domenica 17 marzo 2013

l’Unità 17.3.13
Boldrini e Grasso. L’Italia che cambia
Eletti presidenti di Camera e Senato: dalla parte degli ultimi e dei cittadini onesti
L’ex magistrato: fedeltà alla Costituzione
L’ex portavoce Onu per i rifugiati: ascoltare la sofferenza
Bersani: il segno del cambiamento
di Simone Collini


La nottata di trattative finita con la presa d’atto del «disimpegno» di Mario Monti, l’annuncio a sorpresa di Pier Luigi Bersani incontrando deputati e senatori Pd di primo mattino, il risultato positivo che arriva subito a Montecitorio e poi, dopo un pomeriggio caratterizzato da discussioni e spaccature dentro Scelta civica e Movimento 5 Stelle, il bis a Palazzo Madama.
Laura Boldrini e Pietro Grasso sono i nuovi presidenti di Camera e Senato. Due nomi tirati fuori dal cilindro dal leader Pd dopo aver registrato che l’offerta di «corresponsabilità» è caduta nel vuoto. «Con i Cinquestelle c’è stato un confronto non improduttivo ma che non è andato a buon fine, mentre da altri c’è stato un disimpegno che ha causato un’evidente sorpresa», dice Bersani incontrando alle otto e mezza del mattino i gruppi parlamentari Pd. Il riferimento è a Monti, che incassato il no del Colle alla sua candidatura alla presidenza del Senato si è rifiutato di proporre altri nomi di Scelta civica. Bersani lo aveva detto, «se costretti, faremo da soli». E a deputati e senatori democratici propone di votare due nomi, quello della ex portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati e quello dell’ex procuratore antimafia, invisi a Lega e Pdl, ma con i quali conta di sparigliare le carte, lanciare un chiaro segnale di rinnovamento e far uscire allo scoperto i parlamentari montiani e quelli del M5S. Una strategia che si rivela vincente. E che consente a Bersani di guardare con ottimismo alla prossima tappa, ovvero l’incarico a formare quel «governo di cambiamento» prospettato all’indomani delle elezioni. Perché se è vero, come il leader del Pd dice all’inizio della lunga giornata, che «questa legislatura nasce con degli elementi di fragilità», è anche vero, come dice quando è sera e ha incassato il doppio successo, «se si vuole, cambiare si può».
GLI APPLAUSI DELL’AULA
Che sarà una giornata da seguire col fiato sospeso si capisce fin dalla votazione alla Camera: il centrosinistra ha i numeri per far eleggere in autonomia la deputata di Sel, ma la decisione di Scelta civica di votare come Pdl e Lega scheda bianca non lascia indifferenti i vertici del Pd. La votazione finisce con la conferma di Boldrini con 327 sì, contro i 108 incassati dall’esponente del M5S Roberto Fico e le 155 bianche. E gli applausi al discorso di insediamento della neopresidente della Camera, ai quali si uniscono anche Cinquestelle e montiani, non servono a rassicurare Bersani.
Dopo una conversazione telefonica avuta in mattinata, Monti cerca di contattare il segretario del Pd ma senza riuscirci. Il segretario democratico, dopo aver votato alla Camera, lascia Roma per andare alla casa di Piacenza (oggi sarà invece a Brescia per partecipare a un’iniziativa sugli otto punti programmatici). Qualche telefonata può arrivargli mentre è in volo, ma se continua a non farsi trovare prima che inizino le votazioni al Senato è perché l’irritazione nei confronti di Monti c’è eccome. Tanto più che iniziano a circolare voci di trattative tra Pdl e Scelta civica e anche di contatti diretti tra il Professore e il gruppo dirigente berlusconiano, che schiera al Senato contro Grasso l’ex presidente Renato Schifani. Dopo una lunga riunione in cui si registrano differenti posizioni, anche i senatori di Scelta civica decidono di votare scheda bianca. E visto che qualcuno aveva proposto di votare Grasso, qualcuno Schifani, per controllarsi l’un l’altro e dimostrare di seguire l’indicazione di voto, entrano ed escono dall’urna a passo svelto.
URLA E DIVISIONI NEI CINQUESTELLE
Ma è soprattutto all’interno di un altro gruppo che si crea una frattura, quello Cinquestelle. I 53 senatori grillini si chiudono in commissione Industria per decidere la linea e a più riprese si sentono da fuori urla concitate. In un primo momento si decide per la libertà di coscienza, poi arriva il contrordine e si va in Aula con il mandato a non fare la «stampella» a nessuno. Soprattutto i senatori del Sud iniziano però a preoccuparsi delle conseguenze di un loro disimpegno che possa favorire l’elezione di Schifani a seconda carica dello Stato. E benché il voto sia segreto, si capisce che qualche senatore M5S ha votato per l’ex procuratore antimafia. Grasso infatti viene eletto con 137 voti, 14 in più di quanti siano i senatori di Pd, Sel e Svp, mentre Schifani resta a quota 117 (tanti quanti sono Pdl e Lega) con 52 schede bianche e 7 nulle.
E ora? L’elezione di due presidenti provenienti dalle fila del centrosinistra, per il centrodestra, rende più vicine le urne anticipate. Di tutt’altro avviso Bersani, che ora aspetta l’avvio delle consultazioni da parte di Giorgio Napolitano, mercoledì, vedendo più vicino l’incarico.

l’Unità 17.3.13
E nella notte arriva la mossa del cavallo
di Maria Zegarelli


È stata la mossa del cavallo». Sorride Enrico Letta. Stavolta il Pd e Pier Luigi Bersani hanno stupito con una mossa a sorpresa. I conigli dal cappello? «No, due dei nomi che aveva in testa per il suo governo. È da lì che ha pescato, non nel cappello». Parola di un fedelissimo, riferita a voce bassa su un divano del Transatlantico. Una decisione maturata all’una di notte, dopo la telefonata di Bersani a Mario Monti e la certezza che Lista civica non avrebbe proposto altri nomi oltre a quello del premier in carica. Una telefonata che ha provocato una calata di gelo e grandine sui rapporti tra i due leader e che a quel punto ha aperto un altro scenario. Bersani non fa mistero del suo fastidio: «Con M5S c’è stato un confronto non improduttivo dice parlando con i cronisti ma non è andato a buon fine, da altri c’è stato un disimpegno che ha causato un’evidente sorpresa». Un disimpegno, «incomprensibile», lo definisce Letta che con il Professore ha sempre avuto un canale preferenziale.
«Adesso dobbiamo fare una scelta che rompe gli schemi, che esce dalle solite logiche dei bilancini della politica», è stato il ragionamento del segretario riunito con Letta, Dario Franceschini, Davide Zoggia e pochi altri dirigenti nel cuore della notte. Perché anche l’ipotesi di votare a scatola chiusa il candidato grillino, Roberto Fico, sarebbe stato un salto nel buio con un Movimento che non avrebbe comunque esitato ad umiliare e attaccare il Pd. «Se dobbiamo scegliere noi sappiamo cosa fare», dice il leader Pd di prima mattina.
I nomi di Laura Boldrini e Pietro Grasso erano già circolati l’altro ieri, quando si era capito che con molta probabilità Monti non avrebbe ceduto ad altri centristi lo scranno più alto, né tantomeno avrebbe voluto un suo deputato eletto presidente della Camera solo con i voti del Pd. A spingere il segretario verso una proposta che desse un segnale forte e chiaro al Paese sono stati soprattutto le new entry del partito, i Giovani turchi da una parte, che venerdì pomeriggi hanno avuto lunghi conciliaboli con Gennaro Migliore di Sel, ma anche i renziani che chiedevano rinnovamento. È stato Andrea Orlando a comunicare al segretario le sollecitazioni che arrivavano su Boldrini. La decisione finale è stata comunicata a Giorgio Napolitano ieri mattina molto presto, prima ancora della riunione dei gruppi di centrosinistra di Camera e Senato. «È stato commovente il momento in cui Bersani ci ha detto chi avremmo dovuto votare. È partito un lunghissimo applauso», racconta Caterina Pes. E un lungo applauso è andato a Dario Franceschini quando ha detto che quella decisione era la migliore, idem Anna Finocchiaro. Bersani e Vendola portano a casa un risultato che nessuno aveva previsto e se lo godono seduti uno affianco all’altro mentre ascoltano la neopresindente che parla e raccoglie applausi uno dietro l’altro e stupisce.
«I grillini hanno sempre chiesto un’innovazione, vorrei sentirgli dire che Boldrini e Grasso non rappresentano una grande innovazione, perciò ora dovrebbero spiegare perché non li votano», dice Franceschini. Difficile spiegarlo, tanto difficile che il M5S alla Camera si alza in piedi e si spella le mani durante il discorso della neopresidente, pur non avendola votata. È lì che si apre la breccia che al Senato porterà molti di loro a disobbedire. È questa la mossa del cavallo di Bersani che soltanto il giorno prima veniva dato per morto da qualche quotidiano e «spianato» da qualche altro. E che invece oggi, qui, davanti a questo discorso così dirompente e semplice nello stesso tempo di Laura Boldrini, che porta il mondo reale a Montecitorio, e a quello di Piero Grasso al Senato, che racconta di uomini di Stato morti di mafia, di esodati, immigrati, imprenditori e giovani a cui la crisi e la cattiva politica hanno ucciso il futuro -, incassa consensi inattesi. Quello di Matteo Renzi, che definisce Boldrini e Grasso «due ottime candidature» e dei renziani tutti, compreso Matteo Richetti che dice «Il Pd non insegue nessuno e Bersani oggi ha mostrato grande coraggio». E di Walter Veltroni che racconta quella di oggi come una bella giornata. Non che all’improvviso sia tutto dimenticato, ci sono altre caselle da riempire, dai capigruppo, ai vicepresidenti di Camera e Senato, ai questori... I franceschiani non sono disposti a mollare: il passo indietro di Franceschini (che ha dovuto chiedere ai suoi in maniera esplicita di non scrivere il suo nome durante il quarto voto per la Presidenza della Camera) e il sostegno convinto a Boldrini sono un dato. Ma l’aspirazione alla carica di capogruppo è un dato altrettanto certo e forse Franceschini e Finocchiaro potrebbero essere prorogati. «Per ora godiamoci questo momento», dice Davide Zoggia, ma si ragiona ai passi successivi e martedì anche quella pratica dovrà essere affrontata. C’è chi dice che così Bersani è destinato a fallire con il governo, che ha chiuso il dialogo con Monti e anche con la Lega a cui Boldrini non piace affatto. «Abbiamo parlato al Paese», risponde Matteo Orfini.

Corriere 17.3.13
I nomi scelti di notte e gli applausi. Partenza di una legislatura incerta
La scelta a sorpresa dei candidati che ha innescato la virata
di Aldo Cazzullo


Bersani aveva scovato nottetempo due nomi per stanare i grillini, e in parte c'è riuscito: Laura Boldrini applaudita dai deputati 5 Stelle in piedi per alcuni passaggi del suo discorso, Pietro Grasso votato anche da 12 senatori di Grillo. Il segretario Pd si è probabilmente guadagnato l'incarico di governo, ma il suo cammino non è affatto in discesa: «Un conto è votare al ballottaggio tra l'ex indagato per mafia Schifani e l'ex pm antimafia Grasso, un altro è votare la fiducia a un governo politico» spiega una «cittadina» che implora l'anonimato («se lo sa Casaleggio...»). La giornata allontana la chance già vaga di un governo istituzionale: con meno di un terzo dei voti popolari il centrosinistra si assegna la guida di entrambe le Camere, con un Berlusconi in disparte e un Monti indispettito. Il neopresidente Grasso tiene in Senato un discorso di alto profilo, come se il suo percorso istituzionale potesse portarlo ancora più lontano. Ora Bersani proseguirà nel tentativo di seduzione dei grillini, preparando un governo di volti nuovi tra cui molti giovani e donne, e puntando sulla riduzione dei parlamentari, sul taglio dei loro stipendi e sull'ambiente, tema che ricorre in ogni gesto e intervento dei «cittadini». Ma non è affatto detto che le elezioni anticipate siano più remote.
Al Senato, dove si consuma la vera battaglia, il clima è smorto, già quasi da fine corsa, almeno sino al sollievo finale del Pd (pure la Finocchiaro, silurata all'ultimo momento, simula soddisfazione). Lontanissima l'atmosfera drammatica dello scontro del 1994 tra Spadolini e Scognamiglio, e anche la guerra di manovra del 2006 che portò alla tribolata elezione di Franco Marini. Stavolta la tensione si consuma lontano dall'aula, nelle riunioni a porte chiuse dei montiani, costretti a votare scheda bianca per non dividersi, e dei grillini, lacerati tra la linea del capogruppo Crimi e di Casaleggio — sempre più vero leader —, equidistante tra i poli, e la pressione che sale dal web per sostenere Grasso o comunque entrare in partita. Dalla sala dove sono raccolti i senatori Cinque Stelle arrivano urla inquietanti. «La democrazia partecipativa è davvero uno stress» sospira il «cittadino» Bartolomeo Pepe, prima di infilarsi in una riunione notturna di ricucitura.
L'applauso con cui la sinistra saluta la vittoria di Grasso è di stima più che di trionfo. E quello con cui la destra accoglie l'arrivo in aula di Berlusconi con occhialoni scuri è più tiepido del solito. Il Cavaliere si siede all'estrema destra, assistito dai pretoriani: Bonaiuti, Verdini con capello lungo fluente sul collo, Ghedini. Calderoli vola subito alto: «Presidente, questa è la XVII legislatura, cominciata alle Idi di Marzo, e siamo nel 2013. Era il caso di votare pure con schede viola? Non è che finirà tutto male e subito?». Il presidente protempore, che in assenza di Andreotti è il novantatreenne Emilio Colombo, ride: «Non mi pare il caso di essere superstiziosi». Sandro Bondi siede in alto accanto alla fidanzata Manuela Repetti. Luigi Compagna, figlio dell'insigne meridionalista Francesco, è vicino a Scilipoti. Razzi si paragona al Papa: «Siamo stati entrambi toccati dal Poverello di Assisi. Io l'ho sognato: ero caduto in un pozzo, e un frate mi tirava su. Era lui: san Francesco».
La linea dei montiani è votare scheda bianca: Casini, Lanzillotta e altri la piegano ostentatamente e passano veloci per mostrare che rispettano la consegna; la Alberti Casellati del Pdl urla contro la violazione della segretezza del voto; Colombo non sente o finge di non sentire. L'unico che si attarda in cabina è Monti, di cui si racconta una certa irritazione per lo stop subito dal Pd (e dal Quirinale). I grillini si dividono tra chi insiste sul candidato di bandiera, il venezuelano Luis Alberto Orellana, chi vota scheda bianca, chi cede agli appelli del web a sostenere Grasso «pur di non avere più Schifani come seconda carica dello Stato». L'olimpionica Joseda Idem, che sovrasta la media dei senatori di una spanna, vota felice e spensierata come una ragazzina. Tremonti e l'operaista Mario Tronti si incrociano davanti all'urna e si salutano con un inchino reciproco come dignitari imperiali. Razzi, finora palesemente sottovalutato a favore del sovrastimato Scilipoti, chiarisce il suo sogno premonitore: «Fino a quel momento nella vita ero un perdente. Dal mattino dopo mi è andato tutto bene. Compresa stavolta: credevano di fregarmi mettendomi solo quarto in lista in Abruzzo; invece, grazie a san Francesco, eccomi qua».
Berlusconi è preceduto e annunciato da Mariarosaria Rossi, molto festeggiata, che verifica il suo potere raccogliendo saluti e omaggi. Il Cavaliere si toglie gli occhiali da ipovedente per votare e poi si consegna al calore dei suoi: Francesco Giro accenna un baciamano; la Pelino gli ha portato come d'abitudine i confetti da Sulmona. Per ultimo vota Emilio Colombo, sostenuto a braccia dai commessi tipo veterano cinese della Lunga Marcia; poi respinge la richiesta di Calderoli di considerare nel calcolo della maggioranza relativa pure le schede bianche, e avvia lo spoglio. Razzi rinvia per altri dettagli biografici all'opera prima: Le mie mani pulite. I grillini guardano con disgusto le vecchie facce, contraccambiati: «Io con loro non ci parlo - dice Gasparri -. Piuttosto vado a trovare i detenuti di Poggioreale. Come dice Giampiero Mughini: aborrrro». E comunque qualcosa è successo, il muro è caduto, il Movimento 5 Stelle rischia di dividersi ma comincia a fare politica, la scelta di una militante per i diritti umani e di un magistrato antimafia (che l'altro ieri ha presentato un disegno di legge anticorruzione ispirato da don Ciotti) li ha scossi. Ora Bersani tenterà di allargare la breccia, ma sarà difficilissimo; tanto più che dai montiani per ora non viene nessun aiuto, e il Pdl aspetta sulla riva del fiume. Alla fine Schifani va a salutare Grasso; la sinistra applaude.
Il nuovo presidente del Senato tiene un discorso cita Aldo Moro e gli uomini della sua scorta, Teresa Mattei partigiana e ultima donna della Costituente, le 900 vittime della mafia, i servitori dello Stato caduti in servizio, le parole della vedova di Vito Schifani al funerale di Giovanni Falcone e dei suoi agenti - «sappiate che vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio» - e quelle che gli sussurrò Vito Caponnetto all'entrata nell'aula del maxiprocesso: «Fatti forza ragazzo. Vai avanti con la schiena dritta e la testa alta. E segui sempre e soltanto la voce della tua coscienza». Grasso annuncia «una fase costituente, che sappia stupire e stupirci». Il suo cammino può proseguire. Quello della legislatura sarà più difficile.

La Stampa 17.3.13
Bersani vince il primo round
Dodici grillini hanno votato per Grasso al Senato. Urla durante la riunione del Movimento, salta la diretta
di Ugo Magri


L’apriscatole, anziché i grillini, l’ha messo in opera Bersani per forare la corazza del M5S. E c’è riuscito indicando due candidati, per la presidenza delle Camere, scelti scientificamente per mettere in crisi i neo-eletti a cinque stelle. Con la Boldrini c’è andato molto vicino, a giudicare dalla standing ovation con cui il discorso d’insediamento della neo-presidente è stato accolto (unici mogi e silenti: i berlusconiani). Il segretario Pd ha fatto centro invece al Senato, aiutato peraltro da un grossolano errore tattico del centrodestra. A fronte del magistrato-simbolo Grasso, il Pdl ha messo in campo una personalità come Schifani, invisa come poche al fronte anti-mafia siciliano. Col risultato inevitabile di spingere un plotone di senatori grillini nelle braccia accoglienti di Bersani. Insostenibile la teoria che i 14 voti in più raccolti da Grasso (sulla carta 123, cresciuti a 137) siano giunti da altri gruppi.
Ha ragione dunque Bersani a dichiararsi «molto, molto contento»: senza ombra di dubbio è lui il trionfatore del primo round. E ha voglia Berlusconi (presentatosi nell’emiciclo con gli occhialoni scuri causa uveite) a sostenere che «queste elezioni non valgono niente»: valgono eccome. Se non altro perché martedì Napolitano avvierà le consultazioni di governo. E alla luce dell’evoluzione generale, favorevole al dialogo tra Pd-M5S, il Capo dello Stato non potrà non conferire l’incarico a Bersani. Il quale, una volta ricevuto il pallino del gioco, avrà tempo e modo di approfondire il discorso appena avviato con i Cinque Stelle.
Altro fiasco tattico del Cavaliere: nella illusoria speranza di far vincere Schifani, ha tentato di «adescare» Monti. Come? Facendo leva sulla delusione del Prof, che sarebbe volentieri andato a presiedere il Senato, sennonché Napolitano gli ha detto di no. Ma la trattativa tra Silvio e Mario è andata a ramengo perché, in cambio del sostegno a Schifani, il Prof «chiedeva la luna» (così perlomeno assicurano nel Pdl). Voleva cioè l’appoggio gratis del centrodestra a un governo Bersani-Monti, dove però i berlusconiani non avrebbero messo piede... Alla fine Scelta Civica si è astenuta, tanto alla Camera quanto al Senato. Un’astensione nel secondo caso determinante, e dunque molto apprezzata a sinistra, in quanto quei 21 voti a disposizione avrebbero ribaltato l’esito del match su Grasso. «Tanto Monti rimane ininfluente», prova a minimizzare la sconfitta il Cavaliere. Ma, pure in questo caso, tanto ininfluente il Professore non è, se è vero che proprio Napolitano ieri mattina ha diffuso una lunga nota per dargli atto di «senso della responsabilità e spirito di sacrificio», sottolineando come sia «importante che in sede Ue, e nell’esercizio di ogni iniziativa possibile e necessaria, il governo conservi la guida autorevole di Monti fino all’insediamento del nuovo governo». Insomma, Scelta Civica con l’astensione è rimasta in zonagol. Il Pdl, votando Schifani, si è messo in fuorigioco.
Ma la vera novità di ieri viene dai grillini. Spiazzati e spaccati al loro interno dalla candidatura Grasso fino al punto di rompere la disciplina interna. La riunione decisiva è stata accompagnata da urla e strepiti, stavolta senza webcam democraticamente accesa. E qui sta l’autentico successo di Bersani: nell’avere inaugurato un metodo (l’«apriscatole») che può valere, tra un mese, per la scelta del successore di Napolitano al Quirinale. E dalla prossima settimana, per tentare ciò che ancora ieri mattina sembrava impossibile, un ministero da lui presieduto. «La prossima tappa è il governo del Paese», conferma Bersani, «bisogna costruire un meccanismo che permetta di riuscirci... ». Chiaramente, le incognite restano. Sarà interessante misurare, ad esempio, la reazione di Grillo e di Casaleggio. Da destra mettono il sale sulla ferita, con Calderoli che sfotte: «Benvenuti nella Casta, vi è bastato un giorno per entrarci». Intanto, però, la XVII legislatura repubblicana è in condizione di prendere il via.

