza che si esprime attraverso forme basiche e primordiali. Le immagini qui sono claustrofobiche, quasi manca l'aria, non c'è cielo, la tela fotografa un'esistenza interrotta dove lo spazio del manicomio è bidimensionale, senza prospettiva. L'unico matto che riusciva a dipingere sprazzi di blu e terze dimensioni è Ligabue (1889-1965). Anche lui soffriva di schizofrenia, e i suoi autoritratti portano le tracce di tumefazioni dovute a comportamenti autolesionistici. In manicomio però aveva trascorso solo pochi anni e il contesto sociale in cui viveva in qualche modo l'aveva accolto e forse compreso.

Repubblica 10.3.13
Borderline
L’arte estrema che nasce ai confini della follia
di Fabrizio D’Amico


Ravenna. La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome”. Così ragionava Jean Dubuffet nel 1949, vergando un testo, come molti suoi altri, di capitale rilievo e fascino: “L’arte bruta preferita alle arti culturali”, con il quale presentò alla critica (perplessa) e al pubblico parigino (entusiasta), in un sottoscala d’una famosa galleria d’avanguardia, l’“arte dei folli” in una mostra che segna un passo decisivo verso la storia di quella che Dubuffet stesso battezzò l’“Art Brut”. Giorgio Bedoni e Claudio Spadoni, che assieme a Gabriele Mazzotta hanno curato la mostra oggi aperta al Mar di Ravenna “Borderline. Artisti fra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat” (fino al 16 giugno, catalogo Mazzotta) – allargando molto, come si impara già dal sottotitolo della mostra, il territorio della loro analisi – ci ricordano che anche André Breton, padre e custode del surrealismo, affiancò per un tratto Dubuffet nell’attenzione posta alla produzione artistica non canonicamente espressa da chi non fosse individuato come “uomo di senno e di genio”. E, oggi esposte, le opere di Masson, Ernst, Dalí, Matta – tra gli altri – stanno a testimoniare le tangenze che lo stesso surrealismo registrò con l’art brut. Ma infine, solo di tangenze si tratta, indotte dall’impiego comune di alcuni meccanismi d’immagine, primo fra tutti l’automatismo, da parte dell’una e dell’altra poetica. In realtà, mentre Breton continuò a considerare l’arte “dei naif, dei pazzi, dei bambini, dei medium” come una costola eventuale, se non deviante, della rivoluzione surrealista, fu solo Dubuffet a darle dignità piena e uno statuto perfettamente autonomo rispetto a quello dell’“art culturel”, che la sua devozione alle forme del passato rendeva a suo dire paragonabile a quella “del camaleonte e della scimmia”. E fu solo Dubuffet a gridarle contro, a difesa della produzione degli alienati: “chi è normale? Dov’è il vostro uomo normale? Mostratecelo! L’atto d’arte, con l’estrema tensione che implica, l’alta febbre che l’accompagna, può mai essere normale? ” L’arte della follia ha molte volte, anche in Italia, suscitato attorno a sé interesse, ed è stata oggetto di seducenti indagini (ricordiamo solo la più recente, che fruttò una mostra ordinata da Vittorio Sgarbi a Siena): ma occorre dire che talmente ricca e diramata è la sua vicenda che, scavando nei territori di quella creazione clandestina e abusiva, non poche mostre diversissime l’una dall’altra si potrebbero su di essa immaginare. Sbilanciate indietro nella storia (fin dentro a quel medioevo mostruoso e fantastico evocato da Jurgis Baltrusaitis) ; o incentrate sul transito fra XIX e XX secolo, quando s’incrementano – fra tante resistenti superstizioni – le conoscenze scientifiche sulla malattia mentale; o infine distese sino ad un più recente passato, come sembra prediligere la mostra odierna quando propone le opere “folli” di Baj, di Arnulf Rainer, di Basquiat o del tardo Moreni; o, più ragionevolmente, taluni esempi recenti di arte nata ai margini della cultura ufficiale (come quello di Gaston Teuscher), e perciò entrati a far parte della più importante collezione mondiale d’art brut, nata a Losanna per volontà di Dubuffet. Ma è comunque attorno alla gigantesca personalità del suo propugnatore, e in particolare negli anni d’immediato dopoguerra e nel successivo decennio, che si concentrano gli episodi di più autentica vicinanza fra l’arte ufficiale e quella della devianza, nata nell’isolamento di un ricovero coatto: con le opere stesse di Dubuffet (‘Arabe en prière’, ‘Arabe au palmier’, entrambe del 1948), di Wols, di Brauner. Negli stessi anni si ricoverano alcuni degli esempi più tipici di questa infanzia della pittura, nata per avventura o per miracolo nel recinto chiuso di un manicomio, di una prigione: da quelli più noti, come è il caso di Aloïse Corbaz e delle sue carte cucite l’una all’altra, ricolme di coloratissimi episodi, di curve aggraziate e di rosse labbra che paiono pronte al bacio; carte gioiose e sensuali, come quelle d’un Matisse d’anni Trenta, non fosse per quegli occhi sempre ciechi che imbambolano le loro figure. Di qui fino alle personalità meno note, come quella di Pietro Ghizzardi. E fino all’immancabile caso di Ligabue, cui è destinata una sala. Scriveva Gabriella Drudi che “i bruts lavorano nel buio, non nel festoso raffigurare dei naifs”: pure, appare non ridondante la presenza di Ligabue in questa mostra, intesa a cercare un bilico fra la luce della ragione e il turbamento dell’animo.

