lunedì 11 marzo 2013

l’Unità 11.3.13
Il governo? «Facciamolo»
Un appello per «non fermare il cambiamento»
Tanti 5 Stelle aprono al Pd ma Grillo li blocca
Benigni e don Ciotti, Saviano, Serra, Jovanotti e altri chiedono di non perdere l’occasione del cambiamento e di dar vita a un esecutivo di «alto profilo»
Il leader 5 Stelle richiama i suoi: se fate un accordo me ne vado
Oggi la proposta di Bersani sulle presidenze
Un tweet del capo tenta di fermare la discussione tra i parlamentari del movimento favorevoli al dialogo con i democratici
Annullata a maggioranza la marcia del 15
di Alessandra Rubenni


Dopo la minaccia di Casaleggio, quella di Grillo. Se qualche giorno fa l’ammonimento era stato «nessuno pensi di fare come cazzo gli pare», stavolta lo stop del capo è ancora più duro e arriva proprio mentre Vito Crimi e Roberta Lombardi già designati capogruppo di Senato e Camera alla fine di una giornata d’assemblea a porte rigorosamente serrate degli eletti Cinquestelle, in conferenza stampa chiude a ogni ipotesi di alleanza per garantire un governo al Paese.
Nessun accordo con altri partiti, solo «un governo a 5 stelle, da soli», è questo che «chiederemo a Napolitano», perché «l’unica cosa che conta sono i 20 punti del nostro programma», e non si farà neanche «nessun accordo sulle presidenze» di Montecitorio e Palazzo Madama, scandiscono Crimi e Lombardi. Cinquestelle soli, duri e puri. È la linea del capo, ribadita a gran forza dopo l’apertura di diversi neoparlamentari grillini all’ipotesi di alleanze, trapelata all’esterno del conciliabolo. Il Movimento è spaccato. E la tensione è tale da spingere Beppe Grillo, alle otto di sera, a tuonare via Twitter: «Qualora ci fosse un voto di fiducia dei gruppi parlamentari del M5S a chi ha distrutto l’Italia, serenamente, mi ritirerò dalla politica».
Sette ore prima, all’Hotel Parco dei Pini, all’Eur nuova location dopo i primi due meeting i neoeletti grillini avevano cominciato ad arrivare alla spicciolata. Poi il grosso era sbarcato da un pullman. Ed era andato in scena il copione consueto: cinquestelle a bocca cucita e atteggiamento circospetto, a passo svelto verso la «zona rossa» dell’albergo a loro riservata, e giornalisti pronti a fare capannello intorno a qualsiasi faccia ancora poco conosciuta, a caccia dei neoparlamentari. In tutto, ieri, un centinaio. Ma poi qualcuno si era fermato coi cronisti.
Sull’alleanza con il Pd e l’ipotesi di un referendum «c’è fermento da giorni», ammette all’ingresso Ivan Catalano, neodeputato 26enne eletto in Lombardia, perché, rivendica lui, «si può fare tutto, non ci sono vincoli» e «un governo va fatto se no non va avanti il Paese. Qualcuno prenderà la decisione di farlo e lo si farà. Ma c’è tempo per discutere, è inutile fare pressioni, non serve a nulla». È l’ora di pranzo. Su facebook Crimi fa sapere, con quella che chiama «Operazione trasparenza», di essere stato contatto da un esponente del Pd per le presidenze di Camera e Senato. Punto cruciale. Ed è chiaro che il dibattito che anima la rete e attraversa la base, tra chi si schiera per l’appoggio al Pd per dire sì agli otto punti di Bersani, chi ha il terrore di tirarsi addosso l’accusa di «inciucio», il peggiore degli incubi per il Movimento dell’ex comico, e chi sulla scia di Casaleggio grida direttamente «no all’inciucio», ebbene quel dibattito non può non insinuarsi in nell’assemblea. Alcuni parlamentari grillini facenno pressing per un referendum online tra gli attivisti, proprio su questa ipotesi. E questo nonostante l’aut aut già arrivato da Casaleggio, che ha minacciato: se il Movimento farà un accordo con qualsivoglia partito, io me ne vado. Ma all’Eur la maggior parte dei colleghi di Catalano nega che si parli di questo. A metà pomeriggio, è Vito Crimi a spiegare che i temi e le decisioni che si stanno prendendo riguardano tutt’altro. Questioni organizzative e pratiche. A tutti il suggerimento di stare attenti ai documenti da firmare già oggi per essere registrati alle Camere («non è detto si debba firmare tutto e subito, riguardate le carte»).
Ad alzata di mano hanno votato, raccontano, ed è stato deciso il dietrofront sulla marcia verso il Parlamento. Venerdì 15 non ci sarà il corteo proposto da Maurizio Battista, per accompagnare senatori e deputati grillini dal Colosseo alle Camere, nel giorno dell’insediamento. Due terzi dei neoeletti hanno votato contro dopo che molti aveva sottolineato il rischio di alimentare gli accostamenti del Movimento al fascismo. Ovviamente, tutta colpa dei giornalisti. «Sono uscite informazioni sbagliate», lamentava ieri Battista. E anche Crimi ha votato contro: «Non deve passare il concetto che ci accompagnano come i bambini al primo giorno di scuola e non dobbiamo dare l’immagine che è una marcia di vittoria perché noi andiamo in Parlamento a lavorare». «Attenti a chi ci accomuna a fascisti e Casa Pound», ammoniscono altri. Mentre poi si passa a parlare della selezione dei portaborse che verrà fatta online, con l’esame dei curricula, come annunciato su Facebook. Infine, le piattaforme informatiche per la comunicazione fra gli eletti e quella aperta all’esterno, per quel «parlamento digitale» in grado di raccogliere le proposte degli attivisti. Infine gli altri appuntamenti in programma. A partire da mercoledì, con le riunioni alla Camera e al Senato per decidere su come e chi votare per le presidenze delle due assemblee. Ma a fine giornata, sul dibattito vero, Grillo sterza per richamare tutti all’ordine. «Per quanto mi riguarda non ci sarà alcun referendum interno per chiedere l’appoggio al pdmenoelle o a un governo pseudo tecnico», scrive su Twitter. «I partiti cercano di addossare al M5S la responsabilità dello sfascio del Paese dopo aver inciuciato per venti anni e sorretto insieme il governo di Rigor Mortis alla luce del sole», scrive sul suo blog, ma lo slogan ricorda minaccioso ai suoi resta «mandiamoli tutti a casa».

Grillo, chiusura totale al Pd: “A Napolitano chiediamo un governo a 5 Stelle”
La Stampa 11.3.13
La risposta dei democratici
Fassina: “È un dispetto al Paese. Ne risponderanno agli elettori”
“Pensano che così abbracceremo il Pdl. Si sbagliano”
di F. Sch.

qui

Corriere 11.3.13
La condizione di Grillo: no ad alleanze con Bersani, diano il governo a noi
Il leader: non ci saranno consultazioni interne, se i 5 Stelle votano la fiducia al Pd io lascio
di Alessandro Trocino


ROMA — «Qualora ci fosse un voto di fiducia dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle a chi ha distrutto l'Italia, serenamente, mi ritirerò dalla politica». Beppe Grillo lo scrive in serata in un tweet. Messaggio che esprime una posizione politica nota ma che qualcuno legge anche come un monito ai suoi, visto che nel pomeriggio si era diffusa la voce che, nella seconda assemblea del gruppone di neoparlamentari M5s, si fosse affrontata la possibilità di sottoporre a referendum una possibile alleanza con il Pd. Niente di tutto questo, sostiene nella conferenza stampa finale Rocco Crimi, capogruppo indicato per il Senato: «Non c'è stata una voce che sia una che si è alzata per proporre un'alleanza. Noi proporremo al capo dello Stato un governo a 5 Stelle. Non ci sono margini, e non ci sono mai stati, per nessun'altra opzione».
Che l'unanimismo di facciata si sia incrinato, sotto la pressione di parte dell'opinione pubblica, è possibile. E lo dimostrano le parole del deputato Ivan Catalano, che travolto da microfoni e telecamere, risponde con vaghezza pericolosa a una domanda su un possibile referendum sulle alleanze: «Su questa cosa il Movimento è in fermento da giorni. Si può fare tutto, non ci sono vincoli». In conferenza stampa, poi, la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi spiegherà che c'è stato un chiarimento con Catalano e che nessuna apertura aveva intenzione di fare.
La lunga giornata all'hotel Villa Eur Parco dei Pini — di proprietà dei Frati maristi, congregazione fondata da Marcellin Champagnat — si svolge ancora all'insegna di un certo assemblearismo. Una successione di interventi governati da Crimi, che acquista sempre più autorevolezza, e che spesso dà la sintesi. È il caso della questione della «passeggiata» verso le Camere dei neoparlamentari. Idea lanciata dal romano Alessandro Di Battista, che si era già informato con la Questura: si trattava di partire da piazza del Popolo, accompagnati dalle famiglie. La proposta è stata dibattuta, ma poi è stato Crimi a sciogliere il nodo: «Non deve passare il concetto che ci facciamo accompagnare come dei bambini al primo giorno di scuola. Abbiamo una dignità, siamo persone serie e non deve passare il messaggio che festeggiamo perché abbiamo vinto ma che andiamo lì per lavorare». Ma altri sottolineano il vero rischio: che la passeggiata venga vista come una sorta di «marcia su Roma», con pericoloso accostamento al fascismo (tema sul quale si era già sviluppata una polemica per un post della Lombardi). Alla fine si vota e si dichiarano contrari i due terzi dell'assemblea. Che dà invece mandato ai gruppi di modificare il codice di comportamento degli eletti, che attualmente prevede una riduzione di 2.500 euro dell'indennità. Grillo nei giorni scorsi aveva chiesto ai parlamentari di rinunciare a parte della diaria. Su questo il dibattito è stato acceso e c'è chi ha anche ammonito: «Non vogliamo essere come la Casta, ma neanche francescani: attenti a diventare integralisti».
Crimi ha spiegato che «non c'è nessuna mobilitazione della base per chiederci alleanze: la maggior parte dei messaggi sono a sostegno della nostra linea, che era già stata decisa. E quindi non c'è bisogno di referendum». Conferma Grillo, a distanza: «Per quanto mi riguarda, non ci sarà alcun referendum interno per chiedere l'appoggio al pdmenoelle o a un governo pseudo tecnico». Al presidente Napolitano sarà presentata l'unica offerta «possibile»: un governo a 5 Stelle. Candidato premier? «Non è stato deciso». Grillo? «Ci mandi un curriculum e valuteremo», scherza la Lombardi.
Quanto alla presidenza delle Camere, Crimi spiega che anche qui non ci saranno accordi: «Presenteremo un nostro candidato alla Camera e uno al Senato e lo voteremo». E il mercato delle vacche denunciato da Grillo? Crimi nega: «Quel post era solo la denuncia di un'operazione annunciata di scouting. Ma non ci risulta che nessuno del Pd abbia mai contattato qualcuno dei nostri».

Corriere 11.3.13
La vendetta del Grillo parlante sugli intellettuali di sinistra
di Luca Mastrantonio


Il disprezzo di Beppe Grillo verso gli intellettuali del Pd ha ragioni antiche e rappresenta una filologica nemesi collodiana. Sabato scorso ha risposto ai primi firmatari di un appello al dialogo (Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa, Salvatore Settis e Barbara Spinelli) con dei versi di Giorgio Gaber. Cortesi, rispetto a quanto scrisse nel 2009 sul blog: «venduti», «tartufi, cortigiani, zimbelli da esibire, spaventapasseri da telegiornali di regime, ombre silenti, ciarlatani di piazza». Lanciano appelli per la democrazia da sottoscrivere, anche on line, «appelli vibranti che non servono mai». Gli intellettuali fanno «più schifo» della classe politica perché non hanno mosso neanche un dito contro di essa. Quando ad esempio — non lo cita, ma per lui fu un evento cruciale — è stato cacciato dalla tv.
Ecco perché mandare gli intellettuali a far da ponte con Grillo è come proporgli un convegno su Craxi! Anche perché gli intellettuali di sinistra, in questi mesi, si sono limitati a discettare sulle dosi di qualunquismo nel Movimento dell'ex comico. Senza sporcarsi le mani — o la mente — salvo rare eccezioni, come il collettivo Wu Ming. E lo sberleffo di Grillo è una vendetta ironica: per anni i cultori del progressismo pedagogico hanno indicato come modello di impegno intellettuale il Grillo Parlante. Umberto Eco e Alberto Asor Rosa, in particolare, citavano l'insetto di Collodi come un mantra: l'intellettuale deve essere una voce scomoda, una coscienza critica, deve criticare la sua parte, rischiare di venire spiaccicato... Marcello Veneziani ribatté a Eco: «Ridurre l'intellettuale al ruolo di ficcanaso molesto significa farne una specie di difensore civico o di petulante Beppe Grillo». E così fu (è). Il tanto invocato Grillo Parlante è arrivato: si chiama Grillo Beppe. Intellettuale di riferimento degli elettori dell'M5S. Un grillo parlante che urla, certo. Ma gli intellettuali di sinistra? Per vent'anni molti hanno urlato contro il regime tra battute e provocazioni (il berlusconismo peggio del fascismo!) che ne hanno minato l'autorevolezza. Come cicale, travestite da Grilli Parlanti.

Corriere 11.3.13
Il promotore (inconsapevole) del referendum
di Fabrizio Roncone


ROMA — I parlamentari grillini, ogni volta, cambiano albergo. Quello che hanno scelto per l'assemblea di questa domenica pomeriggio è all'Eur, tra pini alti e pareti di cemento armato, una via di mezzo tra un penitenziario americano e una centrale nucleare.
Arriva un taxi.
Il mucchio dei fotografi e dei cameraman lo circonda, gomitate e urla, bestemmioni, microfoni, domande.
«Onorevole, che assemblea sarà?». «Cosa deciderete?» «Onorevole, è vero che Grillo...».
Lo sportello si apre, volto di donna sorridente. «Oh, ragazzi... Sono Paola Zanca del Fatto...».
La delusione dura pochi minuti. Dal finestrino di una utilitaria ecco comparire la barbetta curata da finto gruppettaro di un parlamentare vero, ecco il deputato Alessandro Di Battista, 34 anni, fino a poco tempo fa brillante cooperatore sulle Ande, che subito, in un miscuglio di ironia e rimprovero, comincia a spiegarci le regole per cercare di essere dei bravi giornalisti. Poi ecco un pullman che parcheggia, ecco che i grillini scendono in gruppo, certi rifilando sguardi disgustati, severi, di purissima commiserazione, altri più indulgenti, qualcuno che sorride c'è, come la Marta Grande, come il capogruppo al Senato, Vito Crimi (ormai considerabile un piccolo dottor Sottile del movimento).
Poi, si fa largo lui: l'onorevole Ivan Catalano da Busto Arsizio, di anni 26, eletto alla Camera in Lombardia, diploma di perito tecnico, disegnatore meccanico in un'azienda della zona industriale di Sacconago.
L'onorevole Catalano è uno di quelli ad aver capito meglio come ci si comporta, quando si arriva davanti a qualche telecamera.
Intanto, si rallenta (non troppo, e non bruscamente). Poi si indugia (qualche secondo). Quindi si comincia a rispondere (possibilmente, fingendo un filo di fastidio).
Gli rivolgono tre domande. Lui fornisce tre risposte che, sintetizzate, cinque minuti dopo diventano il titolo politico della domenica pomeriggio.
Sentite: «Un governo, alla fine, si farà... Qualcuno prenderà la decisione di farlo. Noi abbiamo espresso la nostra linea, vedremo come andranno le cose, la palla di cristallo qui non ce l'ha nessuno. L'alleanza con Bersani? Su questa cosa il mondo del movimento è in fermento da giorni, quindi... la consultazione interna c'è sempre tutti i giorni».
Parole che vengono tradotte in politichese. Parole che diventano un concetto: il Movimento apre al Pd.
Ciò che accade di qui a poco nel salone delle conferenze dove sta per cominciare l'assemblea, spiega bene come ogni genere di linea politica, all'interno del M5S, viaggi per adesso su binari assolutamente atipici. Alcuni aprono l'Ipad e leggono la dichiarazione di Catalano sui siti. Qualcuno annuisce, ha ragione Catalano, sono giorni che ce lo ripetiamo, bisogna trovare un'intesa con il Pd, il Paese comunque va governato; altri gli rimproverano un'eccessiva disinvoltura («Scusa, Ivan: lo sai qual è l'ordine, no? Lo sai che possono parlare solo i capigruppo, vero?»).
È probabile che alla maggior parte dei suoi colleghi parlamentari sia sfuggito che il Catalano da Busto Arsizio, giusto una settimana fa, in barba agli ordini di Grillo e Casaleggio, ha già rilasciato un'intervista al Daily Telegraph, che l'ha pubblicata nella sua edizione domenicale.
Nessuna dichiarazione indimenticabile, ma neppure frasi tipo «sono una persona molto curiosa, che considera la connettività una risorsa, con la quale le idee delle persone possono trovare un punto di incontro e sviluppo» (rintracciabile in una sua biografia ancora presente sul web).
Alla corrispondente italiana del quotidiano britannico, Andrea Vogt, Catalano si descrive come «un cittadino normale, un cittadino come chiunque altro che, grazie a questo nuovo modo di fare politica, entrerà in Parlamento». Catalano è stato uno dei promotori del Meetup Beppe Grillo di Busto, si è contraddistinto per la battaglia contro l'inceneritore Accam, e nel 2007, a soli vent'anni, prese in parola Grillo e si lanciò nella cosiddetta operazione «Fiato sul collo», presentandosi nella sala del consiglio comunale di Busto con una telecamerina «per riprendere e pubblicare su internet tutto quello che facevano i "nostri dipendenti", come li chiamava Beppe».
Adesso, apre a Bersani. E annuncia che un governo si farà.
Rocco Casalino, ex concorrente del Grande Fratello, ora portavoce del M5S in Lombardia, urla: «Ivan? Lasciatelo in paceeeee!».
Si volta Gabriele Paolini, il celebre disturbatore televisivo. «Un po' isterici, eh? Mi vuole intervistare? No, perché io sono un grillino della prim'ora...».