È la vittoria dei “turchi” di Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando
Repubblica 17.3.13
E il Pd si ricompatta I renziani: “Chapeau”
La mossa a sorpresa di Bersani “Ora D’Alema sa che non c’è il piano B”
Blitz notturno. Il sì di Giovani turchi e renziani
di Goffredo De Marchis



LA RUOTA gira, direbbe Bersani. I renziani sono i più entusiasti della mossa del segretario. «Scelte ottime, personalità nuove e straordinarie. Magari durano due mesi, ma tanto di cappello».
LO DICE Luca Lotti, neodeputato, quasi un fratello del sindaco di Firenze. La senatrice umbra Nadia Ginetti ha un sorriso largo così: «Questo è il cambiamento che vogliamo noi. Oggi si può essere orgogliosi di rappresentare il Pd». Quando è ancora in corso il ballottaggio al Senato, Bersani già vola verso Milano, tappa intermedia prima di tornare a casa a Piacenza. Vuole solo dormire, dopo una notte in bianco, la notte «in cui abbiamo dimostrato che cambiare si può». Poi, l’esito del voto a Palazzo Madama lo spinge a valutare la decisione dei grillini. «C’è gente che comincia a capire che vogliamo davvero il cambiamento. Non a chiacchiere, coi fatti. Dimostreremo che siamo pronti a seguire ancora questa strada».
Nessuna concessione all’antipolitica, sia chiaro. «Semmai, Boldrini e Grasso dimostrano che la polita sa offrire un’immagine nobile dell’Italia, che le istituzioni sono vive. È tutta salute, vedrete». Il nodo politico del governo però sta ancora lì, grande e intricato. Bersani cercherà di scioglierlo con la politica dei piccoli passi, ricostruendo innanzitutto il rapporto con Napolitano. Ieri lo ha fatto con una telefonata «delicata» che ha sorpreso il presidente della Repubblica, che ha registrato qualche lungo secondo di silenzio dopo l’annuncio. Ma alla fine la tensione si è sciolta.
Sono le otto di mattina, la decisione finale presa da Bersani, Dario Franceschini, Enrico Letta e Nichi Vendola è diventata concreta da appena mezz’ora. Il leader del Pd chiama il Quirinale. «Abbiamo deciso per Boldrini e Grasso ». Il capo dello Stato è spiazzato, ma non si perde d’animo. «Sono due scelte importanti. Conosco bene Grasso e lo stimo. Conosco meno la Boldrini, ma so del suo impegno». È il via libera definitivo. A notte fonda, dopo la riunione di Scelta civica che rinuncia a candidare un montiano, solo in pochissimi conosco i presidenti in pectore. Il “cambiamento” prevede il passo indietro dei candidati di partenza, Franceschini e Finocchiaro. Il primo partecipa all’indicazione di Laura Boldrini. E gestisce la comunicazione ai parlamentari democratici con un discorso
alto. Tra i dirigenti del Pd è quello che conosce meglio Boldrini. La voleva candidata nelle liste democratiche, ma arrivò prima Vendola. Anna Finocchiaro viene avvertita intorno alle 8 da Bersani. Reagisce da professionista e da signora, senza nascondere l’amarezza. Per questo Bersani la invita alla Camera e all’ora di pranzo l’accompagna sottobraccio nel Transatlantico, come se fosse lei la vincitrice.
Intorno alle 4 di notte, tanti sono ancora svegli. Si sparge la voce che il Pd vira su una donna giovane e nuova a Montecitorio. Per questo alcuni pensano a Marianna Madia anche se il suo nome non è mai stato nella testa del segretario. Per qualche ora, sembra che possa tenere la coppia rosa Boldrini-Finocchiaro. Ma qui entra in ballo il braccio di ferro, ormai scoperto, con i tifosi interni delle larghe intese, primo fra tutti D’Alema. Escludendo la capogruppo del Senato, Bersani, raccontano i suoi fedelissimi, manda un messaggio chiaro a quella fetta del partito che pensa a «manovrette »: «C’è solo Pier Luigi in campo per il governo. Non esistono piani B». Lo schema del piano B prevedeva infatti il rapido trasferimento da Palazzo Madama a Palazzo Chigi per la Finocchiaro in caso di fallimento del tentativo Bersani. La senatrice finisce stritolata in questo vortice e non è la prima volta che le capita.
Il segnale arriva anche ai giovani del Pd, alle new entry, sui diffonde attraverso i social network che festeggiano i volti inattesi. È la vittoria dei “turchi” di Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando, dei deputati liberi pensatori come Andrea Martella, dei figli delle parlamentarie come Pippo Civati, dei renziani. Ora Bersani è chiamato a tenere unito il Pd dei giovani e i “maggiorenti”, mentre gli equilibri cambiano e i nomi dei presidenti sono lì a testimoniare la rivoluzione in atto. Correnti, scettici, ambizioni. Il Pd è anche questo, anche se da Largo del Nazareno spiegano che tutti sono «in grado di leggere il livello delle reazioni su Internet». Quindi si daranno una regolata. È la vittoria del nucleo emiliano: Vasco Errani, Miro Fiammenghi e Maurizio Migliavacca, sostenitori.
C’è però da allontanare il fantasma di una vittoria di corto respiro. La posta vera è il governo, è Bersani premier. «Se si valutano bene i numeri si vedrà che lo spiraglio c’è», dice Migliavacca con la valigia in mano. «Torno a casa di corsa. Ho fatto il mio lavoro, mi pare», dice soddisfatto. Non ci sono alternative al segretario: «Il cambiamento può guidarlo solo lui», ripetono quelli che gli sono più vicini. Ma i sostenitori di un accordo con il Pdl aspettano un passo falso del leader. Anche piccolo. Il sentiero del resto rimane stretto e pieno di ostacoli.

La Stampa 17.3.13
Sorpresa per le candidature dell’ultima ora
La svolta matura nella notte con l’occhio rivolto alle urne
Sacrificati i candidati di partito per dare un segnale agli elettori
di Carlo Bertini


Abbiamo dato un messaggio di fiducia al paese, abbiamo messo ai vertici delle istituzioni personalità eccellenti e ricompattato il Pd, insomma ci sono tutti i presupposti per avviare le consultazioni in modo positivo». È soddisfatto Pierluigi Bersani quando, al termine di una giornata chiusa in positivo, nei conversari con i suoi tira le somme di quanto è riuscito a portare a casa. Perché il leader del Pd ritiene di aver fatto capire così quale possa essere il profilo del governo che ha in testa, «tutti nomi autorevoli, competenti e di rinnovamento», dicono i suoi consiglieri senza scoprire ancora le carte. E negano ciò che pensano i big più disincantanti, quelli che ritengono che così il Pd abbia tagliato tutti i ponti per poter dare un governo al paese; cioé che la «mossa del cavallo» sia stata studiata in chiave elettorale, con la testa rivolta ad un voto anticipato a giugno con la coalizione nuovamente guidata da Bersani.
Una mossa coronata però da un giudizio unanime, «ottima», ma accompagnata dunque da una domanda altrettanto corale, «e da domani che succede? ». Nel Pd tutti rimangono piacevolmente basiti nel sentir pronunciare quei due nomi al segretario e alle nove di mattina l’assemblea dei gruppi esplode in una standing ovation.
La mossa che fa uscire Bersani dal cul de sac in cui era finito matura intorno alla mezzanotte di venerdì, quando Monti comunica che non avrebbe dato il via libera a nessuno dei suoi candidati alla Camera e al Senato. In una stanza sono chiusi da ore Bersani, Letta, Franceschini, affiancati da Errani e Migliavacca. Sanno che possono provare a forzare la mano con il tandem Franceschini-Finocchiaro, ma si guardano in faccia e si rendono conto che «una cosa così non l’avremmo potuta reggere all’esterno». Sanno che a questo punto l’operazione non serve più ad allargare un’area per un futuro governo e piuttosto che fare una scelta interna, a questo punto è meglio farne due che parlino «all’esterno». Valutano che facendo cadere una candidatura sarebbe dovuta cadere anche l’altra e si passa alla scelta dei nomi «nuovi». Il più forte degli esterni nelle file degli eletti risulta Piero Grasso, tutti concordano sul suo nome che già circola da giorni e allora si va avanti. «Alla Camera ci vuole una donna»: e a questo punto, sapendo che i «turchi» in asse con i vendoliani hanno in animo di lanciare il nome della Boldrini per spaccare il gruppo, Errani è il primo a tirarlo fuori. E Franceschini, che la aveva già proposta come possibile ministro del governo Monti, benedice la scelta, pur non essendo certo entusiasta - per usare un eufemismo - di farsi da parte e rinunciare ad un ruolo così prestigioso. E quando Bersani in assemblea propone i due nomi, Franceschini prende la parola e si immola, «va dato un segnale di cambiamento e ora vi chiedo di votare senza esitazioni».
E se questa mossa di sicuro fa uscire Bersani rafforzato - lo stesso capo dello Stato informato al telefono mostra di apprezzare le scelte - nello stesso tempo chiude quello spiraglio aperto dai leghisti per far nascere un governo a guida Pd. Non a caso, un leghista di peso come Giancarlo Giorgetti, reagisce stizzito prima di entrare in aula alla Camera, perché sì «fino a ieri questa possibilità esisteva, ma se ora Bersani avanza queste candidature “grilline” il discorso si chiude qui». E quindi al grido di battaglia del leader Pd, «la prossima tappa è il governo», fanno da contraltare le considerazioni più fredde di molti big, primo tra tutti Matteo Renzi. Che giudica quella di Bersani una mossa molto apprezzabile anche se resta il problema di formare un governo. E tra i vari scenari, il più suggestivo è quello di chi vede nella Boldrini un possibile competitor contro Renzi nelle primarie in caso di voto, per sostituire in corsa lo stesso Bersani.

La Stampa 17.3.13
Veto assoluto sulla Boldrini. L’intesa Lega-Pd muore in culla
Salta l’ipotesi governo di scopo. Il Carroccio teme le urne
di Giovanni Cerruti


Forse bastava una telefonata. E invece no, nemmeno quella. «Davvero? ». Davvero, spiegano a Roberto Maroni con un sms, quando sono le nove del mattino. È bastata una notte e addio, i lavori in corso sono già finiti. L’accoppiata Boldrini-Grasso non poteva piacere. Meglio, molto meglio quell’accordo che partiva con Anna Finocchiaro presidente del Senato. «Ma a quanto pare il Pd ha voluto tirar giù la saracinesca», dice Massimo Bitonci, capogruppo al Senato. E Davide Caparini, deputato bresciano: «Complimenti, così riescono nella grande impresa di farci votare Schifani al Senato».
La telefonata a Maroni è arrivata troppo tardi. «A cose fatte», dice lui con un certo fastidio. «Ora ci sono due schieramenti, e con questi due Presidenti di Camera e Senato ci spingono a rafforzare l’alleanza con il Pdl». Un bicchiere ancora mezzo pieno: «Meglio per il nostro progetto nelle regioni del Nord, avremo piú tempo. Provino a metter su un governo Pd e “grillini”, se ci riescono. E poi vedremo quanto dura». Mercoledì Maroni sarà a Roma, con la delegazione che sale al Quirinale per le consultazioni. Difficile che in tre giorni gli umori possano cambiare. E a questo punto è impensabile che altre telefonate possano bastare.
Perché ai leghisti, per cominciare male la giornata, il nome di Laura Boldrini non è mai piaciuto e non piace. «Ma come, proprio lei che sulle questioni di profughi e immigrazione si è sempre messa di traverso, quando Bobo era al Viminale? », dice il senatore milanese Massimo Garavaglia. Gianluca Pini, deputato romagnolo è più spiccio. «Ma se gli pisciava in testa un giorno sì e l’altro pure». Su Grasso, invece, meno turbamenti. Anche se i buoni rapporti con Maroni pare siano appena formali, collaborazione senza troppe scosse negli anni al ministero degli Interni e nulla più.
«Non c’è più nulla da trattare», annuncia ai senatori il capogruppo Bitonci. La saracinesca e chiusa e si possono buttare le bozze dell’intesa, i sei punti che il senatore bergamasco Giacomo Stucchi venerdì pomeriggio riassumeva così: «Via il patto di stabilità, interventi per lavoro e sviluppo, riduzione dei parlamentari, riduzione fiscale, fine del bicameralismo perfetto e infine riforma elettorale». Un programma per almeno due anni di governo. Ma in una notte la disponibilità della Lega è svanita. Boldrini e Grasso due ostacoli impossibili da superare.
«Peccato - dice a sera Bitonci -, per colpa del Pd si è persa una grande occasione. Si stavano creando le basi per una legislatura di riforme». E bastano queste poche frasi per intravvedere una certa delusione. «Tra Bersani, Grillo e Monti si son voluti creare una loro maggioranza -insiste Sergio Divina, senatore trentino -. Ora si mettano a governare, se ci riescono. Noi eravamo all’angolo del ring, ora siamo fuori. E prima di capire come andrà a finire aspettiamoci qualche intemerata di Grillo dal suo blog». E non sembrano i migliori auguri di buon lavoro, al contrario é lo sfogo di chi non l’ha presa bene.
Maroni domani riunisce i suoi a Milano, in via Bellerio. Ci sarà poco da dire. «Faranno nascere, se riescono, un governo sinistra-centro»: Pd più «grillini» o «montiani». L’attesa vera è per mercoledì, con l’inizio delle consultazioni al Colle. Sperando che non vada a finire come nella Lega si teme, con nuove elezioni alle viste. E queste sì che sarebbero un rischio da evitare, per una Lega ha appena preso il Pirellone con Maroni, e va bene, ma ha perso un terzo dei voti. Non è detto che ritornino in cassa così in fretta. E la Lega ha bisogno di tempo. E di un governo.

da La Stampa di oggi:

«Golpe». È la parola che corre di bocca in bocca tra i parlamentari del Pdl dopo aver preso in faccia l’uno-due dell’elezione di Boldrini alla Camera e di Grasso al Senato. È la parola che hanno sentito pronunciare a Berlusconi quando era chiaro che Schifani sarebbe andato sotto. «È un golpe. Dobbiamo mobilitarci, scendere in piazza, basta minuetti, basta cortesie istituzionali, anche con il Colle. Dobbiamo occupare le piazze come ha fatto Grillo con i suoi ragazzi», dice furioso il Cavaliere

il Fatto 17.3.13
La buona politica
di Antonio Padellaro


Molto si dirà sulle divisioni dei senatori a cinque stelle, sulla grida che salivano dalle stanze di Palazzo Madama dove i ‘cittadini’ siciliani si ribellavano, giustamente, all'idea di far vincere l'avvocato dei mafiosi Schifani perché costretti a non votare il magistrato antimafia Grasso. Ed è stato così che, descritti come gli automi radiocomandati da Grillo e Casaleggio, ieri hanno fatto di testa loro, riversando sul candidato democratico quanto bastava per farlo arrivare tranquillo alla presidenza del Senato. Mentre qualche ora prima si erano visti i grillini di Montecitorio appollaiati sui banchi più alti, come i Montagnardi della Rivoluzione francese, spellarsi le mani per Laura Boldrini, presidente della Camera e “di chi ha perduto certezze e speranze”. È l’effetto tsunami che scombina i vecchi giochi e costringe Bersani a smacchiare Franceschini e Finocchiaro, candidati d'apparato, perché altrimenti, come da giorni gli ripetevano i giovani turchi Or-fini e Fassina, “alle prossime elezioni Grillo ci spazza via”. Poiché, bisogna dirlo, l’eterogenesi dei fini ha fatto sì che la guerra fra Pd e M5S per ammazzarsi a vicenda abbia prodotto qualcosa di nuovo che giova a entrambi, costringendo Berlusconi a osservare la sconfitta dietro un paio di lenti scure circondato dai suoi impiegati attoniti. Ci sarà tempo per tornare a spararsi contro, ma intanto il movimento di Grillo impara che per cambiare la politica bisogna avere il coraggio di farla rischiando all’occorrenza di sporcarsi le mani. Mentre il partito di Bersani ora sa di poter giocare qualche carta in più quando la settimana prossima il candidato premier andrà al Quirinale per ottenere un incarico che Napolitano sembra riluttante a dargli. Dopo una giornata così, l’idea che sia tutta un’illusione passeggera perché presto si tornerà alle urne è davvero crudele. L’uomo con gli occhiali neri non aspetta altro.

il Fatto 17.3.13
Bersani fa la mossa del cavallo ed esce dall’angoloI giovani turchi e gli uomini del segretario stoppano l’inciucio
Ma il governo resta una strada stretta. L’alternativa sono le urne a giugno
di Wanda Marra


Oggi sono contento. Abbiamo dimostrato che è nell’unione del Pd che sta la forza. Il governo è più vicino? Non lo so, non mi spingo a tanto”. Sono quasi le 19, Piero Grasso è presidente del Senato da 5 minuti. Miguel Gotor, il consigliere politico più vicino a Pier Luigi Bersani, non si sbilancia, non si spreca in pronostici. Non è tempo di ottimismi, non è tempo di immaginare magnifiche sorti progressive e democratiche. Ma di certo è la prima giornata dopo le elezioni in cui il Pd e il suo segretario escono dall’angolo. Con la proposta di Laura Boldrini per la presidenza di Montecitorio e di Pietro Grasso a quella di Palazzo Madama, Bersani ha azzeccato la mossa del cavallo, ha fatto un goal dal calcio d’angolo.
“RAGASSI, fatemi dire una cosa a Di Traglia”. Tarda mattinata, il sole illumina il Transatlantico, è appena finita la votazione per la presidenza di Montecitorio. Bersani esce dall'Aula, da solo. Gli si avvicina un cronista, lo chiama: “Volevo solo farti i complimenti. Quando ci vuole, ci vuole”. E il segretario, tra lo stupito e il noncurante: “Grazie”. Un bel punto, ma solo un punto. L’elezione della Boldrini alla presidenza della Camera viene accolta con entusiasmo. In piedi applaudono anche i 5 Stelle. Bersani si lascia andare ad un buffetto a Fico. L’elezione di Grasso in Senato è più difficile. Maurizio Migliavacca, l’uomo delle trattative, il più fedele dei fedelissimi del segretario, segue lo spoglio sugli scranni più alti dell’emiciclo. Il consigliere Gotor gestisce la tensione parlando al cellulare. “E vai”. Quando scatta l’applauso è la Finocchiaro la prima ad andare a congratularsi. Lo stesso Migliavacca il primo a uscire. Non è un front man, uno che ami intrattenersi con i giornalisti, ma per una volta invece del solito no comment, parla di “segnale importante”.
CON LE elezioni di ieri, comunque vada a finire, Bersani non sarà il segretario dell’inciucio, non sarà il leader che porta i suoi agli ennesimi accordi indigeribili nel nome della “salvezza nazionale”. C’è andato vicino ancora una volta. A dargli una mano, dall’interno i Giovani turchi, l’ala sinistra del partito, i quarantenni che non ci stanno né a piegarsi ai big, né a farsi rotta-mare da Renzi (o da Grillo). E le impuntature di Monti, che con la sua assoluta indisponibilità l’ha costretto a uscire allo scoperto. Venerdì era stata una giornata convulsa, piena di colloqui e accordicchi. Con Dario Franceschini e Anna Finocchiaro in pole position per le presidenze e molto poco desiderosi di mollare e una parte dei Democratici – quelli che lavoravano per il governissimo – pronti a offrire una camera ai montiani. A sparigliare per prima è stata la mossa di Vendola: “Noi votiamo Fico”, dice nel pomeriggio. A quel punto, sono partiti i colloqui tra Matteo Orfini e Andrea Orlando, da una parte, e Gennaro Migliore e Nicola Fratojanni, dall’altro. “E se fosse la Boldrini? ”, hanno buttato lì i Democratici. Poi, l’hanno detto anche a Bersani. Chiarendo che loro i due big non li avrebbero votati comunque. Il segretario ha registrato, ma era ancora il tempo della trattativa con Monti. Quando a un certo punto della notte è stato chiaro che era fallita, si sono cominciate a fare ipotesi varie. Qualcuno ha tirato fuori la Madia per Montecitorio. Bersani ha realizzato che insistere su due nomi d’apparato non sarebbe servito a nulla. Se non a chi nel partito voleva le larghe intese. “Moltissimi dentro e fuori il Pd hanno lavorato per queste”, si sfoga uno dei suoi fedelissimi.
COSÌ ieri mattina alla riunione del gruppo alla Camera, è arrivato con le idee chiare: “Boldrini”, ha detto. C’è stata un’ovazione. Franceschini si è fatto da parte: “Chi mi conosce sa che ho sempre messo l’interesse generale prima delle scelte individuali”. A discorso d’insediamento della Presidente compiuto, il fido Giacomelli lo abbraccia “Bravo”. A ruota, la dichiarazione della Finocchiaro: “Ottime scelte”. Con il loro stesso imprimatur, ecco altri due rottamati. Non da Renzi stavolta. I suoi della battaglia per le presidenze si erano piuttosto disinteressati. Meglio stare a guardare il fallimento bersaniano, aspettando il prossimo giro. Ma poi in nome del rinnovamento Renzi twitta: “Due ottime proposte Boldrini e Grillo. Facciamo il tifo per loro”. A sembrare più sbiadito è anche lui. Come di fronte alla “nuova” Boldrini sembrano meno nuovi e piuttosto confusi i 5 Stelle. A elezione di Grasso avvenuta, con qualche voto grillino, un passo avanti Bersani l’ha fatto. La strada è stretta, l’incarico sembra più vicino. Il governo è un’incognita. Ma se l’operazione non va in porto, a questo punto ci sono solo le urne. A fine giugno. Probabilmente non con Bersani, ma con qualche big nelle liste in meno che in queste. Per dirla con lui intanto: “La prossima tappa è il governo e serve un’assunzione di responsabilità”.