Repubblica 10.3.13
Quadri di allucinazione dipingere sotto le droghe
di Laura Putti


PARIGI Se non ci fossero state le droghe, l'arte e la letteratura forse non esisterebbero. O, almeno, sarebbero diverse. E' quello che prova a dimostrare, e con un certo successo, la bella esposizione che fino al 19 maggio abita La Maison Rouge, alla Bastiglia. Per la vastità dell'argomento la mostra, dal titolo “Sous influences. Arts plastiques et produit psychotropes”, avrebbe forse figurato meglio in un grande museo come il Centre Pompidou. “Ma le droghe sono ancora un fantasma della nostra società” dice Antoine Perpère, commissario dell'esposizione, uomo dalla doppia vita: dagli anni 80 lavora nel sistema sanitario francese con specializzazione, appunto, sulle droghe – cura, accompagnamento e prevenzione - ma è anche artista. Alcune delle sue opere sono qui esposte. Perpère ha scelto di accogliere il visitatore con una frase di Jean Cocteau. “L'oppio permette di dare forma all'informe” scriveva il poeta nel 1930 nel suo libro “Opium”. “Nel '23, a vent'anni, morì Raymond Radiguet, suo compagno dell'epoca. Cocteau iniziò a fumare oppio per sfuggire alla tristezza. Rimase oppiomane per tutta la vita” dice il commissario. Tra le opere più significative – 250 in tutto, 90 artisti - c'è una tela di Erro del '76, “Sulla terrazza (Fes) ”, nella quale un uomo fuma un narghilé sotto un cielo stellato nel quale vola un'astronave. Ma più dirette sono le opere di Arnulf Reiner, di Jean-Jacques Lebel o dello sperimentatore Henri Michaux i quali, tra gli anni 50 e i 60 dipinsero i loro stati alterati da sostanze varie (psilocibina, LSD, peyote, mescalina), trip che a volte affrontavano in presenza di psichiatri. Tra le curiosità un autoritratto di Artaud, un disegno del dottor Charcot (1853, sotto hashish), un olio su carta piuttosto psichedelico firmato a quattro mani nel '57 da Ginsberg, Corso, Orlovsky e Gherasim Luca, e la proiezione di un documentario di Gianfranco Rosi: “El sicario”, nel quale un uomo messicano incappucciato parla dell'intera filiera legata alle droghe nel cartello di Ciudad Juarez e racconta come, sotto l'effetto della cocaina, abbia ucciso più di 500 persone. Non potevano mancare opere di Basquiat, di Damien Hirst (le celebri scatole di medicinali), di Takashi Murakami e una installazione di funghi rossi a pois bianchi della giapponese Yayoi Kusama. Bellissime sono le tavole di fumetti di Batan Matta (Sebastian Matta-Clark, '43-'76, gemello di Gordon, '43-'78). “Il fumetto avrebbe meritato una sezione a sè” dice Perpère. E puntualizza che, quando accanto al titolo di un'opera di “Sous influences” è specificata la droga utilizzata, questo non vuole dire che l'artista abbia dipinto nello stesso momento in cui la sostanza faceva effetto. “Non è possibile. Non ci si arriva, tutto va troppo veloce e il corpo non potrebbe stare dietro alla mente, a tutte quelle idee cosmiche, a tutti quei colori”.

