martedì 12 marzo 2013

l’Unità 12.3.13
Per cambiare rotta
di Stefano Fassina


Che cosa hanno chiesto gli elettori italiani il 24 e 25 febbraio? Si sono limitati a dare un voto anti-casta, esasperati dallo squallore di mille vicende? Oppure, la rivolta anti-casta è un riflesso della percepita inutilità della democrazia nazionale e, quindi, della politica al fine di contrastare il peggioramento delle condizioni materiali di vita delle persone?
E in particolare delle fasce sociali più deboli e delle classi medie meno riflessive? Insomma, il voto offre qualche valutazione sulla direzione di marcia dell’Italia in un passaggio storico di ricollocazione dei destini europei nello scenario geo-politico di inizio XXI secolo?
Gli elettori italiani, dopo quelli di tanti altri Paesi europei, hanno confermato una valutazione che è da tempo sotto gli occhi di tutti, prevedibile e prevista: la moneta unica, dato l’assetto di governance dell’euro e le politiche mercantilistiche prevalenti, è insostenibile Lo scenario per larga parte dell’euro-zona è di depressione, aumento della disoccupazione e innalzamento del debito pubblico. Austerità autodistruttiva e svalutazione del lavoro aggravano la questione sociale e, inevitabilmente, la questione democratica. Gli elettori italiani a stragrande maggioranza hanno detto no all’Agenda Monti, ossia all’agenda dell’euro-zona. Non a causa dei sacrifici enormi e iniqui. Ma in quanto consapevoli che, al di là di singole misure utili, la rotta seguita dall’euro-zona è senza prospettive.
Il Pd ha perso le elezioni perché non ha rottamato abbastanza o non ha avuto una comunicazione efficace? Non scherziamo. Il Pd ha perso le elezioni perché non è riuscito a spiegare che il sostegno al governo Monti era emergenziale, dovuto alla drammatica eredità del governo Berlusconi. Il Pd ha perso le elezioni perché non è stato in grado di manifestare autonomia culturale rispetto alla fase del governo Monti e presentarsi come alfiere di un’altra Europa: un europeismo progressista per lo sviluppo sostenibile e la civiltà del lavoro. Del resto, non era facile per Bersani imporsi con nettezza come leader per un programma alternativo quando tante figure apicali del partito e il suo principale sfidante alle primarie insistevano a proporre «l’Agenda Monti come la nostra agenda».
I risultati del voto in Italia sono l’ultimo e più forte segnale d’allarme per le sorti dell’euro-zona e dell’unione europea. O si archivia il paradigma mercantilista dell’austerità cieca e della svalutazione del lavoro e si corregge la rotta verso lo sviluppo sostenibile e la civiltà del lavoro, oppure, in breve, la pressione sociale e la rabbia politica fanno saltare l’euro. Le economie periferiche dell’euro-zona sono in una depressione di intensità superiore a quella vissuta durante le seconda guerra mondiale.
Le macerie economiche e sociali hanno innalzato il debito pubblico nei Paesi sotto programma formale o di fatto (come noi, dopo la famosa lettera della Bce). Nell’euro-zona, siamo su due direttrici divergenti, foriere di paralisi politica. La Germania e i suoi satelliti vivono nel migliore dei mondi possibili, mentre i Paesi periferici e, sempre più la Francia, sono soffocati in un scenario di profonda sotto-occupazione e aumento del debito pubblico: tassi di interesse reali negativi per le aziende tedesche e tassi proibitivi per le aziende dei Piigs; impossibilità per i competitors europei della Germania di svalutare; Euro meno forte di quanto sarebbe stato il Marco. In sintesi, il Titanic euro si avvicina a velocità sempre più alta all’iceberg. La Bce puntella un equilibrio insostenibile sul piano economico, sociale e politico. Noi, come altri partner mediterranei, dobbiamo fare i «compiti a casa». Ma non è sufficiente per uscire dal tunnel. Oggi, la priorità è coordinare la politica macroeconomica europea per archiviare il paradigma mercantilista codificato a Maastricht, spiaggiato dalla storia, come ha scritto Cuperlo, ma ancora dominante.
Allora, un governo per fare che? Per continuare con il pilota automatico invocato da Mario Draghi e arrivare a breve, dato l’incerto quadro politico, a chiedere accesso al «Fondo salva-Stati», subire ulteriori misure di austerità e svalutazione del lavoro e il soccorso della Bce per affondare nella spirale greca e far saltare l’euro per rivolta sociale e politica? Oppure un governo per il cambiamento progressivo come proposto da Bersani?
Ossia, un governo per avviare una stagione di riforme strutturali (assetti istituzionali; partiti; pubbliche amministrazioni, senza ulteriori tagli di spese; giustizia; anti-corruzione; energia; fisco; finanza per l’impresa); per completare il trasferimento alla Commissione europea dell’autorità sulle politiche di bilancio (come previsto dal «Two pack»); per ridefinire gli obiettivi nominali di deficit e debito pubblico al fine di: pagare 50 miliardi di debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese; allentare per 7,5 miliardi in tre anni il Patto di stabilità interno dei Comuni per piccole opere; cancellare l’aumento dell’Iva in arrivo; avviare un Piano per l’occupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno; sostenere via Cassa depositi e prestiti il credito alle micro e piccole imprese e, infine, finanziare gli interventi lasciati scoperti dal governo Monti (cassa integrazione in deroga; agevolazioni fiscali per le eco-ristrutturazioni; missioni internazionali; contratti precari nelle pubbliche amministrazioni; contratti di servizio per Anas, Fs e Poste)?
Fare un governo per proseguire lungo la rotta mercantilista condannerebbe l’Italia e, inevitabilmente, l’euro-zona all’involuzione economica e, peggio ancora, democratica. Sarebbe un atto di responsabilità?

l’Unità 12.3.13
Dalla destra un pericoloso salto di qualità
di Pietro Spataro


QUANDO UN PARTITO SI METTE IN MARCIA PER DIFENDERE GLI INTERESSI PRIVATI del suo leader è un cattivo giorno per la democrazia. Certo, non è la prima volta che ciò accade in Italia: la storia della seconda Repubblica è marchiata dal conflitto tra le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e le istituzioni democratiche. Ma le immagini di Milano segnano un pericoloso salto di qualità: la scena del segretario del Pdl Alfano che guida i suoi parlamentari contro il Palazzo di Giustizia evoca scenari inquietanti ed è, anche simbolicamente, un evento dirompente.
La minaccia inaudita di disertare il Parlamento in una sorta di Aventino anti-giudici rischia di condizionare pesantemente persino l'avvio della nuova legislatura. Ora si cammina su un filo sottile che può spezzarsi da un momento all'altro facendo precipitare l’Italia in una crisi senza precedenti. Nessun Paese democratico può sopravvivere a lungo in presenza di due consistenti forze anti-sistema quali sono, pur con tutte le differenze, il partito di Grillo e quello di Berlusconi che non hanno alcuna vocazione a privilegiare l'interesse nazionale e che puntano a disarticolare le regole democratiche.
Da questo punto di vista il Pdl un partito, ricordiamolo, che ha avuto in mano il governo della Repubblica per lunghi anni ha superato ogni livello di guardia. Quello di ieri è stato un colpo di mano inaccettabile, con il quale si è respinta persino la moral suasion istituzionale usata per far sospendere la protesta. È chiaro che la scelta di Alfano è un indizio di quale sarà la linea di condotta nel Pdl nelle prossime settimane, sia per il governo che per il dopo. Non è credibile una forza politica che salta dalla proposta di una grande coalizione che guidi il Paese nella fase di emergenza al richiamo della piazza, dal senso di responsabilità all'attacco frontale alla magistratura, dalla disponibilità al dialogo alla guerra santa contro la Costituzione. L'impressione è che, con l'avvicinarsi dei processi e delle sentenze più temute da Berlusconi, un partito prigioniero del suo capo sia tentato dallo scontro finale. Quale possa essere l'esito è difficile da prevedere, ma è certo che a pagarne le conseguenze drammatiche sarebbe il Paese che vive oggi una lacerante crisi politica, economica e democratica. Buttare benzina sul fuoco in questa situazione è da irresponsabili. Definire «nazisti» i medici fiscali e «stalinista» un Tribunale dello Stato è eversivo. Considerare i giudici espressione di un fantomatico «potere comunista» e accusarli di voler ribaltare per via giudiziaria il risultato elettorale è una vergognosa violazione dell'autonomia della magistratura, che è un caposaldo della nostra Costituzione.
D'altra parte le accuse di cui deve rispondere Berlusconi non sono così leggere. A Milano per il caso Ruby, la famosa nipote di Mubarak finita in un «sistema prostitutivo per il divertimento del Cavaliere», come sostengono i pm. Ma soprattutto a Napoli dove si sta indagando su una delle pagine più buie della storia repubblicana: la compravendita di senatori compiuta, secondo l'accusa della Procura e la testimonianza di De Gregorio, con l'obiettivo di far cadere il governo Prodi. Se questo «mercato nero dei parlamentari» fosse confermato, saremmo di fronte a un attentato alla democrazia: con mezzi illeciti si è liquidato un governo democraticamente eletto dagli italiani. Davanti a un'accusa così pesante un partito serio dovrebbe avere un sussulto di dignità: dovrebbe, oltre che difendere la legittima presunzione d'innocenza del leader, chiedere con forza ai giudici di fare chiarezza al più presto, senza lasciare alcuna ombra. Qui invece si caricano i cannoni, si incitano le truppe e si chiama alla battaglia.
Tutto ciò avviene in uno dei momenti più complicati della storia italiana. E questa condizione rende ancora più pericoloso il gioco eversivo del Pdl. Il risultato elettorale ci ha consegnato un quadro politico frammentato. La rabbia e la protesta hanno trovato un canale privilegiato in un movimento che è difficile da decifrare, ma quella domanda di cambiamento non può essere archiviata. Il rebus del governo è ancora lontano dalla soluzione e la strada di Bersani resta stretta. Tuttavia non si può cedere al ricatto del tanto peggio tanto meglio.
Inutile ricordare che, in altri momenti difficili, il senso di responsabilità prevalse sugli interessi di parte. Allora però non c'era Berlusconi né un partito personale legato a doppio filo al destino extra politico del suo leader. La destra purtroppo resta ancora in ostaggio dei propri fantasmi. Questo, in fondo, è il drammatico problema dell'Italia. Quel corteo nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano dimostra ancora una volta, in modo inequivocabile, che nessuna ipotesi di accordo con una forza che punta sul sovversivismo è possibile. Bisogna invece percorrere altre strade, più limpide, per dare presto al Paese un esecutivo in grado di impedire questo insostenibile cupio dissolvi.

l’Unità 12.3.13
Bersani a Renzi:
«Noi non cerchiamo nessuno Scilipoti»
Il sindaco precisa: mai detto «trattativa discutibile»
Scontro anche sul finanziamento pubblico
di Maria Zegarelli


ROMA Non lo cita ma il riferimento è chiarissimo: «Non si diffonda l'idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati. Non lo accetto. Tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra. A noi interessano le posizioni politiche». Pier Luigi Bersani chiama in causa Matteo Renzi che l’altra sera da Fabio Fazio aveva evocato lo «scilipotismo» del Pd con i grillini. Un dialogo che si fa sempre più teso quello tra Roma e Firenze, tanto che da Palazzo Vecchio per tutto il giorno sono costretti a smentire e puntualizzare.
Da un lato Renzi ribadisce «lealtà» al segretario, dall’altro augurando buon lavoro a due ex assessori neoeletti in Parlamento definisce «una trattativa molto, molto discutibile» quella in corso per cercare di uscire dalla crisi e dall’impasse istituzionale. O per lo meno, questo riportano le agenzie di stampa, perché più tardi il suo portavoce corregge: «Renzi non ha mai detto “da Pd trattativa discutibile”. Il sindaco ha invece augurato ai suoi ex assessori neoeletti in Parlamento di svolgere bene il loro lavoro lontano da manifestazioni folcloristiche e da trattative discutibili».
Se il tentativo di Renzi di chiamarsi fuori dalle logiche e dalle dinamiche del partito è chiaro, nessuno si aspettava, però, quello che è sembrato un vero e proprio strappo: l’articolo pubblicato ieri mattina sul Corriere nel quale si riferiva di un presunto dossier nelle mani del sindaco, a cui avrebbe lavorato un amico «fidato» di Renzi, sui presunti sprechi del partito: numero e relativi stipendi di dipendenti, dirigenti e funzionari, focus sulla presidente Rosy Bindi e i suoi collaboratori, sui compensi di Matteo Orfini, responsabile Cultura Pd, e Chiara Geloni, direttore di Youdem.
La prima replica, durissima, arriva proprio da Orfini. Per ora, dice, «tralascio di dare giudizi sul fatto che si possa anche solo immaginare di fare attività di dossieraggio sui propri compagni di partito», ma rende noti il suo compenso mensile, (3300 euro), la zona dove vive (periferia romana) nella casa della sua compagna, e i mezzi pubblici che prende (Metro B1) per andare a lavorare. Bindi, dal canto suo, annuncia una querela al quotidiano di via Solferino: «In merito alle anticipazioni di un rapporto, se esiste perché riservato?, di Renzi citato dal Corriere della sera, preciso che nessuno dei miei collaboratori, compresa la portavoce, è mai stato dipendente del Pd o di altri partiti». La presidente Pd precisa di aver sempre provveduto con le indennità a pagare i suoi collaboratori, mentre al «partito solo 2 impiegate sono assegnate all'ufficio di segreteria dell' Assemblea nazionale e della Direzione e non alla mia personale segreteria». Anche qui Renzi spiega: «Non so cosa significhi richiamare oggi espressioni come dossieraggio. Io sono uno di quelli che non da ora, non dalle primarie, ma addirittura dalla Leopolda, propone di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, di dimezzare il numero dei parlamentari e di rendere trasparenti tutte le spese». E chiede al suo partito di pubblicare on line tutte le spese, le ricevute e le fatture, per poter giudicare se sono costi alti oppure no. In linea la neoparlamentare Simona Bonafé, nello staff dei fidatissimi di Renzi durante le primarie, «battaglia politica a viso aperto», la definisce.
Sul finanziamento pubblico ai partiti Bersani è tornato anche ieri: «Pronti a discuterne» ma, aggiunge, a patto che si affronti anche la legge sulla democrazia e la trasparenza interna dei partiti perché «un partito che non ha democrazia interna può prendere il governo del Paese e trasferire la sua assenza di democrazia dal suo partito al Paese. Non è una cosa da poco...». Dalla Toscana Enrico Rossi invita il sindaco a contribuire «un po’ più dall’interno invece di lucrare sulla sua posizione per cui pur stando nel partito canta da fuori». Eleana Argentin dal Capranica: «A Roma dicono: ce stanno i dritti perché ce stanno i fessi. Lui non può fare il dritto perché noi non siamo fessi. Deve capire che non può dire “ho perso le primarie e sono leale” e poi andare in tv a chiedere l'abolizione dei finanziamenti ai partiti». Intanto su Twitter l’hastag #BersaniFirmaQuì lanciato da Grillo per chiedere al leader Pd di rinunciare ai rimborsi elettorali fa il boom.

