giovedì 14 marzo 2013

l’Unità 14.3.13
La donna delle mimose
Teresa Mattei nell’ultima intervista per l’8 marzo
Scomparsa l’altro giorno una madre della Costituente
Raccontò come scelse il fiore che è diventato simbolo della festa: «Era quello che regalavano i partigiani alle staffette»
«Al popolo appartengono anche i bambini e gli anziani perciò ho lottato nella mia vita per il diritto all’ascolto»
di Sara Picardo


PARTIGIANA, DONNA DALLA PARTE DELLE DONNE PER TUTTA LA VITA. TERESA MATTEI SI È SPENTA L’ALTRO GIORNO ALL’ETÀ DI 92 A LARI IN PROVINCIA DI PISA. PUBBLICHIAMO LA SUA ULTIMA INTERVISTA RILASCIATA IN OCCASIONE DELL’8 MARZO A LIBERAETÀ.
Teresa Mattei, nome di battaglia Chicchi, è stata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, a soli 25 anni, nel 1946. A lei dobbiamo tante cose: Comandante di Compagnia a Firenze durante la guerra di Liberazione nella formazione Garibaldina Fronte della Gioventù; «madre» dell’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; «inventrice» della mimosa come simbolo dell’8 marzo; dirigente nazionale per anni dell’Unione delle Donne italiane (Udi) e combattente per i diritti del fanciullo e della donna, soprattutto il diritto all’ascolto e alla comunicazione; pasionaria espulsa dal Pci per le sue posizioni anti-togliattiane, nel 2001 è alla grande manifestazione contro il G8 a Genova, per chiedere ancora una volta un altro mondo possibile. A lei ed al suo gruppo combattente si ispira Rossellini per l’episodio di Firenze del celebre film Paisà.
«La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte», dice Teresa-Chicchi riguardo alla lotta partigiana. Nata nel 1921, dalle sue parole si evince il significato di un’esistenza intesa, tesa al bene della collettività.
Come è nata l’idea della mimosa per celebrare l’8 marzo?
«L’idea mi venne perché la mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette, mi ricordava la lotta sulle montagne un fiore povero che cresceva ovunque a marzo e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente. Sapevo che Luigi Longo voleva proporre la violetta, la mimosa mi sembrava molto più adatta».
Anche se è cambiato molto da quando Rosa Luxemburg propose l’8 marzo come Festa della Donna per ricordare le operaie rinchiuse nella fabbrica Cotton di New York per le loro richieste di maggior diritti e morte proprio lì, arse vive durante un incendio scoppiato appunto l’8 marzo del 1908 le donne continuano ad avere problemi di rappresentanza. Eppure il loro contributo è fondamentale. Cosa ne pensa a riguardo? «Le donne sono molto diverse dagli uomini nell’agire. Hanno una mente “orizzontale” nell’osservare il mondo e si rimboccano le maniche quando c’è da fare qualcosa senza guardare troppo al potere o ad avere un atteggiamento verticistico come fanno gli uomini. Noi preferiamo la conoscenza al comando, condividere i progetti e costruire un mondo migliore per i nostri figli, futuri cittadini. Per questo la nostra partecipazione in Parlamento è fondamentale e il nostro contributo alla vita comune decisivo».
Lei si è occupata tanto anche dei diritti del fanciullo e degli anziani, perché?
«Se la sovranità appartiene al popolo, come recita la nostra Costituzione, mi domando a che età allora un cittadino possa sentirsi e dichiararsi tale. Al popolo appartengono dalla nascita anche i bambini e continuano ad appartenere gli anziani, perciò ho lottato nella mia vita per il diritto alla comunicazione e all’ascolto di tutti, in particolar modo di quelli che non venivano ascoltati, come le donne, gli anziani e i bambini appunto».
Cosa ricorda della sua prima volta alla Camera dei deputati?
«Proprio all’inizio della mia attività parlamentare, mentre entravo a Montecitorio mi si fecero incontro due donne vestite di nero che mi chiesero in siciliano stretto se ero una deputata. Al mio sì una di loro mi prese una mano e la baciò piangendo. Iniziarono a raccontarmi la loro storia. Le due cugine, vedove di guerra e madri di una decina di figli, vivevano in un’unica stanza in un paesino della provincia di Trapani. Mi chiedevano di aiutarle affrettando la loro pratica di pensione: erano alla fame. Con il coraggio della disperazione, aiutate da tutto il paese, erano venute sole a Roma. Erano felici di poter parlare con una deputata donna e fiduciose che avrebbe risolto ogni loro problema... Non sono state le uniche. Durante tutto il periodo della Costituente le pratiche di questo tipo erano moltissime, appesantite e rallentate da una burocrazia crudele, che né io né le due donne ancora conoscevamo! È possibile immaginare con quale stato d’animo entrai a Palazzo».

l’Unità 14.3.13
Rivolta dei sindacati contro il blocco dei salari degli statali
Dichiarazioni vaghe di Patroni Griffi e Catricalà: «Tema non ancora discusso dal Consiglio dei ministri»
Cgil e Uil insorgono: «La decisione spetta al prossimo governo»
di Luigina Venturelli


MILANO La curiosa vaghezza con cui il ministro Patroni Griffi e il sottosegretario Catricala hanno affrontato ieri il tema del blocco della contrattazione nella Pa ha preoccupato e fatto infuriare i sindacati. «Finora non se ne è parlato» ha affermato il primo. «Non so se in futuro se ne parlerà» ha ribadito il secondo. Affermazioni che potrebbero ritenersi di poco rilievo, se solo non riguardassero una questione delicatissima che coinvolge tre milioni e mezzo di lavoratori, e che buon senso vorrebbe veder riservata alla competenza del prossimo esecutivo.
Si chiedevano infatti le organizzazioni sindacali: se il blocco non è stato e non sarà considerato dall’attuale governo ormai in scadenza, ma lasciato ai futuri inquilini di Palazzo Chigi, perchè non dirlo chiaramente? Invece le dichiarazioni fumose rilasciate dal responsabile della Funzione pubblica e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio hanno fatto sorgere il timore che, in extremis, l’esecutivo Monti congeli per altri due anni le assunzioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici, che dal 2009 sono senza contratto e attendono un rinnovo ancora lontano da venire.
«La scorsa riunione del Consiglio dei ministri non ha affrontato il tema della proroga del blocco degli stipendi degli statali e non è detto che il provvedimento vada al prossimo Consiglio dei ministri» ha risposto Filippo Patroni Griffi, rispondendo in occasione di un convegno a una precisa domanda in tal senso. «Per ora c’è solo un approfondimento tecnico degli uffici del ministero dell’Economia e del ministero della Pubblica amministrazione». Dunque, il tema non è considerato tabù, come invece speravano i sindacati, ansiosi di riaprire tutta la partita del pubblico impiego con un esecutivo politico pienamente legittimato.
Sugli stessi toni anche Antonio Catricalà, secondo cui non è pervenuta finora alcuna richiesta per inserire la proroga del blocco degli stipendi degli statali nell’ordine del giorno della prossima riunione del Consiglio dei ministri: «Per ora non se ne è parlato» ha sottolineato, «e non ho avuto ancora richieste di iscrizione all’ordine del giorno».
«PARADOSSI»
Abbastanza per scatenare l’immediata reazione delle organizzazioni dei lavoratori statali. «Troviamo incomprensibile questo tergiversare sulla ventilata ipotesi di prolungamento del blocco della contrattazione per i lavoratori della Pubblica Amministrazione» hanno affermato in una nota congiunta Rossana Dettori, segretaria generale Fp-Cgil, Giovanni Torluccio, segretario generale Uil-Fpl e Benedetto Attili, segretario generale Uil-Pa, secondo cui «il governo uscente non può assumersi tali responsabilità su un tema così delicato, le cui sorti sono evidentemente legate alle scelte del nuovo parlamento e del prossimo esecutivo». Anzi.
Certe dichiarazioni rischiano di apparire «paradossali» nel giorno in cui il Nucleo Speciale Pa della Guardia di Finanza ha divulgato i risultati degli accertamenti del 2012, dai quali si evince un abuso di incarichi e consulenze che ha fatto schizzare a 1,6 miliardi di euro le spese per il personale dirigente della pubblica amministrazione.
«Una zona grigia di spesa spesso clientelare» rilevano i sindacati, «che, fatte le poche dovute differenze per il personale che offre servizi, potrebbe essere ridotta con la valorizzazione delle competenze interne. Va affrontato un percorso condiviso che responsabilizzi e coinvolga i lavoratori, un percorso equo che metta al centro la loro capacità di innovare, senza dimenticare di affrontare il cuore del problema, le responsabilità di una politica troppo ingombrante e di una dirigenza non sempre all’altezza della situazione».

l’Unità 14.3.13
Anche il sindacato deve cambiare
di Carla Cantone


Il Rapporto Istat-Cnel certifica un dato di grande importanza che non tutti hanno compreso a pieno.
Di fronte a una crisi devastante, all’assenza di lavoro, al continuo impoverimento del welfare pubblico e alle crescenti diseguaglianze la famiglia si è dovuta assumere suo malgrado il ruolo di ammortizzatore sociale facendosi carico della cura, dell’assistenza e del supporto ai membri più deboli. Gli anziani in particolare si sono presi sulle proprie spalle figli e nipoti che hanno perso il lavoro o che non riescono a trovarlo e li aiutano come possono facendo leva su un reddito da pensione sempre più esiguo, talvolta facendo anche delle rinunce importanti. C’è una fetta importante di popolazione anziana che ha dovuto tagliare le spese mediche, che non fa vacanze, che non mangia più certi alimenti e che va a prendere la frutta tra gli scarti dei mercati pur di fare la propria parte in questo momento così difficile. Ma accade anche il contrario. Tanti sono i figli e i nipoti che con grandi sacrifici si prendono cura di genitori e nonni in là con gli anni alle prese con problemi di salute cronici, con una misera pensione che non consente loro di vivere in autonomia e libertà e con il grandissimo problema della non autosufficienza. Se il sistema-Paese non è crollato del tutto è anche perché esiste all’interno dei nuclei familiari un forte senso di responsabilità e di solidarietà.
Senso di responsabilità e di solidarietà che è mancato a chi ha governato negli ultimi cinque anni, che la famiglia l’ha tartassata e indebolita con le sue politiche, e che sembra mancare a chi si affaccia ora nel panorama politico al grido di uno tsunami che dovrà travolgere tutto e tutti. Penso ad esempio a quanto detto dal leader del M5S che all’indomani dell’esito elettorale quando ha sostenuto che il voto era la dimostrazione dello scontro generazionale in atto nel nostro Paese. Ma penso anche a chi ha fatto della rottamazione una categoria politica, un po’ semplicistica ma che tanti proseliti sta facendo a destra come a sinistra, e a tutti quelli che si sono affrettati a dire in modo un po’ superficiale che dai più anziani è arrivato un voto conservatore e impermeabile ai cambiamenti.
Nessuno però può far finta di niente e non considerare il grande vento di rinnovamento che ha investito il Paese. Questo vento riguarda in primis la politica, come viene considerata e amministrata la cosa pubblica, l’utilizzo delle risorse e la morale, ma riguarda anche noi, il sindacato, e la società tutta. Nessuno escluso. Ignorarlo vorrebbe dire perdere un’occasione, rendersi sordi davanti alla richiesta forte di parole e azioni nuove, diverse e in discontinuità rispetto al passato. Ma questo vento non può avere le sue fondamenta in un fantomatico «odio generazionale» se mi è consentita questa espressione un po’ forte secondo il quale è tutto da buttare, da cambiare, da riscrivere.
I pensionati e gli anziani che incontriamo ogni giorni alle nostre assemblee e nelle nostre sedi ci dicono proprio questo. Ci chiedono di credere nel cambiamento e nel rinnovamento, di tenere unite le generazioni, di avere al centro della nostra azione non solo quello che accade oggi nel Paese ma anche quello che accadrà domani, non per spirito di servizio ma perché li tocca da vicino. E noi non possiamo non ascoltare questa voce sapendo bene che non si esce dalla crisi se si è divisi e contrapposti, se per aiutare i giovani devo penalizzare gli anziani e viceversa.
Se il grande tema diventa quello della giustizia sociale e del superamento delle disuguaglianze dalla crisi si esce guardando ad un interesse comune, al futuro del Paese nel suo insieme: lavoro e condizione di vita di bambini, ragazzi, adulti e anziani. Solo così il modello di società può cambiare, ridando agli uomini e alle donne fiducia e speranza. Se la politica deve modificarsi in fretta, il sindacato deve riflettere e affrontare la richiesta di cambiamento come ha sempre fatto e con la saggezza e la capacità di proporre e di lottare che gli deriva dalla sua antica storia.

l’Unità 14.3.13
Il Pd: «Reciprocità e corresponsabilità»
I democratici discutono sull’ipotesi di appoggiare la candidatura di un esponente 5 Stelle a Montecitorio
di Caterina Lupi


Il vero snodo politico saranno le due riunioni dei gruppi parlamentari del Partito democratico in programma per oggi, nel corso delle quali si definirà la delicata partita della presidenza di Camera e Senato. Ci si arriva in un clima infuocato e dopo un giro di incontri dei delegati del Pd, Luigi Zanda, Davide Zoggia e Rosa Calipari con le altre forze politiche: ieri il Pdl si è limitato ad ascoltare, con i democratici sono ai ferri corti dopo le dichiarazioni di Maurizio Migliavacca, che non ha escluso il via libera del suo partito ad una eventuale richiesta di arresti nei confronti di Silvio Berlusconi.
Mario Monti è stato chiaro nel dire che per quanto lo riguarda le presidenze non possono che andare a esponenti di forze riformiste e costituzionaliste, ossia «no al Movimento Cinque Stelle», mentre i grillini non hanno avanzato richieste dirette, ma si sono limitati a ricordare di essere la prima forza alla Camera e quindi non disdegnerebbero (al Nazareno Nico Stumpo corregge: con i voti degli italiani all’estero è il Pd il partito più votato).
Questione complessa anche alla luce dei rapporti interni al Pd: se al Senato si optasse per la reggenza Monti e alla Camera M5S, il Pd si troverebbe, nel caso in cui Bersani non riuscisse ad avere la fiducia, senza alcun presidio istituzionale.
DIFFERENZE CON LA DESTRA
La linea di Bersani è chiara, racchiusa in due parole: corresponsabilità e reciprocità. Tanto che il Pd è pronto a offrire alle forze politiche anche le presidenze di alcune Commissioni, «metodo molto diverso da quello adottato dal centrodestra quando è andato al governo», fanno notare i delegati del Pd, ma si aspetta reciprocità al momento del voto. Per questo Bersani non chiude affatto al nome che i grillini proporranno per la presidenza della Camera, pur sapendo che questa non è la linea pienamente condivisa da molti democrat (Dario Franceschini era da tempo in pole position per lo scranno più alto di Montecitorio).
D’altro canto dire no al M5S equivarrebbe a dichiarare chiuso il dialogo e quindi a rendere ancora più complicato per Bersani ottenere un mandato dal Colle.
C’è, però, chi ritiene sbagliato inseguire i parlamentari M5S, sapendo fin da ora che non faranno nulla per dar vita al governo di «combattimento» evocato dal segretario Pd.
A rendere più irta la via di Bersani sono arrivate anche le dichiarazioni di Mario Monti, che ha escluso un voto per un governo Pd-M5S e criticato gli otto punti con cui il segretario intende presentarsi alle Camere. Due le letture che ne danno i democrat: Monti sta giocando le sue carte proprio in vista del voto per la presidenza del Senato; Monti sta lavorando a un governo di larghe intese, senza il Cinquestelle e in questa chiave (di rottura con il Pdl per impedire che si verifichi la subordinata al piano A di Bersani) si spiega la dura presa di posizione di Migliavacca su una eventuale richiesta d’arresto per il Cavaliere.