Repubblica 10.3.13
L’alcolico Modigliani nella gang dei maledetti
di Armando Besio


MILANO Ci sono i ritratti degli amici: il mercante d’arte Zborowski, il corniciaio Lepoutre, il pittore Soutine, compagno di bevute come Utrillo, alcolista nato, del quale si diceva che la nonna contadina lo avesse svezzato con biberon riempiti di vino. «Solo a stare vicino a lui, Modigliani sarà già ubriaco» sibilava il perfido Picasso quando li incontrava per strada a Montparnasse. E ci sono i ritratti delle amiche, fedeli compagne e tormentate amanti: la poetessa inglese Beatrice Hastings («ci è capitato di azzuffarci in modo veramente epico, lui armato di una caraffa, io di una scopa»), e La ragazza coi capelli rossi, la modella Jeanne Hébuterne, suicida a 22 anni, incinta del loro secondo figlio, giù dalla finestra del quinto piano, all’indomani della morte di Modì, consumato da alcol e droghe, stroncato a 35 anni (nel 1920) da una meningite. Modì suona come maudit, maledetto. Un destino nel (sopra) nome. Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter è il titolo della mostra allestita fino all’ 8 settembre al Palazzo Reale di Milano. Prodotta dal Comune con “24 ore cultura” e Arthemisia Group, punta a replicare il successo di Picasso, che ha appena chiuso con la cifra record di 550 mila visitatori (oltre 4000 al giorno). Arriva dalla Pinacothéque de Paris, curata dal direttore Marc Restellini. Allinea 120 opere di 26 artisti, tutte proprietà degli eredi del collezionista Jonas Netter. Ebreo alsaziano trapiantato a Parigi, rappresentante di commercio, benestante ma non ricco, adora gli Impressionisti, che però costano troppo. L’incontro col mercante polacco Leopold Zborowski lo introduce nella comunità bohemienne di Montparnasse, dove lavora un gruppo di pittori di talento ancora sconosciuti e perciò a buon mercato. Molti ebrei, in fuga dai progrom antisemiti dell’Est Europa. Quasi tutti squattrinati e sull’orlo di una crisi etilica. «Spiriti tormentati che si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione» (Restellini), scandalizzano gli amici benpensanti di Netter («cosa te ne fai di queste porcherie?! ») che invece crede in loro e ne diventa generoso mecenate. È uno dei primi a offrire un contratto a Modì: 15 franchi al giorno, più rimborso spese per le tele, i colori e le modelle, in cambio dell’esclusiva sui quadri. Il ritratto di Netter dipinto da Moise Kisling (stessa posa malinconica del Dottor Gachet di Van Gogh) campeggia nella prima sala, accanto a uno dei popolari scorci parigini di Utrillo e alle Grandi bagnanti di André Derain, sorelle delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, testimoni della comune passione per l’arte primitiva africana. Utrillo (17 opere), Modigliani (17), Valadon (15) e Soutine (20) sono gli artisti più rappresentati. Di Modì, oltre agli amici e alle amanti, sfilano una accanto all’altra La bella spagnola, Elvire col colletto bianco (testimonial della mostra) e la Fanciulla in abito giallo. Suzanne Valadon, modella e amante di molti artisti, qui si conferma buona pittrice in proprio di nudi, ritratti e paesaggi (una luminosa veduta del villaggio di Corte, in Corsica). Chaim Soutine, il più “ maledetto” del gruppo, è anche il titolare della sala più emozio nante. «È brutto e sporco» lamenta la moglie di Zborowski. «Fa veramente schifo» dice l’impietoso Chagall. Beve troppo, si lava poco, si soffia il naso nelle mani. Ma che pittore. La pennellata espressionista, disfatta come la sua anima, accende gli occhi spiritati della Pazza, accarezza la Bambina col vestito rosso, sfida Rembrandt (visto al Louvre) in una rivisitazione del Bue squartato che gli costa una denuncia dei vicini, disperati per il fetore della carcassa. Accanto ai famosi, altri pittori meno noti, tra cui Ebiche, Kremegne, Solà, Chanterov, Haiden, Duray, Fournier, Paresce. Efficace Corrado Augias (anche biografo di Modigliani, l’ultimo romantico) nel ruolo di cicerone, in audioguida e in video. Catalogo più aneddotico che scientifico: molte curiosità sugli artisti, poche notizie sulle opere.