Repubblica 12.3.13
E il segretario affronta il caso Renzi “Vuole sabotarmi, lo dica apertamente”
Il sindaco: no, esterno ciò che penso. Caos nel partito
di Goffredo De Marchis


ROMA — Rapporti morti e sepolti. Un altro giorno di incomunicabilità, nonostante la tensione esplosiva nel bel mezzo di una situazione buia. Da giorni Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani evitano contatti. Eppure il segretario del Pd avrebbe qualcosa da chiedere al sindaco. La domanda suona più o meno così: «Al di là delle critiche e dei dubbi, stai mettendo in piedi un sabotaggio? Vuoi che vada a sbattere contro il muro sul governo con Grillo?». È un interrogativo fondamentale perché nel Pd le uscite di Renzi stanno seminando il panico e indebolendo il progetto, miracolistico, di coinvolgere i 5 stelle. Come succede da molto tempo in qua è toccato al governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani parlare con il primo cittadino e girargli il quesito. «No, non voglio fottere Pier Luigi. Ma sono libero di dire quello che penso», è stata la risposta di Renzi. Il filo è sottilissimo. Ci si può aggrappare, con qualche timore (giustificato?) sulla sincerità delle garanzie, per continuare il lavoro intorno agli 8 punti, alle presidenze delle Camere, alla formazione dell’esecutivo. E per sperare in una moratoria da parte del sindaco che duri almeno fino ai giorni delle consultazioni. La telefonata tra Errani e Renzi va letta in questa chiave.
Ma a nessuno sfugge l’improvvisa fretta del sindaco di appiccare l’incendio quando «gli basterebbe attendere una settimana, dieci giorni, mica anni, per capire come va a finire e lanciare la sua corsa». A Largo del Nazareno, i bersaniani non capiscono «cosa sia scattato a Matteo », non comprendono «il senso della battaglia in questo momento ». Con una buona dose di realismo un dirigente ammette: «Siamo confusi noi ed è confuso anche lui». La risposta più gettonata a questi interrogativi è: «Cerca di sfasciare tutto e di mettersi subito al centro dei giochi». Come Renzi veda il futuro lo ha spiegato con franchezza ai suoi interlocutori. «Penso che alla fine si andrà a un governo tecnico. Durerà poco, non più di un anno. Io mi preparo a correre la prossima volta». Non è solo una previsione, chiaramente. È molto di più. È un auspicio, è la porta girevole che cambia il destino in pochi mesi: dalla sconfitta delle primarie alla rivincita.
Evitando Bersani, il rottamatore, in questi giorni, ha parlato spesso con Dario Franceschini, il favorito per la presidenza di Montecitorio, condividendo analisi e pronostici.
Ha registrato le aperture alla sua leadership di Enrico Letta e Francesco Boccia. Controlla la pattuglia di 51 renziani in Parlamento che ieri, all’assemblea degli eletti, si è tenuta visibilmente in disparte, soprattutto le new entry, quelle scelte di persona dal sindaco. Il tentativo di Bersani si sta sbriciolando giorno dopo giorno anche nel partito, tra dubbi, perplessità e un pizzico di orgoglio contro «i grillini che ci sputano in faccia». Perfino Lapo Pistelli, del quale Renzi è stato l’assistente parlamentare in un’altra epoca prima di batterlo nella sfida per Palazzo Vecchio, ha chiarito i suoi dubbi sul Movimento invitando il Pd «a non dare le presidenze delle Camere a quelli lì». Insomma, Renzi può diventare centrale nel dopo Bersani fin da subito, entrando nella cabina di regia di un governo di scopo a tempo. Ma perché tanta fretta di attaccare frontalmente il segretario?
Renzi aveva ricucito un rapporto con il “popolo” del Pd mettendosi a disposizione di «Pierluigi » durante la campagna elettorale, accettando il risultato delle primarie, offrendo la sua collaborazione incondizionata al candidato premier. Sembrava al tempo stesso una prova di generosità, di buona politica e una mossa strategica per gli anni a venire: l’offerta di un federatore, di un pacificatore per il nuovo Pd. Poi sono arrivate le interviste, le smentite, la “fuga” dalla direzione, gli attacchi all’apparato, la rottura con la partecipazione a Che tempo che fa.
Da sabato scorso, a Largo del Nazareno è spuntata la parola «sabotaggio», è ripartita una caccia alle streghe. Il tutto in un Pd che già vive un clima di assedio. «La fretta è una cattiva consigliera», si limita a dire Enrico Letta. Ma il sindaco ha annusato la chiusura a riccio del corpaccione democratico, capace ancora una volta di escluderlo o di stritolarlo. Così ha deciso di rispolverare il linguaggio della rottamazione. Perché quando anche Massimo D’Alema osserva «dopo Bersani c’è solo Renzi» non fa un’investitura. Semmai segnala un pericolo, lancia l’allarme rosso.

Repubblica 12.3.13
Staino, disegnatore di Bobo: sono suo amico però per i miei gusti è troppo ancorato alla Curia e ispirato da Ichino
Il cuore mi farebbe gridare ‘vaffa’ ai grillini ma la ragione mi dice che bisogna tentare questa strada disperata
“Matteo farà una nuova Dc, io andrò via”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — A mali estremi, estremi rimedi: «Bobo l’ho già fatto impiccare una volta. Però potrei sempre farlo resuscitare e farlo suicidare di nuovo...». Sergio Staino è triste, «molto triste» per il vicolo cieco nel quale si è cacciato il Pd. E non crede nella soluzione Renzi: «Con Matteo sarebbe una nuova Dc. E io abbandonerei il Pd. Lo vedo in un partito che sta al fianco del mio, ma non nel mio».
Molti considerano Renzi il futuro. Ma nel Pd è scontro.
«Si è mosso bene. E’ stato leale. E infatti molti amici ora dicono: “Ho sbagliato, potevo votare Renzi”. Certo, un po’ sta lavorando ai fianchi Bersani. Ed è un gioco pericoloso».
Quindi il sindaco non può guidare la riscossa del Pd?
«Non credo. E’ molto ancorato alla Curia e lo ispira Ichino. Gli sono amico, ma quando dice una cosa buona gli rispondo: “Interessante, peccato che non sei nel mio partito...”. Io a quel punto vorrei una forza socialista europea. Abbandonando questo Pd che ci ha portato dove ci ha portato. Forse sono io che sono vecchio... ».
Ora intanto come se ne esce? Un’alleanza con Grillo?
«Il governissimo sarebbe un suicidio totale. Un governo Bersani è la strada meno tragica. Il cuore mi vorrebbe fare gridare “vaffanculo ai grillini”. Ma la ragione mi dice di no. Proverei comunque questa strada disperata, almeno per vedere se i militanti sono più saggi di Grillo. Certo, bisogna essere un po’ scemi per credergli. Capisco chi è incazzato, ma non è che chi ha votato Pd non era incazzato. Era incazzato con razionalità. I giovani sono così ciechi da non vedere la falsità di questo leader? La sua è una forma di protofascismo.».
Resta la batosta. Bobo come l’ha presa?
«Peccato che l’ho già fatto suicidare quando il Pd partecipò alla spartizione per le authority. In quella vignetta diceva: “Prima che mi consegnino a Grillo, me ne vado da solo”».
Profetico.
«La maledizione è iniziata a causa di una superficialità totale. Più che incolpare il segretario, penso a quei personaggi che lo consigliano. Gli dicono “vestititi così”, “fai così”. Ecco, Bersani non era quello che conosciamo».
Il giaguaro?
«Si, il giaguaro. Con quelle cose lì poi finisci così. Dopo le primarie erano sicuri di vincere. Gasati. Il primo suicidio sono state le liste. Una cosa penosa. Io volevo primarie per tutti, poche deroghe. Invece così è mancato l’entusiasmo. Le sale non erano piene, niente piazza. Io, arrabbiato, comunque ho votato Pd».

l’Unità 12.3.13
Una Camera al M5S, la via stretta del Pd
Parte oggi il confronto con gli altri gruppi. Nominata la delegazione che tratterà coi 5 Stelle
In campo anche l’ipotesi Franceschini a Montecitorio e Monti al Senato
di Simone Collini


Di fatto, è il vero avvio della partita. Pier Luigi Bersani ha incaricato una «ristretta delegazione» di aprire il confronto con tutte le forze politiche presenti in Parlamento in vista dell’imminente nomina dei vertici istituzionali di Camera e Senato. I vicecapigruppo Luigi Zanda e Rosa Calipari, più il responsabile Enti locali della segreteria Davide Zoggia, faranno «una ricognizione di dialogo possibile», per dirla con Bersani, essenzialmente tra i parlamentari di Movimento 5 Stelle (un primo incontro è previsto per oggi pomeriggio) e Pdl (ancora non è stata fissata nessuna data). Perché per quanto il leader del Pd assicuri ai 408 parlamentari convocati a Roma che «non sono in corso diplomazie», è lo stesso Bersani a spiegare ai neoeletti del suo partito: «Abbiamo la responsabilità di incoraggiare elementi di dialogo che favoriscano una soluzione». Soprattutto, in questa fase in cui i numeri del Parlamento dicono che «cambiare ora si può».
Il leader democratico sa che nel suo stesso partito c’è chi è pronto a criticarlo per la strategia proposta, che prevede l’offerta anche delle presidenze delle commissioni parlamentari. Non a caso, all’assemblea dei parlamentari, dice con evidente riferimento a Matteo Renzi («spero che lo “scilipotismo” non diventi la caccia al grillino», aveva detto il sindaco) che con la proposta degli «otto punti per il cambiamento» non si punta a dare la caccia ai Cinquestelle: «Non stiamo andando in giro a cercare deputati o senatori. Non accetto che si dica questo, tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra: a noi interessano le posizioni politiche». Né che con l’offerta di una «corresponsabilità» sul piano istituzionale si punti a un do ut des: «Non intendo sentire in giro che quando si discute di istituzioni si fa scambio di poltrone. Dobbiamo adempiere un compito istituzionale di dare un governo alle istituzioni che non sono di nessuno».
Questa «corresponsabilità» sul piano istituzionale, come dice però Bersani parlando ai neoeletti, «non è a prescindere». E le critiche a Beppe Grillo non mancano: «Vuol tenersi le mani libere e non per l’Italia, ma per qualcosa che si chiama potere». Ecco perché prima di compiere i prossimi passi, bisognerà capire quale «atteggiamento» manterranno i Cinquestelle e anche come si comporterà il partito di Berlusconi, che ieri ha manifestato al Tribunale di Milano. «Il Pdl minaccia di non presentarsi alle prime sedute», registra Bersani aspettando una smentita che non arriva. E allora alla «delegazione» ha chiesto di «fare un giro perché siamo nelle nebbie totali», di capire «a quali condizioni» si possa aprire il confronto con gli altri gruppi parlamentari, di «cercare contatti laddove sia possibile averne».
Tra venerdì e sabato, con le votazioni per i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, si potrebbe già capire se il sentiero su cui si è messo il leader del Pd può veramente portare al «governo di cambiamento» o se invece non sia effettivamente troppo stretto per essere percorso. I riflettori sono puntati sul Senato, perché in base al tipo di maggioranza che si determinerà in questo ramo del Parlamento (dove il centrosinistra parte da 144 voti) e in base all’atteggiamento che terranno Pdl e M5S si capirà quali potrebbero essere i passaggi successivi. Ma anche il nome che sarà scelto per la presidenza della Camera darà un’indicazione su come potrebbe proseguire la legislatura che si sta per aprire. Lo schema su cui avevano ragionato in un primo momento i vertici del Pd prevedeva l’offerta agli altri due principali gruppi parlamentari delle presidenze delle Camere. E più in particolare la presidenza di Montecitorio a un esponente Cinquestelle e quella del Senato al Pdl. La minaccia dell’Aventino e la manifestazione al Tribunale di Milano hanno però fatto rivedere l’ipotesi di un’offerta al Pdl. E si è iniziato piuttosto a ragionare su uno schema che prevede la presidenza della Camera al M5S e quella del Senato a un esponente della Scelta civica di Mario Monti.
Dal fronte Cinquestelle, nelle ultime ore, sono arrivati segnali contraddittori, e oggi toccherà alla «delegazione» Pd capire quale sia la reale linea. Il capogruppo al Senato del M5S Vincenzo Crimi fa sapere che possono anche accettare l’offerta di una presidenza, che i Cinquestelle presenteranno un loro candidato e che comunque «accordi non se ne fanno». Il partito di Grillo si aspetta anche un vicepresidente e un questore in entrambi i rami del Parlamento.
Il Pd all’incontro di questo pomeriggio cercherà di capire se la strada sia percorribile. In caso contrario, si tornerebbe all’ipotesi di dare la presidenza della Camera a Dario Franceschini, che intervenendo all’assemblea dei parlamentari Pd ha giocato la carta dell’orgoglio di partito: «Andate a testa alta, accettate la sfida con i grillini, siate più preparati e trasparenti di loro».
Dopo il «giro» della «delegazione» deputati e senatori Pd torneranno a riunirsi giovedì per decidere come muovere i passi successivi.

il Fatto 12.3.13
Bersani tira dritto “Grillo pensa al potere”
di Fabrizio d’Esposito


NEL SUO DISCORSO AGLI ELETTI IL SEGRETARIO APRE A TUTTO IL PARLAMENTO E METTE IN PALIO LE PRESIDENZE DELLE CAMERE

Pier Luigi Bersani, stavolta, è grigio su grigio, tra abito e camicia. Anche la cravatta rossa è meno vivace del solito. Il segretario del Pd entra nel teatro Capranica con la mascella serrata. Roma, quindici e quindici. Con tre quarti d’ora di ritardo inizia la prima riunione dei quattrocento e passa parlamentari del Pd. “Siamo qui in rappresentanza di oltre dieci milioni di voti”. Ma il clima è cupo lo stesso, da funerale preventivo. La presidenza è un tavolino ricoperto da un drappo porpora. Due posti solamente. Per il moderatore Enrico Letta e per Bersani. Il segretario del Pd ribadisce alle sue truppe che c’è un muro altissimo da scalare, “una via stretta ma unica”. Quel governo di minoranza preso a sassate tutti i giorni da Beppe Grillo. C’è anche un altro duello che lo tormenta, da tre giorni. Il “sindaco di Firenze” è tornato, forse non se n’era mai andato, e gli ha inferto la pugnalata dello “scilipotismo”, riferendosi alle trattative, segrete e no, con i grillini. Bersani la considera un’infamia e s’incazza, applaudito a scena aperta: “Non si diffonda l’idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati. Non lo accetto. Tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra. A noi interessano le posizioni politiche. Noi non abbiamo aperto diplomazie, non è in corso nulla di tutto questo. Noi vogliamo coltivare all’aperto una idea con la quale ci rivolgiamo al Parlamento”. A distanza, Matteo Renzi non s’impressiona più di tanto: “C’è chi tenta di risolvere l’impasse istituzionale in cui siamo con una trattativa fino all’ultimo giorno molto molto discutibile”. Dichiarazione seguita, poi, dall’immancabile smentita: “Non mi riferivo al Pd”. E a chi allora?
L’ASPIRANTE PREMIER di minoranza, a dire il vero, è duro anche con Grillo. Il leader del Movimento 5 Stelle è “un novello principe in formazione” che non potrà mai essere “sazio”, cui le “mani libere” servono non per l’Italia ma per una cosa “che si chiama potere”. È come se Bersani avesse smesso, a livello psicologico, di inseguire Grillo. È come se, a differenza di tre settimane fa, gli fosse tornato l’orgoglio perso per sua stessa ammissione sul modello di una canzone dell’amato Vasco Rossi. Non a caso i suoi fedelissimi enfatizzano il passaggio in cui il segretario ribadisce che si rivolgerà a tutto il Parlamento con il suo programma di otto punti. Nulla di nuovo, a livello semantico. Ma dopo giorni e giorni trascorsi ad aspettare invano i grillini, e solo loro, quel “tutto il Parlamento” può riaprire varie prospettive di navigazione per il governo di minoranza. In questa direzione va la mossa di nominare una troika per prendere contatti sulla “corresponsabilità istituzionale”, che tradotto vuol dire: trattare sulle presidenze delle Camere. E ieri nessuno escludeva l’ipotesi di dare la Camera al M5S e il Senato al Pdl o montiani. Tutto può uscire dalla disperata lotteria bersaniana, alle prese anche con la quasi impossibilità di votare alla fine di giugno (nel Pd c’è chi ritiene ottobre il primo mese utile).
I NOMI DEI TRE “delegati” del Pd non sono tra quelli fatti la settimana scorsa per aprire un canale con i grillini. Sono Luigi Zanda, Rosa Calipari, Da-vide Zoggia. Emissari a tutto campo: oggi vedranno alle tre del pomeriggio il M5S, successivamente Scelta civica, Pdl e Sel. L’annuncio del segretario sui tre è arrivato nella replica al dibattito della riunione, durata poco più di tre ore. Una ventina gli interventi, tra cui si segnala la “carica” suonata da Dario Franceschini, con tanto di avvertimento: “Vi vedo frastornati, intimiditi, storditi. Invece dovete andare a testa alta. Entrate nel tempio della democrazia non nel covo della casta. Dobbiamo sostenere convintamente il tentativo di Bersani, anche sui giornali, evitando comportamenti sdoppiati”. Sarcastico, invece, Corradino Mineo: “Caro Bersani ci avevi detto che il partito era la nostra bomba atomica. Alla fine la bomba è implosa all’interno, questo è un partito che parla solo a se stesso”. Per la cronaca, Mineo è un neoeletto.