l’Unità 17.3.13
Più vicino l’incarico a Bersani, mercoledì le consultazioni
Napolitano apprezza «l’avvio di una dialettica democratica»
I primi sul Colle saranno Grasso e Boldrini
di Marcella Ciarnelli


Il Parlamento ha compiuto i primi due passi importanti con l’elezione dei presidenti di Senato e Camera, per dare il via ad una legislatura che ha inizio in uno dei momenti più difficili del Paese. «L’avvio di una costruttiva dialettica democratica e di una feconda attività parlamentare» sollecitata dal presidente della Repubblica. Ora comincia davvero quella «strada in salita», prevista da Napolitano, che in cima ha la formazione del nuovo governo, passo essenziale per cominciare a dare risposte ai tanti problemi degli italiani.
Cominceranno mercoledì 20 le consultazioni al Quirinale. Saliranno al Colle per primi Pietro Grasso e Laura Boldrini, i neoeletti presidenti, ai quali Napolitano ha rivolto i migliori auguri per l'importante missione che li attende, dando loro appuntamento per i prossimi comuni impegni istituzionali, a cominciare dalla celebrazione di quest’oggi della Giornata dell'Unità Nazionale. Poi sarà il turno dei gruppi parlamentari che hanno tempo fino a domani per costituirsi. Al massimo un paio di giorni e poi ci sarà la decisione del Capo dello Stato. Per quanto sia necessario fare presto è anche vero che la situazione è tale da non consentire decisioni affrettate.
Sarà il quadro che le forze politiche faranno al presidente, sarà l’esposizione delle singole posizioni che compongono il mosaico per ora frammentato, che porteranno Napolitano a fare la sua scelta. Bisognerà vedere come il Capo dello Stato deciderà di orientarsi al termine delle consultazioni. Potrà procedere alla nomina per decreto presidenziale oppure ad un incarico diverso, sia esso mandato esplorativo, pre incarico o anche incarico tout court, conferito ad una personalità, politica o anche tecnica. Questi tre casi sono legati alla necessità di una verifica preventiva dell’esistenza potenziale di una maggioranza politico-parlamentare.
L’ipotesi che appare più possibile è quella del coinvolgimento di Pier Luigi Bersani, il candidato premier del centrosinistra, la coalizione che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove, lo ha dimostra-
to il voto per il presidente, non c’è maggioranza alternativa. Toccherà quindi al segretario del Pd fare il suo giro di consultazioni per verificare la possibilità di avere una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento data per acquisita quella alla Camera. È un percorso complesso quello chi aprirebbe davanti a Bersani. Bisognerà verificare quale possa essere il dialogo con le altre forze politiche oltre quelle della coalizione di centrosinistra per portare a compimento un progetto di governo che possa prendere il posto di quello “tecnico”, ancora in carica per gli affari correnti, che è «un punto fermo in una situazione che vede l’Italia esposta a serie incognite e urgenze» ha detto il presidente Napolitano che l’altra sera, con fermezza, ha invitato Mario Monti a rinunciare all’intenzione di candidarsi alla presidenza del Senato.
INCOGNITE E URGENZE
Nel caso che il primo tentativo non andasse in porto allora è ipotizzabile quel “governo del Presidente” che potrebbe essere affidato al presidente del Senato o anche all’iniziativa di una personalità fuori dallo schieramento dei partiti capace di proporre un esecutivo cui affidare la soluzione almeno delle maggiori emergenze.
Al premier che è salito al Colle per motivare le sue aspirazioni alla seconda carica dello Stato Napolitano ha dato tutte le spiegazioni richieste sull’inopportunità di un’iniziativa del genere. Nessuna interferenza politica ma la necessità di non creare problemi di carattere giuridico e istituzionale. Poi ha voluto pubblicamente affermare che «è importante che in sede europea, e nell’esercizio di ogni iniziativa possibile e necessaria specie per l’economia e l’occupazione, il governo conservi la guida autorevole di Mario Monti fino all’insediamento del nuovo governo. L’abbandono, in questo momento, da parte del presidente Monti, della guida del governo, genererebbe inoltre problemi istituzionali senza precedenti e di difficile soluzione». Quindi l’apprezzamento «per il senso di responsabilità e spirito di sacrificio con cui egli porterà a completamento la missione di governo».

Corriere 17.3.13
Ora Bersani chiederà a Napolitano un mandato «pieno» da premier
Il leader: facciamo nascere il governo, vedrete che va avanti
di Maria Teresa Meli


ROMA — È notte fonda, quando i vertici del Pd decidono la svolta. Pier Luigi Bersani capisce che per uscire dall'angolo sono necessari due nomi nuovi per Camera e Senato. «Ci vuole uno come Piero Grasso, ragazzi. Uno che può mettere in difficoltà i grillini, che li può far riflettere. Uno a cui è difficile per loro dire di no». L'idea viene accettata subito dal gruppo dirigente.
«E ora ci vuole una donna per la Camera». L'immancabile rappresentante femminile, quella che serve per non farsi dire che i partiti, anche a sinistra, sono tutti maschilisti. Potrebbe essere Marianna Madia, propone qualcuno. Ma alla fine la scelta cade su Laura Boldrini. Vasco Errani la conosce bene. E anche Dario Franceschini che dovrà cederle suo malgrado il posto. È stata eletta con Sel, ma va più che bene al Pd, che avrebbe dovuto candidarla ma, non avendo più posti sicuri nelle liste, ha lasciato che fosse il movimento di Vendola a candidarla. «Perfetto», mormora Bersani mentre morde il sigaro.
Il compito forse più difficile è quello di comunicare la notizia a Giorgio Napolitano. Ma tocca farlo. Dall'altro capo del filo, dopo aver sentito i nomi, il capo dello Stato fa una pausa. Silenzio, poi: «Ottima scelta». Bersani sa che il presidente della Repubblica avrebbe preferito una soluzione condivisa e gli spiega: «Concordo con i tuoi appelli, ma in queste condizioni l'unità nazionale non è proprio possibile».
No, da quell'orecchio il segretario del Partito democratico non ci vuol sentire. Per lui ci sono solo due strade: o il governo da lui presieduto, o il voto. Possibilmente il 30 giugno e il primo luglio. Perché a ottobre è tardi. Si rischia di più.
In autunno le primarie saranno inevitabili: questa volta bisognerà farle vere, allargate, e Matteo Renzi è pronto. Per quella data Bersani potrebbe non essere più in campo.
Ma nel Pd si è già individuata la possibile avversaria del sindaco di Firenze, nel caso in cui Bersani si faccia da parte: Laura Boldrini. Sì, proprio lei: «Sarebbe un'ottima candidata e fossi in Renzi ne avrei paura», spiega ai suoi, Beppe Fioroni, assiso su un divanetto del Transatlantico.
Ma questo eventuale scenario riguarda il futuro, per adesso il segretario pensa di aver fatto «la mossa del cavallo». E intende chiedere nuovamente, e con maggior forza, il mandato a Napolitano. Forte del fatto che i grillini non si sono mostrati più una falange compatta e ostile al dialogo con il Pd.
Alla Camera, dove pure non hanno votato per Boldrini, l'hanno applaudita e poi incontrata. Al Senato il gruppo del Movimento 5 Stelle si è spaccato. Più di dieci parlamentari nel segreto dell'urna hanno votato Grasso. Insomma, secondo Bersani in quel fronte «qualcosa si potrebbe muovere»: «Cerchiamo di far nascere questo governo, e poi vedrete che va avanti». Anche perché Bersani potrebbe proporre altri nomi adatti per un confronto con i grillini. Potrebbe indicare Stefano Rodotà per la presidenza della Repubblica, o inserirlo nel suo governo insieme ad altre personalità che non dispiacciono a quel mondo. Si vocifera che anche Luigi Ciotti potrebbe dare una mano per aprire un canale di comunicazione tra Partito democratico e 5 Stelle.
Ma c'è chi ritene che in realtà questa mossa di Bersani porti soltanto alle elezioni. «Due nomi degnissimi, però si sembra che siano due nomi da campagna elettorale», osserva Ermete Realacci. E Rosy Bindi confida a un amico: «Questa legislatura dura poco». Già, anche perché, per dirla con il veltroniano Andrea Martella, «i problemi restano tutti». Nel senso che questa soluzione per le presidenze delle due Camere non ha creato una maggioranza autosufficiente.
Inoltre quelli di Boldrini e Grasso sono due nomi difficili da usare per un governo istituzionale perché incontrerebbero il no del centrodestra: segno, secondo alcuni Democrat, che Bersani sta facendo di tutto per ridurre a due le possibili alternative: o un governo da lui guidato, o le elezioni il prima possibile.

Repubblica 17.3.13
Il Colle e il governo: ci vuole “il miracolo”
Bersani ora crede al governo e punta su montiani e grillini “Posso dimostrare il miracolo”
di Francesco Bei


BERSANI inizia a crederci. «Si può fare, un passo alla volta – ripete – ma si può fare». E tuttavia per il capo dello Stato la questione principale (l’esistenza di una maggioranza di governo) resta un rebus senza soluzione.
NAPOLITANO lo ha spiegato ai dirigenti del Pd, euforici per aver segnato un punto sulle presidenze delle Camere: «Voglio vedere una maggioranza. Il miracolo deve essere dimostrabile». Su questo dunque si lavora, per rendere “visibile” il miracolo. E il laboratorio è sempre quello di palazzo Madama.
Il primo terreno da dissodare è quello dei 22 montiani. «La scheda bianca su Grasso — ragiona Nicola Latorre al termine di una giornata lunghissima — è un segnale molto positivo e non affatto scontato. Hanno ricevuto lusinghe dal Pdl per votare Schifani, li abbiamo visti, ma hanno resistito ». Insomma, nel Pd considerano «interlocutori naturali» i civici, anche se il Professore si appresta a mettere sul tavolo della trattativa la poltrona più ambita, quella del Quirinale. Anche ieri, del resto, nei contatti di Monti con il Pdl, proprio la sua candidatura sul Colle è stata al centro della discussione. «Monti ci ha proposto i suoi voti per Schifani — racconta un senatore del Pdl — in cambio di un nostro appoggio a Bersani premier e, soprattutto, a sostegno delle sue ambizioni per il Quirinale». Ma quella per la successione a Napolitano è una partita che si aprirà soltanto tra un mese, dopo quella del governo, e dunque non è difficile per il Pd far entrare anche Monti nella rosa dei papabili in cambio dei suoi voti per Bersani.
L’altro terreno dove seminare è il movimento cinque stelle. Se è eccessivo e sbagliato, come dice Paolo Romani, sostenere che «tra Pd e grillini c’è stato il primo inciucetto », non c’è dubbio che quella dozzina di senatori che hanno scritto “Grasso”, disobbedendo alle indicazioni del guru, costituiscono una prima, vistosa, crepa nel centralismo democratico del movimento. Bersani ci spera. E con la trovata di due outsider di lusso per le presidenze delle Camere, scelti sacrificando le aspirazioni di Finocchiaro e Franceschini, il segretario ha dimostrato di avere ancora qualcosa da dire. Ma la vera carta segreta è ancora più difficile da giocare. E passa per il rapporto con il Carroccio. I 17 senatori leghisti sono un plotone compatto, non sono previste defezioni. Si tratta dunque di costruire un’intesa politica, quantomeno per far partire il governo nella comune consapevolezza che nessuno vuole le elezioni anticipate.
«Contatti sono in corso», racconta un senatore del Pd, «perché Maroni è una cosa, Berlusconi un’altra». D’altronde anche se Roberto Calderoli smentisce di aver avuto un colloquio segreto con Anna Finocchiaro per concordare la sua elezione alla presidenza, conferma comunque che con la capogruppo del Pd «ci sentiamo tutti i giorni». Un’offerta esplicita non è ancora arrivata. Ma i leghisti se l’aspettano. Dentro il Carroccio la prospettiva di riaprire le urne a giugno viene infatti vista con orrore, specie per lo strascico di problemi interni ancora aperti dopo il deludente risultato elettorale. Con il leader ormai governatore, i maroniani non hanno intenzione di gettarsi di nuovo in campagna elettorale. Anche i rapporti con Bossi sono ai minimi termini. E lo dimostra la voce che il Cavaliere, che vede come prospettiva solo le urne, avrebbe anche prospettato al fondatore della Lega di lasciare Maroni al suo destino, dando vita a una «lista Bossi» alleata del Pdl.
Nel nome delle riforme e della governabilità, gli stessi berlusconiani non vengono dimenticati. A sperare in un loro coinvolgimento sono soprattutto i montiani. «In questi giorni — spiega infatti il coordinatore di Scelta civica Andrea Olivero — possono nascere disponibilità anche nel Pdl. Non mi sembra che lì dentro tutti abbiano questa fretta di rovinare verso elezioni anticipate. E noi possiamo costruire dei ponti». Un altro costruttore di “ponti” è il socialista Riccardo Nencini, che invita gli alleati del Pd, incassati i numeri uno di Camera e Senato, «a evitare ogni tipo di forzatura sulle presidenze delle commissioni».
Certo, resta da vedere se «il miracolo » di trovare una maggioranza sarà «dimostrabile», come chiede Napolitano. Il capo dello Stato, per non farsi trovare impreparato, si tiene comunque aperta anche la possibilità di un governo del Presidente, affidato magari al direttore della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni. Resta per ora sullo sfondo la partita del Quirinale, la più importante. Oltre all’autocandidatura di Monti, in queste ore spuntano altri possibili papabili. Come l’ex presidente della Consulta, Alberto Capotosti, un moderato. Oppure lo stesso Pietro Grasso o Romano Prodi. Ma ogni giorno ha la sua pena. «Lo storico Huizinga — sospira Latorre — ha scritto “nelle ombre del domani”. Be’, per noi domani le ombre saranno un po’ meno scure ».

l’Unità 17.3.13
Christopher Hein
Il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati: «Ho apprezzato il suo impegno e il suo coraggio nel sostenere quanti fuggivano dall’inferno»
«Laura, una donna coraggiosa anche con i suoi superiori»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«L’elezione di Laura Boldrini alla Presidenza della Camera dei Deputati, rappresenta un segno di profondo cambiamento e di apertura verso i temi dei diritti umani e civili». A sostenerlo è Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Speriamo afferma Hein che questa carica di grande valore simbolico si traduca in un effettivo cambiamento di politiche e pratiche nel campo dell’immigrazione e dell’asilo nel nostro Paese».
In questi anni, da direttore del Cir, lei ha avuto modo di lavorare a stretto contatto con Laura Boldrini.
«La nostra collaborazione è iniziata da quando Laura, alla fine degli anni Novanta, ha lavorato per la delegazione dell’Unhcr a Roma. La grande sfida di quel periodo era l’arrivo di decine di migliaia di kosovari che fuggivano le atrocità del loro martoriato Paese.L’Italia non era preparata per l’accoglienza e la fornitura di protezione a questi profughi. Da lì in poi, con la delegazione dell’Unhcr, e molto spesso proprio con Laura Boldrini, ci siamo scambiati le linee da seguire e gli interventi da proporre al governo. Durante tutti questi anni, molte volte ci siamo sentiti con Laura, in particolare quando c’era da affrontare la tragedia del Mediterraneo, con migliaia di persone da soccorrere e da accogliere».
Come ha affrontato questa tragedia umanitaria la neo presidente della Camera?
«Vorrei ricordare quando nel maggio 2009, l’Italia ha avviato la politica di respingimenti di barconi in alto mare verso la Libia. Dal primo momento, Laura si è fermamente opposta a questa politica illegale. Ha fatto questo certamente in linea con gli interventi del suo ufficio, ma con un tono e una partecipazione che mettevano in luce la sua personale indignazione. E questo è propria una caratteristica di Laura».
Un investimento sul futuro...
«Un segno di speranza, direi. Di Laura Boldrini vorrei sottolineare due doti: il suo impegno personale, ben oltre i doveri istituzionali; il suo grande coraggio, anche quando veniva attaccata personalmente da una parte della politica italiana; un coraggio che, a volte ha dovuto sfoderare anche nei confronti dei suoi superiori dell’Alto commissariato per i rifugiati».
In questa chiave, come valuta il discorso pronunciato dalla neopresidente una volta eletta alla guida di Montecitorio? «Il discorso di insediamento è stato di grande respiro e profondamente toccante, anche quando ha ricordato le problematiche degli ultimi e degli emarginati. Sono convinto che a questi bisogni si debbano dare risposte adeguate attraverso nuove politiche, che crediamo Laura Boldrini interpreti pienamente».
Guardando all’immediato presente, e anche sperando nell’azione della neopresidente della Camera, cosa si attende il Cir dal futuro governo?
«Come abbiamo già sollecitato a tutte le forze politiche durante la campagna elettorale, riteniamo che sia necessario un profondo ripensamento sul diritto d’asilo e sulla politica di immigrazione. Più di ogni altra cosa, è necessario e urgente creare un programma nazionale di integrazione, affinché i rifugiati possano riprendere una nuova vita, normale e dignitosa, e diventare cittadini a tutti gli effetti, contribuendo anche al sistema fiscale e a quelli sociali. Sappiamo che questa linea è in piena sintonia con i pensieri e l’azione di Laura Boldrini».

l’Unità 17.3.13
Laura, a Montecitorio pensando agli ultimi
La terza presidente della Camera, oltre vent’anni dedicati ai rifugiati come portavoce Onu
La carica inaspettata, gli applausi dei grillini, l’emozione di Vendola e il brindisi con Bersani
di Natalia Lombardo