Repubblica 14.3.13
Bersani prova a spiazzare Grillo e Monti “Due dei nostri per Camera e Senato”
di Francesco Bei e Goffredo De Marchis


ROMA — Bersani resta aggrappato all’idea di un’intesa con Grillo. Ma già domani il voto sulle presidenze delle Camere segnerà il suo destino. Al segretario del Pd non è andato giù il diktat di Mario Monti: niente Grillo, al paese servono le larghe intese. Confermando ciò che aveva detto al leader democratico nel loro incontro a quattr’occhi a palazzo Chigi: «Io ti sostengo Pierluigi, ma è difficile unire i nostri voti a quelli di chi vuole uscire dall’euro ». Adesso che la posizione del Professore è ufficiale, Bersani è costretto a registrare un problema in più: «Il ragionamento di Monti non semplifica il cammino della legislatura».
Oltretutto anche nel suo partito stanno cambiando gli equilibri faticosamente stabiliti appena una settimana fa in direzione. Oggi il Pd riunisce i gruppi di Camera e Senato. Lì Bersani dovrà indicare ai suoi parlamentari i nomi da votare il giorno successivo a Montecitorio e Palazzo Madama. Se non ci saranno aperture inaspettate da parte dei 5stelle, molti deputati sono pronti a mettere in minoranza l’eventuale indicazione di un
presidente della Camera grillino. I democratici hanno un nome per quel posto: Dario Franceschini. E in queste ore si sta saldando un asse interno che punta a questa soluzione. Senza se e senza ma.
A Largo del Nazareno stanno prendendo atto di essere stretti nella morsa tra Grillo e Scelta civica. I montiani, dopo le dichiarazioni del premier, sono diventati improvvisamente una variabile incontrollabile e al Senato potrebbero convergere i loro voti su un candidato Pdl se il Pd non mollasse definitivamente il sogno a 5stelle. I nomi su cui si potrebbe costruire un’intesa tra Scelta Civica e Pdl? Gaetano Quagliariello, che però ha l’handicap di aver partecipato alla “marcia” anti-pm fin dentro il Tribunale di Milano. Oppure Renato Schifani, una conferma. A questo punto, il Pd è chiamato a sciogliere il nodo nel giro di ore, minuti. La tenaglia può alla fine premiare la scelta più semplice, la strada maestra. «Votare alla Camera e al Senato due dei nostri », dicono ora a Largo del Nazareno. I candidati sono in pista da giorni: Franceschini e Anna Finocchiaro. Sicuramente, aiuterebbe l’orgoglio del Pd, dopo la vittoria dimezzata. È un sentimento che si è avvertito forte e chiaro durante l’assemblea degli eletti, lunedì. Anche Matteo Renzi, che oggi riunirà all’hotel Cavour i suoi cinquanta parlamentari,
continua a martellare contro Beppe Grillo e “tifa” per non lasciare Montecitorio nelle mani del M5S.
Se da una parte il segretario Pd continua in pubblico a puntare unicamente sulla carta Grillo, il tam tam romano rilancia l’ipotesi di una nuova, clamorosa, sponda. E proprio nel giorno dell’incontro tra gli sherpa del Pd e quelli del Carroccio. La possibilità cioè di un’apertura alla Lega in vista del voto di fiducia. «Loro — spiega una fonte democratica — sono interessati a far partire la legislatura ed evitare nuove elezioni a breve. A Maroni serve tempo per consolidare il suo progetto di trasformare il Carroccio in un partito come la Csu bavarese». Per questo i leghisti, senza rompere con Berlusconi, potrebbero concedere una fiducia “tecnica” a Bersani per iniziare il suo cammino a palazzo Chigi. Ipotesi quasi fantascientifica, ma che rende bene la dimensione della difficoltà che incontra il segretario nel suo tentativo.
Chi ha parlato con Bersani lo descrive sempre più pessimista, ma determinato comunque a provarci e a chiedere a Napolitano un «mandato pieno» per potersi presentare in Parlamento e ricevere un voto. Consapevole della “mission impossible” che si è caricato sulle spalle, il leader del Pd è già pronto comunque a passare la mano. Ma prima ha in mente di «proiettare il film fotogramma per fotogramma: tutti i passaggi di questa vicenda dovranno essere giudicati dagli italiani ». E se dovesse fallire ha in mente un’ultima mossa per aiutare il suo successore a formare una maggioranza, «lasciando una porta aperta alle larghe intese per chi verrà dopo di me». Insomma sarebbe proprio Bersani a certificare l’impossibilità di coinvolgere i grillini in un progetto di governo e a orientare la bussola del partito in un’altra direzione. Verso Monti e, necessariamente, il Pdl. Nel Pd, nel caso il segretario dovesse gettare la spugna, si ipotizza un incarico ad un altro esponente del partito, uno dei due presidenti delle Camere: Anna Finocchiaro o Dario Franceschini. Mentre l’idea di affidare di nuovo palazzo Chigi a un tecnico — si fanno i nomi di Fabrizio Saccomanni (Banca d’Italia) o Pier Carlo Padoan (Ocse) — non trova alcun consenso. «Già ci siamo dissanguati con Monti — dicono al Nazareno — il governo dei tecnici ha fatto il suo tempo».
Ma alla fine di una giornata complicata, i fedelissimi di Bersani non smettono di guardare al Movimento. Hanno seguito con il fiato sospeso la riunione dei grillini tenuta al Senato, soprattutto la sua durata. È stata molto lunga. «Non significa che andrà in porto il nostro tentativo — dice un bersaniano — . Ma significa che c’è una discussione aperta nei 5stelle, un confronto vero ». E che se al voto sulle Camere mancano solo 24 ore, per l’inizio delle consultazioni al Quirinale ci sono ancora quattro giorni. È uno spiraglio.

Corriere 14.3.13
Quella trattativa che indebolisce il Pd
di Antonio Polito


Se l'intento di Bersani era quello di mettere con le spalle al muro Grillo, bisogna dire che sta ottenendo l'effetto contrario. È piuttosto il Pd che ogni giorno cede un altro po' di terreno al Movimento 5 Stelle, perdendo al tempo stesso qualcosa della sua credibilità di forza di governo. Non è solo la forma: il segretario del Pd è già costretto a dialogare con Celentano, speriamo non debba farlo prima o poi pure con il nipote e il commercialista di Grillo, rispettivamente vicepresidente e segretario del partito con cui si vuole alleare. È anche questione di sostanza. Ieri, per esempio, è ufficialmente entrato nella trattativa politica per la formazione di una maggioranza parlamentare il tema dell'arresto di Silvio Berlusconi. Prima il leader dei grillini al Senato, Vito Crimi, e a ruota il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca, hanno fatto sapere che i loro gruppi voteranno sì a un'eventuale richiesta di custodia cautelare per l'ex premier. Si badi bene: nessuna Procura l'ha chiesta, almeno finora. Però già si sa che Pd e M5S la voterebbero. Che cos'è? Il nono punto di un programma di governo? Dopo la marcia dei parlamentari pdl sul Tribunale di Milano, un altro piccolo grande passo verso l'imbarbarimento dello Stato di diritto.
Altro esempio: il finanziamento pubblico. Lì il gioco di Grillo non è stato neanche difficile. Siccome Bersani insiste tanto nel proporre un fidanzamento, lui gli ha chiesto in dote i 48 milioni che spetterebbero al Pd per queste elezioni. Comincia a rinunciare a quelli — lo ha provocato — e poi ne parliamo. Naturalmente Grillo sa benissimo che il Pd non vuole, e forse non può, rinunciare a quei soldi. Ma quando tutto sarà finito, gli elettori ricorderanno questo no di Bersani molto più degli otto sì che ha proposto. Ancora: prima delle elezioni Bersani ha fatto il giro delle capitali europee per assicurare che il Pd è una forza europeista, che non tradirebbe gli impegni presi, che non lascerebbe sprofondare il Paese nel baratro dell'insolvenza. Ma un suo governo dovrebbe tener fede alla parola alleandosi con chi ancora ieri ha dichiarato che «l'Italia è una patata bollente già fuori dall'euro», e anzi propone un referendum (inammissibile per la nostra Costituzione) per uscirne.
Il prezzo di questa presunta trattativa tra Pd e M5S, insomma, sembra pagarlo molto più il Pd. Se il premio finale fosse il governo, si potrebbe anche capire il sacrificio. Ma se così non sarà, e tutto lo lascia credere, perché mai i Democratici si sono infilati in queste forche caudine? In molti cominciano a chiederselo nel partito, e qualcuno comincia a chiederlo anche a voce alta. Il sospetto è che Grillo sia usato ormai solo al fine di una lotta interna: per stabilire chi sarà il candidato premier nel caso si vada subito al voto, se Bersani che lo corteggia o Renzi che lo fronteggia. Il problema è che tornare subito alle urne non sarebbe solo un brutto colpo alla governabilità del Paese; potrebbe esserlo anche per il Pd. Nel migliore dei casi, infatti, quel partito può ambire a confermare il risultato di febbraio, arrivando primo alla Camera; ma la maggioranza al Senato resterebbe un miraggio. D'altra parte alla roulette russa del Porcellum potrebbero arrivare primi anche Grillo o Berlusconi, bastano poche centinaia di migliaia di voti in più. E in quel caso la sinistra perderebbe, oltre a tutto il resto, anche duecento parlamentari, perché chi arriva secondo scende da 340 seggi a 140.
Questi ragionamenti sono ben presenti a molti nel Pd. Il fronte di coloro che non vogliono tornare alle urne è più ampio di quanto sembri, ma è frammentato; e soprattutto è paralizzato dalla virulenza che ha assunto di nuovo (forse non casualmente) la guerra tra Berlusconi e i tribunali. Hanno paura di incorrere nella scomunica di quel potente partito extraparlamentare che, in nome della morale, ha ormai subordinato ogni salvezza comune alla perdizione del nemico. Tutto sembra dunque inesorabilmente avvitarsi verso il disastro. Eppure, avrebbe detto Abramo Lincoln, «una volta deciso che una cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo». Anche lui era un presidente della Repubblica.

l’Unità 14.3.13
Il Movimento 5 Stelle ora deve scegliere
di Michele Prospero


LA DESTRA HA SCATENATO UNA AGGRESSIONE CONTRO LA MAGISTRATURA. La sua allarmante simbologia che non esita a civettare con i riti della sovversione, conferma una vocazione politica distruttiva che non immagina alcuna riforma coerente della giustizia e minaccia la tenuta delle istituzioni. La provocatoria convocazione dei parlamentari dinanzi al tribunale di Milano in una prova agitatoria contro l’attività di un legittimo organo dello Stato, la minaccia di far saltare il decollo della legislatura, la lettura strumentale dell’intervento del presidente della Repubblica, arruolato in una guerra santa contro i magistrati, si inseriscono in una cieca trasformazione delle convenienze processuali personali di Berlusconi in un conflitto aperto e senza più argini tra i diversi poteri.
Le esigenze ineludibili di ridefinire i confini formali tra le funzioni e le attribuzioni degli organi dell’ordinamento ben poco hanno a che vedere con le scomposte esibizioni muscolari della destra. Non è possibile ridurre questioni istituzionali serie e complesse peraltro comuni a tutte le democrazie occidentali in delle oscure trattative per garantire a Berlusconi la fedina penale immacolata. Le elezioni, in uno Stato costituzionale di diritto, non possono tramutarsi in un supremo grado di giudizio che assolve e condanna i capi politici. In questa lunga crisi della democrazia italiana, che rischia di generare una regressione storica del Paese, la destra si conferma come un problema, non certo come un interlocutore credibile per individuare degli sbocchi di innovazione. Il voto di febbraio consegna un ruolo di straordinaria grandezza ad un movimento nuovo come quello di Grillo, che si trova dinanzi a un bivio: o accetta di far confluire un forte sovversivismo dal basso nella marea melmosa del sovversivismo dall’alto alimentato da Berlusconi oppure assume la responsabilità di condividere con il Pd un percorso concordato, che non comporta necessariamente un governo comune, che almeno eviti il baratro. Se il M5S accarezza la sua anima antisistema non esiterà neppure un attimo ad entrare in sintonia con la destra berlusconiana per accrescere il caos e accelerare l’agonia della democrazia. Se però si insinua tra i parlamentari e i militanti il dubbio vitale che i costi dell’abbattimento del corredo istituzionale sono troppo elevati per essere inseguiti a cuor leggero, qualche credito alla politica forse verrà concesso.
Il nodo che il movimento deve sciogliere è se preferisce arroccarsi nella purezza dell’estraneità al sistema, oppure se intende cogliere le opportunità parziali che si presentano in un contesto scivoloso come l’attuale per afferrare dei risultati visibili. La carica costruttiva sempre insita nella politica suggerisce l’adozione di questo secondo stile di comportamento anche ad un movimento che intercetta il disagio e la protesta.Una scelta sta dinanzi al M5S: sovversivismi convergenti verso la catastrofe o consentire il varo di un governo di responsabilità. Tertium non datur.