La Stampa 12.3.13
Il pontiere «Vogliamo risposte in incontri ufficiali»
domande a Luigi Zanda
di F. Sch.


Ieri, nel tardo pomeriggio, Luigi Zanda, vicecapogruppo uscente del Pd al Senato, stava cominciando a prendere i primi contatti. Insieme a Rosa Calipari e Davide Zoggia, è uno dei tre «pontieri» incaricati da Bersani di cercare contatti con gli altri gruppi parlamentari. L’ha saputo anche lui ieri, «tanto che ho disdetto altri impegni perché non lo sapevo».
Senatore, qual è precisamente il vostro compito?
«Dobbiamo contattare i gruppi parlamentari per verificare se esistono spazi per una corresponsabilità nell’elezione delle presidenze».
Non è un compito facile: i grillini hanno già detto in tutte le lingue che non sono disponibili ad alcun accordo… «Con tutto il rispetto per i giornali e le dichiarazioni che abbiamo letto, vorrei sentirmi dire direttamente il pensiero di ciascuno. Dobbiamo fare incontri ufficiali alla luce del sole».
Incontri ufficiali con chi?
«Chiederemo ai gruppi parlamentari con chi prendere contatto».
Se il Movimento 5 Stelle dovesse ribadire anche in un incontro ufficiale la sua chiusura, come farete a convincerli dell’utilità di una corresponsabilità?
«Non è questa la nostra missione. Noi abbiamo solo un incarico di natura ricognitiva. Solo per sapere qual è la posizione degli altri gruppi, quali atteggiamenti politici intendono tenere rispetto a queste nomine».
È un ruolo delicato. Le fa piacere o la preoccupa?
«Fa parte del mio lavoro politico parlamentare. Se sia stato un piacere o una preoccupazione lo potrò dire solo dopo…».

Corriere 12.3.13
Dal segretario contrattacco a Renzi

Oggi vertice tra pontieri e Movimento
Il leader: non accetto l'accusa di cercare nuovi Scilipoti
di M.Gu.


ROMA — A dividere Bersani da Renzi sono ancora i soldi ai partiti e i toni ricordano quelli aspri delle primarie, quando il segretario e il sindaco duellavano sui finanzieri delle Cayman. Al Capranica l'aspirante premier parla ai 408 eletti del Pd, nomina una «troika» di ambasciatori per mediare con i partiti sulle cariche istituzionali e non risparmia colpi allo sfidante, che lo critica sulla linea e lo incalza sui costi della politica.
Renzi lo aveva ammonito a non adescare i grillini come nuovi «scilipoti» e Bersani respinge il sospetto, mostrando tutta la sua insofferenza: «Non si diffonda l'idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati... Non lo accetto, tantomeno se viene da qualcuno di casa nostra». Quel «qualcuno» sfida il segretario a viso aperto e lo fa toccando il nervo scoperto del finanziamento ai partiti. «Non c'è nessuna attività di dossieraggio — assicura Renzi, riguardo al rapporto sugli sprechi del Pd anticipato dal Corriere — Le battaglie politiche uno le fa dicendo in faccia quello che pensa. È dalla Leopolda che propongo di abolire il finanziamento, dimezzare i parlamentari e rendere trasparenti tutte le spese». Il Pd costa troppo? «Quando metteranno online le spese, potrò rispondere».
Scontro duro. Il segretario che tira dritto sulla strada «strettissima» dell'accordo con Grillo, perché tanto «un'autostrada non c'è». E il sindaco, che pure promette di non pugnalarlo, non crede che il leader riuscirà nell'impresa: «Io faccio il tifo perché Bersani ce la faccia, ma Grillo continua a dire di no e io non sono ottimista». E se il segretario fallisce? «Giocoforza si andrà a votare». In consiglio comunale, a Firenze, il primo cittadino pronuncia parole indigeribili per Bersani. Dice che «c'è chi tenta di risolvere l'impasse con una trattativa fino all'ultimo giorno molto, molto discutibile». E al vertice del Pd il ragionamento arriva come una secchiata di acqua gelida. Ma ecco che il portavoce Marco Agnoletti aggiusta il tiro: «Renzi non ha mai detto "dal Pd trattativa discutibile". Ha invece augurato ai suoi ex assessori neoeletti in Parlamento di svolgere bene il lavoro lontano da manifestazioni folcloristiche e da trattative discutibili». È in questo clima che il segretario parla al suo squadrone di deputati e senatori, affollato di volti giovani e nuovi. Prova a rincuorare gli animi e, su Grillo, sembra cambiare passo. Non smette di inseguirlo e però lo attacca: «Un novello principe in formazione non è mai sazio. Vuole tenersi le mani libere e non per l'Italia, ma per qualcosa che si chiama potere».
Con Grillo che chiede al Pd di rinunciare a 49 milioni di contributi elettorali, il tema dei finanziamenti è quello che più imbarazza e divide i democratici. E il livello della preoccupazione sta tutto in un tweet di Michele Emiliano: «Se non firmiamo siamo finiti». Bersani è pronto a discuterne, purché la riflessione «si leghi alla trasparenza». Il partito è spaccato, molti vogliono che i gruppi lavorino a proposte immediate. Donata Lenzi chiede al Pd di riflettere sull'autoriduzione degli emolumenti e Walter Tocci propone una commissione che studi come ridefinire lo status di parlamentare. Intanto Rosy Bindi afferma che nessuno dei suoi collaboratori, compresa la portavoce Chiara Rinaldini, «è mai stato dipendente del Pd o di altri partiti» e che gli stipendi dello staff la presidente li ha sempre pagati con le sue indennità.
Facce scure, animi tesi e i giornalisti lasciati bruscamente fuori dalla porta. Come dice Dario Franceschini i democratici sono «frastornati» e l'ex capogruppo li sprona, tra gli applausi, a dimostrare di essere più bravi dei grillini: «In Parlamento dovete entrarci a testa alta, perché è il tempio della democrazia e non un covo di privilegi della casta». Anche Lapo Pistelli si adopera per convincere i neoeletti che non saranno gli agnelli di una legislatura sacrificale: «Dare gratis una delle due Camere a uno che dice di voler aprire il Parlamento come una scatola di tonno? Ci penserei due volte». Applausi e un «bravo!» da Bersani, che aveva lanciato a Grillo un appello per una «corresponsabilità degli incarichi istituzionali». Oggi entreranno in azione i tre ambasciatori — Luigi Zanda, Rosa Calipari e Davide Zoggia — ai quali il leader ha chiesto di mediare sugli incarichi più delicati, come la scelta dei questori e le presidenze delle Camere. E Laura Puppato spera: «Il filo con i grillini non si spezza...».

Corriere 12.3.13
La trattativa e il timore: non siamo noi i guastatori
di E. Bu.


MILANO — Tutto nasce da una battuta, un'ipotesi raccolta dai cronisti a Palazzo Madama, quando Vito Crimi risponde con un «perché no?» se sia possibile in Italia una esperienza come quella del Belgio: un anno e mezzo senza governo. «Non sta a noi la soluzione, la palla è al presidente Napolitano — precisa il capogruppo —. La nostra proposta è un governo Cinque Stelle e i 20 punti di programma». Da quella battuta emergono i pensieri che tormentano in questo momento di impasse politica gli eletti Cinque Stelle. «Mi preoccupo — afferma Crimi — che con la scusa di dover dare a tutti i costi un governo al Paese si blocchi il Parlamento, che invece potrebbe benissimo legiferare, addossando tutta la colpa a noi». Deputati e senatori, divisi in gruppi di lavoro, stanno studiando il modo di rinunciare ad alcuni privilegi e, al tempo stesso, aspettano l'incontro (previsto oggi o al massimo domani) con la delegazione del Pd. Le intenzioni, per quello che filtra dagli ambienti grillini, sono chiare. E gli eletti compatti. «Noi non contrattiamo», dicono. E spiegano in merito a questori e vicepresidenza: «Se qualcosa ci tocca, ci spetta, allora la pretendiamo come è giusto che sia». Una partita su molti tavoli, che tocca anche la presidenza del Copasir e della Vigilanza Rai: alcuni parlamentari grillini considerano «abbastanza scontato» che gli incarichi vengano attribuiti a esponenti Cinque Stelle. Sulla presidenza di una delle Camere per ora non ci sono stati contatti concreti. Anche su eventuali nomine c'è ancora incertezza. «Non abbiamo ancora deciso cosa e come», filtra da fonti vicine al movimento. Probabilmente eventuali candidati saranno scelti nella riunione interna in programma domani. L'unica certezza è che la passeggiata dal Colosseo al Parlamento non ci sarà: possibile invece che l'ingresso in Aula dei Cinque Stelle (fin dove consentito) venga trasmesso online in streaming. Intanto, un incoraggiamento agli eletti arriva anche da Federico Pizzarotti. «I parlamentari, come stanno facendo in questi giorni, si dovranno organizzare tra di loro, sono in tanti e si devono coordinare», commenta il sindaco di Parma.

l’Unità 12.3.13
«Facciamolo», boom di adesioni Firmano anche Ozpetek e Fazio
Sul sito de l’Unità si può sottoscrivere la richiesta alle forze politiche perché si formi un esecutivo per il cambiamento
di Virginia Lori


Due nuovi promotori e oltre 26mila firmatari, l’appello «Facciamolo!» continua il suo corso sulla rete. Chiede che i risultati elettorali, per quanto disomogenei, siano rispettati e sia messo in cantiere un governo che ne interpreti «le speranze di cambiamento» uscite come dato netto dalle urne. Ieri ai dieci firmatari iniziali don Gallo, don Ciotti, Salvatore Settis, Roberto Saviano, Roberto Benigni, Michele Serra, Barbara Spinelli, Carlo Petrini, Oscar Farinetti, Lorenzo Giovanotti si sono aggiunti anche il regista italo-turco Ferzan Ozpetek e il conduttore televisivo Fabio Fazio. In più sui siti di Repubblica e dell’Unità si sono aggiunti cittadini comuni da tutta Italia, che sono già decine di migliaia.
L’appello si rivolge alle forze politiche e chiede di dar vita a «un governo di alto profilo» in tempi brevi. «Mai, dal dopoguerra a oggi il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare». I dieci, ora dodici promotori fanno notare che dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi «per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato». Di fronte a questo risultato, fanno notare, «sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima». «Noi prosegue l’appello postato anche sui profili dei social network di alcuni firmatari chiediamo, nel nome della volontà popolare sortita dal voto del 24-25 febbraio, che questa speranza di cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi». I sottoscrittori sottolineano che questa richiesta viene fatta «gentilmente ma ad alta voce, senza avere alcun titolo istituzionale o politico per farlo, ma nella coscienza di interpretare il pensiero e le aspettative di una maggioranza vera, reale di italiani». La lettera-aperta ai parlamentari, dal centrosinistra al movimento Cinquestelle, evidentemente, anche se queste due forze politiche non vengono mai menzionate specificatamente, si limita a far notare che «questa maggioranza, fatta di cittadine e cittadini elettori che vogliono voltare pagina dopo vent’anni di scandali, di malapolitica, di sperperi, di prepotenze, di illegalità, di discredito dell’Italia nel mondo, chiede ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento, ai loro leader e ai loro portavoce, di impegnarsi fino allo stremo per riuscire a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo, alle speranze di cambiamento».
Sono migliaia i lettori del nostro sito (www.unita.it) che nelle ultime ventiquattr’ore sostengono l’appello e lasciano messaggi. Alcuni con personali appelli ai grillini come Genesio Nardoni, agrario che scrive: «Avete l'’ccasione di passare alla storia, avete ed abbiamo l’occasione di liberarci definitivamente di Berlusconi. Non pensate alle future carriere, forse non sarete mai più eletti».

l’Unità 12.3.13
Grillo sfida il Pd sui rimborsi Ma la sua lettera è un bluff
Il leader 5 Stelle pubblica la sua rinuncia ai soldi per i partiti
Ma la legge già prevede che non vengano assegnati a chi è privo di uno statuto democratico
di Andrea Carugati