ROMA «Ci pensi? Ero a Lampedusa, in Afghanistan... ero lì fino a pochi giorni fa e ora... Trovarmi qui, non ci posso credere!». Emozionatissima, elegante in nero ma non quanto avrebbe voluto se avesse saputo cosa l’aspettava, «vedi? non sono elegante elegante come si deve per una Presidente della Camera...», Laura Boldrini saluta e bacia tutti, e soprattutto tutte, le deputate di Sel, le giornaliste, le donne, appena è scesa dall’ufficio del presidente al piano nobile di Montecitorio e viene accolta nell'anticamera del ristorante. Nichi Vendola non frena la commozione da quasi un’ora, da quando in aula dopo le 13 sentiva scorrere le schede «Boldrini Laura, Laura Boldrini...» accanto a Pier Luigi Bersani col fiato sospeso e tutti i deputati di Sel emozionati. Giordano piange fuori dall’aula.
«Continuerò il viaggio, io non mi fermo. Il cammino per i migranti, le donne, gli esclusi il Mediterraneo... Sono le parole chiave della mia campagna elettorale, le porteremo avanti insieme, insieme», dice abbracciando Celeste Costantino, di Sel, che piangeva di gioia, lo ripete a Serena Pellegrino. Non se l’immaginava, Laura Boldrini di diventare la terza presidente della Camera dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti e dopo un giorno solo da deputata, vissuto con la stanchezza di chi rischia di sentirsi impotente, «lasciateci lavorare», aveva detto la sera prima sul blog dell’Huffington Post.
La svolta di Bersani è maturata nella notte, finché alle sette e mezza di ieri mattina non l’hanno convinta, i compagni di Sel, nella riunione della coalizione, che era lei la persona gusta. E lei che resisteva «ma no, perché io, non sono all’altezza...», lo ha detto anche a Bersani. Lei che per oltre vent’anni ha lavorato all’Onu e per quattordici è stata portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, l’Unhcr, abituata ad affrontare situazioni di difficoltà estrema. Per chi soffre, per «gli ultimi», come ha ricordato nel suo discorso di insediamento, interrotto da ventidue applausi ricevuti dai tre quarti dell’aula. Sempre più convinti anche quelli dei grillini che, dopo il primo attimo di esitazione, quasi in ralenty, si sono alzati più volte per battere le mani, spiazzati dalla sua precisione nel citare, con voce morbida e ripetendo i concetti, i precari, i «cosiddetti esodati», le «donne che subiscono violenza travestita da amore», i giovani, accolti nella «casa della buona politica». E in serata avviene un incontro cordiale con loro.
Laura ha ricordato che i diritti «in Parlamento sono stati scritti», ma «sono stati costruiti fuori da qui, liberando l’Italia e gli italiani dal fascismo». A questo passaggio il tetro silenzio immobile e cupo sui banchi del Pdl. La Russa ancora storce il naso, nel 2009 in tv la insultò definendola «disumana e criminale».
Nata a Macerata il 28 aprile, sotto il segno del Toro, 52 anni fra pochi giorni, si laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Giornalista, inizia a lavorare alla Rai, e sempre nell’ambito della comunicazione nell’89 comincia la sua carriera alla Fao, poi dal 1993 al ‘98 come portavoce dell’Italia al Programma alimentare mondiale. E poi il primo «salto» di responsabilità con l’Unhcr, che l’ha portata in situazioni di crisi in Afghanistan, Iraq, Iran, nell’ex Jugoslavia o in Africa, Sudan, Angola e Ruanda, lavorando per i rifugiati e per i migranti con il cuore sul Mediterraneo. «Una persona normale», la definisce chi la conosce, che in questi giorni è arrivata a Montecitorio a piedi dalla casa di Trastevere anche se è Cavaliere della Repubblica, e ora deve adattarsi alla scorta, lei abituata alla polvere africana delle storie raccolte nel suo libro Tutti indietro.
Ieri mattina presto ha chiamato la figlia Anastasia, vent’anni, che si trova a Londra per darle la notizia, «mamma.... ma cosa vuol dire? cosa sei?» ha detto assonnata per l’ora in anticipo. «Speaker, vuol dire speacker...» le ha risposto Laura, la figura anglosassone di presidente della Camera. «Ah, ecco, che bello!». Fino al voto Laura è stata chiusa in una stanza di Montecitorio con Vendola e Gennaro Migliore, che l’hanno aiutata a scrivere il discorso, «ma hanno rispettato tutto il mio pensiero», ha raccontato. Poi è scesa in aula a passo veloce con Claudio Fava, il leader di Sel e il pugliese Nicola Fratoianni. Ha votato solo alla seconda «chiama» e ha aspettato l’esito fuori dall’aula, nelle stanze del governo. Poi l’incarico, la mano sul cuore, la bella figura aggraziata. Dopo il brindisi nell’ufficio del presidente con Nichi, Gennaro e gli altri. Entra Bersani con passo sicuro, sfilano separati Rosy Bindi, Dario Franceschini che ha accettato il passo indietro. Una telefonata con il presidente della Repubblica e un’altra col suo predecessore, Gianfranco Fini, ormai fuori dal Parlamento. Li aveva rigraziati entrambi. Volano i tweet, gli auguri di Don Ciotti, di Libera e dell’Anpi, la gioia del Terzo settore e dei rifugiati.
Il suo primo atto istituzionale, la visita in via Fani dove è stato rapito Aldo Moro, poi oggi l’incontro con Napolitano per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Laura la presidente si vede «arrivata da lontano» come Papa Francesco, che ha salutato nel discorso in aula.

l’Unità 17.3.13
Il discorso
«Questa Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale»
di Laura Boldrini


Care deputate e cari deputati, permettetemi di esprimere il mio più sentito ringraziamento per l'alto onore e responsabilità che comporta il compito di presiedere i lavori di questa Assemblea. (...) Faccio a tutti voi i miei auguri di buon lavoro, soprattutto ai più giovani, a chi siede per la prima volta in quest'Aula. Sono sicura che, in un momento così difficile per il nostro Paese, insieme riusciremo ad affrontare l'impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane. (...)
Arrivo a questo incarico dopo avere trascorso tanti anni a difendere e a rappresentare i diritti degli ultimi, in Italia come in molte periferie del mondo. È un' esperienza che mi accompagnerà sempre e che da oggi metto al servizio di questa Camera. Farò in modo che questa istituzione sia anche il luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno. Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Dovremo impegnarci tutti a restituire piena dignità a ogni diritto. Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri. In questa Aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo. La responsabilità di questa istituzione si misura anche nella capacità di saperli rappresentare e garantire uno a uno. Questa Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall'Italia. Dovremo farci carico dell'umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore ed è un impegno che fin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento.
Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l'aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante (...). Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di smarrire perfino l'ultimo sollievo della cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato, ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l'economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce ogni giorno gli effetti della scarsa cura del nostro territorio. Dovremo impegnarci per restituire fiducia a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti. Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore e inesplorata di un disabile.
In Parlamento sono stati scritti questi diritti, ma sono stati costruiti fuori da qui, liberando l'Italia e gli italiani dal fascismo. Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e per questa democrazia. Anche con questo spirito siamo idealmente vicini a chi oggi a Firenze, assieme a Luigi Ciotti, ricorda tutti i morti per mano mafiosa. Al loro sacrificio ciascuno di noi e questo Paese devono molto. E molto, molto, dobbiamo anche al sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta, che ricordiamo con commozione oggi, nel giorno in cui cade l'anniversario del loro assassinio.
Questo è un Parlamento largamente rinnovato. Scrolliamoci di dosso ogni indugio nel dare piena dignità alla nostra istituzione, che saprà riprendersi la centralità e la responsabilità del proprio ruolo. Facciamo di questa Camera la casa della buona politica, rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani.
Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato. Mi impegnerò perché la mia funzione sia luogo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese. L'Italia fa parte del nucleo dei fondatori del processo di integrazione europea. Dovremo impegnarci ad avvicinare i cittadini italiani a questa sfida, a un progetto che sappia recuperare per intero la visione e la missione che furono pensate con lungimiranza da Altiero Spinelli. Lavoriamo perché l'Europa torni ad essere
un grande sogno, un crocevia di popoli e di culture, un approdo certo per i diritti delle persone, appunto un luogo della libertà, della fraternità e della pace.
Anche i protagonisti della vita spirituale e religiosa ci spronano ad osare di più. Per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice, venuto emblematicamente dalla fine del mondo. A Papa Francesco il saluto carico di speranza di tutti noi.
Consentitemi un saluto anche alle istituzioni internazionali, alle associazioni e alle organizzazioni Onu, in cui ho lavorato per 24 anni, e permettetemi, visto che questo è stato fino ad oggi il mio impegno, un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce. Un mare che dovrà sempre più diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni. Sento forte l'alto richiamo del Presidente della Repubblica sull'unità del Paese. Un richiamo che quest'Aula è chiamata a raccogliere con pienezza e convinzione (...).
Oggi iniziamo un viaggio: cercherò di portare, assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto i nostri figli.

Corriere 17.3.13
Boldrini «Partii e mio padre non mi parlò più»
Alla Camera una paladina dei diritti
La neoeletta paladina dei mondi dimenticati
Il neopresidente Laura Boldrini, dall'Onu a Montecitorio
di Gian Antonio Stella


Tenerla ferma nella gabbia dorata di Montecitorio: questo sarà il problema. Perché Laura Boldrini, eletta ieri alla guida della Camera, appartiene a quelle specie animali che non vivono in cattività. Dopo un po' che sta ferma e non vola via, comincia a mancarle l'ossigeno.
Forse per questo ha chiuso il suo discorso di insediamento dicendo: «Oggi iniziamo un viaggio». Un viaggio non nello spazio, si capisce, ma attraverso una politica diversa, che «deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione». Che si occupi di «chi ha perduto certezze e speranze», che ingaggi «una battaglia vera contro la povertà e non contro i poveri», che sappia «ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall'Italia», che si faccia «carico (passaggio accolto da una standing ovation a sinistra, da una certa freddezza perfino di alcune deputate di destra) «dell'umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore».
Una politica che riesca finalmente a stare «accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l'aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante». E poi a chi «ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato». E «ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l'economia italiana». E «a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti». E ogni citazione del suo discorso pareva una tappa di un itinerario alla riscoperta di mondi troppo spesso dimenticati dalla «politica politicante». I migranti, l'ambiente, i bambini, la disabilità…
La sua casa romana, ha scritto Famiglia Cristiana che la premiò come italiana dell'anno 2009 per «il costante impegno, svolto con umanità ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo», trabocca di ricordi di viaggio nello Yemen, in Madagascar, Tagikistan, Perù, Pakistan, Afghanistan… Accumulati in trent'anni percorsi girando come una trottola tutti i continenti. Alla scoperta di spazi che fossero un po' più grandi di Matelica, l'antico borgo collinare in provincia di Macerata, nelle Marche, dove ha fatto le elementari prima del trasferimento per le medie e il liceo classico a Jesi.
«Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì», spiegò al settimanale cattolico diretto da Don Antonio Sciortino. «Sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l'antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: siamo i pragmatici di casa».
Il papà, come raccontò a Paolo di Stefano, faceva l'avvocato ed era «un uomo molto speciale: riservato, studioso, solitario, tradizionalista, molto religioso» che amava «la campagna e la musica classica» e spesso si esprimeva a tavola in latino e in greco: «I suoi princìpi non si coniugavano con la mia curiosità».
Cresciuta nella parrocchia di San Filippo, era legatissima a Don Attilio, un prete attentissimo agli ultimi: «Ho imparato lì la vita nel gruppo, l'amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio». Presa la maturità, contro il volere del padre si preparò uno zaino e partì per il Venezuela, «a lavorare in una "finca de arroz", un'azienda di riso a Calabozo». La misero in ufficio, «ma io volevo conoscere la vita nei campi: rimasi lì tre mesi, abbastanza per capire come vivono i contadini in quella parte del mondo, li vedevo lavorare duramente per otto ore, poi la sera andavano nei bar a spendere i soldi che avevano guadagnato di giorno». Tre mesi dopo, partiva in autobus, tra campesinos, maiali e galline, per un lungo viaggio verso Nord: Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, poi Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Rientrata in Italia, si iscrisse a Giurisprudenza alla Sapienza, a Roma: «Sei mesi a studiare come una pazza e dare esami, gli altri sei a viaggiare». La prese, come voleva il padre («non mi parlò per otto anni») quella laurea in Legge: 110, con una tesi sul diritto di cronaca. Mentre studiava, lavorava all'Agenzia italiana stampa e migrazione: «Mi occupavo di selezionare le notizie che potevano essere rilevanti per i giornali delle comunità italiane all'estero».
Entrata come giornalista alla Rai, mollò tutto nell'89, quando aveva 28 anni, vincendo un concorso dell'Onu per «Junior Professional Officer»: «Ho lavorato cinque anni alla Fao, poi il capo ufficio stampa del Pam, il Programma alimentare mondiale, mi chiamò per chiedermi se conoscevo qualcuno che curasse i rapporti con la stampa italiana e mi proposi». Era sposata, allora. E incinta: «Stavo aspettando mia figlia, Anastasia, mi ricordo che mi presentai al colloquio con la pancia». Nel febbraio del 1998, la destinazione definitiva: portavoce dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati.
«Uno degli organismi che non contano un fico secco, finché la stampa non decide che conta», avrebbe ironizzato anni dopo Ignazio La Russa. Non sopportava, l'allora ministro della Difesa, la passione con cui Boldrini attaccava la scelta italiana dei respingimenti (ci scrisse anche un libro: «Tutti indietro») sostenendo, Costituzione alla mano, che gli aspiranti immigrati fermati sui barconi non potevano venire respinti senza che fosse prima controllato se non avessero diritto all'asilo, tanto più che la Libia di Gheddafi non aveva il minimo rispetto per i diritti umani. Ringhiò La Russa: «La Boldrini o è disumana — e io l'accuso — perché pretende che li teniamo per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli, oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che una volta qui scappino e si sparpaglino sul territorio».
Lei, mentre intorno si alzavano reazioni indignate, liquidò la cosa così: «Parole che si commentano da sole». E tirò diritto: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna, 150 mila in Francia. L'80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».
Certo, c'è chi dirà (e qualche voce critica si è già levata) che Laura Boldrini non è mai stata una donna «al di sopra delle parti». Ed è vero. Basta leggere il suo libro in uscita per Rizzoli, «Solo le montagne non si incontrano mai», dove racconta (insieme con lo strazio della morte nel giro di un anno del padre, della madre e della sorella Lucia) la storia di Murayo, una bambina gravemente malata e «adottata» dai soldati del nostro contingente e da lei riportata in Somalia a rivedere il padre, per trovare la conferma: la donna che ha preso il posto di Fini, non è tipo da barcamenarsi sugli equilibri equidistanti. Sai sempre da che parte sta. E questo, a chi non la pensa come lei, può non piacere. Di più: lo stesso discorso di insediamento sarà certamente apparso a molti schieratissimo.
Chi la conosce, però, sarebbe disposto a scommettere che, prendendo sul serio il nuovo ruolo, potrebbe riuscire a smentire i diffidenti e ad essere davvero ciò che ha promesso: «Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato». E magari potrebbe anche essere fedele all'impegno più solenne che ha preso: «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica, rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani…». Sempre che, si capisce, sappia resistere in certi momenti di asfissia alla tentazione di volarsene via…

Repubblica 17.3.13
All’atto del suo insediamento la Boldrini parla di lotta alla povertà e di crisi
“Basta con la violenza sulle donne i deputati se ne devono fare carico”
di Alberto Custodero


ROMA — Per primo il saluto a Napolitano, «custode dell’unità del Paese e dei valori della Costituzione ». Poi quello al papa Francesco I arrivato dalla «fine del mondo con un messaggio carico di speranza». Laura Boldrini «inizia il suo viaggio» toccando temi istituzionali, sociali, etici, rivolgendo il proprio augurio ai deputati «più giovani». E lancia un monito: «Che la politica torni a essere speranza, servizio, passione». Quindi, l’appello affinché la Camera torni a essere «trasparente e sobria», e accolga la «richiesta di cambiamento che alla politica rivolgono i nostri figli». Una standing ovation quando invita i deputati a farsi «carico dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore».
Nell’incipit del suo discorso, il ricordo di quegli «ultimi» per i diritti dei quali ha lottato tutta la vita. Diritti universali «costruiti liberando l’Italia dal fascismo».
Segue l’invito a «ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, non contro i poveri», ad «ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrita se stessa prigioniera della precarietà costretta spesso a portare i propri talenti lontani dall’Italia ». Poi rivolge il suo pensiero «ai tanti detenuti che oggi vivono in una situazione disumana e degradante», ai disoccupati, a chi rischia di restare senza «l’ultimo sollievo della cassa integrazione », agli «esodati», agli «imprenditori schiacciati dalla crisi», alle «vittime del terremoto », ai pensionati».
Ricorda il «sacrificio di chi è morto per la democrazia», dei morti per mano mafiosa, di Aldo Moro e della sua scorta. «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica», è il suo appello, infine ammonisce a lavorare perché l’Europa torni a essere «un grande sogno, crocevia di popoli e di culture, luogo di libertà, fraternità e pace».

Repubblica 17.3.13
Il manifesto di Laura Boldrini “La Camera deve diventare la casa della buona politica”
La neopresidente: “Adesso ci facciano lavorare”
intervista di Alessandra Longo


ROMA — Laura Boldrini, 52 anni, è la nuova presidente della Camera, la terza donna dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti, ad avere l’onore dello scranno più alto. Ieri l’improvvisa investitura, quasi il primo atto costitutivo di un nuovo centrosinistra: «Laura, tocca a te». Lei racconta con ironia ed emozione: «Non me l’aspettavo. Mi è sembrato di vivere la vicenda di un’altra persona, qualcosa altro da me. Sono contenta della fiducia che ho visto negli occhi degli altri ma sento tutto il peso della responsabilità. Non c’è tempo da perdere. Ora ci devono far lavorare. Abbiamo la facoltà di invertire la rotta». Giorno di emozioni, di bella politica, un discorso preparato al volo che parla dei diritti degli ultimi, delle battaglie che l’ex portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha sempre fatto. La sua promessa è un manifesto che parla anche ai grillini, già incontrati ieri, su loro richiesta, a Montecitorio, dopo la prima uscita pubblica in via Fani, omaggio a Moro e agli uomini della sua scorta.
Presidente Boldrini: comincia ad abituarsi ad essere chiamata così?
«Confesso l’emozione. E’ successo tutto così in fretta. Questa mattina (ieri, ndr) non sapevo ancora niente. Sono arrivata come un soldatino a Montecitorio per una riunione che Sel aveva convocato alle sette e mezzo del mattino prima dell’incontro di coalizione. Franceschini mi ha visto e mi ha fatto una battuta: “Vedrai, ci sarà una sorpresa”. Mai più pensavo a me. Mi son detta: “Bello, chissà che nome hanno trovato”».
Il nome era il suo.
«Quando l’ho capito ho vissuto sentimenti contrastanti: lusingata dalla stima e nello stesso tempo consapevole della serietà dell’impegno preso. Io ho accettato di candidarmi per un progetto nuovo di società, perché ero indignata della politica, degli scandali, della lontananza delle istituzioni dai problemi reali della gente. Vendola mi ha chiamato e ho deciso che era arrivato il momento di prendermi delle responsabilità. Non si può sempre rimanere estranei ai processi di cambiamento. Vendola mi ha chiesto di lavorare in Parlamento quando ero ad Atene, in un Centro medico, in mezzo a ragazzi picchiati perché neri, a greci senza soldi che ormai si fanno curare dalle strutture sanitarie per stranieri perché non hanno più soldi. Ho visto tanta sofferenza sociale nel cuore di un Paese cui la nostra cultura deve molto. E ho deciso che anche qui, in Italia, non era giusto stare a guardare. Ho mandato mia figlia a studiare all’estero per darle una chance in più. Anche il mio compagno è all’estero. La mia famiglia è fuori dal Paese. Io dico che i nostri figli devono crescere e studiare qui ed avere un futuro in Italia».
A proposito di sua figlia Anastasia, come l’ha presa?
«Ha 18 anni. Vive a Londra. Quando l’ho chiamata ancora dormiva. Le ho detto: “Sarò presidente della Camera”. Lei non capiva, era esterrefatta. Ho tradotto: Speaker, speaker, sarò la speaker...».
Niente cambio d’abito.
«E quando mai, tenuta d’ufficio, giacca e pantaloni neri, quelli che indossavo. Mi hanno detto: vai a cambiarti. Ma tanto non avevo niente di diverso a casa».
E poi la stesura del discorso. Un omaggio ai giovani, ai disoccupati, ai piccoli imprenditori strangolati dalla crisi, ai carcerati, alle donne umiliate, «ad una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà».
«I temi della mia campagna elettorale, della mia battaglia. Devo dare atto a Sel che non ha interferito in alcun modo nelle cose che volevo dire. C’è chi mi ha fatto notare che non ho evocato le parole sviluppo e crescita. Ma erano insite in ciò che ho detto. Ho parlato di diritti ma non c’è sviluppo senza diritti, non c’è ricchezza senza diritti. Prima i diritti poi lo sviluppo».
Un discorso di 20 minuti, 22 interruzioni per gli applausi.
«E’ stata una giornata bellissima. Bellissima per il Paese. Ho ricevuto la telefonata di Napolitano, centinaia di messaggi, biglietti di auguri e nel pomeriggio ho tifato per Piero Grasso».
Potrebbe essere un’esperienza breve. L’avvio del governo è una sfida.
«Io dico che non possiamo permetterci di non rispondere ai bisogni delle persone, non possiamo non dare una risposta chiara. Se vogliamo che cambi la percezione che il Paese ha della politica e delle istituzioni dobbiamo andare avanti».
Quindi al più presto un governo.
«Quindi al più presto la risposta alla sofferenza del Paese. Abbiamo la facoltà di invertire la rotta. Ci devono far lavorare. Questa Camera sarà la casa della buona politica».
Si sarà accorta delle freddezza in aula del Pdl.
«So che qualcuno ha definito il mio discorso ideologico, terzomondista e pauperista. Se pauperista vuol dire essere sobria e rigorosa io lo sono sempre stata e ne vado fiera».