La Stampa 11.3.13
Fedeli alla linea per forza Gli eletti piegano la testa
Le iniziative dei parlamentari si infrangono sul muro Grillo-Casaleggio
di Andrea Malaguti


Un po’ rock star un po’ esercito della salvezza autoproclamatasi ciambella di salvataggio per un Paese che rischia la deriva - i deputati del MoVimento 5 Stelle arrivano all’hotel Parco dei Pini, una casa per ferie dei padri Maristi nella zona sud di Roma, all’ora di pranzo. Riunione plenaria. Sul vialetto un militante ha appeso uno striscione con tre scimmiette con occhi, orecchie e bocca ben aperti. «Vedo, sento, parlo». Questi siamo noi. Fiato sul collo. Un gigantesco faro acceso sui comportamenti collettivi. Un’idea più facile da applicare che da sopportare.
I cittadini del cambiamento si presentano alla spicciolata. Qualcuno in auto. Molti su un pullman che si ferma di fronte alla porta a vetri. «Incontro operativo», spiega subito il portavoce Vito Crimi. Non c’è la calca di domenica scorsa ad attenderli. Nessuna scena d’isteria. Quasi tutto sotto controllo. Una signora in ciabatte e vestaglia grida: «Beppeeeeeee trovami un lavoro». Il papa ligure non c’è. Lei urla lo stesso. È l’unica. Anche i marziani lentamente diventeranno normali. Ma non è ancora il giorno. Il senso di diversità resta evidente. Molti sono silenziosi. Sfuggenti. Diffidenti. Selva di telecamere. Il solito giochino di «io riprendo te, tu riprendi me». Anche i messaggi di Crimi sono zigzaganti. Il portavoce al Senato dei Cinque Stelle ha un viso largo, l’aspetto di un uomo amichevole e pacioso. Un gattone. Che evita di farsi mettere all’angolo. «Siamo qui per capire quali incarichi attribuire a ciascuno». Niente dibattito sulle alleanze, giura. «Chi ci ha scelto sa che non ne faremo». Bye bye Pd. Precisa. «Un governo c’è. Comunque ci sarà. È il Parlamento che deve tornare al centro dopo vent’anni in cui è stato succube dell’esecutivo. Rileggiamo bene la Costituzione». Ribadirà il concetto in serata. «L’unica ipotesi che contempliamo è un governo 5 Stelle». Soli. Lontani dalle contaminazioni con un universo radioattivo. Sono le parole d’ordine di questi giorni complessi. Comunicati che lasciano poco spazio alle interpretazioni. Del resto le opinioni del papa ligure e del suo guru Roberto Casaleggio difficilmente sono oggetto di dibattito. E Casaleggio ha chiarito che, se il MoVimento scegliesse la strada della fiducia a chiunque, lui si farebbe da parte. «O come dico io o niente». Basta per tenere compatto il gruppo? Forse.
Il cittadino Ivan Catalano, un passo teso, un po’ incerto, che lo inclina in avanti come se cercasse di camminare controvento, involontariamente rompe la consegna all’allineamento. Si distrae. Aggiustandosi gli occhiali dice quello che tanti sospettano. «L’ipotesi di un referendum per valutare un accordo col Pd tiene il MoVimento in fermento da giorni. Non ci sono vincoli». Se Casaleggio sentisse gli si creperebbe il cuore. O forse si creperebbe quello di Catalano. Una piccola bomba dialettica. Uno vale uno. Ovvero - fino alla sintesi imposta dalla democrazia orizzontale - non vale niente. Solo il tandem Crimi-Lombardi interpreta la linea. «Il cittadino Catalano esprime una sua opinione personale e non voleva dire quello che avete capito». Non voleva. Ma quanti sono i Catalano tra i 163 neoeletti? Non è facile tenere i ranghi compatti. Serve una mano dall’alto per seppellire il dissenso.
Come con la storia della marcia dal Colosseo al Parlamento nel giorno dell’insediamento, il 15 marzo. Un progetto svelato sabato dal cittadino Stefano Vignaroli, che adesso prende le distanze da se stesso. «Io non ho mai organizzato nulla». Le parole «marcia» e «Roma» infilate nella stessa frase hanno un suono brusco, scuro, tecnicamente nero. E i sospetti di malinconie da Ventennio sono già troppi per alimentarne altri, in un popolo in cui l’anima progressista-ambientalista-ecologista-collettivista è per giunta maggioritaria. Così, scendendo dalla macchina, il romano Alessandro Di Battista, uno dei duri e puri, mastica le parole: «Ma quale marcia dal Colosseo? ». E la sua è cortesia mista a una mal celata insofferenza. Più per i colleghi che per i media. La pressione dovrebbe costringere tutti a imparare nuove astuzie, perché di solo web e orgoglio in politica non si campa. Lui l’ha capito. Altri no. La marcia diventa prima «passeggiata» poi abortisce definitivamente, rottamata come un’idea stramba.
Nel pomeriggio, piuttosto, si parla di soldi. Lo slogan è: «Non adeguiamoci alla Casta». Non basta tagliarsi gli stipendi, portarli a 2.500 euro. Si discute anche della necessità di contenere drasticamente i rimborsi. Da quelli per il telefono alle spese di viaggio. Per arrivare alla rinuncia dell’assegno di fine mandato.
«Non trasformiamoci in studenti universitari fuori sede. Nessuno ci deve rimettere. Ma dimostriamo ai nostri elettori che noi non lucriamo». Chapeau. Alle 20, in conferenza stampa, i due capigruppo tirano le somme. Dicono no a tutto. Alleanze, accordi su presidenze, condivisione di incarichi. Buio anche sul nome individuato per il Quirinale e per Palazzo Chigi. «Vedremo». Beppe Grillo premier? «Ci mandi un curriculum e lo valuteremo», scherza la Lombardi. Mercoledì nuova riunione. Il cittadino Catalano va via di corsa. Ha un treno che lo aspetta. Ivan, il referendum? Lui tace. Si limita a sorridere rimanendo in allerta, come se una sensazione di pericolo scavasse sotto il suo improvviso torpore.

Repubblica 11.3.13
Il dibattito interno sulle indennità: “Siamo arrivati in Parlamento dicendo che avremmo preso 2500 euro e ora si parla di 11mila”
Divisi sugli stipendi: “Non siamo francescani”


ROMA Mentre i cronisti sono chiusi in una stanzetta ad ascoltare la conferenza stampa ufficiale, i parlamentari rimasti escono tutti insieme, come una scolaresca in gita. Per alcuni c’è un pullman, altri sono in macchina: «Stiamo morendo di fame», ripetono l’uno all’altro, ridendo e dandosi appuntamento per oggi. «Non siamo ancora sistemati - dice Paola Carinelli - questa settimana, poi, c’è anche il conclave». Di politica o cambi di linea non vogliono neanche sentir parlare. Dopo l’ingresso a sorpresa di Ivan Catalano, l’apertura a un fermento che starebbe scuotendo il Movimento, c’è il serrate le file. I neoparlamentari sono guardati a vista da ragazzi con su cartellini con scritto “staff”. Giulia Sarti e Matteo Dall’Osso - emiliani - stanno rispondendo a qualche domanda dei cronisti, lontani dalle telecamere, ma vengono invitati a entrare: «È tardi, andate». Laura Castelli e Marco Scibona, piemontesi, si fermano dopo un caffè a chiacchierare: quando si accorgono che gli interlocutori sono giornalisti, gli “staff” intervengono. Lei ha un moto di ribellione: «Insomma, è maleducazione neanche fermarsi». Loro dicono: «Ma no, scusa, per carità ». E però, sono lì guardinghi. Massimo Artini, toscano dai modi aperti, offre il caffè e fa due chiacchiere: lui pontiere col Pd?
Proprio no. «È vero che andavo alle medie con Matteo Renzi, ma facevamo insieme solo educazione fisica. L’ultima volta che l’ho sentito era prima delle elezioni per una riunione sugli inceneritori. Lapo Pistelli? Sì, gli curo il sito da anni, me l’ha presentato un compagno di tango».
È di fretta, è imprenditore informatico e sta preparando un forum per le discussioni interne al Movimento. Così, magari, non si perderanno ore com’è successo ieri sulla questione rimborsi. «Siamo arrivati in Parlamento dicendo che avremmo preso 2500 euro al mese e invece ora stiamo discutendo se tra rimborsi e tutto il resto prenderne 11mila». Bisogna tagliare ancora, dicono in molti. «Rendicontare tutte le spese e metterle on line». Una parlamentare siciliana avvisa: «In Sicilia hanno fatto un errore e restituito più di quello che dovevano, ci stanno rimettendo». E un’altra: «Dobbiamo prendere il giusto, ma non fare i francescani, non vivere come universitari fuori sede
nelle case tutti insieme». Così, ogni decisione su quanto tagliare viene rinviata a un «gruppo indennità ». Nel regolamento messo on line da Grillo e Casaleggio c’è scritto che potranno prendere 2500 euro netti di stipendio base, più diaria e rimborsi vari. Si arriva a 11mila: «Diamo mandato ai gruppi di cambiare il regolamento ». Crimi consiglia: «Domani vi daranno dei fogli, non firmate niente». E altri: «Non date il vostro iban».
Nel frattempo, al bar, arrivano due deputati siciliani. Abbigliamento ricercato, maglioni firmati. Francesco D’Uva, di Messina, ha 25 anni e un dottorato di ricerca in scienze chimiche: «Non so ancora se mi danno l’aspettativa, dicono che è solo per la maternità ». Alla Camera si può evitare la cravatta. «Io la metterò. Almeno per l’insediamento». Con lui c’è Alessio Villarosa, 32 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto: «Ero settimo in lista. La notte dei risultati sono andato a letto convinto di non avercela fatta. E invece». Una delle prime ad andar via è una giovane donna con un bimbo in braccio: ha appena un anno, cammina da poco, ma ha corso per mezzo pomeriggio nella hall, sorridente e accudito dal papà. Da mercoledì basta alberghi: le riunioni saranno in Parlamento.
(a.cuz.)

il Fatto 11.3.13
Bersani va avanti
L’offerta del Pd ai gruppi M5S


Sarebbe stato Maurizio Migliavacca, l’emissario bersaniano che ha chiamato Vito Crimi, il capogruppo penta-stellato al Senato. Al centro della conversazione telefonica un confronto sulle caselle parlamentari da riempire a partire da venerdì 15 marzo. In particolare l’offerta (annunciata) del Pd al M5S riguarderebbe la presidenza della Camera. Un colloquio che è stato definito dallo stesso Crimi come “corretto”, quasi una precisazione per evitare altre accuse di “scilipotismo” al disperato tentativo del segretario democrat.
Tra appelli e pontieri che si moltiplicano con il passare delle ore, oggi il Pd riunirà i suoi gruppi parlamentari a Roma, nel teatro Capranica. In tutto 408 tra deputati e senatori, di cui 260 eletti per la prima volta. Come già accaduto con la direzione nazionale di mercoledì scorso, la trasparenza degli interventi sarà garantita dalla diretta televisiva di Youdem, la tv del Pd diretta da una fedelissima di Bersani, Chiara Geloni. L’ennesimo segnale che va nella direzione del dialogo con il M5S, nonostante le ripetute chiusure di Grillo e Casaleggio. Il segretario del Pd insisterà sul suo progetto del governo di minoranza con otto punti di programma e potrebbe rivolgersi direttamente ai parlamentari grillini, per cercare di aprire il tanto sospirato varco. Ma alla debolezza oggettiva di Bersani in queste ore corrisponde la crescente debolezza dell’altro Pd, quello che guarda alla saggezza di Napolitano per un esecutivo tecnico e “responsabile” che duri almeno fino a ottobre. Se infatti il segretario è bloccato dal no di Grillo, veltroniani e centristi sono paralizzati dall’inutilizzabilità del Pdl prigioniero ancora una volta dei guai giudiziari del Cavaliere. Una via d’uscita sarebbe la sua spaccatura ma è inverosimile dopo che B. ha dimostrato di essere l’unico portatore di voti.
Ed è la somma di queste due debolezze che avvicina la prospettiva di un voto anticipato alla fine di giugno, su cui Renzi si è già buttato. Il sindaco di Firenze gioca la sua partita tentando di rimanere fuori dalle manovre della nomenklatura anti-bersaniana del Pd. Segue un suo percorso (senza simbolo di partito come nella campagna per le primarie) e che ha riaperto di nuovo il fronte delle polemiche con i Giovani Turchi, ufficialmente ancora leali al segretario. Argomento: i finanziamenti ai partiti. Renzi ha suggerito a Bersani di farne il nono punto del suo programma. Stefano Fassino gli ha risposto: “Renzi cavalca l’antipolitica”.
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Repubblica 11.3.13
Bersani va avanti nella sfida e punta sui grillini del dialogo
Il leader ha chiesto al capo della sua segreteria Migliavacca di dialogare con Crimi: "Pronto a offrire le due Camere". Errani fa da pontiere e arrivano le prime aperture. Nel partito crescono però i mugugni: "Basta inseguire l'ex comico"

di Claudio Tito
qui

l’Unità 11.3.13
L’appello: governo di cambiamento
Da don Ciotti a Benigni, da Jovanotti a Saviano, «pressing» sui 5 Stelle: «Esecutivo di alto profilo»
di Rachele Gionnelli


ROMA Si intitola «Facciamolo» in inglese sarebbe stato più forte anche se con maggiori riverberi di doppi sensi, we can do it il nuovo appello lanciato ieri per un governo di cambiamento, che anche il Movimento Cinque Stelle dovrebbe aiutare a far nascere. A lanciarlo questa volta non sono gli intellettuali, anche se Salvatore Settis ha firmato ambedue, ma un
gruppo di personalità provenienti da mondi diversi: c’è don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera , un altro sacerdote «di battaglia» come don Andrea Gallo, genovese come Beppe Grillo e suo vecchio amico, il cantautore Lorenzo Jovanotti, Roberto Benigni, il fondatore di Slow Food e Terra Madre Carlin Petrini e l’imprenditore della ristorazione di qualità della catena Eataly Oscar Farinetti, Roberto Saviano, i giornalisti Barbara Spinelli e Michele Serra.
L’appello, diffuso anche attraverso i social network, non entra nel merito della scelta del Quirinale su chi debba avviare le consultazioni, si limita a chiedere un esecutivo «di alto profilo» che rispetti il risultato delle urne. «Mai, dal dopoguerra a oggi comincia il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare. Per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato. Sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima».
I 10 firmatari chiedono perciò «gentilmente ma ad alta voce, senza avere alcun titolo istituzionale o politico per farlo, ma nella coscienza di interpretare il pensiero e le aspettative di una maggioranza vera, reale di italiani» che sia rispettata «la volontà popolare sortita dal voto del 24-25 febbraio». Chiedono che questa speranza «non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi». E ritengono di interpretare «questa maggioranza, fatta di cittadine e cittadini elettori che vogliono voltare pagina dopo vent'anni di scandali, di malapolitica, di sperperi, di prepotenze, di illegalità, di discredito dell'Italia nel mondo». Una stragrande parte del Paese che sottolineano«chiede ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento, ai loro leader e ai loro portavoce, di impegnarsi fino allo stremo per riuscire a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo» alle aspettative di un cambiamento. Don Gallo, il primo tra questi dieci a essersi espresso, giorni fa, a favore di una collaborazione tra parlamentari di centrosinistra e cinquestelle, ha poi aggiunto che a suo dire si dovrebbe anche rispettare il voto delle primarie Pd-Sel. A chi gli chiede se con Matteo Renzi il Pd avrebbe vinto le elezioni, risponde: «Secondo me no, ci sono state le primarie e il risultato va rispettato. Io conosco Renzi ha aggiunto e, come si dice per i calciatori, è uno di quei talenti che deve però maturare».

l’Unità 11.3.13
Michele Serra
«Con un governo di gente per bene e autorevole, con un programma chiaro e virtuoso, penso che ci si potrebbe provare Almeno provare»
«Questa occasione non vada sprecata»
intervista di Luca Landò


ROMA Cosa ti ha spinto a firmare e lanciare l’appello? L’ottimismo della disperazione?
«Diciamo di sì. Unito alla voglia di definire in poche parole un umore molto diffuso, quello di chi spera di uscire da vent’anni di puro orrore politico, vede un Parlamento profondamente rinnovato (il più giovane d’Europa come età media) e teme che da tutto questo non esca uno straccio di governo. E si torni a votare senza nessuna garanzia che ci sia una maggioranza».
Mi sembra di capire che l’appello si rivolga al Pd, al Movimento 5 Stelle e probabilmente a tutti i parlamentari di buona volontà. È così? Sei davvero convinto che il Movimento 5 Stelle possa muoversi senza Grillo? O che addirittura possa spostare Grillo? «Definirlo appello mi sembra eccessivo. È un volantino, un piccolo memo da appiccicare sul muro, è rivolto a nessuno e a tutti, chi vuole ne tiene conto, chi non vuole è libero di disprezzare la nostra fatica di metterci la faccia e il nome. Le domande sul Movimento Cinque stelle, esattamente come le domande sul Pd, vanno rivolte ai diretti interessati. Non ho alcuna idea di quale peso reale abbia lo slogan “uno vale uno” in un movimento così coeso. Allo stesso modo non ho alcuna idea di quanto il Pd, che è un partito di cultura soprattutto industrialista, sia disposto a fare davvero i conti con molte delle istanze delle Cinque stelle, a partire da quelle ambientaliste. Mi limito a sperare che qualcosa accada. Sperare è ancora lecito, credo».
Per fare un matrimonio ci vogliono delle affinità, se non elettive almeno elettorali. Che cosa potrebbe convincere il Movimento 5 Stelle a sostenere, sia pure con riserve, un governo guidato dal centrosinistra?
«Per esempio, che non fosse un governo “guidato dal centrosinistra”. Ma un governo sostenuto dal centro-
sinistra. E formato da personalità considerate con rispetto sia dal centrosinistra che dalle Cinque Stelle. Hai presente un’utopia? Ecco».
Nel testo scrivete che per la prima volta ci sono i numeri per “dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato”. La lista delle cose che vorresti cambiare immagino sia lunga: da dove cominceresti?
«Legge elettorale, legge anticorruzione, riforma radicale dei partiti (molti meno soldi, molta più trasparenza, più democrazia interna), stop alla cementificazione dei suoli, avvio della sola Grande Opera che cambierebbe in meglio la faccia del Paese e la sua dignità: risanare il territorio e recuperare il patrimonio edilizio dismesso».
Nell’appello parlate di «governo di alto profilo». È la speranza di tutti noi. Ma pensi che un governo senza una maggioranza precostituita possa andare alla Camera e giocarsi l’osso del collo in un voto alla «o la va o la spacca»?
«Se è formato da gente per bene e autorevole, se il programma è chiaro e virtuoso, e se si trova il modo di parlarsi senza spregio reciproco, penso che ci si potrebbe provare. C’è una possibilità su cento. Più che al Superenalotto».