Beppe Grillo lancia il guanto di sfida a Bersani sulla rinuncia ai rimborsi elettorali. Lo fa postando sul suo blog il fac simile di una lettera indirizzata al presidente della Camera con cui rinuncia ai 42 milioni previsti dalla legge per i 5 stelle per la legislatura 2013-2018. E prepara un analogo fa simile a nome del Pd, con in bianco la firma del segretario democratico. Su twitter poi lancia l’hashtag #BersaniFirmaQui, che in poche ore diventa un successo . «Al Pd spetta la quota più rilevante, 45 milioni», spiega Grillo. «Non è necessaria una legge, è sufficiente che Bersani dichiari su carta intestata, come abbiamo fatto noi, la volontà di rifiutare i rimborsi elettorali».
La reazione del leader Pd non è di chiusura: «Ma la discussione si deve legare alla trasparenza nei partiti». «Perchè un partito che non ha democrazia interna spiega Bersani può prendere il governo e trasferire la mancanza di democrazia dal partito al Paese». Il sindaco di Bari Emiliano, invece, sposa appieno la tesi grillina: «Se non firmiamo siamo finiti». La deputata Donata Lenzi rilancia la sfida al leader 5 stelle: «Lui rinuncia alla proprietà del simbolo. La democrazia è fatta di trasparenza e partecipazione dal basso, dia un segnale anche lui...».
In realtà, la lettera su carta intestata prodotta da Grillo è solo un artificio. Perché, in base alle leggi vigenti, i grillini non avrebbero diritto ai rimborsi neppure se li volessero. A meno che non si adeguassero, come previsto dalla nuova legge approvata la scorsa estate. La norma, infatti, prevede che, per ricevere i rimborsi, le forze politiche, entro 45 giorni dalle elezioni, si dotino di «un atto costitutivo e di uno statuto». «Lo statuto si legge all’articolo 5 deve essere conformato a princìpi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti». Come è noto, il «non statuto» dei 5 stelle, proprio per differenziarsi dai partiti normali, non risponde a questi requisiti. Non a caso, l’emendamento Udc della scorsa estate che legava i finanziamenti alla presenza di uno statuto democratico, era stato battezzato «anti Grillo». I setti punti del “non statuto”, infatti, indica che il contrassegno «5 stelle» è «registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso». «ll M5S non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro», si legge ancora. Inoltre, viene esclusa la «mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi».
Grillo, nel suo post di ieri, spiega che il movimento intende rinunciare anche ai contributi «per l’attività politica». Il riferimento sembra indicare i contributi per i gruppi di Camera e Senato. Un tema assai scivoloso, a dire il vero. Anche perchè alcuni onorevoli 5 stelle (come il campano Bartolomeo Pepe) ieri si sono già presentati alle Camere affiancati da aspiranti portaborse, per lo più amici. E sul tema dello spirito francescano le opinioni già divergono. Sommando le varie voci i parlamentari grillini dovrebbero arrivare a prendere circa 11mila euro netti al mese.
Non proprio una scelta rivoluzionaria. Dunque bisogna tagliare ancora. Ma non è facile. «Non possiamo vivere nelle case tutti insieme come studenti universitari», ha protestato qualche neo eletto. E così ieri il capogruppo al Senato Vito Crimi ha ammorbidito i toni: «Sulla diaria stiamo ragionando su quale sia l’impatto economico di un trasferimento a Roma, con gli affitti e quant’altro. Poi c'è la parte che riguarda i collaboratori, che non sono i portaborse, ma persone capaci che non saranno pagati 800 euro al mese». Inoltre, spiega ancora, «tratterremo solo cinquemila euro lordi, che corrispondono a 2500-2700 euro netti, ma un nostro commercialista sta valutando l'impatto fiscale, perché noi comunque riceveremo l'intera somma e su quella si pagano le tasse».
Dalla riunione di domenica all’Eur era uscita una direttiva: e cioè di non comunicare il proprio Iban agli uffici di Camera e Senato, in attesa di aver trovato una soluzione per la gestione degli stipendi. E tuttavia ieri alcuni neodeputati hanno disobbedito. Tanto che Crimi è dovuto intervenire: «Chi va fuori da quello che ha firmato a proposito del taglio delle indennità è fuori».

l’Unità 12.3.13
Ora Grillo punta a far restare Monti
Il movimento 5 Stelle attratto dal modello belga: Parlamento attivo senza un nuovo governo
Il capogruppo Crimi: «Meglio prorogare i tecnici. A noi la presidenza della Camera? Grazie»
di Andrea Carugati


ROMA Forse è solo uno dei tanti depistaggi di questi giorni, ma i grillini sembrano sempre più conquistati dal modello belga: e cioè un sistema parlamentare senza governo, o meglio, con un esecutivo in carica per l’ordinaria amministrazione. In Belgio, tra il 2010 e il 2011, dopo un risultato elettorale senza un vincitore chiaro, la situazione di impasse si è protratta per ben 541 giorni.
In Italia, naturalmente, toccherebbe al governo Monti, che resterà in carica fino al giuramento del nuovo esecutivo. «È sbagliato parlare di Italia senza governo. Con la prorogatio del governo Monti il Parlamento potrebbe comunque iniziare a legiferare su molti temi importanti, a partire dal taglio dei costi della politica», spiega a l’Unità il neo capogruppo al Senato Vito Crimi nel cortile del Senato. «Noi la fiducia in bianco al Pd non la daremo, ma se loro dimostrassero di fare sul serio su alcune leggi chiave potremmo iniziare un dialogo. Ma solo in Parlamento». «In Belgio sono andati avanti quasi due anni e ha funzionato alla grande», gli fa eco la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, anche lei arrivata a palazzo Madama per una riunione con i neo eletti. «Il Parlamento sarebbe perfettamente in grado di legiferare, ed è quello che noi intendiamo fare».
L’obiezione è immediata: ma in carica resterebbe Monti, che voi avete sempre avversato... «Solo per l’ordinaria amministrazione, senza alcun indirizzo politico», spiega Crimi. E se facesse per decreto una manovra correttiva? «Gliela rivolteremmo in Parlamento», assicura il grillino. Mentre Lombardi spiega che «in questi ultimi anni i governi sono andati avanti a botte di decreti e voti di fiducia, noi vogliamo portare una piacevole novità: rimettere il Parlamento, che esprime realmente la volontà popolare, al centro del sistema. Sono convinta che, di fronte all’approvazione di un pacchetto di leggi che diano un’idea nuova di Paese, anche i mercati apprezzerebbero. Quello che i mercati temono non è l’assenza di governo, ma la mancanza di progettualità».
Una linea, questa, che è stata già esposta nei giorni scorsi dal professor Paolo Becchi, docente di Filosofia del Diritto a Genova e assiduo collaboratore del blog di Grillo. Ieri è stata rilanciata con forza dai due capigruppo, proprio nel giorno del loro primo ingresso nelle Camere per la registrazione.
Naturalmente, è un’idea assai difficile da realizzare. Per una serie di ragione, prima tra tutte che la Costituzione prevede dopo l’insediamento del nuovo Parlamento le consultazioni al Quirinale per il nuovo governo, e fino a che un esecutivo non ottenga la fiducia.
L’idea dei grillini dunque è quella di partecipare alla consultazioni, nella speranza che alla fine, per evitare la paralisi, Pd e Pdl convergano su un governo tecnico o di larghe intese, lasciando a loro il ruolo di tuonante opposizione. E se qualche altra forza politica accettasse la loro prima proposta, e cioè l’incarico a una personalità indicata dai 5 stelle? «Magari ce cascano...», risponde Lombardi in romanesco. Lei e Crimi, intanto, ribadiscono la linea dura contro gli eventuali dissidenti. «Escludo categoricamente ogni appoggio al un governo Pd e se qualcuno deciderà di farlo è fuori dal Movimento», dice Lombardi. E le minacce di Grillo di ritirarsi? «Solo una provocazione delle sue. Lo conoscete, no?».
Quanto alle votazioni di domenica che hanno escluso ogni accordo col Pd, il deputato Andrea Cecconi spiega a Un giorno da pecora su Radio 2: «Abbiamo deciso all’unanimità». Ma, incalzato dai conduttori, non riesce a indicare la modalità di votazione. Grillo, dal canto suo, rilancia un post su Facebook del giudice Ferdinando Imposimato: «Gli 8 punti del Pd sono acqua calda, accettarli sarebbe un suicidio per i 5 stelle».
Il capogruppo al Senato parla anche delle trattative in corso per la guida delle due aule parlamentari. «Se vogliono darci una Camera, noi diciamo grazie», spiega. «Ci aspettiamo una vicepresidenza e un questore sia alla Camera che al Senato. Le regole sono contorte, sono fatte in modo che non ci tocchino, dovremmo fare degli accordi ma noi non li faremo. La sovranità popolare è stata espressa aggiunge e questo quindi è quello che ci aspettiamo».
Sulle vicende giudiziarie di Berluscono, i grillini si mostrano inflessibili: «Voteremo ovviamente sì a un’eventuale richiesta di arresto. E sì anche all’ineleggibilità di Berlusconi in quanto concessionario di servizio pubblico, se saremo in Giunta per le elezioni. E ci aspettiamo che anche altri votino in questo modo...». Dure anche le critiche al Pdl per gli attacchi continui alla magistratura: «Sono indegni», dice Crimi. «Dovrebbero avere maggior rispetto verso un potere dello Stato come quello giudiziario».

l’Unità 12.3.13
Riconoscere i nuovi conflitti senza gridare al populismo
di Franco Cassano


NON AMO IL POPULISMO, LA POLITICA PIENA DI SLOGAN DEMAGOGICI E IRREALIZZABILI, la tendenza a chiamarsi fuori scaricando sugli altri ogni responsabilità, istigando al linciaggio e additando dovunque nemici e complotti. Ma devo confessare che non amo neanche il continuo riferimento al pericolo populista costantemente agitato in molta stampa di sinistra, perché spesso mi sembra una comoda etichetta per catalogare ciò che non si riesce o si è rinunziato in partenza a capire. Parto da un esempio ricavato dall’amara esperienza della mia città. La Bridgestone ha comunicato di voler chiudere l’impianto di Bari con una videoconferenza durata quattro minuti, gettando nella disperazione mille operai, le loro famiglie e tutti coloro che vivono dell’indotto dell’azienda. Senza preavviso, dalla
sera alla mattina, ci si è trovati di fronte a un dramma di cui non s’intravvede una soluzione. Se l’incendio napoletano alla Città della Scienza è con ogni probabilità imputabile alla camorra e a interessi speculativi, lo scenario barese è del tutto diverso, perché all’origine del dramma non è l’economia criminale, ma il modo ordinario in cui il mondo oggi funziona: «È la globalizzazione, bellezza!», avrebbe detto il Marlowe di Chandler.
È difficile accettare un gesto, che è anche un crimine contro la nostra Costituzione. Ed è accaduto che il sindaco Emiliano abbia attaccato frontalmente il cinismo della decisione con cui è stato liquidato un impianto all’avanguardia le cui maestranze avevano dato sempre dimostrazione di grande senso di responsabilità. Il sindaco di Bari ha alzato i toni e sicuramente qualcuno avrà pensato: questo è populismo, ed Emiliano alza il tiro perché, pur sapendo che la soluzione del problema è difficilissima, mira ai voti degli operai. Ed è qui che s’incontra il problema del «populismo». Ma, di grazia, quali rimedi alternativi esistono a questo dramma sociale? E non è incredibile che, invece di denunciare il modo in cui funziona il nostro sistema globale, si accusi di populismo chi protesta solo perché non indica i mezzi per risolvere il problema? Siamo di fronte a un tipico caso in cui l’accusa di populismo rivela non solo la sua fragilità culturale, ma anche una base di classe. Fragilità culturale, perché, attaccando chi si confronta con problemi inediti e non contemplati dalle prassi istituzionali riconosciute, spesso essa finisce per occultare il vero problema, l’assenza di soluzioni. Di classe, perché in questa ostilità al populismo c’è anche il segno di una distanza protetta, che disconosce le rivendicazioni “populistiche” in quanto non sono riconosciute dal tradizionale galateo delle soluzioni istituzionali e richiederebbero una sua profonda trasformazione. Al posto
dell’innovazione prevale un’altezzosa paura.
Ma la tragedia, si sa, non conosce le buone maniere: sotto i colpi della crisi l’area delle figure sociali non protette marginali sta crescendo e i conflitti di cui esse sono portatrici non possono essere ignorati. È in questo spazio lasciato scoperto dal sistema istituzionale esistente che s’insinua la demagogia, l’agitazione irrazionale e strumentale, l’astuzia di leader abili e spregiudicati. Ma chi vuole disinnescare la demagogia deve imparare a riconoscere l’esistenza dei conflitti e lavorare a una risposta positiva ad essi. Sconfiggere la demagogia e il populismo è impossibile senza questo atto preliminare di riconoscimento dell’esistenza di conflitti diversi da quelli previsti dalla griglia istituzionale dominante.
Accanto al tema posto dal caso ricordato (come si risponde a un sistema che può chiudere una fabbrica senza essere sanzionato?) proviamo a metterne a fuoco almeno altri due. Il primo è la necessità di riconoscere l’aggravarsi di una frattura generazionale. È da tempo evidente che il sistema delle protezioni sociali nato dalle conquiste degli anni Settanta non può essere esteso universalisticamente alle generazioni più giovani, che si trovano di fronte a un mercato del lavoro, che, quando non li esclude del tutto, li costringe a forme di lavoro precario e non qualificato. La crescente marginalità del nostro Paese (e del Mezzogiorno al suo interno) nelle lavorazioni ad alto contenuto di conoscenza non fa che moltiplicare questa disparità generazionale. Non ci si può sorprendere se, nel momento in cui gli ammortizzatori del welfare familiare non riescono più a funzionare, sotto i colpi della crisi e della caduta di ogni speranza, questo disagio finisce per esplodere. In altre parole non ci si può sorprendere che la grande maggioranza dei giovani abbia scelto di votare per Grillo, lanciando un avvertimento.

l’Unità 12.3.13
Il movimento-marchio dopo il partito-azienda
Bene il confronto con Grillo Ma c’è una questione democratica irrisolta nell’organizzazione M5S
di Giovanni Pellegrino


IL TEMPO TRASCORSO DAL VOTO INDUCE AD UNA RIFLESSIONE PIÙ ATTENTA SUL CLAMOROSO successo di M5S, nella cui immediatezza da tanti ci è stato autorevolmente rammentato che ogni voto merita rispetto, che i risultati elettorali sono un fatto e che polemizzare con i fatti o non tenerne conto è inutile esercizio. Ciò è indubbiamente vero, ma non giustifica affatto che giudizi di valore espressi su una proposta politica e sulla formazione che l’ha formulata mutino in ragione del consenso, che quella proposta ha ricevuto dal corpo elettorale e quindi della rappresentanza numerica ottenuta in Parlamento.
Il programma del Movimento Cinque Stelle conteneva alcune proposte interessanti, tali valutabili anche prima del voto; ciò non toglie che nel suo insieme era assolutamente inaccettabile, perché velleitario, non praticabile e quindi scopertamente demagogico. Questo era vero prima del voto e resta vero ancora, perché su questo un giudizio di valore non può mutare, quale che sia stato l’esito elettorale e quali siano state le motivazioni o le ragioni che lo hanno determinato.
Ma vi è di più. Un giudizio di valore non può mutare e deve restare fermo soprattutto per ciò che riguarda la forma organizzativa di M5S, su cui forse non si è riflettuto e non si riflette abbastanza. La verità è che al peggio non vi è mai fine, se una democrazia come la nostra già lungamente provata dal formarsi al suo interno di un partito-azienda, conosce ora l’anomalia ancora più grave di un movimento-marchio.
Il Movimento Cinque Stelle è infatti questo: un marchio registrato oggetto di appartenenza individuale. Né potrebbe obiettarsi che si tratti di un dato meramente formale, perché gli effetti sostanziali che produce li stiamo constatando giorno dopo giorno in un difficile presente da quel dato fortemente condizionato.
Pure essendo quel marchio divenuto il simbolo di un vasto movimento di popolo, il titolare del marchio ne ha già inibito e minaccia ogni giorno di inibirne la utilizzazione a chiunque nel movimento sia tentato dal dissenso o provi ad accennare iniziative non gradite al padre-padrone, che è tale appunto perché padre del movimento e padrone del marchio.
Il Movimento Cinque Stelle è quindi un ossimoro, perché è contrario alla natura di un movimento che il suo simbolo sia un marchio oggetto di una non controllabile proprietà individuale; e cioè se è naturale in un movimento che uno vale uno, non è tollerabile nella sua logica che spetti ad uno solo parlare e decidere per tutti.
Fa bene quindi Bersani a dichiarare che con il partito-azienda una collaborazione di governo non è più pensabile, fallite le speranze in una sua graduale trasformazione in una destra costituzionale di tipo europeo; e insieme a sfidare Grillo e il suo movimento sui contenuti; ma sarebbe opportuno che la sfida investisse anche il modello organizzativo di una forza politica, che ha ottenuto una così vasta rappresentanza parlamentare.
Grillo, quindi, andrebbe sfidato a restituire al movimento, di cui è il capo politico, la natura propria e cioè la struttura assolutamente non verticistica che almeno in Europa i movimenti hanno sempre avuto. E il movimento va sfidato a divenire tale e cioè non un partito, ma un insieme di cittadine e di cittadini che intendono con metodo democratico concorrere a determinare la politica del Paese; chiedendo con forza al titolare del marchio che questo divenga ad ogni effetto un simbolo del movimento, in cui donne e uomini che lo compongono possano liberamente riconoscersi. Portare sino in fondo questa sfida è quindi opera meritoria, per chi abbia a cuore il destino della nostra democrazia.