Repubblica 17.3.13
Il lungo viaggio di Laura ridà nobiltà alla politica
di Adriano Sofri


Succede a volte di dirsi: non avrei voluto vivere fino a vedere… Non avrei voluto vedere l’Italia trasformata nel “paese dei respingimenti in mare”, e di troppe altre bandiere triste. Ieri ero incredulo e grato di poter vedere una donna giovane, emozionata e risoluta, che diceva dal seggio più alto di Montecitorio le cose più belle che si possano augurare al proprio paese, al mondo e a se stessi. Era un repertorio scrupoloso e imperterrito, e consentiva di reinterrogarsi sulla differenza fra la correttezza politica e la nobiltà politica. La differenza, se si eccettuino le sciocchezze dello zelo fanatico, che sono solo sciocchezze, non riguarda tanto le cose dette, ma il loro rapporto con chi le dice. Il pulpito. Laura Boldrini, deputata quasi per caso e appena dopo presidente della Camera dei deputati quasi per caso, stava argomentando principi e propositi cui si è ispirata e che ha perseguito nel lavoro e nella vita. In bocca ad altri, le belle parole sarebbero suonate stridenti come un gesso nuovo su una vecchia lavagna. L’assemblea, con le doverose eccezioni – innoblesse oblige – l’ha molto applaudita, e dalla seconda o la terza volta in poi si è sentito che gli applausi non erano più riservati a lei, ma andavano a chi applaudiva, e si sentiva incoraggiato a prendere sul serio quei nobili propositi, che si trattasse di navigati marpioni o di giovani donne e uomini al primo imbarco.
Il primo giorno di un parlamento può promettersi una vita nuova, come la prima pagina di un quaderno — di un file di testo, per chi non voglia più saperne dei quaderni. E quando il parlamento sia andato troppo oltre nella propria mortificazione, l’impressione di un riscatto possibile sarà tanto più forte e trascinante. Cose così succedono nei film, dal discorso finale del piccolo barbiere ebreo sosia del Grande dittatore a quello del fratello matto, cioè savio, del segretario del partito; i film di Hollywood sono maestri di questo genere di sostituzioni di un attore a un presidente alla Casa Bianca, finché ci arriva davvero un presidente nero che sembra un attore.
Un regista che avesse noleggiato l’aula di Montecitorio per mettere in scena un risarcimento alla depressione del pubblico italiano non avrebbe potuto fare meglio di così. E ora paragonate la giornata di ieri — in ambedue i rami del parlamento, per giunta – alla fretta rassegnata o ingorda con cui il giorno prima si era dichiarato indecente lo spettacolo offerto da una maggioranza che votava scheda bianca, e ammettete che si possa sbagliare anche per un piacere del disastro, e che il regista dello spettacolo reale cui abbiamo assistito – chiamiamolo Napolitano, che ha rimandato Monti dietro la lavagna, o Bersani e Vendola, per semplificare — ha avuto uno sguardo più lungo di quello dei critici indignati. Il Dario Franceschini che salutava i giornalisti dicendosi «l’ex presidente della Camera» faceva simpatia, naturalmente più che se l’avessero eletto.
La giornata di ieri ha confermato che ci sono due circostanze in cui si è forti: quando si è forti, oppure quando si è molto deboli. Il Pd è molto debole, dallo scorso 25 febbraio, e i 5Stelle molto forti. Ieri le parti si sono invertite, con la felice misurata eccezione del voto al Senato. Prendiamo la miglior formulazione – a me pare, soprattutto se la si confronti col delirante filmato su Gaia e i miliardi di morti e il Nuovo Ordine Mondiale e il Grande Fratello finale – di progetti di Grillo e Casaleggio, quella affabilmente esposta nella conversazione con Dario Fo: se se ne ricavasse il ritratto ideale di un candidato e del suo discorso di apertura, non se ne troverebbero migliori di Laura Boldrini e delle sue parole di ieri. Ora proviamo a immaginare che la legge demenziale non avesse dato al Pd la larghissima maggioranza che gli ha dato, e che l’elettorato di Laura Boldrini non fosse autosufficiente: che cosa avrebbero fatto i bravi giovani deputati e deputate di 5Stelle? Avrebbero lasciato passare un altro autorevole candidato, non so, Giovanardi?
Ci siamo rassegnati in molti, quanto alla vita pubblica, alla pazienza e alla riduzione dei danni: ieri, per un giorno almeno, le cose sono andate nel modo migliore. Un giorno di festa, e poi la quaresima di sempre? Probabile. Però un giorno in cui l’invidia per il conclave, che aveva tirato fuori da una crisi precipitosa un papa straniero e Francesco, è stata compensata da una presidente della Camera abbastanza straniera anche lei e donna – peculiarità alla quale la Chiesa non è ancora pronta. Non è la prima volta, ma è avvenuto nel parlamento più in bilico di sempre, e però quello in cui la presenza di donne, specialmente giovani, è significativamente cresciuta, nel Pd in primo luogo. Il quale Pd ha vinto le elezioni perdendole, o le ha perse vincendole, come preferite, ma, scalcagnato com’è, e ridotto troppo spesso al centro e nei famosi territori a cordate e clientele in cagnesco, ha impedito di un soffio che a vincere le elezioni – e vincendole – fosse Berlusconi. E tutte le meditate analisi sulla consunzione dei partiti vacillano fino a rovinare quando si traducono in una rinuncia o un dileggio del voto “utile”.
Detto questo, il discorso di Laura Boldrini di ieri ha dato, a chi guardava e ascoltava, la sensazione rara e commossa che il voto possa, oltre che scansare il peggio, tradursi in una realizzazione preziosa. Da domani (non) si fa credito, naturalmente. Ma sentire commemorare le migliaia di morti senza nome del Mediterraneo non da una fervida commissaria delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ma da quello scranno alto di Montecitorio, valeva davvero la pena. Anche se fosse stata storia di un solo giorno. Lei però ha concluso: «Stiamo cominciando un viaggio». Allora buon viaggio.

l’Unità 17.3.13
La sfida della legalità dell’erede di Falcone
Sedici applausi, non di Pdl e Lega, eletto dopo 44 anni in magistratura
Cita la vedova Schifani ai funerali di Falcone: «Uomini di mafia che siete qua dentro, io vi perdono ma voi dovete cambiare»
di Claudia Fusani

Sono le parole che ha tenuto per ultime nel discorso di insediamento. Ma gli hanno martellato in testa dalla mattina. «Fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena dritta e a testa alta e segui sempre la voce della coscienza» gli disse Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio istruzione della procura di Palermo, la mattina del 10 febbraio 1886 quando, giudice a latere di soli 41 anni, aprì il primo maxi processo contro 475 boss di Cosa Nostra. E la scorsa notte, quando Bersani lo ha chiamato per dire che sarebbe toccato a lui l’ultimo miglio della corsa più difficile, prima di accettare ha pensato a lungo ad un altro bivio della sua vita, quando a 39 anni divenne giudice a latere del maxiprocesso perchè a Palermo non c’erano giudici disponibili. Lo fece allora. Lo ha fatto adesso. Abituato ai veleni e alle correnti del palazzo di giustizia di Palermo, cosa mai di diverso sarebbe potuto succedere al Senato?
Pietro Grasso presidente del Senato prende la parola tra gli applausi il primo avversarioa stringergli la mano è stato il predecessore Renato Schifanialle sette di sera, parla per 25 minuti in un’aula non pienissima ma che lo ascolta (anche Berlusconi in prima fila) e lo osserva come «una soluzione»; un problema in più, invece, per chi fa già i conti di quando si tornerà a votare. Venticinque minuti, sedici applausi, 44 anni di vita in magistratura che gli scorrono davanti, immagini, parole paure. Miguel Gotor è stato spesso accanto a lui in mattinata e poi nel ballottaggio del pomeriggio, quello tra lui e Schifani, tra l’antimafia e l’avvocato a lungo indagato per possibili collisioni con qualche boss. Computer alla mano entrambi, forse suggerimenti per il probabile discorso di insediamento. Che poi però è arrivato «seguendo il cuore» come gli diceva Caponnetto.
Il primo saluto va «ai cittadini che seguono questi lavori con apprensione e speranze e hanno bisogno di risposte rapide e ufficiali». E allora alza gli occhi in alto, verso il soffitto e racconta: «Da quando sono entrato in quest’aula mi è venuto naturale alzare gli occhi al soffitto e ho scoperto che vi sono scritti i quattro concetti-guida della mia vita, Fortezza, concordia giustizia diritto». Molti veterani alzano il capo. Si vede che non ci avevano mai fatto caso.
Parla alle famiglie, ai figli, ai disoccupati, alle forze dell’ordine e alla magistratura, alle vittime di mafia che «questa mattina sono state elencate una ad una a Firenze durante la manifestazione di Libera. Mi spiace non esserci andato». Una vita dedicata alla ricerca della verità e della giustizia, «e con lo stesso spirito di servizio affronto oggi questo nuovo e imprevisto incarico». Vorrebbe salutare tutti gli amici a cui deve qualcosa, «ma non cito nessuno perchè sarebbero troppi». Non può però non sceglierne una, Rosaria Schifani, la vedova dell’agente di scorta di Falcone. «Chiedo che venga fatta giustizia, adesso» urlò ai funerali.«Mi rivolgo agli uomini della mafia, perchè ci sono e sono qua dentro, chiedete perdono, io vi perdono, ma voi non lo farete mai». In aula cala un silenzio surreale.
Non è stata la giornata più lunga per Pietro Grasso. Neppure quella più difficile. Ne ha viste ben altre: il tritolo, anche quello diretto a lui; il corpo dei colleghi dilaniati dalle bombe;certi interrogatori, come quello del boss Gaspare Spatuzza, che avrebbe riscritto le indagini di mafia degli ultimi vent'anni e scoperto collusioni negli apparati che mai avrebbe voluto scoprire.
«Non si dice nulla perchè porta male» dice in un corridoio di palazzo Madama alle due e mezzo del pomeriggio. Il candidato presidente del Senato è scortato dai commessi. Ma «il procuratore» perchè questo resterà sempre sfodera il suo sorriso di sempre, quando stringe gli occhi che guardano dritti. I politici non guardano così. Si vede che lui non lo è. Assomiglia, quel sorriso, a quello di uno dei suoi più cari amici, Giovanni Falcone. È amaro e dolce allo stesso tempo. È il sorriso di chi conosce le sfide e non le teme.
Ma la politica è un'altra storia rispetto alla procura di Palermo, ai maxi processi di mafia, agli uffici di via Giulia, la sede della procura antimafia che ha diretto per otto anni. Fino al 27 dicembre scorso quando Bersani lo ha convinto. «Ci sono giorni in cui ancora non mi rendo bene conto di cosa sto facendo» diceva in campagna elettorale, un lungo viaggio nei quartieri di Roma più difficili come Tor Bella Monaca, di Napoli, nella Milano delle cosche della 'ndrangheta, nella sua Palermo. Un viaggio entusiasmante quello pre elettorale. Il miracolo è stato vedere come un uomo abituato all'analisi e non certo agli slogan, abbia potuto farsi ascoltare dalle persone. Non aveva promesse da fare. Ha spiegato, numeri alla mano, perchè la ripartenza inizia dalla lotta all’economia illegale, quella figlia della corruzione, delle mafie, dell’evasione fiscale.
In aula ha scelto l'ultimo posto, nell'ultimo angolo in alto a destra. Per osservare tutti meglio, in silenzio e neglio occhi. A cominciare dai grillini che infatti gli hanno dato più di dieci voti (137 contro, 15 voti in più del previsto, contro i 117 di Schifani). Se esiste un candidato grillino qua dentro, questo si chiama Pietro Grasso. Alla fine l’hanno capito anche loro. Grasso, da lassù, ha osservato bene anche i montiani rimasti però inchiodati ia scelte miopi di pura bottega.
«Questo è il maxi processo, te la senti» gli disse Falcone nell’84 facendolo entrare nell’aula bunker con migliaia di fascicoli. Grasso sorrise ed entrò. Lo ha fatto anche ieri.

l’Unità 17.3.13
Il discorso
«Commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte»
di Pietro Grasso


Care senatrici, cari senatori, mi scuserete, ma voglio rivolgere questo mio primo discorso soprattutto a quei cittadini che stanno seguendo i lavori di quest’Aula con speranza e apprensione per il futuro del nostro Paese. Il Paese mai come oggi ha bisogno di risposte rapide ed efficaci all’altezza della crisi economica e sociale, ma anche politica, che sta vivendo. (...).
Quando ieri sono entrato per la prima volta da senatore in quest’Aula mi ha colpito l’affresco sul soffitto, che vi invito a guardare. Riporta quattro parole che sono state sempre di grande ispirazione per la mia vita e che spero lo saranno ogni giorno per ciascuno di noi nei lavori che andremo ad affrontare: Giustizia, Diritto, Fortezza e Concordia. Quella concordia, e quella pace sociale, di cui il Paese ha ora disperatamente bisogno.
Domani è l’anniversario dell’Unità d’Italia, quel 17 marzo di 152 anni fa in cui è cominciata la nostra storia come comunità nazionale dopo un lungo e difficile cammino di unificazione. Nei 152 anni della nostra storia, soprattutto nei momenti più difficili, abbiamo saputo unirci, superare le differenze, affermare con fermezza i nostri valori comuni e trovare insieme un sentiero condiviso. Il primo pensiero va sicuramente alla fase costituente della nostra Repubblica, quando uomini e donne di diversa cultura hanno saputo darci quella che è ancora oggi considerata una delle Carte costituzionali più belle e moderne del mondo. (...)
La crisi è a un punto tale che potremo risalire solo se riusciremo a trovare il modo di volare alto e proporre soluzioni condivise, innovative e, lasciatemi dire, sorprendenti che sappiano affrontare le priorità e allo stesso tempo avviare un cammino a lungo termine: dobbiamo davvero iniziare una nuova fase costituente che sappia stupire e stupirci.
Oggi è il 16 marzo e non posso che ringraziare il Presidente Colombo che stamattina ci ha commosso con il ricordo dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani che provocò la morte dei 5 agenti di scorta. Al loro sacrificio di servitori dello Stato va il nostro omaggio deferente e commosso. Oggi bisogna ridare dignità e risorse alle Forze dell’ordine e alla magistratura. Sono trascorsi 35 anni da quel tragico giorno che non fu solo il dramma di un uomo e di una famiglia, ma dell’intero Paese: in Aldo Moro il terrorismo brigatista individuò il nemico più consapevole di un progetto davvero riformatore, l’uomo e il dirigente politico che aveva compreso il bisogno e le speranze di rigenerazione che animavano dal profondo e tormentavano la società italiana. (...).
Oggi inoltre migliaia di giovani a Firenze hanno partecipato alla «Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie», e mi è molto dispiaciuto non poter essere con loro come ogni anno.(...) Ho dedicato la mia vita alla lotta alla mafia in qualità di magistrato. E devo dirvi che dopo essermi dimesso dalla magistratura pensavo di poter essere utile al Paese in forza della mia esperienza professionale nel mondo della giustizia, ma la vita riserva sempre delle sorprese. Oggi interpreto questo mio nuovo e imprevisto impegno con spirito di servizio per contribuire alla soluzione dei problemi di questo Paese. Ho sempre cercato verità e giustizia e continuerò a cercarle da questo scranno, auspicando che venga istituita una nuova Commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte del nostro Paese. (...)
Penso alle risposte che al più presto, ed è già tardi, dovremo dare ai disoccupati, ai cassintegrati, agli esodati, alle imprese e a tutti quei giovani che vivono una vita a metà. (...). Penso all’insostenibile situazione delle carceri nel nostro Paese (...). Penso alle istituzioni sul territorio, ai sindaci dei Comuni che stanno soffrendo e faticano a garantire i servizi essenziali ai loro cittadini. Sappiano che lo Stato è dalla loro parte, e che il nostro impegno sarà di fare il massimo sforzo per garantire loro l’ossigeno di cui hanno bisogno. Penso al mondo della scuola e agli insegnanti che fra mille difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e responsabili.
Penso alla nostra posizione sullo scenario europeo: siamo tra i Paesi fondatori dell’Unione e il nostro compito è portare nelle istituzioni comunitarie le esigenze e i bisogni dei cittadini. (...). Penso a questa politica, alla quale mi sono appena avvicinato, che ha bisogno di essere cambiata e ripensata dal profondo, nei suoi costi, nella sua immagine, rispondendo ai segnali che i cittadini ci hanno mandato e ci mandano in ogni occasione. Sogno che quest’Aula diventi una casa di vetro, e questa scelta possa contagiare tutte le altre istituzioni.
Di quanto radicale e urgente sia il tempo del cambiamento lo dimostra la scelta del nuovo Pontefice, Francesco (...)
Chiudo ricordando cosa mi disse il Capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo Antonino Caponnetto, poco prima di entrare nell’aula del maxiprocesso «Fatti forza, ragazzo, vai avanti a schiena dritta e testa alta e segui sempre e soltanto la voce della tua coscienza».
Sono certo che in questo momento e in quest’Aula l’avrebbe ripetuto a ciascuno di noi.

