mercoledì 13 marzo 2013

l’Unità 13.3.13
È morta la partigiana Teresa Mattei
Fu la più giovane parlamentare nella Costituente
di Gabriele Masiero


È morta Teresa Mattei: partigiana, combattente nella formazione garibaldina Fronte della Gioventù, fu la più giovane eletta nell'Assemblea costituente. Il decesso è avvenuto ieri pomeriggio, nella sua casa di Usigliano di Lari (Pisa). Oggi per tutto il giorno la salma sarà esposta nella sua casa e domani si svolgerà una breve cerimonia funebre. La salma sarà poi cremata domani a Livorno
Teresa Mattei, detta Teresita, era nata a Genova il primo febbraio 1921. Si è sempre dedicata alla lotta per i diritti delle donne e dei bambini. È sua l'idea di usare la mimosa per l'8 marzo, in quanto fiore povero e diffuso. La sua intuizione vinse sulle violette in uso in Francia.
Laureata in filosofia a Firenze, era stata partigiana (nome di battaglia Partigiana Chicchi), protagonista della Resistenza e della lotta di liberazione, successivamente candidata per il Pci all'Assemblea costituente, nella quale aveva svolto la funzione di segretaria dell'ufficio di presidenza. Per tutta la vita impegnata nella lotta a tutela dei diritti delle donne e dei minori, Teresa Mattei ha trascorso gli ultimi anni di vita a Lari. È stata anche dirigente dell'Udi.
Tra i tanti ricordi quello del presidente Napolitano: «Ho appreso con animo commosso la notizia della scomparsa di Teresa Mattei, storica figura di coraggiosa partigiana e combattente per la liberazione del nostro Paese dalla barbarie nazifascista, che fu nel 1946 la più giovane deputata eletta alla Assemblea Costituente. Nel solco di quella prima luminosa esperienza, ella è rimasta sempre coerente con gli ideali di libertà e di democrazia».

La Stampa 13.3.13
Aveva 92 anni
È scomparsa Maria Mattei l’ultima donna costituente
di Maria Corbi


Se ne va un altro pezzo di memoria del Paese, una donna, Maria Teresa Mattei, che è stata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente e che ha contribuito a porre le basi di un Paese libero e democratico. Classe 1921, partigiana, combattente nella formazione garibaldina Fronte della Gioventù, si è sempre dedicata alla lotta per i diritti delle donne e dei bambini. È lei la madre della mimosa, il simbolo dell’8 marzo, della battaglia per la parità. Un fiore povero e diffuso che vinse sulla violetta proposta dalla Luigi Longo che voleva regalarle quel giorno. Teresa era genovese di nascita, si iscrisse nel 1942 al Partito Comunista che lascerà nel 1955 quando rifiuterà la candidatura alle elezioni per la Camera a causa del dissenso nei confronti di Togliatti. Il nome di battaglia della Mattei era «Chicchi» e operava nella città di Firenze (a lei ed al suo gruppo si ispirò Roberto Rossellini per l’episodio di Firenze di Paisà). Il fratello Gianfranco Mattei è un martire della resistenza. Docente e ricercatore di chimica al Politecnico di Milano, assistente prediletto del futuro premio Nobel Giulio Natta, fabbricava esplosivi per i Gap della capitale. Nel 1944 si tolse la vita nella cella di via Tasso, a Roma, per non cedere alle torture e non rischiare di rivelare il nome dei compagni. Anni più tardi la Mattei raccontò che da quel lutto nacque in lei e in Bruno Sanguinetti (che dopo la guerra sposerà) l’idea di uccidere il filosofo Giovanni Gentile. Per fare in modo che i gappisti incaricati dell’agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnò lei stessa (che conosceva personalmente il filosofo) presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che lui dirigeva. «Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò». Sessant’anni dopo rivendicò quella scelta: «Se un grande pensatore si schiera con un regime orribile come la Repubblica di Salò, si assume una responsabilità enorme. È un tradimento che non si può perdonare». Nel 1946 si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, candidata nel Pci. Venne eletta e fu la più giovane deputata al Parlamento. Nel 1947 fondò, insieme alla democristiana Maria Federici, l’Ente per la Tutela morale del Fanciullo. Con la morte di Maria Teresa Mattei i componenti dell’assemblea costituente ancora in vita sono solo due: Giulio Andreotti e Emilio Colombo.

Corriere 13.3.13
È morta Teresa Mattei «inventò» la mimosa

di Antonio Carioti

MILANO — Teresa Mattei, la più giovane deputata alla Costituente, scomparsa ieri a Usigliano (Pisa) all'età di 92 anni, in teoria aveva tutto per diventare un'importante dirigente comunista. Nata a Genova nel 1921, iscritta al Pci dal 1942 e sorella di Gianfranco Mattei, martire della Resistenza, era stata seviziata dai nazisti e aveva avuto un ruolo di primo piano nella lotta partigiana a Firenze, tanto da partecipare anche, come raccontò al Corriere nel 2004, alla preparazione dell'attentato a Giovanni Gentile. Dopo la guerra era stata eletta alla Costituente, a soli 25 anni, e si era impegnata per affermare i diritti delle donne: era stata lei a proporre la mimosa come fiore simbolo dell'8 marzo. Ma per il Pci di allora Teresa Mattei aveva uno spirito troppo ribelle: non venne confermata parlamentare e nel 1955 fu radiata dal partito per la sua opposizione alla linea moderata e filosovietica di Palmiro Togliatti. Da allora non si era più iscritta a nessun partito, ma aveva proseguito il suo impegno civile, in particolare si era battuta per i diritti dei bambini. Due anni fa è uscita la sua biografia «La costituente: storia di Teresa Mattei», scritta da Patrizia Pacini (Altreconomia).

Repubblica 13.3.13
Addio a Teresa Mattei partigiana e femminista
Fu la più giovane eletta nell’Assemblea della Costituente. È morta a 92 anni
di Simonetta Fiori


Fu sua l’idea della mimosa, per la festa dell’8 marzo. E riuscì a spuntarla su Luigi Longo, che voleva regalare le violette, come era d’uso in Francia. Ma a Teresa Mattei apparve più giusto un fiore povero, quel velluto giallo gialle diffuso nelle campagne. È morta ieri nella sua casa di Usigliano (Pisa) la più giovane dei Costituenti. Partigiana, combattente nella formazione garibaldina, Teresa era nata a Genova il primo febbraio del 1921. A 21 anni l’iscrizione al Pci, un partito ancora clandestino. “Chicchi” il suo nome di battaglia: a lei e al suo gruppo s’ispira Roberto Rossellini per l’episodio fiorentino del celebre Paisà.
Non manca il coraggio, alla combattiva Chicchi. Anni più tardi ricorderà il ruolo giocato nell’uccisione di Giovanni Gentile, che lei conosceva dai tempi dell’università, essendosi laureata a Firenze in filosofia. «Per fare in modo che i gappisti lo riconoscessero», racconterà Teresa, «alcuni giorni prima li accompagnai presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che Gentile dirigeva». Mentre lo studioso usciva dal suo studio, lo indicò ai partigiani. «Lui mi scorse e mi salutò».
Il temperamento d’acciaio l’aveva già dimostrato nel 1938, quando venne espulsa da tutte le scuole del regno per aver rifiutato di assistere alle lezioni in difesa della razza. Forse l’unica giovane italiana a farlo, o almeno tra i pochissimi. E nel 1955 sarà cacciata dal Pci perché contraria alla linea togliattiana. D’altra parte esempi di coraggio non mancavano in famiglia. Nel 1944 suo fratello Gianfranco, partigiano dei Gap, si tolse la vita nella cella di via Tasso a Roma pur di non tradire i suoi compagni.
Anche in Parlamento la partigiana Chicchi non mancò di dare battaglia ai suoi colleghi maschi. Un saggio recente di Laura Di Nicola ricorda la sua lotta perché le donne avessero accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura. Ma le parlamentari elette alla Costituente erano 21 su 558, e passò la linea che di fatto giudicava le donne «incapaci di equo giudizio» (soltanto nel 1963 potranno entrare in magistratura). La battaglia cominciata da Bianca Bianchi e Angelina Merlin, Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi fu al centro di una vivace discussione sulle pagine del Mercurio diretto da Alba De Céspedes, che sostenne con argomenti modernissimi «la capacità delle donne di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai», proprio per la capacità di «scendere in fondo al pozzo».
In difesa dei diritti delle donne — e dei minori — Teresa Mattei continua il suo impegno nel dopoguerra, fondando prima l’Ente per la tutela morale del fanciullo, più tardi un centro studi per la progettazione di servizi e prodotti per l’infanzia. Ancora negli anni Sessanta rinnova la sua militanza dalla parte dei bambini, coniugandola con la passione per il cinema. Nel 1966 diventa presidente della Cooperativa di Monte Olimpino a Como, che con Bruno Munari e Marcello Piccardo realizza film nelle scuole.
Anticonformista nella vita pubblica, e in quella privata. Sposata due volte, suscita scandalo quando aspetta il primo figlio da Sanguinetti — suo compagno nell’azione contro Gentile — perché non ancora coniugata. Con Bruno si sposeranno a Budapest nel luglio del 1948.
Tra gli ultimi testimoni dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione, Teresa Mattei portò dentro le istituzioni il punto di vista delle donne. E su posizioni spesso ribelli lo difenderà fino alla fine del suo mandato. Ora riposa nella sua casa di Lari, tra nuvole gialle di mimosa.

l’Unità 13.3.13
Dalla parte delle donne
Un lavoro dignitoso alle donne per combattere la violenza
di Susanna Camusso


La violenza contro le donne e le ragazze resta una delle forme più gravi di violazione strutturale dei diritti umani a livello mondiale. Qualunque sia la forma della violenza, è sempre dovuta a un comportamento violento ed inaccettabile.
Una ragazza su tre oggi nel mondo si troverà ad affrontare alcune forme di violenza nella sua vita.
La violenza esiste in tutte le società, in tutti i Paesi, in tutte le aree geografiche e colpisce ovunque i gruppi di donne e ragazze in tutti gli strati della società. In molti Paesi, come l'Italia, mentre le uccisioni in generale mostrano una diminuzione, le ricerche indicano che il femminicidio rappresenta un dato costante nel tempo, da lungo tempo.
A nome del movimento sindacale internazionale, rappresentato in questa sede dalla Confederazione internazionale dei sindacati , dell'Internazionale dell'educazione e dell'Internazionale dei servizi pubblici, riteniamo necessario sottolineare che le azioni di prevenzione, contrasto e punizione intraprese dai governi e da importanti attori istituzionali non sono state sufficienti a frenare la violenza fino ad ora.
La violenza rimane, pertanto, il principale problema sociale che rischia di cadere nel silenzio se non viene contrastato adeguatamente: se le donne non si sentono adeguatamente protette, la conseguenza sarà una maggiore paura e una maggiore difficoltà a denunciare la violenza.
Non ci sono dubbi che una prima risposta a questa sfida consista nel dare alle donne opportunità di un lavoro dignitoso, dato che il lavoro dignitoso significa sicurezza, empowerment e autonomia necessarie che permettono alle donne stesse di denunciare apertamente i responsabili.
La violenza contro le donne si compie per lo più nei luoghi protetti, in famiglia, in casa e nei luoghi di lavoro. La violenza di genere è un fenomeno diffuso ancora molto sottostimato. Interessa milioni di donne e comporta conseguenze sproporzionate sui gruppi di donne vulnerabili come le lavoratrici domestiche, migranti e precarie.
Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la grave situazione della violenza di genere nei luoghi di lavoro che nega alle donne il diritto fondamentale di vivere in dignità e libertà.
Come sindacati chiediamo che siano adottate misure urgenti a livello internazionale per assistere le lavoratrici nel contrastare la gravità della massiccia violenza e per stabilire una strategia per prevenire ed eliminare queste pratiche.
La Commissione sulla condizione delle donne del 2013 deve adottare delle Conclusioni finali forti che prevedano un forte impegno a sviluppare un Piano d'azione globale vincolante per porre fine alla violenza sulle donne e sulle ragazze, con una particolare attenzione alla prevenzione della violenza, fornendo una guida operativa per il monitoraggio degli obblighi internazionali esistenti, come la Convenzione Cedaw e la piattaforma d'azione di Pechino.
Le disuguaglianza di genere e le discriminazioni inaspriscono la violenza. In cinque anni di profonda crisi economica e sociale globale, per la maggior parte delle donne sono aumentati gli ostacoli, i problemi, i ricatti e le pressioni sul lavoro. La crisi viene usata come pretesto per ridimensionare i diritti del lavoro e per eliminare posti di lavoro, indebolendo la condizione delle donne e la tutela giuridica sul posto di lavoro. La struttura attuale del mercato del lavoro, sia che impedisca la partecipazione delle donne e sia che le renda sempre più precarie, rappresenta uno dei principali ostacoli per l'autonomia e l’empowerment delle donne.
La privatizzazione, il riaggiustamento strutturale e le varie misure di «austerità» hanno comportato la perdita di importanti servizi pubblici e posti di lavoro nel settore pubblico. Dal momento che in molti Paesi esiste un'alta concentrazione di donne nel lavoro del settore pubblico, le donne sono colpite in modo sproporzionato come lavoratrici e per la loro dipendenza dai servizi pubblici. Inoltre, i tagli alla spesa pubblica hanno un impatto negativo sull'efficacia delle misure preventive e dei servizi sociali forniti alle vittime della violenza.
L'eliminazione della violenza richiede un intervento forte delle autorità pubbliche per definire e attuare adeguate misure preventive, per garantire una tutela giuridica, il perseguimento dei reati e per fornire sostegno e risarcimento alle vittime. Per questo motivo, crediamo che debba essere adottata un’azione globale che lavori su tre direzioni e attuarla, senza ulteriori ritardi, in termini culturali e istituzionali. La prima direzione dovrebbe essere la prevenzione che si concentra sull'istruzione delle ragazze e dei ragazzi, delle donne e degli uomini, l'inaugurazione di campagne pubbliche sulle questioni del rispetto della persona, la sicurezza nelle città, norme a tutela delle donne vittime della violenza, centri di consulenza per donne bisognose di aiuto. La seconda dovrebbe contrastare la violenza e garantire la certezza della pena. La terza dovrebbe garantire l’assistenza a coloro che hanno subito a violenza.
In altre parole, si tratta di garantire che le donne possano godere pienamente dei diritti umani e delle libertà fondamentali, perché la violenza sulle donne e sulle ragazze è una sconfitta per tutti.
L’intervento tenuto da Susanna Camusso davanti alla 57esima Commissione dell’Onu sulla condizione delle donne

Repubblica 13.3.13
Bersani risponde a Celentano “Ecco i sì che offro a Beppe”


«CARO Bersani, fai tu il premier e accetta tutti i punti del programma di Grillo su cui ti trovi d’accordo per il bene del Paese». Così ieri Celentano su “Repubblica”, oggi risponde il segretario del Pd spiegando il confine fino a dove si può spingere. Il politico e il cantante, una strana coppia. I due ieri pomeriggio si sono sentiti al telefono, è stato Bersani a chiamare Celentano per un confronto di idee che è durato alcuni minuti. Il segretario pd ha spiegato che è pronto a fare ogni sforzo. Celentano ha sintetizzato così il colloquio: «Pierluigi mi è sembrato disponibile a compiere ulteriori passi avanti nei confronti di Grillo, a lavorare solo nell’interesse dell’Italia».
CARO Adriano Celentano,
ti ringrazio per la lettera che hai pubblicato ieri su “la Repubblica” e ti rispondo.
Ecco la mia idea: avviare la legislatura con un programma essenziale di cambiamento da rivolgere a un Parlamento davvero
nuovo. Ciò significa ascoltare anche le ragioni degli altri, purché si rivolgano al cambiamento.
Ci sono, ad esempio, nel programma del Movimento 5 Stelle punti non lontani dai nostri nel campo dell’ambiente e dell’economia verde, dell’agenda digitale e dei
temi dell’innovazione tecnologica, dei costi e della sobrietà della politica e della semplificazione burocratica. Sarei pronto ad accoglierli.
Altri punti sono invece per me inaccettabili. Come avrai visto, nelle proposte che per parte mia ho avanzato, ho fatto in modo che non ci fosse nulla di inaccettabile. Questo è il punto. Se nessuno mette davanti all’altro qualcosa di inaccettabile, allora si vedrà uno spazio enorme di cambiamento finalmente possibile. Perché ora si può e prima non si poteva. Ora si può, se si vuole. A presto.

l’Unità 13.3.13
«Avviare la macchina» Parte il dialogo Pd-5 Stelle
Primo incontro tra la delegazione Pd e quella (numerosa) dei 5 Stelle
Confronto sulle presidenze: indicare persone di alto profilo
I pd Zanda, Zoggia e Calipari incontrano delegazione di 17 grillini
Lombardi rivendica una presidenza
di Simone Collini


«Confronto positivo», dice il Pd dopo l’incontro con i parlamentari M5S. Dialogo aperto sulle presidenze del Parlamento: bisogna indicare «persone di alto profilo». Nel Pd si valuta l’ipotesi di un presidente 5 Stelle alla Camera e di un montiano al Senato.
È partito il dialogo tra Pd e Movimento 5 Stelle. E un primo obiettivo comune è stato individuato. Quello cioè, per usare le parole della capogruppo M5S Roberta Lombardi, di «avviare i lavori della macchina parlamentare». Un contatto è stato stabilito anche tra Pd e Pdl. Ma non ha portato a niente.
La strategia del «passo dopo passo» di Pier Luigi Bersani sembra prendere corpo. Luigi Zanda, Rosa Calipari e Davide Zoggia, incaricati dal leader Pd di aprire un confronto con gli altri gruppi parlamentari in vista dell’elezione dei presidenti delle Camere, hanno incontrato ieri al Senato una folta delegazione dei Cinque Stelle. E il fatto che la linea della «corresponsabilità» sul piano istituzionale, avanzata da Bersani, sia stata fatta propria dagli esponenti M5S fa indulgere il Pd all’ottimismo. Il governo è fuori dalla partita di oggi ma «avviare» la macchina istituzionale riguarda, eccome, la partita dell’esecutivo.
Al di là degli elementi di colore i parlamentari Cinque Stelle si sono presentati in 17, con qualcuno che ha chiesto di aprire l’incontro alla stampa, qualcun altro che ha proposto di fare una diretta video, un altro ancora che ha avanzato
l’ipotesi di uscire dalla riunione con un comunicato congiunto Pd-M5S sul «bene del Paese» salvo vedersi redarguire da un compagno di partito, per arrivare poi alla decisione finale di fare un video di commento all’incontro che è stato trasmesso dal sito grillino «La cosa» il confronto ha fatto segnare un punto che il Pd giudica a favore. Spiega Zanda con parole simili a quelle usate da Lombardi: «È stato un incontro positivo, costruttivo, in cui c’è stata la condivisione dell’obiettivo generale, quello di mettere in moto la macchina democratica del Parlamento e di avviare un percorso che ci auguriamo sia lungo».
Il ragionamento che ha fatto Lombardi ai membri della delegazione Pd, per quel che riguarda la presidenza delle Camere, è stato questo: «Non bisogna soltanto guardare al numero di seggi ottenuti dai partiti, va rispettata la volontà dei cittadini. E noi alla Camera siamo la prima forza politica». In pratica, anche se non lo ha detto esplicitamente, ha chiarito che i Cinquestelle potrebbero puntare ad avere la presidenza di Montecitorio (e oggi si riuniranno per decidere, nel caso, chi candidare alla Camera e chi al Senato).
Gli esponenti democratici, che hanno interpretato le parole di Lombardi come un’apertura alla linea della «corresponsabilità», non hanno mosso obiezioni. La strategia di Bersani non è infatti in contraddizione con una simile ipotesi, anzi. Il leader del Pd ha proposto la «corresponsabilità» sul piano istituzionale, auspicando poi che da parte del Movimento 5 Stelle ci sia una analoga assunzione di responsabilità per realizzare quel cambiamento di cui necessita il Paese. Che, tradotto, significa un atteggiamento dei senatori Cinque Stelle (non partecipazione al voto e se necessario presenza in aula per garantire il numero legale) che consenta a Bersani di incassare la fiducia a Palazzo Madama (dove il centrosinistra può raggiungere quota 146 voti se ottiene il consenso di Monti).
Sia i parlamentari M5S che lo stesso Beppe Grillo, con un intervento a distanza via web, hanno ribadito che da parte loro non saranno né siglati accordi, né strette alleanze. E al Pd sanno benissimo quanto sia stretta e in salita la strada su cui si è messo Bersani. «È un sentiero difficile ma le altre possibilità non sono autostrade insiste il leader Pd ora ciascuno si assuma la sua responsabilità, noi non facciamo trattative ma una proposta per cambiare, se si vuole cambiare o no lo si dica davanti al Paese». L’incontro di ieri viene comunque giudicato positivamente perché ha aperto un canale di dialogo con i parlamentari di M5S, nell’impegno reciproco che i vertici istituzionali debbano essere persone di indubbia moralità e prive di conflitti di interessi.
Molto gelido è stato invece l’incontro che in serata la delegazione del Pd ha avuto con gli esponenti Pdl Simone Baldelli e Lucio Malan. Lo schema su cui ragiona Bersani non prevede una presidenza per il partito di Berlusconi, che ha anche minacciato di non partecipare alle prime sedute parlamentari. Se la presidenza di Montecitorio dovesse andare a un esponente di M5S, per Palazzo Madama il papabile potrebbe essere un esponente indicato da Mario Monti. A breve la delegazione Pd (che domani vede la Lega) incontrerà gli esponenti di Scelta civica.

La Stampa 13.3.13
La proposta indecente dei Cinque Stelle spiazza Bersani
di Marcello Sorgi


Il primo incontro, promosso dal Pd, con la insolitamente folta delegazione del Movimento 5 Stelle s’è concluso con la sorpresa dei grillini che rivendicano la presidenza della Camera, dato che sono il partito che ha preso più voti da solo. Per Bersani, che ieri era alle prese con l’altro contropiede di Grillo (e in parte di Renzi) sul rifiuto dei rimborsi elettorali, è un bel rebus. Ed anche se il capodelegazione Democrat Zanda se l’è cavata dicendo che non ci sono pregiudizi e le valutazioni finali saranno fatte a conclusione di tutti gli incontri (oggi proseguono con Lista Monti e Pdl), è chiaro il bivio di fronte al quale il leader e candidato premier del centrosinistra si trova: se apre alla possibilità di mettere a disposizione di un presidente della Camera proposto da M5S i voti dei suoi oltre trecentoquaranta deputati - che invece, godendo di una larga maggioranza, potrebbero autonomamente eleggersi il proprio -, si dimostra coerente con il tentativo di trovare un’intesa con Grillo, ma lo fa in cambio di niente. Sia la futura capogruppo alla Camera Lombardi, sia lo stesso Grillo subito dopo, hanno confermato infatti che il movimento non fa alleanze con nessun partito. In più, accettando lo stesso la richiesta grillina nella speranza che comunque possa servire a favorire un ripensamento, o una qualche parziale benevolenza, verso il suo tentativo di formare un governo, Bersani scontenterebbe tutto o in parte il proprio gruppo parlamentare: all’interno del quale Franceschini era un forte candidato a salire sullo scranno più alto di Montecitorio, in una logica che avrebbe dovuto portare alla presidenza del Senato l’ex capogruppo del Pdl al Parlamento europeo Mario Mauro, eletto nella Lista Monti. Un accordo classico, scontato, a portata di mano, che il guastatore Grillo, con la sua prima mossa, potrebbe far saltare per aria.
Se invece Bersani alla fine deciderà di dire di no, o troverà comunque il modo di rigettare la palla nel campo del M5S, Grillo potrà affermare che, come aveva detto e ripetuto fin dal primo giorno, non era credibile tutto ciò che finora era venuto dai vertici del Pd, compresi gli otto punti su cui il segretario sta spendendo tutte le sue energie in attesa delle consultazioni al Quirinale. Lo scontro frontale con il Pdl, così, non è bastato a Bersani per guadagnarsi una concessione di credito da parte di Grillo. E la scelta tra la linea del «cambiamento» (ma in cambio di nulla, neppure una promessa) e quella del classico accordo politico spartitorio tra centristi e centrosinistra si annuncia alquanto difficile.

l’Unità 13.3.13
Grillini al bivio: ora rischiamo
I parlamentari temono che la scelta dei loro rappresentanti diventi «un bagno di sangue»
Lo Statuto di «casa Grillo»
La proprietà dei 5 stelle al comico e al nipote Enrico
di Andrea Carugati


Sarà un bagno di sangue...», sussurrano tra loro i parlamentari grillini all’uscita dell’incontro col Pd. L’oggetto è la riunione di oggi, in cui i 5 stelle sceglieranno i loro candidati per la presidenza delle Camere.
Già, perché oggi i neo eletti si troveranno con tutta probabilità a indicare non un candidato di bandiera, ma la seconda o la terza carica dello Stato. «Se vogliono darci una presidenza noi diciamo grazie», ha detto lunedì Vito Crimi, il capogruppo in Senato. E ieri la sua omologa alla Camera, Roberta Lombardi, durante e dopo l’incontro con la delegazione Pd, ha ribadito che «noi siamo la prima forza alla Camera e anche a Palazzo Madama siamo messi bene». Insomma, un invito rivolto in primo luogo ai democratici a votare un grillino sullo scranno più alto di uno dei due rami del Parlamento.
A questo punto, la domanda riguarda i papabili per una carica decisamente importante e che, a differenza dei capigruppo, non potrà essere soggetta ad alcuna rotazione. L’eletto diventerà immediatamente (e per tutta la legislatura) il grillino più alto in grado, una spanna sopra tutti gli altri, altro che «uno vale uno». Rischiando addirittura di fare ombra al leader Grillo e al guru Casaleggio. Per questo la scelta sarà un «bagno di sangue». Con un possibile esito a sorpresa: proprio per evitare il rischio di creare un «super grillino», alla fine i 5 stelle potrebbero rinunciare alla guida di una delle Camere. E in queste ore anche di questo si sta discutendo: se cioè sia davvero opportuno accettare l’offerta del Pd.
«Servono nomi di competenza e alto profilo», ha spiegato ieri la Lombardi. «Competenza», però, è proprio quella che manca alla truppa grillina, che ha sempre fatto vanto della propria verginità politica. Manca, ad esempio, alla 25enne Marta Grande, il cui nome ha iniziato a circolare subito dopo il risultato delle elezioni. Qualcuno l’ha già ribattezzata la «Pivetti grillina». E tuttavia, il nome della giovane deputata dal caschetto rosso in procinto di prendere la seconda laurea (ne ha già una in Lingue e commercio internazionale negli Usa), rischia di essere già bruciato.
Fonti parlamentari 5 stelle ribadiscono che «tutti gli eletti sono papabili, 109 alla Camera e 54 al Senato». E tuttavia tra i grillini queste sono ore bollenti. «La nostra sarà una proposta all’altezza delle alte aspettative che i cittadini hanno verso le cariche istituzionali», ribadisce Lombardi. Tra i nomi più quotati ci sono quelli di Alfonso Bonafede, avvocato di 36 anni, originario della Sicilia ma trapiantato a Firenze, e di Roberto Fico, 38 anni, napoletano, uno dei pionieri del movimento, già candidato come sindaco di Napoli (prese meno del 2%) e come presidente della Regione Campania, molto attivo sul fronte dei rifiuti (no agli inceneritori e alle discariche) e dell’acqua pubblica. Entrambi sono considerati molto vicini al duo Grillo-Casaleggio, e questa potrebbe essere una caratteristica decisiva.
Intanto, spunta a sorpresa uno statuto dei 5 stelle (lo ha pubblicato ieri l’Huffington Post). Nell’atto costitutivo dell’ «Associazione Movimento 5 stelle», depositato il 18 dicembre scorso presso il notaio D’Amore di Cogoleto (Genova), si legge che Beppe Grillo è il presidente, suo nipote Enrico Grillo il vicepresidente e segretario è il commercialista Enrico Maria Nadasi.
L’atto costitutivo e lo statuto spiegano che il titolare del simbolo dei cinque stelle e del blog beppegrillo.it è l’ex comico. L’obiettivo del movimento, si legge, «è la convivenza armoniosa tra gli uomini, attraverso lo sviluppo del talento e delle capacità personali dell'individuo». I valori fondanti sono «libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà, fratellanza e rispetto». Tutti indicati in grassetto. Nel testo, si legge anche che «gli eletti eserciteranno le loro funzioni senza vincolo di mandato». Proprio quell’articolo 67 della Costituzione che Grillo ha recentemente demolito sul suo blog parlando di «circonvenzione di elettore». Nello statuto si legge anche che, come tutte le associazioni, anche i 5 stelle hanno un’assemblea, da convocare almeno una volta l’anno entro il mese di aprile, e un consiglio direttivo, composto da Grillo, dal nipote e dal commercialista. I tre sono «soci fondatori» e spetta a loro decidere sulle nuove iscrizioni. Non compare il nome di Gianroberto Casaleggio.