La Stampa 12.3.13
La retromarcia di Dario Fo “Niente accordo con il Pd”
Il Nobel vicino al M5S: “Fanno troppe porcate”
Intervista di Maria Giulia Minetti


Grillo respinge le avance del Pd, minaccia di andarsene se il «suo» movimento apre ai democratici. Che ne pensa Dario Fo, amico del capo 5 Stelle, fautore, all’indomani del voto, di un accordo con Bersani? «Un momento, lì c’è stata una manipolazione dei giornalisti. A domanda: “Che ne pensa di un accordo Pd-grillini? ”, avevo risposto: “Ci devo pensar su, certo da qualche parte bisognerà arrivare…”. Ben diverso dal dire: “Bisogna fare l’accordo”».
Però da Lilli Gruber s’è lasciato andare. «So che ci sta», ha detto riferendosi a Grillo.
«Può darsi, magari l’emozione… Un eccesso di ottimismo…».
Be’, l’accordo non s’è fatto, comunque. E da che parte voglia andare Grillo, non si capisce.
«Non lo chieda a me. So le cose che sa lei. So che il Pd si ritrova con conflitti interni grandissimi, ma la vecchia guardia che ha fatto tanti casini resiste proterva. Un accordo con questi qui? Con chi per vent’anni ha rimandato il conflitto di interessi? No, è stata una porcata imperdonabile. Ed è solo una delle tante»
Per esempio?
«Ma basterebbe parlare di un fatto che pochi conoscono, l’inciucio dello Stato con gli impresari del gioco d’azzardo. Il giro d’affari è arrivato a limiti incredibili. Abbiamo uno Stato-croupier che porta via il denaro ai disperati. Ci sono stati, ai tempi di Franca (Rame, la moglie di Fo, senatrice dell’Idv nel secondo governo Prodi, ndr), gruppi che sostenevano: così non si può andare avanti. Ebbene, la maggioranza del Pd ha votato perché si andasse avanti! ».
Insomma, lei è arrivato alle stesse conclusioni di Grillo: con questa gente non ci si può mettere.
«Con che spirito vai a trattare con un partito che continua a non trovare niente da ridere sui cosiddetti “rimborsi spese”. Adesso c’è un contenzioso molto duro col fiorentino, che dice: ci dovete rinunciare! Tenendosi i soldi li portano via a dei poveri disgraziati, lo sanno, ma se li tengono lo stesso. » Ma la politica non è l’arte del compromesso?
«Se andiamo col compromesso, andiamo a rifare tutto daccapo. Troppa intransigenza? Ma è per mancanza di intransigenza che siamo arrivati a questo punto: leggi ad hoc, vendita di deputati a sei a sei, lei crede che quel 25 % di italiani che non ha votato l’ha fatto per pigrizia? No, per schifo! ».
I seguaci di Grillo dicono: Napolitano ci dia la possibilità di fare noi il governo. È d’accordo?
«Certo. Ma è possibile? Non lo so»
Se non fosse possibile?
«Si troverà un’altra soluzione. È una faccenda grossa e dunque chiede una soluzione grossa. Comunque, ci vuole una soluzione che non sia di buona volontà ma di intransigenza. Non si può più giocare. Basta con la ballata di prepotenze di Berlusconi. La responsabilità è di tutti i partiti che gli hanno permesso di arrivare fino a questo punto. “Tutti” i partiti».
C’è ancora una possibilità per il Pd d’essere credibile agli occhi del M5S?
«Se invece di reagire a Renzi, Fassina avesse detto: da domani il Pd rinuncia ai rimborsi integralmente... Se proponesse un taglio delle sovvenzioni alla scuola privata in favore di quella pubblica… Invece le proposte che ha fatto sono deboli. La proposta sul conflitto di interessi è piena di scappatoie… Ci vorrebbero promesse vere, sottoscritte davanti a un notaio, magari. Non mi fido del Pd. Come fai a fidarti di un partito dove spadroneggia ancora un furbastro come D’Alema? »
Di Renzi si fiderebbe?
«Non lo conosco abbastanza».

La Stampa 12.3.123
Grillo fa paura Il governo Pd-Pdl è un’ipotesi ancora in campo
di Marcello Sorgi


A due settimane dai risultati, sono le analisi sui flussi elettorali a spiegare chiaramente perché Grillo non potrà mai accettare di costruire un’alleanza con il Pd, e il tentativo di Bersani di formare un governo - a meno di un’improbabile scissione parlamentare del M5S - sia destinato al fallimento. Stando a quanto spiega, ad esempio, Luca Comodo dell’Istituto Ipsos sul Sole 24 Ore, Grillo ha attratto elettori di tutti i partiti, con un imprevisto successo, proprio nell’ultima settimana, tra quelli del Pd, ma senza disdegnare cittadini che nel 2008 avevano votato per il centrodestra. La «mancata vittoria» di Bersani e la «mancata sconfitta» di Berlusconi, cifre alla mano, sono merito del leader del Movimento 5 Stelle. Il quale adesso può puntare, in caso di elezioni a breve scadenza, a ottenere perfino un risultato migliore.
Un obiettivo a portata di mano. E se a sinistra ha già determinato un aggiustamento in senso radicale del leader del Pd, che considera in «libera uscita» una parte dei voti perduti e ritiene di poterli recuperare con una linea più movimentista, una grande prateria per il M5S potrebbe aprirsi a destra, specie se i guai giudiziari di Berlusconi dovessero rendere impossibile, o comunque precaria, un’eventuale sua ricandidatura nella prossima campagna elettorale.
Questo spazio sarebbe destinato ad allargarsi - a dispetto della svolta di piazza inaugurata dal Pdl - soprattutto se, in un modo o nell’altro, e per rinviare anche solo di qualche mese il ritorno alle urne, il centrodestra dovesse ritrovarsi a sostenere col centrosinistra un governo tecnico o di scopo, incaricato di svolgere gli adempimenti più urgenti prima di un ritorno alle urne. È un’eventualità, quest’ultima, che non si può escludere, seppure in presenza di un deterioramento dei rapporti tra partiti e schieramenti che dovrebbero collaborare a un’ulteriore soluzione di emergenza. I conti veri, infatti, non si possono fare oggi, mentre il fumo della propaganda è ancora alto e il rischio di nuove elezioni assai presente.
Occorrerà vedere cosa succederà dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, che recupererà in pieno i suoi poteri e sarà in grado di usare la leva dello scioglimento delle Camere che Napolitano oggi non ha più. Soprattutto per i neo-eletti, l’idea di ritrovarsi a spasso dopo solo due mesi in Parlamento, potrebbe non risultare così allettante.

Corriere 12.3.13
Scelte nell’urna e laburismo senza operai
di Dario Di Vico


E venne il giorno in cui si capì per bene che gli operai avevano snobbato il centro-sinistra di Pierluigi Bersani. Le analisi del voto suddivise per categorie socio-professionali elaborate negli ultimi giorni dall'osservatorio LaPolis (Ilvo Diamanti) e dall'Ipsos vanno, infatti, nella stessa direzione: la coalizione Pd-Sel è al terzo posto nel voto operaio dopo il Movimento 5 Stelle ma anche dopo il Pdl. Secondo i dati LaPolis Beppe Grillo ha preso addirittura il 40% dei consensi delle tute blu (per Ipsos si sarebbe fermato al 29%), il Pdl il 25,8% (24% per Ipsos) e il centro-sinistra 21,7 (20% secondo Ipsos).
Successo di Grillo a parte si può obiettare che non è la prima volta che il voto degli operai premia il centro-destra. Esiste un'ampia letteratura sull'abbinata tessera Fiom/scheda Lega e nelle tornate precedenti ogni qual volta Silvio Berlusconi ha prevalso nel risultato finale ha sempre ottenuto buonissime performance anche nelle fabbriche. In questo caso, però, la sorpresa è più viva perché il Pdl ha complessivamente perso una valanga di voti rispetto al 2008 e la coalizione Bersani si è caratterizzata nella campagna 2013 con un posizionamento di tipo laburista. La copertina del settimanale Left — che esce allegato all'Unità — con le effigi di Bersani, Camusso, Fassina, Orfini e la scritta «ecco chi sono quelli che Monti vuole silenziare», se vogliamo, è un piccolo documento del clima politico e della dialettica che si era creata nel periodo dei comizi.
Il rischio per il Pd è, però, che alla fine si sia rivelato un laburismo senza operai, la proposizione di una cultura politica «forte» scissa dalle dinamiche reali. «Invece di tentare di mettere insieme l'enciclica di Ratzinger e Mario Tronti — commenta lo storico Giuseppe Berta — Fassina avrebbe dovuto fare i conti con la realtà di tutti i giorni. Non è un caso che Vendola a Taranto abbia preso ben poca cosa. La verità è che si sta prospettando un centro-sinistra senza referenti sociali, tenuto su da un salvagente ideologico e dalla mobilitazione civile contro Berlusconi».
Eppure qualcuno aveva avvisato per tempo il gruppo dirigente di Bersani. Nel giugno del 2011 era stato proprio il Pd a commissionare alla Swg un'indagine «sulla condizione operaia in Italia», i cui risultati sono stati ben presto chiusi in un cassetto. Cosa diceva la ricerca? Che le tute blu si consideravano politicamente orfane e sindacalmente fredde e, se a quella data il 31% si riconosceva ancora nel centro-sinistra, la maggioranza relativa degli intervistati (il 42%) prendeva le distanze dalla politica in quanto tale e diceva di non sentirsi rappresentato da nessuno. Per dirla in breve, era già predisposta a incrociare un'offerta di voto antipolitico come quello del Movimento 5 Stelle. Commentava allora Roberto Weber: «C'è il pericolo che questo 42% sia l'anticamera di una vasta area di qualunquismo e un bacino di voti per aree politiche che hanno da condividere ben poco con la classe operaia».
Come è andata a finire adesso lo sappiamo. Sostiene Giuliano Cazzola, ex sindacalista Cgil e candidato nella Lista Monti: «La novità è forte. L'accoppiata Camusso-Vendola attira i voti degli attori, dei registi, del pubblico impiego e dei ceti intellettuali urbani e invece il voto operaio premia quelli che l'Economist chiama i due clown». Ma la ragione dei consensi a Grillo tra le tute blu, secondo il sociologo Paolo Feltrin, non sta solo nell'ideologismo del Pd bensì nella contestazione delle due riforme Fornero, pensioni e lavoro. «Il messaggio che è arrivato a un capo-famiglia medio è stato: tu andrai in pensione più tardi e tuo figlio resterà disoccupato più a lungo». E mentre il Cavaliere comunque in campagna elettorale si è smarcato e ha promesso di togliere l'Imu, al Pd è rimasto in mano il cerino della «responsabilità europea». Che evidentemente in fabbrica non suscita grandi applausi.

Corriere 12.3.13
Paolo Gentiloni
«Inutili le serenate ai 5 stelle Sì al governo del presidente»
di Monica Guerzoni


ROMA — «Difficilmente l'approdo sarà un governo di intesa tra Bersani e Cinquestelle».
Il tentativo del segretario del Pd è destinato a fallire, onorevole Paolo Gentiloni?
«Per capire come la pensano basta collegarsi al sito internet www.beppegrillo.it... Non mi pare ci siano grandi incertezze, le risposte sprezzanti si sprecano».
Cosa dovrebbe fare Bersani, gettare la spugna?
«Il suo tentativo è legittimo e persino doveroso. Ma a me sembra che il segretario, con il sostegno che ha avuto dalla direzione del Pd, stia sviluppando una iniziativa politica più che cercando di dare soluzione al rebus del governo».
Una iniziativa politica che non andrà a buon fine?
«Una sfida, per dire in sostanza a Grillo che quando tu prendi otto milioni di voti non puoi solo festeggiare e tenerli in congelatore, ma hai delle responsabilità. Ma se continuiamo a presentarlo come un approdo di governo, finisce che nessuno ci capisce più nulla».
Sbaglia Bersani a inseguire Grillo?
«Non mi pare che lo insegua, il Pd non può passare quindici giorni sotto il balcone di Grillo cantando la serenata. La nostra è una iniziativa politica, anche se io ho capito benissimo che non se ne parla di un governo tra Bersani e Grillo».
L'alternativa qual è, tornare al voto?
«Noi ci siamo battuti nel Pd e alla fine è prevalsa l'impostazione che esclude il prendere o lasciare. Niente ultimatum. Già nella direzione Bersani ha detto che se l'iniziativa non avrà successo la parola passerà al presidente della Repubblica e non agli elettori».
Il suo piano B?
«Se smettiamo di guardare al Palazzo e ci rivolgiamo al Paese vediamo che ci sono problemi enormi e che la necessità di un governo è evidente. Dobbiamo fare ogni sforzo possibile per facilitare a Napolitano un compito che ha margini strettissimi, visto anche che il capo dello Stato ha un mandato di soli due mesi».
Pensa a un governo tecnico?
«Escludendo una coalizione politica con Berlusconi, l'unica possibilità è un governo del presidente che abbia quattro o cinque obiettivi, tra cui una legge elettorale decente. Spero che qualcosa si muova anche nel Pdl. Trovo stupefacente che non ci sia stata, tra chi invoca responsabilità, alcuna differenziazione sul caso De Gregorio».
Se si torna a votare Renzi sarà il vostro candidato premier?
«Nessuno di noi vuole aprire rese dei conti interne. Subito dopo la chiusura della fase attuale, che Bersani sta guidando, si dovrà avviare una riflessione e un cambio. Sul piano politico Renzi ha ottime chance, le sue battaglie sono le carte giuste per provare a vincere».