Repubblica 17.3.13
“Subito un segno di cambiamento il disagio della gente va capito io mi occuperò ancora di giustizia”
Il neo presidente: il M5S? Con loro tante affinità
di Liana Milella


LA TELEFONATA più importante? «Quella con Napolitano a cui ho detto “Sono pronto a cominciare questo cammino”». Come confessa la moglie Mariella, mentre attende al Senato l’esito del ballottaggio, «stamattina ci siamo svegliati in un modo e adesso la nostra vita sta diventando un’altra». Nella quale però domina l’assoluta normalità, tant’è che Grasso — ufficialmente di nome Pietro, ma Piero per gli amici — mangia in piedi alla buvette del Senato mozzarella e prosciutto e dice subito «guardate che ho pagato io». A sera cena in famiglia con il figlio Maurilio, funzionario della squadra mobile all’Aquila, che torna apposta per stare con lui e la madre. Di mezzo ci sono 16 applausi in aula durante il suo discorso di insediamento, quando cita la costituente Teresa Mattei, quando definisce la nostra Costituzione «la più bella del mondo», quando ricorda il sacrificio di Moro.
L’altro ieri procuratore nazionale antimafia, ieri senatore, adesso presidente del Senato. La sua voce ha avuto sfumatura incrinate dalla commozione quando ha parlato in aula. Cosa prova adesso?
«Devo confessare che il momento davvero più emozionante e commovente l’ho vissuto quando sono uscito dal Senato e ho avuto la sorpresa di trovarmi davanti un mare di folla che mi ha applaudito e ha gridato “siamo con te, forza, questo Paese può migliorare”».
Nei giorni scorsi, quando Repubblica ha scritto che lei poteva diventare presidente del Senato, lei però alzava le spalle...
«Ero incredulo, certo. Lo sono stato fino a quando non mi ha chiamato Bersani. Erano le otto. Mi ha detto “ti propongo di fare il presidente del Senato”. Gli ho risposto “aspetta un attimo perché devo sedermi”».
Cos’ha provato durante la votazione?
«Io ero quasi incredulo per quello che stava avvenendo. Il ballottaggio è stato emozionante. In una sfida così può avvenire di tutto, ma poi mi sono reso conto che ce l’avrei fatta».
Ha già parlato con Napolitano da seconda carica dello Stato?
«Sì, ovviamente l’ho chiamato subito dopo la mia elezione. Gli ho detto che sono pronto per questo cammino che certo non sarà facile, ma nel quale, come ho sempre fatto nella mia vita, investirò tutte le mie energie».
Nel suo discorso lei ha citato Antonino Caponnetto, l’ex capo dell’ufficio istruzione di Palermo quando c’era Falcone, e quella frase che le disse all’inizio del maxi-processo «fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena diritta e testa alta seguendo la voce della tua coscienza». Sarà possibile farlo anche adesso?
«Ho lasciato il mio lavoro di magistrato, che ho amato profondamente, per spostarmi
in politica con l’obiettivo di fornire la mia competenza tecnica sulla giustizia. Tant’è che, nel giorno stesso in cui si è insediato il nuovo Parlamento, ho tenuto a depositare subito la mia proposta di legge sull’anti-corruzione. Autoriciclaggio, voto di scambio politico- mafioso, falso in bilancio punito severamente, marcia indietro sulla concussione. Da quando sono stato eletto ho lavorato solo su quello perché volevo dare subito un concreto segnale di cambiamento, dimostrando che dalle parole di Bersani si poteva passare subito ai fatti».
E adesso che succede? Cambierà tutto? La giustizia passerà in secondo piano?
«Nient’affatto. Tant’è che ho subito proposto di fare la commissione d’inchiesta sulle stragi irrisolte».
Non ci sono state gelosie nel suo partito per questo incarico?
«Assolutamente no. Nell’assemblea del gruppo le parole di Bersani sono state accolte da un’acclamazione. Ho ricevuto strette di mano e abbracci. Anna Finocchiaro mi ha detto subito di essere disponibile a darmi una mano e mi ha incoraggiato ad affrontare questo impegno con entusiasmo».
E Berlusconi in aula quando si è avvicinato a fine votazione che le ha detto?
«È venuto a complimentarsi. Ho ribadito che sarò il presidente di tutti e lui ha aggiunto che condivideva molte cose del mio intervento».
Ha già avuto un primo contatti con i senatori grillini?
«Fino al momento della mia elezione non ho avuto alcun avvicinamento con loro. Poi, dopo essere stato eletto, ho parlato con Crimi che si è congratulato con me. Gli ho detto che c’è molto da fare e che ci sono anche molti temi in comune che possiamo affrontare. Siamo tutti e due palermitani e veniamo entrambi dal mondo della giustizia. Le condizioni per una possibile affinità ci sono e i punti su cui poter lavorare pure, quelli che ho citato nel mio discorso, la trasparenza, la necessità di diminuire i costi per una nuova politica, l’obiettivo di trasformare il Senato in un casa di vetro, i diritti che non devono diventare mai privilegi».
Progetti di lungo respiro, ma lei non fa i conti con una legislatura che potrebbe essere brevissima?
«C’è molto da fare certo, ma io lavorerò come se questa legislatura dovesse essere piena. I cittadini che hanno votato hanno espresso un disagio che va recepito e deve trovare una risposta. Adesso è importante che il Parlamento cominci subito a lavorare e che si faccia il governo».
Ne ha già discusso con il capo dello Stato?
«L’ho fatto, ma ne riparleremo non appena cominceranno le consultazioni».
Ha un segreto da rivelarci?
«Ho portato con me, nel taschino della giacca, l’accendino che fu di Falcone».

l’Unità 17.3.13
Grillo, che batosta. Ma sul blog parla del Papa
Nella giornata più drammatica per i neoeletti, sul suo blog riflessioni su Bergoglio
E l’attacco a Laura Boldrini, per la sua vicinanza ai migranti...
di Marco Bucciantini


Il tonno dentro la scatola sembra proprio lui, Beppe Grillo. Tirato su a strascico nel primo pomeriggio di politica dura e pura: scelte, uomini, donne, responsabilità, visione. Mentre si consumava il dramma dei 53 senatori a Cinque Stelle presi in mezzo fra Grasso, Schifani e la dileggiata scheda bianca, sul blog del capatàz sorrideva sereno e pacioso il Papa nuovo, dietro un titolo vergato con caratteri barocchi: «L’importanza di chiamarsi Francesco». Due scene opposte: il marasma a Palazzo Madama, la beatitudine sul blog, l’unico punto di riferimento comune, unica sede, unico luogo “fermo” e rintracciabile di questo movimento.
Nell’intervento francescano Grillo cerca, manomettendo un po’ la realtà, di infilare il Movimento 5 Stelle nel solco della nomina di Jorge Mario Bergoglio, «perché questo movimento è nato per scelta il giorno di San Francesco, il 4 ottobre (del 2009)», senza contributi, né sedi, né tesorieri: poverello, come il frate d’Assisi, e «molte sono le affinità» che fanno salutare con affetto la scelta del «gesuita di mamma genovese». Un Papa «low cost», scrive Grillo, che come il movimento «è stato crocifisso dalla stampa, alla ricerca di scandali».
Intanto, là a Roma ballavano due nomi, due siciliani, uno di Licata, l’altro di Palermo: l’ex procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, e l’ex ragazzo di bottega di uno studio legale che poi si seppe ad alta densità mafiosa, Renato Schifani, che da avvocato difese la causa di Giovanni Bontate, il meno noto della famiglia di mammasantissima. La terza via per i Cinque Stelle era stretta stretta: la scheda bianca, il giorno prima additata come esempio di vecchia e logora politica. Siccome tutto è istantaneo, corrono svelte le voci di divisione fra i senatori e il popolo dei blog chiede una bussola nel mare in tempesta. Ma niente, è giornata di estasi. Tommaso ci prova: «Beppe, ma dove sei???Allora prendiamo iniziative contro i traditori oppure il nostro programma va a farsi fottere? Che vergogna».
Forse Beppe è al telefono con Vito Crimi, il capogruppo al Senato. Chiede di salvare le apparenze, di uscirne sconfitti ma compatti, «nessuna libertà di voto», ma scheda bianca, al limite nulla. Surreale. E se davvero c’è stata la telefonata, nell’urna si è compiuto il primo strappo fra un gruppo di parlamentari e il capatàz. Tipo vendicativo, com’è noto a Valentino Tavolazzi, Giovanni Favia e Federica Salsi, consiglieri eletti qua e là ma parificati dallo stesso provvedimento di espulsione dal Movimento, per disobbedienze varie.
Cosa succederà «ai traditori del Senato», come vengono chiamati nei commenti del blog, si vedrà, appena finita la scuffia papale, perché dell’attualità restava a tarda sera solo il velenoso saluto alla nuova presidente della Camera, Laura Boldrini, firmato da Roberta Lombardi, capogruppo del M5S a Montecitorio. «...la Boldrini è in quota Sel, che è il 3% della rappresentatività del Paese, mentre il Pd aveva detto di voler rispettare la proporzione delle forze politiche uscita dal voto popolare...». Qualche rancoretto anche per Vendola (che aveva chiesto al centrosinistra di spostarsi su Roberto Fico, candidato di Grillo) e poi il rilancio sui questori (3) che dovranno essere nominati, e difatti in serata il gruppo del M5S si è incontrato proprio con Laura Boldrini.
La sua elezione dev’essere sembrata un affronto per Grillo, ormai convinto di prendersi la presidenza della Camera. Lei, una carriera davvero francescana, dalla parte degli ultimi e dei migranti, quelli che il caudillo di Genova dimentica (di proposito) nel suo programma, e perfino osteggia nei vari comizi, dove accarezza per il verso del pelo la bestia razzista. Quando il presidente Napolitano, ad esempio, invocò lo «ius soli», ovvero la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati nati sul suolo italiano, Grillo decretò l’idea come «senza senso. Una volta i confini della Patria erano sacri, i politici li hanno sconsacrati». Amen.

l’Unità 17.3.13
I 5 Stelle scoprono i franchi tiratori
Al Senato il gruppo dei grillini si spacca a metà, tra urla, lacrime e ordini contraddittori
Crimi difende la linea ma i siciliani ribattono: «Se vince Schifani a noi quando torniamo a casa ci fanno un mazzo così»
di Andrea Carugati


ROMA Urla, lacrime, tensione. Un gruppo «spaccato in due come una mela», quello grillino, riunito nel primo pomeriggio nell’Aula della Commissione Attività produttive del Senato, che da una settimana è diventata il quartier gene-
rale. Sul tavolo i 53 senatori a 5 stelle hanno la prima decisione importante, la scelta del presidente del Senato. Da una parte Schifani, dall’altra l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso. In mezzo la volontà, ribadita per tutto il giorno dal capogruppo Vito Crimi, di restare al di fuori «dalle strategie e dai giochi dei partiti, cui siamo estranei». Dunque votare scheda bianca, o ribadire il nome del loro candidato Luis Orellana.
Certo, Grasso e Schifani per loro pari non sono, ma il punto è un altro. Sporcarsi le mani scegliendo o fare come Ponzio Pilato? Crimi difende la linea per tutta l’ora e mezza della riunione, ma in tanti non ci stanno. I cinque siciliani, innanzitutto. «Se vince Schifani a noi quando torniamo a casa ci fanno un mazzo così...», dice uno di loro durante la riunione. Applausi. Sono Ornella Bertorotta, Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Nunzia Catalfo, Michele Giarrusso. Impossibile dimostrare il loro voto. Ma è dal Sud, dai campani, dai calabresi, che si muove l’onda «No Schifani». Alla fine i voti a Grasso sopra la quota dei 123 senatori sicuri sono 14. Impossibile dire se sono tutti grillini. Ma è assai probabile che almeno una decina di voti per Grasso arrivino dai 5 stelle. Franchi tiratori, nell’ottica della squadra “compatta” che al primo voto si è già squagliata. «Non possiamo fare eleggere un mafioso....», è uno degli urli che si sente dal corridoio. Un senatore di Matera, Vito Petrocelli, a metà riunione si alza e se ne va, scurissimo in volto.
Anche i consiglieri regionali della Sicilia, guidati da Giancarlo Cancelleri, si fanno sentire via telefono: «Schifani non ce lo possiamo permettere». In quel momento, infatti, i 20 senatori montiani non hanno ancora deciso come votare. Nell’aria c’è la possibilità di un loro voto per Schifani (che poi non ci sarà). In quel caso, senza il soccorso a 5 stelle l’elezione del fedelissimo di Berlusconi è quasi certa. Di qui le lacrime. «Avevamo quasi tutti gli occhi lucidi», racconta un senatore. I grillini escono alla spicciolata, schivano i cronisti. Qualcuno si arrabbia per le domande. «Parla il nostro portavoce Crimi». Lui ribadisce la linea anticipata al mattino: «Non cambia il nostro orientamento, non facciamo da stampella a nessuno». Il candidato Orellana fatica a spiegarsi: «Non è stato un voto unanime, abbiamo deciso a maggioranza». Con quali numeri? Mistero. «Voteremo scheda bianca o nulla».
Nel frattempo, su Facebook, il senatore-operaio Bartolomeo Pepe, campano, annuncia la «libertà di voto»: «Senza contrattazioni e senza trucchi. Borsellino ci chiede un gesto di responsabillità e noi non siamo irresponsabili». Spiega poi Pepe in un corridoio del Senato che «l’appello in rete con cui Salvatore Borsellino ci invitava a votare Grasso ha colpito molti di noi». Lui stesso ammette di aver votato l’ex magistrato. «Quell’appello è arrivato dopo la nostra riunione, e ha convinto molti». E l’ordine di scuderia? «Solo un consiglio», spiega Pepe. E Orellana conferma: «Dal gruppo è arrivato solo un invito, non era un ordine».
Crimi, dal pomeriggio, aveva spiegato che comunque quella di Grasso era «una scelta di qualità, un uomo fuori dall’apparato». «Noi siamo stati uno stimolo perchè si arrivasse a nomi di questo tipo». Ma i vertici non volevano compromessi col i democratici. Crimi, dopo la tesa riunione, si è appartato per une ventina di minuti al telefono prima di entrare nell’Aula del Senato. Probabile che dall’altro capo del filo ci fosse il comico genovese. Crimi gli ha spiegato che i dissidenti non si potevano fermare. E Grillo avrebbe risposto: «Il vero risultato è avergli fatto cambiare i candidati». Circola la voce che sia stato Casaleggio a indicare la libertà di voto. Ma in realtà i senatori pro-Grasso hanno già deciso a prescindere. Crimi si consola: «Nella stragrande maggioranza i nostri hanno votato scheda bianca, nulla oppure Orellana. Qualcuno nell’urna ha agito secondo coscienza, non se l’è sentita di vedere rieletta una persona come Schifani...». I voti espliciti per Orellana, però, sono solo 5. Lui si sfoga: «Certo che il nome di Grasso potevano farlo prima..».
Anche in aula, tra i senatori grillini c’è ancora un’aria tesa. Parlano tra loro a capannelli. «Dai, non te la prendere, non siamo un partito», dice una senatrice a un collega. «Pensavo fossimo cresciuti un po’...», alza la voce un’altra grillina. Andrea Cioffi, campano, spiega: «Noi siamo come un bambino che è appena nato, abbiamo ancora bisogno di crescere, di diventare adolescenti e poi adulti...». In rete succede di tutto, c’è chi plaude alla scelta pro-Grasso e chi invoca la cacciata dei traditori: «Vi abbiamo mandato lì per distruggere il sistema». Un popolo diviso, come i suoi cittadini-portavoce in Senato. Crimi se la prende col Pd per non aver votato il grillino Fico alla guida della Camera: «Anche in questa occasione si è rotta la prassi istituzionale che assegnava una delle Camere al maggiore partito di opposizione. Ora vogliamo un questore».

l’Unità 17.3.13
E a un tratto apparve ai grillini lo spirito di Santa Dorotea
di Massimo Adinolfi

MA CHI L’AVREBBE MAI DETTO CHE SUL CAMMINO DELLA XVII LEGISLATURA si sarebbe disegnata così presto la delicata figura di Santa Dorotea? Che in mezzo a tanta gioventù scanzonata, alla prima esperienza parlamentare, si sarebbe materializzato il fantasma del doroteismo, della più immarcescibile delle correnti democristiane, tenuta solo qualche decennio fa a battesimo nel convento della santa martire cristiana? Ci aveva provato Monti, a dicembre, riunendo le truppe proprio nel convento romano, a rievocarne lo spirito. E ieri gli sarebbe certo servita un po’ di quella capacità di manovrare in cui i dorotei furono maestri. Scheda bianca, è stata l’indicazione di Scelta civica, dopo che il Presidente Napolitano aveva stoppato la candidatura del Professore. Il quale aveva cercato di mantenere un profilo super partes, rifiutando accordi col Pd alla Camera, ma finendo anche col dare l’impressione di tenere troppo alla propria persona, e troppo poco alle necessità della mediazione politica.
Nel frattempo, i servigi e i prodigi della martire cristiana sono volati via, verso i cittadini senatori del M5S. I quali cittadini, nonostante la predicazione urbi et orbi della massima pubblicità per ogni atto, riunione o consiglio al quale siano chiamati a partecipare, hanno pensato bene di osservare un conventuale, religiosissimo silenzio (fatte salve le urla e i pugni sul tavolo carpiti da giornalisti indelicati) quando si è trattato di parlamentare fittamente non nell’aula del Parlamento ma fra di loro, a porte chiuse, al fine di prendere la prima decisione di grande significato politico della legislatura.
E hanno deciso. Hanno deciso di non decidere, in modo che la non decisione producesse il risultato di una decisione senza avere il significato di una decisione. Sotto la presidenza benaugurante del democristiano più longevo tuttora in servizio, il doroteo Emilio Colombo, i grillini hanno pensato bene di fare i dorotei. Hanno messo nell’urna qualche voto nullo, un bel po’ di schede bianche, ma anche voti a Pietro Grasso sufficienti a bilanciare quelli che fossero venuti a Schifani dalle file di montiani irritati. Come diceva quella vecchia massima dal sapore andreottiano? Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio: qualche neofita a cinque stelle l’ha fatta propria.
Non era facile cavarsi di impaccio. Non si poteva tornare in Sicilia portando in dote all’elettorato dell’isola un Renato Schifani più azzimato che nella scorsa legislatura, ma non si poteva neppure dichiarare con franchezza che non si poteva, e trarne le conseguenze alla luce del sole. Non si poteva dire di sì alla candidatura del Pd, ma non si poteva neppure dire di no all’ex procuratore antimafia. Dopo tanti proclami in materia di giustizia e legalità, nella scelta fra il pedigree di Grasso e quello di Schifani non si poteva non scegliere, ma non si poteva neppure scegliere di scegliere: bisognava scegliere senza dar mostra di scegliere. Scegliere, ma poco. E poi, a proclamazione avvenuta, non applaudire però volendolo, o applaudire solo qualche passaggio, senza dar troppo a vedere di applaudire, perché l’applauso non sembrasse convinto come quello del Pd, senza però smorire nel garbo indispettito del Pdl.
È la politica, bellezza. Quella cosa per cui tu scegli in coscienza, ma gli altri con le tue buone intenzioni ci fanno i calcoli su. Oppure: tu rivendichi la tua autonomia, diversità, alterità. Ma agli occhi degli altri sembri far da stampella. O infine: tu punti al risultato più giusto e più ragionevole, ma gli altri un minuto dopo gridano all’inciucio.
È la politica, ma è pure una buona notizia (benché sia di sicuro un paradosso) che, sotto una qualche specie di doroteismo, la complessità della decisione politica abbia investito in pieno il gruppo dei senatori a Cinque Stelle, sia pure nel segreto dell’urna, attraverso riunioni secretate e per il tramite di dichiarazioni rilasciate a mezza bocca. Ma la novità è passata; il fatto poi che abbia preso anche l’aspetto di un difficile passaggio parlamentare le dà un ulteriore valore aggiunto.
Impossibile ora fare pronostici sulle altre due partite che rimangono da giocare, quella per il Quirinale e quella per Palazzo Chigi. Se una strada fosse aperta, bisognerebbe però percorrerla. Dopotutto anche i dorotei, gli inventori della memorabile professione del franco tiratore, prima o poi si facevano vedere alla luce del sole. Perché disfacevano sì i governi, ma sapevano anche farli.

l’Unità 17.3.13
Sul web monta la ribellione: «In Aula state sbagliando tutto»
Migliaia di post, tweet, e commenti intasano la Rete
La base a 5 Stelle protesta: «Fuori i traditori»
Altri difendono la linea: «Beppe sa quello che bisogna fare»
di Toni Jop


Disperescion! Ieri il web era una padella per patatine, friggeva; e sulla graticola c’erano una serie di persone, quelle che siedono nelle poltrone di prima fila del Movimento Cinque Stelle, quelli col posto riservato. A cominciare da Grillo, per finire con i capi delegazione dei gruppi parlamentari. Ed era vera disperazione quella che spingeva centinaia di cittadini, soprattutto votanti del Movimento ma anche non, a rivolgersi al capo supremo per scuoterlo.
Imploravano uno spiraglio di giustizia, scongiuravano affinché non si lasciasse catturare da uno spirito «politicista» nella scelta della condotta da adottare nelle aule del Parlamento in occasione dell’elezione dei due presidenti. Di Grasso, soprattutto, un magistrato antimafia opposto a un candidato, Schifani, toccato da indagini anti-mafia.
Durissima, non è vero? Troppo dura anche per un manipolo compatto, come quello Cinque Stelle, ma non suicida. E infatti, mentre il web si arroventava, volava nell’aere appeso al codice binario la battuta dei senatori del Movimento venuti a Roma dalla Sicilia: loro, dicevano, se la sarebbero vista brutta al ritorno nella patria delle cosche e del sangue versato se non avessero impedito l’elezione di un candidato come Schifani. La falla si apriva, il “duro e puro” andava a sbattere contro il muro della realtà, la predicata orgogliosa atarassia grillina nei confronti di «tutto il resto che non siamo noi» rischiava di infrangersi su una scelta semplice, non contorta, guidata da un senso di giustizia intuibile, infrangibile.
LA RIVOLTA
Ma era evidente che quel manipolo di parlamentari, in gran parte giovanissimi, agganciati a una malizia elementare ma non maligna, non avvezzi alla grande complicazione del severo gioco democratico che si rigenera senza sosta nelle aule prime della rappresentanza, avrebbe “inventato” la sua strada, ora dopo ora, dando vita a una soggettività profumata di responsabilità nuova nei confronti, prima di tutto, della storia, a dispetto delle direttive interne che li avevano spinti, in origine chiusi e arcigni, tra i banchi di Camera e Senato.
Su quegli scranni sapevano che era in atto una rivolta che li riguardava da vicino, la seguivano sui monitor, ne apprezzavano la forza e anche la pericolosità: non fosse passato Grasso, al Senato, avrebbero dovuto rispondere per sempre anche agli elettori dai quali Grillo si attende il 100 per cento dei consensi. Il bello dei tempi nuovi sta proprio nel fatto che quando sei in Parlamento non puoi far finta di non esserci, ci sei e quel che accade è anche tua responsabilità; poi, puoi, come dice Grillo, giurare che «è un piacere» ma intanto devi remare e il piacere spesso non sta dove immaginavi di trovarlo.
Stiamo riassumendo il senso di migliaia di messaggi, di post, di tweet che hanno intasato siti e blog e social network e hanno raccontato le grandi onde emotive che hanno solcato la giornata di ieri. A cominciare dallo choc prodotto tra i grillini dalla statura della nuova presidente della Camera, Laura Boldrini. «Mi è piaciuta», «È brava, convincente, roba nuova», «Che sorpresa, Bersani ha fatto la mossa giusta». E via, in un fiume che corre veloce, mentre sparisce dai post la dicitura «PdmenoL», mentre sulle rive si appostano i pretoriani del fronte e attaccano: «Lasciate perdere, non fatevi incantare!», «Vai Beppe, hai ragione tu, lasciamoli bollire nel loro brodo, non perdiamo di vista la vittoria finale». Fino alla dichiarazione “terminale”: «Teniamo fede agli impegni, alla linea. Beppe sa quello che bisogna fare».
Ecco: «Beppe sa quello che bisogna fare» è la pietra-chiave di un sistema di potere interno che la realtà e in larga misura anche il web hanno messo ieri in seria discussione. Infatti, nel vallo tra una votazione e l’altra, non sono pochi i votanti cinquestelle che, temendo di essere loro malgrado costretti a firmare l’elezione di Schifani, chiedevano conto a Grillo proprio di questo potere.
LA DELUSIONE
«Valerio G» da Roma, sul blog di Grillo, esempio per tutti, lamenta il fatto che il meccanismo decisionale che ha portato alla scelta dei due candidati grillini e che ha informato l’atteggiamento dei gruppi parlamentari non corrisponda alle attese, tradisca le promesse, azzeri le premesse: «Ho votato M5S scrive mentre al Senato il Movimento sembra propenso a nascondersi dietro la scheda bianca perché anch’io voglio decidere». Tutto, osserva, è nelle mani di «poche decine di persone», «ancora devo vedere conclude la democrazia diretta».
Niente democrazia diretta, niente piattaforma web per il Movimento. Ma non è questo il punto: il punto è il tempo che passa, l’Italia che soffre, l’occasione di mettere mano a quella rivoluzione dolce che stava nei cuori di chi ha votato, da sinistra, Beppe Grillo. E il tempo suggerisce che il termine sta per scadere, che l’occasione sta sfumando. «Vinceremo le elezioni? si chiede Mario – benissimo, e dopo?».