l’Unità 13.3.13
Dagli insulti alla diplomazia: è la politica, bellezza
di Toni Jop


PURA DIETROLOGIA: ieri, tre parlamentari della sinistra si sono incontrati con diciasette parlamentari Cinque Stelle. Hanno discusso. Soprattutto, come accade all’avvio di partite molto tese, si sono studiati a vicenda. Ciascun componente delle due delegazioni è stato costretto a lavorare, nel chiuso di quella stanza e nell’intimità della propria coscienza, sui giudizi e sui pregiudizi che hanno reso quell'incontro il primo, cautissimo contatto fisioterapico destinato ad addolcire una dolorosa contrattura dell'anima. Ora, di quel che si son detti pare si sappia tutto quel che ha un senso sapere e qui non ci torniamo, perché abbiamo la sensazione che il pur rilevante prodotto finale di questa prova di contatto non sia in grado di darci il titolo che, ne siamo convinti, si nasconde irrequieto nell'evidenza della giornata di ieri.
Per esempio: come mai non risulta che a Zanda, oppure alla signora Calipari oppure ancora a Zoggia qualcuno dei parlamentari grillini abbia detto «Scusate, non parliamo con i cadaveri putrefatti, anzi aprite le finestre»? È strano oppure no che si parli con i morti? Quindi, a quel che si sa, nessuno avrebbe dato del cadavere putrefatto a nessuno, nonostante la delegazione dei vivacissimi parlamentari di Grillo avesse di fronte a sé tre evidentissime salme. D’altro canto, non risulta che uno dei tre corpi inanimati della sinistra abbia ricordato alla delegazione con cui si stava misurando: «Siete servi sciocchi di un capo-popolo che vi manovra con una mano sola. Che sprechiamo a fare parole con voi che contate meno di niente?». «Morto che parla» fa un qualche numero alla tombola, chissà se c'è chi si è segnato la circostanza sul taccuino degli appunti. Cioè: nessuno, nel chiuso di quella sala, ha ribadito ciò che pensa, e non da ieri, dell’altro. Siamo forse sprofondati nella menzogna più bieca? Eccoci piombati nell’oscuro nucleo relazionale del merdaio partitocratico? Angoscia. Sta a vedere che la sinistra ha fatto una brutta figura proprio il primo giorno di scuola: doveva partire dalla rivoluzione culturale che ne ha sancito l'avvenuto decesso e invece si è trovata ad offrire il solito vecchio terreno in cui il non detto governa ciò che viene detto. Ma tranquilli, fratelli: avete avuto di fronte dei rivoluzionari tostissimi ai quali non la si fa. Gente che è riuscita a dire: a noi la presidenza della Camera, senza dirlo, siamo la prima forza del paese, senza esserlo.
Tutti hanno capito: i Cinque Stelle ritengono corretto che a loro sia data la presidenza della Camera, ma, interrogati in materia, riescono a rispondere che questa versione dei fatti è falsa, che loro non vogliono niente, non hanno chiesto niente. La rivoluzione li ha portati dritti dritti tra le braccia di un raffinatissimo linguaggio curiale senza accampare duemila anni di diplomazia alle spalle. Si contorcono, si sfilano, alludono, negano, neanche fossero i nipotini di Forlani. Il titolo vero, per noi è questo: «È la politica, bellezza, e non puoi farci nulla».

l’Unità 13.3.13
Cosa si nasconde dietro Grillo
Alla radice di quel successo la crisi della democrazia rappresentativa che poggia su partiti e sindacati
di Michele Ciliberto


Quando si parla di Beppe Grillo bisogna evitare preliminarmente alcuni errori. Anzitutto non bisogna identificare senza residui Grillo e il Movimento Cinque Stelle.
In quest’ultimo infatti sono confluiti problemi, tensioni, culture politiche, perfino generazioni differenti che non coincidono in modo integrale con il leader del Movimento ma che ed è questo l’aspetto principale riescono a trovare un punto di unione attraverso la sua figura e la sua iniziativa politica. Senza Grillo il Movimento Cinque Stelle non esisterebbe o sarebbe avviato a una rapidissima dissoluzione; per questi stessi motivi però il Movimento, almeno in questa fase, esprime una ideologia essenzialmente antagonistica, anche se ha elaborato una serie di punti programmatici di un certo interesse.
In secondo luogo è sbagliato pensare che il Movimento Cinque Stelle possa durare lo spazio di un mattino; esso è infatti il punto di arrivo di una lunga storia che ha trovato ora nella personalità e nell’attività politica di Grillo un luogo di approdo e di reciproco riconoscimento.
Bisogna poi evitare l’errore di interpretare Grillo secondo i canoni tradizionali della politicizzazione di massa propria del Novecento. Essa era già entrata in crisi con l’avvento di Berlusconi che da questo punto di vista ha rappresentato senza alcun dubbio un elemento di novità nella vita politica italiana ed europea, come del resto è stato più volte sottolineato da molti analisti.
Ma con Grillo il processo è andato assai più avanti con l’apertura di una vera e propria nuova fase della politica nazionale, a cominciare dall’uso sistematico della Rete.
Sottolineare quest’ultimo aspetto non basta però, se non se ne vedono gli effetti concreti che riguardano la figura del capo; la formazione delle classi dirigenti del partito, a cominciare dal personale parlamentare; le forme e i caratteri del reclutamento dei militanti; il rapporto con quella che si chiama, equivocamente, società civile. Rispetto alle tradizioni della politica di massa qui c’è un vero e proprio salto: il leader, per così dire, si autofonda, il ceto dirigente si costituisce in presa diretta senza alcuna mediazione di organismi intermedi, tanto meno di carattere cooptativo; fra i vari livelli dell’organizzazione esiste un continuo fluire che trova il proprio limite solo nella figura del capo che è il vero principio, e garante, della unità e della continuità del Movimento. In breve, fra il Movimento di Grillo e i partiti quali li abbiamo conosciuti nel XX secolo non c’è alcun rapporto, né si possono rivolgere a Grillo domande che rientrano all’interno di una concezione della politica alla quale è estraneo.
Alla radice del successo del Movimento, oltre ai motivi di lunghissima crisi sociale e politica ai quali sopra si accennava c’è ed è un altro motivo centrale la profonda crisi della democrazia rappresentativa italiana che poggiava e questo è un altro elemento di riflessione su istituti e strutture di massa dai partiti, ai sindacati, ad altri organismi di vario genere. Il primato della democrazia diretta tipica del Movimento è direttamente connesso a questa duplice crisi che ha investito la società italiana destrutturando quelle che ne erano state le fondamenta. Del resto, di questo si è reso conto anche il Partito democratico quando ha deciso di promuovere le primarie che sono state in effetti un tentativo per rimotivare l’agire politico dopo la crisi della politicizzazione di massa ridando forza, attraverso l’innesto di elementi diretti, alla democrazia rappresentativa di cui veniva percepita la crisi profonda.
Si commetterebbe però un ulteriore errore se analizzando processi di questa profondità non tenessimo ben presente un altro elemento che contribuisce a chiarire lo stato di destrutturazione (per così dire) della società italiana che si è espresso in modo potente nel voto al Movimento Cinque Stelle: democrazia rappresentativa e politica di massa sono state strettamente congiunte nell’ambito dello Stato nazionale moderno e sono entrate in crisi quando quest’ultimo è entrato in una fase di tendenziale dissoluzione.
Quello di Grillo non è, da questo punto di vista, un Movimento di carattere «statale» o riconducibile nel confine proprio della statualità moderna. Esso ha una dimensione effettivamente «apocalittica» sulla quale si possono esprimere differenti opinioni ma che certo si colloca al di là sia della dimensione tradizionalmente nazionale che di quella europea. Non si pone neppure il problema di ripensare in termini nuovi il rapporto tra Stato e nazione che oggi è una questione cruciale.
Naturalmente questo è un elemento di precarietà e di intrinseca debolezza del Movimento, almeno a mio giudizio; ma questo è un tipo di ragionamento che riporta l’analisi in un orizzonte ordinariamente politico al quale esso è strutturalmente e radicalmente estraneo.
Se non si capisce questo è impossibile, non dico stabilire un’alleanza, ma un qualunque rapporto con Grillo con il quale è eventualmente possibile avviare un colloquio solo assumendo in termini netti la radicalità della differenza fra gli altri partiti e il Movimento Cinque Stelle. Sarebbe in ogni caso sbagliato, come spesso si è fatto, ridurlo all’antipolitica: esso rappresenta ed è su questo che bisogna rigorosamente riflettere una differente concezione della politica e della società nella complessità delle loro articolazioni e dei loro nessi, a cominciare dalla legittimità del leader e dalla rappresentatività degli eletti fondate su criteri del tutto diversi da quelli tipici di una tradizionale dialettica politica e di una ordinaria democrazia parlamentare.
In sintesi, qualunque sia il giudizio che si vuole esprimere, Grillo e il suo Movimento stanno cercando, sia pure in modo tumultuoso, di trovare una risposta a quello che è, in questo momento, il nostro problema cruciale: chi sia il sovrano, e quali siano i soggetti e le forme della sovranità. Si può dissentire, anche in modo radicale, ma questa è la sostanza della faccenda e bisogna affrontarla e capirla con lucidità.
Questo non vuol dire che oggi il Movimento Cinque Stelle non possa svolgere una funzione parlamentare anche importante o stabilire relazioni di collaborazione con altri gruppi politici, anche in Parlamento.
Ma si tratta di un processo complesso e per poterlo avviare in modo adeguato è necessario svolgere anzitutto un lavoro di analisi e di conoscenza, cogliendo l’elemento di radicale novità che, nel bene e nel male, esso rappresenta in un momento di profondissime trasformazioni degli assetti politici e istituzionali dell’Italia e dell’Europa e mentre entrano in crisi, ponendo problemi immensi, stato nazionale, democrazia rappresentativa, politica di massa cioè le forme tradizionali della sovranità moderna.
È con questi problemi che noi dobbiamo confrontarci, e dobbiamo saperlo fare entrando in mare aperto, consapevoli che un intero ciclo della nostra storia è completamente terminato. Bisogna farlo hic et immediate perché, come diceva un autorevole leader del movimento operaio, quando si sbaglia l’analisi, si sbaglia anche l’iniziativa politica.

il Fatto 13.3.13
Spinelli, Settis & C.
Gli intellettuali
Mail nostro appello non chiede un governo Bersani-Grillo
di Tomaso Montanari


A cosa servono gli intellettuali? A far capire, per esempio, che non ha senso parlare di “intellettuali” in genere. Per avere un’opinione fondata, il primo passo è distinguere. Non giudicare in base alle appartenenze, ma al merito delle cose e delle parole. Il fatto che l'appello a Beppe Grillo e al Movimento 5 Stelle sia stato definito (non dai firmatari!) un appello di “intellettuali” e il fatto che sia apparso su Repubblica ne hanno consentito la chiave di lettura che Grillo stesso ha utilizzato per liquidarlo a scatola chiusa: “Pdmenoelle chiama, intellettuale risponde”. E la risposta, sul web e dalla viva voce dei parlamentari 5 Stelle, è stata (quasi) univoca: “Non daremo la fiducia ad un governo Bersani”. Ma l’appello voluto da Barbara Spinelli – firmato da Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Antonio Padoa Schioppa, Salvatore Settis e da me: e soprattutto da 50.000 persone in tre giorni – non parla affatto di un governo Bersani, e nemmeno di un governo del Pd.
COME ANCHE l’appello analogo promosso da Michele Serra (e uscito sull’Ansa, non su Repubblica) noi abbiamo chiesto al Movimento di accettare la responsabilità di un governo. Abbiamo chiesto di non “dire no a un governo che facesse propri alcuni punti fondamentali della vostra battaglia”. E abbiamo aggiunto che “Non sappiamo quale possa essere la via che vi permetta di dire sì a questi punti di programma consentendo la formazione del nuovo governo che decida di attuarli, e al tempo stesso di non contraddire la vostra vocazione”. I cittadini (qualunque sia la loro professione) hanno il diritto di chiedere che non si torni a votare senza prima aver cambiato la legge elettorale, senza aver estirpato il cancro berlusconiano, senza aver preso parte alle decisioni urgenti che l’Europa sta prendendo per noi, ma senza di noi. Decidere quale governo possa farlo spetta al Presidente della Repubblica e al Parlamento. Ciascuno di coloro che hanno firmato l’appello ha una propria preferenza. Io personal-mente vedrei bene un governo senza ministri di partito (guidato per esempio da Stefano Rodotà, o da una personalità dello stesso livello). Ma se il Movimento 5 Stelle, primo partito nel Paese, fosse pronto a formare e guidare un governo, io troverei ovvio che cercasse i voti in Parlamento.
E a quel punto toccherebbe al Pd essere responsabile, e non perdere questa occasione. Insomma, in nessun modo l’appello chiede la fiducia a un governo Bersani: l’appello chiede un governo. Con la sola condizione che non comprenda il Pdl. Ci siamo rivolti al Movimento 5 stelle perché la dichiarata aspirazione a raggiungere il 100 %, oltre a essere inquietante, fa capire che questa legislatura appena nata è già data per morta. E a noi questo sembra uno spreco atroce.
DOPO VENT’ANNI si può cambiare: e non è affatto detto che nuove elezioni ravvicinate permettano di cambiare meglio e di più. E se un paese allo sbando riconsacrasse invece l’eterno Caimano? L’appello si chiude così: “Avete detto: ‘Lo Stato siamo noi’. Avete svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare, non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni. Vale per voi, per noi tutti, la parola con cui questa cittadinanza attiva si è alzata e ha cominciato a camminare, nell’era Berlusconi: ‘Se non ora, quando?’”. Ed è quello che ripetiamo: se non ora, quando? Non abbiate paura di cambiarlo davvero, questo Paese.

l’Unità 13.3.13
Carlo Federico Grosso:
«I fuochi li ha accesi tutti una parte. Non ci sono precedenti al mondo»
«La protesta organizzata nei confronti dell’autorità giudiziaria non rientra nell’ordinato funzionamento degli organi istituzionali»
«Quel che accade ha una sua rilevanza giuridica ma ha anche effetti importanti
sul piano dei rapporti politici»
di Ninni Andriolo


«I fuochi li ha accessi una parte». In un’intervista a l’Unità Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Csm è duro sulla marcia Pdl al Palazzo di Giustizia di Milano: fatto senza precedenti. «Giusto il rammarico di Napolitano».
«Non è mai accaduto che una parte consistente di parlamentari si sia radunata davanti a un Palazzo di giustizia per protestare nei confronti dell’autorità giudiziaria che esercita le sue funzioni. Giusto il rammarico del Capo dello Stato». Carlo Federico Grosso, ex vice presidente del Csm, ha difeso Piero Fassino nel processo Unipol conclusosi con la condanna di Berlusconi a un anno di reclusione. «Un accadimento assolutamente unico quello di lunedì a Milano spiega il professore Non mi sembra che in altri Paesi siano rintracciabili precedenti simili».
Gesto eversivo, così è stato etichettato...
«Il fatto che un movimento politico cerchi di fare pressione, protestando in modo organizzato nei confronti dell’autorità giudiziaria che opera nell’esercizio delle sue funzioni, non rientra nell’ordinato funzionamento degli organi politico-istituzionali».
Una protesta legittima secondo il Pdl, che denuncia la persecuzione sistematica del suo leader...
«Che si possa parlare di disegno per arrivare a una serie di epiloghi giudiziari preordinati mi sembra impensabile...».
Unipol, Mediaset, Ruby, l’inchiesta di Napoli sui senatori corrotti per far cadere il governo Prodi...
«Si tratta di processi di primo o di secondo grado partiti in momenti diversi, che hanno avuto scadenze differenziate e che hanno dovuto subire ritardi a causa di interventi difensivi pur legittimi che hanno fatto scivolare i tempi. I due dibattimenti che si celebrano a Milano, tra l’altro, erano stati già rinviati, su richiesta della difesa, in vista delle elezioni. Solo una casualità, quindi, che si arrivi all’epilogo quasi contemporaneamente».
A sentire Alfano c’è un disegno per far fuori politicamente Berlusconi all’indomani delle elezioni...
«Il momento è sempre inopportuno, a ben ricordare i precedenti... Un imputato eccellente, che ha una posizione politica di primissimo piano, è sempre sotto i riflettori dell’opinione pubblica. E, se guardiamo il problema da questo angolo visuale, non potrebbe mai essere oggetto di un epilogo giudiziario che cadrebbe sempre in un momento poco opportuno».
Anche le visite fiscali al San Raffaele sono state considerate la prova della persecuzione contro Berlusconi...
«Non sono in grado di fare una valutazione dall’interno perché non conosco gli atti del processo, né i contesti specifici. Viste dall’esterno le iniziative dell’autorità giudiziaria mi sembrano assolutamente legittime e previste dal Codice di procedura penale».
Vuole ricordare cosa prevede il Cpp?
«L’imputato, in caso di infermità, può chiedere che il processo venga rinviato. La ragione deve essere giustificata, però. E il Codice prevede la discrezionalità dei giudici nella valutazione dei certificati medici che vengono prodotti. Se i giudici hanno qualche dubbio è loro diritto mandare medici fiscali a verificare come stanno le cose. Mi pare, tra l’altro, che in questo caso è accaduto un po’ di tutto. Quando i medici fiscali hanno rilevato che non c’era impedimento i giudici sono andati avanti, quando hanno rilevato il contrario il processo è stato interrotto. Siamo nell’ambito delle regole previste dal Codice, quindi».
Opportuno mettere in dubbio le affermazioni sullo stato di salute di un ex presidente del Consiglio?
«Qui non siamo di fronte a un problema di opportunità o di inopportunità, ma di rispetto delle norme. La legge è uguale per tutti».
Giusto chiamare in causa il Quirinale, come ha fatto il Pdl?
«Devo dire che sono rimasto leggermente sorpreso. In una prospettiva tecnico-giuridica quella richiesta di incontro non aveva alcun senso. Il Capo dello Stato, ancorché presidente del Csm, fra le sue competenze e funzioni non ha quella di interferire su magistrati che stanno svolgendo attività giudiziaria. Non può assumere alcuna iniziativa tecnica».
Ma poteva rifiutare l’incontro dopo la marcia di Alfano&C. sul tribunale di Milano.Ono?
«Certo. Ma il Capo dello Stato, evidentemente, ha fatto una legittima valutazione di opportunità politica. Perché è chiaro che ciò che sta accadendo ha una sua rilevanza giuridica, ma ha anche effetti importanti sul piano dei rapporti politici. Assolutamente opportuno quindi, ricevere i vertici di una delle maggiori forze rappresentate in Parlamento. Dopo l’incontro, comunque, il presidente della Repubblica ha sottolineato con grande forza che tutti, lui per primo, devono rispettare rigorosamente l’indipendenza dell’autorità giudiziaria».
E ha anche annunciato la convocazione dell’ufficio di presidenza del Consiglio superiore della magistratura...
«Anche il Csm non può assolutamente interferire sull’azione dell’autorità giudiziaria, così come il suo Comitato di presidenza. Il significato di questo incontro potrebbe essere quello di informare ufficialmente i vertici del Consiglio della situazione politico-istituzionale che si è venuta a creare».
Come favorire quel «cambiamento di clima» che auspica il presidente?
«Mi sembra che nessun magistrato abbia detto una sola parola al di fuori dell’Aula del processo. E non posso non riconoscere il tentativo in atto di premere perché in qualche modo se ne esca con un salvacondotto d’impunità...».
A favore di Berlusconi, naturalmente...
«Certo. E mi domando francamente quale possa essere. In questo momento strade non ne vedo».
Il ricatto di bloccare la legislatura punta a questo obiettivo...
«Al momento siamo ancora sulla sponda buona del fiume. Non so dove si potrebbe arrivare se si dovesse forzare la normale dialettica politica in una fase difficilissima come questa».

La Stampa 13.3.13
I magistrati insorgono “Democrazia a rischio”
L’Anm: un attacco alla nostra autonomia
di Francesco Grignetti


Il giorno dopo il blitz del Pdl al palazzo di giustizia di Milano, l’associazione nazionale magistrati non se la sente di tacere. Anche se i suoi vertici lamentano spesso di essere trascinati a forza nelle polemiche, questa volta gli è sembrato troppo. E quindi scrivono solennemente che quella manifestazione capeggiata da Angelino Alfano «ha messo in discussione e in grave tensione i principi fondamentali dell’ordinamento democratico, quali la separazione fra i poteri dello Stato e l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».
È una lunga nota, quella emessa dall’Anm, che cade nel pieno di una giornata incandescente. Il Quirinale ospita i dirigenti del Pdl al mattino. Subito dopo saliranno al Colle i vertici del Consiglio superiore della magistratura. A sera arriverà un comunicato del Capo dello Stato di rara maestria lessicale ed equilibrio tra principi costituzionali.
Nel mezzo c’è la rivolta dei magistrati sulle loro mailing list. C’è chi vorrebbe organizzare una contromanifestazione. Chi è indignato e denuncia la «crisi istituzionale senza precedenti». L’Anm si fa dunque portavoce del malessere fortissimo delle toghe, sottolineando innanzitutto quanto sia una «falsa accusa, rivolta ai magistrati, di voler realizzare una persecuzione giudiziaria».
Perché sia chiaro con chi ce l’hanno, e cioè il Cavaliere, ricordano certi «insulti intollerabili», quando sono stati definiti «più pericolosi della mafia» e «cancro della nostra democrazia». Nel complesso, dicono, si assiste a «un’inaccettabile drammatizzazione di vicende giudiziarie personali, che devono trovare nel processo la loro naturale sede di valutazione e non devono essere trascinate sul piano politico».
E invece è proprio quanto sta accadendo. Le strade della politica e della giustizia s’incrociano per l’ennesima volta. Ma ecco l’altolà dell’associazione: «I magistrati italiani continueranno ancora una volta a svolgere il loro lavoro e a compiere il loro dovere nella consapevolezza che il giudice è soggetto soltanto alla legge e che la fedeltà dei magistrati alla Costituzione costituisce una delle più alte garanzie per la tenuta dello Stato di diritto».
Per essere davvero chiari: l’associazione manterrà «alta l’attenzione e, nel respingere il tentativo di trascinare l’ordine giudiziario in conflitti che gli sono estranei, non mancherà di denunciare con forza e in ogni sede qualsiasi attacco alla propria indipendenza».
Parole che potrebbero sembrare retoriche. Nel contesto di questi giorni suonano piuttosto d’incoraggiamento per i magistrati di Milano e di Napoli che hanno Berlusconi ad oggetto delle loro inchieste o come imputato nei dibattimenti. Puntualmente è così, infatti, che il comunicato viene decifrato dal Pdl. «Indicandoci come antidemocratici, di fatto giustificano ogni mezzo per farci fuori», dichiara Luca d’Alessandro. «L’Anm parla come un partito estremista che cerca di incendiare il clima», gli fa eco Daniele Capezzone. «La differenza tra il senso delle istituzioni e della democrazia, e un pericoloso approccio ideologico al rapporto tra giustizia e politica, sta tutta nella distanza siderale che passa tra le parole del presidente Napolitano e il comunicato dell’Anm», conclude Gaetano Quagliariello.

l’Unità 13.3.13
La rivolta antipolitica che unisce liberisti, ottimati e anticapitalisti
di Francesco Cundari


MENTRE MOLTI DI NOI NON AVEVANO ANCORA SMESSO DI DOMANDARSI CHE FINE AVREBBE FATTO LA DEMOCRAZIA ITALIANA, CON UN INTERO GRUPPO PARLAMENTARE teleguidato da un signore che parla di terza guerra mondiale nel 2020, un intero gruppo parlamentare che nelle Camere siede già da una quindicina d’anni marciava sul tribunale di Milano, teleguidato da un signore che prevedeva un milione di posti di lavoro in più nel 1994, meno tasse per tutti nel 2001 e la cura del cancro nel 2008.
Ipnotizzati dai surreali videomonologhi dei nuovi deputati e senatori a 5 Stelle, molti di noi continuavano a interrogarsi cupamente sulle sorti del Parlamento, mentre l’onorevole Domenico Scilipoti, che in Parlamento è già alla seconda legislatura, guidava fieramente il corteo milanese.
In questi vent’anni l’Italia ha conosciuto molte forme di antipolitica, come la manifestazione del Pdl contro la magistratura ci ha prontamente ricordato. Anche da parte di spezzoni della magistratura e dei media, come ci ha ricordato l’ultima udienza del processo Del Turco, dove la «prova regina» si è rivelata una clamorosa patacca, e ben poco è rimasto di quella «montagna schiacciante» di indizi che nel 2008 ne aveva giustificato l’arresto, l’isolamento, i 28 giorni di carcere, con tutti i principali giornali a sostenere e romanzare in ogni modo le ipotesi accusatorie.
Il grillismo non rappresenta una novità così radicale, in Italia, né sul piano politico né sul piano culturale. Per grillismo e berlusconismo verrebbe voglia di riprendere l’antico adagio marxiano secondo cui la storia si ripete sempre due volte, la prima in forma di tragedia e la seconda di farsa. Ma in questo caso non scommetteremmo sull’ordine di apparizione. Eppure entrambi, grillismo e berlusconismo, sono stati a lungo e saranno ancora vezzeggiati, alimentati, adulati, da quegli ambienti della finanza, della cultura e del giornalismo liberale che pur di ostacolare la sinistra sarebbero capaci di chiamare in soccorso il più inverosimile dei cavalieri (e infatti già due ne hanno regalati all’Italia).
Questa è la terza e la più radicale forma di antipolitica conosciuta dal nostro Paese: l’antipolitica degli ottimati, dei tecnici, di quell’aristocrazia del denaro e non di rado anche del sangue, a giudicare dal numero di cognomi procapite che da anni alimenta tutte le più violente campagne contro i partiti e i sindacati, la politica e lo Stato, riuscendo così a distogliere la collera popolare dai suoi privilegi, per scaricarla preventivamente su chiunque possa mai sognarsi di metterli in discussione.
Ma se scartassimo in blocco come antipolitica il centrodestra berlusconiano, il centro montiano e il radicalismo grillino, se ne potrebbe concludere che l’unica politica ammissibile sia quella del centrosinistra guidato dal Pd. Questo modo di ragionare non sarebbe però che una quarta forma di antipolitica, fondata anch’essa, come tutte e tre le precedenti, sull’idea che alla fin fine vi sia una sola ricetta di governo valida, una sola verità accettabile, una sola linea di riforma possibile, responsabile, credibile.
L’antipolitica proprio come la politica non è e non potrà mai essere identificata in un solo partito. È al tempo stesso un’ideologia, una cultura, uno stato d’animo. Uno spirito condiviso che in Italia unisce il fondamentalismo liberista del professor Luigi Zingales e l’antistatalismo anarcoide di Beppe Grillo, il tribuno televisivo e il magistrato di grido, il banchiere e il no-Tav, l’accademico e il buffone. Forse, nell’Italia di oggi, è semplicemente lo spirito dei tempi. Tempi cupi, certo, che però spetterà ancora e sempre alla politica cambiare.