Repubblica 11.3.13
Da Saviano a Serra: “L’accordo è possibile”
Nuovo appello per un governo di alto profilo. Oltre 30 mila firme per Spinelli-Settis
di Silvio Buzzanca


ROMA — Un altro appello a Pd e Movimento 5Stelle per un accordo che riesca «a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo, alle speranze di cambiamento». Questa volta il documento, che non a caso porta il titolo “Facciamolo”, arriva da Michele Serra insieme a Roberto Saviano, Roberto Benigni, don Luigi Ciotti, Fabio Fazio, Oscar Farinetti, don Andrea Gallo, Carlo Petrini, Salvatore Settis, Barbara Spinelli, Ferzan Ozpetek e Lorenzo Jovanotti. Il cantante ha anche scritto della sua adesione su Facebook e in poche tempo ha raccolto oltre 1500 “mi piace”.
Il nuovo appello arriva dopo quello lanciato sulle pagine e sul sito di Repubblica, lanciato ancora da Barbara Spinelli e altri intellettuali come Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tommaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa e Salvatore Settis. Un testo, questo, che ha già raccolto oltre trentamila firme.
«Se per Beppe Grillo è vero che “uno vale uno” - spiega Serra - allora ascolti anche noi e, con noi, quei tanti elettori che hanno votato per il suo movimento e per il centrosinistra e che adesso non vogliono vedere sprecata questa importante occasione di cambiamento con un Parlamento radicalmente rinnovato che può fare
subito cose importanti a partire dall'ambiente e dalla legalità».
Lo scrittore dice anche che rispetto all'altro appello, quello degli intellettuali, la sua iniziativa «è molto più naif, perchè noi non parliamo con sapienza politica, ma lo facciamo però in nome di quei tanti elettori, del centrosinistra e di M5S, che incontriamo in giro, al bar, nei posti qualunque, e che ora sono disorientati da questa situazione di ansia e tensione e che vorrebbero un accordo tra le due forze politiche che sono uscite vincitrici dalle elezioni».
Nel documento si legge infatti che «mai, dal dopoguerra a oggi il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare. Per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato».
Dunque, secondo i firmatari, «sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima». Per questo, si sottolinea, è necessario che «nel nome della volontà popolare sortita dal voto del 24-25 febbraio, questa speranza di cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi».
«Lo chiediamo gentilmente spiegano i promotori - ma ad alta voce, senza avere alcun titolo istituzionale o politico per farlo, ma nella coscienza di interpretare il pensiero e le aspettative di una maggioranza vera, reale di italiani». Questa maggioranza, conclude il testo «chiede ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento, ai loro leader e ai loro portavoce, di impegnarsi fino allo stremo per riuscire a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo, alle speranze di cambiamento». La risposta dei grillini? «Non leggiamo appelli ma l'appello lo abbiamo fatto noi dicendo prima delle elezioni di votare M5S», dice il capogruppo Vito Crimi.

Repubblica 11.3.13
Freccero: “Ma sono ottimista, ora il Pd ha capito che serve un nuovo modello sociale”
“I 5Stelle si battevano contro il Male ma oggi devono rinunciare alla purezza”
Il paradosso è questo: Grillo ha stravinto, ha voluto la bicicletta ma non può pedalare perché entrerebbe nella casta
Bersani, dopo lo schiaffo che ha preso, sa che deve dare identità ad un partito che non converge più al centro
intervista di Alessandra Longo


ROMA — Era uno di quelli che aveva visto (e dichiarato) giusto. Carlo Freccero, direttore di Rai 4, ha perso la scommessa sull’exploit di Grillo solo con Celentano: «Adriano mi disse che il Cinque Stelle sarebbe stato il primo partito. Io pensavo il secondo...». Dice Freccero, che ha votato Ingroia alla Camera e Bersani al Senato: «Proprio per averne parlato bene prima ho il passaporto in regola per criticare Grillo adesso».
Da dove iniziamo Freccero?
«Dal paradosso in cui Grillo si trova. Pensi un po’: tutti pensano che ad essere in un cul de sac siano gli altri e invece è lui l’avviluppato».
Nel senso?
«Il programma del Cinque Stelle è sempre stato quello di fare le pulci agli altri. Adesso, dopo un’affermazione elettorale così, chi fa la parte del cane pulcioso? Grillo certamente no. Ma neanche Bersani ci sta a farsi massacrare ed è per questo che fin da subito ha bocciato un’alleanza Pd-Pdl che di fatto cancellerebbe dalla scena il Pd. Il paradosso è questo. Grillo ha stravinto, al di là forse di quello che si aspettava. Ha voluto la bicicletta ma non può pedalare perché si autodenuncerebbe come appartenente a quella casta che ha combattuto».
E allora?
«La situazione è interessante. Se Grillo e i grillini si assumono delle responsabilità entrano nell’impero del “male”, nella politica, e diventano potere. Se optano per la conservazione della purezza, non potranno più candidarsi in futuro con gli stessi presupposti e la stessa credibilità perché la gente che li ha votati saprà che non sono la soluzione del problema».
Mentre loro discutono su “essere o non essere” il Paese scivola ogni giorno di più.
«CinqueStelle non nasce per salvare l’Italia, è più interessato al dettaglio, ad entrare in conflitto con la politica, a moralizzare il Parlamento, a togliere ai potenti le auto blu, a risparmiare i milioni di euro mentre il Paese affonda in una crisi strutturale che si declina in miliardi. Grillo non riesce a staccarsi dal suo orizzonte che è quello de “La Casta”, il libro di Stella e Rizzo. Il suo obiettivo è lo spreco, non il sistema. E’ questo il suo limite».
Di qui il cul de sac.
«Mi viene in mente il paradosso del mentitore. Se dice: “Io mento” ha detto la verità e dunque non è più mentitore. I grillini hanno promesso che apriranno il Parlamento come una scatola di tonno, che non si metteranno né a destra né a sinistra nell’emiciclo ma alle spalle degli altri per controllarli. Il fatto è che sono loro, in quanto vincitori, che devono sottoporsi al controllo. Per questo indietreggiano».
Nonostante gli anatemi del Capo dialogheranno con il Pd?
«Sono ottimista e penso che Grillo debba uscire dal paradosso. Bersani, dopo lo schiaffo che ha preso, dimostra di aver capito che deve dare identità ad un partito che non converge più al Centro. Occorre un pensiero di sinistra. Basta con i Casini, i Gianni Letta, i Monti. Grillo ha cambiato l’agenda, ha scardinato il pensiero unico ed è questo che mi fa ben sperare».
Se il segretario Pd fallisce Renzi è dietro l’angolo.
«Non è un problema di nomi ma di linea. Il Renzi delle primarie oggi sarebbe inadeguato, non basta più. Leggetevi gli otto punti del Pd, le questioni messe al centro della politica».
Non è affatto detto che su quegli otto punti nascerà un governo. E se si rivota?
«Se si rivotasse il Pd ha capito una cosa in più: che la fine del berlusconismo non coincide con l’epoca delle riforme alla Monti, che ci vuole un nuovo modello di equilibrio sociale ed economico».
Ma Grillo è all’altezza della sfida o preferisce continuare a cercare il cane pulcioso per usare la sua immagine?
«Non mi sembra all’altezza ma ci spero. Deve pedalare la bicicletta».

Repubblica 11.3.13
Alla ricerca della base perduta
Destra e sinistra perdono il loro popolo M5S come la vecchia Dc: interclassista
Con Grillo operai e lavoratori autonomi, addio legami di territorio
di Ilvo Diamanti


NON è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica.

LA PRIMA — a cui abbiamo già dedicato attenzione — colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”. Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra. Nelle Marche e in Toscana, soprattutto. La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province “forza-leghiste”, un tempo “bianche”. Democristiane. Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.
Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo. Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto. È qui la seconda “crisi”, esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento. Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private. E gli stessi in-occupati. Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente “protette” dallo Stato.
Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi. I vent’anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale. Marcata dalla “questione settentrionale” e dai soggetti politici che, più degli altri, l’hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto “pubblici”) e gli intellettuali.
Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito. L’identità sociale — per non dire di “classe” — delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.
Il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo” (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore).
Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressoché dimezzato: dal 68 al 35%. Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%. Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).
Anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” alla base. Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure “intellettuali”, il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.
Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati. Perché, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità.
La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all’altra. Gli operai — e i disoccupati — non si sono spostati a sinistra. Tanto meno — figurarsi — gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori “in fuga” si sono rivolti altrove. Hanno scelto il M5S. Per insoddisfazione — spesso: rabbia — verso le “alternative” tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.
Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa. Dove l’alternativa avviene — prevalentemente — fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra. Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti. Imprenditori e operai oppure impiegati. Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù… Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all’italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica. Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%). Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) — dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.
Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”. Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda — ma anche la Prima — Repubblica oggi non riescono più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori. Siamo entrati in un’altra Storia. I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

l’Unità 11.3.13
Articolo 18
Lombardi: aberrazione. I sindacati: non sa di cosa parla


I sindacati rispondono per le rime e uniti alle dichiarazioni del capogruppo alla Camera del Movimento Cinque Stelle Roberta Lombardi che ha definito l’articolo 18 «un’aberrazione». Inizia la Fim Cisl: «Per sparare fesserie sullo Statuto dei lavoratori non serviva il Movimento Cinque Stelle, bastava la Fornero. Sono preoccupato attacca il segretario nazionale della Fim CIsl Marco Bentivogli , mi auguro che le esternazioni del capogruppo alla Camera del M5S Roberta Lombardi, non rappresentino le posizioni dell’intero Movimento 5 Stelle, perchè affermare che 'l'articolo 18 è un’aberrazionè non è solo una stupidaggine, ma è frutto di una profonda incompetenza sulla sacrosanta tutela reale relativa ai licenziamenti discriminatori. Ci auguriamo che come l’ex-presidente del consiglio, loro massimo rivale, si proceda con un'immediata smentita perchè, come non è esistito il “fascismo buono”, faremo di tutto perchè in Italia non esistano licenziamenti discriminatori legittimi».
Sullo stesso tono il segretario della Fiom Cgil Emilia-Romagna Bruno Papignani. «Lombardi lo vada a spiegare alle centinaia di lavoratori e lavoratrici già licenziati a causa della modifica dell’articolo18. Che la cittadina Lombardi vada a piedi o in taxi in Parlamento mi interessa molto meno delle stupidaggini che dice. Non credo che anche questa volta si possa accusare i giornali o commentatori vari, di aver dato una interpretazione creativa del pensiero per trovare delle equivalenze. No per dirlo nel linguaggio in voga oggi, la Lombardi somma stronzate in continuazione», chiude Papignani.

La Stampa 11.3.13
Un macigno sulla strada di Bersani
di Federico Geremicca


Ci sono porte che si chiudono, porte che vengono sbattute e porte che non erano mai state aperte. Quella di Beppe Grillo, per esempio, non si era mai nemmeno socchiusa, nonostante il bussare insistente del Pd. E invece per una settimana si è voluto far finta di credere (o di far credere) che l’ipotesi di un governo Bersani-Grillo - viene da sorridere al solo scriverlo - fosse una ipotesi, come si dice, in campo. Non lo era, e non lo è: e la giornata di ieri, con Grillo che annuncia l’addio alla politica se il M5S darà la fiducia «a chi ha distrutto l’Italia», e i capigruppo grillini di Camera e Senato che chiudono alla possibilità perfino di prendere un caffè «con quelli che ci hanno portati fin qui», dovrebbe averlo chiarito con sufficiente nettezza.
Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio e le schiere di parlamentari arrivate a Roma sull’onda di uno tsunami che continua a produrre effetti, non sono spendibili (perchè non intendono esserlo) nella soluzione del complesso ingorgo politico-istituzionale che è di fronte al nuovo Parlamento.
Saggezza e senso di responsabilità consiglierebbero, dunque, di guardare in faccia alla situazione con maggior realismo, così da concentrarsi - finalmente - sulle due opzioni rimaste in campo. La prima: un governo di un qualche tipo che - sostenuto dai voti di Pd e Pdl - vari una nuova legge elettorale e porti il Paese al voto presumibilmente con le europee della prossima primavera; la seconda: elezioni subito (cioè già a giugno) con la prospettiva, però, che - aperte le urne - ci si ritrovi poi di fronte a una situazione sostanzialmente identica a quella attuale...
Comunque sia, la giornata di ieri ha cambiato le carte in tavola, consegnando al Presidente della Repubblica una matassa difficilissima da sbrogliare. Pesano, naturalmente, le difficoltà oggettive determinate da un voto che non ha prodotto maggioranze in grado di governare; ma pesano anche gli impacci - per usare un eufemismo - che frenano l’azione dei tre leader che dovrebbero indicare la via da imboccare. Silvio Berlusconi, per esempio, non ha nemmeno avuto il tempo di gioire per lo scampato disastro elettorale, che si è ritrovato sballottato tra aule di tribunale e corsie d’ospedale, per i suoi vecchi e nuovi guai giudiziari; Beppe Grillo, invece, ha certo avuto il tempo di esultare, salvo poi realizzare che il successo elettorale gli consegnava responsabilità politiche che non vuole o non è in grado di affrontare. E Pier Luigi Bersani, infine, ha subito un colpo così inatteso - e che lo ha così duramente provato - che ancora si attende di capire quale sia la via che intende davvero perseguire.
Non si può credere, infatti, che il leader del Partito democratico pensi sul serio che l’ipotesi di un governo con Beppe Grillo sia realmente percorribile (e se lo credeva, in ogni caso, da ieri può metterci una pietra sopra). È all’interno dello stesso Pd, del resto, che molti pensano che il segretario sia già concentrato sul suo personalissimo «piano b», che prevede un rapido ritorno alle urne. I più maliziosi, anzi, si spingono addirittura a ipotizzare che proprio le elezioni anticipate già a giugno siano da subito dopo il risultato del voto - il vero «piano a» del segretario: i tempi stretti, infatti, renderebbero difficili nuove primarie, rinvierebbero a tempi migliori l’inevitabile «regolamento di conti» con Matteo Renzi e gli consegnerebbero quasi automaticamente una nuova chance di guidare da candidato premier il centrosinistra anche alle prossime elezioni.
Si vedrà se le cose stanno così. Alcuni segnali, però, lo lascerebbero credere. Chiuso in una sorta di «torre d’avorio», è giorni che Pier Luigi Bersani ha scarsissimi contatti con i dirigenti del suo partito: chi vuole parlare con lui, deve per ora accontentarsi dei fidati Errani e Migliavacca. «Ho capito - dice polemicamente Matteo Orfini - che dovrò chiedere a Crimi, capogruppo Cinque Stelle, quali sono i nomi che il Pd indica per le presidenze di Camera e Senato...». Già, le presidenze: cioè il primo impegno istituzionale di fronte al nuovo Parlamento (si inizia a votare venerdì).
Circolano molte ipotesi confuse, ma una pare essere diventata più forte delle altre: offrire la presidenza del Senato ai centristi di Monti e tenere quella della Camera per Dario Franceschini. Non è un’offerta che allarga la maggioranza, certo; né può esser considerata una «cortesia istituzionale» rivolta all’opposizione (o a una significativa forza di opposizione). Ma somiglia molto, invece, a una sorta di patto pre-elettorale: per portare il Partito democratico al voto il prossimo giugno forse ancora con Nichi Vendola, ma ancor più certamente - stavolta - da alleati con Mario Monti...