il Fatto 17.3.13
Gli apriscatole vincono (ma non lo sanno)
I vecchi nomi hanno dovuto fare un passo indietro
di Antonello Caporale


Gli occhialoni latinoamericani di Silvio Berlusconi, finiscono all’opposizione. Impiantato sulla sedia, goffo, gonfio, sicuramente impensierito da quel che sta accadendo, guarda la scena inorridito. A corona, come un gran consulto di medicina, una decina di colleghi auscultano il pensiero del Capo. Lui è comunque ancora un Capo, Pierferdinando Casini purtroppo non più. Irriducibile poltronista, cammina senza meta: “Sono presente in corpo ma non in spirito”. E Verdini ha le mani in testa, e Gasparri corre di qua e di là senza costrutto, e quel Calderoli oggi diafano, spento, inutile alla bolgia mancata. Bastano questi fermi immagine a dare senso alla giornata e comunicare che nel sistema collaudato di potere qualcosa si è ingrippato all’improvviso. Non è il mondo nuovo se anche i grillini si disperano e battono i pugni sul tavolo, e gridano e si dividono. Ma qualcosa di straordinario è cambiato.
SALE SUL PODIO della Camera Laura Boldrini e inizia così: “Il diritto degli ultimi”. Gli ultimi prendono il posto dei primi, l si parte da dietro, dall’ultima ruota del carro. Questa signora cinquantenne, senza alcuna chance di carriera nè di pratica nel Palazzo, diviene presidente a Montecitorio. Eccola con l’abitino nero dentro la corte di commessi col vestito di gala, i guanti bianchi la soccorrono e la conducono nelle stanze che contano. È tutto strano, è un bell’imprevisto, è la mossa del cavallo di Bersani, oppure il tizzone ardente che i ragazzi a cinque-stelle hanno appiccato al suo sedere. Ma sembra cambiato il clima, il sistema, il tipo di persone che rappresentano l’Italia e la politica. “C’è bisogno di sobrietà, c’è bisogno di etica”, dice Boldrini. Sembra un’ovvietà, invece no. Di chi è il merito? “Ieri sera alle cinque mi sono ricordato di questa Laura, l’avevo incontrata a Linea notte e mi aveva fatto una buona impressione. Vado da Bersani e gli dico: perchè non proviamo a proporla? Lui mi risponde: fammi pensarci un po’”. Quando le disgrazie si trasformano in festa succede quel che racconta Andrea Orlando. Il segretario, disperato dal no di Monti a qualunque nome diverso dal suo, propone di sparigliare e indica Boldrini e Grasso. Si gioca tutto. Dovevano essere pietre e invece sono fiori: un boato accoglie la sua proposta. I parlamentari del Pd danno il via libera con un applauso liberatorio. Ci stanno tutti: chi per finta chi davvero. E inizia l’azzardo. Via la Finocchiaro, tenutaria dei vecchi equilibri: “Se dicessi che non sono dispiaciuta non sarei sincera”. È dispiaciuta ma si va avanti.
AL MATTINO a Montecitorio è tutto più semplice, i grillini si appollaiano sugli scranni più alti e aspettano l’esito. Sono compresi dalla parte, ma timorosi, impreparati a reggere l’urto così possente. Il loro apriscatole ha funzionato, ma neanche lo sanno. Il bello o il brutto arriva al Senato quando la loro posizione decide la vita e la morte: Schifani o Grasso. Il primo è stato indagato per mafia. Il secondo è stato procuratore antimafia. Ecco allora che scappano da sè stessi e l’apriscatole sembra squarciare il loro corpo. Paola Nugnes: “Non possono chiederci di cambiare come se fossimo plastilina”. Un siciliano: “Se vince Schifani è meglio che non torni a casa”. Guerreggiano, urlano, si dimenano mentre la rete spinge, il mondo sommerso e vulcanico, a volte veramente paranoico li tritura di avvertimenti. Al piano terra di palazzo Madama queste persone si dilaniano su cosa fare, e come fare a non inciampare, a essere onesti con la base ma non idioti, Cosa è più utile alla causa? Si dimenano, sì, sono corpi che dondolano. Grillo da Genova non emette comunicati. Li aspetta alla prova del nove. Al secondo piano dello stesso Palazzo gli uomini che hanno arraffato il Potere e se lo sono mangiato a merenda assistono allarmati alla possibile liquefazione. C’è il novantatreenne Emilio Colombo che presiede: sembra spavaldo. La sua età gli consente di guardare il presente con occhi disinvolti. Bacia il segretario d’aula, un giovanotto grillino ancora disorientato come quando ti prendono le vertigini: tutto gira per davvero? E gira nel verso giusto? Sappiano solo che Grasso da presidente rilegge le parole della vedova di un agente della scorta di Falcone: “A voi mafiosi, che siete anche qui dentro, io chiedo... ”. È il Senato che ascolta, ed è già una rivoluzione. Oppure un effetto ottico. Dipende da dove ti metti, da chi guardi. Alla buvette hanno finito ogni cosa: tramezzini e mozzarelle, banane, arancini. I cestini pieni di carte, finestre spalancate. Molto disordine in giro. In strada la folla si arrampica sui cordoni di ferro, chiude l’ingresso come fosse una curva in attesa del capitano. Poliziotti nervosi, è successo purtroppo che qualcuno abbia gridato a Berlusconi “Vergognati”. E lui se l’è presa: “Devi vergognarti tu”. E loro di rimando: “Buffone, falla finita”. Sirene accese, motociclisti in pista, grillini in strada con il trolley. Si torna a casa e saranno sicuramente guai. L’alba forse è iniziata ma con questa nebbia non vedi niente. “Speriamo bene” dice una ragazza, Francesca. L’idea di avere in mano l’apriscatole le era piaciuta. È un nuovo giorno davvero? Vatti a fidare...

il Fatto 17.3.13
Lacrime, urla e voti. La rivolta dei siciliani divide il Movimento
Paura di far vincere Schifani e fedeltà alla linea, i senatori grillini si spaccano e lasciano libertà di coscienza
Una decina sceglie il meno peggio
di Paola Zanca


Io un mafioso presidente del Senato non lo votooooo! ”. La voce di donna tuona dietro la porta della commissione Industria, terzo piano di palazzo Madama. I 54 senatori Cinque Stelle, da quasi due ore sono chiusi lì dentro, a scannarsi su chi votare al ballottaggio tra Pietro Grasso e Renato Schifani. Vorrebbero restare fuori dai giochi, ma il Pd non ha i numeri e senza di loro, rischia di vincere il candidato del Pdl. I montiani sono riuniti pochi metri più in là, bisognerebbe capire che fanno: ma il rischio, nel segreto dell’urna, si corre lo stesso. A dare battaglia sono i sei siciliani, capitanati da Mario Giarrusso. Sono loro a spiegare ai colleghi che non si scherza, che se viene rieletto Schifani quando tornano a casa gli fanno “un mazzo così”. Urlano, piangono, battono i pugni sul tavolo, per quattro volte partono gli applausi, sui computer si controlla cosa dice la base. Nessuna risposta nemmeno dalla Rete: “È spaccata a metà”. Qualcuno se la prende con Casaleggio: se ci fosse la piattaforma, potremmo chiedere agli attivisti cosa fare. Altri si lamentano perché Grillo li ha buttati in acqua, “come bambini che non sanno nuotare” (ieri, nessun post, solo un commento sul nuovo papa e le “affinità tra il francescanesimo e il M5S”). Arriva un messaggio di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo. Li implora di votare Grasso. Di nuovo lacrime, di nuovo urla. Dentro ci sono le telecamere della tv danese alle prese con un documentario sul Movimento. I cronisti italiani sono fuori, ma sentono tutto. Due minuti prima delle 16, esce un collaboratore: “Scusate, siamo alle battute finali, dovreste spostarvi”. Troppo tardi. “Ma-rio sei scorretto! - grida un’altra donna rivolgendosi a Giarrusso - Io non mi voglio assumere la responsabilità di votare né quello del Pd né quello del Pdl”. Vito Crimi, il capogruppo, cerca di riportare la calma: “Potete stare zitti? Vogliamo votare? ”. Raccontano che anche lui, siciliano trapiantato a Brescia, sia dilaniato dai dubbi. Ma non può spaccare il gruppo al secondo giorno di legislatura. Alla fine non votano. Non si vogliono contare. Il toscano Maurizio Romani esce piuttosto provato. Recita il solito mantra: “Uno vale uno”. E mai come questa volta è vero.
IL GRUPPO ha deciso: libertà di coscienza. Ma non si può ammettere davanti ai giornalisti. I siciliani lo scrivono su Face-book, Crimi dichiara che il gruppo “ritiene di non modificare le proprie intenzioni di voto”. Scheda bianca, nulla, astensione? Non risponde e così permette a chi non se la sente “di vedere rieletta una persona come Schifani” di muoversi liberamente nella nebbia del voto segreto. Alla fine sono una decina i Cinque Stelle che scrivono il nome di Grasso sulla scheda. Ai 6 siciliani (Giarrusso, Campanella, Santangelo, Catalfo, Bocchino e Bertorotta) si aggiungono il napoletano Bartolomeo Pepe, il calabrese Maurizio Molinari, il pugliese Maurizio Buccarella, forse anche Luis Alberto Orellana. Per inquadrarli basta osservare il momento della proclamazione di Grasso presidente. Quando si annuncia il risultato, i Cinque Stelle non applaudono. I siciliani sembrano statue di cera. I piemontesi Carlo Martelli e Alberto Airola li osservano: Martelli li indica e scuote la testa. Intanto Schifani è andato a stringere la mano a Grasso: parte un secondo applauso. I siciliani si alzano, guardano verso i banchi di dietro. Niente, gli altri sono tutti seduti. Terzo applauso, la proclamazione. Giarrusso si alza, fa cenno ai compagni. Stavolta sono tutti in piedi, ma non applaude nessuno. Quando Grasso comincia a parlare, Giarrusso si arrende, batte la mani. Lo fanno in una decina. Lui si gira verso la pugliese Barbara Lezzi, allarga le braccia come a dire “su, dai”. Lei resta immobile.
È LA PRIMA IMMAGINE delle due anime del Movimento, messe a nudo dalla mossa del Pd. I Cinque Stelle dicono che per loro è già una vittoria, che senza i grillini in Parlamento, Laura Boldrini e Pietro Grasso non sarebbero mai arrivati dove sono. Ma lo smacco è evidente: quando hanno letto i nomi dei candidati del Pd, ieri mattina, sono rimasti tutti di sasso. Delusi perché su questi nomi un dialogo si poteva intavolare; arrabbiati perché alla fine la Camera anziché a loro, che hanno il 25 per cento, è andata a Sel che ha poco più del 3; risentiti perchè il Pd per la prima volta li ha messi con le spalle al muro. “Vogliono farci sbilanciare - spiega il deputato Andrea Cecconi - Ma per noi sarebbe il suicidio”. Il rischio di restare in piccionaia, però, non è da meno. Adesso la partita è per i questori, le presidenze delle commissioni, magari il Copasir. Ieri, una delegazione di deputati ha già posto il problema alla presidente Boldrini: vorrebbero due vicepresidenti, un questore (Carla Ruocco e Laura Castelli in pole position) e un segretario. “Ci spettano come primo partito - dicono - Ma è una prassi che non è scritta in nessun regolamento”.

Repubblica 17.3.13
I grillini si spaccano tra le lacrime
“Un errore votare scheda bianca a noi siciliani ci fanno un mazzo”
Diktat di Beppe ai dissidenti: bugiardi, andatevene
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Piero Grasso diventa Presidente di Palazzo Madama un’ora prima del voto in Aula, quando uno dei senatori grillini siciliani — lacrime agli occhi — manda in frantumi la linea ufficiale del gruppo e piega la granitica compattezza del movimento: «Se vince Schifani, non mi lasciano attraversare lo Stretto. E mi daranno del mafioso». «Ci fanno un mazzo... «, aggiunge un collega. E così il primo voto parlamentare del movimento sancisce una drammatica spaccatura. Almeno dodici di loro scelgono l’ex magistrato. A sera il capogruppo Vito Crimi confida sincero: «Non potevamo controllare un voto segreto. Né vogliamo crocifiggere chi ha votato per Grasso». La crepa ormai è evidente e il prezioso bottino di voti grillini alimenta le speranze del Pd anche per il nuovo governo. Sel, intanto, apre un canale con il movimento.
Dalle 14 alle 16 si consuma lo strappo, stavolta senza la tradizionale diretta streaming. Le truppe grilline sono riunite in una sala al terzo piano di Palazzo Madama. Crimi, in contatto costante con Gianroberto Casaleggio, tenta di evitare l’implosione: «Se non votiamo per Orellana, ci massacrano ». E’ dal mattino che il paziente capogruppo cerca di frenare un’escalation pericolosa. Ma la fronda isolana — sostenuta da calabresi, campani e pugliesi — non arretra di un millimetro. Urla e lacrime accompagnano un’assemblea vera e drammatica. C’è chi minaccia di dimettersi, chi invece lascia la riunione — il lucano Vito Petrocelli — invitando all’equidistanza: «No alla logica del meno peggio». Un appello online di Salvatore Borsellino segna la svolta, la trincea anti Schifani diventa inattaccabile.
Il tempo stringe, l’unico voto unanime sancisce il niet a Schifani. Per il resto è nebbia fitta, il caos si impadronisce del gruppo. Parte la conta sulle strategie da seguire: scheda bianca, nulla, astensione. «E perché allora non fotografare il voto?», scherza qualcuno. La maggioranza, comunque, resta contraria anche a Grasso. La clessidra si consuma, bisogna scappare in Aula per votare. Il rompete le righe è disordinato e in questa confusione chi chiede libertà di coscienza semplicemente se la prende. Chi
esce dalla riunione non sa cosa è stato deciso e tende a contraddirsi. Sfiora il paradossale Luis Orellana: «Voteremo scheda nulla, con il mio nome. Anzi, bianca. Scusate, ora non ricordo. Ah, sì, bianca o nulla». In Aula, poco dopo, applaudirà coraggiosamente Grasso, nonostante da uno scranno vicino una collega lo inviti a soprassedere. E anche al momento del voto in Aula qualcuno versa lacrime.
I giornalisti sono tenuti a lungo a debita distanza, poi le barriere cedono. E’ possibile carpire frammenti di un summit serale. Qualcuno tenta un’impossibile difesa: «Ci sono 52 schede bianche. Possiamo dire che sono le nostre». Uno, accorto, fa però notare: «No, i giornalisti rivedono le immagini. I montiani votano bianca perché passano diritti nella cabina. Alcuni di noi no».
Resta nell’aria la sensazione di un giorno epocale, per il movimento. «Abbiamo dimostrato che non siamo telecomandati», si rianima Orellana. Lo ammette anche Crimi: «Qualcuno non se l’è sentita di vedere rieletto Schifani. Casi di coscienza». Pochissimi ammettono di aver votato per Grasso. Lo fa Francesco Campanella. Sembra farlo Bartolomeo Pepe: “Borsellino ci chiede un gesto di responsabillità e noi non siamo irresponsabili ». Non ci riesce, Nunzia Catalfo, «si avvale della facoltà di non rispondere», dice una collega. In serata la nota di Grillo sul blog: «Nel Codice eletti del Movimento è citato: votazioni in aula decise a maggioranza dei parlamentari del M5S. Se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo ha mentito agli elettori, spero ne tragga le dovute conseguenze». Insomma: si dimetta chi ha “tradito”.

Repubblica 17.3.13
E il popolo di Internet presenta il conto “Se non sappiamo decidere è finita”
Sui social network la rivolta contro le indicazioni dall’alto
di Valeria Pini


ROMA — È una ribellione a colpi di tweet e di commenti su Facebook quella che si è consumata ieri all’interno del Movimento 5 Stelle, prima dell’elezione del presidente del Senato. «Se non sappiamo scegliere tra Grasso e Schifani è davvero la fine. Addio movimento...», scrive Roberto P. In poche ore, tra la votazione della Camera e quella del Senato, su Internet scoppia la polemica: su Twitter e Facebook sono migliaia i messaggi. Un diluvio. Attaccano prima i dubbi su chi scegliere, e poi la decisione del partito di votare scheda bianca per la presidenza del Senato. Tra l’ex procuratore nazionale Antimafia, Pietro Grasso, candidato del Pd, e Renato Schifani, del Pdl, non ci possono essere dubbi. Deve vincere il primo, mentre il presidente del Senato uscente «sarebbe il segno di una continuità col passato». Ai grillini non piacciono le parole di Vito Crimi, capogruppo al Senato che, al termine dell’assemblea del M5S, chiude alla possibilità di appoggiare Grasso con poche parole: «Non faremo la stampella a nessuno».
In rete si diffonde subito il malumore. «Tanto per ricordarlo, Schifani è quello che firmò il “lodo” che dava una incostituzionale immunità totale al suo padrone Berlusconi. Grasso è stato un magistrato in prima linea contro la mafia. Votare Grasso non significa allearsi con il Pd», scrive Nicola Rindi, di Prato proprio sul blog di Beppe Grillo.
Da Napoli Giuseppe invita il leader Grillo a «mandare un sms ai nostri ragazzi». E attacca: «Per favore, Schifani non può tornare alla presidenza del Senato. Primum vivere». Emma, del M5S di Bari, saluta come «una grande e bellissima vittoria, e non del Pd o di Sel, l'elezione di Laura Boldrini alla Camera. Adesso, al Senato, per favore è
certamente meglio Grasso, che non vincola a niente». La maggior parte degli interventi sui social network seguono questa stessa linea. Su Twitter Walter Rizzetto commenta: «A me personalmente il discorso della Boldrini alla Camera è piaciuto, emozione forte». Non si fermano le critiche contro la decisione del partito di votare scheda bianca. «Vito Crimi e Movimento 5 Stelle state con chi ha fatto il lodo per immunità di Belusconi o con chi ha combattuto la mafia », scrive su Twitter Gianna Cecchi.
Poco prima un altro appello a favore di Grasso. «Il ballottaggio implica una scelta tra due candidati: se uno dei due non è del movimento i voti possono convergere su uno dei due candidati. Nel qual caso mi sembra evidente che la scelta cadrebbe su Grasso», scrive su Twitter, Paolo Becchi, professore ordinario di Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza dell'università di Genova, molto vicino a Grillo.
L’attacco alla decisione del M5S diventa addirittura un hashtag, #M5SpiùL, un modo per fare quasi il verso al modo con cui Grillo chiama il Pd, PdmenoL. Critiche che arrivano anche da persone che non fanno parte del movimento. Per Fabio Franchi «se i grillini non sono capaci manco di scegliere tra Grasso e Schifani, l'apriscatole dovrebbero usarlo per la capoccia ». «Uno è l'ex procuratore nazionale antimafia, l'altro accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Scelta difficile, Beppe», scrive Umberto Romano. «Non sapete scegliere tra un pm anti mafia e un indagato per mafia», incalza Andrea Ronconi. Per Gianna Cecchi se il M5S appoggia Berlusconi è la fine: «Siete finiti». «M5S voteranno Grasso grazie a grillini siculi che hanno detto che non potrebbero rientrare in Sicilia se Schifani venisse eletto», commenta Daniele Decina. Su Twitter Baron Samedi aggiunge: «Giustamente la scelta è difficile: meglio un mafioso o un procuratore anti-mafia?» E ancora per Giovanni Messina: «Il M5S che vota Grasso è un segno di maturità. Così dovete essere: l'ago della bilancia. Siate costruttivi. Potrete fare grandi cose».
C’è tensione anche per la mancanza di diretta streaming della loro riunione per decidere l'atteggiamento da tenere al ballottaggio per la scelta del presidente del Senato: «Quando le cose diventano difficili – twittano in molti – le porte si chiudono ». E qualcuno conclude: «Oggi al Senato i grillini ci mostreranno il lato oscuro delle stelle».