il Fatto 13.3.13
L’appello
In 190 mila: B. ineleggibile
di Paolo Flores d’Arcais


Il marcio ventennio berlusconiano può davvero finire tra pochi giorni. Ma Napolitano ha posto il veto: “bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso di questa Immoral Suasion del Colle. Invece, 190 mila cittadini hanno già aderito, in poco più di una settimana, all’appello che tramite www. microme  ga.net   Andrea Camilleri e Da-rio Fo, Margherita Hack e Barbara Spinelli, Franca Rame e Vittorio Cimiotta, e infine il sottoscritto, hanno lanciato perché il nuovo Parlamento finalmente rispetti la legge 361 del 1957 che rende Berlusconi inequivocabilmente NON eleggibile, e della quale uno spregevole inciucio ha fatto strame nelle passate legislature. Il primo ricorso, nel 1994, e il secondo nel 1996, ho avuto l’onore di firmarli insieme agli indimenticabili Alessandro Galante Garrone, Antonio Giolitti, Vito Laterza, Paolo Sylos Labini, Aldo Visalberghi.
CHE NEL 1994 una maggioranza berlusconiana calpestasse la legge era purtroppo prevedibile: l’espressione “in proprio”, fu “miracolata” dalla Giunta delle elezioni in “in nome proprio”, con una interpretazione alla azzeccagarbugli, pretendendo che la ineleggibilità valesse per amministratori e manager ma non per i proprietari, per Confalonieri e non per Berlusconi. Che la stessa ingiuria alla legalità venisse inflitta nel 1996 dalla maggioranza dell’Ulivo resta invece un triste abominio, che il centro-sinistra ha purtroppo reiterato nella successiva vittoria elettorale. Ora Napolitano ci mette il suo carico da undici. Ma due giorni fa Vito Crimi, cittadino del M5S eletto al Senato, ha ufficialmente annunciato che i membri del M5S nella Giunta delle elezioni voteranno per il rispetto della legge e per dichiarare dunque Berlusconi NON eleggibile e NON eletto. Questa decisione ufficiale cambia completamente il quadro politico.
E infatti: da molte parti si invoca un “dialogo” tra M5S e Pd, ma un dialogo sulle cose il M5S lo ha già avviato, su almeno tre questioni altamente qualificanti: rinuncia ai rimborsi elettorali (e successiva legge che li abroghi), accettazione di una presidenza della Camere, purché senza trattative, e infine la NON eleggibilità di Berlusconi. A questo punto è Bersani che deve rispondere, con un evangelico “sì sì, no no” (“perché il di più viene dal demonio”, Matteo 5,37) senza ciurlare nel manico. Quando la giunta delle elezioni del Senato si riunirà, gli esponenti del Pd voteranno insieme a quelli del M5S o a quelli del cieco di Arcore?
Se voteranno per la legalità, affiancandosi al M5S, Berlusconi uscirà di colpo dalla scena politica, e di fronte alla legge, alle inchieste, ai processi, alle sentenze, sarà un cittadino eguale a tutti gli altri. Se fossi Nostradamus scommetterei che il giorno dopo la decisione del Senato (forse un minuto dopo) il putiniano di Arcore sarebbe già all’estero, malgrado l’uveite.
Questa clamorosa svolta nella politica italiana è dunque a portata di mano, e si deciderà tra pochi giorni. Il moltiplicarsi delle firme all’appello di Micro-Mega è lo strumento perché l’indignazione democratica si trasformi in azione e costringa Bersani, Vendola e Renzi a dire senza più infingimenti se vogliono che l’Italia esca dalla vergogna delle macerie morali e materiali cui l’hanno portata Berlusconi e gli inciuci senza complessi di D’Alema, oppure se i loro “8 punti”, “rottamazioni” e altre” narrazioni” sono il solito ritornello gattopardesco con cui si vuole puntellare un potere di establishment avvitato nell’indecenza.
Non si facciano illusioni: ogni titubanza, ogni contorsionismo verbale, ogni tentativo di procrastinare la decisione del Senato, saranno vissuti dai cittadini che ancora credono nella Costituzione repubblicana come complicità e omertà con Berlusconi e i suoi bravi. Perché di questo in effetti si tratterebbe.
È SEMMAI incredibile che lo squadrismo in botulino con cui i parlamentari Pdl hanno aggredito il palazzo di giustizia di Milano e l’autonomia della magistratura non abbia avuto risposta adeguata da parte del Pd. Non si tratta di un golpe, infatti, solo perché i protagonisti sono a livello della pochade, ma la volontà eversiva c’è eccome. Contro la quale in piazza il 23 dovrebbero magari scendere gli amici della Costituzione.

Repubblica 13.3.13
Patti impossibili con questa destra
di Piero Ignazi

L’IMMAGINAZIONE al potere è stato il bellissimo slogan di una stagione felice e solare, quella di fine anni Sessanta, quando in Occidente lo sviluppo e il benessere sembravano non finire mai. In questi giorni è tornato in auge, grazie al Movimento 5 Stelle. Ogni giorno che passa i neoeletti del M5S aggiungono un tassello tra il fantasioso e il surreale alla loro visione della politica nazionale.
Mentre nel passato i partecipanti ai vari Meetup grillini si ingegnavano per risolvere i problemi della comunità dove vivevano offrendo proposte innovative ed anche brillanti, ora, approdati alla grande politica, sembrano essere partiti per la tangente. Il loro celebrato e benemerito pragmatismo, fatto di piccoli passi ed azioni concrete, sta cedendo il passo al settarismo: tutti i politici sono dei farabutti, i giornalisti un branco di lupi famelici, e solo loro si considerano puri e indomiti. Se così fosse avrebbero ragione coloro che dipingevano il M5S come un movimento populista, che divide il mondo in bianco e nero e in buoni e cattivi, e dove il Capo ha sempre ragione. L’atteggiamento anti-establishment di questi giorni sta infatti oscurando l’altro côté identificativo del Movimento, quello ecologista- alternativo, paragonabile ai Verdi tedeschi degli inizi. Anche allora, ed anche tra personaggi come Joschka Fischer, poi apprezzato ministro degli Esteri, avevano libera circolazione proposte bizzarre e provocatorie. Ma per loro fortuna i Grünen non dovettero subito confrontarsi con la questione del governo. Ne rimasero esclusi, a livello federale, per quindici anni. Oggi, invece, i parlamentari a Cinque Stelle devono fare subito delle scelte impegnative. Catapultati da una dimensione di attivismo locale senza nessuna esperienza istituzionale, si trovano ad avere in mano le chiavi della governabilità del nostro paese. Si può comprendere lo sconcerto. Solo che questo inevitabile spaesamento non viene compensato con la disponibilità all’ascolto e al confronto. Al contrario: alle solite litanie dell’essere null’altro che i rappresentanti dei cittadini (come se i parlamentari non fossero sempre stati questo, in linea di principio almeno) i grillini affiancano atteggiamenti altezzosi al limite dello sprezzante, scimmiottando già, ma in sedicesimo e senza il gusto del paradosso, la verve del loro capocomico. Se allora essi considerano – populisticamente – che tutti i partiti siano uguali e che nessuno meriti fiducia “a prescindere”, allora il loro contributo all’interno delle istituzioni è, e sarà, nullo. Ma se invece adottano un approccio meno ideologico, “alla siciliana”, valutando nomi e proposte, allora parte davvero la loro lunga marcia nelle istituzioni. Il Pd ha fatto una mossa verso il M5S che può essere definita disperata o coraggiosa. Comunque ha il grande merito di porre di fronte alle sue responsabilità il secondo partito del Parlamento (perché è il Pd il primo partito: calcolando i voti degli italiani all’estero i democratici hanno sopravanzato di centocinquantamila voti i grillini). Bersani si propone quasi come una vittima sacrificale del disastro politico-elettorale del suo partito: senza ponti dietro le spalle o piani B, va a stanare M5S dal suo cantuccio anti-tutti. Questa scelta obbliga il partito di Grillo a scegliere, ad assumersi il carico della governabilità possibile votando la fiducia ad un governo di minoranza, o dell’instabilità generale riportandoci tutti al voto. Ogni giorno i grillini tentano una via di fuga da questo dilemma. Ultimo in ordine di tempo, il richiamo alla lunga assenza di governo in Belgio, dimenticando però che quello è un paese federale con due comunità che gestiscono autonomamente molte competenze e la maggior parte del bilancio pubblico. Ad ogni modo, ogni altra soluzione è ora resa impossibile dalla manifestazione proto-sovversiva del Pdl al Tribunale di Milano. Per questo il Pd non ha altra scelta se non andare alla verifica dei numeri in Senato, incurante delle bordate a ripetizione di Grillo. Ma quindici giorni sono un’eternità in politica. E magari, alla fine di questo calvario, lo stesso Bersani
può individuare uno spiraglio imprevisto.

il Fatto 13.3.13
Voltafaccia
Marò, tutto salvo fuorché l’onore
di Bruno Tinti


Il 15/12/12 Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, militari italiani in servizio di sicurezza sulla petroliera Enrica Lexie, ammazzano Gelastine Valentine e Ajesh Binki, due pescatori indiani che si erano avvicinati con un peschereccio, probabilmente per vendere pesce. Li scambiano per pirati e li colpiscono a morte con i loro fucili. Sono arrestati dalle autorità indiane e si apre una controversia internazionale. L’India, per la verità non la gestisce male. La Corte Suprema di New Delhi sottrae la competenza al Tribunale di Kerala che manteneva i due marò in stato di detenzione e, il 2/6/2012, li scarcera, con l’obbligo di restare a disposizione; si riserva di decidere su quale nazione li debba giudicare: Italia o India? L’attività diplomatica è intensa.
IL PROBLEMA è: dove è avvenuto il fatto? Acque territoriali indiane, acque internazionali? Se il fatto è avvenuto in acque internazionali la competenza a giudicare dovrebbe essere italiana; e la Enrica Lexie era a 20 miglia dalla costa indiana; il limite delle acque territoriali è 12 miglia. New Delhi ci pensa su parecchio e, alla fine dell’anno, ancora non ha deciso. Però arriva Natale e l’Italia chiede alla Corte un permesso: i due marò trascorrano le feste a casa loro, promettiamo che ritorneranno. La Corte acconsente. Massimiliano e Salvatore sono ricevuti con tutti gli onori: Napolitano gli stringe la mano, tutti li trattano come eroi; dei pescatori ammazzati non importa a nessuno. Finite le ferie, i due rispettano l’impegno preso e tornano in India, dove ancora si deve decidere chi li giudicherà. Il 18/1/2013, la Corte di New Delhi stabilisce che la competenza appartiene all’India perché l’incidente è avvenuto in acque territoriali indiane. Ma come, le navi erano oltre le 12 miglia. Sì, ma si deve applicare la convenzione di Montego Bay secondo cui il limite è di 200 miglia. Ma la convenzione riguarda le attività commerciali, la pesca. Fa lo stesso, è questa che si deve applicare, i marò saranno giudicati da un Tribunale indiano. La decisione non piace all’Italia; così, quando arrivano le elezioni, si chiede un nuovo permesso per i marò; l’India lo concede e, alla scadenza, il nostro ambasciatore comunica che, siccome la decisione della Corte di New Delhi è in violazione di “norme internazionali consuetudinarie”, i due non faranno ritorno in India. Scoppia un casino e l’Italia fa una figura barbina internazionale. Perché?
INTANTO perché le manifestazioni di giubilo con cui a Natale 2012 i due fucilieri furono accolti in Italia sono considerate del tutto fuori luogo. Si tratta di gente che ha ammazzato due poveri cristi; che probabilmente si sia trattato di omicidio colposo (che vuol dire che si erano sbagliati, che credevano davvero che erano pirati) è probabile. Ma certo questo consola poco i familiari dei pescatori; e non depone a favore delle qualità professionali dei militari. È comprensibile che i loro genitori siano contenti di rivederli; ma è del tutto inopportuno che Napolitano li riceva e gli stringa la mano: che hanno fatto per meritare le congratulazioni del presidente della Repubblica? Si fosse limitato a dire che ringraziava l’India della fiducia e che garantiva il rispetto dei patti sarebbe stato meglio.
Ma soprattutto, perché rispettare i patti a Natale e violarli a Pasqua? Si sapeva già, fin dal giugno 2012, che gli indiani stavano ponzando sulla competenza a giudicare; questione che poteva essere risolta solo in tre modi: India, Italia o altro organismo internazionale. Allora perché non dire subito: io non mi fido tanto di voi, magari decidete che il processo si deve fare in India; quindi abbiate pazienza, vi abbiamo fregato, abbiamo promesso che ritornano e invece ce li teniamo a casa. Non sarebbe stata una bella figura ma almeno saremmo stati chiari fin dall’inizio. Ma no, glieli abbiamo restituiti. Perché? Magari perché speravamo che la decisione della Corte di Delhi ci sarebbe stata favorevole? Si, avrebbe potuto dire, la competenza spetta all’Italia. Fosse andata così ne saremmo usciti con tutti gli onori e senza incidenti internazionali. Era opportuno aspettare. Ma, guarda che jella, l’India, dopo il ritorno dei marò, decide in senso contrario; e questo non ci sta bene. Nuovo permesso e questa volta, tiè, li volete giudicare voi? Non se ne parla. Un po’ come fa B che, quando lo assolvono, loda i giudici imparziali e, quando lo condannano, li insulta e spiega che lo perseguitano perché sono comunisti. Insomma, finché c’era la possibilità che gli indiani ci dessero ragione, rose e fiori; ma, se ragione non ce la danno, violano le norme internazionali, commettono ingiustizie e legittimano il ricorso a... giusto, a cosa? Allo spergiuro, alla truffa, alla circonvenzione? Fate voi.
Perché questa è la cosa peggiore. Torto e ragione sono cose non sempre così evidenti in diritto. E non sempre è la ragione a prevalere. Però l’onore, la parola data... “Perché quann'uno, caro mio, se vanta d’esse un omo d'onore, quanno ha dato la parola, dev'esse sacrosanta. E sia longa la strada, o brutta o bella, Magara Cristo ha da morì ammazzato, Ma la parola sua dev'esse quella” (Pascarella - La scoperta dell’America).

La Stampa 13.3.13
Convocato l’ambasciatore: Roma rispetti i patti
L’India alza i toni “Riporteremo qui i marò italiani”
Il premier: attiveremo tutti i canali diplomatici
di Francesco Grignetti


La decisione di trattenere i marò in Italia fa infuriare l’India. Si arrabbia l’opinione pubblica, che sfoga la sua rabbia su Internet e anche in piazza, nel Kerala, dove l’associazione dei pescatori ha tenuto una bollente manifestazione contro l’Italia e contro il governo che ha concesso agli italiani la licenza premio. Insorge l’opposizione nel Parlamento. Soffiano sul fuoco i media, rilanciando le parole dolenti delle vedove dei due pescatori morti. Ma è forte anche la presa di posizione del governo indiano: il nostro ambasciatore Daniele Mancini è stato convocato al ministero degli Esteri perché gli fosse chiaro che «l’India - come da comunicato ufficiale - si aspetta dalla Repubblica italiana, come Paese impegnato nel rispetto della legge, che onori la dichiarazione giurata sovrana fornita da essa alla Corte Suprema». Gli indiani si sentono traditi. Ne fanno una questione di orgoglio nazionale e su questo sentimento, in India, non si scherza. Tanto che è lo stesso primo ministro Manmohan Singh a sintetizzare così, in un incontro con alcuni parlamentari del Kerala, la posizione del suo governo: «New Delhi attiverà tutti i canali diplomatici per riportare in India i due militari italiani». Si temono ora contraccolpi sull’interscambio economico.
Altro che accogliere la proposta di un arbitrato internazionale, dunque. La richiesta italiana per il momento non viene presa in considerazione. New Delhi è arroccata sul principio che il processo va fatto in India e stop. E anche l’appello della Ue - «si trovi una soluzione che rispetti le convenzioni dell’Onu» - risuona a vuoto. Il premier Singh, peraltro, è strattonato da tutte le parti. Il partito indù Bjp parla di tradimento e accusa Singh di «collusione» con gli italiani. Si sprecano le dietrologie di chissà quale scambio ci sarebbe dietro le quinte. L ’affaire Finmeccanica viene tirato in ballo in ogni ragionamento. Così come l’origine italiana di Sonia Gandhi, leader dell’egemone Partito del Congresso.
Anche gli italiani, però, si sentono traditi. A parte il «trappolone» che è all’origine di tutta la vicenda, quando la petroliera Enrica Lexie fu indotta a entrare in un porto indiano con l’inganno, è la dinamica di tredici mesi di difficilissimi rapporti tra i due governi a spiegare lo strappo di lunedì.
Occorre fare un passo indietro: la decisione è stata presa d’impeto sabato 9 marzo. Tre giorni prima, il 6 marzo, per l’ennesima volta, dall’Italia era stato richiesto l’arbitrato internazionale. Conferma ufficiale indiana, ieri: «La richiesta del 6 marzo è in corso di esame». Per tutta risposta, appunto il 9, giunge la notizia imprevista che New Delhi ha accelerato sulla costituzione di un tribunale speciale. A Roma si comprende che gli indiani non sono affatto intenzionati a rimettere in discussione la questione della competenza.
La prospettiva
La proposta italiana di un arbitrato internazionale diventa sempre più complicata è una sola: processo e condanna sicura. Latorre e Girone rischiano di finire in carcere, e con una pena che può andare da 42 anni fino alla morte.
Monti e i ministri a quel punto si sono trovati di fronte a un bivio: rompere gli indugi oppure mollare la patata bollente ai successori. Ma proprio sabato 9, con le affermazioni roboanti di Grillo ai suoi («Se votate la fiducia io mollo la politica»), è stato anche chiaro che l’Italia non avrebbe avuto un nuovo governo per chissà quanti mesi. Da una parte, insomma, l’accelerazione. Dall’altra, la palude. E schiacciati nel mezzo i due marò, virtualmente già in carcere. «Tirarli fuori sarebbe stato impossibile», spiega una fonte diplomatica. Di qui lo strappo.

Corriere 13.3.13
Lo spettro magiaro che inquieta l'Europa
I seggi vuoti dell'opposizione contro la deriva autoritaria del premier Orbán


È solo un patriota aggressivo Viktor Orbán, il premier populista ungherese che sfida l'Europa, rivendicando al suo Paese piena libertà di azione? O è anche qualcosa di molto più pericoloso, un leader in piena deriva autocratica che sta progressivamente smantellando l'impianto della giovane democrazia magiara, costruendo nel cuore dell'Unione Europea un regime privo di garanzie, controlli e contrappesi istituzionali, docile strumento della sua vocazione autoritaria?
Il fumus è denso e acre, al termine di dieci giorni che hanno sconvolto l'Ungheria e hanno visto Orbán prima nominare un fedelissimo alla guida della Banca Centrale, quindi incassare dal Parlamento, dominato con una maggioranza di 2/3 dal suo Fidesz, un'inquietante modifica della Costituzione, denunciata all'interno (i deputati socialisti hanno disertato l'Aula) e all'esterno del Paese come una chiara negazione dei principi dello Stato di diritto e della separazione dei poteri.
Incurante delle messe in guardia e degli inviti a ripensarci, lanciati dal Consiglio d'Europa e dalla Commissione europea, Orbán ha dato segnale verde al suo uomo di mano, il presidente del Parlamento Laszlo Kovér, che ha fatto approvare l'emendamento della discordia.
Viene così di fatto esautorata la Corte Suprema, che ora non potrà più deliberare sul contenuto delle modifiche alla Costituzione. Inoltre, leggi liberticide che la Consulta aveva respinto ancora pochi mesi fa, diventano articoli costituzionali, dunque intoccabili: fra questi, il divieto di dormire per strada ai senzatetto, che potranno essere perseguiti penalmente; il bando alla pubblicità elettorale sui media privati, ultimi panda di una comunicazione indipendente; l'esclusione dalla definizione ufficiale di famiglia delle coppie di fatto, di quelle omosessuali e perfino di quelle senza figli. Ancora, viene limitata la libertà di espressione, quando lede «la dignità della nazione magiara», definizione buona per ogni uso.
E che le preoccupazioni e le critiche ascoltate nelle capitali europee, a Bruxelles e a Washington non impressionino affatto l'uomo nero di Budapest, ne è prova il suo discorso di ieri davanti a una platea di uomini d'affari nella capitale ungherese. Parlava di economia, Viktor Orbán. Spezzava il suo verbo del nazionalismo economico, annunciando la creazione di un sistema bancario statale, in modo da consentire alle aziende ungheresi di convertire in fiorini le proprie esposizioni in euro o altre valute straniere. Ma qui ci interessa soprattutto la parte dedicata alla «libertà di agire»: «Non ha alcuna importanza quanti nemici abbiamo, noi possiamo provare che anche messi nell'angolo, possiamo seguire una politica nazionale che ci possa far trovare i nostri amici, creare alleanze e rimanere in piedi da soli, senza aiuti». Se un Paese non crede di poterlo fare, ha concluso Orbán, «allora quella nazione deve morire».
Come da canovaccio, la retorica della via nazionale, che Orbán suggerisce anche agli altri Paesi dell'Europa centrale e orientale di seguire, appare sempre più lo schermo fumogeno dietro il quale il premier ungherese fa passare un progetto dirigistico e autoritario. La domanda è ovvia: fino a quando potrà abusare della pazienza, o della neghittosa tolleranza, dell'Europa?
Per molto meno, 13 anni fa, l'Austria di Jörg Haider fu sottoposta a sanzioni inconcludenti. Ma oggi Orbán pone all'Ue una sfida più grave e complessa. E c'è maggior consenso politico di allora, quanto all'intollerabilità dei suoi attacchi alla democrazia. Forse è tempo di ritirare i diritti di voto dell'Ungheria nell'Unione, una misura che minerebbe all'interno la sua immagine di uomo forte. Senza dimenticare che Budapest ha avuto assegnati tra il 2007 e il 2014 oltre 27 miliardi di euro a titolo dei fondi di coesione. E che nel prossimo bilancio potrebbe anche ricevere di più. Anche l'ipotesi di sanzioni finanziarie non è da scartare: non si può pensare di poter appartenere a una comunità, godendone i benefici e allo stesso tempo negando i valori che la ispirano e la tengono insieme.
Paolo Valentino

Repubblica 13.3.13
L’onore
Un concetto apparentemente arcaico, ma valido sempre Si rivela anche un valore civico, base per la convivenza
Perché essere rispettati è il fondamento della politica
di Kwame Anthony Appiah


Spesso oggi il richiamo all’onore personale sembra un retaggio del passato, qualcosa che evoca immagini di damerini imparruccati che si sfidano a duello alle prime luci dell’alba o, peggio, di Achei sporchi di sangue che assaltano le mura di Troia. Il diritto penale italiano, del resto, riconosce ancora alcuni reati (diffamazione e oltraggio) il cui fulcro è ritenuto essere il danno privato arrecato all’onore della vittima. Di fatto, fino a un’epoca relativamente recente — per la precisione fino al 5 agosto 1981 — il codice penale italiano prevedeva che l’assassinio di una donna sposata colta in flagrante delicto
potesse essere punito con una sentenza più lieve, dai tre ai sette anni di carcere (a fronte della condanna per le altre tipologie di omicidio che è di minimo 21 anni), con l’attenuante di aver commesso il fatto in preda all’ira derivante dall’oltraggio all’onore proprio o della propria famiglia. Fino a quella stessa data, per l’articolo 544 del codice penale italiano, lo stupro di una donna nubile da parte di un celibe era considerato non perseguibile nell’eventualità che la donna acconsentisse a sposare il proprio violentatore; il matrimonio in questo caso veniva definito riparatore, in quanto ristabiliva l’onore “perduto” della ragazza.
Anche quando il concetto di onore non si incarna nel diritto, resta comunque una presenza forte nella vita sociale. La vergogna dei “cornuti”, ovvero degli uomini traditi dalla moglie con un altro, è difficile da concepire come semplice violazione di un contratto, mera promessa infranta. E al giorno d’oggi anche la donna che viene tradita dal marito è guardata non solo con pietà ma anche con un certo disprezzo. Ancora, molti di noi provano vergogna quando dei loro connazionali macchiano l’onore del proprio Paese con il loro comportamento e al contrario orgoglio quando altri vi danno lustro.
Passando in rassegna parte delle teorie e delle pratiche relative al concetto di onore, sono giunto a una concezione filosofica di tale ideale in grado di spiegare
cosa esso sia e come funzioni al di là dello spazio e del tempo. Questa concezione trae spunto da una tesi che ho derivato dall’antropologo Frank Henderson Stewart: l’onore ruota fondamentalmente intorno al diritto al rispetto. Onorare una persona significa trattarla come degna di rispetto, comportarsi con lei come merita. Chi si considera degno d’onore farà mostra di autostima, porterà a se stesso il dovuto rispetto. In cosa si sostanzi il rispetto dovuto, in che modo lo si dimostri e quali siano gli elementi che ci fanno guadagnare o perdere il diritto a essere rispettati, sono tutti parametri variabili da cultura a cultura. Ma la struttura fondamentale dell’onore — il diritto a essere rispettati che deriva dalle norme o convenzioni sociali, il cosiddetto codice d’onore — è a mio avviso una costante universale dell’essere uomini. Ecco perché è possibile parlare di onore praticamente in ogni contesto.
Rispetto e disprezzo nei confronti di una persona possono rappresentare entrambi la conseguenza di azioni compiute da altri, dal momento che il proprio onore è sempre il proprio onore di persona con una qualche identità sociale. Si può ottenere onore da e per la propria famiglia, il proprio Paese, il proprio lavoro; ciò significa che chi condivide la nostra stessa identità — parenti, concittadini, colleghi — può diventare meritevole di rispetto per qualcosa che noi abbiamo fatto.
L’onore può essere sia individuale che collettivo. L’onore civico assume entrambe le forme. La forma individuale è quella del rispetto che i cittadini di uno Stato devono a quelli di un’altra nazione. È regolato da codici sociali afferenti alla vita politica di un dato Paese: questo è l’elemento che lo rende civico. Esso svolge un ruolo cruciale nello spingere i cittadini a fare molte delle cose che risultano necessarie per il corretto funzionamento di una società, e in particolare di una società democratica.
Il fulcro dell’onore civico individuale è assai semplice: si pensa che chi ha dato un contributo speciale alla vita civica sia degno di rispetto da parte dei propri connazionali. Tale rispetto viene dimostrato trattando quegli individui in base alla considerazione positiva che nutriamo nei loro confronti. Quando incontro al seggio la gente del mio stesso distretto elettorale, ci guardiamo reciprocamente con il rispetto di chi sa di star compiendo volontariamente un’azione importante tutti insieme. Ed eccovi un altro esempio, forse altrettanto americano: spesso, quando giro per gli aeroporti, mi capita di sentir dire a qualche membro delle forze armate statunitensi che viaggia in uniforme «grazie per il vostro servizio». In un Paese come il nostro che ha un esercito di volontari, siamo grati a chi si offre di arruolarsi. Tale espressione di gratitudine rende onore a quella scelta, vale a dire che recepisce fare il soldato o il marinaio o il marine o il pilota come degno del nostro rispetto. Normali casi di riconoscimento
come quello che ho citato fanno parte dell’esperienza quotidiana dell’onore civico in una democrazia moderna, come ne fanno parte gli altrettanti momenti di vergogna civile. Rientrano nelle modalità con cui l’onore individuale contribuisce a plasmare la nostra vita politica.
Ma nella vita civica conta anche moltissimo l’onore collettivo. Prendete questo semplicissimo esempio: negli anni Cinquanta, molti critici di sinistra del governo americano furono soggetti a persecuzioni. Uno dei miei eroi intellettuali, W. E. B. DuBois, fu indagato (alla fine però senza alcun esito) con l’accusa di essere un agente segreto straniero. In questo frangente difficile della sua vita una fonte di consolazione importantissima fu per lui il sostegno ricevuto da uomini e donne — gente comune ma anche, come nel caso di Albert Einstein, gente che poi così comune non era — sia negli Stati Uniti che altrove. Nel suo racconto del processo, In Battle for Peace (In lotta per la pace) DuBois cita lettere di solidarietà speditegli dalla Cina e dalla Russia, da Israele e dalla Nuova Zelanda, dalla Germania e dal Nordafrica francese. Questa sensazione che il mondo intero stesse a guardare ebbe un impatto fondamentale per l’evoluzione delle politiche statunitensi in materia di diritti civili e giustizia razziale, in parte perché il razzismo americano rappresentava un danno troppo grave per la reputazione del Paese nella battaglia ideologica contro l’Unione Sovietica e il blocco comunista. L’onore nazionale americano ebbe un ruolo fondamentale nel porre fine ad alcuni dei più deplorevoli eccessi del razzismo.
Allo stesso modo, le campagne per la libertà d’espressione e di associazione condotte dal Pen Center Indipendente cinese (Icpc) negli ultimi anni sono state supportate dalle attività di una fitta rete di Pen Center in tutto il mondo, che hanno avuto un ruolo attivo, tra le altre cose, nella candidatura di Liu Xiaobo, uno degli ex presidenti dell’Icpc, al Nobel per la Pace. Il perdurare della prigionia di Liu danneggia la reputazione della Cina agli occhi dei molti che in tutto il mondo guardano con grande rispetto alla cultura di quel Paese. Finché lui rimane in carcere, possiamo sperare che il fatto di avere gli occhi del mondo puntati addosso sia il motivo per cui sempre più suoi colleghi attivisti dell’Icpc, molti dei quali hanno ricevuto l’invito a prendere un tè con le autorità, sono ancora in libertà. I cinesi — compresi gli esponenti del governo — ci tengono a meritare il rispetto del resto del genere umano. Hanno a cuore l’onore del loro Paese.