l’Unità 14.3.13
M5S, caos sui nomi oggi i «ballottaggi»
Riunione-fiume dei parlamentari 5 Stelle per decidere i candidati alle presidenze di Camera e Senato
Roberto Fico favorito per la guida dell’assemblea di Montecitorio
di Andrea Carugati


Decisamente più lenti dei cardinali del Conclave, i neo parlamentari grillini, nonostante le riunioni fiume di ieri, non sono ancora arrivati alla fumata bianca. E pensare che non dovevano scegliere il successore di Pietro, ma solo i due candidati per la presidenza delle Camere. «Sarà un bagno di sangue», aveva profetizzato martedì uno di loro uscendo dal vertice con il Pd, e così è stato. Ore e ore di discussione, nella magnifica sala della Regina a Montecitorio, non sono bastate neppure per individuare un metodo di votazione. Tanto che a ora di cena è toccato al capo dei senatori Vito Crimi arrivare alla Camera per dare qualche dritta alla sua omologa Roberta Lombardi, che sembrava decisamente nel panico. «Noi abbiamo scelto di mettere al voto tutti i nomi dei candidati e poi procedere al ballottaggio tra i primi due», dice lui. «Buona idea», la risposta di Lombardi, evidentemente esausta. «Voglio solo andare a casa da Maurizio», grida prima di chiudere la riunione.
Intanto, però, una cosa è certa: sia al Senato che alla Camera i grillini hanno individuato due rose di nomi su cui oggi si voterà. Rose top secret, gelosamente custodite dai due capigruppo, che hanno benevolmente minacciato i loro colleghi: «Se esce qualche nome vuol dire che c’è un infiltrato», spiega Crimi. «Non li diciamo per non sottoporli al massacro mediatico», rincara Lombardi.
Per la Camera, la scelta è stata quella di far indicare da ogni regione un nome. Nessuna indicazione proveniente dalla pattuglia degli emiliani, dal Lazio arriva l’indicazione del trentenne Alessandro Di Battista, «reporter e scrittore», collaboratore della Casaleggio e associati, che a domanda risponde: «Certo che lo farei il presidente». Impeccabile nel suo completo grigio, aria già navigata, Di Battista
rappresenta l’anima rampante dei 5 stelle. Assai diverso dal candidato proposto dai campani, il super favorito Roberto Fico, trentottenne, tra i pionieri del movimento, e molto attivo sul fronte dei rifiuti con le battaglie per il no alle discariche e agli inceneritori. Look da no global, barba incolta e maglione sotto la giacca, Fico è uno dei nomi più noti della truppa a 5 stelle, uno di quelli con maggior esperienza politica. Non è un caso che, a fine riunione, un capannello di campani stesse già ragionando su «cosa succede se Roberto assume questa carica istituzionale». C’era chi si interrogava sul ruolo super partes che lo avrebbe dunque allontanato dalla battaglia politica quotidiana. E chi addirittura suggeriva: «Rinunciamo alla presidenza, prendiamoci piuttosto la guida di 2-3 commissioni chiave, un questore e un vicepresidente». Alla fine si è votato, e la maggioranza ha deciso di puntare alla guida di Montecitorio.
Già, perché i grillini sanno benissimo che il nome che indicheranno per la Camera ha buone probabilità di risultare eletto. E dunque ragionano sui rischi di una eccessiva istituzionalizzazione del movimento. «Il Pd ci ha parlato di corresponsabilità, io confesso che questo politichese fatico a capirlo», sussurra Vito Crimi, decisamente il più politico dei grillini. Che assicura: «Io nella rosa del Senato non ci sono, e Grillo in questi giorni non lo stiamo sentendo».
Per la Camera spuntano anche i nomi della trentenne piemontese Silvia Chimienti, professoressa alle medie, e della lombarda Paola Carinelli, ex impiegata a Linate e ora in una azienda di export. Se la giocano anche loro, la battaglia tra territori è aspra, ciascuno ha qualche medaglia da mostrare, nessuno intende rinunciare. Sono ore di trattativa durissima. Stamane inizierà la graticola, una sorta di pubblico dibattimento in cui i candidati saranno passati ai raggi x prima del voto.
Quando arriva la fumata bianca da piazza San Pietro, qualcuno fa notare ai grillini la loro inspiegabile lentezza. «Ma i cardinali non dovevano leggersi tutti i curriculum», spiega un portavoce. A vederli così, tutti insieme per i grandi corridoi di Montecitorio, si rischia di confonderli con una delle tante scolaresche di passaggio. Tutti in fila nel corridoio che ospita i busti di Gramsci e Matteotti e Giolitti, si stenta a credere che siano il primo partito. Jeans sdruciti, giacche un po’ improvvisate, camicie sgargianti, capelli sparati col gel, orecchini, i maschi sono quelli che mostrano di più il loro distacco con l’atmosfera del Palazzo. Le ragazze, con le borse Hermes che spuntano sotto le sedie, sembrano più a loro agio. Compare anche Rocco Casalino, protagonista del primo Grande fratello e poi per anni prezzemolino Mediaset. Ora fa l’addetto stampa per i 5 stelle lombardi. Qualcuno gli domanda chi è entrato in nomination, lui si scansa infastidito. Nella casa grillina, in queste ore, il silenzio è d’oro.

l’Unità 14.3.13
Primarie a Roma, invito ai grillini
No di Barillari: «Per M5S non avrebbe senso» Marchini ritira i moduli per le firme ma non ha deciso Fra oggi e domani anche Marino scioglie il nodo
di Jolanda Bufalini


Un inviato di Alfio Marchini è andato a ritirare i moduli per la partecipazione alle primarie «aperte» del centro sinistra. Il dado però non è tratto, la posizione ufficiale resta quella espressa a Lilli Gruber: «Se decido di partecipare alla competizione, verificando che le condizioni aperte siano vere, il mio sarà un impegno su Roma che non si fermerà né alle primarie né a maggio (il 28 ci sarà il primo turno delle amministrative romane, ndr)». Ignazio Marino non ha sciolto la riserva, la riflessione su una scelta impegnativa per il senatore chirurgo, a questo punto è in solitudine, fatta eccezione per alcuni incontri con personalità esterne al Pd nel mondo della cultura. Ma non è arrivato l’imprimatur dei vertici che, forse, si aspettava. Siamo, comunque, vicini al momento in cui tutti scioglieranno le riserve, fra oggi e domani, lunedì è il termine ultimo per la presentazione delle candidature.
I candidati a 5 stelle, quindici dopo la prima scrematura dei 58 che si sono presentati sul web, si sono incontrati al terminal del Gianicolo per farsi conoscere agli iscritti al 31 dicembre 2012, poi il via alle primarie grilline on line. A loro è arrivato l’inaspettato invito di due dei candidati alle primarie del centro sinistra, David Sassoli e Umberto Marroni. Sassoli lo aveva detto già alcuni giorni fa: «Potrebbero partecipare, non bisogna avere paura ma aprirsi», Marroni ieri: «Propongo loro di valutare se prendere parte alle primarie del 7 aprile». Un primo «no» arriva da Davide Barillari, eletto del M5S al consiglio regionale del Lazio: «A cosa servirebbe un’alleanza con il Pd. Non ha senso», ha detto arrivando all’incontro del Gianicolo. L’invito del capogruppo del Pd capitolino è a tutte le forze di opposizione ad Alemanno, anche alla lista civica di Monti, con l’Udc che in Campidoglio è stata all’opposizione e ha partecipato alla battaglia contro la privatizzazione di Acea, con personalità come Andrea Mondello. Una competizione a campo largo che coinvolge anche i municipi, dove si voterà per eleggere presidenti e consiglieri, e che dovrebbe unire tutte le forze che vogliono voltare pagine rispetto al fallimento di Alemanno. Dal basso con la partecipazione del territorio e convogliando anche la classe dirigente della città che non ha trovato interlocuzione nella inconcludenza di Alemanno.
Non è ben chiaro cosa intenda Marchini quando vuole verificare che «le condizioni aperte siano vere», non devono configurarsi aveva detto «come una competizione interna al Pd». Intanto la strada delle primarie aperte è ribadita da una lettera del segretario regionale Enrico Gasbarra ai quaranta comuni del Lazio dove si voterà, Gasbarra cita Alberto Sordi per il quale votare il sindaco era «come mettersi in casa qualcuno». E cita il sindaco più popolare, Luigi Petroselli: «Ci vuole tanto amore per Roma» per sottolineare che «al di là dei 10 punti previsti dalla coalizione e delle regole fissate, che sono fondamentali per un grande partito che ha nel Dna l’essere democratico, è doveroso conoscere idee e progetti di chi con coraggio e passione, in un momento così complesso si mette al servizio dei propri cittadini». Gasbarra chiede a ciascun candidato la presentazione delle linee programmatiche per il governo della città e si dice convinto che «la piazza democratica sarà capace di costruire un progetto collettivo, aperto, coraggioso, e a maggio ridare speranza a chi non ne ha più». La competizione del 7 aprile sarà senza soluzione di continuità con la campagna elettorale.
Fra i candidati già in corsa, Paolo Gentiloni è, in certo senso, il più targato, accanto a Matteo Renzi. Ma è anche legato a Roma, dove è stato assessore con la giunta Rutelli. Ieri ha polemizzato sulle modalità dell’accorpamento dei municipi: «Si riducono da 19 a 15 ma gli assessori passeranno da 76 a 90». Gentiloni ha incassato il sostegno di 80 personalità del mondo ambientalista, a cominciare dal presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza.
David Sassoli, che si è impegnato, se vincerà le primarie, a dimettersi da europarlamentare, è forte del sostegno del mondo cattolico democratico e di parte del Pd. Marroni fa leva sulle battaglie di opposizione di questi cinque anni. fragile la candidatura femminile di patrizia Prestipino. Un problema c’è in Sel, che arriva alle primarie con due candidati Gemma Azuni e Luigi Nieri.

il Fatto 14.3.13
La banca vende all’asta la casa dell’autista di Grillo con i debiti in Costa Rica
La rete delle 13 società di Walter Vezzoli rivelata dall’Espresso
nasconde soprattutto affari finiti male e imposte non pagate allo Stato
di Marco Lillo


A distanza di una settimana dallo scoop dell’Espresso sulle 13 società anonime dell’autista di Beppe Grillo in Costa Rica, Walter Vezzoli, è possibile fare un po’ di chiarezza partendo dalle carte disponibili su Internet nel Registro Nacional del Costa Rica. Si scopre che l’ex cognato di Grillo non somiglia molto al cognato di Gianfranco Fini, Giancarlo Tulliani. Vezzoli, ex compagno di Nadereh Tadjik (la sorella di Parvin, la moglie iraniana del leader 5 stelle) dalla quale ha avuto un figlio, non ha lasciato dietro di sé in Costa Rica “grandi investimenti” come qualcuno ha detto (anche se L’Espresso non lo ha mai scritto) bensì grandi debiti.
VEZZOLI È INTESTATARIO di 13 società anonime, meno trasparenti di una qualsiasi società italiana. Le ‘sociedad’ non pagano da due anni le imposte al registro delle imprese e sono iscritte nella Consulta Pública de Morosidad perché in Costa Rica la legge impone di pubblicare l’elenco dei contribuenti morosi. Il debito fiscale complessivo è una sciocchezza, 3 mi-la euro, ma non sembra indice di grande attività e ricchezza. Anche il capitale sociale versato non è di 130 mila dollari, cioé 10 mila dollari per ciascuna delle 13 ’sociedad anonima’, come è stato detto: solo due società sono capitalizzate in dollari mentre le altre 11 hanno un capitale di 10 mila colon, pari a 20 dollari. Totale: 20.220 dollari.
Ovviamente le società potrebbero celare un attivo di milioni di dollari perché bilancio e soci non sono pubblici. Quindi, sulla consistenza patrimoniale e sulla titolarità reale degli investimenti bisogna fidarsi delle dichiarazioni dell’autista di Grillo che sostiene di avere fondato le società in Costa Rica per fare attività commerciale nel paese nel quale viveva per molti mesi all’anno con la compagna e il figlio. Non per nascondere gli intestatari dei suoi investimenti in altri paesi. Effettivamente basta digitare il nome dell’autista per scoprire che Vezzoli è intestatario di una casa a Tamarindo, nella provincia di Guanacaste: 320 metri più un terreno del valore fiscale di 140 mila euro. La casa è stata comprata grazie a un mutuo, è gravata da un’ipoteca di secondo grado ed è stata messa all’asta dal Banco Nacional de Costa Rica il 21 ottobre 2011 – come risulta dal bollettino ufficiale – perché Vezzoli non è riuscito a pagare nemmeno le rate del suo debito. Vezzoli risulta intestatario anche di una Mercedes 3000, bella e gloriosa, ma immatricolata nel 1982. “Dopo aver preso un prestito di 140 mi-la dollari ho rimborsato 60 mila dollari e poi ho smesso. Ora - spiega Vezzoli - me ne chiedono altri 180 mila ma mi sembra una follia e sto trattando per chiudere a una cifra più umana. La Mercedes l’ho venduta di recente a 3 mila e 500 dollari”. Al Registro Nacional il trasferimento dell’auto non risulta ancora. Sul sito del Registro Nacional chiunque, senza pagare un euro, può scoprire le società, immobili e i loro gravami e persino le barche e i velivoli intestati a ciascuno.
I DOCUMENTI che L’Espresso ha pubblicato sul sito sono stati scaricati solo alle 15 e 30 del martedì, alla vigilia della chiusura in tipografia del settimanale. La scelta di pubblicare subito lo scoop ha probabilmente impedito di approfondire alcune sfaccettature della vicenda. Restano aperte, anche dopo la lettura delle carte, alcune questioni: perché creare ben 13 società se i capitali erano così risicati? Replica Vezzoli: “La Scuba Diving S. A. commercializzava prodotti della Cressi Sub. Ma ha venduto solo seimila euro di attrezzature. La Ecofeudo doveva costruire il villaggio ecosostenibile, ma è rimasto un sogno.
LE ALTRE società chiamate tutte Condominio Mandala ecc.. erano state create con quattro soci dello studio legale GHP associados, per costruire villette su un terreno che vale 80 mila dollari. Ma non siamo andati avanti. La Armonia Parvin era il negozio di prodotti naturali di Nadereh”. Sulla bacheca Facebook di Vezzoli, la 46enne Valentina Orsini ha scritto: “Ho vissuto in Costa Rica per svariati anni, in una bellissima spiaggia dove ho incontrato belle persone, Walter e Nadere erano tra loro. Eravamo un bel gruppo di gente che si erano trovate per caso uniti dallo spirito di cambiamento, di movimento, di conoscenza e soprattutto di espressione libera di sé stessi, si faceva il surf, si guardavano i tramonti in spiaggia, si faceva musica, si dipingeva, si creava il desiderio di una vita diversa, ricca di emozioni e a dimensione umana... ci si ripuliva l’anima di fronte all' oceano con gente sul tuo stesso cammino. Non giravano capitali. Nessuno di noi era arrivato dall’italia col malloppo. Walter aveva preso in gestione la discoteca e si lavorava. Enrico, il presunto spacciatore, mi faccio proprio due risate, e sua moglie avevano e hanno tuttora un negozio di artigianato, lei lavora l'argento molto bene fa belle cose. Nadere' a un certo momento apre il suo negozietto di erboristeria, niente di misterioso nessuna strana copertura cari giornalisti. Quello e' stato proprio un bel periodo di vita che ci ha insegnato a capire che una vita diversa in una società migliore, aperta e trasparente e' possibile e che avere un sogno da seguire è una cosa normale. Aprite le vostre menti e godetevi la vita! ”.