Repubblica 10.3.13
Il lungo viaggio di Bauman alle radici del male
di Leopoldo Fabiani


“Unde malum? ”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo ( Le sorgenti del male, Erickson, pagg. 108, euro10), riprende i temi che il sociologo polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto (il Mulino), per arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti. Si parte dalla confutazione di alcune tesi illustri. Innanzitutto l’idea che la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i “mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle ricerche scientifiche. A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti dello psicologo sociale Philip Zimbardo ( L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva. L’esperimento, che risale agli anni Settanta, ha trovato conferme clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib. Si torna allora alla “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro. Ma nemmeno questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte a una descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su Nagasaki nell’agosto del ’45. Decisioni senza alcuna giustificazione “strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica. Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria. Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie potenzialità illimitate. A questo si aggiunge la perdita di sensibilità dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti (Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito morale più importante dei nostri giorni».

Repubblica 10.3.13
Gennaro Sasso
I ricordi del più grande studioso dell’idealismo italiano
Non capisco chi vuol dare senso al mondo
Il laico difende soprattutto il diritto di morire
L’esercizio della filosofia è sterile ma non si può farne a meno
intervista di Antonio Gnoli


Un impasto di pessimismo radicale e serietà filologica, così mi appare Gennaro Sasso, il più autorevole studioso italiano di Machiavelli e Croce. Nelle cittadelle di quelle due esperienze egli ha ricavato una certa idea dell’Italia tutt’altro che edificante. E non riesco a immaginare uno studioso che più di lui si sia votato alle questioni della laicità. Legato al Partito d’Azione, imparentato con Guido Calogero, professore per mezzo secolo di filosofia, Sasso in tutto ciò che dice e pensa mostra il senso della distanza. È come se le sue scelte si annidino nella storica e inflessibile rivendicazione del proprio remoto status di professore: «Lo sono stato per oltre mezzo secolo, svolgendo il ruolo con onestà e rigore. E posso aggiungere che oggi l’insegnamento mi manca».
Sasso ha da poco concluso il suo lungo viaggio nell’idealismo italiano (sei volumi apparsi negli anni e pubblicati da Bibliopolis), ha dato alle stampe un libro sul tema della decadenza (edito da Viella) e un volume — che va accolto con delicatezza — dedicato al figlio scomparso circa tre anni fa.
Non le sembrano troppi sei volumi sull’idealismo italiano?
«L’ampiezza non è mai stata programmata come tale. E considerando la cosa “mostruosa” che ne è venuta fuori mi verrebbe da dirle che è stata anche una reazione alla cultura contemporanea italiana che ha totalmente ignorato quell’esperienza».
La riparazione di un torto culturale?
«Diciamo l’esigenza di metter mano a un’assenza vistosa. Aggiungo che non mi sono mai considerato un idealista, né un crociano né un gentiliano, e che ho sempre cercato di prendere contatto con quel pensiero a prescindere dall’adesione che ne davo».
Ma, alla fine, perché tanto interesse per una storia ormai fuori dal nostro orizzonte?
«Forse perché è stato il solo tentativo serio di formare una tradizione filosofica italiana. Peraltro fallito».
Fallito, probabilmente, anche perché le figure più rappresentative — Croce e Gentile — si identificarono con due esperienze politiche che in tempi diversi uscirono sconfitte: il fascismo e il liberalismo.
«Indubbiamente contribuì. Di Gentile sono note le vicende. Scaturite da anni tragici. Mentre penso che l’aspetto più drammatico del crocianesimo fu che appena toccato il suolo della libertà politica in un certo senso si perse».
A proposito di “anni tragici”, che furono quelli della guerra, come li ha vissuti?
«La cosa più nitida che ricordo fu vedere da qui, dall’Aventino dove praticamente ho sempre vissuto, l’incendio di San Lorenzo dopo il bombardamento. Era il 1943. Mi sentii scosso dagli echi drammatici di quell’evento».
E cosa fece?
«Avevo quindici anni. Qualche tempo prima scoprii al ginnasio che il mio compagno di banco, ebreo, era stato deportato.
Trovavo umilianti le adunate in cui ci vestivamo da balilla o da avanguardista. Maturai così un odio verso il fascismo e quell’ambiente retorico e paramilitare. Poi giunse la Liberazione e l’università, che feci a Roma tra il 1946 e il 1950».
Chi furono i suoi maestri?
«Luigi Scaravelli, Pantaleo Carabellese, Carlo Antoni, Gaetano De Sanctis, Antonino Pagliaro, Natalino Sapegno, al quale devo la conoscenza durante un esame, di Cesare Garboli. Diventammo molto amici. E infine Federico Chabod che ai miei occhi rivestiva un fascino particolare».
Perché?
«Era il tramite con Machiavelli. E quando pubblicai il libro, Chabod mi disse: ora potresti cominciare a occuparti della curva dei prezzi in Europa. Gli risposi, un po’ imbarazzato, che in quel momento stavo studiando Averroè. A quel punto mi considerò perduto. Conservò sempre la sua benevolenza e in omaggio alla mia decisione di occuparmi di filosofia, e non di storia, ironicamente mi soprannominò doctor subtilis facendomi vergognare come un ladro».
Lei è un po’ capzioso.
«La filosofia è un modo preciso di esercitare il pensiero».
Ossia?
«Un modo teoreticamente strutturato. La mia predilezione va a filosofi come Fichte, Hegel, soprattutto Kant. Ma il modello per me è stato Il sofista di Platone. Il pensare storicistico mi è sempre parso di scarso rilievo e infatti la mia interpretazione di Croce è stata di portarlo al di là dello storicismo».
Lei professa una filosofia totalmente staccata dalla realtà. Non c’è il rischio che sia inutile?
«Non riesco a capire quei pensatori, per i quali ho anche stima, che devono dare un senso al mondo. Sento l’esercizio fitato.