Corriere 11.3.13
Tre ipotesi per un partito
di Antonio Polito

Che cosa deve fare il Pd? Che cosa gli conviene fare? E ciò che gli conviene, coincide con ciò che conviene all'Italia? Sono domande alle quali è difficile rispondere: il giovane Partito democratico deve trovare in queste ore il senso della sua missione nazionale, o perdersi. Ne è dunque comprensibile il travaglio, e anche l'evidente stato di choc.
Con la ri-discesa in campo di Renzi, le linee possibili sono diventate tre. La prima è quella di Bersani: andare alle elezioni dopo aver corteggiato Grillo. La seconda è quella dello sfidante alle primarie: andare alle elezioni senza aver corteggiato Grillo. Il segretario e il suo gruppo dirigente si muovono infatti come se fossero convinti che i voti del Pd e quelli del Movimento 5 Stelle siano interscambiabili. Gli appelli degli intellettuali di area ne sono la prova. L'idea è che, in realtà, la sinistra ha vinto le elezioni, solo che si è divisa a causa dell'eccessiva timidezza del Pd. Basta dunque riunificarla sotto le bandiere di un maggiore radicalismo. E se Grillo non ci sta a mettersi nel corso della Storia, il popolo capirà, e i voti in libera uscita torneranno alla casa del padre.
Renzi la vede diversamente. Non solo non crede alla possibilità di un accordo con Grillo, e anzi bolla come «scilipotismo» il retropensiero di quei bersaniani che sperano di staccare qualche stellina dalle 5 Stelle (in realtà di senatori ne servirebbero almeno una quarantina). Ma Renzi crede anche che un accordo non sarebbe nell'interesse del suo partito, perché lo consegnerebbe a un movimento ambiguo, integralista, intriso di sentimenti anti-parlamentari e anti-europei, umiliando così la vocazione di forza di governo per cui il Pd fu fondato. Renzi pensa di poter battere Grillo sul suo stesso terreno, da solo e in campo aperto. Per questo spera che il dialogo fallisca e che si torni alle urne.
Queste due linee sono opposte: l'una tiene in sella Bersani, l'altra lo sostituisce a breve (anche se a Renzi non basterà giocare il secondo tempo della partita come se fosse il primo, perché la Storia non si ripete mai uguale a se stessa, e in natura il vuoto si riempie in fretta).
Però entrambe le strategie si muovono, per così dire, all'interno di un sistema Grillo-centrico: nella convinzione cioè che sarà lui il competitor della sinistra nel futuro bipolarismo italiano. Entrambe dunque sottovalutano la forza della destra, che pure ha appena preso alle elezioni gli stessi voti della sinistra, pur uscendo da un disastro di governo; e trascurano le ragioni profonde del suo elettorato, non meno interessanti da comprendere di quelle degli elettori 5 Stelle. La terza linea possibile del Pd sarebbe perciò quella di aprire un dialogo con questa parte del Paese e del Parlamento, nella quale ci sono forze interessate più di Grillo a un progetto di salvezza nazionale. Complice il solipsismo giudiziario in cui appare ormai avviluppato il leader della destra, questa terza linea per ora è in sonno nel Pd. Ma le prossime settimane potrebbero risvegliarla; e, con essa, le poche residue speranze di un compromesso istituzionale capace di evitare la rovina comune.

Repubblica 11.3.13
La corsa a ostacoli verso Palazzo Chigi
di Massimo L. Salvatori


È il momento di cercare di capire che cosa è andato storto in quelle previsioni che apparivano sicure. Prendiamo il caso di Beppe Grillo. Ieri era considerato un guitto chiassoso, ora viene corteggiato come una regina. La sua stella sembra l’unica a brillare. Prendiamo il caso di Silvio Berlusconi e del Pdl. Dopo la legnata presa nel novembre 2011, apparivano morti, e non molto prima delle elezioni a credere nell’incredibile rimonta che è seguita vi era solo “Colui che non molla” intento a rianimare le sue truppe scomposte; ora il Cavaliere è ritornato alla ribalta. Prendiamo il caso di Mario Monti. Da protagonista acclamato per avere salvato l’Italia dal baratro finanziario, ridato dignità all’Italia sulla scena internazionale e persino indotto Berlusconi a chiedergli di farsi lui il ricostruttore di un centrodestra allo sbando, si è ridotto a capo di una formazione minore. Prendiamo il caso di Pierluigi Bersani e del centrosinistra. Apparivano la forza che, rinnovata dalle primarie, in base a sondaggi risultati fasulli teneva in tasca un successo considerato sicuro, tale da assicurare il governo in grado di dare al paese una ferma guida riformista; poi le cose sono andate per il verso contrario e – convalidando ancora una volta le sorti della sinistra nelle crisi di sistema – all’ondata alta ha fatto seguito il riflusso. Così le più accreditate previsioni sono state smentite.
Che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi paragonabile a quella dei primi anni Novanta non può che essere palese a tutti. Paragonabile, ma ancora peggiore: perché si tratta non già, come allora, del crollo dello specifico sistema di partiti sorto agli albori della repubblica, ma – e siamo al decisivo salto di qualità – della corrosione dell’organismo partitico in quanto tale; tanto che il Movimento 5 Stelle ha conseguito il suo clamoroso successo anche perché si è presentato come una forza anti-partito. Ma proviamo ad allineare una dopo l’altra le componenti che danno sostanza alla presente crisi di sistema, che è insieme politica, istituzionale, morale, economica e sociale.
La crisi politica. Essa ha il suo centro nella trasformazione andata via via accelerandosi dei soggetti politici, il cui inizio data dalla comparsa nel 1994 di Forza Italia, la quale segnò la prima vittoria di una formazione che respingeva i canoni tradizionali del partito organizzato e diffuso nel territorio e faceva leva su una leadership populistica sorretta principalmente dagli strumenti della “videopolitica”. La campagna elettorale del 2013 ha portato a conclusione il processo, come mostra chiaramente non solo la rimonta berlusconiana, ma anche, e si può addirittura dire soprattutto, la tecnica usata da Grillo, il leader carismatico e populista nuovo, che, mentre ha giocato all’esclusione dagli schermi, si è enormemente giovato di questi, che ne hanno amplificato parole e atti. Il Pd è stato il soggetto che più ha mantenuto il carattere di partito di tipo tradizionale, ma in maniera via via più sbiadita: la rete delle sezioni territoriali è andata sempre più indebolendosi e ha cessato di essere la sede primaria della mobilitazione e della formazione del consenso, affidata principalmente alle periodiche primarie. Figlio delle varie trasformazioni che si sono succedute, si è assestato su un profilo culturalmente incerto. In tutti i partiti poi i gruppi dirigenti hanno ceduto all’impulso sempre più irrefrenabile a costituirsi in oligarchie decisionali selezionando a piacimento i candidati alle istituzioni rappresentative di diverso livello; e gli eletti si sono crogiolati, gli uni con piena soddisfazione e gli altri con inquietudini messe a sopire, nei grandi privilegi che hanno dato loro il volto di una “casta” incapace di attuare le grandi riforme pur promesse.
Crisi istituzionale. Il nostro bicameralismo perfetto, gravato da un numero insensato di parlamentari, ha l’effetto di ritardare quando non di svuotare e paralizzare l’iter legislativo; il sistema della rappresentanza si è dilatato alle Regioni e alle Province dando luogo a poteri che troppo spesso si sovrappongono e confliggono; i modi di funzionamento del governo nazionale e la presidenza della Repubblica sono oggetto di continue contestazioni; la magistratura esercita le sue funzioni per lo più in maniera fortemente inadeguata e viene violentemente attaccata dalle forze che ne avversano il controllo di legalità.
Crisi morale. È platealmente rispecchiata dalla sorprendente rimonta dei berlusconiani, rivelatisi del tutto insensibili alle malefatte commesse dal loro leader e dai suoi scudieri; dalla dilagante corruzione nella gestione degli affari pubblici; dalla diffusione della tentacolare rete delle organizzazioni criminali; dall’enormità dell’evasione fiscale.
Crisi economica e sociale. Il paese si trova drammaticamente impoverito. L’economia paga il prezzo disastroso del convergere dei fattori sopra indicati. Da ogni parte si invoca la rinascita di una politica in grado di riassumere saldamente il timone per salvare la nave. Sennonché la politica non risponde: offre lo spettacolo di una comatosa debolezza, di una conflittualità tra le parti che non trova la sintesi, per cui la scena che ci si presenta si approssima alla paralisi. L’ora di una grande prova è giunta. Riusciremo e come a superarla? Siamo in attesa del destino della prima risposta ovvero della corsa ad ostacoli che si appresta a fare Bersani.

Corriere 11.3.13
Votare a giugno? Impossibile (o quasi)
di R. Zuc.


ROMA — Teoricamente possibile. Ma difficilmente praticabile. In altre parole, il voto «anticipatissimo», che in questi giorni è sulla bocca di tutti, quello che vedrebbe gli italiani tornare alle urne entro il mese di giugno, rischia di risultare solo un bluff, per chi lo usa strumentalmente, oppure una gaffe per chi non conosce i tempi dettati dalla Costituzione. Perché è realizzabile solo con una successione cronometrica degli eventi, che le attuali difficoltà politiche non consentono al momento di pronosticare. Qualche chance in più ha il mese di luglio (ma memori del celebre, craxiano, «tutti al mare») ha controindicazioni metereologiche, molte più possibilità ha l'autunno, ma ovviamente con un «governo balneare» riveduto e corretto, il «governo di scopo» di cui si è parlato ugualmente in questi giorni.
Se si mette da parte la politica, che resta però è il fattore determinante, e si fa un ragionamento tecnico solo sui tempi, le cose stanno in questo modo. Il prossimo venerdì, 15 marzo, si riunisce per la prima volta il nuovo Parlamento e si procede all'elezione dei presidenti di Camera e Senato, nonché alla costituzione dei gruppi parlamentari. Il 19 cominciano le consultazioni del Quirinale. È solo sulla base di un loro fallimento nella sostanza (con tutte le sue varianti) che si può ipotizzare di tornare al più presto alle urne. Ma dato che Giorgio Napolitano non può sciogliere le Camere, essendo a fine mandato, occorre attendere l'elezione del nuovo Presidente.
Quest'ultima avverrà a partire dal 15 aprile, ma — ed è forse l'ostacolo più rilevante — senza che nessuno sappia quanto durerà. «Basta pensare — ricorda il costituzionalista Augusto Barbera — che per in passato in alcuni casi, mi ricordo quello di Scalfaro, si sono dovute attendere due settimane o anche di più». Ma anche ipotizzando un'elezione fulminea (lo stesso 15 aprile), il nuovo presidente (sempre che Napolitano, il cui mandato termina formalmente il 15 maggio, si dimetta subito) dovrebbe, dopo il giuramento, prendersi almeno qualche giorno per nuove consultazioni, necessarie per verificare ancora una volta la sussistenza (o meno) di un possibile accordo per la formazione di un governo. E quindi si arriva verso la fine di aprile.
Poniamo che il nuovo capo dello Stato, a questo punto, non possa che certificare un secondo fallimento di ogni opzione politica da parte dei partiti consultati e decida di sciogliere le Camere, potrebbe indire le elezioni non prima di 45 giorni e non dopo 70, come prevede la Costituzione. Quindi tra metà giugno e la prima decade di luglio. Ma ciò, occorre ripeterlo, se tutto dovesse procedere a ritmo accelerato, cosa improbabile data l'incomunicabilità politica a cui stiamo assistendo e i dubbi estremi che si profilano già di fronte alla prima elezione strategica, quella della presidenza del Senato. «Vedo il voto a giugno pressoché impossibile — commenta un altro esperto della materia come Stefano Passigli —, molto più praticabile un governo di scopo, magari solo per fare la legge elettorale e poi tornare al voto in autunno: oltre che la politica potrebbe essere lo stesso il calendario ad imporlo».

l’Unità 11.3.13
Botta e risposta con Renzi
L’articolo 49 è inapplicato. Ma ora serve la legge sui partiti
Il Pd: sui finanziamenti pronti a cambiare
La risposta a Renzi in una nota del Nazareno:
«Il tema è tra gli otto punti, insieme alla legge sui partiti»
di Maria Zegarelli


Il Partito democratico risponde alle sollecitazioni di Renzi: la questione del finanziamento pubblico è tra gli otto punti del progranmna, insieme alla esigenza ormai ineludibile di una legge sui partiti. E il tesoriere del Pd Antonio Misiani spiega in una intervista a l’Unità: «L’Italia ha bisogno di una politica senza padroni, non di privati che la finanziano. Ma ci vogliono regole e controlli, come avviene in tutta Europa».

ROMA Ha creato tensione nel Pd l’ultima sortita di Matteo Renzi sull’abolizione del finanziamento pubblico e sulla direzione trasformata in «seduta collettiva di psicoterapia». «Gli otto punti del Pd vanno bene ha detto il sindaco di Firenze, ospite di Fazio a Che tempo che fa, su Rai3 anzi ne aggiungo un altro: aboliamo il finanziamento pubblico ai partiti e questo non è un atto di demagogia ma un atto di serietà. Vuol dire rimettersi in sintonia con il Paese».
La misura della tensione è fornita da una nota, diffusa ieri dal Nazareno in risposta Renzi: «Chi ha seguito i lavori della direzione nazionale del Pd sa bene che il tema del finanziamento ai partiti è ben compreso negli otto punti approvati all'unanimità». Chi ha seguito i lavori, come a dire che Matteo Renzi è stato un po’ distratto, anche se ha ascoltato l’intera relazione del segretario prima di andarsene. Peraltro, nel dibattito in direzione, molti hanno toccato il punto del finanziamento che nell’impostazione del Pd va legato strettamente a una legge sulla trasparenza e la democrazia dei partiti a partire dallo stesso tesoriere, Antonio Misiani, per finire al segretario che nella replica finale ha detto che il partito è pronto ad affrontare una discussione seria sul tema, purché si apra il confronto con tutte le forze politiche sull’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Ed è a questo passaggio che è dedicata la seconda parte della nota diffusa ieri: «Siamo intenzionati e pronti a rivedere il finanziamento ai partiti dentro a norme che riguardino anche essenziali garanzie di trasparenza e di democrazia nella loro vita interna. In una democrazia costituzionale una formazione politica che si presenta alle elezioni per governare dovrà pur dare qualche garanzia democratica. O forse è questo un tema meno rilevante rispetto a quello dei finanziamenti?».
Il punto è che per Renzi non ci sono vie di mezzo: il finanziamento va abolito, tout cour. Questo chiede che venga messo negli otto punti, sapendo di solleticare l’attenzione di Beppe Grillo e di gran parte di elettorato che in questo momento chiede interventi drastici. Sulla stessa linea di renzi, del resto, è Arturo Parisi secondo il quale oggi il tema non è il finanziamento, «ma il problema della sua abolizione». Parisi ricorda che il finanziamento «è stato esplicitamente introdotto appena qualche mese fa per iniziativa concorde di Pd, Pdl e Udc» contro l’esito del referendum del 1993 e che «non c’è niente che produca più rabbia di chi insegue parole d’ordine che non si condividono per poi deluderle in modo plateale».
Pier Luigi Bersani non entra nella polemica, sceglie il silenzio mentre si concede le ultime ore di riposo a casa sua a Piacenza prima di rientrare a Roma in vista della riunione dei parlamentari neoeletti oggi presso il teatro Capranica e di una delle settimane più difficili della sua vita politica. Da oggi inizia infatti una partita delicatissima, l’insediamento del Parlamento, poi l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e già questo primo passaggio sarà molto indicativo su come andranno le cose. Il segretario sa che la strada è strettissima, irta di ostacoli e zeppa di appuntamenti fondamentali, tra cui spicca l’elezione del presidente della Repubblica. Bersani ha avuto l’appoggio unanime della direzione per tentare di dar vita a un governo che chieda anche al Movimento 5 Stelle un atto di responsabilità. E sa anche che se dovesse fallire il suo tentativo nel Pd si potrebbe aprire un’altra fase durissima: la discussione fra quanti vogliono tornare al voto a giugno e quanti vedono le urne come il peggiore degli scenari.
Ecco perché non c’era bisogno, riflettono al Nazareno, di aprire inutile ulteriori fronti interni, «soprattutto su una questione che è stata affrontata in direzione e sulla quale il Pd si è detto pronto ad aprire un confronto».
«In punta di principio penso che non vadano aboliti i finanziamenti, anche se mi rendo conto che in questo momento storico è complicato difendere questa posizione commenta Pippo Civati e la responsabilità è da ricondurre ai partiti che ne hanno abusato. Tuttavia, credo sia necessario spiegare molto bene ai cittadini perché sarebbe rischioso abolirli del tutto. Quello che non possiamo permetterci è un’operazione di facciata, c’è bisogno di un profondo cambiamento mantenendo saldi i principi su cui si regge la democrazia».