Corriere 14.3.13
Il nipote Enrico: l'avvocato di Beppe che ama i gessati e le armi antiche
di Marco Imarisio


«Maltratta la moglie cameriera, cuoco rinviato a giudizio». Che poi, nel caso specifico, il vicepresidente del Movimento 5 Stelle era dalla parte giusta, quella della cameriera.
La scoperta di un vero statuto e di un vero organigramma di M5S comporta la sorpresa della loro esistenza e quella dell'attribuzione di cariche interne a personaggi non esattamente celebri, che non si chiamano Casaleggio, ma di famiglia. L'avvocato Enrico Grillo, nipote di Beppe, è quanto di più diverso si possa immaginare dall'ex comico, a cominciare dall'aspetto, ma sono ormai dieci anni che lo rappresenta nei tribunali di mezza Italia. È figlio di Andrea, fratello maggiore di Beppe e titolare dell'azienda di famiglia che produceva cannelli per saldatura e oggi è specializzata nella riparazione di macchine da ufficio. «Me lo portò il papà, che si era laureato da poco, e così lo presi a bottega». Giovanni Scopesi, decano dei penalisti genovesi, gli insegnò il mestiere. «Una buona persona. Molto elegante e molto simpatico. Certo, mai avrei immaginato di trovarlo impegnato in politica, alla guida del primo partito…». L'ironia venata di affetto si spiega con il profilo basso tenuto dall'altro Grillo di M5S, avvocato di bella presenza e di grande riserbo. La prima dote, unita alla disponibilità, lo ha portato spesso a rappresentare legali famosi che non potevano essere presenti in aula. «Mi faceva fare bella figura» ricorda Scopesi.
Nel gennaio del 2002 gli toccò una mattina da tregenda per interposta persona. Fu Enrico a fare le veci di Carlo Taormina, impossibilitato ad essere in aula, nella sentenza di appello contro Stefano Diamante, in quegli anni diventato celebre in quanto accusato di avere ucciso la madre per non farle scoprire una laurea mai conseguita. Assolto in primo grado, Diamante scelse Taormina per il proseguimento del processo. Fu condannato a trent'anni. Enrico Grillo si mise in proprio l'anno dopo, aprendo uno studio nel centro di Genova, dove tiene in bella vista anche una collezione di armi antiche, una delle sue passioni che non sembrano collimare con quelle dello zio, come le grisaglie e i gessati che indossa. Ama le auto veloci, gira su un Suv, ha l'aria di uno che si gode la vita. «Sempre disponibile e gentile. In un ambiente pettegolo come il nostro — dice un suo collega di Genova — non ha nemici e non troverai nessuno che ne parli male».
Non è un principe del foro, quello no. A spulciare le cronache locali non ci si imbatte spesso nel suo nome, sorte condivisa con il segretario di M5S, Enrico Maria Nadasi, commercialista di Beppe Grillo e genero del notaio Federico Solimena, che invece ebbe una certa notorietà ai tempi della vicenda della contessa Francesca Vacca Agusta. La difesa di un poliziotto accusato di spacciare droga, la moglie cameriera, poco altro, molto penale «bianco», che fa meno notizia. E da qualche anno, cliente piuttosto monopolizzante. Lo zio. L'avvocato Enrico ha cominciato ben presto a seguire Beppe Grillo nelle sue scorribande. Nel 2005 è lui a costruire la cornice legale della campagna di Parlamento pulito, nel 2007 si occupa della stesura dei quesiti referendaria che verranno lanciati al V day. E intanto gira l'Italia, da Modena alla Val di Susa a querelare e denunciare, a difendere da denunce e querele. Diventa, nei fatti, il legale di M5S e dei suoi militanti. Non il classico attivista, non una toga di lusso, ma una persona di fiducia. Per ricoprire la carica di numero due in un movimento che di fatto non la prevede, a Beppe Grillo può anche bastare. E il cuoco, alla fine, è stato anche condannato.

Repubblica 14.3.13
Il linguaggio del populista
di Raffaele Simone


Nella storia moderna non c’è capo populista che non si sia creato un suo linguaggio, invariabilmente estremo, oltraggioso e sbruffone, come si pensa che il popolo parli. Perciò, il linguaggio di Beppe Grillo, che sembra così nuovo, non lo è affatto, anche se è ingegnosamente intonato al tempo.
Il linguaggio del populista perfetto, del resto, obbedisce stabilmente a tre o quattro regole. Regola prima: costruire una cornice in cui i fatti correnti e le imprese del movimento si possano inquadrare senza difficoltà. Quella di Grillo è la “guerra” o la “rivoluzione”.
Siamo in guerra è il titolo del librettino ideologico di cui è autore con Casaleggio. Ma il quadro bellico si presenta sempre a cavallo tra la guerra vera e il soft war (la guerra finta in cui adulti vestiti di tutto punto da militari si combattono con armi identiche a quelle vere salvo che sparano … facendo plop): non è chiaro, ad esempio, se l’“arrendetevi, siete circondati! ” rivolto di recente al Parlamento sia un avviso ultimativo o un bluff alla Franco Franchi. L’ambiguità tra comico e serio è una delle cifre del blagueur consumato.
Seconda regola: appiccicare agli avversari dei nomignoli che ne esaltino un tratto deformato e li sommergano nel ridicolo. Qui di nuovo l’inventiva di Grillo oscilla tra ricordi d’infanzia e Dylan Dog, con una strizzata d’occhio agli strati infimi della cultura popolare: lo Psiconano (il signor B.), Topo Gigio (Veltroni), Alzheimer (Prodi), Salma (prima Fassino poi Napolitano), Azzurro Caltagirone (Casini), mentre i media sono barracuda e Monti è Rigor Montis. In ogni caso, l’avversario è un cadavere o uno zombie (Bersani, detto anche Bersanator, è un “morto che parla”) e una rubrica del blog di Beppe si intitola rotondamente “le Facce da culo”. Se a una persona riflessiva questi epiteti possono parere loschi, anche per l’ossessione funebre, l’impressione di uno del movimento sarà invece di prossimità. Anche in questo gergo da sistematica “presa per il culo” spuntano curiose evocazioni da scuola media girate in sarcasmo: “un governo tecnico non esiste in natura”.
Terza regola: fare apparire marziano il linguaggio degli altri, perché oscuro, contorto e fuori della realtà rispetto a quello del capo. Ciò significa semplificare anche brutalmente gli argomenti complessi, in modo che tutti abbiano l’impressione di capirci qualcosa e di ritrovare la propria realtà. Così l’incompetenza diventa meno visibile e il popolo si sente interpellato direttamente. (Ma va detto che, essendo il linguaggio degli altri davvero “marziano”, qui Grillo ha gioco facile.) Quarta regola: praticare uno stile pubblico eccessivo. Qui Grillo non ha bisogno di model-li, essendo un attore collaudato. La sua recitazione in pubblico è a braccio (con ripetizioni frequenti da un discorso all’altro),
smodata, urlata fino a sgolarsi e accompagnata da una corporeità debordante (scuotimenti incessanti del corpo e della vasta zazzera), secondo schemi sperimentati in trent’anni di spettacolo.
Il capo, pur parlando il linguaggio della gente, in effetti sia irraggiungibile e quasi invisibile. È questo forse il vero elemento nuovo del grillismo come stile comunicativo: dice quel che pensa il popolo (in forma appena un po’ più elaborata) e con le parole che ritiene che il popolo userebbe, però dal popolo e dalla tv si lascia corteggiare, non accostare o rivolgere la parola. Più in là di lui su questo sentiero sta solo il suo silenzioso socio Casaleggio, che come l’oracolo di cui parla Eraclito “non dice né nasconde, ma manda segni”.

l’Unità 14.3.13
Lo strappo di Berlusconi, gli errori di una certa sinistra
di Emanuele Macaluso


NON SO QUANTE PERSONE, CHE HANNO UNA STORIA E UNA CULTURA POLITICA CHE HA COME RIFERIMENTO LA COSTITUZIONE, si rendano conto che il 55% degli italiani, nelle recenti elezioni, ha votato il partito personale di Berlusconi e il partito personale Grillo-Casaleggio. Un voto a due formazioni che, con intendimenti diversi, vogliono mettere in mora l’assetto costituzionale che per sessantacinque anni ha retto la Repubblica italiana. Il fatto da sottolineare è che i due partiti personali non hanno, come l’aveva De Gaulle, un progetto costituzionale alternativo a quello esistente. L’obiettivo è sfasciare quel che c’è senza costruire nulla. Questo intendimento è più netto nell’opera del partito personale di Grillo e Casaleggio.
Il problema che, a mio avviso, ha di fronte chi guida il centrosinistra non è quello di verificare, con la mediazione di Celentano, quali sono i punti programmatici su cui è possibile convergere e fare un governo. Il punto è: verificare quale assetto dare alla democrazia italiana. La buonanima di Gramsci diceva che un partito, se non ha un progetto politico-costituzionale, non è un partito. E questo progetto oggi dovrà essere tutt’uno con l’assetto politico costituzionale da dare all’Europa. Non sono, queste, discussioni astratte, ma il concreto della politica. E per restare in quel concreto occorre fare i conti con le forze che l’elettorato ha messo in campo. E i conti, in questa fase, si possono fare affrontando i nodi ingarbugliati per far funzionare il Parlamento eletto dagli italiani e dare un governo (anche se non avrà lunga vita) al Paese. Ebbene, chi segue la cronaca politica ha capito che la posizione assunta dal presidente della Repubblica, dopo l’indegna sceneggiata recitata dai parlamentari del Pdl invadendo, a Milano, il Palazzo di Giustizia, è volta a rendere praticabile uno spazio minimo su cui svolgere le operazioni politiche necessarie per eleggere i presidenti delle Camere, forse un governo, obbligatoriamente il nuovo inquilino del Quirinale.
Ieri mattina, leggendo i giornali, non mi ha certo stupito quel che scriveva il Fatto che, sul tema, cuoce e ricuoce la solita sbobba travagliesca, ma quel che si poteva leggere nell’editoriale di Repubblica firmato da Massimo Giannini. Il quale ha questo incipit: «C’è rimasto solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il peso di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della comune responsabilità istituzionale, in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana». Ben detto. Poi scrive: «Ma questa volta l’appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una sproporzione politica». Francamente non capisco come si concilia la «condivisione istituzionale» con la «sproporzione politica». Giannini scrive: «Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo l’aberrante ipotesi del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere, giudica comprensibile la preoccupazione del Pdl di «vedere garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento».
«Comprensibile», caro Giannini non significa «condivisibile» ma prendere atto di un fatto da altri determinato. È uno stato di necessità istituzionale: il partito personale di Berlusconi è un’anomalia politica, purtroppo sancita dal 30% dei votanti. Giannini ricorda quali sono le scadenze istituzionali dei prossimi giorni. E aggiunge: «Ma il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongono con queste scadenze, dal buon esito dei quali dipendono le sorti politiche della nazione». Interpretazione, a mio giudizio, corretta. Non è istituzionalmente e politicamente sensato trovare questo spazio? No, dice finalmente Giannini, si tratta di un «Lodo Alfano provvisorio» (falso) e rincara la dose. Il Pdl avrebbe raggiunto il suo scopo: «Assicurare un improprio salvacondotto» a Berlusconi. «Salvacondotto?» Ma non è stato lo stesso Giannini a dirci che si tratta solo di organizzare gli appuntamenti giudiziari in modo che non si sovrappongono a quelli politici? Il tutto sino alla elezione del nuovo presidente della Repubblica. Come si fa a cambiare le carte messe in tavola con lo stesso articolo? Paura di andare controvento? Ma se un grande giornale democratico cui fa riferimento la sinistra semina questo vento non si può poi stupirsi se la stessa sinistra raccoglie tempeste.