Gennaro Sasso è nato a Roma nel 1928 Ha insegnato Storia della filosofia e Filosofia teoretica alla “Sapienza” di Roma È socio nazionale della Accademia dei Lincei

Repubblica 10.3.13
L’attimo più erotico della pittura italiana colto da Correggio
di Melania Mazzucco


Mi sono sempre chiesta se la distinzione fra pornografia ed erotismo non sia un comodo pretesto dei benpensanti — per separare ciò che disturba da ciò che attrae, e dunque ciò che viene rifiutato da ciò che viene invece consentito. Al tempo in cui questo quadro venne dipinto, però, le parole (e gli aggettivi correlati), segnavano generi e confini precisi. Pornografico era ciò che suscita fantasie sessuali e procura piacere, e perciò mostra; erotico ciò che lascia immaginare il piacere, e perciò allude. Pornografiche erano le stampe dei Modidi Marcantonio Raimondi da Giulio Romano, con le loro scene esplicite e organi genitali in bella vista. Erotici i quadri di Giorgione, Tiziano, Raffaello, con sensuali femmine nude immerse nella natura o a letto, che si limitavano a suggerire all’osservatore (per lo più re, principe o ricco banchiere) amplessi fantasiosi e appaganti. La mitologia classica offriva in proposito uno sconfinato repertorio. Queste opere erotiche desunte dalla letteratura si chiamavano “poesie”. Tutte le poesie erotiche dipinte per i potenti del mondo hanno mantenuto intatta la loro capacità di seduzione. Ma la più audace, e la più erotica di tutte, l’ha dipinta Antonio Allegri, detto il Correggio. Vissuto prevalentemente nella Pianura padana, in una cittadina che contava nemmeno 15mila abitanti (Parma), e non vantava né un re né un papa e nemmeno una piccola corte, è sempre rimasto escluso dal canone del Cinquecento che allinea Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Tiziano. Doveva molto a tutti e quattro, ma non gli fu inferiore. Il quadro in questione si intitola Giove e Io. È rimasta una congettura senza prove documentarie quella che il committente fosse Federico II Gonzaga, duca di Mantova. È l’ipotesi più verosimile, comunque, perché Federico, appassionato di donne, di cavalli e di armi, aveva commissionato al Correggio altre poesie di analogo soggetto, che intendeva regalare all’imperatore Carlo V, e inoltre si identificava con Giove (tanto da farsi dipingere a Palazzo Te in quel ruolo, ma non in quei panni, in quanto si volle mostrare nudo). Intorno al 1530, Correggio era reduce dall’impresa degli affreschi della cupola del Duomo di Parma: un capolavoro che in seguito gli sarebbe stato copiato da tutti i pittori barocchi italiani ed europei, ma che in quel momento — come se fosse in anticipo di un secolo sul gusto — aveva suscitato rumorosi dissensi. Gli amori di Giove vennero a risollevarlo da un comprensibile sconforto. La fonte letteraria erano le Metamorfosi di Ovidio, per secoli la Bibbia amorosa dell’Occidente. Ma l’episodio di Giove e Io dovette deludere Correggio: il dio concupisce la solita fanciulla ritrosa, che gli sfugge nascondendosi nei boschi. Poi nasconde la terra in una nebbia scura (o nuvola) e, approfittando del buio, la possiede. Correggio però