La Stampa 11.3.13
Il partito attacca Renzi: “Cavalca l’antipolitica”
I fedelissimi di Bersani: «Matteo mostra scarso rispetto per la comunità di cui fa parte»
di Raffaello Masci


«Chi ha seguito i lavori della Direzione nazionale del Pd sa bene che il tema del finanziamento ai partiti è ben compreso negli otto punti approvati all’unanimità». La nota con la quale il partito democratico replica a Matteo Renzi che aveva proposto l’abolizione del finanziamento pubblico tout court, non è ufficiale, ma sa lo stesso di scomunica. Il sindaco di Firenze si è preso una tirata di orecchi e con questo si sono riaperte le ostilità interne al partito in vista delle primarie probabili in caso di elezioni anticipate.
La questione dei finanziamento pubblico dei partiti è diventato il pomo della discordia all’interno del Pd. Sia Bersani che Renzi sono per rivedere questa materia, ma mentre il primo (il segretario) è per una revisione all’interno di una norma più generale sui partiti che preveda comunque un sostegno economico pubblico, il secondo (il sindaco di Firenze) è per l’abolizione del finanziamento, punto e basta.
La controversa era nell’aria fin da mercoledì scorso, quando c’è stata la Direzione del partito, ma è scoppiata sabato sera, a «Che tempo che fa» quando Renzi ha specificato il suo totale dissenso con la segreteria su questo punto. Mercoledì Renzi, com’è noto, aveva lasciato l’assise del partito senza prendere la parola. La questione del finanziamento, così come proposta da Bersani, non gli era piaciuta e poneva l’esigenza che su questo si confrontassero gli eletti in parlamento. Il Segretario, nella replica alla fine della Direzione, aveva chiarito il suo punto di vista sulla materia: «Dichiaro l’assoluta disponibilità ad un superamento dell’attuale sistema di finanziamento dei partiti - aveva detto - ma lo mettiamo in connessione con il funzionamento democratico dei partiti».
Riforma del finanziamento sì - è l’idea del segretario - abolizione totale no. Come peraltro si dice nei famosi otto punti della piattaforma votata dalla Direzione, dove si parla di «Legge sui partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento».
Questo è il quadro della controversia sabato sera, quando Matteo Renzi è ospite di Fazio e rende evidente tutto il suo dissenso: «Se Bersani agli otto punti aggiungesse l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti non farebbe alcun atto di demagogia ma di serietà». La disputa ormai è chiara e la questione è diventata terreno di conflitto. Al punto che Stefano Fassina, vessillifero del bersanismo, dà una lavata di capo al recalcitrante Sindaco: «Renzi mostra scarso rispetto per la comunità di cui fa parte - dice - e cavalca spregiudicatamente l’antipolitica, provando a ridicolizzare il Pd in una situazione certamente difficile».
«Proporre di ascoltare i neo eletti come chiede Renzi - replica il parlamentare renziano Ernesto Carbone - è forse per Fassina mancanza di rispetto? ». Anche Arturo Parisi (da sempre contro il finanziamento pubblico) invoca chiarezza. «A questo punto, se si profilasse un ritorno alle urne - aggiunge la deputata amica del Sindaco, Simona Bonafé - Renzi rientrerebbe in pista con nuove primarie. E penso che sarebbe molto opportuno».

l’Unità 11.3.13
Antonio Misiani
Il tesoriere Pd: il punto irrinunciabile è che l’Italia ha bisogno di una politica democratica senza padroni e al servizio della generalità dei cittadini
«Non difendiamo nessun fortino e rilanciamo sui controlli»
di M. Ze.


ROMA Nel suo intervento in direzione, quella che Matteo Renzi ha definito una sorta di «terapia di gruppo», Antonio Misiani, tesoriere del Pd, parlando del finanziamento pubblico ha detto che «se questo è il tempo, e questo è il tempo, noi dobbiamo rimettere in discussione tutto». Ne è convinto, alla luce del vento che soffia nel Paese e nel suo stesso partito.
Misiani, d’accordo con Renzi? Basta al finanziamento pubblico ai partiti?
«Il punto irrinunciabile è che l’Italia ha bisogno di una politica senza padroni e al servizio della generalità dei cittadini, non dei privati che la finanziano. Per questo serve una legge sui partiti. Forme di finanziamento pubblico sono previste in tutta Europa, ma sono pronto a discutere di strumenti alternativi, purché garantiscano democrazia interna, parità di condizioni nelle competizioni elettorali e libertà dai condizionamenti».
Dunque, il finanziamento ai partiti deve essere ridiscusso insieme al funzionamento degli stessi? È questa la condizione che ponete?
«Mi sembra una condizione essenziale, perché una mera abolizione senza una legge per partiti liberi e democratici ci consegnerebbe una politica fatta di partiti personali, che risponderebbe agli interessi di pochi».
Grillo le risponderebbe che il M5s non prende i finanziamenti, rinuncia ai rimborsi eppure è vivo più che mai nella società.
«Aver rinunciato ai rimborsi elettorali è senza dubbio una scelta molto popolare, ma in realtà Grillo ha rinunciato ad una cosa a cui non ha diritto. La legge al riguardo è molto chiara: accedono ai contributi pubblici solo le forze che si danno uno Statuto democratico e questo non è il caso del M5s, nel cui non-statuto sta scritto che il simbolo quindi il movimento appartiene al sig. Beppe Grillo. Una regola non molto democratica, direi».
Un problema c’è: i rimborsi elettorali ai partiti sono una voce piuttosto importante nel bilancio dello Stato.
«Non direi proprio: i contributi ai partiti ammontano, dopo il dimezzamento deciso nel 2012, a 91 milioni annui: lo 0,01% della spesa pubblica. Ciò detto, noi non stiamo qui a difendere un fortino, siamo pronti a ragionare sul finanziamento dei partiti. Le proposte non mancano, bisogna entrare nel merito. Senza pregiudizi, senza conservatorismi ma anche evitando posizioni demagogiche. La questione va affrontata nel suo insieme, a partire dal funzionamento e dalla trasparenza dei partiti». Non pensa che durante la campagna elettorale sarebbe stato necessario dare un forte segnale anche su questo fronte? «In questi anni i vitalizi sono stati cancellati, i contributi ai partiti dimezzati, la certificazione e la pubblicazione online dei bilanci è diventata obbligatoria.
La spinta del Pd è stata decisiva, in tutto questo. È chiaro però che serviva fare di più, molto di più. Ora dobbiamo andare avanti, perché questo è il tempo del coraggio e della radicalità. Non possiamo permetterci di essere conservatori».
Renzi ha detto la sua, il Pd ha risposto con un comunicato duro. L’avete considerato fuoco amico, il suo intervento da Fabio Fazio?
«Nella replica in direzione nazionale Bersani è stato chiaro: si lavora per cambiare anche il finanziamento dei partiti. Quanto alla posizione di Renzi, non è una novità. Nel Pd c’è chi ha altre posizioni, ci confronteremo in modo aperto come abbiamo sempre fatto. Evitando di rincorrere Grillo e lavorando per cambiare le cose, come ha sottolineato in direzione Bersani».
Lei è tesoriere, ha le casse del partito tra le mani. La spaventa un ulteriore taglio? «Quello che mi spaventa è altro, è il non mettersi in discussione, non accettare le sfide che questa crisi, che non è solo economica ma anche politica, ci mette davanti. Il nostro obiettivo deve essere quello di migliorare la democrazia. Quello che uccide un partito come il nostro non è la mannaia sui finanziamenti ma l’aver paura di cambiare. Se ci si arrocca su posizioni conservatrici allora sì che si muore».

Repubblica 11.3.13
Alleanze e correnti dei democratici così la “tendenza Matteo” cambia tutto
Ecco neotifosi e nemici. Il segretario: calma o facciamo Tafazzi
di Giovanna Casadio


ROMA — «Se c’era Renzi, Berlusconi si ritrovava con i capelli di Casaleggio... «. Il tormentone online “secerarenzi” continua da qualche giorno con battute paradossali. Scherzi a parte, sono stati tanti a invocare il “rottamatore” dopo che le elezioni hanno terremotato il centrosinistra. E in tv, sabato, Renzi ha detto proprio questo: «Sto scaldando i motori: io ci sono, ci sarò».
In un Pd disarticolato dallo tsunami del voto, la sfida renziana a Bersani scoppia con incredibile tempismo. Rende felici i renziani di lungo corso (quelli che alle primarie per la premiership si erano già schierati con lui), raccoglie nuove adesioni (tra gli altri il sindaco di Bologna, Virginio Merola, e Massimo Cacciari) e miete, a sorpresa, simpatie tra lettiani e franceschiniani. Il sindaco “rottamatore” — battuto da Bersani alle primarie di dicembre — si ricandiderà premier? Il suo portavoce, Marco Agnoletti cinque giorni fa ha dovuto precisare: «Matteo si candiderà di nuovo sindaco di Firenze nel 2014». Visto come si stanno mettendo le cose, non ci crede più nemmeno Renzi.
Sta cambiando tutto. Del vecchio schema per correnti nel Pd — è la facile previsione — resterà assai poco. Non solo perché un rinnovamento dei quadri del partito c’è stato davvero, ma anche perché Bersani non ha vinto.
Quindi, con il segretario c’è formalmente ancora tutta la nomenklatura — a sostenere il tentativo di governo con i grillini — però a “blindarlo” davvero oltre ai fedelissimi (Errani, Migliavacca), sono solo i “giovani turchi”, la gauche del Pd, antirenziani nel dna. Vasco Errani ieri derubrica a «schermaglie» le uscite «di Matteo» sullo scilipotismo che affliggerebbe i Democratici propensi a trattare con i 5Stelle, o l’abolizione subito e totale del finanziamento pubblico ai partiti. Però lo scontro è sotto gli occhi. Matteo Orfini — bersaniano, uno che dopo Bersani vedrebbe bene Barca — gli dà del «Gian Burrasca»: «La sua uscita è stata dannosa in un momento così delicato — giudica Orfini — . Dal voto è uscito sconfitto anche lui, la sua linea “liberale”, il modo in cui ha liquidato la sinistra». Apprezzamenti ancora più duri dagli altri “giovani turchi”, come Stefano Fassina. Lo staff di Bersani ha chiesto di mordersi la lingua prima di parlare; di evitare «tafazzismi»; di non mettere in scena divisioni, quando il problema vero è dare un governo al paese.
Ma la partita per la leadership democratica è parallela al rebusgoverno. Non la fermerà nessuno, perché si è già messa in moto. Qualche giorno fa, Dario Franceschini aveva detto in una riunione di Areadem che, se ci fosse stata la malaugurata ipotesi di elezioni a breve, in campo — of course — ci sarebbe stato Renzi. In sintonia con quest’analisi anche Enrico Letta, che in un’intervista al Foglio l’ha dichiarato: «Renzi sarà la carta del futuro». I renziani doc, con una certa perfidia, parlano di «smottamenti» una volta venuto meno il collante della vittoria. A parte Rosy Bindi (che al “rottamatore” non perdona gli attacchi personali e la “poca sinistra” della sua proposta politica), i cattolicodemocratici scoprono le sintonie con Renzi. Ripreso poi, il dialogo tra il sindaco di Firenze e Walter Veltroni. I due hanno avuto un lungo colloquio, dopo il gelo preelettorale. «Matteo è stato molto corretto — giudica Paolo Gentiloni, renziano — è stato leale, ha dato sostegno al Pd durante tutta la campagna elettorale e a Bersani. Ma è evidente che ora ha dovuto cambiare programmi e attitudini: si era messo l’anima in pace immaginando i tempi lunghi o medi della nuova legislatura, la situazione che si è venuta a creare cambia, credo, il gioco».
In pratica, il “rottamatore” si trova a dovere bruciare le tappe, se non vuole perdere il prossimo treno. Tifano per lui il sindaco di Bologna, Virginio Merola che all’indomani del voto, ha avvertito: «Così non sfondiamo, serve Renzi per rinnovare». Il dibattito sui nuovi renziani è stato bloccato sul nascere. Matteo Richetti — pro Renzi da quel dì — ha bacchettato: «In un momento così drammatico, non mi pare sia il caso di dividersi». La velocità con cui tutto precipita, il rischio concreto di un ritorno alle urne, bruciano però le cautele, e riscrivono la mappa interna del Pd.

il Fatto 11.3.13
Dopo il voto Parlamento poco cattolico


PARLAMENTO LAICO Il nuovo Parlamento è probabilmente il meno legato alle gerarchie ecclesiali o ai movimenti cattolici. Se si alleassero, Pd e Cinque Stelle rappresenterebbero posizioni politiche chiaramente laiche, favorevoli a opzioni che la Chiesa guarda con molto allarme. La prima a segnalare la novità è stata Famiglia Cristiana, il settimanale cattolico diretto da Antonio Sciortino, che ha osservato, dopo il voto, la realtà di “un’Italia con i cattolici relegati ancora in un ruolo marginale“. Il riferimento è ai cattivi risultati ottenuti dalla lista Monti e al forte ridimensionamento del centrodestra. "Molti esponenti di questo mondo avevano abbandonato le proprie responsabilità per aderire al progetto dell'ex rettore della Bocconi", ha ricordato Famiglia Cristiana, secondo cui "doveva essere la continuazione con altri mezzi dello spirito di Todi'". "Ma nonostante l'appello al voto e all'impegno in politica da parte del cardinale Bagnasco, non sembra ci si trovi di fronte a una nuova stagione dei cattolici in politica. Anche l’Osservatore Romano ha lamentato la scarsa rilevanza dei cattolici.
Il dato è stato apprezzato, ovviamente, dall’Unione degli Atei e degli Agnostici razionalistici (Uaar) mentre l’Arcigay, ha spronato la “maggioranza laica in Parlamento” ad approvare riforme attese da tempo. A temere l’eventualità di una maggioranza parlamentare favorevole ai matrimoni omosessuali, o comunque a unioni di fatto, sono stati nell’ordine Franco Bechis, sul quotidiano Libero, Gennaro Malgieri, su Il Tempo di Roma. Secondo quest’ultimo, già deputato di Alleanza nazionale, formazione ormai scomparsa, il voto cattolico sarebbe “affogato nella palude laicista”. Il simbolo di questa crisi è probabilmente la sostanziale fine dell’unico partito dichiaratamente cattolico presente in Parlamento, l’Udc di Pierferdinando Casini, abbandonato dal suo fondatore e in cerca di un nuovo approdo politico. Figure emblematiche del ruolo della Chiesa in politica, come Paola Binetti e Rocco Buttiglione, infatti, non sono più state elette.

Corriere 11.3.13
Leggi bocciate dall'Alta Corte? E Orbàn fa riscrivere la Costituzione
di Luigi Ofeddu


Un governo approva delle leggi, che limitano fra l'altro la libertà di espressione e di stampa. La Corte costituzionale le boccia, una dopo l'altra. Lo stesso governo prepara un emendamento di oltre 20 articoli alla Costituzione, e dentro quell'emendamento — come una sorpresa rilucidata nell'uovo di Pasqua — reinserisce le leggi già bocciate: per esempio, quella che limita i poteri della stessa Corte. Poi le presenta al voto del Parlamento, nel quale ha la maggioranza dei due terzi dei voti. Tutto questo accade in Ungheria, Paese dell'Unione Europea il cui governo è guidato da Viktor Orbàn. Il Parlamento voterà oggi, la gente ha protestato ieri nelle piazze. Da Bruxelles, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha chiesto a Orbàn di riconsiderare le sue decisioni «in accordo con i principi democratici dell'Ue». Da Washington, il Dipartimento di Stato americano dice di temere che l'emendamento in discussione «minacci i principi dell'indipendenza istituzionale». Se ne parlerà molto probabilmente anche qui, a Bruxelles, all'imminente vertice dei capi di Stato e di governo della Ue. Perché la preoccupazione è grande. Fra le leggi «resuscitate» c'è quella che prevede multe e manette per i barboni sorpresi a dormire negli spazi pubblici. O quella che bandisce gli spot elettorali nelle radio e nelle Tv private, durante le campagne per il voto. O ancora, quella che impone anni di lavoro in Ungheria, prima di andare all'estero, ai laureati che abbiano usufruito di borse di studio pubbliche. In risposta alle preoccupazioni di Bruxelles, Orbàn ha ribadito «il pieno impegno del governo e del Parlamento ungheresi verso le norme della Ue». Intanto, con il suo partito conservatore Fidesz — che aderisce al Ppe, il Partito popolare europeo — controlla ormai le istituzioni più importanti: la banca centrale, la corte dei conti, il consiglio sui mezzi di informazione, varie società pubbliche. È anche la grande e indubbia popolarità personale, nell'opinione pubblica cristiana e di centro-destra, ad averlo favorito finora. Soprattutto per il suo passato di attivista anti-comunista, alla caduta del muro (nel 1989 guidava le manifestazioni davanti al Parlamento per il ritiro immediato delle truppe sovietiche). Oggi, Orbàn dice che l'Ungheria non si lascerà governare dal Bruxelles. Ma quelle acrobazie fatte con le leggi, inquietano l'Europa.

l’Unità 11.3.13
Hanan Ashrawi
Più volte ministra dell’Anp, paladina dei diritti umani nei Territori palestinesi:
«La sicurezza non c’entra Con le linee separate vogliono umiliarci»
«Obama in Israele salga sui bus dell’apartheid»
di Umberto De Giovannangeli