il Fatto 14.3.13
Il Csm non ci sta: “I magistrati hanno fatto il loro dovere”
I consiglieri laici e togati del Pd rispondono alla posizione garantista del Capo dello Stato dopo la marcia Pdl
di Antonella Mascali


Tutti i togati del Consiglio superiore della magistratura e i laici del Pd contro la marcia del Pdl sul Palazzo di Giustizia di Milano: “Mette a rischio” l’indipendenza della magistratura. Il documento è arrivato dopo che in Plenum è stato evitato il dibattito per non far emergere l'amarezza provocata dal comunicato cerchiobottista del Quirinale, e per la minaccia dei consiglieri laici del centrodestra di far mancare il numero legale, impedendo, così, l’approvazione di qualsiasi atto.
IL COMUNICATO della gran parte dei consiglieri, che non è un documento ufficiale del Csm, suona come una presa di distanza, implicita, da quanto scritto dal presidente Giorgio Napolitano. Infatti, comincia con la giustificazione per il silenzio in Plenum: “Abbiamo ritenuto per senso di responsabilità, in considerazione della grave crisi istituzionale e di vuoto politico che vive il Paese, di non discutere in Consiglio delle gravi vicende accadute nel palazzo di Giustizia di Milano lunedì scorso, suscettibili di porre a rischio l’indipendenza dei giudici nelle decisioni che solo a loro spetta assumere. Il Consiglio ha comunque ribadito espressamente il proprio fondamentale ruolo di tutela di tale indipendenza, patrimonio di ciascun magistrato”. Poi i membri del Csm fanno una puntualizzazione che ha un solo significato: non c’è un attacco reciproco, come sostiene Napolitano, ma solo quello del Pdl nei confronti dei magistrati che hanno applicato la legge: “Come componenti del Consiglio vogliamo riaffermare che, nel processo, soltanto al giudice spettano le decisioni processuali e di merito, secondo le norme di legge. A tale principio si sono attenuti i magistrati impegnati nei processi (di Silvio Berlusconi, ndr) di cui oggi si discute”.
La giornata a Palazzo dei Marescialli era cominciata in salita. Con discussioni frenetiche nei corridoi su cosa fare ufficialmente in Plenum, dopo che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che è anche capo del Csm, ha sì parlato di “inammissibile sospetto” del Pdl che paventa il complotto giudiziario anti Berlusconi, ma ha anche scritto che è “comprensibile” la preoccupazione perché il leader del Pdl possa partecipare alla “delicata fase politica-istituzionale”. I consiglieri togati, anche se non condividono il doppio richiamo di Napolitano, non vogliono lo “scontro istituzionale” e, complice la minaccia dei laici del Pdl di abbandonare il Plenum, concludono che l’unica strada è la sola lettura di un documento, che sarà limato numerose volte, da parte del vicepresidente Mi-chele Vietti.
É UNA PRESA di posizione che, inevitabilmente, ricalca quanto scritto da Napolitano, dopo aver incontrato proprio i membri del comitato di presidenza del Csm: “Le vicende accadute sono gravi ma per senso di responsabilità, accogliendo l’invito del suo presidente, il Csm evita qualunque commento”. Poi Vietti riprende quanto sostenuto dal capo dello Stato: “Il presidente ha rivolto un appello, che faccio mio, al rispetto effettivo del ruolo e della dignità tanto della magistratura quanto delle istituzioni politiche e delle forze che le rappresentano”. Il vicepresidente, inoltre, riassume i passaggi del comunicato di Napolitano critici verso il Pdl come quello sul controllo di legalità “imperativo assoluto per la salute della Repubblica, da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell’investitura popolare ricevuta”. Ma l’inquietudine serpeggia tra i consiglieri del Csm. Due membri togati, magistrati a Milano, Paolo Carfì (Area) e Giovanna Di Rosa (Unicost) alla fine della lettura di Vietti escono dall'aula del Plenum: “Provo disagio e sofferenza - ha detto Di Rosa - quanto accaduto al palazzo di giustizia di Milano è terribile. La quotidiana routine di accesso ad uffici, dove i cittadini si aspettano giustizia, sotto le immagini di Falcone e Borsellino, è stata gravemente turbata da una manifestazione contro i giudici. L’effetto visivo mi è parso triste e desolante, quello politico inaudito. Il canto dell’inno d'Italia contro un’istituzione, con tutto il resto che lo accompagnava, ha costituito una drammatica novità assoluta nella storia della Repubblica italiana”.
Nelle mailing list dell’Anm e di Area ci sono messaggi di delusione per l’intervento del presidente Napolitano che mette sullo stesso piano il comportamento dei parlamentari del Pdl e quello dei magistrati di Milano e Napoli colpevoli di applicare la legge anche nei confronti di Silvio Berlusconi.
Un magistrato milanese vorrebbe sapere “quali sono le 'missioni improprie' che, secondo il comunicato, ci saremmo assunte. Perché (e credo di poterlo dire con assoluta tranquillità) qui nessuno si assume delle missioni, soprattutto improprie. Anche lo 'scrupoloso rispetto delle regole processuali' è, per noi, pane quotidiano”.

il Fatto 14.3.13
La stella di Napolitano nel gorgo delle polemiche
Bersani lo sfida
Il coordinatore della segreteria democratica Migliavacca: “Pronti all’arresto, se atti fondati”
di Antonello Caporale


Il settennato di Giorgio Napolitano si chiude dentro una prova di forza drammatica: lui di qua, il suo partito di là. In mezzo il corpo, la libertà, gli interessi e le richieste che Silvio Berlusconi ha avanzato al Quirinale. Con una frase d'impeto, ma chiara, affidata a Maurizio Migliavacca, la cui biografia testimonia la fedele e piana esistenza all'ombra di Pier Luigi Bersani, il Pd traccia il solco della trincea e della divisione. Ieri mattina, durante il tg di Sky, viene chiesto a Migliavacca: ma se il suo partito fosse chiamato a votare la richiesta di arresto di Silvio Berlusconi, cosa farebbe? “Se gli atti fossero fondati penso proprio che diremmo di sì”. Sì al carcere, una ipotesi mai nemmeno valutata, lontana anni luce dallo spirito conciliativo e a volte collusivo con il quale gli eredi di Botteghe Oscure hanno seguito le vicende giudiziarie del Cavaliere .
UN COLPO, anzi uno sfregio, all'autorevolezza, all'equilibrio e anche alle scelte che Napolitano dovrà fare. Un braccio di ferro contro un presidente capostipite dell'ala riformista del Pci, tutor della sinistra italiana e finora ascoltato e riverito padre nobile. L'asse si spezza nel punto più delicato della crisi, con il segretario del Pd che chiede, con una determinazione sempre più avanzata, un mandato pieno a governare e tratteggia l'ipotesi, attraverso l'Unità, di una estrema possibilità: il governo di minoranza. Il Quirinale invece autorizza Berlusconi a valutare la sua funzione centrale e vitale dentro il Palazzo, sceglie infatti in un comunicato, di chiedere ai giudici, altro fatto estremo e discutibile, di preservargli la libertà d'azione politica malgrado i processi, le sentenze in arrivo, i rumors che si rincorrono intorno alla possibilità che la stessa libertà personale potrebbe essere a rischio. Napolitano chiede uno stop, un fermo immagine, rilascia un salvacondotto politico a Berlusconi, concedendo alla prova di forza del Popolo della libertà, l'occupazione simbolica del palazzo di Giustizia di Milano, il più largo ristoro. Contentissimo si dice e si mostra Angelino Alfano, naturalmente. È un dato nuovo che produce nel Pd un sommovimento senza pari: di qua il segretario e il suo gruppo, sempre più sparuto, di là una vasta coalizione di “diversi”: lettiani, dalemiani, renziani. Tutti in qualche modo puntano al disfacimento della tela tessuta da Bersani, tutti, insieme a Monti, si acconciano all'idea che dopo il giro di consultazioni richiesto dal leader sconfitto del Pd, la parola e la palla passerebbe ad altri: un governo del Presidente che dovrà condurre il Paese alle elezioni. “Io sono pronto”, dice infatti Matteo Renzi, pugnalatore di Bersani. E ha pronta la data della sua discesa in campo: “Ottobre”. “In questa condizione il partito non regge, rischia l'implosione, la rottura, il disfacimento. La presa di posizione del presidente indebolisce la nostra strategia senza prospettare l'idea di una cosa possibile. Glielo dico in franchezza, anche se devo chiederle l'anonimato: il salvacondotto concesso a Berlusconi è una pugnalata a noi, all'unità del nostro partito, alla nostra stessa esistenza”.
L'alto dirigente non mostra il suo nome, ma illumina bene la situazione. È guerra aperta oramai e, d'improvviso, Napolitano viene risucchiato nel gorgo della contestazione degli amici storici e di quelli più recenti. Beppe Grillo, che appena dieci giorni fa aveva salutato con soddisfazione la presa di posizione del capo dello Stato a difesa dell'immagine del leader di M5S, annullando l'incontro con il capo della Spd tedesca che aveva commentato come “la vittoria di due comici” il risultato elettorale italiano, adesso cambia tono, è deluso, prende le distanze. Ma l'amicizia di Grillo è appunto una questione recentissima. Quella di Repubblica è invece lontana nel tempo e affonda in radici profonde. La scelta di Napolitano di aiutare ancora Berlusconi è vista dal giornale fondato da Eugenio Scalfari come “un premio ai sediziosi”. Cose mai viste e soprattutto mai lette finora.
ECCO il punto di rottura sul ruolo stesso di Giorgio Napolitano. Bersani ha poche cartucce in tasca, “però hanno la capacità di radere al suolo questo scenario politico”, dicono a largo del Nazareno. Il Parlamento nei primi suoi atti è chiamato alla convalida degli eletti. Cosa succederebbe se il Pd votasse insieme ai grillini per l'ineleggibilità di Berlusconi? A Migliavacca non è stato chiesto ieri di rispondere a questa ultima ipotesi, ma il clima suggerisce l'idea che il tema è all'ordine del giorno.

l’Unità 14.3.13
Renzi: «Legislatura breve. Sono pronto a candidarmi»
Il sindaco di Firenze rompe gli indugi, garantisce sostegno al tentativo di Bersani, ma in caso di elezioni annuncia che ci sarà
di Vladimiro Frulletti


FIRENZE «Se ci fossero le condizioni ci starei». Epurata dall’inevitabile forma ipotetica, la frase che Renzi ha rilasciato all’Espresso (l’intervista sarà domani in edicola) è una decisione oramai chiara: il sindaco di Firenze è a tutti gli effetti in campo. Pronto in caso di elezioni a candidarsi premier. Ovviamente non è che le sue intenzioni non fossero già chiare. Nessuno, all’indomani del voto che ha disegnato un Parlamento ad altissimo livello di ingovernabilità, ha mai dubitato che Renzi fosse diventato uno dei possibili candidati alla futura premiership. Anzi forse il più indicato dopo l’insuccesso del Pd e la performance di Grillo. Opinione coltivata non solo dai suoi sostenitori, ma anche da più d’uno dei suoi avversari: «Renzi è il futuro, ora tocca a lui» è il refrain più gettonato.
Ma, appunto, il tutto coniugato al futuro. Per il presente immediato c’è Bersani e il suo tentativo di costruire un governo di cambiamento contando sul sostegno dei parlamentari 5Stelle. E quindi più che le parole di Renzi, ora conta il momento in cui ha deciso di alzare la mano e dire «ci sono, sono pronto». Una tempistica che stride con la volontà dichiarata di non puntare a intralciare il tentativo di Bersani. Un concetto che più volte ha espresso non solo pubblicamente, ma anche in privato coi suoi collaboratori: «Pierluigi mi ha spiegato la sua linea, non è la mia, ma lo sostengo». Niente bastone fra le ruote insomma. Non a caso martedì mattina pochi minuti dopo aver finito l’intervista con l’Espresso Renzi s’è messo al computer per scrivere sulla sua pagina Facebook che con la sua proposta di abolire il finanziamento pubblico ai partiti non aveva alcuna intenzione di sabotare il tentativo di Bersani. E che anzi non era tempo di polemiche e che l’Italia aveva bisogno di un governo il prima possibile. E del resto a tutti Renzi ripete che lui fa «il tifo» per Bersani. Ma questo non gli impedisce di coltivare più di un dubbio sul fatto che il segretario Pd riesca nell’impresa. E al giornalista che gli chiede se Bersani ce la farà o ci sarà un altro governo o si andrà alle elezioni, Renzi risponde che non vuole sostituirsi al capo
dello Stato, ma che crede che «sarà una legislatura breve». Il suo auspicio è che almeno riesca a cambiare la legge elettorale che lui vorrebbe come quella dei sindaci cosicché il giorno dopo il voto si sa chi ha vinto e chi governerà. «Solo da noi fa notare il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il Porcellum sarebbero eletti in quattro».
Se poi si va al voto spiega che si candiderà anche se prova a nascondersi dietro la battuta che qualche dubbio gli è venuto «da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe» («Non dire gatto se non l’hai nel sacco» la replica dell’ex ministro). Ed è un percorso che farà, assicura, nel e col Pd. Nessuna intenzione di mettere su un nuovo «partitino» con Monti e i centristi. «Sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla ditta dice , ma anche perché penso che per l’Italia sia utile avere due grandi partiti: non possiamo continuare con l’idea che ognuno si fa il suo partitino». Il che presuppone anche l’eventuale scalata al Pd attraverso il congresso e quindi la corsa per la segreteria se fosse indispensabile per conquistare la candidatura a premier (come sta scritto nello Statuto del Pd). Certo questo vale se le elezioni ci saranno verso ottobre. Se si voterà fra un anno e mezzo o due è da escludere che Renzi possa pensare a fare il segretario Pd. Rimarrebbe a Palazzo Vecchio (si vota il prossimo anno) e da lì tenterebbe la corsa delle primarie per la premiership. Se poi si voterà già a giugno lui in campo c’è già, ma l’eventuale candidatura dovrà avvenire con le primarie (esclude qualsiasi indicazione dall’alto: «non mi faccio cooptare»). Intanto butta giù un po’ di programma: al primo posto il lavoro. Sta preparando un «job act» (piano per il lavoro) per «dare risposte vere» ai 3 milioni di disoccupati di cui il 40% sono giovani.