ha un colpo di genio. Scardina il testo con un procedimento retorico proprio della letteratura più che dell’arte: la metonimia. L’effetto viene espresso dalla causa: la nuvola non è più il mezzo di cui si serve il dio per possedere la donna, ma il dio stesso. Nel suo quadro, Giove è una nuvola. Dipingere le nuvole (e la nebbia), è come dipingere l’aria, o la luce. Per un pittore, è la sfida tecnicamente più stimolante. Cosa sono, infatti, le nuvole? Né natura né corpo. Si possono forse toccare? Correggio accetta la sfida e la vince: dipinge una vera nuvola, evanescente, eppure di una consistenza quasi materica. Plumbea, minacciosa, gonfia di pioggia, incombe su un paesaggio autunnale, un bosco di querce su cui cala l’oscurità. Ma fa di più: la umanizza, le dà un volto, sfumato, fantasmatico, appena visibile, che emerge dalla nuvola stessa per baciare Io; le dà perfino un braccio. Non si potrebbe definire altrimenti la zampa grigio-azzurra fatta d’ombra e di nebbia che attira a sé la donna. Il secondo colpo di genio è la scelta dell’istante. Un quadro infatti può cogliere una frazione sola, del tempo di una storia. Correggio sceglie l’attimo del bacio — anzi, quello in cui, col bacio, il principio maschile penetra la donna e le procura l’orgasmo. Mi riesce difficile ricordare in tutta la storia dell’arte occidentale un amplesso più esplicito e più spregiudicato di questo. La donna infatti non è la solita vittima fuggiasca: partecipa attivamente. Io, magnificamente nuda, è seduta su un bianco lenzuolo di seta, a sua volta posato su una roccia soffice di muschio, sul limitare di uno specchio d’acqua (in basso a destra si riconoscono la testa di un cervo e una simbolica anfora). Girata di spalle, ci offre la schiena stupenda, le natiche, le gambe, le braccia. La sua carne perlacea è dipinta con tale perizia da sembrare vera. Ma i suoi muscoli sono in tensione. La schiena s’inarca, come sotto il peso di un altro corpo, il piede s’impunta, la mano sinistra preme la zampa-nuvola contro di sé; la gamba destra si divarica per accoglierlo, la testa si rovescia all’indietro, le labbra si schiudono, come emettendo un gemito. Correggio morì poco dopo, relativamente giovane. Era il 1534. Il fortunato proprietario teneva probabilmente Giove e Io in camera da letto. Se era davvero Federico II, non lo godé a lungo: malato di sifilide, morì nel 1540, dopo aver dovuto lasciare la sua amante Isabella Boschetti per sposare Margherita Paleologa e generare eredi legittimi allo Stato. Il quadro emigrò all’estero. Anche lo spensierato erotismo di Correggio lasciò l’Italia. Col tempo, a forza di denunce e tribunali, ai pittori italiani fu sottratta la pornografia, e l’erotismo si rifugiò nel sacro (le torbide Maddalene). Agli italiani che non erano pittori furono lasciate le briciole: il sesso boccaccesco, licenzioso e scurrile. Il sesso poteva solo muovere al riso. Nessun artista ha più saputo (o potuto) cogliere con altrettanta spudorata libertà il momento più scandaloso di tutti: il piacere di una donna.
Correggio: Giove e Io (1531 ca) Olio su tela, Vienna Kunsthistorisc hes Museum