«Si sentono talmente forti e impuniti da non dover ricorrere più alla “giustificazione” della sicurezza minacciata. , privi di dignità oltre che di diritti. Ciò che mi sconvolge e indigna è il silenzio della comunità internazionale, dei governi come delle opinioni pubbliche. Tra qualche settimana il presidente Obama visiterà Israele e la West Bank. Per capire davvero cosa significhi vivere sotto occupazione, in un regime di apartheid, gli consiglio un viaggio su uno di quei bus della vergogna».
A parlare è una delle figure più rappresentative della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, prima donna ad essere nominata portavoce della Lega araba, oggi paladina dei diritti umani nei Territori palestinesi.
In Israele si discute sugli autobus «per soli palestinesi» istituiti per i pendolari arabi con il permesso di lavoro nello Stato ebraico. Qual è, a suo avviso, il segno di questa misura?
«Il segno dell’arbitrio, l’ennesima riprova di una cultura colonizzatrice che punta non solo a sfruttare i lavoratori palestinesi ma a umiliarli come persone, a cancellarne la dignità oltre che i diritti. Ora si sentono talmente forti e impuniti da non dover nemmeno giustificare queste odiose misure tirando in ballo la sicurezza minacciata. Quei pendolari non rappresentano una minaccia per Israele, ma sono persone su cui ci si consente di esercitare ogni sorta di pressione, fisica e psicologica».
Tra qualche settimana Barack Obama farà la sua prima visita da presidente degli Stati Uniti in Israele e Cisgiordania.
«Al presidente Obama consiglierei di toccare con mano, direttamente, la sofferenza di un popolo sotto occupazione. Più che parlare con i dirigenti, parli con la gente palestinese, si fermi a uno dei tanti check point che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania; viaggi su uno dei bus della vergogna e visiti uno degli innumerevoli villaggi palestinesi spaccati in due dal Muro israeliano. Osservi attentamente tutto ciò, gli servirà per capire una amara, tragica realtà...».
Quale sarebbe questa realtà?
«Israele ha svuotato di ogni senso concreto un ipotetico negoziato. Lo ha fatto con la politica degli atti unilaterali, trasformando insediamenti in vere e proprie città, annettendosi di fatto le terre palestinesi, costringendo centinaia di famiglie palestinesi a lasciare Gerusalemme Est». In linea di principio, Netanyahu non scarta la prospettiva di uno Stato palestinese.
«Forse lo fa a parole, ma nei fatti ha portato avanti una politica che nega la praticabilità di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Che Stato sarebbe quello che non ha il pieno controllo su tutto il territorio nazionale? Uno pseudo Stato disseminato di insediamenti israeliani al proprio interno, costretto a rinunciare a Gerusalemme Est come sua capitale. Questo non è uno Stato, è un bantustan trapiantato in Medio Oriente. I bus segregazionisti, il Muro dell’apartheid, uno “Stato” bantustan... La Palestina come il Sudafrica dei tempi peggiori. E non è un caso che a denunciare questa similitudine sia stato uno dei grandi protagonisti, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime dell’apartheid in Sudafrica: Desmond Tutu ( l’arcivescovo sudafricano premio Nobel per la pace, ndr)».
C’è il rischio che si ritorni ai tempi, tragici, della seconda Intifada, l’«intifada dei kamikaze»?
«Intorno a me vedo crescere di giorno in giorno frustrazione, disincanto. E soprattutto rabbia. Una rabbia che rischia di esplodere, non oggi, forse, ma in un futuro non lontano. Per quanto mi riguarda, ho sempre
ritenuto che la militarizzazione dell’Intifada sia stato un grave errore che non dobbiamo ripetere. Tra gli “shahid” e la rassegnazione esiste una terza via».
Quale?
«La vita della rivolta popolare, non violenta, che recuperi lo spirito della prima Intifada, che fu davvero rivolta di popolo che portò la questione palestinese al centro dell’interesse del mondo».
La forza dello Stato d’Israele non sta anche nella debolezza della dirigenza palestinese?
«Come lei ben sa, non ho mai rinunciato all’esercizio della critica, anche a costo di pagarne prezzi personali. Troppe volte, gli interessi di fazione hanno prevalso su quelli del popolo. Così come non ho mai accettato l’idea per cui il dover far fronte all’occupazione israeliana giustificasse misure liberticide da parte delle autorità palestinesi. Di errori ne abbiamo commessi, eccome. Ma ciò non “assolve” Israele. In questa storia, c’è un oppresso e un oppressore, e gli errori del primo non possono giustificare in alcun modo i crimini del secondo»

La Stampa 11.3.13
India, si uccide in carcere il principale accusato dello stupro di gruppo sul bus

qui

La Stampa 11.3.13
La rivoluzione di Erdogan più velo e meno libertà
“La laicità non è a rischio la democrazia invece sì”
Il dissidente Zarakoglu viene accusato di ”terrorismo”
Lo scrittore Rakip Zarakoglu, 65 anni, è stato minacciato e processato 45 volte
di M. O.


È uno degli intellettuali più di rottura della Turchia. Ha pubblicato libri proibiti sul genocidio armeno e sulla questione curda e in 40 anni lo hanno messo sotto processo 45 volte. Lo anno scorso è finito in carcere con l’accusa di avere legami con il Kck, l’Unione delle comunità curde, un’organizzazione separatista e terrorista. Il suo arresto ha provocato indignazione all’estero e un gruppo di intellettuali svedesi lo ha proposto al Nobel per la pace. Mentre aspetta l’ennesima sentenza, Rakip Zarakoglu, 65 anni, spiega la Turchia ai tempi di Erdogan.
Lei nel 2006 definì il Partito islamico moderato un’alternativa allo strapotere dei militari. La pensa ancora così?
«Il 2006 era un anno molto particolare. C’era una vera e propria strategia della tensione in atto. Il governo Erdogan secondo me sapeva ma non fece nulla per impedire alcuni fatti di sangue come l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, perché aveva bisogno di prove e perché aveva bisogno di un maggior sostegno da parte dell’Europa. Dopo la vittoria schiacciante alle elezioni del 2007 hanno acquisito maggiore sicurezza, e hanno indebolito i militari, il problema è che il sistema è rimasto autoritario».
Orhan Pamuk ha accolto positivamente i processi contro le alte cariche delle Forze Armate, ma ha anche messo in guardia il governo contro gli stessi atteggiamenti autoritari.
«Sono d’accordo. Vede, la Turchia ha sempre avuto problemi con la democrazia e c’è sempre stata una tendenza autoritaria. Non è solo un problema di ideologia, ma degli apparati controllati da chi ha il potere e adesso sono nelle mani di Erdogan, che però deve stare attento a come li gestisce».
Il potere del premier è meno illimitato di quanto sembri?
«E’ in atto un vero scontro tra Erdogan e chi fa capo a Fetullah Gulen (pensatore islamico che da anni risiede negli Usa, ndr). Si consuma anche nell’apparato dove la polizia e la magistratura sono le due componenti principali».
Concorda con chi teme che la Turchia si stia inesorabilmente islamizzando?
«No, perché la struttura sociale è fortemente laica. Concordo invece con chi vede dei rischi e dei limiti nel processo di democratizzazione».
Lei è stato arrestato sia sotto i militari sia con Erdogan, verrebbe da dire che non è cambiato molto.
«Confesso, l’ultima volta che mi hanno arrestato ci sono rimasto male. Non sono mai andato in galera per sospetto di terrorismo. Mi ha colpito, ma vista la reazione internazionale al mio arresto credo si siano resi conto dell’errore».
Per i processi contro l’organizzazione Ergenekon, accusata di golpe, e contro il Kck, accusato di terrorismo separatista, sono finite in tribunale centinaia di persone. Quanto c’è di vero?
«Entrambi sono processi politici, c’è però una differenza fondamentale. Per Ergenekon hanno arrestato gli ex vertici delle forze armate e poi hanno esteso a chi dava fastidio o chi aveva un conto da pagare. Nel processo Kck hanno arrestato per lo più gente semplice, 10 mila in tre anni. E veramente pochi di loro possono essere accusati di qualcosa».
Ha paura?
«Nel 2006 sono finito con Pamuk su una lista di persone che dovevano essere eliminate, ho passato periodi fuori dal Paese e ricevo abitualmente minacce. Certo sto attento, ma paura, quella no. Aver paura significa mettere un limite alla propria libertà».

Corriere 11.3.13
Xi e la prima rivoluzione Abolito il «regno dei treni»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Con due milioni e centomila dipendenti, capitali finora illimitati, una sua forza di polizia e 98 mila chilometri di binari da gestire il ministero delle Ferrovie cinese era considerato «uno Stato dentro lo Stato». Questo sistema di potere da oggi non esiste più: il governo di Pechino ha deciso di abbatterlo e smembrarlo. La parte amministrativa passa sotto il dicastero dei Trasporti e quella operativa viene assegnata a una nuova società.
La fine del potere del ministero delle Ferrovie è il primo segnale di forza della nuova leadership, la «quinta generazione» di capi della Repubblica Popolare cinese che entra solennemente in carica questa settimana. Xi Jinping, il nuovo segretario generale del Partito comunista, che giovedì diventerà anche capo della Stato, aveva promesso un ridimensionamento della burocrazia e lotta alla corruzione: struttura elefantiaca e malversazioni per decenni sono stati «passeggeri abbonati» sui treni cinesi. Ma il ministero aveva resistito a ogni tentativo di riforma sia per il suo potere economico, sia per l'alleanza con le forze armate.
Nell'ultimo decennio la Cina si è dotata di 9.356 chilometri di alta velocità, la rete più estesa del pianeta; a dicembre ha inaugurato la Pechino-Canton: 2.298 chilometri percorsi in otto ore, un altro primato mondiale. Per raggiungere questi obiettivi nel più breve tempo possibile, il boss del ministero, Liu Zhijun, ha avuto a disposizione un bilancio maestoso: ha potuto emettere obbligazioni (cioè debito) per 2,7 trilioni di yuan, pari a circa 330 miliardi di euro. Per questo era stato soprannominato Liu «Grande Balzo».
Ma sullo stesso binario di questo successo, correvano anche la corruzione ed errori tragici. Messi allo scoperto dall'incidente del luglio 2011, quando due treni dell'alta velocità si scontrarono causando 40 morti e 200 feriti. Un'inchiesta governativa accertò gravi negligenze e truffe nella costruzione della massicciata e dei ponti: il letto invece che in cemento era stato costituito con pietre e sabbia. Poco dopo i social network cominciarono a parlare anche di 18 amanti collezionate da Liu «Grande Balzo». Venne rimosso e messo sotto processo disciplinare. Senza che la «quarta generazione» di leader avesse la forza per chiudere i conti con il ministero.
Ora Xi Jinping e il nuovo premier Li Keqiang ci sono riusciti. E ieri hanno assestato anche altri colpi contro la burocrazia. Cala il sipario sulla Commissione per la popolazione, che sovrintendeva all'odiata politica del figlio-unico: le competenze passano al ministero della Salute, ma non è prevista la fine della norma. Accorpamento per le agenzie governative che controllano stampa e radiotelevisione: nasce una nuova struttura centrale per la censura. In totale i ministeri saranno ridotti da 27 a 25.

La Stampa 11.3.13
Negli uffici aumentano i depressi
Depressione da 100 miliardi
Allarme per gli effetti del lavoro su chi un posto ce l'ha. Sono 33 milioni gli europei che soffrono per l'umore nero. Una parlamentare irlandese invita i governi a occuparsi del problema. Subito...

qui

La Stampa 11.3.13
Parla il fisico britannico che va oltre Einstein: il mondo è eterno, parlare di prima e dopo non ha senso
L’uomo che ha ammazzato il tempo
«C’è solo l’adesso. Tutto è potenzialmente qui, ora. L’eterno e l’istante sono i due estremi e la stessa cosa»"
«Ernst Mach mi ha influenzato con la sua idea che la grandezza dell’universo è un concetto senza significato»"
di Claudio Gallo


E’ una scala di grigi la campagna inglese, le case galleggiano incerte nella foschia, piove. L’orologio sembra essersi dimenticato di South Newington, villaggio dell’Oxfordshire settentrionale: accanto alla chiesa normannogotica di Saint Peter ad Vincula c’è la grande casa contadina a tre piani del 1689 dove abita Julian Barbour, il fisico teorico che non crede all’esistenza del tempo.

Settantasei anni, alto e dritto apre la porta: gravità e ironia bisticciano sul suo sorriso. Ha studiato matematica a Cambridge, fisica a Monaco ma non ha fatto il professore, ha preferito restare indipendente. Il suo libro più noto, La fine del tempo , è pubblicato in Italia da Einaudi.

Albert Einstein Il fisico tedesco (1879 -1955) nella teoria della relatività ha sostenuto che il tempo non è assoluto, ma dipende dalla velocità e dal riferimento spaziale
Isaac Newton Il fisico, matematico e filosofo inglese (1642-1727) ha descritto il tempo come un ente assoluto (al pari dello spazio) che fluisce indipendentemente dalle cose
Lucrezio Il poeta latino (94-50 a.C.) ha sostenuto che «nemmeno il tempo sussiste come entità, sono le cose stesse a cambiare il senso di ciò che è trascorso»
Il fisico teorico Julian Barbour, 76 anni: il suo libro più noto, La fine del tempo , è pubblicato in Italia da Einaudi.

Nel tepore della cucina la moglie tedesca Verena, gravemente malata di Alzheimer, è seduta in poltrona. Nella sala, davanti a un grande camino dove il fuoco scoppietta, cerca di tradurre in parole semplici la sua teoria. È successo, spiega, che la nostra immaginazione non è più capace di stare al passo con la fisica moderna: del mondo probabilistico della meccanica quantistica sembra impossibile farsi un’immagine intuitiva. Così, dire che il tempo non esiste è evidentemente contro ogni buon senso.
«Al livello più elementare, sostengo che il tempo non esiste perché non si può osservare. Tutto ciò che è possibile vedere sono le cose che cambiano. L’aveva già detto Lucrezio: “Nemmeno il tempo sussiste come entità, sono le cose stesse a creare il senso di ciò che è trascorso”. Noi vediamo che le cose cambiano in modo coordinato e l’orologio ce lo conferma. Ma costruire orologi precisi non fu affatto facile in passato. A riuscirci fu Christian Huygens, scienziato olandese nel XVII secolo. Anticamente il tempo era calcolato sull’orbita delle stelle perché il sole non era considerato attendibile, a causa, si scoprirà poi, dell’ellitticità dell’orbita terrestre, e dell’inclinazione del suo asse di rotazione. La vita degli uomini andava con il sole, quella degli studiosi con le stelle. Il pendolo di Huygens, di Galileo e di Newton era sincronizzato col tempo siderale».
Fu Newton, attivo quando fu costruita la casa dove oggi stiamo parlando, a dare una fondamentale descrizione del tempo come qualcosa che fluisce indipendentemente dalle cose. «Shakespeare - ricorda ironicamente Barbour - fu più accorto, non cercò di definire il tempo ma ne descrisse gli effetti nel secondo sonetto: “Quaranta inverni al tuo bel incarnato / in guerra di trincea daranno assedio / sarà il tuo manto, fiero e invidiato / lacera veste senza più rimedio…”».
Per farsi meglio capire, Barbour prende la coppia di triangoli di legno che adopera nelle sue conferenze. «Per spiegare il cambiamento basta una varietà di forme. Supponiamo di avere soltanto tre corpi nell’universo, tre particelle. Muovendosi, in ogni configurazione formano un triangolo diverso: è tutto ciò che possiamo dire, non ci sono altre informazioni, non c’è modo di dire quanto tempo passa tra due configurazioni. Questi istanti sono ciò che chiamo “adesso”. Si può vederla come una successione ma non necessariamente tra un prima e un poi, tutto è potenzialmente qui, ora, non c’è una direzione necessaria come nel nostro tempo intuitivo. L’eternità e l’istante sono i due estremi e anche la stessa cosa».
Non a caso Barbour ha chiamato il suo mondo delle forme Platonia. Anche lui come Platone è convinto che l’essenza della realtà è geometrica. «Possiamo dire con il filosofo ateniese che il mondo dal quale nasce la percezione del tempo è eterno. Chiamo la parte più recente delle mie ricerche ”dinamica delle forme”».
Lo studioso ama trarre i suoi esempi dalla dinamica di Newton, che si basa su un piccolo numero di «condizioni iniziali» e da questi dati può ricavare tutta la storia del sistema. «Da questo punto di vista non si può dire che il passato determini il futuro tanto quanto che il futuro determini il passato. È un grande mistero il fatto che la legge funzioni in entrambi i sensi. Anche se per noi sembra esserci una chiara direzione verso il futuro che lega le cose con un senso comune incontrovertibile». Semplificando, possiamo dire che l’origine dell’universo, spiegato dalla fisica tradizione con il Big Bang, coincide nella Dinamica delle Forme col triangolo equilatero, la massima uniformità possibile.
Anche se Barbour non si spinge a fare paragoni, la sua fisica ricorda il buddismo, dove la percezione del mondo è condizionata dall’accumulazione dei ricordi che si cristallizzano in un io fittizio, tutto è un gioco combinatorio di rapporti tra forme, nulla esiste per sé. Il mondo descritto da Barbour ricorda poi quello di Spinoza dove ogni cosa partecipa del tutto. «Schroedinger, uno dei padri della teoria dei quanti, credeva che l’universo fosse cosciente. Questo ovviamente è molto poco scientifico ma lo credo anch’io. Il fisico che mi ha influenzato di più resta comunque Ernst Mach, con la sua idea che la grandezza dell’universo è un concetto senza significato. Lui, Dirac, York e Wheeler mi hanno fatto capire che il tempo relativo di Einstein non è il modo migliore di descrivere le cose».
Eppure un giorno morirò, pensa la gente davanti alla negazione del tempo. Che cos’è la morte? «È solo un altro adesso, la sequenza continuerà con la decomposizione del corpo». E poi? «Non c’è un poi, è tutto qui adesso in Platonia. Prenda la sequenza dei numeri: è ridicolo che il 17 dica che l’8 è morto solo perché è venuto prima».