il Fatto 14.3.13
Bersani nel bunker, Renzi “pronto per la premiership”
Il segretario in contrapposizione sempre più aperta con il Colle
di Wanda Marra


Bersani e i suoi alzano un altro po’ il tiro contro Napolitano, Renzi ribadisce che lui vuole fare il premier (e pure presto), le trattative per le presidenze delle Camere sono appese ai grillini che non decidono. Se in Vaticano la fumata è bianca, i fumi dalle parti del Nazareno sono sempre più grigi.
Ieri Maurizio Migliavacca, che non è solo il coordinatore della segreteria Pd, ma uno dei più fidati collaboratori di Bersani, a SkyTg24 ha rilasciato una dichiarazione su Berlusconi in rotta di collisione con quanto detto dal Presidente della Repubblica. Gli chiedono: il Pd voterebbe in Senato per l’arresto di Silvio Berlusconi? E lui risponde: “Se gli atti sulle accuse di corruzione per la vicenda De Gregorio fossero fondati penso proprio di sì”. E: “Dovremmo vedere le carte. Noi abbiamo un atteggiamento rispettoso di atti della magistratura che fossero corretti”.
NAPOLITANO dopo la marcia del Pdl al Tribunale di Milano, pur criticandola, aveva cercato di abbassare i toni e aveva richiamato soprattutto i magistrati: “Aberranti i sospetti su manovre, ma a leader Pdl va garantita agibilità politica”. Arrivando solo il giorno dopo, l’affermazione di Migliavacca va letta come l’ennesima prova della determinazione di Bersani a perseguire quella che ha individuato come la sua strada, senza farsi influenzare da perplessità e preferenze del Colle: vuole l’incarico per andare a Palazzo Chigi. Punto. E dunque, Migliavacca da una parte implicitamente ribadisce il no a qualsiasi forma d’intesa con Berlusconi, dall’altra contraddice apertamente il Capo dello Stato. “Capita”, spiegano i vicinissimi del segretario, non senza soddisfazione. I quali come exit strategy vedono un voto in estate, se il piano del governo con Grillo fallisse. Possibilmente con lo stesso Bersani candidato. Un’ipotesi che piace praticamente solo al bunker del segretario, mentre il resto del partito lavora per altro. Mentre Bersani affina la sua strategia verso la leadership, Renzi decide di mettere la sua candidatura sul tavolo. Pronto a correre per la premiership si dice in un’intervista all’Espresso. Se alla fine salta tutto e si va alle elezioni Renzi si candida a premier o no? Gli è stato chiesto. E lui, seppure alleggerendo con una battuta, risponde chiarissimo: “Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio... ”, dice. Ma poi: “Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei”. E così il cerchio si chiude, dopo una settimana di escalation. Prima, l’abbandono della direzione senza prendere la parola, poi l’intervista a Fabio Fazio in cui di fatto tacciava di “scilipotismo” il tentativo di Bersani di agganciare politicamente i grillini, definiva le riunioni di partito “terapie di gruppo” e sferrava l’attacco vero e proprio: “Aboliamo il finanziamento ai partiti”. Qualcosa che lui può dire e il segretario no, visto quello che costa il Pd. Tant’è vero che poi filtrano sul Corriere della Sera dossier da lui costruiti sui dipendenti democratici. Nessuna smentita ufficiale. “Una battaglia a viso aperto”, protestano dallo staff del Sindaco. Mentre uno studio più o meno preciso sui conti del Nazareno arriva su Dagospia. Infine, ieri l’anticipazione dell’Espresso. Renzi ha capito che è venuto il momento di scendere in campo prima che qualcuno possa mettere in discussione la sua candidatura. Il percorso da lui preferito sarebbe arrivare al voto a ottobre, con una nuova legge elettorale e il tempo di fare le primarie. Senza però entrare nella battaglia per la segreteria, che non solo non gli interessa, ma sarebbe persa.
MENTRE tra i Democratici manovre e contromanovre si sprecano, ieri Monti ha fatto la riunione di Scelta Civiva in cui ha detto di no al governo Grillo, esprimendosi a favore di un esecutivo di larghe intese. I pontieri Pd – Zoggia, Calipari e Zanda – in missione per cercare di trovare un’intesa sulle presidenze delle Camere hanno coerentemente registrato la contrarietà pure a darne una ai Cinque Stelle. Ancora tutto in alto mare: l’M5S ieri avrebbe dovuto tirare fuori i suoi nomi. Non l’ha fatto. Così dalle parti del Pd stanno ancora appesi. Dario Franceschini, che si vedeva già alla guida di Montecitorio, non ci ha ancora rinunciato. Nel frattempo Boccia si è spinto a dare del “fascistoide” a Grillo.

Repubblica 14.3.13
“Se salta tutto mi candido a premier Pd fermo, andrò a caccia di voti fuori”
Renzi all’Espresso: priorità il lavoro, io corpo estraneo al partito
intervista di Marco Damilano


ROMA — Sulla scrivania del suo ufficio a Palazzo Vecchio, accanto alla stanza di Leone X, Matteo Renzi gioca con i pennarelli e sfoglia le foto dei cardinali in conclave. È reduce da una discussione in famiglia sul nuovo papa, il sindaco di Firenze, cattolico praticante, lo vorrebbe aperto sulle questioni etiche, un papa “rottamatore”. Ma in politica depone la sua antica bandiera: «Rottamazione non comunica speranza. Ora è il momento di dire un’altra parola: lavoro. È meno sexy, ma incrocia la vita degli italiani. Insieme a una radicale riforma della politica ». Renzi si butta a sinistra, in vista della futura corsa elettorale. Che il sindaco vede sempre più vicina.
Cosa rischia l’Italia in queste settimane?
«C’è un clima pericoloso. Da giorni discutiamo dei presidenti delle Camere, intanto lo spread con la Spagna si riduce, se la Pubblica amministrazione non paga i debiti ci saranno 300-500 mila disoccupati in più nei prossimi mesi. E la politica sottovaluta l’emergenza. La notizia della settimana è Bridgestone che chiude a Bari, non Grillo che chiude a Bersani. Si può fare con un mese di ritardo un governo che affronti la crisi. Oppure nominare in 48 ore un governo che vivacchia. Il punto è: un governo per fare cosa?».
Cosa metterebbe nell’agenda Renzi?
«Al primo posto, il lavoro. Ci sono tre milioni di disoccupati, il 40 per cento di giovani. Sto preparando un Job Act: un piano per il lavoro. Sarà innovativo. Noi ci siamo divisi tra la Cgil e Ichino e abbiamo dimenticato cose molto concrete: 20 mila cantieri fermi, lo 0,7 per cento del Pil, bloccati dal patto di stabilità, lo ricorda il presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Investimenti sull’innovazione digitale, sull’agroalimentare, progetti per gli investitori stranieri. Al Job Act stanno lavorando imprenditori, docenti, manager, neo-parlamentari: un volume corposo, lo presenteremo tra aprile e maggio...».
Che caso: giusto in tempo per la campagna elettorale!
«Io spero che sia in tempo per un governo che queste cose le faccia. Partendo dalle esperienze di chi vive in queste realtà, non dal pensiero di un funzionario di partito chiuso in un centro studi che immagina come deve funzionare il mondo. La sfida del Pd è questa: essere il partito del lavoro».
Bersani ha fatto tutta la campagna elettorale sul lavoro. Risultato: i disoccupati ma anche gli operai hanno votato per Grillo.
«Non si vince con il programma, ma con la speranza. Molti dicono: al Pd è mancata la tecnologia di Grillo. Non è vero, è mancata la passione che una parte di quel mondo esprime. Abbiamo parlato molto di giaguari da smacchiare e poco di asili nido. Otto milioni di cittadini non hanno votato Grillo perché avevano letto il libro di Casaleggio sulla guerra mondiale, ma perché trasmette un cambiamento. E trovo singolare che il Pd non riesca a comunicare che i suoi nuovi parlamentari, giovani e donne, sono più interessanti del fenomeno di colore dei deputati di 5 Stelle. Sono quasi tutti bersaniani: perché non li valorizzano? Sono migliori del Pd che va in televisione».
Sul tentativo di Bersani di fare un governo lei si mostra più che scettico: è ancora l’uomo giusto per gestire questa fase?
«Prendo atto della strategia di Bersani di aprire a Grillo. Gli ho detto: in bocca al lupo, faccio il tifo per te. Ma mi sembra improbabile che ci riesca. O Grillo cambia idea o noi cambiamo strategia».
In che direzione?
«Ah no, le formule non mi riguardano. Faccia Bersani. Accanto al lavoro serve una riforma della politica che comprenda
la nuova legge elettorale, la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle province e del finanziamento dei partiti».
Grillo chiede a Bersani di non accettare i rimborsi elettorali, in Rete gira l’apposito modulo: Bersani dovrebbe firmarlo?
«Più inseguiamo Grillo più gioca la sua partita. Bersani dovrebbe abolire il finanziamento, non firmare il foglio di Grillo che sarebbe un nuovo cedimento. Non servirà a fare la pace con Grillo, ma almeno faremo la pace con gli
italiani. La mia proposta di abolizione aiuta Bersani...».
Per fortuna! Nel Pd la accusano di aver organizzato un dossier contro i dirigenti: stipendi, segreterie, emolumenti...
«L’unico dossier che sto preparando è il Job Act. Ci sono parole che mi fanno schifo. Le cose le dico in faccia, perfino troppo, mai alle spalle. Chi parla di dossieraggio tradisce le proprie usanze».
Altra accusa: Renzi è come Grillo, anche lui vuole nuove elezioni subito, vuole governare sulle macerie, gioca al sabotaggio...
«Ogni volta che dico qualcosa arrivano tonnellate di fango, il giornale del mio partito mi ha dato del fascistoide. Hanno anche detto che sono schiavo dei poteri forti e amico della finanza, io che sono uno scout di periferia cresciuto con le parole del cardinale Martini e che devo pagare un mutuo trentennale. Ho ingoiato tutto per dimostrare la mia lealtà a Bersani».
L’immagine più difficile da superare: Renzi il filo-berlusconiano, la quinta colonna del nemico, un corpo estraneo nel Pd.
«Penso di essere un corpo estraneo a questo gruppo dirigente del Pd. Ed è interesse di tutti che lo rimanga se vogliamo prendere voti anche fuori dal nostro elettorato. Non ho difficoltà con i volontari delle feste, nelle regioni rosse prendo più voti di tutti. Ho un problema con una parte di gruppo dirigente perché chiedo un cambio netto. Dopo le primarie ho rifiutato ogni compensazione, ho fatto la campagna elettorale girando per l’Italia a spese mie. Cos’altro dovevo fare?».
Potevano utilizzarla di più e meglio?
«Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto. Ma non avremmo vinto le elezioni con tre comizi in più di Renzi, ma forse se Bersani avesse promesso l’abolizione del finanziamento ai partiti e di tutti i vitalizi, come gli ho chiesto alle primarie, sì».
Alle elezioni ha “non-vinto” Bersani? O, come ha detto Alessandro Baricco, è finito un modello di partito. Va rottamato l’intero Pd?
«Il partito solido non si muove. È un partito fermo, in terra. Un partito in cui si fanno primarie dove il responsabile organizzazione Nico Stumpo, il mio serial killer di fiducia, come lo chiamo scherzando, chiede la giustificazione a Margherita Hack per votare. È un modello che non funziona. Io spero che le prossime primarie, si facciano tra un mese o tra un anno, siano davvero aperte. Senza scomodare Calvino, la leggerezza non è evanescenza, è la capacità di vivere tempi diversi rispetto al passato. Sono per un’Italia leggera, non posso pensare a un partito pesante. Io però non faccio politica per cambiare il partito, ma per cambiare il Paese».
Tra dieci giorni ci sarà un governo Bersani? Un governo del presidente? O torneremo a votare?
«Non mi sostituisco al capo dello Stato. Credo che sarà una legislatura breve, mi auguro che almeno si riesca a scrivere una buona legge elettorale. Il mio modello è il sindaco d’Italia. Solo da noi il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il Porcellum sarebbero eletti in quattro. E ora a venti giorni dal voto stiamo per infilarci nel rito nobile delle consultazioni. Ci mettono meno a fare il papa che il presidente della Camera!».
Se alla fine salta tutto e si va alle elezioni Renzi si candida a premier o no?
«Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio...».
In tanti che fin qui l’hanno contrastata ora la invocano come il salvatore della patria.
«Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei. Nonostante Fioroni. E senza Fioroni».

Repubblica 14.3.13
Scelta Civica chiude la porta a un governo coi grillini
di Alberto D’Argenio


ROMA — Mario Monti chiude a qualsiasi ipotesi di governo che comprenda il Movimento 5 Stelle e lascia solo Bersani nella rincorsa a Grillo. La decisione viene presa nella riunione degli eletti civici di ieri. Il premier uscente lo dice chiaro e tondo: «Siamo per un governo di riformatori responsabili aperto a tutti» che guardi sia alle riforme istituzionali sia a quelle economiche. Per questo i montiani non voteranno alla presidenza delle Camere un candidato grillino e comunque abbracceranno solo candidature che prefigurino un futuro accordo di governo.
Non fa mistero il coordinatore di Scelta Civica Andrea Olivero: «Siamo determinati nel sostenere candidature che portino a una solida e chiara maggioranza riformista per il governo del Paese». Dunque per i montiani vanno bene solo candidati del Pd o del Pdl. Oppure uno espresso dal proprio partito. L’ex presidente delle Acli d’altra parte ricorda che i civici entreranno in una maggioranza, «e di questa può far parte anche il M5S, che identifichi punti chiari e netti su cui vi sia convergenza e tra questi elementi indispensabili ci sono l’assunzione delle nostre responsabilità e del nostro ruolo in Europa». Come dire, noi con Grillo non ci stiamo visto che una sua virata sull’Europa sembra del tutto remota. E chi ha partecipato alla riunione con il Professore rimarca che lo stesso discorso vale per la Lega, con la quale Monti non entrerà mai in maggioranza. Un no preventivo di fronte ai recenti movimenti sotterranei del Carroccio, interessato ad aiutare la nascita di un governo.
Olivero attacca anche Bersani e gli otto punti approvati dalla direzione del Pd per stanare Grillo. «Anche se dice che sono rivolti a tutti, sembrano indirizzati più che altro verso il M5S. Per noi mancano dei punti che indichino con chiarezza l'impianto europeo e riformista». Di fatto la linea di Monti - spiegano gli strateghi di Scelta Civica - resta la stessa che aveva abbracciato alla sua “salita in politica”: scommettere su uno sgretolamento del Pd e del Pdl e mettersi al traino di una maggioranza fatta dalle anime riformiste dei due principali partiti.