Repubblica 12.3.13
Celentano: la mossa storica di Bersani per conquistare i grillini
Dica sì a una parte del programma 5 Stelle
di Adriano Celentano

CARO Direttore, in questi giorni non si parla che del confronto Bersani-Grillo, e ogni giorno sembra un anno da quel lontano 24 febbraio 2013, in cui l'uragano-Grillo si è abbattuto come una furia sull'Italia elettorale. Quell'Italia che non voleva cambiare, sempre con lo stesso abito grigio, ormai sfilacciato e pieno di macchie, piccole e grandi, alcune con dei grossi buchi al centro dove nessun rammendo è possibile. E sono proprio queste le macchie peggiori, che per 'non dimenticare', come si dice per l'Olocausto, vengono catalogate sotto la dicitura di 'FALSO benessere', in nome del quale ci si è potuti accanire e stravolgere, il 'bel sembiante' dell'Italia che fu. Sembrano passati anni e invece siamo a poco più di due settimane dal meteoritico voto. Il pericolo più imminente dello stallo Grillo-Bersani è che tutto possa invecchiare di colpo, compresi i vari 'trionfi'.
I punti sui quali ragionare non sono poi tanti. Ed è forse questo il problema. È come se ad un tratto il Paese fosse imprigionato da due o più alternative contrarie, ed entrambe possibili. Un dilemma dal quale cominciano a spuntare ipotesi di un possibile governo al di fuori dei contendenti, come ad esempio quello lanciato da 'Servizio pubblico': «Si tratta di un governo ideale - annuncia Santoro, ma premette - naturalmente senza Bersani». Ora, con tutto il rispetto per le persone scelte, impeccabili direi, a partire da Rodotà, che stimo molto, al grande Carlin Petrini, alla Gabanelli, tutte persone validissime certo, ma io continuo a credere che il leader debba essere Bersani con il SUO governo. Se non altro perché, fra quelli che sono arrivati primi e non hanno vinto, lui è quello che è arrivato più PRIMO degli altri. Però, c'è un però: Grillo non fa che ripetere (e insultare) che lui non darà la fiducia a nessun partito. E sotto un certo profilo può anche essere giusto, come è giusto e sarebbe saggio secondo me che anche tu, 'amico parlante' sarebbe ora che cominciassi a cambiare registro ai tuoi toni: fregatene se gli altri ti insultano e inventano società che non esistono e, anche se fosse, te le saresti guadagnate col tuo lavoro. Chi ti ha votato conosce bene il gioco meschino dei POTERI forti quando vengono disturbati. Ma la cosa che più di tutti preoccupa in questo momento è un'altra. Pare che Bersani non abbia scelta: «Se Grillo
non accetterà il confronto non ci rimane che tornare alle urne, poiché neanche a parlarne accetterei di allearmi con il terzo vincitore, Berlusconi ». E allora?
Poche sere fa, l'affascinante Lilli Gruber ha chiesto a Bersani: «Se ci fosse Grillo qui davanti a lei, cosa gli direbbe? ». Bersani l'ha guardata, e abbozzando un sorriso ha sentenziato: «Gli direi... dimmi!». Ecco il punto. Caro
Pierluigi, è più probabile che Grillo smetta di insultarti piuttosto che dirti quello che tu vorresti sentirti dire. Io, invece, ti dico qualcosa: sono fermamente convinto che nessuno meglio di te, può cavalcare il vento di queste ore. Devi però ammettere che è in atto un forte cambiamento e l'artefice di questo cambiamento è Grillo. Anche tu lo riconosci e dici che a questo punto la priorità assoluta, prima ancora
dei partiti, è il bene del Paese e io ci credo. E se è il caso, dici anche che non ci penseresti due volte a cedere il posto a qualcun altro. Ma sarebbe un ER-RORE. Perché solo tu puoi fare la MOSSA giusta. La mossa che i tempi di questo grande momento ti chiedono. Che sono poi gli stessi che hanno chiesto al Papa l'urgenza di una SCOSSA per la chiesa degli scandali mentre un METEORITE si abbatteva sulla Russia.
Una mossa la tua, che indurrebbe i 'grillini' a chiedere al loro fondatore per quale motivo non dovrebbero accettare una proposta che non possono rifiutare. Per cui se davvero vuoi evitare agli italiani un altro tormento alle urne, con chissà quali conseguenze, non solo per il tuo partito ma temo anche per lo stesso Grillo, ben lontano secondo me da quel 100% che dovrebbe essere lui il primo a non ambire di ottenere (ma si sa che a volte può succedere di dire cose che non pensiamo).
Mentre questo non sarebbe il caso che ti riguarda, poiché il tuo pensiero, come dici, è rivolto alla soluzione meno peggiore per gli italiani. Ma se è così allora sii tu a dare la FIDUCIA a Grillo. Non nel significato che la parola assume quando per esempio un governo chiede alle camere il voto di fiducia. Ma in un patto tra te e Grillo di fronte agli italiani dove si dice che: «Io, Pierluigi Bersani sarò il PREMIER che accetta tutti i punti del tuo programma che entrambi riteniamo fondamentali per il bene dell’Italia e sono
pronto a discutere anche su quelli che sono in totale contrasto con il mio modo di pensare». Sarebbe una 'mossa' STORICA che permetterebbe al Paese di approvare le riforme più urgenti e incamminarsi davvero sulla via del CAMBIAMENTO. Almeno fino a quando l'idillio fra te e Grillo reggerà.
Sarebbe un gesto così innovativo, che pur sul nascere di un eventuale disaccordo, potrebbe dar luogo a un vero e proprio dibattito DEMOCRATI-CO, dove anche nei momenti di maggior contrasto potrebbe non mancare quel punto di 'strana convergenza' che è tipica dell'italiano saggio. Quando hai presentato il piano A hai detto che non ci sarebbe stato un piano B e francamente anch'io l'ho pensato. Quello che ti ho appena prospettato è certamente fuori da ogni tipo di continuità. Poiché non è neanche un piano C. Ma un piano Z. Poiché è esattamente dalla fine che si ricomincia.

Repubblica 12.3.13
“Facciamolo!” e “Patto per cambiare” a quota 80mila firme su Repubblica.it


ROMA — Ha raggiunto 50mila firme l’appello di Barbara Spinelli, Remo Bodei, Salvatore Settis e altri intellettuali per chiedere al Movimento 5 stelle di non chiudere la porta a un governo che possa fare subito delle cose urgenti per il Paese: una legge sul conflitto di interessi, il dimezzamento dei parlamentari, nuove norme contro la corruzione. A quota 30mila invece l’appello lanciato domenica da Michele Serra, e firmato da Roberto Benigni, don Luigi Ciotti, Oscar Farinetti, don Andrea Gallo, Lorenzo Jovanotti, Carlo Petrini, Roberto Saviano, Ferzan Ozpetek, Fabio Fazio. Dice solo «facciamolo »: «un governo di alto profilo» che realizzi il cambiamento. Sarebbe grave e triste che quest’occasione venisse tradita».

Repubblica 12.3.13
Grillo e Casaleggio non vogliono realizzare il programma, ma tenere alto il polverone finché è possibile così si coprono le magagne
“Un movimento di destra che usa slogan di sinistra ma la colpa è del Pd”
I Wu Ming: troppi sì al liberismo
di Giovanni Egidio


BOLOGNA — I Wu Ming, collettivo di scrittori bolognesi (“Q” fu il loro romanzo storico d’esordio e di inaspettato successo), sono da tempo duramente critici nei confronti del fenomeno Grillo. Al punto di aver scomodato termini come “criptofascismo” e analisi che hanno bollato come “destra” la natura “né di destra, né di sinistra” con cui Grillo e Casaleggio definiscono il Movimento. «Nella storia d’Italia — spiegano — dalla palude del “né di destra né di sinistra” sono usciti vapori che il vento ha sempre portato a destra. Di destra — e addirittura totalitaria — è l’idea di futuro espressa nel video di Casaleggio Gaia, il futuro della politica.
Di destra sono certe posizioni sugli immigrati. Di destra — ex-leghista, ex-berlusconiano, ex-neofascista, e il prefisso «ex» lo usiamo con le pinze — è circa il 40% del voto preso alle politiche. A Bologna, secondo l’Istituto Cattaneo, il 12% del voto grillino proviene dalla destra radicale. A Torino è il 10%. Questi elementi di destra finora sono rimasti coperti da un manto di confusionismo: dire “né destra, né sinistra” serve a
questo, ecco perché diciamo che nel M5S c’è del “criptofascismo”, del fascismo nascosto. Ma la macchina grillina cattura e semplifica anche elementi e parole d’ordine di sinistra, e conquista voto di sinistra. Qui sta la contraddizione principale, il grosso nodo che dovrà venire al pettine: molte persone di sinistra hanno votato una forza sostanzialmente di destra. Ma se l’hanno fatto ci sono precise ragioni, e c’è chi ha precise colpe».
Se elettori di sinistra votano “sostanzialmente a destra” di chi sarebbe la colpa?
«Della sinistra ufficiale, che per decenni ha pensato di doversi “spostare al centro”, alla conquista dei voti “moderati”. In nome di questa strategia ha rinunciato anche
agli ultimissimi residui di alterità, ha smesso di definirsi sinistra a favore del nomignolo “centrosinistra”, ha detto sì a ogni sorta di nefandezza in nome di una presunta “modernizzazione”. Si è adagiata nella subalternità all’ideologia liberista, cantando le lodi del mercato, del privato, della “sussidiarietà”. Ha boicottato e combattuto movimenti sociali che si opponevano a privatizzazioni, speculazioni e scempi ambientali. Quando ha governato, ci ha dato leggi come il Pacchetto Treu e i campi di prigionia per i clandestini. Finché, un bel giorno, non abbiamo scoperto che il “centro” non contava nulla, anzi, non c’era proprio! Quanto ai voti “moderati”, di che stiamo parlando? Un terzo degli elettori continua a votare per anticomunismo anche in assenza di comunisti. Siamo un paese estremo, altro che moderato. Il centrosinistra ha gravi colpe ma non ha mai pagato dazio, perché “di là” c’era Berlusconi e poteva presentarsi come “male minore”. A forza d’iniettarsi dosi di male dicendosi che era “minore”, una parte di elettorato non ne ha potuto più, e ha deciso di cambiare spacciatore e sostanza».
Grillo ripete spesso che se non ci fosse lui ci sarebbe Alba Dorata.
«Sì, Grillo fa sempre l’esempio dei nazisti greci di Alba Dorata, ammettendo così di incanalare anche pulsioni nazistoidi. Ma alle elezioni greche del 2012, la vera novità è stata Syriza, la coalizione della sinistra radicale che ha conquistato 77 seggi su 300. Lui si sceglie il babau che gli fa più comodo, ma in Europa negli ultimi anni si è mosso ben altro, dai grandi scioperi francesi contro la riforma delle pensioni di Sarkozy alla marea umana anti-Trojka che una settimana fa ha riempito le città portoghesi, passando per il movimento di massa nato dalle acampadas che in Spagna impedisce sfratti e pignoramenti di case. Grillo ha intercettato e “prevenuto” solo fenomeni tipo Alba Dorata, o ha anche prevenuto esperienze di questo genere?»
Il movimento di protesta più radicale in Italia in questi anni è senza dubbio il No Tav. E Grillo lo ha intercettato in pieno.
«Infatti sarebbe bene analizzare il rapporto tra il M5S e i movimenti ai quali offre rappresentanza, appunto come quello No Tav. Quei movimenti potrebbero accorgersi presto che Grillo offre una rappresentanza esibita ma infeconda. L’interesse principale di Grillo & Casaleggio non è realizzare il programma, che è un geyser di richieste contraddittorie spruzzate qua e là. Gli interessa di più prolungare lo scompiglio e tenere alto il polverone finché è possibile, perché il polverone copre le magagne e rinvia l’arrivo dei nodi al pettine».
E secondo voi fino a quando riusciranno a rinviarlo?
«Non lo sappiamo. Grillo e Casaleggio hanno i capelli lunghi. Comunque, noi tifiamo per il pettine»

il Fatto 12.3.13
Terzi rende piccola l’Italia: “I due marò resteranno qui”
di Giampiero Gramaglia


L’ANNUNCIO A SORPRESA DEL MINISTRO DEGLI ESTERI: I MILITARI NON TORNERANNO IN INDIA. GELIDO IL COMMENTO DI NUOVA DELHI: “MEGLIO NON REAGIRE ORA”

La linea d’onore del rispetto della parola data si rivela un’italica maginot: crolla al primo soffio, come le case di Timmy e Tommy. L’Italia decide di tenersi i marò e di non rimandarli in India, dopo la ‘licenza elettorale’ generosamente e - diciamolo pure - un po’ incomprensibilmente concessa loro il 22 febbraio per quattro settimane dalla magistratura indiana.
IL GOVERNO italiano ce l’aveva fatta, a non sbracare, per la prima licenza a fine anno, quando i marò tornarono a casa per Natale e Capodanno. Eppure, allora c’era chi, come l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa, li voleva candidare, nella caccia senza vergogna a un pugno di voti nazionalisti (e, francamente, fascisti). Stavolta, l’opinione pubblica quasi non s’era accorta del ritorno in patria di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che non avevano più avuto diritto al valzer d’onore delle massime autorità, presidente della Repubblica, premier, ministri. Anche per questo, la decisione di sottrarsi all’impegno preso con le autorità indiane appare ancor più gratuita e assurda.
Il ministro degli esteri Giulio Terzi dà l’annuncio a sorpresa e spiega che l’Italia agisce così perché l’India viola le norme internazionali, non accettando che i due marò siano giudicati qui da noi. E, nell’attesa che un arbitrato risolva la controversia, i due militari restano in patria. E, nell’attesa d’essere giudicati, tornano a lavorare. Terzi inoltra una nota verbale al governo indiano, che evita commenti a caldo: Salman Kurshid, ministro degli esteri, dimostra tutta la saggezza d’un Paese dalla diplomazia millenaria dicendo che “non sarebbe bene reagire ora", “attendiamo gli sviluppi”.
Ma è facile immaginare che il voltafaccia non migliorerà le relazioni dell’Italia con l’India, già turbate, sul piano economico e commerciale, dalle rivelazioni sulle pratiche di corruzione della Finmeccanica per piazzare gli elicotteri Agusta-Westland. E allora resta difficile capire perché e perché ora: per puntiglio giuridico?, o per ripicca, dopo che l’India ha ricusato i nostri elicotteri?, o perché un governo agli sgoccioli toglie una castagna dal fuoco a quello che verrà? Tutte solo ipotesi.
Girone e Latorre dicono all’unisono: “Siamo felici di tornare a fare il nostro mestiere”. E, in tutto questo, nessuno, neppure loro, neanche questa volta, si ricorda di dire una parola di consolazione e di vicinanza ai familiari dei due pescatori indiani morti ammazzati il 15 febbraio 2012. Quella notte, i due fucilieri di Marina in servizio antipirateria sulla nave commerciale Enrica Lexie spararono contro un peschereccio, scambiandolo per un’imbarcazione di pirati e uccidendo due pescatori: l’episodio avvenne in acque internazionali, al largo di Kochi, nello Stato del Kerala (Sud-Ovest dell’India). I due marò, che sostengono di avere tirato to solo colpi di avvertimento in aria, furono fermati il 19, dopo che la nave era entrata come se nulla fosse accaduto nel porto di Kochi. Condotti a terra, Girone e La-torre iniziarono il loro controverso viaggio nel sistema giudiziario indiano. Che, oggi, s’è bruscamente interrotto, fra i commenti di giubilo della destra: il solito La Russa e i suoi sodali Crosetto e Meloni commentano un “meglio tardi che mai”; la Polverini plaude; e il ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo De Palma, un ‘tecnico’, come l’ambasciatore Terzi, li giudica “abili al servizio”.
INTENDIAMOCI, sul piano del diritto internazionale molti giuristi avvalorano la richiesta italiana d’estradare e processare i due marò, essendo il fatto avvenuto in acque internazionali. Ed è indubbio che la giustizia indiana, specie quella statale, non abbia proprio bruciato i tempi del giudizio (ma non è che noi possiamo dare lezione, in fatto di rapidità della giustizia). Proviamo piuttosto a pensare che cosa avremmo detto, e che cosa avremmo fatto, a parti invertite: prima, se due militari di un Paese terzo avessero ucciso nel Mediterraneo due pescatori italiani; e, poi, se il Paese terzo avesse preteso di riprenderseli e processarli in proprio; e, infine, se avesse fatto marameo alla nostra giustizia, tradendo la parola data. Fuoco e fiamme, avremmo fatto.