l’Unità 11.3.13
La scienza trasparente
La rivoluzione dell’«open access» voluta da Obama
Se la ricerca è un bene comune deve essere condivisa
La direttiva emanata dalla Casa Bianca va in tal senso: pubblicare i risultati degli studi e renderli accessibili a tutti
di Pietro Greco


COMUNICARE TUTTO A TUTTI. ABBATTERE IN CONCRETO IL PARADIGMA DELLA SEGRETEZZA E OGNI OSTACOLO CHE SI OPPONE ALLA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA. Tutti i risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici deve essere «open access»: accessibili a chiunque. È questo il senso di una direttiva emanata nei giorni scorsi dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che potrebbe rivoluzionare quella che il fisico John Ziman chiamava «l’istituzione sociale fondamentale della comunità scientifica»: il sistema di comunicazione.
La direttiva del Presidente riprende alla lettera il memorandum del White House Office of Science and Technology Policy (OSTP) diretto da John Holdren, consigliere scientifico di Obama e scienziato molto noto: tutte le agenzie federali che investono in ricerca e sviluppo (R&S) più di 100 milioni di dollari l’anno (in pratica tutte le agenzie che dipendono dal governo degli Stati Uniti) devono elaborare un piano affinché i risultati delle ricerche che finanziano siano liberamente accessibili al pubblico entro un anno dalla loro pubblicazione».
Gli Stati Uniti sono la massima potenza scientifica del mondo. E una simile decisione potrebbe rivoluzionare il mercato della comunicazione scientifica. I risultati delle ricerche, infatti, vengono pubblicati da editori privati su riviste scientifiche a cui ci si abbona. Le riviste con peer review (con revisione critica e anonima a opera di colleghi esperti degli articoli pubblicati) più accreditate al mondo sono 25.000 e l’abbonamento medio è di 3.000 dollari l’anno (con punte che raggiungono i 40.000 dollari). Il mercato è miliardario (in dollari) controllato da poche case editrici (le prime tre coprono il 42% degli articoli pubblicati) che ottengono un guadagno medio che supera il 40% degli investimenti.
Molti trovano bizzarro questo mercato. Perché gli stessi scienziati che scrivono e svolgono la peer review (la revisione critica) senza compenso sono gli stessi che, attraverso le loro istituzioni, acquistano le riviste. In pratica non solo lavorano gratis, ma pagano per usufruire del loro lavoro. Sta di fatto che pochi centri al mondo possono accendere abbonamenti a migliaia di riviste con una spesa di milioni di dollari l’anno. In questo modo la circolazione dei risultati scientifici è, di fatto, molto limitata.
Anche per questo è nato un movimento mondiale che chiede un sistema di comunicazione della scienza on line con peer review totalmente open access: in rete, libero e gratuito. I vantaggi sarebbero enormi e di diversa natura. In primo luogo, un vantaggio logistico: la comunicazione in rete eviterebbe a università e centri di ricerca la necessità, sempre più difficile, di trovare spazi per le biblioteche cartacee.
Poi c’è il vantaggio dei costi: un sistema ad accesso libero e gratuito consentirebbe di eliminare gli abbonamenti e di risparmiare un bel po’ di quattrini. Si calcola che gli abbonamenti alle riviste costituiscano tra il 2,5 e il 3,0% delle spese di un’università americana o inglese. C’è un vantaggio sociale. Il costo degli abbonamenti taglia fuori soprattutto i ricercatori di paesi e istituti poveri dalla possibilità di accesso a una quantità importante dell’informazione scientifica che conta. Il libero accesso darebbe le medesime chances a tutti. Ma c’è, soprattutto, un vantaggio cognitivo. La scienza moderna è un’impresa collettiva. Portata avanti da una comunità. Che è potuta nascere, nel XVII secolo, perché, come diceva (e documentava) Paolo Rossi, il grande storico delle idee scientifiche scomparso un anno fa, ha abbattu-
to il «paradigma della segretezza»: comunicando in linea di principio «tutto a tutti». Nella comunità scientifica la conoscenza è considerata un bene comune. Tant’è che, come sosteneva il sociologo Robert Merton, il «comunitarismo» è il primo valore della comunità scientifica. Un valore che determina effetti pratici desiderabili: perché se tutti in linea di principio conoscono tutto, lo scopo sociale della comunità aumentare la conoscenza sul mondo ha maggiori probabilità di essere raggiunto.
Il movimento dell’«open access» punta dunque a questo: ritornare al valore fondante della scienza, la comunicazione totale e trasparente. Questo valore è oggi ostacolato non solo e non tanto dal costo di accesso alla conoscenza (gli abbonamenti), ma soprattutto dal fatto che molta ricerca scientifica è realizzata nei laboratori di imprese private, che a quello del «comunitarismo» oppongono il valore della «proprietà»: sono io che metto i soldi per fare ricerca, dunque i risultati di questa ricerca sono miei e io ho il dovere di utilizzarli, anche in segreto, per promuovere il successo economico della mia azienda. I privati investono molti soldi nella ricerca. Si calcola che dei 1.400 miliardi di dollari che il mondo ha speso nel 2012 in ricerca e sviluppo (R&S) i due terzi (oltre 900 miliardi) siano di fonte privata.
A lungo si è dibattuto e molti hanno creduto che i vantaggi nella produzione di nuova conoscenza scientifica ottenuti grazie a questa enorme quantità di risorse private superassero gli svantaggi. Oggi si va affermando l’idea che la massima creatività si ha solo in una condizione di «comunitarismo»: ovvero di totale condivisione e comunicazione dei risultati scientifici. E che questa condizione debba essere garantita soprattutto alla fonte della creatività scientifica: alla ricerca fondamentale, di base, curiosity-driven. Dunque, non è una contraddizione se i motivi di fondo addotti per l’«open access» della scienza da Barack Obama e dall’Ostp, l’Ufficio per la politica della scienza e della tecnologia di John Holdren, sono di tipo utilitaristico. Una maggiore circolazione dei risultati scientifici, dicono alla Casa Bianca, favorisce sia la generazione di nuova conoscenza sia un più rapido trasferimento del know how e alimenta l’innovazione tecnologica, che è il motore dell’economia nell’era della conoscenza. Considerazioni analoghe sono state proposte da David Willets, Ministro della ricerca nel governo conservatore di David Cameron, che in Gran Bretagna ha fatto proprie le proposte sia della Royal Society, la prestigiosa accademia che nel Seicento ha pubblicato le Philosophical Transactions e ha inaugurato il moderno sistema di comunicazione della scienza, sia del Working Group on Expanding Access to Published Research Findings, il comitato diretto dalla sociologa Dame Janet Finch e creato apposta per fornire indicazioni al governo sulla politica da seguire nella comunicazione della scienza.
L’«open access», il libero accesso ai risultati scientifici, sembra mettere d’accordo tutti: idealisti e utilitaristi. Tanto che un nutrito gruppo di scienziati e la stessa Royal Society propongono un’ulteriore accelerazione: gli «open data». Che i ricercatori mettano i dati raccolti, anche e soprattutto quelli non pubblicati, a disposizione di tutti. Nella certezza che la loro libera e integrale circolazione determinerà l’irruzione sulla scena di un nuovo paradigma epistemologico. O, detto in altri termini, di un nuovo modo di produrre scoperte scientifiche. L’immenso oceano dei dati è oggi gestibile dai computer e può essere navigato da algoritmi intelligenti che da quel mare di informazioni sapranno trarre nuove conoscenze sul mondo.

il Fatto 11.3.13
Come essere diseguali e vivere infelici
di Furio Colombo


Viviamo in un mondo di diseguaglianza non accidentale (la vita è quella che è) ma dettagliatamente prefabbricata, racconta il Nobel Joseph Stiglitz (Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi). E tutto ciò, dice Peter Wagner (Modernità, Einaudi) è una parte importante della definizione di “modernità”. Pochi di noi si sono accorti che abbiamo cominciato a sognare a rovescio. L’impulso di protesta non è per il poco che abbiamo noi ma contro il molto che hanno altri.
WAGNER fa notare un aspetto della modernità che il grillismo non smentisce: “Lo slittamento delle aspettative sociali verso una più forte accentuazione di quelle individuali (che) si accompagna a tassi decrescenti di partecipazione politica formale, a un crescente malcontento per l’azione dei governi... e alla formazione a breve termine di movimenti populisti”, contro i governi in carica e i partiti tradizionali. In Italia la nozione di “casta” è servita per indicare una identità anche razziale di coloro che hanno in mano, a qualsiasi titolo, responsabilità, benchè minime, di partecipazione all’esecutivo o alla funzione parlamentare, persino se è una partecipazione “contro”. Un modo inconsapevole per deviare l’attenzione dalla caduta libera dei cittadini in una disuguaglianza paurosa.
Stiglitz compie una vasta, accurata esplorazione, e individua ad ogni pagina clamorose ragioni e cause di ineguaglianza che sono tutte dovute non allo squilibrio storico fra avere e non avere, ma a una serie di meccanismi di diseguaglianza accuratamente preparati, anche per legge, in modo da creare e mantenere il privilegio e la penuria, assicurandone la stabilità e, fatalmente, l’amplificarsi del divario (“i poveri diventano sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi”).
Lo studioso elenca i meccanismi che fabbricano e proteggono monopoli e rendite: la discriminazione verso interi gruppi sociali (il più generale, nel mondo, le donne) ; la cattiva gestione che “è una fonte di disuguaglianza importante”, proprio quando si punta a far ricadere tutte le colpe sul lavoro; la politica monetaria delle Banche centrali, che spiazza il potere d’acquisto dei salari (e la capacità di formare risparmio) ; la deregolamentazione, ovvero la rimozione di ogni efficace controllo, che, a partire dall’epoca di Reagan, ha posto fine agli ultimi accorgimenti nati nel New Deal per proteggere i meno ricchi dalla ricaduta nella disuguaglianza. Ecco il paesaggio descritto da Stiglitz che sembra sfuggire al neo-populismo anti sindacale italiano: l’indebolimento dei sindacati e della coesione sociale, l’enorme discrezione del management nel gestire le imprese a proprio vantaggio, le imprese che sono state a lungo orgogliose della spietatezza nel tagliare posti di lavoro per far aumentare la produttività, e si presentano deboli nel momento del pericolo. Ecco la rivelazione di Stiglitz: la disuguaglianza che sta paurosamente accelerando, è un mostro artificialmente creato prima della crisi. Rischia di rendere la crisi un male incurabile.

La Stampa 11.3.13
Nella comunità invisibile dell’amore senza sesso
Viaggio nei siti per “asessuali”: siamo normali, non disturbate Freud
di Federico Taddia


Innamorarsi. Avere una relazione. Fidanzarsi. Vivere insieme. Ma rigorosamente senza sesso. Non per scelta, non per motivi etici o religiosi, non per astinenza forzata: semplicemente perché manca totalmente il desiderio e l’attrazione erotica. Con consapevolezza e la voglia di sentirsi comunque normali. Si definiscono «asessuali», uomini e donne per i quali l’amore è «sex-free».
Una comunità invisibile, non quantificabile, senza numeri e statistiche ufficiali, che si ritrova in Rete per raccontarsi, confrontarsi e condividere la propria esperienze. Il sito www.asexuality.org/it/ conta circa 2100 iscritti (ed è una sezione del forum mondiale di Aven, Asexual Visibility and Education Network) e www.asessuali.it, portale nato un anno fa, sono i punti di riferimento in Italia.
Piazze virtuali che ho frequentato alla ricerca di storie e parole che permettessero agli asessuali di presentarsi, uscire allo scoperto e farsi conoscere. «La maggior parte di noi non ha un atteggiamento di disprezzo o vergogna verso il sesso, anzi ci eccitiamo, possiamo provare piacere a livello fisico e siamo in grado di avere rapporti: l’unica verità è che tutto questo non c’interessa». Lea, 26 anni, vive a Roma dove lavora in un centro commerciale. Dopo l’ultima relazione durata qualche mese e finita oltre un anno fa, ora è single e ammette di non sentire il bisogno di trovare un nuovo partner. «Ho scoperto di essere asessuale quando avevo 24 anni: al termine di un fidanzamento mi sono chiesta perché sentissi questo distacco dal sesso. Mi sono decisa a fare un po’ di ricerche in Internet, e ho capito che non c’è nulla di sbagliato o di disfunzionale in me, non sono malata o repressa, e ci sono migliaia e migliaia di persone che provano ciò che provo io».
Jun ha 24 anni ed è fidanzata da 8 anni con un ragazzo: «La prima volta che mi ha chiesto di avere un rapporto, dopo che l’avevo fatto aspettare per due anni, con tutta la mia ingenuità gli ho chiesto: “Perché? ”. Poi per amore ho ceduto, anche perché mi sembrava ingiusto che si adattasse sempre lui. Quando ho capito di essere asessuale con estrema difficoltà gli ho spiegato tutto: inizialmente per lui non è stato facile, non era felice. Ora ci siamo chiariti dettagliatamente su limiti e desideri di ognuno di noi, e abbiamo trovato dei compromessi accettabili per entrambi».
Quello dei compromessi è un tema critico e sensibile: in un sondaggio realizzato da Aven internazionale, a cui hanno risposto tremila degli oltre 43 mila iscritti, il 28% per cento ha ammesso di cedere alle richieste del partner occasionalmente, il 17% di farlo regolarmente e il 25% di rimanere fermo sulle proprie posizioni. Mentre al pensiero di immaginarsi durante un atto sessuale il 17% ha provato repulsione totale, il 38% repulsione moderata e il 27% indifferenza.
«Io non ho mai sperimentato cosa voglia dire sentirsi fisicamente attratti, anche se ho sempre avuto un tipo di richiamo romantico nei confronti delle ragazze della mia età – spiega invece Andrea, 20 anni, studente di medicina – ho costantemente pensato di costruirmi una famiglia con una ragazza che mi amasse per ciò che sono, e tale sogno è rimasto inalterato anche ora che so di essere asessuale: sarà un rapporto sentimentale fatto di baci, abbracci e coccole».
«Anche io sono un asessuale romantico: provo emozioni e attrazione emotiva per altre persone – aggiunge Marco, 21 anni, impiegato nel settore turistico – il sesso non mi dà nulla, e giusto per confutare tanti pregiudizi nei nostri confronti, non ho avuto nessun trauma da bambino, i miei genitori erano presenti e ho avuto un’infanzia felice: quindi è inutile disturbare Freud».
È stata invece una lezione di Psicologia sociale all’Università a far scoprire l’esistenza degli asessuali a Klizia, 32enne romana impiegata nel settore finanziario: «Benché non m’interessasse a 17 anni ho voluto avere rapporti con il mio fidanzato di allora, per capire qual era la differenza tra pulsione e attrazione sessuale. A 24 anni poi, rendendomi disponibile a un rapporto sessuale, speravo di far funzionare meglio una storia con un ragazzo. Non è servito a molto, perché abbiamo capito in fretta che il problema della nostra relazione era altrove. Ora ho un compagno da sei anni, viviamo insieme ed è asessuale: siamo compagni di vita e ci amiamo come sappiamo e vogliamo amarci: in modo platonico».

Corriere 11.3.13
Calamandrei, le idee di un «costruttore di ponti»
di Arturo Colombo


Oggigiorno di Piero Calamandrei si parla troppo poco; quindi, va dato merito a Paolo Bagnoli di aver elaborato questo saggio, breve ma efficace, dal titolo Piero Calamandrei: l'uomo del ponte (Fuorionda), dove il riferimento al ponte non serve solo a richiamare la rivista «Il Ponte», che Calamandrei fondò nell'aprile del 1945 e della quale fu direttore fino al 1956, anno della sua scomparsa.
L'espressione «uomo del ponte» vuole indicare soprattutto un elemento caratterizzante della sua forma mentis, che vale a spiegare il costante rifiuto di ogni esclusivismo e settarismo, e la ricerca, invece, di quello spirito di collaborazione, che sempre contraddistinse Calamandrei nei diversi campi in cui operava, ogni volta lasciando il segno. Infatti fu un giurista, un docente universitario, un politico e anche un raffinato umanista: il suo libro del 1942, Inventario della casa di campagna, è lì a dimostrarlo.
Ma soprattutto l'apporto di Calamandrei fu decisivo negli anni dell'Assemblea Costituente, dove diede un apporto fondamentale nella difesa tanto del principio di libertà, «non come garanzia di isolamento egoistico, ma come garanzia di espansione sociale», quanto nel definire il ruolo della giustizia, connesso all'organizzazione del potere giudiziario e all'autogoverno della magistratura. Così da poter sostenere — sono parole di Calamandrei — che «le norme di una Costituzione democratica, come è quella della Repubblica italiana, possono avere un'efficacia educativa e quasi, si direbbe, pedagogica, che può servire di stimolo e di guida alle forze politiche».
Per la verità, mai come adesso si moltiplicano le critiche verso più di un aspetto di questa nostra Carta costituzionale. Eppure, rileggere non poche delle tesi di Calamandrei ci aiuta a costruire il profilo, mai intollerante o settario, di questa «coscienza inquieta»; ma soprattutto ci permette di intendere che solo attraverso «l'intervento correttore dello Stato» (purtroppo, così spesso latitante nel nostro Paese) riusciremo a rendere operante — Calamandrei lo scriveva fin dall'agosto del 1945 — una «democrazia vitale in cui la giustizia sociale, piuttosto che come ideale separato ed assoluto, sia concepita come premessa necessaria e come graduale arricchimento della libertà individuale».
Il libro: Paolo Bagnoli, «Piero Calamandrei: l'uomo del ponte», edizioni Fuorionda, pagine 99, 12

Repubblica 11.3.13
Il potere che frena di Massimo Cacciari
Tre edizioni in una settimana, neppure fosse Ken Follett
di Antonio Gnoli


Il potere che frena di Massimo Cacciari ha sbalordito i responsabili dell’Adelphi. Cosa spinge diecimila acquirenti a gettarsi su un testo che odora di Apocalisse e di oscuri dettati paolini? Alberga in noi il dubbio che i libri a volte infrangano le leggi della stupidità e ci invitino a chiedere per quali misteriose vie ancora esercitano il loro antico fascino. In un tempo in cui il potere sembra essere sotto assedio c’è qualcuno o qualcosa che lo ingabbia, lo imbriglia, lo indebolisce. E tutto giunge come l’eco enigmatica delle sorde pulsioni che la società produce. I titoli, si sa, a volte fanno la fortuna dei libri.
Il potere che frena va, insomma, al di là del mandato paolino e delle profonde analisi che contiene. Dopo anni di insulsa, violenta, arbitraria accelerazione il potere si impantana nel fango divino della teologia. È la punizione che i lettori oscuramente avvertono, per coloro che hanno razziato, corrotto, rubato? Chissà. Le gomme della storia, intanto, girano a vuoto. Urge innestare la retromarcia.