Repubblica 13.3.13
Padre Gabriele Amorth racconta a Paolo Rodari la storia del segretario del cardinal Casaroli. Da Padre Pio a Wojtyla alla possessione
Il diavolo
La battaglia più difficile dell’ultimo esorcista
di Paolo Rodari


Maggio 1981, Vaticano. Angelo Battisti lo sa bene. Occorre essere pazienti e forti in ogni circostanza della vita. Gliel’ha insegnato il suo grande amico e confidente Padre Pio da Pietrelcina. E gliel’ha insegnato bene anche l’altra figura che, gioco forza, è divenuta importante nella sua esistenza: il cardinale Agostino Casaroli, Segretario di stato vaticano.
È l’ultimo giorno di lavoro di Angelo alle dipendenze di Casaroli. Il cardinale lo vuole salutare prima del congedo. In una nobile stanza del palazzo apostolico — drappeggi rossi, poltrone di velluto e un grande soffice tappeto — sua eminenza non tarda a prendere la parola.
«Angelo, io vorrei che uscendo di qui lei non dimenticasse che è con gratitudine che il Vaticano la manda in pensione ».
«Eminenza, non mi deve ringraziare. Io ho soltanto cercato di fare il mio dovere al meglio».
«Non la ringrazio solo per il suo lavoro. Ma anche per la discrezione che ha mantenuto in questi anni. So che conosce molte cose di Padre Pio. So che è stato un intermediario importante tra lui e il Santo Padre. E ho apprezzato molto che in questi anni lei abbia mantenuto ogni cosa per sé. Per noi, per me, la discrezione e il silenzio valgono molto».
Angelo saluta il suo superiore e pensa agli anni trascorsi in Vaticano. A quando, nel 1962, gli toccò fare la spola fra Roma e San Giovanni Rotondo per conto di monsignor Karol Wojtyla, allora semplice vescovo ausiliare di Cracovia. Un’amica d’infanzia del futuro Papa, infatti, Wanda Poltawska, era seriamente ammalata. Wojtyla scrisse una lettera a Padre Pio chiedendogli preghiere. Mandò la lettera a un cardinale italiano il quale chiese ad Angelo di portarla a San Giovanni Rotondo.
«Angiolino, a questo non si può dire di no», gli disse il frate quando ricevette la lettera. E, infatti, la missiva non rimase senza risposta. Di lì a poco la Poltawska guarì completamente e inspiegabilmente. Angelo non comprendeva perché Padre Pio stimasse tanto Wojtyla. «Chi è questo monsignore?», si chiedeva incredulo. Solo nell’ottobre del 1978 capì ogni cosa. Padre Pio, evidentemente, aveva intuito con chi aveva a che fare, chi era quel vescovo ausiliare che gli aveva scritto chiedendogli aiuto. Era il futuro Papa: Wojtyla, dopo la morte di Albino Luciani, divenne Giovanni Paolo II.
Angelo scende per l’ultima volta le scale del palazzo apostolico. Percorre il cortile del Belvedere senza voltarsi. La visita alla chiesa di Sant’Anna, in prossimità dell’uscita, è l’ultima tappa. Passano soltanto cinque minuti. Poi Angelo esce dalla chiesa. Esce, ma non è più se stesso. Ha il viso scuro, provato, come se una brutta notizia fosse arrivata improvvisa a oscurare una giornata di sole.
Cosa è successo in quella chiesa? Cosa è accaduto?
Certe cose non si possono spiegare. Certe cose accadono e basta. E uno ci si trova dentro senza conoscerne il motivo. La differenza qui sta nel fatto che Angelo, in questa cosa, non ci si trova semplicemente dentro. Semmai è questa cosa a essere dentro di lui. È lì, senza dubbio alcuno, dentro di lui.
Muta ma viva. Silente ma attiva.
E la prima azione che gli ordina di compiere è chiara e decisa: «Scappa da qui!».
Angelo arriva a casa rabbuiato. Per festeggiare la pensione, Dora, sua moglie, gli ha preparato una cena coi fiocchi. Ma lui non mangia. Va diritto nel letto. Non si addormenta però. Resta lì, tutta la notte sotto le coperte con gli occhi sbarrati al soffitto. È quel buio che poche ore prima l’ha investito nella piccola chiesa di Sant’Anna ad avvolgerlo ancora e a martellargli nelle tempie: «Non lo sai? Ora sei mio».
Il dottor Fabrizi, medico di casa Battisti, rimane per qualche istante in silenzio. È pensieroso e preoccupato. In vita sua ha visitato tanta gente. Ha imparato che la mente umana è un grande mistero entro il quale occorre entrare coi piedi di piombo. E anche con molta umiltà. Su Angelo non osa dire nulla, perché non sa cosa dire. Il cambiamento della personalità dell’uomo avvenuto in così poco tempo lo sconcerta e lo inquieta. E non ha risposte certe da dare.
Padre Candido Amantini, (esorcista della diocesi di Roma, maestro di padre Gabriele Amorth ndr) conosce Angelo da anni. Saputo del suo cambiamento, gli fa visita più volte. Ma Angelo non si apre, non si confida. Anzi, finché c’è padre Candido in casa si comporta normalmente. Appena l’esorcista esce, torna nel suo buio. Una mattina padre Candido si presenta in casa senza preavviso. Tutto è in disordine. Angelo, in uno dei suoi raptus d’ira sempre più frequenti, ha sfasciato mobili, suppellettili. La stanza da letto è quella meno danneggiata. Ma qui lo spettacolo terrificante è Angelo. Sdraiato sul letto, stringe la statua di san Michele arcangelo. Dalla sua bocca esce un lamento indecifrabile. È bianco in viso, la barba sfatta, i vestiti sporchi. Non si è accorto di padre Candido che, improvvisamente, alza la voce.
«Eccoti finalmente! Dopo tanto tempo riesco a incontrarti. Chi sei?». Angelo apre gli occhi. Questa volta non è ossequioso, gentile, delicato. Adesso, infatti, chi vive dentro di lui non può più simulare. E inizia a ridere, prima sommessamente, poi di gusto. Ride in faccia a padre Candido che nel frattempo impugna una croce e indossa una lunga stola viola. Le sue armi, le sue difese, i suoi fendenti.
Angelo ride e poi di colpo vomita un’enorme quantità di poltiglia verde. La vomita addosso a padre Candido che non arretra. Anzi avanza. Appoggia la croce sul petto di Angelo che trema, ora immobile, come inchiodato, sopra il proprio letto.
Padre Candido è convinto: Angelo è posseduto, eppure non riesce a liberarlo. D’improvviso però, dopo anni di esorcismi senza esito, tutto cambia. Dora, ormai rassegnata a una vita di dolore, invita Angelo ad andare a fare visita a un noto esorcista toscano, padre Angelo Fantoni. Angelo accetta. Rimane da lui un mese. Per trenta giorni Dora non sa nulla di lui. Angelo non chiama, non si fa sentire.
Cosa accade in quei giorni? Angelo non lo rivelerà mai. Eppure è in quel mese che colui che è dentro il corpo di Angelo se ne va, sparisce, lasciandolo completamente libero.
Al ritorno a Roma Dora piange. Abbraccia il marito, chiama padre Candido e ricomincia finalmente una nuova vita. Angelo morirà dopo poco tempo.
Perché il prete toscano è riuscito a liberarlo? «Non ci sono risposte — dice padre Amorth — Ogni possessione è un caso a sé. E la liberazione un dono di Dio. Questa possessione, in particolare, è stato un caso unico, inspiegabile nella sua genesi. Non ho più avuto a che fare con una cosa simile. È stato in assoluto il caso più difficile della mia carriera d’esorcista».

Corriere 13.3.13
Carta e digitale Il Corriere della Sera primo quotidiano
di S. Bo.


MILANO — Le copie digitali su iPad e tablet e dispositivi vari vengono certificate e partecipano dunque alle classifiche sulla diffusione media: è questa la novità principale degli ultimi dati mensili Ads (Accertamento diffusione stampa) relativi al mese di gennaio 2013 resi noti ieri. E dai quali il Corriere della Sera si conferma il primo quotidiano nazionale con una diffusione media mensile totale di 457.016 copie cartacee e digitali. Si tratta di una novità di non poco conto, frutto delle nuove regole Ads che stabiliscono i parametri per il calcolo delle copie digitali. Una novità che evidentemente, con la crescente popolarità di tablet e smartphone, cambierà in modo progressivo ma radicale la composizione della diffusione di quotidiani e periodici, con un peso sempre maggiore delle copie digitali. Per quanto riguarda i principali quotidiani il Corriere della Sera è in testa alla classifica della diffusione media mensile con 411.400 copie cartacee e 45.616 digitali, seguono la Repubblica con 406 mila copie totali, di cui 360.522 cartacee e 45.996 digitali e il Sole 24 Ore con 280.187 copie, 233.997 cartacee e 46.190 digitali. Da notare però che per quanto riguarda il Corsera il numero di copie digitali è «penalizzato» dal fatto che non sono state calcolate circa 40 mila copie vendute non ai singoli clienti ma a fornitori di device o operatori telefonici che poi le hanno abbinate appunto alla commercializzazione dei loro prodotti: ciò perché il regolamento Ads fissa un prezzo soglia (il 70% in meno rispetto al prezzo edicola della copia cartacea) al di sotto del quale le copie vendute in questo modo non entrano nel conteggio. Da segnalare infine che il Sole 24 Ore registra nelle copie digitali il numero più alto di vendite (20.689) in abbinamento a quelle cartacee.

Repubblica 13.3.13
I numeri di gennaio diffusi da Ads: il quotidiano ha venduto 314.256 copie medie al giorno
Quelle online sono state 45.996, inferiori solo al Sole 24 Ore
Repubblica in testa in edicola e cresce nel digitale


ROMA — Anno nuovo, stesso primato. Repubblica si conferma, ancora una volta, il quotidiano più scelto nelle edicole e apprezzato dai lettori. I nuovi dati diffusi ieri da Ads, e relativi al mese di gennaio 2013, evidenziano un netto vantaggio rispetto al principale competitor: 314.256 copie medie di Repubblica vendute al giorno contro le 304.086 del Corriere della Sera.
Prevalenza riscontrabile anche per gli abbonamenti digitali: 45.996 copie online del quotidiano diretto da Ezio Mauro rispetto alle 45.616 del quotidiano milanese diretto da Ferruccio de Bortoli. Buone performance registrano anche i settimanali del Gruppo Espresso. Il Venerdì di Repubblica fa segnare 402.105 copie vendute, in crescita rispetto a dicembre. Mentre il femminile D-La Repubblica delle donne, che da sabato prossimo sarà in edicola nella nuova versione dopo il restyling, si attesta a 283.178 copie. L’Espresso diretto da Bruno Manfellotto, infine, è a quota 86.302 copie settimanali.
Per quanto riguarda gli altri quotidiani nazionali, oltre a Corriere della Sera e Repubblica, sopra le 100 mila copie acquistate in edicola troviamo i due sportivi: la Gazzetta dello Sport (196.551 copie e 232.825 il lunedì) e il Corriere dello Sport (140.298 e 182.084 il lunedì). La Stampa di Torino è a quota 190.635, il Messaggero di Roma a 155.512, Il Sole 24 Ore a 128.423, Qn-Il Resto del Carlino di Bologna a 117.181 e Il Giornale a 107.199. Il primato assoluto, invece, nella versione
digitale dei quotidiani spetta al Sole 24 Ore con 46.190 copie vendute, dato di poco superiore alla performance fatta registrare da Repubblica.
Tra i quotidiani locali del Gruppo Espresso, Il Tirreno si piazza davanti a tutti con 59.252 copie medie vendute al giorno. Seguito da La Nuova Sardegna con 44.528, il Messaggero Veneto con 43.135, Il Piccolo di Trieste con 28.425, Il Mattino di Padova con 23.014, la Gazzetta di Mantova con 21.858, Il Centro con 18.418, Alto Adige con 16.644, La Provincia Pavese con 16.543, La Nuova di Venezia e Mestre con 13.920.

martedì 12 marzo 2013

l’Unità 12.3.13
Per cambiare rotta
di Stefano Fassina


Che cosa hanno chiesto gli elettori italiani il 24 e 25 febbraio? Si sono limitati a dare un voto anti-casta, esasperati dallo squallore di mille vicende? Oppure, la rivolta anti-casta è un riflesso della percepita inutilità della democrazia nazionale e, quindi, della politica al fine di contrastare il peggioramento delle condizioni materiali di vita delle persone?
E in particolare delle fasce sociali più deboli e delle classi medie meno riflessive? Insomma, il voto offre qualche valutazione sulla direzione di marcia dell’Italia in un passaggio storico di ricollocazione dei destini europei nello scenario geo-politico di inizio XXI secolo?
Gli elettori italiani, dopo quelli di tanti altri Paesi europei, hanno confermato una valutazione che è da tempo sotto gli occhi di tutti, prevedibile e prevista: la moneta unica, dato l’assetto di governance dell’euro e le politiche mercantilistiche prevalenti, è insostenibile Lo scenario per larga parte dell’euro-zona è di depressione, aumento della disoccupazione e innalzamento del debito pubblico. Austerità autodistruttiva e svalutazione del lavoro aggravano la questione sociale e, inevitabilmente, la questione democratica. Gli elettori italiani a stragrande maggioranza hanno detto no all’Agenda Monti, ossia all’agenda dell’euro-zona. Non a causa dei sacrifici enormi e iniqui. Ma in quanto consapevoli che, al di là di singole misure utili, la rotta seguita dall’euro-zona è senza prospettive.
Il Pd ha perso le elezioni perché non ha rottamato abbastanza o non ha avuto una comunicazione efficace? Non scherziamo. Il Pd ha perso le elezioni perché non è riuscito a spiegare che il sostegno al governo Monti era emergenziale, dovuto alla drammatica eredità del governo Berlusconi. Il Pd ha perso le elezioni perché non è stato in grado di manifestare autonomia culturale rispetto alla fase del governo Monti e presentarsi come alfiere di un’altra Europa: un europeismo progressista per lo sviluppo sostenibile e la civiltà del lavoro. Del resto, non era facile per Bersani imporsi con nettezza come leader per un programma alternativo quando tante figure apicali del partito e il suo principale sfidante alle primarie insistevano a proporre «l’Agenda Monti come la nostra agenda».
I risultati del voto in Italia sono l’ultimo e più forte segnale d’allarme per le sorti dell’euro-zona e dell’unione europea. O si archivia il paradigma mercantilista dell’austerità cieca e della svalutazione del lavoro e si corregge la rotta verso lo sviluppo sostenibile e la civiltà del lavoro, oppure, in breve, la pressione sociale e la rabbia politica fanno saltare l’euro. Le economie periferiche dell’euro-zona sono in una depressione di intensità superiore a quella vissuta durante le seconda guerra mondiale.
Le macerie economiche e sociali hanno innalzato il debito pubblico nei Paesi sotto programma formale o di fatto (come noi, dopo la famosa lettera della Bce). Nell’euro-zona, siamo su due direttrici divergenti, foriere di paralisi politica. La Germania e i suoi satelliti vivono nel migliore dei mondi possibili, mentre i Paesi periferici e, sempre più la Francia, sono soffocati in un scenario di profonda sotto-occupazione e aumento del debito pubblico: tassi di interesse reali negativi per le aziende tedesche e tassi proibitivi per le aziende dei Piigs; impossibilità per i competitors europei della Germania di svalutare; Euro meno forte di quanto sarebbe stato il Marco. In sintesi, il Titanic euro si avvicina a velocità sempre più alta all’iceberg. La Bce puntella un equilibrio insostenibile sul piano economico, sociale e politico. Noi, come altri partner mediterranei, dobbiamo fare i «compiti a casa». Ma non è sufficiente per uscire dal tunnel. Oggi, la priorità è coordinare la politica macroeconomica europea per archiviare il paradigma mercantilista codificato a Maastricht, spiaggiato dalla storia, come ha scritto Cuperlo, ma ancora dominante.
Allora, un governo per fare che? Per continuare con il pilota automatico invocato da Mario Draghi e arrivare a breve, dato l’incerto quadro politico, a chiedere accesso al «Fondo salva-Stati», subire ulteriori misure di austerità e svalutazione del lavoro e il soccorso della Bce per affondare nella spirale greca e far saltare l’euro per rivolta sociale e politica? Oppure un governo per il cambiamento progressivo come proposto da Bersani?
Ossia, un governo per avviare una stagione di riforme strutturali (assetti istituzionali; partiti; pubbliche amministrazioni, senza ulteriori tagli di spese; giustizia; anti-corruzione; energia; fisco; finanza per l’impresa); per completare il trasferimento alla Commissione europea dell’autorità sulle politiche di bilancio (come previsto dal «Two pack»); per ridefinire gli obiettivi nominali di deficit e debito pubblico al fine di: pagare 50 miliardi di debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese; allentare per 7,5 miliardi in tre anni il Patto di stabilità interno dei Comuni per piccole opere; cancellare l’aumento dell’Iva in arrivo; avviare un Piano per l’occupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno; sostenere via Cassa depositi e prestiti il credito alle micro e piccole imprese e, infine, finanziare gli interventi lasciati scoperti dal governo Monti (cassa integrazione in deroga; agevolazioni fiscali per le eco-ristrutturazioni; missioni internazionali; contratti precari nelle pubbliche amministrazioni; contratti di servizio per Anas, Fs e Poste)?
Fare un governo per proseguire lungo la rotta mercantilista condannerebbe l’Italia e, inevitabilmente, l’euro-zona all’involuzione economica e, peggio ancora, democratica. Sarebbe un atto di responsabilità?

l’Unità 12.3.13
Dalla destra un pericoloso salto di qualità
di Pietro Spataro


QUANDO UN PARTITO SI METTE IN MARCIA PER DIFENDERE GLI INTERESSI PRIVATI del suo leader è un cattivo giorno per la democrazia. Certo, non è la prima volta che ciò accade in Italia: la storia della seconda Repubblica è marchiata dal conflitto tra le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e le istituzioni democratiche. Ma le immagini di Milano segnano un pericoloso salto di qualità: la scena del segretario del Pdl Alfano che guida i suoi parlamentari contro il Palazzo di Giustizia evoca scenari inquietanti ed è, anche simbolicamente, un evento dirompente.
La minaccia inaudita di disertare il Parlamento in una sorta di Aventino anti-giudici rischia di condizionare pesantemente persino l'avvio della nuova legislatura. Ora si cammina su un filo sottile che può spezzarsi da un momento all'altro facendo precipitare l’Italia in una crisi senza precedenti. Nessun Paese democratico può sopravvivere a lungo in presenza di due consistenti forze anti-sistema quali sono, pur con tutte le differenze, il partito di Grillo e quello di Berlusconi che non hanno alcuna vocazione a privilegiare l'interesse nazionale e che puntano a disarticolare le regole democratiche.
Da questo punto di vista il Pdl un partito, ricordiamolo, che ha avuto in mano il governo della Repubblica per lunghi anni ha superato ogni livello di guardia. Quello di ieri è stato un colpo di mano inaccettabile, con il quale si è respinta persino la moral suasion istituzionale usata per far sospendere la protesta. È chiaro che la scelta di Alfano è un indizio di quale sarà la linea di condotta nel Pdl nelle prossime settimane, sia per il governo che per il dopo. Non è credibile una forza politica che salta dalla proposta di una grande coalizione che guidi il Paese nella fase di emergenza al richiamo della piazza, dal senso di responsabilità all'attacco frontale alla magistratura, dalla disponibilità al dialogo alla guerra santa contro la Costituzione. L'impressione è che, con l'avvicinarsi dei processi e delle sentenze più temute da Berlusconi, un partito prigioniero del suo capo sia tentato dallo scontro finale. Quale possa essere l'esito è difficile da prevedere, ma è certo che a pagarne le conseguenze drammatiche sarebbe il Paese che vive oggi una lacerante crisi politica, economica e democratica. Buttare benzina sul fuoco in questa situazione è da irresponsabili. Definire «nazisti» i medici fiscali e «stalinista» un Tribunale dello Stato è eversivo. Considerare i giudici espressione di un fantomatico «potere comunista» e accusarli di voler ribaltare per via giudiziaria il risultato elettorale è una vergognosa violazione dell'autonomia della magistratura, che è un caposaldo della nostra Costituzione.
D'altra parte le accuse di cui deve rispondere Berlusconi non sono così leggere. A Milano per il caso Ruby, la famosa nipote di Mubarak finita in un «sistema prostitutivo per il divertimento del Cavaliere», come sostengono i pm. Ma soprattutto a Napoli dove si sta indagando su una delle pagine più buie della storia repubblicana: la compravendita di senatori compiuta, secondo l'accusa della Procura e la testimonianza di De Gregorio, con l'obiettivo di far cadere il governo Prodi. Se questo «mercato nero dei parlamentari» fosse confermato, saremmo di fronte a un attentato alla democrazia: con mezzi illeciti si è liquidato un governo democraticamente eletto dagli italiani. Davanti a un'accusa così pesante un partito serio dovrebbe avere un sussulto di dignità: dovrebbe, oltre che difendere la legittima presunzione d'innocenza del leader, chiedere con forza ai giudici di fare chiarezza al più presto, senza lasciare alcuna ombra. Qui invece si caricano i cannoni, si incitano le truppe e si chiama alla battaglia.
Tutto ciò avviene in uno dei momenti più complicati della storia italiana. E questa condizione rende ancora più pericoloso il gioco eversivo del Pdl. Il risultato elettorale ci ha consegnato un quadro politico frammentato. La rabbia e la protesta hanno trovato un canale privilegiato in un movimento che è difficile da decifrare, ma quella domanda di cambiamento non può essere archiviata. Il rebus del governo è ancora lontano dalla soluzione e la strada di Bersani resta stretta. Tuttavia non si può cedere al ricatto del tanto peggio tanto meglio.
Inutile ricordare che, in altri momenti difficili, il senso di responsabilità prevalse sugli interessi di parte. Allora però non c'era Berlusconi né un partito personale legato a doppio filo al destino extra politico del suo leader. La destra purtroppo resta ancora in ostaggio dei propri fantasmi. Questo, in fondo, è il drammatico problema dell'Italia. Quel corteo nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano dimostra ancora una volta, in modo inequivocabile, che nessuna ipotesi di accordo con una forza che punta sul sovversivismo è possibile. Bisogna invece percorrere altre strade, più limpide, per dare presto al Paese un esecutivo in grado di impedire questo insostenibile cupio dissolvi.

l’Unità 12.3.13
Bersani a Renzi:
«Noi non cerchiamo nessuno Scilipoti»
Il sindaco precisa: mai detto «trattativa discutibile»
Scontro anche sul finanziamento pubblico
di Maria Zegarelli


ROMA Non lo cita ma il riferimento è chiarissimo: «Non si diffonda l'idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati. Non lo accetto. Tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra. A noi interessano le posizioni politiche». Pier Luigi Bersani chiama in causa Matteo Renzi che l’altra sera da Fabio Fazio aveva evocato lo «scilipotismo» del Pd con i grillini. Un dialogo che si fa sempre più teso quello tra Roma e Firenze, tanto che da Palazzo Vecchio per tutto il giorno sono costretti a smentire e puntualizzare.
Da un lato Renzi ribadisce «lealtà» al segretario, dall’altro augurando buon lavoro a due ex assessori neoeletti in Parlamento definisce «una trattativa molto, molto discutibile» quella in corso per cercare di uscire dalla crisi e dall’impasse istituzionale. O per lo meno, questo riportano le agenzie di stampa, perché più tardi il suo portavoce corregge: «Renzi non ha mai detto “da Pd trattativa discutibile”. Il sindaco ha invece augurato ai suoi ex assessori neoeletti in Parlamento di svolgere bene il loro lavoro lontano da manifestazioni folcloristiche e da trattative discutibili».
Se il tentativo di Renzi di chiamarsi fuori dalle logiche e dalle dinamiche del partito è chiaro, nessuno si aspettava, però, quello che è sembrato un vero e proprio strappo: l’articolo pubblicato ieri mattina sul Corriere nel quale si riferiva di un presunto dossier nelle mani del sindaco, a cui avrebbe lavorato un amico «fidato» di Renzi, sui presunti sprechi del partito: numero e relativi stipendi di dipendenti, dirigenti e funzionari, focus sulla presidente Rosy Bindi e i suoi collaboratori, sui compensi di Matteo Orfini, responsabile Cultura Pd, e Chiara Geloni, direttore di Youdem.
La prima replica, durissima, arriva proprio da Orfini. Per ora, dice, «tralascio di dare giudizi sul fatto che si possa anche solo immaginare di fare attività di dossieraggio sui propri compagni di partito», ma rende noti il suo compenso mensile, (3300 euro), la zona dove vive (periferia romana) nella casa della sua compagna, e i mezzi pubblici che prende (Metro B1) per andare a lavorare. Bindi, dal canto suo, annuncia una querela al quotidiano di via Solferino: «In merito alle anticipazioni di un rapporto, se esiste perché riservato?, di Renzi citato dal Corriere della sera, preciso che nessuno dei miei collaboratori, compresa la portavoce, è mai stato dipendente del Pd o di altri partiti». La presidente Pd precisa di aver sempre provveduto con le indennità a pagare i suoi collaboratori, mentre al «partito solo 2 impiegate sono assegnate all'ufficio di segreteria dell' Assemblea nazionale e della Direzione e non alla mia personale segreteria». Anche qui Renzi spiega: «Non so cosa significhi richiamare oggi espressioni come dossieraggio. Io sono uno di quelli che non da ora, non dalle primarie, ma addirittura dalla Leopolda, propone di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, di dimezzare il numero dei parlamentari e di rendere trasparenti tutte le spese». E chiede al suo partito di pubblicare on line tutte le spese, le ricevute e le fatture, per poter giudicare se sono costi alti oppure no. In linea la neoparlamentare Simona Bonafé, nello staff dei fidatissimi di Renzi durante le primarie, «battaglia politica a viso aperto», la definisce.
Sul finanziamento pubblico ai partiti Bersani è tornato anche ieri: «Pronti a discuterne» ma, aggiunge, a patto che si affronti anche la legge sulla democrazia e la trasparenza interna dei partiti perché «un partito che non ha democrazia interna può prendere il governo del Paese e trasferire la sua assenza di democrazia dal suo partito al Paese. Non è una cosa da poco...». Dalla Toscana Enrico Rossi invita il sindaco a contribuire «un po’ più dall’interno invece di lucrare sulla sua posizione per cui pur stando nel partito canta da fuori». Eleana Argentin dal Capranica: «A Roma dicono: ce stanno i dritti perché ce stanno i fessi. Lui non può fare il dritto perché noi non siamo fessi. Deve capire che non può dire “ho perso le primarie e sono leale” e poi andare in tv a chiedere l'abolizione dei finanziamenti ai partiti». Intanto su Twitter l’hastag #BersaniFirmaQuì lanciato da Grillo per chiedere al leader Pd di rinunciare ai rimborsi elettorali fa il boom.