La Stampa 14.3.13
MontePaschi
Quel patto sinistra-destra per spartire le poltrone finito nel mirino dei pm
di Gianluca Paolucci


Facevamo politica perché credevamo di poter cambiare le cose e siamo stati fatti fuori», diceva ai giornalisti lo scorso 18 febbraio Angelo Pollina, ex Forza Italia passato ai finiani in merito agli intrecci tra banca e politica nel caso Mps. Lo stesso Pollina del quale si racconta, nel pezzo in alto, delle manovre per far arrivare Sergio Lupinacci in Cda e magari chissà, arrivare lui stesso ad una comoda poltrona nella Fondazione Mps. Una singolare idea del cambiamento, come rivelano solo oggi le intercettazioni. Più realistico appare il quadro delineato da un protagonista della vicenda: «Quando arrivava la stagione delle nomine succedeva un putiferio», racconta un testimone degli ultimi dieci anni di Mps visti dal centrodestra. «Arrivavano telefonate e fax da Roma, da Firenze, sollecitando questa o quella condidatura», continua l’ex uomo politico. Un testimone importante, sentito anche lui nelle scorse settimane dai pm di Siena e di Firenze nell’ambito del filone d’indagine che riguarda proprio la grande partita delle nomine in Mps. Pm che hanno sentito anche lo stesso Pollina, il quale ha raccontato di una serie di incontri negli uffici di Roma di Mps con Verdini, Ceccuzzi, e lo stesso Pollina.
Il filone, alimentato anche da veleni interni al Pd senese e toscano, ha già fatto emergere un «papello», un documento con i nomi di Franco Ceccuzzi e Denis Verdini - ma senza le firme - per spartirsi nomine della banca e sfere d’influenza politica. Documento contestato e smentito dagli interessati. Con qualche distiguo. Il presidente del consiglio reginale della Toscana, Alberto Monaci - Pd, sentito due volte in procura a Firenze, l’ultima il 5 marzo scorso - invitava nelle settimane scorse a «vedere i fatti. Se il documento è un falso non lo so ma è certo che tutto ciò che c’era scritto, più o meno si è avverato».
Il presunto accordo risaliva alla fine del 2008, qualche mese prima delle telefonate riferite nell’informativa. Ma l’accordo per la spartizione degli incarichi del Monte risale a circa dieci anni prima, quando l’allora sindaco Pierluigi Piccini e l’allora segretario provinciale di Forza Italia, Fabrizio Felici strinsero un accordo per «allargare la rappresentanza negli organi della Fondazione» al centrodestra. Fu così che Felici nel 2001 divenne membro della deputazione della Fondazione Mps. Mentre nel 2003, con il rinnovo del consiglio di Montepaschi, Andrea Pisaneschi entra nel consiglio di amministrazione della banca in quota Forza Italia. Nel 2008 diventerà presidente di Antonveneta, in virtù di quella stessa «pax senese» che garantiva posti e prebende alla politica di entrambe le sponde. Un filone sul quale stanno cercando di far luce le procure, anche se al momento, spiegano fonti investigative, non risulterebbero indagati.

Repubblica 14.3.13
Israele, ultraortodossi fuori dal governo
Accordo di Netanyahu per una coalizione con i centristi e l’estrema destra nazionalista
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — È stato un accordo della “venticinquesima ora” quello che il premier incaricato Benjamin Netanyahu ha spuntato per una coalizione di governo, quando era ormai agli sgoccioli il tempo concessogli dal capo dello stato Shimon Peres — in Israele si è votato lo scorso 22 gennaio — e a una settimana dalla prima visita del presidente Usa Barack Obama in Israele, che si carica di aspettative per la ripresa del negoziato di pace in mancanza di gesti concreti. Il nuovo esecutivo di centro- destra si baserà sui nazionalisti di “Likud-Beitenu” di Netanyahu e Avigdor Lieberman e “Focolare ebraico” di Naftali Bennett, e su due formazioni centriste “Yesh Atid” dell’ex giornalista Yair Lapid e “HaTnuà” guidato della signora Tzipi Livni.
Netanyahu ridimensionato dall’esito del voto, ha dovuto fare larghe concessioni ai centristi di “Yesh Atid” e di “HaTnuà” e rinunciare ai due partiti religiosi ultra-ortodossi da sempre suoi tradizionali alleati. Lapid, che guida un partito laico militante, avrà oltre al ministero delle Finanze anche quelli dell’Istruzione, della Ricerca e della Sanità. Tzipi Livni fungerà da ministro della Giustizia e da “coordinatrice” del processo di pace. In questa legislatura la società israeliana potrebbe cambiare radicalmente la sua fisionomia, dominata in questi ultimi anni dall’ascesa delle comunità religiose e dal sistema di privilegi accumulati, giudicati scandalosi dalla maggioranza laica della popolazione. Le posizioni decisive nei rapporti con i palestinesi resteranno nelle mani di Netanyahu e, per certi versi, di Focolare ebraico perché Bennett è riuscito ad ottenere il controllo del ministero dell’Edilizia: di importanza strategica per seguire progetti edili controversi, come quelli di Gerusalemme Est e gli insediamenti in Cisgiordania. Avigdor Lieberman, sospeso dagli incarichi ministeriali per un processo di frode ed abuso di ufficio che inizierà a settimane, spera di tornare fra alcuni mesi agli Esteri. Ehud Barak, che aveva annunciato prima del voto il suo ritiro dalla politica, viene sostituito alla Difesa dal falco Moshe Yaalon, ex capo di Stato maggiore e ex ministro degli Affari strategici.
La firma ufficiale dell’accordo avverrà stamani, poi Netanyahu andrà dal presidente Shimon Peres per dirgli che è in grado di avere la maggioranza alla Knesset per formare un governo. Il voto di investitura però non potrà esserci prima di lunedì perché il Parlamento non può essere convocato nelle festività di musulmani, ebrei e cristiani, dunque soltanto due giorni prima dell’arrivo del presidente Barack Obama in Israele e nei Territori palestinesi. Oggi Obama ha fatto sapere di non avere nessuna nuova proposta da sottoporre ad israeliani e palestinesi durante la sua prossima missione. «Il presidente incoraggerà le parti a riprendere il dialogo e i negoziati per raggiungere l’obiettivo dei “due Stati”» ha spiegato il suo portavoce. Ma se il nuovo esecutivo messo a punto adesso da Netanyahu sia il partner ideale per rilanciare la pace resta un dubbio.

Corriere 14.3.13
Perché la Russia di Putin non può processare Stalin
risponde Sergio Romano

Ho letto che nella ricorrenza della battaglia di Stalingrado, che iniziò il 23 agosto 1942 e terminò il 2 febbraio 1943, Volgograd ha ripreso per 6 giorni il suo vecchio nome. Il provvedimento è partito da Putin. È certamente una pagina gloriosa e la gloria fa dimenticare i crimini. Si combatté casa per casa, muro per muro, finestra per finestra. È solo grazie all'eroismo di alcune migliaia di soldati dell'Armata Rossa, all'arrivo del Grande Freddo e alla strategia del generale sovietico Zhukov che la Sesta armata corazzata della Wermacht venne sconfitta. Fu una delle più sanguinose battaglie della storia umana. Se i nostri media non fossero sommersi dai nostri guai questa denominazione avrebbe già scatenato i benpensanti.
Silverio Tondi

Caro Tondi,
Nelle maggiori società dell'Europa occidentale la critica del fascismo e del nazismo fu amplificata dai grandi movimenti studenteschi fra il 1967 e il 1968. Quei moti furono in buona parte una rivolta generazionale contro i padri, colpevoli tra l'altro di avere favorito o tollerato il fascismo, il nazionalismo, l'imperialismo, il colonialismo, l'antisemitismo. Comincia allora un processo al passato che coinvolge tutte le democrazie e persino la Chiesa cattolica. Nei decenni successivi le classi al potere dovettero, in una forma o nell'altra, fare ammenda per i peccati commessi dai loro predecessori e recitare il confiteor.
In Russia questo fenomeno non ha mai avuto luogo. Non poté accadere nel 1968, quando ogni movimento popolare sarebbe stato immediatamente represso dal sistema sovietico. Non accadde dopo il suo collasso perché la morte dell'Urss non fu provocata da una insurrezione popolare, ma da una grande operazione trasformista al vertice di un regime fallito. Gli uomini che andarono al potere dopo le dimissioni di Gorbaciov non erano liberali o socialdemocratici. Appartenevano alla classe dirigente dello Stato comunista e avevano capito prima di altri che l'Urss era ormai da molto tempo gravemente ammalata. Non avevano alcun interesse a promuovere epurazioni in cui sarebbero stati inevitabilmente coinvolti. Non volevano soffiare sul fuoco di una potenziale guerra civile fra i discendenti delle vittime e i discendenti dei persecutori. Fu permessa la nascita di alcune associazioni della memoria, fra cui quella (Memorial) fondata da Andrej Sacharov e Elena Bonner. Ma fu impedito che le purghe e il gulag diventassero il tema di un grande esame di coscienza nazionale.
Vladimir Putin è un ex funzionario del Kgb ed è stato presidente, dopo il collasso sovietico, dell'organizzazione che ne custodisce orgogliosamente l'eredità. Non sarà lui, naturalmente, l'uomo politico che metterà il comunismo sul banco degli imputati. Non dimentichi infine, caro Tondi, che fra Hitler e Stalin esiste una fondamentale differenza. Entrambi sono responsabile di grandi catastrofi e spaventosi massacri. Ma Stalin ha guidato il suo popolo contro l'invasore, si è dimostrato un eccellente stratega, ha regalato ai suoi connazionali la fierezza della vittoria, ha esteso le frontiere della patria. Non è necessario essere stati comunisti o filo comunisti per comprendere che è molto difficile per la Russia buttare via il «meraviglioso georgiano» senza rinunciare ad alcune fra le pagine migliori della sua storia.

La Stampa TuttoScienze 13.3.13
E se il bosone di Higgs aprisse una porta sulla materia oscura?
Meeting a La Thuile: “Le scoperte che ci aspettano”
di Barbara Gallavotti


Il ritratto del bosone si fa sempre più nitido e ora che i fisici riescono a vederlo in volto sembra quasi che se la rida. Cinquant’anni di ricerche, migliaia di scienziati coinvolti, l’impiego della macchina più potente del mondo e adesso che è caduto nella rete lui se ne sta lì: ermetico come un bonzo, per niente intenzionato a dare le risposte sugli interrogativi che tutti attendevano. Più lo si osserva, più il bosone di Higgs appare «standard», come si dice in linguaggio tecnico.
L’ultima conferma si è avuta a La Thuile, la scorsa settimana, durante i «Rencontres de Moriond» (storica conferenza che un tempo di svolgeva in Francia, ma che ha traslocato in Val D’Aosta). Qui sono stati presentati i più recenti risultati degli esperimenti «Atlas» e «Cms», i due macchinari collegati all’acceleratore «Lhc» del Cern di Ginevra ai quali si deve la scoperta del bosone.
Ancora una volta gli scienziati sottolineano che non è l’ultima parola, perché restano diversi aspetti del bosone da indagare, ad esempio un sospetto ed eccessivo accoppiamento della particella con più fotoni, il cui segnale è attutito ma ancora non scomparso. Tuttavia le nuove informazioni restituiscono un’immagine sempre più chiara dell’Higgs e per ora non ci sono sorprese: il bosone sembra essere compatibile con quanto previsto dal Modello Standard, la teoria più accreditata per spiegare di cosa è fatto e come funziona l’Universo. Da un lato è confortante, perché, se il bosone non fosse esistito o fosse stato eccessivamente «strano», le certezze della fisica sarebbero crollate. Il Modello Standard, però, ha dei punti deboli, ad esempio non riesce a includere in modo soddisfacente un fenomeno come la forza di gravità e non spiega né l’esistenza né la natura di energia e materia oscura: due entità di cui non si conosce quasi nulla, se non il fatto che rappresenterebbero il 95% di ciò che esiste nel cosmo.
I fisici sperano che il bosone finisca con il mostrare una qualche caratteristica imprevista, così la potrebbero utilizzare come appiglio per provare a estendere il Modello Standard in modo da includervi una risposta alle questioni aperte. Invece per ora nulla. Se la scoperta del bosone rappresenta un successo storico per i fisici sperimentali, i colleghi teorici appaiono disorientati. Anzi al Cern qualcuno ha ironicamente sostenuto che stiano prendendo la «PhD»: «Post Higgs Depression» (da non confondersi con il «PhD», il dottorato di ricerca).
I dati presentati a La Thuile sono gli ultimi raccolti al Cern. Per almeno due anni non ne arriveranno altri, perché l’acceleratore è stato fermato e sta per andare incontro a un lavoro di ammodernamento che lo renderà ancora più potente: se gli ultimi protoni si sono scontrati a un’energia di 8 tera-elettronvolt, alla riaccensione gli scontri dovrebbero arrivare a 13 o 14 tera-elettronvolt.
Nel frattempo i ricercatori riesamineranno la mole di dati raccolti (oltre 30 milioni di gigabyte: se fossero raccolti in Cd, formerebbero una pila alta come il Monte Bianco!). Questa immane quantità di informazioni potrebbe contenere preziosissimi indizi sull’esistenza della supersimmetria: una notizia che basterebbe per fare uscire dalla depressione anche il fisico teorico più avvilito. La supersimmetria, infatti, permetterebbe di spiegare la materia oscura e forse aprirebbe una via d’uscita al problema della gravità: si tratta di una teoria che prevede l’esistenza di particelle «supersimmetriche», le quali sarebbero gemelle delle particelle già conosciute, ma dotate di una massa più grande. La teoria supersimmetrica è compatibile con l’esistenza di un bosone come quello osservato e dunque è lecito sperare che possa venire verificata. È possibile che particelle supersimmetriche siano già state prodotte da «Lhc», ma è altrettanto probabile che si formino solo a energie superiori a quelle raggiunte finora. I prossimi due anni serviranno per capire se sono state catturate o se occorre attendere di disporre della nuova versione dell’acceleratore per ricominciare la caccia.