Repubblica 11.3.13
Violenza zero
Il neuroscenziato di Harvard Steven Pinker:
“Rispetto al passato l’uso della forza e i crimini sono diminuiti drasticamente, ma la percezione comune non tiene conto dei dati statistici”
Credetemi, mai il mondo è stato così pacifico
di Riccardo Staglianò


Non fatevi fuorviare dai giornali. La preghiera laica dell’uomo moderno è vittima di un errore di parallasse. Siamo troppo vicini ai fatti per metterli a fuoco. Guerre, omicidi, stupri: ci sentiamo soverchiati. Ma è solo perché if it bleeds it leads, se sanguina allora vende. Le buone notizie non fanno notizia. Nemmeno quella migliore di tutti, ovvero che viviamo nel periodo storico più pacifico di ogni tempo. Se ci sembra diversamente, cambiamo le lenti. Assumiamo la prospettiva lunga e ci renderemo conto che le straordinarie catastrofi di oggi sono niente rispetto all’ordinaria tregenda di ieri. Ne è convinto Steven Pinker, psicologo e neuroscienziato a Harvard, e l’ha messo per iscritto in un tomo ponderoso dal titolo inequivoco: Il declino della violenza (Mondadori), in libreria da domani. Molto apprezzato da Bill Gates («Cambia il modo di pensare») e dal filosofo di Princeton Peter Singer («Supremamente importante»), quanto sbertucciato da Elizabeth Kolbert sul New Yorker che ha definito «confondente» l’approccio e «ambigui» i dati che usa, come dal filosofo britannico John Gray, che non condivide affatto la tesi di fondo.
Professore, perché ha deciso di scrivere un libro così controintuitivo?
«Lavorando su testi precedenti mi ero imbattuto in dati sulla drammatica riduzione di morti violente dalle società non statali a oggi, oltre ad altri progressi come la fine dello schiavismo e l’abolizione delle pene corporali. Così quando la rivista Edge.org mi chiese “su cosa ero ottimista” risposi “sul declino della violenza”. Altri studiosi commentarono, aggiungendo varie altre prove a favore. E mi convinsero che era una vicenda non molto nota, che andava raccontata».
Sfidando i manuali di storia del XX secolo e la quotidiana lettura dei giornali...
«Bisogna guardare i dati. E i dati ci dicono che nelle guerre ai tempi delle società non statuali periva circa il 15 per cento della popolazione, mentre oggi non si arriva neppure all’uno. Quanto agli omicidi, siamo passati dai 110 su 100mila abitanti nella Oxford del XIV secolo all’uno della Londra di metà del XX se0colo. Per quanto riguarda i giornali, ricordiamoci che le notizie sono le cose che accadono, non quelle che “non accadono”. Sino a quando la violenza non arriverà a zero, ci saranno sufficienti fatti criminosi con cui aprire il tg. Ma agli scienziati deve importare la tendenza: andava meglio prima? No, molto peggio».
Lei cita sei tendenze che proverebbero il suo argomento. Ce le riassume?
«La “pacificazione”, ovvero il passaggio dalle società basate sulla caccia a quelle agricole, di circa 5.000 anni fa, con cui si registrò un calo di cinque volte delle morti violente. Il “processo civilizzante”, tra Medioevo e il XX secolo, con cali negli omicidi tra 10 e 50 volte. La “rivoluzione umanitaria”, che coincide con l’Il-luminismo, in cui si formano i movimenti per abolire schiavitù, tortura, uccisioni superstizione. La “lunga pace”, dopo la Seconda guerra mondiale. La “nuova pace”, dalla fine della Guerra fredda. Sebbene qualche lettore potrà faticare a crederci, da allora conflitti, genocidi e attacchi terroristi sono diminuiti rispetto al passato. Infine le “rivoluzioni dei diritti”, che hanno portato a meno violenze contro gli omosessuali, le donne, le minoranze etniche».
Quali sono stati i principali fattori pacificatori?
«L’emergenza di uno Stato con il monopolio del legittimo uso della forza riduce la tentazione della vendetta. Poi il commercio, favorito dal progresso tecnologico, per cui diventa più economico comprare le merci che saccheggiarle e dove gli interlocutori diventano più preziosi da vivi che da morti, se no a chi vendi? Quindi le forze del cosmopolitismo, intese come mobilità, alfabetismo e mass media, che allargano i contatti tra le persone e rendono più facile mettersi nei panni altrui e assumere la loro prospettiva».
Altrove però lei accusa il giornalismo di «distorcere la prospettiva storica per mancanza di cultura statistica». È ciò che chiamano «distorsione di disponibilità », per cui tendiamo a citare gli esempi più a portata di mano, anche se non statisticamente significativi?
«La mancanza di cultura statistica è un problema serio per l’intera classe intelper lettuale. Dovremmo insegnarla in ogni ordine e grado. E prendere l’abitudine di verificare le nostre affermazioni al vaglio fattuale e scientifico. Il successo di libri come Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman, o di Moneyball di Michael Lewis o di The Signal and the Noise di Nate Silver in cui baseball e politica rispettivamente sono analizzati con metodo statistico sono segnali di speranza».
Ha fatto discutere, nella sua classifica “atrociologica”, il fatto che la Seconda guerra mondiale fosse solo al nono posto quanto a numero di morti rispetto alla popolazione mentre la rivolta An Lushan nella Cina dell’VIII secolo al primo. Come spiega questa ignoranza collettiva?
«Soffriamo di miopia storica: gli eventi più vicini sono più chiari, con più fatti e con ricordi più vividi. Nei secoli precedenti non avevano la Cnn. Si aggiunga che le atrocità sono spesso usate come munizioni nei dibattiti. Chi vuole criticare la modernità ha bisogno di sostenere che i peggiori episodi siano accaduti nei tempi moderni».
Lei è uno psicologo evolutivo. Nel dibattito sui ruoli di natura e cultura, in passato è sempre sembrato a favore della prima. Stavolta tiene in maggior considerazione la cultura, o sbaglio?
«Credo che sbagli, anche se non è il primo a rivolgermi questo appunto. Ciò che sostengo da sempre è che la natura non può essere ignorata, che non siamo una tabula rasa. Nello specifico, il cambiamento culturale è necessario per spiegare il declino della violenza (non è passato abbastanza tempo per spiegarlo in termini evolutivi darwiniani), ma la natura umana serve per spiegare il cambiamento culturale. Abbiamo usato la cognizione, l’autocontrollo e l’empatia per contrastare l’istinto di vendetta, di dominio o di sadismo».

Repubblica 11.3.13
Il nuovo saggio di Wilson sull’eusocialità
Siamo uomini o formiche?
di Maurizio Ferraris


Leibniz ha scritto che l’asino va dritto al fieno senza aver letto una riga di Euclide. Analogamente, il dittatore che per mettere a tacere il dissenso interno dichiara guerra al paese vicino non ha verosimilmente letto il libro curato da Telmo Pievani e tradotto da Cortina, La conquista sociale della terra dell’entomologo di Harvard Edward O. Wilson, ma applica con istinto sicuro (è il caso di dirlo) la teoria della selezione naturale multipla che questi ha proposto nel 2010 con Martin Nowak e Corina Tarnita.
Contrariamente alla teoria del “gene egoista” resa celebre da Richard Dawkins, e d’accordo piuttosto con il proverbio “parenti serpenti”, la socialità umana non evolve in gruppi che condividono i geni e si aiutano a vicenda, ma si articola su un duplice livello. Uno, più alto, è la competizione tra gruppi, e uno, più basso, è la competizione (e non la cooperazione, come vuole Dawkins, e come voleva in precedenza lo stesso Wilson insieme alla maggioranza della comunità scientifica) tra individui all’interno dello stesso gruppo. Nel momento in cui si identifica il nemico (di razza, di classe) il gruppo si ricompatta e mette a tacere gli egoismi individuali, che torneranno a scatenarsi appena passato il pericolo.
Nell’elaborare questa teoria, Wilson mette a frutto le indagini che l’hanno reso celebre, quelle legate al concetto di “superorganismo” presentate in un monumentale volume scritto con Bert Hölldobler e tradotto da Adelphi due anni fa. Contrariamente al cliché dell’evoluzionismo come esaltazione della lotta di tutti contro tutti, l’idea di fondo è che un livello di “eusocialità”, ossia di stretta collaborazione tra individui nel gruppo, con divisione del lavoro e intere caste che si sacrificano per la comunità, è un vantaggio decisivo per l’evoluzione. È per questo che le formiche hanno iniziato il cammino dell’evoluzione milioni di anni prima che qualcosa di remotamente simile avvenisse agli ominidi. Tuttavia, nel caso delle formiche, lo sviluppo ha comportato, un solo livello di articolazione, quello sociale. È la comunità nel suo insieme che agisce come un singolo organismo, e acquisisce una potenza che esisteva molto prima di noi e con ogni probabilità esisterà molto dopo che si sarà persa ogni traccia dell’umanità.
Per gli uomini (e per la sterminata filiera di primati che li precede), che partivano da prerequisiti diversi, e in particolare il fatto banale ma decisivo di essere molto più grandi delle formiche, le cose sono andate diversamente. Il corpo più grande ha permesso lo sviluppo di un cervello più complesso, e il cervello ha reso possibili livelli di eusocialità sofisticati, la creazione del linguaggio, degli ornamenti, della religione, e ovviamente della scienza.
Purtroppo ha anche generato l’intima conflittualità che ci caratterizza come esseri umani. Le formiche sanno sempre qual è la cosa giusta da fare, noi invece siamo in lotta non solo con gli altri, ma con noi stessi. Anzitutto, viviamo il conflitto tra egoismo e altruismo, tra il vantaggio dell’individuo e quello del gruppo, tra interesse e sacrificio. Come se non bastasse, a complicarci la vita rispetto alle formiche, interviene il conflitto tra la parte primitiva e istintiva del cervello, l’amigdala, e la corteccia capace di simboli, coscienza e ragionamenti. Insomma, se il superorganismo tutto d’un pezzo di un formicaio è perfettamente armonioso, noi viviamo un conflitto tra la nostra natura e quello che Aristotele chiamava “seconda natura”. È questo che ci rende pensosi, spirituali, tormentati. Ma il punto essenziale, e filosoficamente decisivo, è che per quanto potente e determinante possa diventare la seconda natura, rivela pienamente la propria provenienza dalla prima.
Anni fa, quando il solo parlare di “natura umana” appariva come il segno di un inaccettabile scientismo, visto che l’uomo era concepito come il frutto esclusivo di una storia e di un linguaggio venuti fuori dal nulla, il libro di Wilson sarebbe stato classificato come antifilosofico. Ma è vero il contrario: è un libro speculativo ed hegeliano. Perché esattamente come per Hegel, lo spirito — concepito anzitutto come lacerazione — è frutto della natura, e i gradi inferiori si conservano e si superano nei gradi superiori. La cultura è costitutivamente il prolungamento della natura, non c’è indipendenza né salto (né ovviamente infusione soprannaturale). È nel fondo della natura che ha inizio la fenomenologia dello spirito, che non perde nulla del suo interesse e della sua dignità, ma anzi riceve la sua vera luce, dallo spiegare l’uomo attraverso le formiche.
Oggi presenta a Harvard il Manifesto del nuovo realismo (Boylston Hall 403, ore 17). L’incontro, organizzato da Francesco Erspamer per le attività della Lauro de Bosis Lectureship in the History of Italian Civilization, avviene in concomitanza con la nuova edizione de Il mondo esterno (Bompiani)
La conquista sociale della terra di E. Wilson (Cortina a cura di T. Pievani, pagg. 356, euro 26)

Repubblica 11.3.13
Il potere e la gloria nei riti del Conclave
Paravicini Bagliani racconta le successioni medievali al trono di Pietro
di Adriano Prosperi


In un campo editoriale affollato di tentativi di intercettare le domande sul mondo vaticano, questo nuovo libro di Agostino Paravicini Bagliani (Morte e elezione del papa. Norme, riti e conflitti, Viella) è un’occasione da non perdere. Qui siamo davanti non al prodotto sfornato in tempi brevi ma alla conclusione di un’opera di lunga lena di uno studioso di grande prestigio. Lontano in apparenza dall’attualità quanto può esserlo un libro che si occupa dei primi 1.400 anni della Chiesa d’Occidente, questo libro offre tanta materia di conoscenze e di riflessioni.
La storia dei riti apre verso uno sfondo antropologico di miti e di credenze e rinvia di continuo ai rapporti di forza: tra popolo e clero, Oriente e Occidente, papi e imperatori; anche tra papi e papi. E la profusione di norme e riti è tale da far capire quanto vasto e vario sia il magazzino storico e quanta libertà di scelta e di innovazione si celi nella molteplicità e diversità delle tradizioni. Chi si chiede quando sia nata quella corona di sovrano da tempo in disuso (papa Ratzinger ha preferito la mitra vescovile) scopre che il termine “coronare” sostituì quello di “consacrare” nel cerimoniale di papa Bonifacio VIII,  la bestia nera di Dante Alighieri e uno dei maggiori protagonisti di questo libro. Fu allora che il papa volle essere nello stesso tempo vicario di Cristo e verus imperator.
Il libro si articola secondo i tre momenti del percorso papale: l’elezione, l’avvento al potere, la morte (premessa un dì obbligata per fare un altro papa, come diceva un proverbio popolare ormai non più vero). La lettura è un viaggio fittissimo di incontri attraverso i secoli. C’è una fase antica in cui nella galleria di famiglia del papato entrano anche laici di passaggio: come quel Fabiano che nel 236 fu portato di peso dal popolo sulla cattedra vescovile perché gli si era posata sul capo una colomba. Non fu il solo laico; ma di regola fino al secolo Decimo toccò quasi solo ai membri della Chiesa di Roma, talvolta designati dal predecessore. Le regole per l’elezione del papa si stabilizzarono molto lentamente. Fondamentale quella che portò nel 1059 alla restrizione degli elettori ai titolari delle sette (poi sei) diocesi suburbicarie, i “cardini” di quella di Roma. Quei cardinali suggerirono allora a San Pier Damiani l’immagine dei senatori della Roma antica e il sogno grandioso di una rinata unità romana per accogliere la moltitudine delle genti.
Ma la lotta per affermare il nuovo modello fu durissima: i conflitti con l’impero e poi re di Francia dettero luogo a ben sette doppie elezioni e resero turbolente le riunioni dei cardinali costrette e protette entro il luogo chiuso che si chiama ancor oggi conclave. Il rumore della storia si fa più sommesso nella seconda parte. Le cerimonie dell’avvento aprono uno scenario di regalità sacra colorito e turbolento: i saccheggi rituali, la cavalcata trionfale da San Pietro al Laterano col canto delle laudi regali, gli ebrei che offrono la Bibbia al papa (e lui la getta via), la distribuzione di monete, la sedia “stercoraria”, la verifica della virilità, la sosta a San Lorenzo per adorare il prepuzio e l’ombelico di Cristo e il latte della Vergine contenuti nel “sancta Sanctorum”.
Al colmo della gloria e del potere, come nei trionfi degli imperatori, ecco la memoria mortis: un chierico dà fuoco a un bioccolo di stoppa e grida: «Padre santo, così passa la gloria del mondo» (sic transit gloria mundi).
Perché i papi muoiono: di malattia, di vecchiaia, ma anche di indigestione in quelli che furono pranzi da far impallidire Pantagruele. La Chiesa è immortale, il papa no. Il pensiero del vuoto nella catena della successione di un regno senza eredità dinastica, suscitava in Pier Damiani un sentimento di terrore. Restava quel corpo di vecchio, nudo, spogliato di paramenti. Intorno al corpo del papa un libro di Agostino Paravicini Bagliani rivelò anni fa storie di un fascino qui rinnovato: a cui il lettore aggiunge di suo la coscienza di quanto sia mutato lo scenario presente. Perché un fatto è certo: da oggi si potrà uscire dal papato senza morire, andando semplicemente in pensione. E alle spalle del nuovo papa ci sarà non più solo il compito di onorare le spoglie del suo predecessore ma anche quello di regolare i rapporti col papa emerito. E ci si chiede se nella cabina di comando della navicella di Pietro ci sarà posto per due capitani.
IL LIBRO
Morte e elezione del papa di Agostino Paravicini Bagliani (Viella pagg. 352 euro 25)