Repubblica 12.3.13
E il segretario affronta il caso Renzi “Vuole sabotarmi, lo dica apertamente”
Il sindaco: no, esterno ciò che penso. Caos nel partito
di Goffredo De Marchis


ROMA — Rapporti morti e sepolti. Un altro giorno di incomunicabilità, nonostante la tensione esplosiva nel bel mezzo di una situazione buia. Da giorni Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani evitano contatti. Eppure il segretario del Pd avrebbe qualcosa da chiedere al sindaco. La domanda suona più o meno così: «Al di là delle critiche e dei dubbi, stai mettendo in piedi un sabotaggio? Vuoi che vada a sbattere contro il muro sul governo con Grillo?». È un interrogativo fondamentale perché nel Pd le uscite di Renzi stanno seminando il panico e indebolendo il progetto, miracolistico, di coinvolgere i 5 stelle. Come succede da molto tempo in qua è toccato al governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani parlare con il primo cittadino e girargli il quesito. «No, non voglio fottere Pier Luigi. Ma sono libero di dire quello che penso», è stata la risposta di Renzi. Il filo è sottilissimo. Ci si può aggrappare, con qualche timore (giustificato?) sulla sincerità delle garanzie, per continuare il lavoro intorno agli 8 punti, alle presidenze delle Camere, alla formazione dell’esecutivo. E per sperare in una moratoria da parte del sindaco che duri almeno fino ai giorni delle consultazioni. La telefonata tra Errani e Renzi va letta in questa chiave.
Ma a nessuno sfugge l’improvvisa fretta del sindaco di appiccare l’incendio quando «gli basterebbe attendere una settimana, dieci giorni, mica anni, per capire come va a finire e lanciare la sua corsa». A Largo del Nazareno, i bersaniani non capiscono «cosa sia scattato a Matteo », non comprendono «il senso della battaglia in questo momento ». Con una buona dose di realismo un dirigente ammette: «Siamo confusi noi ed è confuso anche lui». La risposta più gettonata a questi interrogativi è: «Cerca di sfasciare tutto e di mettersi subito al centro dei giochi». Come Renzi veda il futuro lo ha spiegato con franchezza ai suoi interlocutori. «Penso che alla fine si andrà a un governo tecnico. Durerà poco, non più di un anno. Io mi preparo a correre la prossima volta». Non è solo una previsione, chiaramente. È molto di più. È un auspicio, è la porta girevole che cambia il destino in pochi mesi: dalla sconfitta delle primarie alla rivincita.
Evitando Bersani, il rottamatore, in questi giorni, ha parlato spesso con Dario Franceschini, il favorito per la presidenza di Montecitorio, condividendo analisi e pronostici.
Ha registrato le aperture alla sua leadership di Enrico Letta e Francesco Boccia. Controlla la pattuglia di 51 renziani in Parlamento che ieri, all’assemblea degli eletti, si è tenuta visibilmente in disparte, soprattutto le new entry, quelle scelte di persona dal sindaco. Il tentativo di Bersani si sta sbriciolando giorno dopo giorno anche nel partito, tra dubbi, perplessità e un pizzico di orgoglio contro «i grillini che ci sputano in faccia». Perfino Lapo Pistelli, del quale Renzi è stato l’assistente parlamentare in un’altra epoca prima di batterlo nella sfida per Palazzo Vecchio, ha chiarito i suoi dubbi sul Movimento invitando il Pd «a non dare le presidenze delle Camere a quelli lì». Insomma, Renzi può diventare centrale nel dopo Bersani fin da subito, entrando nella cabina di regia di un governo di scopo a tempo. Ma perché tanta fretta di attaccare frontalmente il segretario?
Renzi aveva ricucito un rapporto con il “popolo” del Pd mettendosi a disposizione di «Pierluigi » durante la campagna elettorale, accettando il risultato delle primarie, offrendo la sua collaborazione incondizionata al candidato premier. Sembrava al tempo stesso una prova di generosità, di buona politica e una mossa strategica per gli anni a venire: l’offerta di un federatore, di un pacificatore per il nuovo Pd. Poi sono arrivate le interviste, le smentite, la “fuga” dalla direzione, gli attacchi all’apparato, la rottura con la partecipazione a Che tempo che fa.
Da sabato scorso, a Largo del Nazareno è spuntata la parola «sabotaggio», è ripartita una caccia alle streghe. Il tutto in un Pd che già vive un clima di assedio. «La fretta è una cattiva consigliera», si limita a dire Enrico Letta. Ma il sindaco ha annusato la chiusura a riccio del corpaccione democratico, capace ancora una volta di escluderlo o di stritolarlo. Così ha deciso di rispolverare il linguaggio della rottamazione. Perché quando anche Massimo D’Alema osserva «dopo Bersani c’è solo Renzi» non fa un’investitura. Semmai segnala un pericolo, lancia l’allarme rosso.

Repubblica 12.3.13
Staino, disegnatore di Bobo: sono suo amico però per i miei gusti è troppo ancorato alla Curia e ispirato da Ichino
Il cuore mi farebbe gridare ‘vaffa’ ai grillini ma la ragione mi dice che bisogna tentare questa strada disperata
“Matteo farà una nuova Dc, io andrò via”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — A mali estremi, estremi rimedi: «Bobo l’ho già fatto impiccare una volta. Però potrei sempre farlo resuscitare e farlo suicidare di nuovo...». Sergio Staino è triste, «molto triste» per il vicolo cieco nel quale si è cacciato il Pd. E non crede nella soluzione Renzi: «Con Matteo sarebbe una nuova Dc. E io abbandonerei il Pd. Lo vedo in un partito che sta al fianco del mio, ma non nel mio».
Molti considerano Renzi il futuro. Ma nel Pd è scontro.
«Si è mosso bene. E’ stato leale. E infatti molti amici ora dicono: “Ho sbagliato, potevo votare Renzi”. Certo, un po’ sta lavorando ai fianchi Bersani. Ed è un gioco pericoloso».
Quindi il sindaco non può guidare la riscossa del Pd?
«Non credo. E’ molto ancorato alla Curia e lo ispira Ichino. Gli sono amico, ma quando dice una cosa buona gli rispondo: “Interessante, peccato che non sei nel mio partito...”. Io a quel punto vorrei una forza socialista europea. Abbandonando questo Pd che ci ha portato dove ci ha portato. Forse sono io che sono vecchio... ».
Ora intanto come se ne esce? Un’alleanza con Grillo?
«Il governissimo sarebbe un suicidio totale. Un governo Bersani è la strada meno tragica. Il cuore mi vorrebbe fare gridare “vaffanculo ai grillini”. Ma la ragione mi dice di no. Proverei comunque questa strada disperata, almeno per vedere se i militanti sono più saggi di Grillo. Certo, bisogna essere un po’ scemi per credergli. Capisco chi è incazzato, ma non è che chi ha votato Pd non era incazzato. Era incazzato con razionalità. I giovani sono così ciechi da non vedere la falsità di questo leader? La sua è una forma di protofascismo.».
Resta la batosta. Bobo come l’ha presa?
«Peccato che l’ho già fatto suicidare quando il Pd partecipò alla spartizione per le authority. In quella vignetta diceva: “Prima che mi consegnino a Grillo, me ne vado da solo”».
Profetico.
«La maledizione è iniziata a causa di una superficialità totale. Più che incolpare il segretario, penso a quei personaggi che lo consigliano. Gli dicono “vestititi così”, “fai così”. Ecco, Bersani non era quello che conosciamo».
Il giaguaro?
«Si, il giaguaro. Con quelle cose lì poi finisci così. Dopo le primarie erano sicuri di vincere. Gasati. Il primo suicidio sono state le liste. Una cosa penosa. Io volevo primarie per tutti, poche deroghe. Invece così è mancato l’entusiasmo. Le sale non erano piene, niente piazza. Io, arrabbiato, comunque ho votato Pd».

l’Unità 12.3.13
Una Camera al M5S, la via stretta del Pd
Parte oggi il confronto con gli altri gruppi. Nominata la delegazione che tratterà coi 5 Stelle
In campo anche l’ipotesi Franceschini a Montecitorio e Monti al Senato
di Simone Collini


Di fatto, è il vero avvio della partita. Pier Luigi Bersani ha incaricato una «ristretta delegazione» di aprire il confronto con tutte le forze politiche presenti in Parlamento in vista dell’imminente nomina dei vertici istituzionali di Camera e Senato. I vicecapigruppo Luigi Zanda e Rosa Calipari, più il responsabile Enti locali della segreteria Davide Zoggia, faranno «una ricognizione di dialogo possibile», per dirla con Bersani, essenzialmente tra i parlamentari di Movimento 5 Stelle (un primo incontro è previsto per oggi pomeriggio) e Pdl (ancora non è stata fissata nessuna data). Perché per quanto il leader del Pd assicuri ai 408 parlamentari convocati a Roma che «non sono in corso diplomazie», è lo stesso Bersani a spiegare ai neoeletti del suo partito: «Abbiamo la responsabilità di incoraggiare elementi di dialogo che favoriscano una soluzione». Soprattutto, in questa fase in cui i numeri del Parlamento dicono che «cambiare ora si può».
Il leader democratico sa che nel suo stesso partito c’è chi è pronto a criticarlo per la strategia proposta, che prevede l’offerta anche delle presidenze delle commissioni parlamentari. Non a caso, all’assemblea dei parlamentari, dice con evidente riferimento a Matteo Renzi («spero che lo “scilipotismo” non diventi la caccia al grillino», aveva detto il sindaco) che con la proposta degli «otto punti per il cambiamento» non si punta a dare la caccia ai Cinquestelle: «Non stiamo andando in giro a cercare deputati o senatori. Non accetto che si dica questo, tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra: a noi interessano le posizioni politiche». Né che con l’offerta di una «corresponsabilità» sul piano istituzionale si punti a un do ut des: «Non intendo sentire in giro che quando si discute di istituzioni si fa scambio di poltrone. Dobbiamo adempiere un compito istituzionale di dare un governo alle istituzioni che non sono di nessuno».
Questa «corresponsabilità» sul piano istituzionale, come dice però Bersani parlando ai neoeletti, «non è a prescindere». E le critiche a Beppe Grillo non mancano: «Vuol tenersi le mani libere e non per l’Italia, ma per qualcosa che si chiama potere». Ecco perché prima di compiere i prossimi passi, bisognerà capire quale «atteggiamento» manterranno i Cinquestelle e anche come si comporterà il partito di Berlusconi, che ieri ha manifestato al Tribunale di Milano. «Il Pdl minaccia di non presentarsi alle prime sedute», registra Bersani aspettando una smentita che non arriva. E allora alla «delegazione» ha chiesto di «fare un giro perché siamo nelle nebbie totali», di capire «a quali condizioni» si possa aprire il confronto con gli altri gruppi parlamentari, di «cercare contatti laddove sia possibile averne».
Tra venerdì e sabato, con le votazioni per i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, si potrebbe già capire se il sentiero su cui si è messo il leader del Pd può veramente portare al «governo di cambiamento» o se invece non sia effettivamente troppo stretto per essere percorso. I riflettori sono puntati sul Senato, perché in base al tipo di maggioranza che si determinerà in questo ramo del Parlamento (dove il centrosinistra parte da 144 voti) e in base all’atteggiamento che terranno Pdl e M5S si capirà quali potrebbero essere i passaggi successivi. Ma anche il nome che sarà scelto per la presidenza della Camera darà un’indicazione su come potrebbe proseguire la legislatura che si sta per aprire. Lo schema su cui avevano ragionato in un primo momento i vertici del Pd prevedeva l’offerta agli altri due principali gruppi parlamentari delle presidenze delle Camere. E più in particolare la presidenza di Montecitorio a un esponente Cinquestelle e quella del Senato al Pdl. La minaccia dell’Aventino e la manifestazione al Tribunale di Milano hanno però fatto rivedere l’ipotesi di un’offerta al Pdl. E si è iniziato piuttosto a ragionare su uno schema che prevede la presidenza della Camera al M5S e quella del Senato a un esponente della Scelta civica di Mario Monti.
Dal fronte Cinquestelle, nelle ultime ore, sono arrivati segnali contraddittori, e oggi toccherà alla «delegazione» Pd capire quale sia la reale linea. Il capogruppo al Senato del M5S Vincenzo Crimi fa sapere che possono anche accettare l’offerta di una presidenza, che i Cinquestelle presenteranno un loro candidato e che comunque «accordi non se ne fanno». Il partito di Grillo si aspetta anche un vicepresidente e un questore in entrambi i rami del Parlamento.
Il Pd all’incontro di questo pomeriggio cercherà di capire se la strada sia percorribile. In caso contrario, si tornerebbe all’ipotesi di dare la presidenza della Camera a Dario Franceschini, che intervenendo all’assemblea dei parlamentari Pd ha giocato la carta dell’orgoglio di partito: «Andate a testa alta, accettate la sfida con i grillini, siate più preparati e trasparenti di loro».
Dopo il «giro» della «delegazione» deputati e senatori Pd torneranno a riunirsi giovedì per decidere come muovere i passi successivi.

il Fatto 12.3.13
Bersani tira dritto “Grillo pensa al potere”
di Fabrizio d’Esposito


NEL SUO DISCORSO AGLI ELETTI IL SEGRETARIO APRE A TUTTO IL PARLAMENTO E METTE IN PALIO LE PRESIDENZE DELLE CAMERE

Pier Luigi Bersani, stavolta, è grigio su grigio, tra abito e camicia. Anche la cravatta rossa è meno vivace del solito. Il segretario del Pd entra nel teatro Capranica con la mascella serrata. Roma, quindici e quindici. Con tre quarti d’ora di ritardo inizia la prima riunione dei quattrocento e passa parlamentari del Pd. “Siamo qui in rappresentanza di oltre dieci milioni di voti”. Ma il clima è cupo lo stesso, da funerale preventivo. La presidenza è un tavolino ricoperto da un drappo porpora. Due posti solamente. Per il moderatore Enrico Letta e per Bersani. Il segretario del Pd ribadisce alle sue truppe che c’è un muro altissimo da scalare, “una via stretta ma unica”. Quel governo di minoranza preso a sassate tutti i giorni da Beppe Grillo. C’è anche un altro duello che lo tormenta, da tre giorni. Il “sindaco di Firenze” è tornato, forse non se n’era mai andato, e gli ha inferto la pugnalata dello “scilipotismo”, riferendosi alle trattative, segrete e no, con i grillini. Bersani la considera un’infamia e s’incazza, applaudito a scena aperta: “Non si diffonda l’idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati. Non lo accetto. Tanto meno se viene da qualcuno di casa nostra. A noi interessano le posizioni politiche. Noi non abbiamo aperto diplomazie, non è in corso nulla di tutto questo. Noi vogliamo coltivare all’aperto una idea con la quale ci rivolgiamo al Parlamento”. A distanza, Matteo Renzi non s’impressiona più di tanto: “C’è chi tenta di risolvere l’impasse istituzionale in cui siamo con una trattativa fino all’ultimo giorno molto molto discutibile”. Dichiarazione seguita, poi, dall’immancabile smentita: “Non mi riferivo al Pd”. E a chi allora?
L’ASPIRANTE PREMIER di minoranza, a dire il vero, è duro anche con Grillo. Il leader del Movimento 5 Stelle è “un novello principe in formazione” che non potrà mai essere “sazio”, cui le “mani libere” servono non per l’Italia ma per una cosa “che si chiama potere”. È come se Bersani avesse smesso, a livello psicologico, di inseguire Grillo. È come se, a differenza di tre settimane fa, gli fosse tornato l’orgoglio perso per sua stessa ammissione sul modello di una canzone dell’amato Vasco Rossi. Non a caso i suoi fedelissimi enfatizzano il passaggio in cui il segretario ribadisce che si rivolgerà a tutto il Parlamento con il suo programma di otto punti. Nulla di nuovo, a livello semantico. Ma dopo giorni e giorni trascorsi ad aspettare invano i grillini, e solo loro, quel “tutto il Parlamento” può riaprire varie prospettive di navigazione per il governo di minoranza. In questa direzione va la mossa di nominare una troika per prendere contatti sulla “corresponsabilità istituzionale”, che tradotto vuol dire: trattare sulle presidenze delle Camere. E ieri nessuno escludeva l’ipotesi di dare la Camera al M5S e il Senato al Pdl o montiani. Tutto può uscire dalla disperata lotteria bersaniana, alle prese anche con la quasi impossibilità di votare alla fine di giugno (nel Pd c’è chi ritiene ottobre il primo mese utile).
I NOMI DEI TRE “delegati” del Pd non sono tra quelli fatti la settimana scorsa per aprire un canale con i grillini. Sono Luigi Zanda, Rosa Calipari, Da-vide Zoggia. Emissari a tutto campo: oggi vedranno alle tre del pomeriggio il M5S, successivamente Scelta civica, Pdl e Sel. L’annuncio del segretario sui tre è arrivato nella replica al dibattito della riunione, durata poco più di tre ore. Una ventina gli interventi, tra cui si segnala la “carica” suonata da Dario Franceschini, con tanto di avvertimento: “Vi vedo frastornati, intimiditi, storditi. Invece dovete andare a testa alta. Entrate nel tempio della democrazia non nel covo della casta. Dobbiamo sostenere convintamente il tentativo di Bersani, anche sui giornali, evitando comportamenti sdoppiati”. Sarcastico, invece, Corradino Mineo: “Caro Bersani ci avevi detto che il partito era la nostra bomba atomica. Alla fine la bomba è implosa all’interno, questo è un partito che parla solo a se stesso”. Per la cronaca, Mineo è un neoeletto.

La Stampa 12.3.13
Il pontiere «Vogliamo risposte in incontri ufficiali»
domande a Luigi Zanda
di F. Sch.


Ieri, nel tardo pomeriggio, Luigi Zanda, vicecapogruppo uscente del Pd al Senato, stava cominciando a prendere i primi contatti. Insieme a Rosa Calipari e Davide Zoggia, è uno dei tre «pontieri» incaricati da Bersani di cercare contatti con gli altri gruppi parlamentari. L’ha saputo anche lui ieri, «tanto che ho disdetto altri impegni perché non lo sapevo».
Senatore, qual è precisamente il vostro compito?
«Dobbiamo contattare i gruppi parlamentari per verificare se esistono spazi per una corresponsabilità nell’elezione delle presidenze».
Non è un compito facile: i grillini hanno già detto in tutte le lingue che non sono disponibili ad alcun accordo… «Con tutto il rispetto per i giornali e le dichiarazioni che abbiamo letto, vorrei sentirmi dire direttamente il pensiero di ciascuno. Dobbiamo fare incontri ufficiali alla luce del sole».
Incontri ufficiali con chi?
«Chiederemo ai gruppi parlamentari con chi prendere contatto».
Se il Movimento 5 Stelle dovesse ribadire anche in un incontro ufficiale la sua chiusura, come farete a convincerli dell’utilità di una corresponsabilità?
«Non è questa la nostra missione. Noi abbiamo solo un incarico di natura ricognitiva. Solo per sapere qual è la posizione degli altri gruppi, quali atteggiamenti politici intendono tenere rispetto a queste nomine».
È un ruolo delicato. Le fa piacere o la preoccupa?
«Fa parte del mio lavoro politico parlamentare. Se sia stato un piacere o una preoccupazione lo potrò dire solo dopo…».

Corriere 12.3.13
Dal segretario contrattacco a Renzi

Oggi vertice tra pontieri e Movimento
Il leader: non accetto l'accusa di cercare nuovi Scilipoti
di M.Gu.


ROMA — A dividere Bersani da Renzi sono ancora i soldi ai partiti e i toni ricordano quelli aspri delle primarie, quando il segretario e il sindaco duellavano sui finanzieri delle Cayman. Al Capranica l'aspirante premier parla ai 408 eletti del Pd, nomina una «troika» di ambasciatori per mediare con i partiti sulle cariche istituzionali e non risparmia colpi allo sfidante, che lo critica sulla linea e lo incalza sui costi della politica.
Renzi lo aveva ammonito a non adescare i grillini come nuovi «scilipoti» e Bersani respinge il sospetto, mostrando tutta la sua insofferenza: «Non si diffonda l'idea che siam qui ad andarci a cercare dei senatori e dei deputati... Non lo accetto, tantomeno se viene da qualcuno di casa nostra». Quel «qualcuno» sfida il segretario a viso aperto e lo fa toccando il nervo scoperto del finanziamento ai partiti. «Non c'è nessuna attività di dossieraggio — assicura Renzi, riguardo al rapporto sugli sprechi del Pd anticipato dal Corriere — Le battaglie politiche uno le fa dicendo in faccia quello che pensa. È dalla Leopolda che propongo di abolire il finanziamento, dimezzare i parlamentari e rendere trasparenti tutte le spese». Il Pd costa troppo? «Quando metteranno online le spese, potrò rispondere».
Scontro duro. Il segretario che tira dritto sulla strada «strettissima» dell'accordo con Grillo, perché tanto «un'autostrada non c'è». E il sindaco, che pure promette di non pugnalarlo, non crede che il leader riuscirà nell'impresa: «Io faccio il tifo perché Bersani ce la faccia, ma Grillo continua a dire di no e io non sono ottimista». E se il segretario fallisce? «Giocoforza si andrà a votare». In consiglio comunale, a Firenze, il primo cittadino pronuncia parole indigeribili per Bersani. Dice che «c'è chi tenta di risolvere l'impasse con una trattativa fino all'ultimo giorno molto, molto discutibile». E al vertice del Pd il ragionamento arriva come una secchiata di acqua gelida. Ma ecco che il portavoce Marco Agnoletti aggiusta il tiro: «Renzi non ha mai detto "dal Pd trattativa discutibile". Ha invece augurato ai suoi ex assessori neoeletti in Parlamento di svolgere bene il lavoro lontano da manifestazioni folcloristiche e da trattative discutibili». È in questo clima che il segretario parla al suo squadrone di deputati e senatori, affollato di volti giovani e nuovi. Prova a rincuorare gli animi e, su Grillo, sembra cambiare passo. Non smette di inseguirlo e però lo attacca: «Un novello principe in formazione non è mai sazio. Vuole tenersi le mani libere e non per l'Italia, ma per qualcosa che si chiama potere».
Con Grillo che chiede al Pd di rinunciare a 49 milioni di contributi elettorali, il tema dei finanziamenti è quello che più imbarazza e divide i democratici. E il livello della preoccupazione sta tutto in un tweet di Michele Emiliano: «Se non firmiamo siamo finiti». Bersani è pronto a discuterne, purché la riflessione «si leghi alla trasparenza». Il partito è spaccato, molti vogliono che i gruppi lavorino a proposte immediate. Donata Lenzi chiede al Pd di riflettere sull'autoriduzione degli emolumenti e Walter Tocci propone una commissione che studi come ridefinire lo status di parlamentare. Intanto Rosy Bindi afferma che nessuno dei suoi collaboratori, compresa la portavoce Chiara Rinaldini, «è mai stato dipendente del Pd o di altri partiti» e che gli stipendi dello staff la presidente li ha sempre pagati con le sue indennità.
Facce scure, animi tesi e i giornalisti lasciati bruscamente fuori dalla porta. Come dice Dario Franceschini i democratici sono «frastornati» e l'ex capogruppo li sprona, tra gli applausi, a dimostrare di essere più bravi dei grillini: «In Parlamento dovete entrarci a testa alta, perché è il tempio della democrazia e non un covo di privilegi della casta». Anche Lapo Pistelli si adopera per convincere i neoeletti che non saranno gli agnelli di una legislatura sacrificale: «Dare gratis una delle due Camere a uno che dice di voler aprire il Parlamento come una scatola di tonno? Ci penserei due volte». Applausi e un «bravo!» da Bersani, che aveva lanciato a Grillo un appello per una «corresponsabilità degli incarichi istituzionali». Oggi entreranno in azione i tre ambasciatori — Luigi Zanda, Rosa Calipari e Davide Zoggia — ai quali il leader ha chiesto di mediare sugli incarichi più delicati, come la scelta dei questori e le presidenze delle Camere. E Laura Puppato spera: «Il filo con i grillini non si spezza...».

Corriere 12.3.13
La trattativa e il timore: non siamo noi i guastatori
di E. Bu.