il Fatto 12.3.13
Dario Fo
Fate sposare i preti e la pedofilia morirà
di Angela Camuso


Il Premio Nobel per la letteratura Dario Fo interviene sul tema pedofilia nel clero a colloquio con Angela Camuso, autrice del libro “La preda, confessioni di una vittima: Storia vera del più grande scandalo della Chiesa tra Fede e omertà”. Fo è autore della prefazione del libro, edito da Castelvecchi.
I seguaci di Gesù erano, più o meno tutti, sposati, avevano donne o storie, così come lo stesso Gesù. Tutta la fatica fatta dalla Chiesa per cercare di togliergli di torno donne! Gesù era uno che secondo i vangeli apocrifi aveva più di una donna! E la Maddalena nella tradizione popolare è stata sempre guardata come la donna di Gesù... Per questo, sotto la piaga della pedofilia c’è la grande testardaggine della Chiesa, che ha paura di cambiare registro”.
Dunque secondo lei c’è uno stretto legame tra celibato dei preti e pedofilia nella Chiesa?
La prima causa di questa situazione è come vengono educati e portati in un ambiente orribile i seminaristi, tenuti in una condizione di soggezione.
Illustri storici del cattolicesimo, come Gary Wills, evidenziano il meccanismo perverso che porta alla colpevolizzazione della vittima del prete-violentatore. La colpevolizzazione è in primo luogo quella della vittima verso se stessa...
Il furbesco è che loro prendono la religione e la inseriscono in questo atto. Lo fanno diventare come logico. La tecnica è che danno l’impressione che stanno soffrendo loro, non te. ‘Perché tu mi affascini – vogliono dire – dentro il demonio ce l’hai tu! ’. La pedofilia è legata a un’educazione che risale all’alto medioevo e soprattutto ai romani. C’erano i bambini prostituti al tempo di Roma! In Arabia Saudita dappertutto ci sono bambini che si prostituiscono. In Iran, in Iraq e via dicendo. C’è tutta una tradizione che è legata al mondo arabo. Da noi, naturalmente, è portata avanti perché prendersela col bambino che non ha difesa, soprattutto che si sente peccatore con il prete che è il corruttore, porta meno preoccupazioni di farsi un amante, che è una faccenda molto più complessa, perché se fai un figlio devi pure mantenerlo.
Quindi?
Tornando a monte, fin quando i preti non diventeranno persone normali... perché il fuori norma non è soltanto il modo di camminare, mangiare, bere, parlare con la gente ed essere spiritoso... Poi si dice il diavolo! Ma quale diavolo! È il tuo bisogno naturale! Da ragazzo mi è capitato di accompagnare un mio amico in una di queste scuole per giovani preti, il seminario. E io lì vedevo e sentivo che c’era una costrizione verso di loro. Erano fuori della norma! Era il clima, le mura, l’aria, gli spazi. Addirittura l’architettura. Si vedeva nel loro modo di fare, di scherzare, non aveva niente della strada! Io avevo gli spazi davanti al lago dove si correva, si scherzava, a volte ci si dava anche alla violenza, c’erano le lotte... Ma tra questo modo di vivere e l’altro, c’era qualcosa di sensibilmente diverso. Inaccettabile. Già il fatto di non avere una donna! In un essere umano che è stato creato per avere tutte le attenzioni per l’altro sesso: momenti di gioia, di riso, la danza! Pensa, tu, prete, non puoi danzare. Magari di nascosto, tac, danzano! Nel primo cristianesimo c’era la danza!
Invece adesso?
Io ho scoperto la grande differenza tra la Chiesa primitiva e quella di oggi. L’ironia e il grottesco nella Chiesa primitiva erano molto vivi. Adesso noi qui parliamo di questo fatto particolare dei bambini. Ma era legato a questo il problema del prete che ha un amante. Io mi ricordo nel paese dove vivevo, abitavo vicino al lago, c’era il prete di casa che aveva un negozio dove c’era dentro una donna, ancora giovane, devo dire... il prete veniva a trovarla girando di dietro. Ed era la sua amante, in paese tutti lo sapevano. Ma davanti a un fatto che avesse una donna tutti pensavano: è uno sfogo naturale, vuol dire che sarà più umano verso di noi.
Tra le difficoltà ad affrontare radicalmente la questione pedofilia da parte della Chiesa c’è il concetto del perdono. Cristo, e dunque il sacerdote che lo rappresenta in terra, perdona anche i peggiori criminali e dunque se pentiti in pratica vanno perdonati anche i preti pedofili.
Di qui il fatto che i vescovi non possono essere obbligati a denunciare.
C’è anche questo. Nel 1200 c’è quest’invenzione del purgatorio, che arricchisce terribilmente la Chiesa, la quale si inventa dei riti appositi per poter liberare le anime dal purgatorio e farle arrivare poi in cielo. Nel 1200 ormai si era deciso che i preti non avessero mogli e amanti, con tutto quello che poi succedeva, lo sappiamo, con i papi che comunque avevano figli, avevano amanti... Talvolta c’erano delle scene terribili tra cardinali vescovi, vescovi e cardinali che se le portavano via l’un con l’altro. Nel 1000 il vescovo di Milano ha moglie e figli e c’erano preti che avevano famiglia. C’è un pezzo di Ruzzante (drammaturgo del 1500, ndr) che a un certo punto fa questa preghiera a un cardinale vero: “L’unica soluzione è che i preti si devono sposare, non si possono sposare: devono! Perché così avremo la possibilità, prima di tutto, non solo di avere un bastardo in casa nostra che dobbiamo allevare perché il prete ha messo incinta nostra moglie o la nostra figliola, ma anche noi potremo godere della sua moglie e rendere cornuto lui. Così sarà un uomo, perché avrà la possibilità di provare tutti i livelli della condizione del maschio.

La Stampa 12.3.13
Li chiamano «Neet», ormai sono il 22 per cento dei ragazzi con meno di 29 anni
Né studio, né lavoro: ecco i giovani senza desideri
di Niccolò Zancan


Stanno seduti su due piloni gialli spartitraffico, davanti all’ingresso di un grande centro commerciale. Vicini. In silenzio. Non sembrano arrabbiati. Nulla li accende. Se proprio si tratta di esprimere un desiderio per il futuro, qualcosa di futile e grandioso, lui dice: «Un’Alfa Giulietta e un viaggio a Miami». Lei ci pensa tre minuti buoni: «Anche io vorrei un’auto - racconta - ma non ho desideri speciali. Non mi piace illudermi. Vorrei solo un posto da segretaria. Ottocento euro al mese. Magari il sabato sera andare a mangiare la pizza». Per le statistiche dell’Istat, Vittoria e Nicola sono due giovani «Neet» (Not in Education, Employment or Training). Come il 22,7% dei ragazzi e delle ragazze fra i 15 e i 29 anni. Non studiano e non lavorano, impantanati dentro a una palude di sfiducia. A guardarli sotto la luce nera di un temporale, sembrano soprattutto due giovani italiani a cui qualcuno ha cavato la speranza dagli occhi.
Rispondono a monosillabi. Gentili, educati. Sono in guerra e lo sanno, ma la combattono da questa strana trincea a bassa intensità emotiva. «Non posso permettermi di esternare troppo - dice lei - mio padre è in cassa integrazione da tre anni. È molto giù, non parla, il che è anche peggio». Unico regalo ricevuto a Natale: 50 euro dalla nonna. Vittoria La Braca, 20 anni, ha studiato contabilità in un istituto tecnico. Ha un solo lavoro da mettere in curriculum: «Tre mesi di stage in un studio legale, organizzati dalla mia scuola». Si alza alle 8 del mattino, accompagna il fratello Simone in classe, va al mercato, cucina con la mamma casalinga e aspetta il pomeriggio. Abita in zona Lingotto, periferia sud. «Con Nicola ci vediamo in un centro commerciale oppure in centro città». Stanno insieme, sono fidanzati. Anche se lo dicono con un’indecifrabile timidezza, che sembra connessa al senso del poi. Loro al momento non hanno un futuro contemplabile. In compenso hanno capelli ben curati, tagliati da amici. Vestiti normali alla moda. In tasca, telefonini comprati scontatissimi su Ebay. Hanno questa storia che li tiene insieme nell’incertezza. Ma nessun piano, se non aspettare: «È colpa del sistema. Nessuno ci ascolta».
Nicola Pillo, 23 anni, ha sempre voluto diventare un informatico. È appassionato di computer da quando aveva sei anni: «Ho studiato in un istituto tecnico. Ci so fare: hardware e software. Ho mandato centinaia di curriculum, sono andato a bussare ovunque. Ma niente. Non ho ricevuto neppure una risposta. Ho trovato solo due lavori di altro genere. Un mese e mezzo di pulizie alla Fiat, l’estate di tre anni fa. Poi tre mesi di stage alla Confesercenti nel 2009». Da allora, nulla. Solo piccole cose in nero, del tipo: «Il mio computer si è beccato un virus... Puoi aiutarmi? ». Nicola dice di spendere 40 euro alla settimana. «Sigarette più birra media il sabato sera. Ma ai miei non chiedo niente». La sua famiglia è originaria di Foggia. Lui è il più grande di tre figli. Stanno tutti sulle spalle del padre, un poliziotto in pensione. «Papà mi sprona. Dice di provare ancora. Ma io ho un po’ smesso di sperare, lo ammetto. La situazione è troppo deprimente. Certe volte penso che andrò a cercare fortuna in Germania, anche se i miei genitori non sono molto d’accordo». Nicola votava Berlusconi, ma ha scelto Grillo: «Spero che si occupi di lavoro». Vittoria, invece, è andata a votare per la prima volta in vita sua: «Monti. Perché ci ha salvato dal tracollo. Ma ormai non mi interessano più le chiacchiere. L’unica domanda che conta a questo punto é: quanto tempo ancora ci vuole per uscire da questa situazione? ». Si difendono dalla crisi come da un temporale. Magari lungo e cattivo. Ma qualcosa di esterno. «Però sappiamo bene che non possiamo andare avanti così in eterno». Se questa notte trovassero 5 mila euro sotto il cuscino, Nicola li metterebbe in banca. Vittoria invece ne darebbe la metà al padre cassaintegrato: «E poi mi aprirei un conto». Eccoli, due «Neet» sotto al diluvio. Non hanno anatemi da lanciare. Neppure cercano consigli. «Un giorno mi piacerebbe avere una famiglia», dice lui. Vittoria lo guarda: «Prima di tutto io voglio un lavoro. Essere autonoma. È da quando ho sei anni che sogno di diventare una segretaria».

il Fatto 12.3.13
Ungheria, sì del Parlamento alla Costituzione “fascista”


Il Parlamento ungherese ha approvato ieri pomeriggio la riforma della Costituzione voluta dal governo conservatore di Viktor Orban. Con 265 sì, 11 no e 33 astensioni sono passati le modifiche ai 22 articoli che hanno provocato diversi richiami dall’Unione europea e proteste popolari contro le limitazioni delle libertà civili e dei poteri della Corte costituzionale, che aveva fino a ora respinto gli emendamenti introdotti dal partito conservatore. La riforma, che è stata fortemente criticata anche dagli Stati Uniti, assegna più poteri al governo sull’istruzione superiore, diritto di famiglia e magistratura, limita i poteri della campagna elettorale dei partiti politici prima delle elezioni e introduce sazioni e pene carcerarie per i senzatetto che dormono per strada. Il Consiglio d’Europa aveva invece chiesto di far slittare il voto perchè i suoi giuristi potessero esaminare a fondo il testo della controversa riforma. In una lettera ai ministri degli esteri dei Paesi Ue la scorsa settimana, il capo della diplomazia di Budapest Janos Martoniy, ha liquidato le critiche sostenendo che si tratta del frutto di “malintesi e informazioni non adeguate” e assicurando la “disponibilità al dialogo” del suo governo.

l’Unità 12.3.13
Ungheria, Orban sfida l’Europa
Approvate le modifiche costituzionali anti-democratiche a dispetto dei richiami Ue
di U. D. G.


Hanno disertato il voto per protestare contro il «golpe bianco». Hanno lanciato un appello accorato all’Europa, ai democratici perché aggiungano la loro voce a quella dell’«altra Ungheria» che non si arrende alla «dittatura della maggioranza». Il Parlamento ungherese ha approvato le modifiche costituzionali con una maggioranza schiacciante di 265 favorevoli, 11 contrari e 33 astenuti. A votare a favore sono stati il partito conservatore Fidesz del primo ministro, Viktor Orban, il suo piccolo alleato, i cristiano democratici, e tre deputati indipendenti. Le misure approvate ieri trasformano in legge molti provvedimenti già bocciati dalla Corte costituzionale ungherese. I cambiamenti alla costituzione sono stati criticati da Unione europea e Stati Uniti, da numerosi costituzionalisti ungheresi e movimenti della società civile, che denunciano l’eccessivo potere lasciato nelle mani del governo.
Il partito socialista ungherese (Mszp), che è la principale forza dell'opposizione in Ungheria, ha boicottato la sessione parlamentare per protestare contro l'emendamento della Costituzione. I 47 deputati socialisti hanno lasciato sulle loro scrivanie un foglio bianco con sopra un grande punto esclamativo nero. «Se verranno adottate le modifiche, anche le parvenze di costituzionalità verranno soppresse», ha dichiarato il presidente del partito Attila Mesterhazy prima del voto. Al tempo stesso, l’opposizione democratica ha lanciato un appello all’Europa perché faccia sentire la sua voce contro quello che viene considerato un «golpe bianco».
L’APPELLO
Con i nuovi emendamenti della Costituzione il governo intende «vendicarsi contro i giudici dell’Alta corte, gli studenti e anche contro l’opposizione, dunque nei confronti di tutti coloro che non si comportano come vorrebbe il governo», rimarca Mesterhazy. Un riferimento al braccio di ferro tra esecutivo e togati della Corte costituzionale, che avevano bocciato precedenti modifiche, ora de facto reintrodotte, come pure alle proteste di piazza animate dagli studenti. Anche l’ex presidente della Repubblica ungherese, Laszlo Solyom, ha lanciato un appello al Capo dello Stato perché non firmi le modifiche costituzionali e ha chiesto all’Alta Corte di pronunciarsi prima che i poteri le vengano tolti. Il voto favorevole al pacchetto voluto dal premier Viktor Orban sostiene Solyom significherà la fine della giurisdizione costituzionale in Ungheria, in quanto la Consulta non avrà piu possibilità di pronunciarsi in merito.
Ancora ieri la Commissione Europea aveva lanciato un avvertimento, esortando l’Ungheria a mantenersi all’altezza delle regole democratiche. Un monito sulla linea di chi sostiene che il maxi-emendamento della Costituzione possa minare le libertà fondamentali. «Il nostro lavoro è di garantire che le leggi europee, che sono state sottoscritte dai nostri membri, vengano rispettate», ha detto la portavoce Pia Ahrenkilde Hansen, ricordando che venerdì il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha ottenuto dal premier Viktor Orban rassicurazioni sull’impegno a rispettare i principi Ue. «Non esiteremo a usare tutti gli strumenti a nostra disposizione per fare in modo che gli stati membri rispettino i loro obblighi». Ma aprendo la seduta parlamentare che ha poi portato al voto delle modifiche della carta fondamentale, Orban ha tagliato corto sull’argomento, sostenendo che la gente non è preoccupata dalla Costituzione, ma dal caro-bollette.