Peter Higgs Fisico: È PROFESSORE EMERITO DI FISICA TEORICA ALL’UNIVERSITÀ DI EDIMBURGO RICERCHE : HA PREDETTO L’ESISTENZA DI UNA PARTICELLA SUBATOMICA NOTA COME «BOSONE DI HIGGS»"

Repubblica 14.3.13
Con il bosone di Higgs parte oggi “Libri come”


ROMA — Al via la quarta edizione di Libri Come, la festa del libro e della cultura che si tiene all’Auditorium parco della Musica di Roma da oggi a domenica. Apre la manifestazione l’incontro alle 10,30 dedicato alla “Caccia del bosone di Higgs”, con Fabiola Gianotti e Luigi Amodio, presidente della Città della scienza di Napoli. Tra gli ospiti della prima giornata Javier Cercas (alle 18,30) e Aldo Busi (alle 21). Centoventi gli appuntamenti, a cui parteciperanno trecento tra scrittori, intellettuali e artisti. Tra questi, Petros Markaris, Fernando Savater, Catherine Dunne, Massimo Cacciari, Serge Latouche, Niccolò Ammaniti e Richard Ford. Chiusura domenica con Salman Rushdie. Il Festival, curato da Marino Sinibaldi con Michele De Mieri e Rosa Polacco, avrà quest’anno come tema l’Europa.

Repubblica 14.3.13
Tre genitori e una culla
I figli dell’eterologa
In Italia ci sono tremila bimbi con tre genitori
E la società, oltre che la legge, deve fare i conti con le loro esigenze. Del tutto nuove
di Maria Novella De Luca


«Ogni tanto la notte Edoardo ed io ce lo chiediamo: le diremo com’è nata? Le spiegheremo che oltre a noi due nella sua storia c’è qualcosa di altro? Qualcosa che io non avevo e un’altra donna mi ha donato. La verità è che rimuovo il pensiero — racconta Adele — Ambra è un sogno realizzato e ha soltanto due anni. Ci sarà tempo...». C’è una nuova generazione di bambini in Italia e il loro numero cresce di anno in anno. Hanno genitori “reali” e conosciuti, e altri biologici ma anonimi. Vengono concepiti all’estero grazie alle banche del seme e degli ovociti, figli dell’amore e della scienza, ma portatori anche di nuovi interrogativi, giuridici, psicologici, etici. Rivelare le origini o mantenere il segreto. Permettere l’accesso all’identità del donatore, o invece vietarla.
Sono quasi tremila i bambini che ogni anno nascono in Italia grazie alla fecondazione eterologa (quasi lo stesso numero dei bambini adottati), pratica vietata nel nostro paese ma permessa in gran parte d’Europa. Accade quando nella coppia uno dei due è sterile e per poter avere un figlio ci si rivolge a centri specializzati che forniscono il gamete “mancante” (lo sperma o l’uovo), che altri uomini e donne hanno donato, in cambio di un compenso. Ma sono sempre di più anche le donne single che diventano madri con il seme congelato, pianificando così una maternità “a prescindere” da un compagno.
E ai centri dell’eterologa si rivolgono anche le coppie lesbiche, mentre un numero crescente di omosessuali diventano padri attraverso la maternità surrogata. Un panorama demografico che cambia ogni giorno, muta, si complica.
Daniela B. ha poco più di cinquant’anni e ne aveva poco più di quaranta quando, con una decisione sofferta, è diventata madre con la banca del seme nel centro “Azvub” di Bruxelles. «Chiamatelo Jacopo, che è il nome del suo migliore amico. Oggi ha 10 anni ed è un ragazzo sensibile ed equilibrato, ma non sarei onesta se dicessi che non gli manca un padre. Quando ho deciso di averlo, da sola, ero reduce da più di una storia fallita, un figlio era la cosa che desideravo più al mondo. Ho fatto questa scelta, molti hanno pensato che il bambino mi fosse capitato, e me ne sono assunta tutte le responsabilità ». Daniela, ex broker di successo, dimezza i tempi di lavoro e si dedica a Jacopo. «Ho capito che dovevo raccontargli la verità tre anni fa, quando le maestre mi hanno fatto vedere un quaderno che lui teneva a scuola, e in cui scriveva delle lettere ad un papà immaginario, una specie di cavaliere forte e coraggioso. Ho dubitato fortemente della mia scelta in quel momento, mi sono sentita egoista. Poi con l’aiuto di una psicologa ho iniziato a parlare con Jacopo: sapere esattamente com’è venuto al mondo non lo ha reso felice, ma in un certo senso lo ha tranquillizzato. E’ come se avesse messo a posto le cose...».
Jacopo, Ambra e gli altri. Figli di genitori “multipli”, generazione eterologa. Bambini che in Italia sono ancora piccoli, ma a cui in un domani molto vicino i genitori dovranno scegliere se dire o meno la verità, o quanta verità e quanto silenzio. E magari rivelare il nome del centro da cui proviene il loro donatore-donatrice, accettando il rischio, in quei paesi che lo permettono, che i ragazzi possano recuperare non solo un colore degli occhi e dei capelli, una mappa cromosomica, ma anche un nome, un indirizzo. Il dibattito è aperto, esattamente come alcuni decenni fa per le adozioni. E la corsa alla fecondazione eterologa è così massiccia, che la nostra legge 40 pur vietandola, ha pensato di tutelare i “nati” non consentendo il disconoscimento di paternità per i bambini così concepiti. E alcuni mesi fa lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso con un documento sul tema dei diritti dei “figli della provetta”.
Spiega Maria Paola Costantini, avvocato, e legale di molte coppie che hanno fatto ricorso contro la legge 40: «Oggi l’orientamento giuridico è quello di consentire ai figli l’accesso ai dati sanitari dei donatori, ma non alla loro identità. In Italia i divieti della legge 40 hanno creato una situazione paradossale: migliaia di coppie, sempre di più, si fanno fecondare all’estero con le banche dei gameti, i bambini poi nascono nel nostro paese, dove però del problema delle origini non si parla». Sul fronte del diritto comunque i bambini dell’eterologa sono figli della donna che li partorisce, e del padre che li riconosce, esattamente come i nati naturalmente. «Ma se volessero sapere qualcosa su di sé dovranno rivolgersi ai centri esteri dove sono stati concepiti », aggiunge Maria Paola Costantini. «Ci siamo occupati del destino dei figli dell’eterologa — dice Lorenzo D’Avack, vicepresidente del Comitato di Bioetica — perché sappiamo che diventerà urgente dare delle risposte. Nel nostro documento si afferma il principio della verità e l’accesso alle notizie di tipo genetico. Altro è invece permettere che i donatori vengano identificati. Su questo il comitato si è diviso. E personalmente credo in una verità parziale. La famiglia lo sappiamo è quella che ti alleva: per un ragazzo andare a cercare questi “non genitori” può essere soltanto fonte di delusione».
Come già per le adozioni ilt ema è controverso. Eppure in tutto il mondo si sono costituiti movimenti di “figli della provetta” che vanno alla ricerca dei loro genitori biologici. Famosissimo il caso di Olivia Prattern, che ha portato in tribunale il governo del Canada per sapere chi è quel «donatore 128» che a Vancouver negli anni Ottanta offrì il seme da cui Olivia è nata. Ma è di pochi giorni fa una sentenza tedesca che ha dato ragione ad un giovane uomo che ha ottenuto di poter conoscere l’identità del padre naturale. Laura Volpini, psicologa giuridica, segue le coppie che si rivolgono ai centri di procreazione assistita. «La letteratura scientifica afferma che ai bambini bisogna dire come sono nati, e quando amore c’era in quei genitori che pur di metterli al mondo hanno chiesto “aiuto” a un donatore. Gli studi sulle adozioni aprono la strada. A mio parere però l’accesso al nome di chi ha fornito i gameti, dovrebbe essere consentito soltanto da adulti edietro consenso del donatore».
Andreina e Matteo vivono a Milano e hanno avuto due figli con l’embriodonazione in Spagna. «Dopo dieci anni di matrimonio, ripetuti tentativi di fecondazione in vitro, e l’ammissione dei medici che entrambi avevamo un problema, al centro “Eugin” di Barcellona ci hanno fatto capire che l’unicastradaeraquelladiadottare un embrione. Sì, certo — racconta Matteo — avremmo potuto adottare un bambino già nato, e ci
abbiamo provato, avevamo anche ottenuto l’idoneità. Ma sono stati gli enti a scoraggiarci: un’attesa infinita e davanti a noi e nessuna certezza... Alice è nata nel 2007, Guglielmo nel 2011, dopo tanto dolore un’ubriacatura di felicità. E con i nostri figli abbiamo fatto come si consiglia ai genitori adottivi: la verità, sotto forma di favole. Inutile dire — aggiunge Matteo — che a quella coppia che ha acconsentito a donare i suoi embrioni, noi saremo grati per sempre».
Del resto lo sappiamo, suggerisce con saggezza Maria Rita Parsi, attenta terapeuta dell’infanzia, «la maternità e la paternità non sono solo biologiche, ma di chi ti accoglie e ti porta nel cuore». Però attenzione: «I figli sono un dono, ma bisogna rispettarli. C’è qualcosa di estremo in questa corsa ad averli ad ogni costo. Penso alla scelta di tante donne che già oltre i 40 anni diventano madri con le banche del seme, scegliendo di non dare un padre al loro bambino. Non credo sia giusto. Quel bambino, infatti, un padre lo cercherà, per tutta la vita».

Repubblica 14.3.13
Nuove famiglie e vecchie leggi, la sfida è aperta
di Chiara Saraceno


Le tecniche di riproduzione assistita hanno enormemente allargato le possibilità di “fare un figlio”. Hanno anche ulteriormente complicato le questioni che in ogni società ed epoca si sono poste rispetto alla filiazione, soprattutto riguardo a chi ha diritto a diventare genitore e di chi si è figli in senso non solo biologico, ma sociale e giuridico. Se un tempo anche non molto lontano (basti pensare che le residue distinzioni tra figli naturali e legittimi in Italia sono state eliminate solo a dicembre 2012) le questioni riguardavano soprattutto la legittimità a vedersi riconosciuta la pienezza dello status di figlio e di genitore anche quando la generazione non avveniva entro la coppia coniugale codificata dal matrimonio, oggi includono sempre più la necessità di rivedere i nessi tra capacità biologica e capacità sociale e tra appartenenza biologica e appartenenza relazionale e sociale.
Il primo punto riguarda chi ha diritto di cercare di diventare genitore, il secondo che diritti hanno i figli rispetto a chi li ha fatti nascere, ma anche che diritti e doveri hanno i diversi soggetti che concorrono in modo più o meno consapevole alla loro (dei figli) messa al mondo: genitori solo biologici, genitori insieme biologici e sociali, genitori solo sociali e così via. In Italia la soluzione è stata di tipo drastico: tutto ciò in cui non vi è coincidenza tra biologico e sociale non è permesso, come se, anche senza ricorso alle tecniche di riproduzione assistita, da che mondo e mondo gameti maschili e femminili non superassero spesso i confini della coppia coniugale.
Trovare la soluzione ai propri desideri di filiazione aggirando i limiti della biologia ed insieme utilizzandone tutte le potenzialità è tuttavia solo l’inizio di un percorso di ridefinizione dei rapporti di filiazione. Esso dovrebbe essere accompagnato non solo da forme di regolazione che evitino sfruttamenti, malintesi, ripensamenti più o meno interessati, ma anche dalla maturazione di capacità di lettura delle esperienze e di formulazione delle questioni in gioco. Processi che nel nostro Paese è difficile mettere in moto proprio per la clandestinità in cui queste pratiche avvengono. La varietà di soluzioni adottate dai Paesi più aperti del nostro — sia rispetto a chi può accedere alla genitorialità con le tecniche di riproduzione assistita e il ricorso a donatore/donatrice, sia rispetto al diritto dei figli nati per questo tramite a conoscere il donatore/donatrice di gameti — segnala come si tratti di questione controverse, su cui ancora non c’è un consenso generalizzato e gravide di possibili conflitti di interesse, in modo solo in parte simile a quanto succede con l’adozione. Un donatore/donatrice di gameti, ad esempio, non si concepisce e non può essere concepita come genitore, tanto meno come genitore che “abbandona”, dei molti figli altrui che può aver aiutato a venire al mondo. Conoscere chi e come è il donatore può tuttavia essere sentito come necessario da chi ne ha ereditato i gameti per comprendere non tanto le proprie particolari caratteristiche fisiche, ma tratti di personalità. Del resto, coloro che utilizzano gameti di donatori proprio su quelle particolari storie e caratteristiche individuali si basano per sceglierli, molto più di quanto avvenga, e possa avvenire, con l’adozione.
Questi nuovi modi di “fare famiglia” sono ormai tra noi. Come le modalità “devianti” del passato oggi divenute normali, possono piacere o non piacere. Ma una politica dell’intolleranza, del disgusto, o anche solo dell’ignoranza non è il miglior modo per aiutarli ad evolvere nel modo più equilibrato e rispettoso dei bisogni e diritti di tutti, in primis dei figli.