MILANO — Tutto nasce da una battuta, un'ipotesi raccolta dai cronisti a Palazzo Madama, quando Vito Crimi risponde con un «perché no?» se sia possibile in Italia una esperienza come quella del Belgio: un anno e mezzo senza governo. «Non sta a noi la soluzione, la palla è al presidente Napolitano — precisa il capogruppo —. La nostra proposta è un governo Cinque Stelle e i 20 punti di programma». Da quella battuta emergono i pensieri che tormentano in questo momento di impasse politica gli eletti Cinque Stelle. «Mi preoccupo — afferma Crimi — che con la scusa di dover dare a tutti i costi un governo al Paese si blocchi il Parlamento, che invece potrebbe benissimo legiferare, addossando tutta la colpa a noi». Deputati e senatori, divisi in gruppi di lavoro, stanno studiando il modo di rinunciare ad alcuni privilegi e, al tempo stesso, aspettano l'incontro (previsto oggi o al massimo domani) con la delegazione del Pd. Le intenzioni, per quello che filtra dagli ambienti grillini, sono chiare. E gli eletti compatti. «Noi non contrattiamo», dicono. E spiegano in merito a questori e vicepresidenza: «Se qualcosa ci tocca, ci spetta, allora la pretendiamo come è giusto che sia». Una partita su molti tavoli, che tocca anche la presidenza del Copasir e della Vigilanza Rai: alcuni parlamentari grillini considerano «abbastanza scontato» che gli incarichi vengano attribuiti a esponenti Cinque Stelle. Sulla presidenza di una delle Camere per ora non ci sono stati contatti concreti. Anche su eventuali nomine c'è ancora incertezza. «Non abbiamo ancora deciso cosa e come», filtra da fonti vicine al movimento. Probabilmente eventuali candidati saranno scelti nella riunione interna in programma domani. L'unica certezza è che la passeggiata dal Colosseo al Parlamento non ci sarà: possibile invece che l'ingresso in Aula dei Cinque Stelle (fin dove consentito) venga trasmesso online in streaming. Intanto, un incoraggiamento agli eletti arriva anche da Federico Pizzarotti. «I parlamentari, come stanno facendo in questi giorni, si dovranno organizzare tra di loro, sono in tanti e si devono coordinare», commenta il sindaco di Parma.

l’Unità 12.3.13
«Facciamolo», boom di adesioni Firmano anche Ozpetek e Fazio
Sul sito de l’Unità si può sottoscrivere la richiesta alle forze politiche perché si formi un esecutivo per il cambiamento
di Virginia Lori


Due nuovi promotori e oltre 26mila firmatari, l’appello «Facciamolo!» continua il suo corso sulla rete. Chiede che i risultati elettorali, per quanto disomogenei, siano rispettati e sia messo in cantiere un governo che ne interpreti «le speranze di cambiamento» uscite come dato netto dalle urne. Ieri ai dieci firmatari iniziali don Gallo, don Ciotti, Salvatore Settis, Roberto Saviano, Roberto Benigni, Michele Serra, Barbara Spinelli, Carlo Petrini, Oscar Farinetti, Lorenzo Giovanotti si sono aggiunti anche il regista italo-turco Ferzan Ozpetek e il conduttore televisivo Fabio Fazio. In più sui siti di Repubblica e dell’Unità si sono aggiunti cittadini comuni da tutta Italia, che sono già decine di migliaia.
L’appello si rivolge alle forze politiche e chiede di dar vita a «un governo di alto profilo» in tempi brevi. «Mai, dal dopoguerra a oggi il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare». I dieci, ora dodici promotori fanno notare che dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi «per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato». Di fronte a questo risultato, fanno notare, «sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima». «Noi prosegue l’appello postato anche sui profili dei social network di alcuni firmatari chiediamo, nel nome della volontà popolare sortita dal voto del 24-25 febbraio, che questa speranza di cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi». I sottoscrittori sottolineano che questa richiesta viene fatta «gentilmente ma ad alta voce, senza avere alcun titolo istituzionale o politico per farlo, ma nella coscienza di interpretare il pensiero e le aspettative di una maggioranza vera, reale di italiani». La lettera-aperta ai parlamentari, dal centrosinistra al movimento Cinquestelle, evidentemente, anche se queste due forze politiche non vengono mai menzionate specificatamente, si limita a far notare che «questa maggioranza, fatta di cittadine e cittadini elettori che vogliono voltare pagina dopo vent’anni di scandali, di malapolitica, di sperperi, di prepotenze, di illegalità, di discredito dell’Italia nel mondo, chiede ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento, ai loro leader e ai loro portavoce, di impegnarsi fino allo stremo per riuscire a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo, alle speranze di cambiamento».
Sono migliaia i lettori del nostro sito (www.unita.it) che nelle ultime ventiquattr’ore sostengono l’appello e lasciano messaggi. Alcuni con personali appelli ai grillini come Genesio Nardoni, agrario che scrive: «Avete l'’ccasione di passare alla storia, avete ed abbiamo l’occasione di liberarci definitivamente di Berlusconi. Non pensate alle future carriere, forse non sarete mai più eletti».

l’Unità 12.3.13
Grillo sfida il Pd sui rimborsi Ma la sua lettera è un bluff
Il leader 5 Stelle pubblica la sua rinuncia ai soldi per i partiti
Ma la legge già prevede che non vengano assegnati a chi è privo di uno statuto democratico
di Andrea Carugati


Beppe Grillo lancia il guanto di sfida a Bersani sulla rinuncia ai rimborsi elettorali. Lo fa postando sul suo blog il fac simile di una lettera indirizzata al presidente della Camera con cui rinuncia ai 42 milioni previsti dalla legge per i 5 stelle per la legislatura 2013-2018. E prepara un analogo fa simile a nome del Pd, con in bianco la firma del segretario democratico. Su twitter poi lancia l’hashtag #BersaniFirmaQui, che in poche ore diventa un successo . «Al Pd spetta la quota più rilevante, 45 milioni», spiega Grillo. «Non è necessaria una legge, è sufficiente che Bersani dichiari su carta intestata, come abbiamo fatto noi, la volontà di rifiutare i rimborsi elettorali».
La reazione del leader Pd non è di chiusura: «Ma la discussione si deve legare alla trasparenza nei partiti». «Perchè un partito che non ha democrazia interna spiega Bersani può prendere il governo e trasferire la mancanza di democrazia dal partito al Paese». Il sindaco di Bari Emiliano, invece, sposa appieno la tesi grillina: «Se non firmiamo siamo finiti». La deputata Donata Lenzi rilancia la sfida al leader 5 stelle: «Lui rinuncia alla proprietà del simbolo. La democrazia è fatta di trasparenza e partecipazione dal basso, dia un segnale anche lui...».
In realtà, la lettera su carta intestata prodotta da Grillo è solo un artificio. Perché, in base alle leggi vigenti, i grillini non avrebbero diritto ai rimborsi neppure se li volessero. A meno che non si adeguassero, come previsto dalla nuova legge approvata la scorsa estate. La norma, infatti, prevede che, per ricevere i rimborsi, le forze politiche, entro 45 giorni dalle elezioni, si dotino di «un atto costitutivo e di uno statuto». «Lo statuto si legge all’articolo 5 deve essere conformato a princìpi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti». Come è noto, il «non statuto» dei 5 stelle, proprio per differenziarsi dai partiti normali, non risponde a questi requisiti. Non a caso, l’emendamento Udc della scorsa estate che legava i finanziamenti alla presenza di uno statuto democratico, era stato battezzato «anti Grillo». I setti punti del “non statuto”, infatti, indica che il contrassegno «5 stelle» è «registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso». «ll M5S non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro», si legge ancora. Inoltre, viene esclusa la «mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi».
Grillo, nel suo post di ieri, spiega che il movimento intende rinunciare anche ai contributi «per l’attività politica». Il riferimento sembra indicare i contributi per i gruppi di Camera e Senato. Un tema assai scivoloso, a dire il vero. Anche perchè alcuni onorevoli 5 stelle (come il campano Bartolomeo Pepe) ieri si sono già presentati alle Camere affiancati da aspiranti portaborse, per lo più amici. E sul tema dello spirito francescano le opinioni già divergono. Sommando le varie voci i parlamentari grillini dovrebbero arrivare a prendere circa 11mila euro netti al mese.
Non proprio una scelta rivoluzionaria. Dunque bisogna tagliare ancora. Ma non è facile. «Non possiamo vivere nelle case tutti insieme come studenti universitari», ha protestato qualche neo eletto. E così ieri il capogruppo al Senato Vito Crimi ha ammorbidito i toni: «Sulla diaria stiamo ragionando su quale sia l’impatto economico di un trasferimento a Roma, con gli affitti e quant’altro. Poi c'è la parte che riguarda i collaboratori, che non sono i portaborse, ma persone capaci che non saranno pagati 800 euro al mese». Inoltre, spiega ancora, «tratterremo solo cinquemila euro lordi, che corrispondono a 2500-2700 euro netti, ma un nostro commercialista sta valutando l'impatto fiscale, perché noi comunque riceveremo l'intera somma e su quella si pagano le tasse».
Dalla riunione di domenica all’Eur era uscita una direttiva: e cioè di non comunicare il proprio Iban agli uffici di Camera e Senato, in attesa di aver trovato una soluzione per la gestione degli stipendi. E tuttavia ieri alcuni neodeputati hanno disobbedito. Tanto che Crimi è dovuto intervenire: «Chi va fuori da quello che ha firmato a proposito del taglio delle indennità è fuori».

l’Unità 12.3.13
Ora Grillo punta a far restare Monti
Il movimento 5 Stelle attratto dal modello belga: Parlamento attivo senza un nuovo governo
Il capogruppo Crimi: «Meglio prorogare i tecnici. A noi la presidenza della Camera? Grazie»
di Andrea Carugati


ROMA Forse è solo uno dei tanti depistaggi di questi giorni, ma i grillini sembrano sempre più conquistati dal modello belga: e cioè un sistema parlamentare senza governo, o meglio, con un esecutivo in carica per l’ordinaria amministrazione. In Belgio, tra il 2010 e il 2011, dopo un risultato elettorale senza un vincitore chiaro, la situazione di impasse si è protratta per ben 541 giorni.
In Italia, naturalmente, toccherebbe al governo Monti, che resterà in carica fino al giuramento del nuovo esecutivo. «È sbagliato parlare di Italia senza governo. Con la prorogatio del governo Monti il Parlamento potrebbe comunque iniziare a legiferare su molti temi importanti, a partire dal taglio dei costi della politica», spiega a l’Unità il neo capogruppo al Senato Vito Crimi nel cortile del Senato. «Noi la fiducia in bianco al Pd non la daremo, ma se loro dimostrassero di fare sul serio su alcune leggi chiave potremmo iniziare un dialogo. Ma solo in Parlamento». «In Belgio sono andati avanti quasi due anni e ha funzionato alla grande», gli fa eco la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, anche lei arrivata a palazzo Madama per una riunione con i neo eletti. «Il Parlamento sarebbe perfettamente in grado di legiferare, ed è quello che noi intendiamo fare».
L’obiezione è immediata: ma in carica resterebbe Monti, che voi avete sempre avversato... «Solo per l’ordinaria amministrazione, senza alcun indirizzo politico», spiega Crimi. E se facesse per decreto una manovra correttiva? «Gliela rivolteremmo in Parlamento», assicura il grillino. Mentre Lombardi spiega che «in questi ultimi anni i governi sono andati avanti a botte di decreti e voti di fiducia, noi vogliamo portare una piacevole novità: rimettere il Parlamento, che esprime realmente la volontà popolare, al centro del sistema. Sono convinta che, di fronte all’approvazione di un pacchetto di leggi che diano un’idea nuova di Paese, anche i mercati apprezzerebbero. Quello che i mercati temono non è l’assenza di governo, ma la mancanza di progettualità».
Una linea, questa, che è stata già esposta nei giorni scorsi dal professor Paolo Becchi, docente di Filosofia del Diritto a Genova e assiduo collaboratore del blog di Grillo. Ieri è stata rilanciata con forza dai due capigruppo, proprio nel giorno del loro primo ingresso nelle Camere per la registrazione.
Naturalmente, è un’idea assai difficile da realizzare. Per una serie di ragione, prima tra tutte che la Costituzione prevede dopo l’insediamento del nuovo Parlamento le consultazioni al Quirinale per il nuovo governo, e fino a che un esecutivo non ottenga la fiducia.
L’idea dei grillini dunque è quella di partecipare alla consultazioni, nella speranza che alla fine, per evitare la paralisi, Pd e Pdl convergano su un governo tecnico o di larghe intese, lasciando a loro il ruolo di tuonante opposizione. E se qualche altra forza politica accettasse la loro prima proposta, e cioè l’incarico a una personalità indicata dai 5 stelle? «Magari ce cascano...», risponde Lombardi in romanesco. Lei e Crimi, intanto, ribadiscono la linea dura contro gli eventuali dissidenti. «Escludo categoricamente ogni appoggio al un governo Pd e se qualcuno deciderà di farlo è fuori dal Movimento», dice Lombardi. E le minacce di Grillo di ritirarsi? «Solo una provocazione delle sue. Lo conoscete, no?».
Quanto alle votazioni di domenica che hanno escluso ogni accordo col Pd, il deputato Andrea Cecconi spiega a Un giorno da pecora su Radio 2: «Abbiamo deciso all’unanimità». Ma, incalzato dai conduttori, non riesce a indicare la modalità di votazione. Grillo, dal canto suo, rilancia un post su Facebook del giudice Ferdinando Imposimato: «Gli 8 punti del Pd sono acqua calda, accettarli sarebbe un suicidio per i 5 stelle».
Il capogruppo al Senato parla anche delle trattative in corso per la guida delle due aule parlamentari. «Se vogliono darci una Camera, noi diciamo grazie», spiega. «Ci aspettiamo una vicepresidenza e un questore sia alla Camera che al Senato. Le regole sono contorte, sono fatte in modo che non ci tocchino, dovremmo fare degli accordi ma noi non li faremo. La sovranità popolare è stata espressa aggiunge e questo quindi è quello che ci aspettiamo».
Sulle vicende giudiziarie di Berluscono, i grillini si mostrano inflessibili: «Voteremo ovviamente sì a un’eventuale richiesta di arresto. E sì anche all’ineleggibilità di Berlusconi in quanto concessionario di servizio pubblico, se saremo in Giunta per le elezioni. E ci aspettiamo che anche altri votino in questo modo...». Dure anche le critiche al Pdl per gli attacchi continui alla magistratura: «Sono indegni», dice Crimi. «Dovrebbero avere maggior rispetto verso un potere dello Stato come quello giudiziario».

l’Unità 12.3.13
Riconoscere i nuovi conflitti senza gridare al populismo
di Franco Cassano


NON AMO IL POPULISMO, LA POLITICA PIENA DI SLOGAN DEMAGOGICI E IRREALIZZABILI, la tendenza a chiamarsi fuori scaricando sugli altri ogni responsabilità, istigando al linciaggio e additando dovunque nemici e complotti. Ma devo confessare che non amo neanche il continuo riferimento al pericolo populista costantemente agitato in molta stampa di sinistra, perché spesso mi sembra una comoda etichetta per catalogare ciò che non si riesce o si è rinunziato in partenza a capire. Parto da un esempio ricavato dall’amara esperienza della mia città. La Bridgestone ha comunicato di voler chiudere l’impianto di Bari con una videoconferenza durata quattro minuti, gettando nella disperazione mille operai, le loro famiglie e tutti coloro che vivono dell’indotto dell’azienda. Senza preavviso, dalla
sera alla mattina, ci si è trovati di fronte a un dramma di cui non s’intravvede una soluzione. Se l’incendio napoletano alla Città della Scienza è con ogni probabilità imputabile alla camorra e a interessi speculativi, lo scenario barese è del tutto diverso, perché all’origine del dramma non è l’economia criminale, ma il modo ordinario in cui il mondo oggi funziona: «È la globalizzazione, bellezza!», avrebbe detto il Marlowe di Chandler.
È difficile accettare un gesto, che è anche un crimine contro la nostra Costituzione. Ed è accaduto che il sindaco Emiliano abbia attaccato frontalmente il cinismo della decisione con cui è stato liquidato un impianto all’avanguardia le cui maestranze avevano dato sempre dimostrazione di grande senso di responsabilità. Il sindaco di Bari ha alzato i toni e sicuramente qualcuno avrà pensato: questo è populismo, ed Emiliano alza il tiro perché, pur sapendo che la soluzione del problema è difficilissima, mira ai voti degli operai. Ed è qui che s’incontra il problema del «populismo». Ma, di grazia, quali rimedi alternativi esistono a questo dramma sociale? E non è incredibile che, invece di denunciare il modo in cui funziona il nostro sistema globale, si accusi di populismo chi protesta solo perché non indica i mezzi per risolvere il problema? Siamo di fronte a un tipico caso in cui l’accusa di populismo rivela non solo la sua fragilità culturale, ma anche una base di classe. Fragilità culturale, perché, attaccando chi si confronta con problemi inediti e non contemplati dalle prassi istituzionali riconosciute, spesso essa finisce per occultare il vero problema, l’assenza di soluzioni. Di classe, perché in questa ostilità al populismo c’è anche il segno di una distanza protetta, che disconosce le rivendicazioni “populistiche” in quanto non sono riconosciute dal tradizionale galateo delle soluzioni istituzionali e richiederebbero una sua profonda trasformazione. Al posto
dell’innovazione prevale un’altezzosa paura.
Ma la tragedia, si sa, non conosce le buone maniere: sotto i colpi della crisi l’area delle figure sociali non protette marginali sta crescendo e i conflitti di cui esse sono portatrici non possono essere ignorati. È in questo spazio lasciato scoperto dal sistema istituzionale esistente che s’insinua la demagogia, l’agitazione irrazionale e strumentale, l’astuzia di leader abili e spregiudicati. Ma chi vuole disinnescare la demagogia deve imparare a riconoscere l’esistenza dei conflitti e lavorare a una risposta positiva ad essi. Sconfiggere la demagogia e il populismo è impossibile senza questo atto preliminare di riconoscimento dell’esistenza di conflitti diversi da quelli previsti dalla griglia istituzionale dominante.
Accanto al tema posto dal caso ricordato (come si risponde a un sistema che può chiudere una fabbrica senza essere sanzionato?) proviamo a metterne a fuoco almeno altri due. Il primo è la necessità di riconoscere l’aggravarsi di una frattura generazionale. È da tempo evidente che il sistema delle protezioni sociali nato dalle conquiste degli anni Settanta non può essere esteso universalisticamente alle generazioni più giovani, che si trovano di fronte a un mercato del lavoro, che, quando non li esclude del tutto, li costringe a forme di lavoro precario e non qualificato. La crescente marginalità del nostro Paese (e del Mezzogiorno al suo interno) nelle lavorazioni ad alto contenuto di conoscenza non fa che moltiplicare questa disparità generazionale. Non ci si può sorprendere se, nel momento in cui gli ammortizzatori del welfare familiare non riescono più a funzionare, sotto i colpi della crisi e della caduta di ogni speranza, questo disagio finisce per esplodere. In altre parole non ci si può sorprendere che la grande maggioranza dei giovani abbia scelto di votare per Grillo, lanciando un avvertimento.

l’Unità 12.3.13
Il movimento-marchio dopo il partito-azienda
Bene il confronto con Grillo Ma c’è una questione democratica irrisolta nell’organizzazione M5S
di Giovanni Pellegrino


IL TEMPO TRASCORSO DAL VOTO INDUCE AD UNA RIFLESSIONE PIÙ ATTENTA SUL CLAMOROSO successo di M5S, nella cui immediatezza da tanti ci è stato autorevolmente rammentato che ogni voto merita rispetto, che i risultati elettorali sono un fatto e che polemizzare con i fatti o non tenerne conto è inutile esercizio. Ciò è indubbiamente vero, ma non giustifica affatto che giudizi di valore espressi su una proposta politica e sulla formazione che l’ha formulata mutino in ragione del consenso, che quella proposta ha ricevuto dal corpo elettorale e quindi della rappresentanza numerica ottenuta in Parlamento.
Il programma del Movimento Cinque Stelle conteneva alcune proposte interessanti, tali valutabili anche prima del voto; ciò non toglie che nel suo insieme era assolutamente inaccettabile, perché velleitario, non praticabile e quindi scopertamente demagogico. Questo era vero prima del voto e resta vero ancora, perché su questo un giudizio di valore non può mutare, quale che sia stato l’esito elettorale e quali siano state le motivazioni o le ragioni che lo hanno determinato.
Ma vi è di più. Un giudizio di valore non può mutare e deve restare fermo soprattutto per ciò che riguarda la forma organizzativa di M5S, su cui forse non si è riflettuto e non si riflette abbastanza. La verità è che al peggio non vi è mai fine, se una democrazia come la nostra già lungamente provata dal formarsi al suo interno di un partito-azienda, conosce ora l’anomalia ancora più grave di un movimento-marchio.
Il Movimento Cinque Stelle è infatti questo: un marchio registrato oggetto di appartenenza individuale. Né potrebbe obiettarsi che si tratti di un dato meramente formale, perché gli effetti sostanziali che produce li stiamo constatando giorno dopo giorno in un difficile presente da quel dato fortemente condizionato.
Pure essendo quel marchio divenuto il simbolo di un vasto movimento di popolo, il titolare del marchio ne ha già inibito e minaccia ogni giorno di inibirne la utilizzazione a chiunque nel movimento sia tentato dal dissenso o provi ad accennare iniziative non gradite al padre-padrone, che è tale appunto perché padre del movimento e padrone del marchio.
Il Movimento Cinque Stelle è quindi un ossimoro, perché è contrario alla natura di un movimento che il suo simbolo sia un marchio oggetto di una non controllabile proprietà individuale; e cioè se è naturale in un movimento che uno vale uno, non è tollerabile nella sua logica che spetti ad uno solo parlare e decidere per tutti.
Fa bene quindi Bersani a dichiarare che con il partito-azienda una collaborazione di governo non è più pensabile, fallite le speranze in una sua graduale trasformazione in una destra costituzionale di tipo europeo; e insieme a sfidare Grillo e il suo movimento sui contenuti; ma sarebbe opportuno che la sfida investisse anche il modello organizzativo di una forza politica, che ha ottenuto una così vasta rappresentanza parlamentare.
Grillo, quindi, andrebbe sfidato a restituire al movimento, di cui è il capo politico, la natura propria e cioè la struttura assolutamente non verticistica che almeno in Europa i movimenti hanno sempre avuto. E il movimento va sfidato a divenire tale e cioè non un partito, ma un insieme di cittadine e di cittadini che intendono con metodo democratico concorrere a determinare la politica del Paese; chiedendo con forza al titolare del marchio che questo divenga ad ogni effetto un simbolo del movimento, in cui donne e uomini che lo compongono possano liberamente riconoscersi. Portare sino in fondo questa sfida è quindi opera meritoria, per chi abbia a cuore il destino della nostra democrazia.

La Stampa 12.3.13
La retromarcia di Dario Fo “Niente accordo con il Pd”
Il Nobel vicino al M5S: “Fanno troppe porcate”
Intervista di Maria Giulia Minetti


Grillo respinge le avance del Pd, minaccia di andarsene se il «suo» movimento apre ai democratici. Che ne pensa Dario Fo, amico del capo 5 Stelle, fautore, all’indomani del voto, di un accordo con Bersani? «Un momento, lì c’è stata una manipolazione dei giornalisti. A domanda: “Che ne pensa di un accordo Pd-grillini? ”, avevo risposto: “Ci devo pensar su, certo da qualche parte bisognerà arrivare…”. Ben diverso dal dire: “Bisogna fare l’accordo”».
Però da Lilli Gruber s’è lasciato andare. «So che ci sta», ha detto riferendosi a Grillo.
«Può darsi, magari l’emozione… Un eccesso di ottimismo…».
Be’, l’accordo non s’è fatto, comunque. E da che parte voglia andare Grillo, non si capisce.
«Non lo chieda a me. So le cose che sa lei. So che il Pd si ritrova con conflitti interni grandissimi, ma la vecchia guardia che ha fatto tanti casini resiste proterva. Un accordo con questi qui? Con chi per vent’anni ha rimandato il conflitto di interessi? No, è stata una porcata imperdonabile. Ed è solo una delle tante»
Per esempio?
«Ma basterebbe parlare di un fatto che pochi conoscono, l’inciucio dello Stato con gli impresari del gioco d’azzardo. Il giro d’affari è arrivato a limiti incredibili. Abbiamo uno Stato-croupier che porta via il denaro ai disperati. Ci sono stati, ai tempi di Franca (Rame, la moglie di Fo, senatrice dell’Idv nel secondo governo Prodi, ndr), gruppi che sostenevano: così non si può andare avanti. Ebbene, la maggioranza del Pd ha votato perché si andasse avanti! ».
Insomma, lei è arrivato alle stesse conclusioni di Grillo: con questa gente non ci si può mettere.
«Con che spirito vai a trattare con un partito che continua a non trovare niente da ridere sui cosiddetti “rimborsi spese”. Adesso c’è un contenzioso molto duro col fiorentino, che dice: ci dovete rinunciare! Tenendosi i soldi li portano via a dei poveri disgraziati, lo sanno, ma se li tengono lo stesso. » Ma la politica non è l’arte del compromesso?
«Se andiamo col compromesso, andiamo a rifare tutto daccapo. Troppa intransigenza? Ma è per mancanza di intransigenza che siamo arrivati a questo punto: leggi ad hoc, vendita di deputati a sei a sei, lei crede che quel 25 % di italiani che non ha votato l’ha fatto per pigrizia? No, per schifo! ».
I seguaci di Grillo dicono: Napolitano ci dia la possibilità di fare noi il governo. È d’accordo?
«Certo. Ma è possibile? Non lo so»
Se non fosse possibile?
«Si troverà un’altra soluzione. È una faccenda grossa e dunque chiede una soluzione grossa. Comunque, ci vuole una soluzione che non sia di buona volontà ma di intransigenza. Non si può più giocare. Basta con la ballata di prepotenze di Berlusconi. La responsabilità è di tutti i partiti che gli hanno permesso di arrivare fino a questo punto. “Tutti” i partiti».
C’è ancora una possibilità per il Pd d’essere credibile agli occhi del M5S?
«Se invece di reagire a Renzi, Fassina avesse detto: da domani il Pd rinuncia ai rimborsi integralmente... Se proponesse un taglio delle sovvenzioni alla scuola privata in favore di quella pubblica… Invece le proposte che ha fatto sono deboli. La proposta sul conflitto di interessi è piena di scappatoie… Ci vorrebbero promesse vere, sottoscritte davanti a un notaio, magari. Non mi fido del Pd. Come fai a fidarti di un partito dove spadroneggia ancora un furbastro come D’Alema? »
Di Renzi si fiderebbe?
«Non lo conosco abbastanza».