Repubblica 12.3.13
Orbán l’autocrate sfida Bruxelles “golpe” bianco sulla Costituzione
di Andrea Tarquini


Il premier ungherese ha voluto modifiche che limitano i poteri dell’Alta Corte e tagliano pesantemente le libertà Ignorate le preoccupazioni dell’Europa. Per l’opposizione e per gli esperti internazionali è un addio allo Stato di diritto

«Spero di no, ma forse un giorno potrebbe divenire necessario sostituire la democrazia con un altro sistema». Parole sue, dell’anno scorso. La Weltanschauung di Viktor Orbán, classe 1963, carriera iniziata nella gioventù comunista sotto il vecchio regime, poi dissidente radicale, oggi premier-autocrate ungherese, alto dirigente del Partito popolare europeo, al sodo è tutta qui. Ieri dalle parole è passato ai fatti. Sfidando l’Europa e l’intero mondo libero, come ama fare sempre più. A Budapest il Parlamento dominato dal suo partito (la Fidesz), ha approvato modifiche alla Costituzione che secondo esperti ungheresi e internazionali sono «un addio allo Stato di diritto e alla separazione dei poteri». Un golpe bianco annunciato. Invano il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, gli ha chiesto di ripensarci, e ha espresso «preoccupazione per trattati e spirito dell’Europa e primato del Diritto». Rotto solo da qualche migliaio di giovani in piazza il silenzio scende sull’Ungheria, il silenzio del Nuovo Ordine.
Laureato in legge ma spregiudicato verso l’idea occidentale di Diritto, sposato e padre di cinque figli e cattolico praticante dichiarato ma, mormorano a Budapest fonti diplomatiche, duro in casa e amico degli oligarchi, Orbán ama mostrare di non aver paura. Con lui, nulla a Budapest è più come prima. La stessa Costituzione nazionalista da lui voluta e imposta nel gennaio 2012 è umiliata e annullata, scrive Die Welt,
il quotidiano liberalconservatore tedesco più vicino ad Angela Merkel.
Esautorata per vendetta la Corte costituzionale che ricusava leggi liberticide ora diventate articoli della Costituzione, via libera a limiti alla libertà d’espressione se offende una non meglio definita «dignità della nazione magiara», frontiere chiuse come un nuovo Muro di Berlino ai laureati che sognano di fuggire dalla povertà cercando lavoro all’estero, senzatetto criminalizzati se vivono e dormono in strada, campagna elettorale vietata sui media privati, cioè i pochi ultimi media indipendenti. Quelli su cui per volere di Orbán vigila come un Grande fratello stalinista di destra la Nemzeti Mèdia-es Hìrkoezlési Hatosàg, l’autorità di controllo sui media, mentre il governo nega frequenze e gli oligarchi tolgono pubblicità. E poi: chi si ama e convive senza sposarsi né avere figli, omo o etero che sia, non ha la stessa dignità della famiglia etero ufficiale. E il vecchio Partito comunista, da cui scaturì dopo il 1989 (come altrove all’Est) il Partito socialista oggi prima forza d’opposizione, alleato a Strasburgo di Pd, Spd tedesca, Ps francese, New Labour o socialdemocratici finnici e svedesi, è organizzazione criminale. Minaccia di processi politici travestiti da altro.
«L’Europa politica e dell’euro è un fallimento, il nostro modello euroasiatico si rivelerà vincente », ecco un altro estratto recente dell’Orbán-pensiero. Ieri il premier in Parlamento si è spinto a dire che «al popolo interessano le bollette troppo care che pagano alle multinazionali, non la Costituzione». Ancor più chiaramente, ha parlato il suo uomo di mano Làszlò Koevér, presidente del Parlamento: «Il capitale internazionale, la Ue, gli Usa, conducono una guerra fredda contro l’Ungheria perché rifiutiamo la camicia di forza liberal, ma sono improbabili compromessi con chi accetta persino matrimoni omosessuali».
Recessione, disoccupazione specie giovanile (dati Ue) a livelli greci: Orbán dà la colpa all’Europa, e chiede investimenti a Cina, Iran, Azerbaijan. Riscrive la Storia: riabilitato l’ammiraglio Horthy, il dittatore antisemita alleato più fedele di Hitler, via le statue di intellettuali, nobili o borghesi riformatori, dal “conte rosso” Karoly Mihaly che affrancò i servi della gleba al poeta Attila Jozsef amico di Thomas Mann. Chi sa se Orbán ha dimenticato il monito d’un suo professore all’università, «attento, ragazzo, lei è più assertivo d’uno stalinista». I giovani lo sfidavano in piazza ieri sera, cantavano «Viva la libertà ungherese », l’inno del Risorgimento. Strade sbarrate per loro, dai reparti antiterrorismo. Mi spezzo ma non mi piego, pensa forse Orbán.

il Fatto 12.3.13
Austria. Sondaggio choc: “Hitler governerebbe bene” per il 42%


I nazisti potrebbero tornare alla ribalta, almeno in Austria. Secondo un sondaggio condotto dal giornale viennese Der Standard, ben il 54 per cento dei cittadini voterebbe per una coalizione nazista all’esecutivo. Mentre il 61 per cento degli austriaci desidera “un uomo forte al governo”. Infine, il 38 per cento degli intervistati considera il proprio Paese una “vittima” dell’oppressione di Hitler.
Nel giorno dell’anniversario dell ’Anchluss (l’annessione dell’Austria alla Germania nazista avvenuta il 12 marzo 1938) quindi la maggior parte degli austriaci sogna il ritorno dei nazionalsocialismo in Parlamento: il 42 per cento avrebbe addirittura dichiarato che con il Führer “la vita non era poi tanto male”.
“L’Austria fu vittima e complice allo stesso tempo”: lo ha ricordato il quotidiano attraverso la ricostruzione storica che accompagnava il sondaggio.

Corriere 12.3.13
Il piano Spd «Tasse al 49% per i ricchi»


Peer Steinbrück, 66 anni, segretario del Partito socialdemocratico tedesco, alla Willy Brandt Haus a Berlino (foto AFP). Steinbrück ha presentato il programma per le prossime elezioni di settembre, nelle quali la Spd sfiderà, da sfavorita, la coalizione della cancelliera Angela Merkel. Tema centrale saranno le politiche sociali e fiscali, con tasse in aumento per i ceti più abbienti. Il motto non si allontana molto da quello della campagna del Pd: «Governare la Germania in maniera migliore e più giusta»

La Stampa 12.3.13
Libeskind, il disegno è come un bambino
Alla Galleria Tedeschi di Roma si apre oggi una mostra di bozzetti dell’architetto polacco
di Elena Del Drago


Basta osservare Daniel Libeskind mentre risponde alle domande, guarda i disegni attorno a sè o espone le proprie idee, per comprendere le ragioni del suo successo planetario. Se oggi il suo studio segue progetti cruciali in diversi Paesi del mondo, a cominciare da quello per Ground Zero a New York, è anche perchè questo architetto esprime un entusiasmo tanto contagioso e cosciente, quanto può esserlo quello del figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto per finire nel dopoguerra comunista prima di emigrare negli Stati Uniti. Qui Daniel arriva adolescente e come eredità porta con sè la consapevolezza del proprio passato e la voglia straordinaria di costruire un futuro diverso, attraverso l’arte e l’architettura. Ecco perchè anche le polemiche dei giorni scorsi, seguite ad una dichiarazione di Libeskind che condannava la collaborazione di alcuni suoi colleghi con le dittature e la necessità di conoscere bene il proprio committente, sono pretestuose se si considera la storia di questo architetto che, con il suo studio, ha sempre scelto progetti che fossero intrisi di un profondo senso etico. Una storia di cui si può osservare lo svolgimento sulle pareti della Galleria Ermanno Tedeschi a Roma, grazie ad una mostra che con diverse tappe, da Torino (settembre) a Tel Aviv (novembre) passando per Milano (maggio) fino a New York, mira a far comprendere un momento cruciale del processo creativo di Libeskind. «Il disegno per me è un po’ come la nascita di un bambino, l’elemento iniziale della vita», racconta l’architetto. «Quando qualcosa nasce non è necessariamente grazioso, né definitivo, ma è invece vulnerabile, uno stadio di un processo più lungo, molto distante dal risultato finale. Si possono intravedere la vulnerabilità, la delicatezza, l’idea iniziale e i primi passi. Persino Ground Zero, uno dei più grandi e complessi progetti del mondo, è nato proprio da questi disegni, da una matita e da alcuni fogli... è come un essere umano che ha un anima, un cuore, una mente e poi cresce, se è fortunato abbastanza!» E i 52 disegni esposti, con tecniche e stili differenti, definiti e classici oppure appena abbozzati, ad acquerello o a matita, permettono di cogliere proprio quelle piccole intuizioni, quei tentativi embrionali, da cui poi crescono edifici notissimi come il Museo Ebraico di Berlino, espresso attraverso elementi quotidiani come la vista dalla finestra, la torre Zlota 44 di Varsavia che si confronta con architetture in stile stalinista oppure progetti attuali come CityLife per la Fiera di Milano. E il progetto milanese non sarà l’unica opera di Libeskind presto inaugurata in Italia: ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino a maggio, l’architetto polacco sta preparando per il 2014 anche un’immensa installazione per la Galleria Grande della Reggia di Venaria dove prenderanno forma, in un interessante confronto tra contemporaneità e barocco, le sue riflessioni sull’architettura di Juvarra.

Repubblica 12.3.13
Etruschi, quel mistero sulle origini


Un libro di Vincenzo Bellelli ripercorre uno degli enigmi delle ricerche di antichistica QUALI furono le origini degli etruschi? Uno dei temi cruciali negli studi di antichistica viene rilanciato da un libro, Le origini degli Etruschi. Storia, archeologia e antropologia curato da Vincenzo Bellelli (L’Erma di Bretschneider). Che ripropone la discussione impostata da Massimo Pallottino, il maggiore etruscologo del Novecento, il quale dimostrò come il concetto di “origini” dovesse essere superato da quello di “formazione”. A suo giudizio era un errore immaginare «il popolo etrusco come una realtà unitaria, come un blocco fin dalla sua inafferrabile preistoria». Dei processi formativi vanno individuate le componenti etniche e culturali, insisteva Pallottino e nel caso etrusco andavano riconosciuti elementi di provenienza orientale, continentale e indigena. Negli ultimi anni si è discusso sui tempi e i modi di questa formazione: Mario Torelli e altri studiosi hanno ipotizzato i secoli finali del II millennio a. C.. La querelle risale addirittura ad Erodoto, che ipotizzò una provenienza degli etruschi dalla Lidia in Asia Minore. Ma in epoca augustea lo storico Dionigi di Alicarnasso sostenne la loro autoctonìa. Nel Settecento e nell’Ottocento si aggiunse l’ipotesi di una loro provenienza dalle regioni alpine. Il tema delle origini degli Etruschi è tornato di attualità alla luce di nuove indagini genetiche.
Giuseppe M. Della Fina Le origini degli etruschi a cura di V. Bellelli

Corriere 12.3.13
Il regista porta in scena una rilettura di Euripide attraverso il film del 1965
Bellocchio: nel mio «Oreste» le famiglie distrutte dall'odio
L'eroe greco come il protagonista de «I pugni in tasca»
di Stefania Ulivi

«L'Oreste? L'ho letto solo l'anno scorso». Di quel personaggio di Euripide, il giovane che uccide la madre Clitennestra con la complicità della sorella Elettra, Marco Bellocchio aveva in mente certe rappresentazioni dei quadri dell'Ottocento con il matricida braccato dalle Erinni. È stato solo dopo la scoperta del testo che il regista piacentino lo ha riconosciuto così vicino all'Alessandro del suo I pugni in tasca. Divisi da due millenni, ma avvicinati da un destino comune, «fratelli nel tempo» come li ha definiti Filippo Gili che cura la regia di Oreste da Euripide, in scena al Teatro del Vascello di Roma dal 21 al 24 marzo. «La spinta al matricidio è diversa», riflette Bellocchio. «Oreste è un figlio in cerca di vendetta, vuole vendicare il padre e riconquistare la regalità, il suo è un omicidio quasi etico, contro lo Stato. Ale, al contrario, si muove all'interno di una patologia: uccide la madre perché vuole essere lui il padrone, tant'è che elimina anche il fratello, a sua volta assoggettato. Ma i due coesistono e si corrispondono. Alcune scene dell'Oreste, soprattutto quelle della follia, con la sorella che lo assiste, rimandano ad Ale. Per l'eroe greco la fine è una sorta di riabilitazione, mentre nel mio film il protagonista soccombe ai propri delitti».
In scena Oreste e Ale hanno un unico volto: quello di Pier Giorgio Bellocchio, figlio di Marco, già protagonista due anni fa nella trasposizione scenica del film del 1965. «I pugni in tasca? Per me è come un parente lontano» scherza lui.
Un bel cortocircuito che amplifica la curiosità sui Bellocchio: Marco, 74 anni, che con I pugni in tasca si conquistò il titolo di nemico pubblico numero uno della famiglia borghese di matrice cattolica. Pier Giorgio, 38 anni, nato dal primo matrimonio del regista con l'attrice Gisella Burinato, oggi padre di due bambine, già attore bambino, poi montatore, poi produttore, poi «figlio di Bellocchio» («Essere figlio non è una scampagnata. Siamo una generazione di figli anche a 40 anni, mentre loro a 20 anni erano già padri? Beh io resterò figlio fino a 80 anni, allora…»). Ora, finalmente, attore e basta: quest'anno oltre a Bella addormentata del padre che uscirà i primi di aprile in Francia, ha girato È stato il figlio di Ciprì, A fari spenti nella notte di Anna Negri, un episodio de Il commissario Rex e Terzo tempo di Enrico Maria Artale. Un cortocircuito che rimanda a un luogo, Bobbio, dove il regista è nato e, da qualche anno, anima anche con il figlio un seguito festival di cinema, in cui rapporti familiari e artistici si mescolano. «Io e Marco siamo gli unici maschi della colonna romana dei Bellocchio» scherza Pier Giorgio. «La nostra è una famiglia piena di paradossi, esplosa e poi riassemblata come una supernova nel momento in cui lui si è assunto la responsabilità di capofamiglia. Bobbio è stato la chiave di tutto, anche per questo Oreste, lì nato come studio per il Festival di Teatro Antico di Veleia dove ha emozionato il pubblico, così come nel castello di Bovindo, vicino a Foggia».
Va in scena in giorni strani, questo Oreste, in un'Italia dove le poltrone del potere sono metaforicamente vuote. La famiglia, in compenso, resiste. «In mancanza d'altro…» puntualizza Bellocchio. Resiste anche I pugni in tasca, quasi 50 anni dopo. «Fu una nascita per me, ho scelto di fare il regista con questo film, mi ha dato la convinzione di continuare dopo il diploma di regia. Oggi, per quello che sono diventato, mi sento più vicino a Oreste che ad Alessandro».