La Stampa 12.3.123
Grillo fa paura Il governo Pd-Pdl è un’ipotesi ancora in campo
di Marcello Sorgi


A due settimane dai risultati, sono le analisi sui flussi elettorali a spiegare chiaramente perché Grillo non potrà mai accettare di costruire un’alleanza con il Pd, e il tentativo di Bersani di formare un governo - a meno di un’improbabile scissione parlamentare del M5S - sia destinato al fallimento. Stando a quanto spiega, ad esempio, Luca Comodo dell’Istituto Ipsos sul Sole 24 Ore, Grillo ha attratto elettori di tutti i partiti, con un imprevisto successo, proprio nell’ultima settimana, tra quelli del Pd, ma senza disdegnare cittadini che nel 2008 avevano votato per il centrodestra. La «mancata vittoria» di Bersani e la «mancata sconfitta» di Berlusconi, cifre alla mano, sono merito del leader del Movimento 5 Stelle. Il quale adesso può puntare, in caso di elezioni a breve scadenza, a ottenere perfino un risultato migliore.
Un obiettivo a portata di mano. E se a sinistra ha già determinato un aggiustamento in senso radicale del leader del Pd, che considera in «libera uscita» una parte dei voti perduti e ritiene di poterli recuperare con una linea più movimentista, una grande prateria per il M5S potrebbe aprirsi a destra, specie se i guai giudiziari di Berlusconi dovessero rendere impossibile, o comunque precaria, un’eventuale sua ricandidatura nella prossima campagna elettorale.
Questo spazio sarebbe destinato ad allargarsi - a dispetto della svolta di piazza inaugurata dal Pdl - soprattutto se, in un modo o nell’altro, e per rinviare anche solo di qualche mese il ritorno alle urne, il centrodestra dovesse ritrovarsi a sostenere col centrosinistra un governo tecnico o di scopo, incaricato di svolgere gli adempimenti più urgenti prima di un ritorno alle urne. È un’eventualità, quest’ultima, che non si può escludere, seppure in presenza di un deterioramento dei rapporti tra partiti e schieramenti che dovrebbero collaborare a un’ulteriore soluzione di emergenza. I conti veri, infatti, non si possono fare oggi, mentre il fumo della propaganda è ancora alto e il rischio di nuove elezioni assai presente.
Occorrerà vedere cosa succederà dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, che recupererà in pieno i suoi poteri e sarà in grado di usare la leva dello scioglimento delle Camere che Napolitano oggi non ha più. Soprattutto per i neo-eletti, l’idea di ritrovarsi a spasso dopo solo due mesi in Parlamento, potrebbe non risultare così allettante.

Corriere 12.3.13
Scelte nell’urna e laburismo senza operai
di Dario Di Vico


E venne il giorno in cui si capì per bene che gli operai avevano snobbato il centro-sinistra di Pierluigi Bersani. Le analisi del voto suddivise per categorie socio-professionali elaborate negli ultimi giorni dall'osservatorio LaPolis (Ilvo Diamanti) e dall'Ipsos vanno, infatti, nella stessa direzione: la coalizione Pd-Sel è al terzo posto nel voto operaio dopo il Movimento 5 Stelle ma anche dopo il Pdl. Secondo i dati LaPolis Beppe Grillo ha preso addirittura il 40% dei consensi delle tute blu (per Ipsos si sarebbe fermato al 29%), il Pdl il 25,8% (24% per Ipsos) e il centro-sinistra 21,7 (20% secondo Ipsos).
Successo di Grillo a parte si può obiettare che non è la prima volta che il voto degli operai premia il centro-destra. Esiste un'ampia letteratura sull'abbinata tessera Fiom/scheda Lega e nelle tornate precedenti ogni qual volta Silvio Berlusconi ha prevalso nel risultato finale ha sempre ottenuto buonissime performance anche nelle fabbriche. In questo caso, però, la sorpresa è più viva perché il Pdl ha complessivamente perso una valanga di voti rispetto al 2008 e la coalizione Bersani si è caratterizzata nella campagna 2013 con un posizionamento di tipo laburista. La copertina del settimanale Left — che esce allegato all'Unità — con le effigi di Bersani, Camusso, Fassina, Orfini e la scritta «ecco chi sono quelli che Monti vuole silenziare», se vogliamo, è un piccolo documento del clima politico e della dialettica che si era creata nel periodo dei comizi.
Il rischio per il Pd è, però, che alla fine si sia rivelato un laburismo senza operai, la proposizione di una cultura politica «forte» scissa dalle dinamiche reali. «Invece di tentare di mettere insieme l'enciclica di Ratzinger e Mario Tronti — commenta lo storico Giuseppe Berta — Fassina avrebbe dovuto fare i conti con la realtà di tutti i giorni. Non è un caso che Vendola a Taranto abbia preso ben poca cosa. La verità è che si sta prospettando un centro-sinistra senza referenti sociali, tenuto su da un salvagente ideologico e dalla mobilitazione civile contro Berlusconi».
Eppure qualcuno aveva avvisato per tempo il gruppo dirigente di Bersani. Nel giugno del 2011 era stato proprio il Pd a commissionare alla Swg un'indagine «sulla condizione operaia in Italia», i cui risultati sono stati ben presto chiusi in un cassetto. Cosa diceva la ricerca? Che le tute blu si consideravano politicamente orfane e sindacalmente fredde e, se a quella data il 31% si riconosceva ancora nel centro-sinistra, la maggioranza relativa degli intervistati (il 42%) prendeva le distanze dalla politica in quanto tale e diceva di non sentirsi rappresentato da nessuno. Per dirla in breve, era già predisposta a incrociare un'offerta di voto antipolitico come quello del Movimento 5 Stelle. Commentava allora Roberto Weber: «C'è il pericolo che questo 42% sia l'anticamera di una vasta area di qualunquismo e un bacino di voti per aree politiche che hanno da condividere ben poco con la classe operaia».
Come è andata a finire adesso lo sappiamo. Sostiene Giuliano Cazzola, ex sindacalista Cgil e candidato nella Lista Monti: «La novità è forte. L'accoppiata Camusso-Vendola attira i voti degli attori, dei registi, del pubblico impiego e dei ceti intellettuali urbani e invece il voto operaio premia quelli che l'Economist chiama i due clown». Ma la ragione dei consensi a Grillo tra le tute blu, secondo il sociologo Paolo Feltrin, non sta solo nell'ideologismo del Pd bensì nella contestazione delle due riforme Fornero, pensioni e lavoro. «Il messaggio che è arrivato a un capo-famiglia medio è stato: tu andrai in pensione più tardi e tuo figlio resterà disoccupato più a lungo». E mentre il Cavaliere comunque in campagna elettorale si è smarcato e ha promesso di togliere l'Imu, al Pd è rimasto in mano il cerino della «responsabilità europea». Che evidentemente in fabbrica non suscita grandi applausi.

Corriere 12.3.13
Paolo Gentiloni
«Inutili le serenate ai 5 stelle Sì al governo del presidente»
di Monica Guerzoni


ROMA — «Difficilmente l'approdo sarà un governo di intesa tra Bersani e Cinquestelle».
Il tentativo del segretario del Pd è destinato a fallire, onorevole Paolo Gentiloni?
«Per capire come la pensano basta collegarsi al sito internet www.beppegrillo.it... Non mi pare ci siano grandi incertezze, le risposte sprezzanti si sprecano».
Cosa dovrebbe fare Bersani, gettare la spugna?
«Il suo tentativo è legittimo e persino doveroso. Ma a me sembra che il segretario, con il sostegno che ha avuto dalla direzione del Pd, stia sviluppando una iniziativa politica più che cercando di dare soluzione al rebus del governo».
Una iniziativa politica che non andrà a buon fine?
«Una sfida, per dire in sostanza a Grillo che quando tu prendi otto milioni di voti non puoi solo festeggiare e tenerli in congelatore, ma hai delle responsabilità. Ma se continuiamo a presentarlo come un approdo di governo, finisce che nessuno ci capisce più nulla».
Sbaglia Bersani a inseguire Grillo?
«Non mi pare che lo insegua, il Pd non può passare quindici giorni sotto il balcone di Grillo cantando la serenata. La nostra è una iniziativa politica, anche se io ho capito benissimo che non se ne parla di un governo tra Bersani e Grillo».
L'alternativa qual è, tornare al voto?
«Noi ci siamo battuti nel Pd e alla fine è prevalsa l'impostazione che esclude il prendere o lasciare. Niente ultimatum. Già nella direzione Bersani ha detto che se l'iniziativa non avrà successo la parola passerà al presidente della Repubblica e non agli elettori».
Il suo piano B?
«Se smettiamo di guardare al Palazzo e ci rivolgiamo al Paese vediamo che ci sono problemi enormi e che la necessità di un governo è evidente. Dobbiamo fare ogni sforzo possibile per facilitare a Napolitano un compito che ha margini strettissimi, visto anche che il capo dello Stato ha un mandato di soli due mesi».
Pensa a un governo tecnico?
«Escludendo una coalizione politica con Berlusconi, l'unica possibilità è un governo del presidente che abbia quattro o cinque obiettivi, tra cui una legge elettorale decente. Spero che qualcosa si muova anche nel Pdl. Trovo stupefacente che non ci sia stata, tra chi invoca responsabilità, alcuna differenziazione sul caso De Gregorio».
Se si torna a votare Renzi sarà il vostro candidato premier?
«Nessuno di noi vuole aprire rese dei conti interne. Subito dopo la chiusura della fase attuale, che Bersani sta guidando, si dovrà avviare una riflessione e un cambio. Sul piano politico Renzi ha ottime chance, le sue battaglie sono le carte giuste per provare a vincere».

Repubblica 12.3.13
Celentano: la mossa storica di Bersani per conquistare i grillini
Dica sì a una parte del programma 5 Stelle
di Adriano Celentano

CARO Direttore, in questi giorni non si parla che del confronto Bersani-Grillo, e ogni giorno sembra un anno da quel lontano 24 febbraio 2013, in cui l'uragano-Grillo si è abbattuto come una furia sull'Italia elettorale. Quell'Italia che non voleva cambiare, sempre con lo stesso abito grigio, ormai sfilacciato e pieno di macchie, piccole e grandi, alcune con dei grossi buchi al centro dove nessun rammendo è possibile. E sono proprio queste le macchie peggiori, che per 'non dimenticare', come si dice per l'Olocausto, vengono catalogate sotto la dicitura di 'FALSO benessere', in nome del quale ci si è potuti accanire e stravolgere, il 'bel sembiante' dell'Italia che fu. Sembrano passati anni e invece siamo a poco più di due settimane dal meteoritico voto. Il pericolo più imminente dello stallo Grillo-Bersani è che tutto possa invecchiare di colpo, compresi i vari 'trionfi'.
I punti sui quali ragionare non sono poi tanti. Ed è forse questo il problema. È come se ad un tratto il Paese fosse imprigionato da due o più alternative contrarie, ed entrambe possibili. Un dilemma dal quale cominciano a spuntare ipotesi di un possibile governo al di fuori dei contendenti, come ad esempio quello lanciato da 'Servizio pubblico': «Si tratta di un governo ideale - annuncia Santoro, ma premette - naturalmente senza Bersani». Ora, con tutto il rispetto per le persone scelte, impeccabili direi, a partire da Rodotà, che stimo molto, al grande Carlin Petrini, alla Gabanelli, tutte persone validissime certo, ma io continuo a credere che il leader debba essere Bersani con il SUO governo. Se non altro perché, fra quelli che sono arrivati primi e non hanno vinto, lui è quello che è arrivato più PRIMO degli altri. Però, c'è un però: Grillo non fa che ripetere (e insultare) che lui non darà la fiducia a nessun partito. E sotto un certo profilo può anche essere giusto, come è giusto e sarebbe saggio secondo me che anche tu, 'amico parlante' sarebbe ora che cominciassi a cambiare registro ai tuoi toni: fregatene se gli altri ti insultano e inventano società che non esistono e, anche se fosse, te le saresti guadagnate col tuo lavoro. Chi ti ha votato conosce bene il gioco meschino dei POTERI forti quando vengono disturbati. Ma la cosa che più di tutti preoccupa in questo momento è un'altra. Pare che Bersani non abbia scelta: «Se Grillo
non accetterà il confronto non ci rimane che tornare alle urne, poiché neanche a parlarne accetterei di allearmi con il terzo vincitore, Berlusconi ». E allora?
Poche sere fa, l'affascinante Lilli Gruber ha chiesto a Bersani: «Se ci fosse Grillo qui davanti a lei, cosa gli direbbe? ». Bersani l'ha guardata, e abbozzando un sorriso ha sentenziato: «Gli direi... dimmi!». Ecco il punto. Caro
Pierluigi, è più probabile che Grillo smetta di insultarti piuttosto che dirti quello che tu vorresti sentirti dire. Io, invece, ti dico qualcosa: sono fermamente convinto che nessuno meglio di te, può cavalcare il vento di queste ore. Devi però ammettere che è in atto un forte cambiamento e l'artefice di questo cambiamento è Grillo. Anche tu lo riconosci e dici che a questo punto la priorità assoluta, prima ancora
dei partiti, è il bene del Paese e io ci credo. E se è il caso, dici anche che non ci penseresti due volte a cedere il posto a qualcun altro. Ma sarebbe un ER-RORE. Perché solo tu puoi fare la MOSSA giusta. La mossa che i tempi di questo grande momento ti chiedono. Che sono poi gli stessi che hanno chiesto al Papa l'urgenza di una SCOSSA per la chiesa degli scandali mentre un METEORITE si abbatteva sulla Russia.
Una mossa la tua, che indurrebbe i 'grillini' a chiedere al loro fondatore per quale motivo non dovrebbero accettare una proposta che non possono rifiutare. Per cui se davvero vuoi evitare agli italiani un altro tormento alle urne, con chissà quali conseguenze, non solo per il tuo partito ma temo anche per lo stesso Grillo, ben lontano secondo me da quel 100% che dovrebbe essere lui il primo a non ambire di ottenere (ma si sa che a volte può succedere di dire cose che non pensiamo).
Mentre questo non sarebbe il caso che ti riguarda, poiché il tuo pensiero, come dici, è rivolto alla soluzione meno peggiore per gli italiani. Ma se è così allora sii tu a dare la FIDUCIA a Grillo. Non nel significato che la parola assume quando per esempio un governo chiede alle camere il voto di fiducia. Ma in un patto tra te e Grillo di fronte agli italiani dove si dice che: «Io, Pierluigi Bersani sarò il PREMIER che accetta tutti i punti del tuo programma che entrambi riteniamo fondamentali per il bene dell’Italia e sono
pronto a discutere anche su quelli che sono in totale contrasto con il mio modo di pensare». Sarebbe una 'mossa' STORICA che permetterebbe al Paese di approvare le riforme più urgenti e incamminarsi davvero sulla via del CAMBIAMENTO. Almeno fino a quando l'idillio fra te e Grillo reggerà.
Sarebbe un gesto così innovativo, che pur sul nascere di un eventuale disaccordo, potrebbe dar luogo a un vero e proprio dibattito DEMOCRATI-CO, dove anche nei momenti di maggior contrasto potrebbe non mancare quel punto di 'strana convergenza' che è tipica dell'italiano saggio. Quando hai presentato il piano A hai detto che non ci sarebbe stato un piano B e francamente anch'io l'ho pensato. Quello che ti ho appena prospettato è certamente fuori da ogni tipo di continuità. Poiché non è neanche un piano C. Ma un piano Z. Poiché è esattamente dalla fine che si ricomincia.

Repubblica 12.3.13
“Facciamolo!” e “Patto per cambiare” a quota 80mila firme su Repubblica.it


ROMA — Ha raggiunto 50mila firme l’appello di Barbara Spinelli, Remo Bodei, Salvatore Settis e altri intellettuali per chiedere al Movimento 5 stelle di non chiudere la porta a un governo che possa fare subito delle cose urgenti per il Paese: una legge sul conflitto di interessi, il dimezzamento dei parlamentari, nuove norme contro la corruzione. A quota 30mila invece l’appello lanciato domenica da Michele Serra, e firmato da Roberto Benigni, don Luigi Ciotti, Oscar Farinetti, don Andrea Gallo, Lorenzo Jovanotti, Carlo Petrini, Roberto Saviano, Ferzan Ozpetek, Fabio Fazio. Dice solo «facciamolo »: «un governo di alto profilo» che realizzi il cambiamento. Sarebbe grave e triste che quest’occasione venisse tradita».

Repubblica 12.3.13
Grillo e Casaleggio non vogliono realizzare il programma, ma tenere alto il polverone finché è possibile così si coprono le magagne
“Un movimento di destra che usa slogan di sinistra ma la colpa è del Pd”
I Wu Ming: troppi sì al liberismo
di Giovanni Egidio


BOLOGNA — I Wu Ming, collettivo di scrittori bolognesi (“Q” fu il loro romanzo storico d’esordio e di inaspettato successo), sono da tempo duramente critici nei confronti del fenomeno Grillo. Al punto di aver scomodato termini come “criptofascismo” e analisi che hanno bollato come “destra” la natura “né di destra, né di sinistra” con cui Grillo e Casaleggio definiscono il Movimento. «Nella storia d’Italia — spiegano — dalla palude del “né di destra né di sinistra” sono usciti vapori che il vento ha sempre portato a destra. Di destra — e addirittura totalitaria — è l’idea di futuro espressa nel video di Casaleggio Gaia, il futuro della politica.
Di destra sono certe posizioni sugli immigrati. Di destra — ex-leghista, ex-berlusconiano, ex-neofascista, e il prefisso «ex» lo usiamo con le pinze — è circa il 40% del voto preso alle politiche. A Bologna, secondo l’Istituto Cattaneo, il 12% del voto grillino proviene dalla destra radicale. A Torino è il 10%. Questi elementi di destra finora sono rimasti coperti da un manto di confusionismo: dire “né destra, né sinistra” serve a
questo, ecco perché diciamo che nel M5S c’è del “criptofascismo”, del fascismo nascosto. Ma la macchina grillina cattura e semplifica anche elementi e parole d’ordine di sinistra, e conquista voto di sinistra. Qui sta la contraddizione principale, il grosso nodo che dovrà venire al pettine: molte persone di sinistra hanno votato una forza sostanzialmente di destra. Ma se l’hanno fatto ci sono precise ragioni, e c’è chi ha precise colpe».
Se elettori di sinistra votano “sostanzialmente a destra” di chi sarebbe la colpa?
«Della sinistra ufficiale, che per decenni ha pensato di doversi “spostare al centro”, alla conquista dei voti “moderati”. In nome di questa strategia ha rinunciato anche
agli ultimissimi residui di alterità, ha smesso di definirsi sinistra a favore del nomignolo “centrosinistra”, ha detto sì a ogni sorta di nefandezza in nome di una presunta “modernizzazione”. Si è adagiata nella subalternità all’ideologia liberista, cantando le lodi del mercato, del privato, della “sussidiarietà”. Ha boicottato e combattuto movimenti sociali che si opponevano a privatizzazioni, speculazioni e scempi ambientali. Quando ha governato, ci ha dato leggi come il Pacchetto Treu e i campi di prigionia per i clandestini. Finché, un bel giorno, non abbiamo scoperto che il “centro” non contava nulla, anzi, non c’era proprio! Quanto ai voti “moderati”, di che stiamo parlando? Un terzo degli elettori continua a votare per anticomunismo anche in assenza di comunisti. Siamo un paese estremo, altro che moderato. Il centrosinistra ha gravi colpe ma non ha mai pagato dazio, perché “di là” c’era Berlusconi e poteva presentarsi come “male minore”. A forza d’iniettarsi dosi di male dicendosi che era “minore”, una parte di elettorato non ne ha potuto più, e ha deciso di cambiare spacciatore e sostanza».
Grillo ripete spesso che se non ci fosse lui ci sarebbe Alba Dorata.
«Sì, Grillo fa sempre l’esempio dei nazisti greci di Alba Dorata, ammettendo così di incanalare anche pulsioni nazistoidi. Ma alle elezioni greche del 2012, la vera novità è stata Syriza, la coalizione della sinistra radicale che ha conquistato 77 seggi su 300. Lui si sceglie il babau che gli fa più comodo, ma in Europa negli ultimi anni si è mosso ben altro, dai grandi scioperi francesi contro la riforma delle pensioni di Sarkozy alla marea umana anti-Trojka che una settimana fa ha riempito le città portoghesi, passando per il movimento di massa nato dalle acampadas che in Spagna impedisce sfratti e pignoramenti di case. Grillo ha intercettato e “prevenuto” solo fenomeni tipo Alba Dorata, o ha anche prevenuto esperienze di questo genere?»
Il movimento di protesta più radicale in Italia in questi anni è senza dubbio il No Tav. E Grillo lo ha intercettato in pieno.
«Infatti sarebbe bene analizzare il rapporto tra il M5S e i movimenti ai quali offre rappresentanza, appunto come quello No Tav. Quei movimenti potrebbero accorgersi presto che Grillo offre una rappresentanza esibita ma infeconda. L’interesse principale di Grillo & Casaleggio non è realizzare il programma, che è un geyser di richieste contraddittorie spruzzate qua e là. Gli interessa di più prolungare lo scompiglio e tenere alto il polverone finché è possibile, perché il polverone copre le magagne e rinvia l’arrivo dei nodi al pettine».
E secondo voi fino a quando riusciranno a rinviarlo?
«Non lo sappiamo. Grillo e Casaleggio hanno i capelli lunghi. Comunque, noi tifiamo per il pettine»

il Fatto 12.3.13
Terzi rende piccola l’Italia: “I due marò resteranno qui”
di Giampiero Gramaglia


L’ANNUNCIO A SORPRESA DEL MINISTRO DEGLI ESTERI: I MILITARI NON TORNERANNO IN INDIA. GELIDO IL COMMENTO DI NUOVA DELHI: “MEGLIO NON REAGIRE ORA”

La linea d’onore del rispetto della parola data si rivela un’italica maginot: crolla al primo soffio, come le case di Timmy e Tommy. L’Italia decide di tenersi i marò e di non rimandarli in India, dopo la ‘licenza elettorale’ generosamente e - diciamolo pure - un po’ incomprensibilmente concessa loro il 22 febbraio per quattro settimane dalla magistratura indiana.
IL GOVERNO italiano ce l’aveva fatta, a non sbracare, per la prima licenza a fine anno, quando i marò tornarono a casa per Natale e Capodanno. Eppure, allora c’era chi, come l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa, li voleva candidare, nella caccia senza vergogna a un pugno di voti nazionalisti (e, francamente, fascisti). Stavolta, l’opinione pubblica quasi non s’era accorta del ritorno in patria di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che non avevano più avuto diritto al valzer d’onore delle massime autorità, presidente della Repubblica, premier, ministri. Anche per questo, la decisione di sottrarsi all’impegno preso con le autorità indiane appare ancor più gratuita e assurda.
Il ministro degli esteri Giulio Terzi dà l’annuncio a sorpresa e spiega che l’Italia agisce così perché l’India viola le norme internazionali, non accettando che i due marò siano giudicati qui da noi. E, nell’attesa che un arbitrato risolva la controversia, i due militari restano in patria. E, nell’attesa d’essere giudicati, tornano a lavorare. Terzi inoltra una nota verbale al governo indiano, che evita commenti a caldo: Salman Kurshid, ministro degli esteri, dimostra tutta la saggezza d’un Paese dalla diplomazia millenaria dicendo che “non sarebbe bene reagire ora", “attendiamo gli sviluppi”.
Ma è facile immaginare che il voltafaccia non migliorerà le relazioni dell’Italia con l’India, già turbate, sul piano economico e commerciale, dalle rivelazioni sulle pratiche di corruzione della Finmeccanica per piazzare gli elicotteri Agusta-Westland. E allora resta difficile capire perché e perché ora: per puntiglio giuridico?, o per ripicca, dopo che l’India ha ricusato i nostri elicotteri?, o perché un governo agli sgoccioli toglie una castagna dal fuoco a quello che verrà? Tutte solo ipotesi.
Girone e Latorre dicono all’unisono: “Siamo felici di tornare a fare il nostro mestiere”. E, in tutto questo, nessuno, neppure loro, neanche questa volta, si ricorda di dire una parola di consolazione e di vicinanza ai familiari dei due pescatori indiani morti ammazzati il 15 febbraio 2012. Quella notte, i due fucilieri di Marina in servizio antipirateria sulla nave commerciale Enrica Lexie spararono contro un peschereccio, scambiandolo per un’imbarcazione di pirati e uccidendo due pescatori: l’episodio avvenne in acque internazionali, al largo di Kochi, nello Stato del Kerala (Sud-Ovest dell’India). I due marò, che sostengono di avere tirato to solo colpi di avvertimento in aria, furono fermati il 19, dopo che la nave era entrata come se nulla fosse accaduto nel porto di Kochi. Condotti a terra, Girone e La-torre iniziarono il loro controverso viaggio nel sistema giudiziario indiano. Che, oggi, s’è bruscamente interrotto, fra i commenti di giubilo della destra: il solito La Russa e i suoi sodali Crosetto e Meloni commentano un “meglio tardi che mai”; la Polverini plaude; e il ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo De Palma, un ‘tecnico’, come l’ambasciatore Terzi, li giudica “abili al servizio”.
INTENDIAMOCI, sul piano del diritto internazionale molti giuristi avvalorano la richiesta italiana d’estradare e processare i due marò, essendo il fatto avvenuto in acque internazionali. Ed è indubbio che la giustizia indiana, specie quella statale, non abbia proprio bruciato i tempi del giudizio (ma non è che noi possiamo dare lezione, in fatto di rapidità della giustizia). Proviamo piuttosto a pensare che cosa avremmo detto, e che cosa avremmo fatto, a parti invertite: prima, se due militari di un Paese terzo avessero ucciso nel Mediterraneo due pescatori italiani; e, poi, se il Paese terzo avesse preteso di riprenderseli e processarli in proprio; e, infine, se avesse fatto marameo alla nostra giustizia, tradendo la parola data. Fuoco e fiamme, avremmo fatto.

il Fatto 12.3.13
Dario Fo
Fate sposare i preti e la pedofilia morirà
di Angela Camuso


Il Premio Nobel per la letteratura Dario Fo interviene sul tema pedofilia nel clero a colloquio con Angela Camuso, autrice del libro “La preda, confessioni di una vittima: Storia vera del più grande scandalo della Chiesa tra Fede e omertà”. Fo è autore della prefazione del libro, edito da Castelvecchi.
I seguaci di Gesù erano, più o meno tutti, sposati, avevano donne o storie, così come lo stesso Gesù. Tutta la fatica fatta dalla Chiesa per cercare di togliergli di torno donne! Gesù era uno che secondo i vangeli apocrifi aveva più di una donna! E la Maddalena nella tradizione popolare è stata sempre guardata come la donna di Gesù... Per questo, sotto la piaga della pedofilia c’è la grande testardaggine della Chiesa, che ha paura di cambiare registro”.
Dunque secondo lei c’è uno stretto legame tra celibato dei preti e pedofilia nella Chiesa?
La prima causa di questa situazione è come vengono educati e portati in un ambiente orribile i seminaristi, tenuti in una condizione di soggezione.
Illustri storici del cattolicesimo, come Gary Wills, evidenziano il meccanismo perverso che porta alla colpevolizzazione della vittima del prete-violentatore. La colpevolizzazione è in primo luogo quella della vittima verso se stessa...
Il furbesco è che loro prendono la religione e la inseriscono in questo atto. Lo fanno diventare come logico. La tecnica è che danno l’impressione che stanno soffrendo loro, non te. ‘Perché tu mi affascini – vogliono dire – dentro il demonio ce l’hai tu! ’. La pedofilia è legata a un’educazione che risale all’alto medioevo e soprattutto ai romani. C’erano i bambini prostituti al tempo di Roma! In Arabia Saudita dappertutto ci sono bambini che si prostituiscono. In Iran, in Iraq e via dicendo. C’è tutta una tradizione che è legata al mondo arabo. Da noi, naturalmente, è portata avanti perché prendersela col bambino che non ha difesa, soprattutto che si sente peccatore con il prete che è il corruttore, porta meno preoccupazioni di farsi un amante, che è una faccenda molto più complessa, perché se fai un figlio devi pure mantenerlo.
Quindi?
Tornando a monte, fin quando i preti non diventeranno persone normali... perché il fuori norma non è soltanto il modo di camminare, mangiare, bere, parlare con la gente ed essere spiritoso... Poi si dice il diavolo! Ma quale diavolo! È il tuo bisogno naturale! Da ragazzo mi è capitato di accompagnare un mio amico in una di queste scuole per giovani preti, il seminario. E io lì vedevo e sentivo che c’era una costrizione verso di loro. Erano fuori della norma! Era il clima, le mura, l’aria, gli spazi. Addirittura l’architettura. Si vedeva nel loro modo di fare, di scherzare, non aveva niente della strada! Io avevo gli spazi davanti al lago dove si correva, si scherzava, a volte ci si dava anche alla violenza, c’erano le lotte... Ma tra questo modo di vivere e l’altro, c’era qualcosa di sensibilmente diverso. Inaccettabile. Già il fatto di non avere una donna! In un essere umano che è stato creato per avere tutte le attenzioni per l’altro sesso: momenti di gioia, di riso, la danza! Pensa, tu, prete, non puoi danzare. Magari di nascosto, tac, danzano! Nel primo cristianesimo c’era la danza!
Invece adesso?
Io ho scoperto la grande differenza tra la Chiesa primitiva e quella di oggi. L’ironia e il grottesco nella Chiesa primitiva erano molto vivi. Adesso noi qui parliamo di questo fatto particolare dei bambini. Ma era legato a questo il problema del prete che ha un amante. Io mi ricordo nel paese dove vivevo, abitavo vicino al lago, c’era il prete di casa che aveva un negozio dove c’era dentro una donna, ancora giovane, devo dire... il prete veniva a trovarla girando di dietro. Ed era la sua amante, in paese tutti lo sapevano. Ma davanti a un fatto che avesse una donna tutti pensavano: è uno sfogo naturale, vuol dire che sarà più umano verso di noi.
Tra le difficoltà ad affrontare radicalmente la questione pedofilia da parte della Chiesa c’è il concetto del perdono. Cristo, e dunque il sacerdote che lo rappresenta in terra, perdona anche i peggiori criminali e dunque se pentiti in pratica vanno perdonati anche i preti pedofili.
Di qui il fatto che i vescovi non possono essere obbligati a denunciare.
C’è anche questo. Nel 1200 c’è quest’invenzione del purgatorio, che arricchisce terribilmente la Chiesa, la quale si inventa dei riti appositi per poter liberare le anime dal purgatorio e farle arrivare poi in cielo. Nel 1200 ormai si era deciso che i preti non avessero mogli e amanti, con tutto quello che poi succedeva, lo sappiamo, con i papi che comunque avevano figli, avevano amanti... Talvolta c’erano delle scene terribili tra cardinali vescovi, vescovi e cardinali che se le portavano via l’un con l’altro. Nel 1000 il vescovo di Milano ha moglie e figli e c’erano preti che avevano famiglia. C’è un pezzo di Ruzzante (drammaturgo del 1500, ndr) che a un certo punto fa questa preghiera a un cardinale vero: “L’unica soluzione è che i preti si devono sposare, non si possono sposare: devono! Perché così avremo la possibilità, prima di tutto, non solo di avere un bastardo in casa nostra che dobbiamo allevare perché il prete ha messo incinta nostra moglie o la nostra figliola, ma anche noi potremo godere della sua moglie e rendere cornuto lui. Così sarà un uomo, perché avrà la possibilità di provare tutti i livelli della condizione del maschio.

La Stampa 12.3.13
Li chiamano «Neet», ormai sono il 22 per cento dei ragazzi con meno di 29 anni
Né studio, né lavoro: ecco i giovani senza desideri
di Niccolò Zancan


Stanno seduti su due piloni gialli spartitraffico, davanti all’ingresso di un grande centro commerciale. Vicini. In silenzio. Non sembrano arrabbiati. Nulla li accende. Se proprio si tratta di esprimere un desiderio per il futuro, qualcosa di futile e grandioso, lui dice: «Un’Alfa Giulietta e un viaggio a Miami». Lei ci pensa tre minuti buoni: «Anche io vorrei un’auto - racconta - ma non ho desideri speciali. Non mi piace illudermi. Vorrei solo un posto da segretaria. Ottocento euro al mese. Magari il sabato sera andare a mangiare la pizza». Per le statistiche dell’Istat, Vittoria e Nicola sono due giovani «Neet» (Not in Education, Employment or Training). Come il 22,7% dei ragazzi e delle ragazze fra i 15 e i 29 anni. Non studiano e non lavorano, impantanati dentro a una palude di sfiducia. A guardarli sotto la luce nera di un temporale, sembrano soprattutto due giovani italiani a cui qualcuno ha cavato la speranza dagli occhi.
Rispondono a monosillabi. Gentili, educati. Sono in guerra e lo sanno, ma la combattono da questa strana trincea a bassa intensità emotiva. «Non posso permettermi di esternare troppo - dice lei - mio padre è in cassa integrazione da tre anni. È molto giù, non parla, il che è anche peggio». Unico regalo ricevuto a Natale: 50 euro dalla nonna. Vittoria La Braca, 20 anni, ha studiato contabilità in un istituto tecnico. Ha un solo lavoro da mettere in curriculum: «Tre mesi di stage in un studio legale, organizzati dalla mia scuola». Si alza alle 8 del mattino, accompagna il fratello Simone in classe, va al mercato, cucina con la mamma casalinga e aspetta il pomeriggio. Abita in zona Lingotto, periferia sud. «Con Nicola ci vediamo in un centro commerciale oppure in centro città». Stanno insieme, sono fidanzati. Anche se lo dicono con un’indecifrabile timidezza, che sembra connessa al senso del poi. Loro al momento non hanno un futuro contemplabile. In compenso hanno capelli ben curati, tagliati da amici. Vestiti normali alla moda. In tasca, telefonini comprati scontatissimi su Ebay. Hanno questa storia che li tiene insieme nell’incertezza. Ma nessun piano, se non aspettare: «È colpa del sistema. Nessuno ci ascolta».
Nicola Pillo, 23 anni, ha sempre voluto diventare un informatico. È appassionato di computer da quando aveva sei anni: «Ho studiato in un istituto tecnico. Ci so fare: hardware e software. Ho mandato centinaia di curriculum, sono andato a bussare ovunque. Ma niente. Non ho ricevuto neppure una risposta. Ho trovato solo due lavori di altro genere. Un mese e mezzo di pulizie alla Fiat, l’estate di tre anni fa. Poi tre mesi di stage alla Confesercenti nel 2009». Da allora, nulla. Solo piccole cose in nero, del tipo: «Il mio computer si è beccato un virus... Puoi aiutarmi? ». Nicola dice di spendere 40 euro alla settimana. «Sigarette più birra media il sabato sera. Ma ai miei non chiedo niente». La sua famiglia è originaria di Foggia. Lui è il più grande di tre figli. Stanno tutti sulle spalle del padre, un poliziotto in pensione. «Papà mi sprona. Dice di provare ancora. Ma io ho un po’ smesso di sperare, lo ammetto. La situazione è troppo deprimente. Certe volte penso che andrò a cercare fortuna in Germania, anche se i miei genitori non sono molto d’accordo». Nicola votava Berlusconi, ma ha scelto Grillo: «Spero che si occupi di lavoro». Vittoria, invece, è andata a votare per la prima volta in vita sua: «Monti. Perché ci ha salvato dal tracollo. Ma ormai non mi interessano più le chiacchiere. L’unica domanda che conta a questo punto é: quanto tempo ancora ci vuole per uscire da questa situazione? ». Si difendono dalla crisi come da un temporale. Magari lungo e cattivo. Ma qualcosa di esterno. «Però sappiamo bene che non possiamo andare avanti così in eterno». Se questa notte trovassero 5 mila euro sotto il cuscino, Nicola li metterebbe in banca. Vittoria invece ne darebbe la metà al padre cassaintegrato: «E poi mi aprirei un conto». Eccoli, due «Neet» sotto al diluvio. Non hanno anatemi da lanciare. Neppure cercano consigli. «Un giorno mi piacerebbe avere una famiglia», dice lui. Vittoria lo guarda: «Prima di tutto io voglio un lavoro. Essere autonoma. È da quando ho sei anni che sogno di diventare una segretaria».

il Fatto 12.3.13
Ungheria, sì del Parlamento alla Costituzione “fascista”


Il Parlamento ungherese ha approvato ieri pomeriggio la riforma della Costituzione voluta dal governo conservatore di Viktor Orban. Con 265 sì, 11 no e 33 astensioni sono passati le modifiche ai 22 articoli che hanno provocato diversi richiami dall’Unione europea e proteste popolari contro le limitazioni delle libertà civili e dei poteri della Corte costituzionale, che aveva fino a ora respinto gli emendamenti introdotti dal partito conservatore. La riforma, che è stata fortemente criticata anche dagli Stati Uniti, assegna più poteri al governo sull’istruzione superiore, diritto di famiglia e magistratura, limita i poteri della campagna elettorale dei partiti politici prima delle elezioni e introduce sazioni e pene carcerarie per i senzatetto che dormono per strada. Il Consiglio d’Europa aveva invece chiesto di far slittare il voto perchè i suoi giuristi potessero esaminare a fondo il testo della controversa riforma. In una lettera ai ministri degli esteri dei Paesi Ue la scorsa settimana, il capo della diplomazia di Budapest Janos Martoniy, ha liquidato le critiche sostenendo che si tratta del frutto di “malintesi e informazioni non adeguate” e assicurando la “disponibilità al dialogo” del suo governo.

l’Unità 12.3.13
Ungheria, Orban sfida l’Europa
Approvate le modifiche costituzionali anti-democratiche a dispetto dei richiami Ue
di U. D. G.


Hanno disertato il voto per protestare contro il «golpe bianco». Hanno lanciato un appello accorato all’Europa, ai democratici perché aggiungano la loro voce a quella dell’«altra Ungheria» che non si arrende alla «dittatura della maggioranza». Il Parlamento ungherese ha approvato le modifiche costituzionali con una maggioranza schiacciante di 265 favorevoli, 11 contrari e 33 astenuti. A votare a favore sono stati il partito conservatore Fidesz del primo ministro, Viktor Orban, il suo piccolo alleato, i cristiano democratici, e tre deputati indipendenti. Le misure approvate ieri trasformano in legge molti provvedimenti già bocciati dalla Corte costituzionale ungherese. I cambiamenti alla costituzione sono stati criticati da Unione europea e Stati Uniti, da numerosi costituzionalisti ungheresi e movimenti della società civile, che denunciano l’eccessivo potere lasciato nelle mani del governo.
Il partito socialista ungherese (Mszp), che è la principale forza dell'opposizione in Ungheria, ha boicottato la sessione parlamentare per protestare contro l'emendamento della Costituzione. I 47 deputati socialisti hanno lasciato sulle loro scrivanie un foglio bianco con sopra un grande punto esclamativo nero. «Se verranno adottate le modifiche, anche le parvenze di costituzionalità verranno soppresse», ha dichiarato il presidente del partito Attila Mesterhazy prima del voto. Al tempo stesso, l’opposizione democratica ha lanciato un appello all’Europa perché faccia sentire la sua voce contro quello che viene considerato un «golpe bianco».
L’APPELLO
Con i nuovi emendamenti della Costituzione il governo intende «vendicarsi contro i giudici dell’Alta corte, gli studenti e anche contro l’opposizione, dunque nei confronti di tutti coloro che non si comportano come vorrebbe il governo», rimarca Mesterhazy. Un riferimento al braccio di ferro tra esecutivo e togati della Corte costituzionale, che avevano bocciato precedenti modifiche, ora de facto reintrodotte, come pure alle proteste di piazza animate dagli studenti. Anche l’ex presidente della Repubblica ungherese, Laszlo Solyom, ha lanciato un appello al Capo dello Stato perché non firmi le modifiche costituzionali e ha chiesto all’Alta Corte di pronunciarsi prima che i poteri le vengano tolti. Il voto favorevole al pacchetto voluto dal premier Viktor Orban sostiene Solyom significherà la fine della giurisdizione costituzionale in Ungheria, in quanto la Consulta non avrà piu possibilità di pronunciarsi in merito.
Ancora ieri la Commissione Europea aveva lanciato un avvertimento, esortando l’Ungheria a mantenersi all’altezza delle regole democratiche. Un monito sulla linea di chi sostiene che il maxi-emendamento della Costituzione possa minare le libertà fondamentali. «Il nostro lavoro è di garantire che le leggi europee, che sono state sottoscritte dai nostri membri, vengano rispettate», ha detto la portavoce Pia Ahrenkilde Hansen, ricordando che venerdì il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha ottenuto dal premier Viktor Orban rassicurazioni sull’impegno a rispettare i principi Ue. «Non esiteremo a usare tutti gli strumenti a nostra disposizione per fare in modo che gli stati membri rispettino i loro obblighi». Ma aprendo la seduta parlamentare che ha poi portato al voto delle modifiche della carta fondamentale, Orban ha tagliato corto sull’argomento, sostenendo che la gente non è preoccupata dalla Costituzione, ma dal caro-bollette.

Repubblica 12.3.13
Orbán l’autocrate sfida Bruxelles “golpe” bianco sulla Costituzione
di Andrea Tarquini


Il premier ungherese ha voluto modifiche che limitano i poteri dell’Alta Corte e tagliano pesantemente le libertà Ignorate le preoccupazioni dell’Europa. Per l’opposizione e per gli esperti internazionali è un addio allo Stato di diritto

«Spero di no, ma forse un giorno potrebbe divenire necessario sostituire la democrazia con un altro sistema». Parole sue, dell’anno scorso. La Weltanschauung di Viktor Orbán, classe 1963, carriera iniziata nella gioventù comunista sotto il vecchio regime, poi dissidente radicale, oggi premier-autocrate ungherese, alto dirigente del Partito popolare europeo, al sodo è tutta qui. Ieri dalle parole è passato ai fatti. Sfidando l’Europa e l’intero mondo libero, come ama fare sempre più. A Budapest il Parlamento dominato dal suo partito (la Fidesz), ha approvato modifiche alla Costituzione che secondo esperti ungheresi e internazionali sono «un addio allo Stato di diritto e alla separazione dei poteri». Un golpe bianco annunciato. Invano il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, gli ha chiesto di ripensarci, e ha espresso «preoccupazione per trattati e spirito dell’Europa e primato del Diritto». Rotto solo da qualche migliaio di giovani in piazza il silenzio scende sull’Ungheria, il silenzio del Nuovo Ordine.
Laureato in legge ma spregiudicato verso l’idea occidentale di Diritto, sposato e padre di cinque figli e cattolico praticante dichiarato ma, mormorano a Budapest fonti diplomatiche, duro in casa e amico degli oligarchi, Orbán ama mostrare di non aver paura. Con lui, nulla a Budapest è più come prima. La stessa Costituzione nazionalista da lui voluta e imposta nel gennaio 2012 è umiliata e annullata, scrive Die Welt,
il quotidiano liberalconservatore tedesco più vicino ad Angela Merkel.
Esautorata per vendetta la Corte costituzionale che ricusava leggi liberticide ora diventate articoli della Costituzione, via libera a limiti alla libertà d’espressione se offende una non meglio definita «dignità della nazione magiara», frontiere chiuse come un nuovo Muro di Berlino ai laureati che sognano di fuggire dalla povertà cercando lavoro all’estero, senzatetto criminalizzati se vivono e dormono in strada, campagna elettorale vietata sui media privati, cioè i pochi ultimi media indipendenti. Quelli su cui per volere di Orbán vigila come un Grande fratello stalinista di destra la Nemzeti Mèdia-es Hìrkoezlési Hatosàg, l’autorità di controllo sui media, mentre il governo nega frequenze e gli oligarchi tolgono pubblicità. E poi: chi si ama e convive senza sposarsi né avere figli, omo o etero che sia, non ha la stessa dignità della famiglia etero ufficiale. E il vecchio Partito comunista, da cui scaturì dopo il 1989 (come altrove all’Est) il Partito socialista oggi prima forza d’opposizione, alleato a Strasburgo di Pd, Spd tedesca, Ps francese, New Labour o socialdemocratici finnici e svedesi, è organizzazione criminale. Minaccia di processi politici travestiti da altro.
«L’Europa politica e dell’euro è un fallimento, il nostro modello euroasiatico si rivelerà vincente », ecco un altro estratto recente dell’Orbán-pensiero. Ieri il premier in Parlamento si è spinto a dire che «al popolo interessano le bollette troppo care che pagano alle multinazionali, non la Costituzione». Ancor più chiaramente, ha parlato il suo uomo di mano Làszlò Koevér, presidente del Parlamento: «Il capitale internazionale, la Ue, gli Usa, conducono una guerra fredda contro l’Ungheria perché rifiutiamo la camicia di forza liberal, ma sono improbabili compromessi con chi accetta persino matrimoni omosessuali».
Recessione, disoccupazione specie giovanile (dati Ue) a livelli greci: Orbán dà la colpa all’Europa, e chiede investimenti a Cina, Iran, Azerbaijan. Riscrive la Storia: riabilitato l’ammiraglio Horthy, il dittatore antisemita alleato più fedele di Hitler, via le statue di intellettuali, nobili o borghesi riformatori, dal “conte rosso” Karoly Mihaly che affrancò i servi della gleba al poeta Attila Jozsef amico di Thomas Mann. Chi sa se Orbán ha dimenticato il monito d’un suo professore all’università, «attento, ragazzo, lei è più assertivo d’uno stalinista». I giovani lo sfidavano in piazza ieri sera, cantavano «Viva la libertà ungherese », l’inno del Risorgimento. Strade sbarrate per loro, dai reparti antiterrorismo. Mi spezzo ma non mi piego, pensa forse Orbán.

il Fatto 12.3.13
Austria. Sondaggio choc: “Hitler governerebbe bene” per il 42%


I nazisti potrebbero tornare alla ribalta, almeno in Austria. Secondo un sondaggio condotto dal giornale viennese Der Standard, ben il 54 per cento dei cittadini voterebbe per una coalizione nazista all’esecutivo. Mentre il 61 per cento degli austriaci desidera “un uomo forte al governo”. Infine, il 38 per cento degli intervistati considera il proprio Paese una “vittima” dell’oppressione di Hitler.
Nel giorno dell’anniversario dell ’Anchluss (l’annessione dell’Austria alla Germania nazista avvenuta il 12 marzo 1938) quindi la maggior parte degli austriaci sogna il ritorno dei nazionalsocialismo in Parlamento: il 42 per cento avrebbe addirittura dichiarato che con il Führer “la vita non era poi tanto male”.
“L’Austria fu vittima e complice allo stesso tempo”: lo ha ricordato il quotidiano attraverso la ricostruzione storica che accompagnava il sondaggio.

Corriere 12.3.13
Il piano Spd «Tasse al 49% per i ricchi»


Peer Steinbrück, 66 anni, segretario del Partito socialdemocratico tedesco, alla Willy Brandt Haus a Berlino (foto AFP). Steinbrück ha presentato il programma per le prossime elezioni di settembre, nelle quali la Spd sfiderà, da sfavorita, la coalizione della cancelliera Angela Merkel. Tema centrale saranno le politiche sociali e fiscali, con tasse in aumento per i ceti più abbienti. Il motto non si allontana molto da quello della campagna del Pd: «Governare la Germania in maniera migliore e più giusta»

La Stampa 12.3.13
Libeskind, il disegno è come un bambino
Alla Galleria Tedeschi di Roma si apre oggi una mostra di bozzetti dell’architetto polacco
di Elena Del Drago


Basta osservare Daniel Libeskind mentre risponde alle domande, guarda i disegni attorno a sè o espone le proprie idee, per comprendere le ragioni del suo successo planetario. Se oggi il suo studio segue progetti cruciali in diversi Paesi del mondo, a cominciare da quello per Ground Zero a New York, è anche perchè questo architetto esprime un entusiasmo tanto contagioso e cosciente, quanto può esserlo quello del figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto per finire nel dopoguerra comunista prima di emigrare negli Stati Uniti. Qui Daniel arriva adolescente e come eredità porta con sè la consapevolezza del proprio passato e la voglia straordinaria di costruire un futuro diverso, attraverso l’arte e l’architettura. Ecco perchè anche le polemiche dei giorni scorsi, seguite ad una dichiarazione di Libeskind che condannava la collaborazione di alcuni suoi colleghi con le dittature e la necessità di conoscere bene il proprio committente, sono pretestuose se si considera la storia di questo architetto che, con il suo studio, ha sempre scelto progetti che fossero intrisi di un profondo senso etico. Una storia di cui si può osservare lo svolgimento sulle pareti della Galleria Ermanno Tedeschi a Roma, grazie ad una mostra che con diverse tappe, da Torino (settembre) a Tel Aviv (novembre) passando per Milano (maggio) fino a New York, mira a far comprendere un momento cruciale del processo creativo di Libeskind. «Il disegno per me è un po’ come la nascita di un bambino, l’elemento iniziale della vita», racconta l’architetto. «Quando qualcosa nasce non è necessariamente grazioso, né definitivo, ma è invece vulnerabile, uno stadio di un processo più lungo, molto distante dal risultato finale. Si possono intravedere la vulnerabilità, la delicatezza, l’idea iniziale e i primi passi. Persino Ground Zero, uno dei più grandi e complessi progetti del mondo, è nato proprio da questi disegni, da una matita e da alcuni fogli... è come un essere umano che ha un anima, un cuore, una mente e poi cresce, se è fortunato abbastanza!» E i 52 disegni esposti, con tecniche e stili differenti, definiti e classici oppure appena abbozzati, ad acquerello o a matita, permettono di cogliere proprio quelle piccole intuizioni, quei tentativi embrionali, da cui poi crescono edifici notissimi come il Museo Ebraico di Berlino, espresso attraverso elementi quotidiani come la vista dalla finestra, la torre Zlota 44 di Varsavia che si confronta con architetture in stile stalinista oppure progetti attuali come CityLife per la Fiera di Milano. E il progetto milanese non sarà l’unica opera di Libeskind presto inaugurata in Italia: ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino a maggio, l’architetto polacco sta preparando per il 2014 anche un’immensa installazione per la Galleria Grande della Reggia di Venaria dove prenderanno forma, in un interessante confronto tra contemporaneità e barocco, le sue riflessioni sull’architettura di Juvarra.

Repubblica 12.3.13
Etruschi, quel mistero sulle origini


Un libro di Vincenzo Bellelli ripercorre uno degli enigmi delle ricerche di antichistica QUALI furono le origini degli etruschi? Uno dei temi cruciali negli studi di antichistica viene rilanciato da un libro, Le origini degli Etruschi. Storia, archeologia e antropologia curato da Vincenzo Bellelli (L’Erma di Bretschneider). Che ripropone la discussione impostata da Massimo Pallottino, il maggiore etruscologo del Novecento, il quale dimostrò come il concetto di “origini” dovesse essere superato da quello di “formazione”. A suo giudizio era un errore immaginare «il popolo etrusco come una realtà unitaria, come un blocco fin dalla sua inafferrabile preistoria». Dei processi formativi vanno individuate le componenti etniche e culturali, insisteva Pallottino e nel caso etrusco andavano riconosciuti elementi di provenienza orientale, continentale e indigena. Negli ultimi anni si è discusso sui tempi e i modi di questa formazione: Mario Torelli e altri studiosi hanno ipotizzato i secoli finali del II millennio a. C.. La querelle risale addirittura ad Erodoto, che ipotizzò una provenienza degli etruschi dalla Lidia in Asia Minore. Ma in epoca augustea lo storico Dionigi di Alicarnasso sostenne la loro autoctonìa. Nel Settecento e nell’Ottocento si aggiunse l’ipotesi di una loro provenienza dalle regioni alpine. Il tema delle origini degli Etruschi è tornato di attualità alla luce di nuove indagini genetiche.
Giuseppe M. Della Fina Le origini degli etruschi a cura di V. Bellelli

Corriere 12.3.13
Il regista porta in scena una rilettura di Euripide attraverso il film del 1965
Bellocchio: nel mio «Oreste» le famiglie distrutte dall'odio
L'eroe greco come il protagonista de «I pugni in tasca»
di Stefania Ulivi

«L'Oreste? L'ho letto solo l'anno scorso». Di quel personaggio di Euripide, il giovane che uccide la madre Clitennestra con la complicità della sorella Elettra, Marco Bellocchio aveva in mente certe rappresentazioni dei quadri dell'Ottocento con il matricida braccato dalle Erinni. È stato solo dopo la scoperta del testo che il regista piacentino lo ha riconosciuto così vicino all'Alessandro del suo I pugni in tasca. Divisi da due millenni, ma avvicinati da un destino comune, «fratelli nel tempo» come li ha definiti Filippo Gili che cura la regia di Oreste da Euripide, in scena al Teatro del Vascello di Roma dal 21 al 24 marzo. «La spinta al matricidio è diversa», riflette Bellocchio. «Oreste è un figlio in cerca di vendetta, vuole vendicare il padre e riconquistare la regalità, il suo è un omicidio quasi etico, contro lo Stato. Ale, al contrario, si muove all'interno di una patologia: uccide la madre perché vuole essere lui il padrone, tant'è che elimina anche il fratello, a sua volta assoggettato. Ma i due coesistono e si corrispondono. Alcune scene dell'Oreste, soprattutto quelle della follia, con la sorella che lo assiste, rimandano ad Ale. Per l'eroe greco la fine è una sorta di riabilitazione, mentre nel mio film il protagonista soccombe ai propri delitti».
In scena Oreste e Ale hanno un unico volto: quello di Pier Giorgio Bellocchio, figlio di Marco, già protagonista due anni fa nella trasposizione scenica del film del 1965. «I pugni in tasca? Per me è come un parente lontano» scherza lui.
Un bel cortocircuito che amplifica la curiosità sui Bellocchio: Marco, 74 anni, che con I pugni in tasca si conquistò il titolo di nemico pubblico numero uno della famiglia borghese di matrice cattolica. Pier Giorgio, 38 anni, nato dal primo matrimonio del regista con l'attrice Gisella Burinato, oggi padre di due bambine, già attore bambino, poi montatore, poi produttore, poi «figlio di Bellocchio» («Essere figlio non è una scampagnata. Siamo una generazione di figli anche a 40 anni, mentre loro a 20 anni erano già padri? Beh io resterò figlio fino a 80 anni, allora…»). Ora, finalmente, attore e basta: quest'anno oltre a Bella addormentata del padre che uscirà i primi di aprile in Francia, ha girato È stato il figlio di Ciprì, A fari spenti nella notte di Anna Negri, un episodio de Il commissario Rex e Terzo tempo di Enrico Maria Artale. Un cortocircuito che rimanda a un luogo, Bobbio, dove il regista è nato e, da qualche anno, anima anche con il figlio un seguito festival di cinema, in cui rapporti familiari e artistici si mescolano. «Io e Marco siamo gli unici maschi della colonna romana dei Bellocchio» scherza Pier Giorgio. «La nostra è una famiglia piena di paradossi, esplosa e poi riassemblata come una supernova nel momento in cui lui si è assunto la responsabilità di capofamiglia. Bobbio è stato la chiave di tutto, anche per questo Oreste, lì nato come studio per il Festival di Teatro Antico di Veleia dove ha emozionato il pubblico, così come nel castello di Bovindo, vicino a Foggia».
Va in scena in giorni strani, questo Oreste, in un'Italia dove le poltrone del potere sono metaforicamente vuote. La famiglia, in compenso, resiste. «In mancanza d'altro…» puntualizza Bellocchio. Resiste anche I pugni in tasca, quasi 50 anni dopo. «Fu una nascita per me, ho scelto di fare il regista con questo film, mi ha dato la convinzione di continuare dopo il diploma di regia. Oggi, per quello che sono diventato, mi sento più vicino a Oreste che ad Alessandro».