Repubblica 17.3.13
Il siciliano Francesco Campanella: nessuna divisione tra di noi anche se c’è stato un dibattito intenso, ma non abbiamo fatto aperture di credito al Pd
“Una scelta di coscienza, come potevo far vincere Schifani?”
di Emanuele Lauria


ROMA — «Sì, ho votato Grasso. E con me altri. Perché la distanza con il personaggio Schifani era ed è enorme. Ma sia chiaro: non abbiamo firmato alcuna apertura di credito al Pd». Francesco Campanella, impiegato regionale di Palermo, è il senatore di M5S che ha pronunciato la frase - rilanciata dalle agenzie - che ha riaperto il dibattito sul voto dei grillini: «Se vince Schifani quando torniamo in Sicilia ci fanno un mazzo così».
Senatore Campanella, cos’è successo nel conclave di 5 stelle?
«C’è stato un dibattito serrato, intenso. L’indicazione di massima, all’inizio, era quella per la scheda bianca. Poi ci siamo confrontati su due esigenze diverse. Quella di non dare spazio al Pd ma anche quella di sottolineare la distanza enorme fra il personaggio Grasso e il personaggio Schifani».
Dicono che l’opinione dei sei senatori siciliani sia stata determinante. A favore dell’ex magistrato.
«Guardi, noi siciliani non abbiamo fatto blocco. Eravamo seduti pure distanti, nella sala della commissione Industria. Credo che alla fine i consensi all’esponente del Pd siano arrivati anche da colleghi di altre regioni».
Alla prima prova rilevante il gruppo di 5stelle si è diviso.
«Non è affatto così. Abbiamo dato prova di elasticità. E mostrato una capacità di analizzare i fatti senza soluzioni precostituire. Non è semplice, all’interno di un gruppo che conta 54 parlamentari».
Può essere l’avvio di un dialogo stabile con il Pd?
«No. Oggi la necessità era quella di individuare una figura che avesse un livello minimo di credibilità. Per noi Schifani non l’aveva, perché sappiamo chi e quali interessi ha difeso. Perché fa parte di un partito che, con la manifestazione davanti al tribunale di Milano, si è reso protagonista di un atto eversivo. Ora, Grasso ha avuto i suoi passaggi critici, ma ha una storia ben diversa. E anche di recente si è fatto apprezzare per il no alla richiesta di intervento sulla Procura di Palermo che indaga sulla trattativa Stato-mafia. E lì le pressioni arrivavano dall’alto».
Ribadite dunque la posizione contraria al voto di fiducia a qualsiasi governo?
«Il Pd e il Pdl se la cerchino altrove, la fiducia. Vediamo se sono capaci. O la diano a noi. L’abbiamo detto: siamo anche disponibili ad assumerci la responsabilità di governo... Oggi non potremmo essere più lontani dai due partiti tradizionali. Anche in termini di educazione istituzionale».
Prego?
«Il quadro davanti ai nostri occhi, oggi, era sconfortante. Un Berlusconi con occhiali scuri attorniato da una corte medievale di senatori ossequiosi e gli esponenti Pd che hanno cominciato a esultare per il successo di Grasso a spoglio in corso. Forse in parlamento si è fatto sempre così ma è un brutto spettacolo».
Eppure Crocetta, in Sicilia, lascia intendere che oggi al Senato sono state poste le basi per una collaborazione di governo come quella che c’è nella sua Regione.
«Dice davvero questo? (ride) Macché, sono esperienze diverse. A Palermo i cittadini a 5 stelle lavorano assieme a una giunta nata autonomamente, senza bisogno di fiducia dell’Assemblea. Qui, ripeto, dovevamo solo evitare l’elezione di un personaggio con un profilo non compatibile col nostro elettorato».
Insomma, se fosse accaduto in Sicilia vi avrebbero fatto «un mazzo così».
«Va bene, l’ho detto. I muri del Senato sono sottili. Ma non voglio alcun merito personale».

il Fatto 17.3.13
Twitter dixit
“L’apriscatole usatelo per la capoccia”


Alcuni tweet sul dibattito politico. Si parte dalla parlamentare Pd Picierno.
E SE NON siete manco capaci di scegliere tra #Grasso e #Schifani, l'apriscatole usa-telo per la capoccia, va. #M5S @Pina Picerno

GRASSO sarà un grande Presidente. Onore ai grillini che l'apriscatole l'hanno usato per dare Speranza al Paese. Bravi @Pina Picierno

BELLO vedere i senatori del M5S "inebetiti" nell'apprendere che i loro colleghi avevano votato Grasso. @Gian Marco Centinaio

LA SECONDA carica dello Stato a un nemico della mafia. Qualcosa di cui parlare in giro senza imbarazzo @Caterina Conforto

ORMAI si festeggia per aver eletto il "meno peggio" invece del migliore @Domenico Micolucci

LAURA Boldrini ha abolito la parola "onorevoli" e ha reso omaggio ai migranti morti senza nome nel mare Mediterraneo. Un raggio di luce.. @Gad Lerner

L'HASHTAG #M5SpiùL è la vendetta della rete contro il comico che non sa scegliere fra mafia e antimafia @Francesco Puliti

GRASSO che parla di Lotta alla criminalità,la rinascita della politica,il Papa che mi parla di povertà e umiltà ... Ma siamo in Italia? @Elisa D’Ospina

@LAURABOLDRINI10 L'abbiamo salutata dalla piazza con gioia!  @Matteo Renzi

SE VOTANO compatti sono stalinisti e/o eterodiretti se discutono e fanno scelte diverse sono spaccati e/o in crisi. Decidetevi @Giancarlo Loquenzi

ECCO servito l'inciucio Bersani Vendola Grillo. E’ per loro la nuova politica? @Maurizio Lupi

IL VOTO al Senato di #M5S , ha rovinato i piani di Berlusconi, che furioso il denota come Setta, Scientology. Bravi! @Umberto Gentile

BERLUSCONI entra in seggio con gli occhiali ed esce urlando «ho visto la luce!», parte la colonna sonora di James Brown e fanno harlem shake @Enrico Veronese

#BOLDRINI e #Grasso: La donna e non la femmina, la giustizia e non il giustizialismo. #m5s @Luca Telese

ALFANO, "offro al Paese una candidatura istituzionale": #Schifani. (sono in auto ed ho leggermente sbandato) @nonleggerlo

S'ERANO portati appresso l'apriscatole ma gli è scappato di mano e gli è uscito il #Grasso @Sabato Vinci

BOLDRINI Grasso questa si che è una coppia d'attacco. Bravo Bersani stai in panchina e detta gli schemi @Sergio6905

Corriere 17.3.13
L'ira di Grillo: chi ha tradito si dimetta
L'affondo del leader sul blog. I senatori siciliani: non potevamo far vincere Schifani
di Fabrizio Roncone


ROMA — Lo sguardo scorre sui ranghi impietriti dei senatori grillini (intanto c'è Pietro Grasso che quasi accenna un inchino, allarga le braccia, e l'applauso così cresce, ci sono le grida di evviva che rotolano dai banchi del Pd, c'è una piccola bolgia di allegria che travolge l'emiciclo di Palazzo Madama).
Vito Crimi, il capogruppo del M5S, è però pallido nonostante le luci gialle dei lampadari, ha gli occhi socchiusi, lentamente abbassa la testa.
Luis Alberto Orellana, che il M5S aveva candidato alla presidenza del Senato, si morde il labbro, stringe i pugni.
Ornella Bertorotta si asciuga una lacrima.
Nunzia Catalfo fa un gesto con la mano, come di chi vuol scacciare un pensiero brutto.
Vincenzo Santangelo si siede, esausto.
I grillini ora sanno cosa è la politica. Cosa significa confrontarsi, scegliere, litigare, decidere, votare e dividersi.
Perché si sono divisi.
Lo sanno, lo sapevano da prima di entrare in Aula, che sarebbe accaduto: adesso c'è la certezza dei numeri. Almeno dieci di loro, e forse undici, e magari dodici — dipende dal tipo di calcolo che si effettua sul voto segreto — hanno voluto eleggere Pietro Grasso. Lo hanno votato nonostante l'ordine di Vito Crimi, e si suppone l'ordine di Beppe Grillo e Casaleggio — Crimi è stato per venti minuti filati al cellulare — fosse quello di votare «scheda bianca».
Avreste dovuto sentirlo, Crimi (al voto finale mancavano ancora un paio d'ore). «Noi non facciamo la stampella di nessuno». E, naturalmente, inutile insistere, chiedere. Lui subito molto sprezzante, molto grillino. «Dovete rispettarci! Cos'altro vorreste sapere, eh? Noi siamo diversi, dagli altri! Noi ci stiamo andando a riunire... Noi decideremo per alzata di mano!».
Vanno su, al terzo piano di Palazzo Carpegna. Da tre giorni, in attesa di avere ciascuno la propria stanza, i grillini hanno scelto di fare base nell'aula della commissione Agricoltura.
Entrano, sbarrano la porta (altro che trasparenza, altro che diretta streaming).
Cinque minuti. Ed ecco che cominciano a rimbombare voci alterate. Molto alterate.
Una cronista appunta pezzi di frasi eloquenti. «Dobbiamo mantenere la nostra linea...» (sembra la voce dello stesso Crimi). «Ma guardate che Grasso è una persona perbene!». «Basta! Dobbiamo evitare che la presidenza del Senato vada a uno come Schifani!».
Esce Bartolomeo Pepe (quello che a La Zanzara, su Radio24, disse: «Bersani? Un assassino. Con lui, nessun accordo!»). È nervoso, racconta che sono soprattutto i sei senatori eletti in Sicilia (Francesco Campanella, Mario Giarrusso, Vincenzo Santangelo, Nunzia Catalfo, Fabrizio Bocchino e Ornella Bertorotta) «a spingere per Grasso... temono che l'agevolare un eventuale ritorno di Schifani non gli sarebbe perdonato sulla loro isola». Ornella Bertorotta, in effetti, scrive su Facebook: «Libertà di voto. È questo che abbiamo deciso».
Esce anche Andrea Cioffi.
Questo senatore napoletano è sempre tra i meno ruvidi con noi cronisti (stavolta parlava però con voce tremante).
«Ci siamo confrontati...».
Avete litigato.
«Litigato? Mah... No... Cioè... Vedete... Io...».
Avete litigato, si è sentito da fuori.
«Eh... la verità è che noi siamo ancora... noi siamo come dei bambini... bambini che non hanno esperienza».
La riunione è durata un'ora abbondante. Molti senatori grillini l'hanno vissuta con l'Ipad acceso, leggendo il dibattito che, contemporaneamente, è deflagrato sul web. Un dibattito assai controverso. Prima, i militanti sembravano spingere verso una scelta, auspicando un voto in favore di Grasso; poi, improvvisamente, non appena Grasso è stato proclamato presidente della Camera, il senatore a vita Emilio Colombo ha letto i numeri della votazione e s'è intuito che l'elezione era avvenuta anche grazie al voto di alcuni senatori del M5S, il tono dei militanti è mutato radicalmente.
Su Facebook e Twitter toni sprezzanti. «Venduti alla prima occasione!». «Vergogna!». E insulti, addirittura, a Grillo, sul suo blog.
Lui, alle 23,03, risponde con un messaggio: «Nella votazione di oggi è mancata la trasparenza. il voto segreto non ha senso, l'eletto deve rispondere delle sue azioni con un voto palese. Per questo vorrei che ogni senatore del M5S dichiari come ha votato».
Poi, la conclusione, praticamente un ordine: «Nel codice di comportamento del M5S al punto "trasparenza" è scritto: votazioni in Aula decise a maggioranza dai parlamentari. Se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo, spero ne tragga le dovute conseguenze».
Molto chiaro, vediamo ora che succede.

La Stampa 17.3.13
Orellana: “Non avevamo l’ordine di votare bianca”
di A. Mala.


Senatore Orellana, ha sentito che cosa ha detto Calderoli?
«Che cosa? » Che avete perso la verginità. E non per amore.
«Una fesseria».
Per Formigoni siete crollati?
«Chi? ».
Formigoni.
«In questo Parlamento gli unici ad avere idee chiare e condivise siamo noi, Si figuri se mi preoccupa Formigoni».
Quello che dicono i suoi colleghi 5 Stelle la preoccupa invece?
«Guardate che non c’è stata nessuna spaccatura. Anzi. L’idea di fondo e r a chiara: nessun appoggio a Schifani».
Pareva di aver capito: nessun appoggio a nessuno.
«Non siamo telecomandati. Ognuno di noi ha una propria sensibilità. Segue la propria coscienza. E certamente Pietro Grasso non faceva, e no fa, parte del vecchio apparato».
Dunque le piace?
«Non ho idea di come si comporterà alla guida del Senato. Ma ho idea di come si è comportato Schifani in passato. In un modo che a me non è mai piaciuto».
Grasso l’ha votato anche lei?
«.... ». Silenzio imbarazzato.
Senatore, svicola?
«Lasci perdere. Piuttosto vorrei sottolineare una cosa che non è piaciuta a me».
Dica.
«Questi modi da vecchia politica. Noi siamo stati chiari dall’inizio. Avevamo una linea e dei candidati. Gli altri hanno cercato accordi con chiunque giorno e notte. Poi il Pd è saltato fuori all’ultimo momento con due nomi. Non ci hanno neppure dato il tempo di riflettere. Viva la coerenza».
Voleva una consultazione sul web?
«Volevo la possibilità di una analisi più matura. È anche per questo che dal nostro capogruppo è arrivato solo un invito a votare scheda bianca o nulla. Di sicuro il suo non era un ordine. Noi non ragioniamo così».

Corriere La Lettura 17.3.13
Beppe Grillo e il lessico della negazione
Dal «non si può» degli inizi al «ci vediamo in Parlamento», mappa delle espressioni più presenti sul blog dell'ex comico
L'evoluzione del movimento attraverso temi e dibattiti
di Emanuele Buzzi


Un flusso di parole, un fiume in piena che ha dato vita allo tsunami (politico) che sta cambiando il volto dell'Italia. È il blog di Beppe Grillo, che ha come filo conduttore una negazione. Secondo un'analisi di post e commenti dal 2007 ad oggi, «non si può» ricorre quasi ogni anno tra le espressioni più usate, le più frequenti tra quelle composte da almeno tre parole (trigrammi), sia dal leader sia dai suoi seguaci della Rete. La voce del dissenso — come viene identificata dai Cinque Stelle — contro i mali del Paese si rispecchia anche nei termini, nelle locuzioni.
Se «pensare è dire no», come sosteneva Emile-Auguste Chartier, Grillo e i grillini lo ribadiscono con costanza, così come puntano il dito sugli sprechi, «milioni di euro» o «miliardi di euro» che siano. A farla da padrone, però, negli ultimi anni è il Movimento 5 stelle, che dall'agorà virtuale è diventato anche protagonista della vita politica. Un'evoluzione che si nota anche nell'uso di locuzioni differenti: se sei anni fa Grillo parlava de «i nostri dipendenti», nel 2013 gli utenti del blog sono concentrati su espressioni come «in grado di» o «il mio voto» che danno l'idea di una presa di coscienza e di ruolo. Da uditore a parte attiva. Paradosso, in parte, se vediamo il numero dei post: da una quarantina scarsi al mese nel 2007, ora il leader ne sforna un centinaio, con un tasso di commenti sempre elevato (tra i 500 e i mille), ma molto lontano dagli albori del movimento, quando — per il primo V-Day — toccò quota 3 mila. Tra gli argomenti più trattati — divisi per categorie — i politici di riferimento Silvio Berlusconi o Mario Monti (durante la guida del governo), le iniziative promosse (i V-Day, come la Woodstock a 5 stelle a Cesena), ma anche alcune delle sigle o delle battaglie grilline (dai No Tav a Parlamento pulito, per eliminare i condannati in via definitiva dall'Aula, passando per la lotta al precariato di Schiavi moderni).
Insomma a colpi di tag — le parole chiave che rendono possibili la ricerca e la classificazione delle informazioni — emerge non solo la parabola del blog, ma anche uno spaccato delle tematiche che più stanno a cuore ai Cinque Stelle. E una promessa, quel «vediamo in Parlamento», che ora è diventata realtà.

Repubblica 17.3.13
Quei segnali in arrivo dai 5 Stelle
di Eugenio Scalfari


DA MOLTI anni non mettevo più piede a Montecitorio, è passato tanto tempo da quando nel 1968 entrai in quel palazzo da deputato e prima e dopo più volte da giornalista. Ancora ricordo l’incontro che feci in Transatlantico con Giorgio Amendola. Mi accolse con affetto, ci conoscevamo bene fin dai tempi dei convegni organizzati dal “Mondo”. Mi diede il benvenuto, «c’è bisogno di facce nuove », mi disse ma poi aggiunse: «Resterai deluso perché qui noi costruiamo castelli di sabbia, neppure bagnata». Non era una prospettiva incoraggiante costruire castelli con la sabbia secca, eppure in quelle stanze, in quei corridoi, in quell’aula c’erano i rappresentanti del popolo sovrano e questo mi dava orgoglio e speranza. Ieri ci sono tornato. Volevo respirare l’aria che tira nel momento in cui le facce nuove e giovani sono il settanta per cento dei deputati e le donne poco meno della metà. M’è sembrato che la curiosità fosse il sentimento dominante che animava tutti, insieme ad un certo imbarazzo sul contegno da assumere verso gli altri, i giornalisti anzitutto, ma anche i funzionari della Camera e i commessi nella loro divisa.
Curiosità, imbarazzo, timidezza. Distinguere tra quei giovani i grillini di 5Stelle non era affatto facile. Di loro si parla come “marziani”, ma marziani sembravano quasi tutti.
Sono andato in sala di lettura a sfogliare i giornali e lì si è avvicinato uno di quei giovani. «Volevo salutarla — mi ha detto – Lei ci tratta molto male nei suoi articoli ma io mi sono formato leggendola fin da quando ero al liceo, mio padre portava Repubblica a casa e me la dava. Leggi con attenzione – mi diceva – leggi le pagine della cultura e dell’economia, ti aiuteranno a capire qual è il mondo in cui dovrai vivere e lavorare».
L’ho ringraziato invitandolo a sedersi. Ha voglia di scambiare qualche parola con me? Spero che non le crei problemi. «Nessun problema, anche se la mia posizione politica è quella del nostro Movimento, perciò lei la conosce già». Infatti, non ho domande politiche da farle, vorrei invece capire quali sono i suoi sentimenti ora che è arrivato fin qui. Lei guarda con interesse il lavoro che l’aspetta? «Sì, certamente, siamo qui per questo». Pensa che durerà a lungo oppure si augura nuove elezioni che forse vi darebbero più forza di oggi? «Credo che ci siano molte cose utili da fare, soprattutto per quanto riguarda la moralità pubblica, il lavoro precario e il sistema fiscale. Queste riforme non possono aspettare, la gente ci ha votato per realizzarle. Quando saranno state fatte si tornerà al voto».
Non potrete farle da soli le riforme che avete in programma. «Certo, ma non saremo noi a cercare gli altri, sarà il popolo ad imporle». Siete contro l’Europa? «Siamo europeisti ma vogliamo un’Europa dei popoli non della burocrazia e dei ricchi». Lei parla un linguaggio di sinistra. Posso chiederle chi ha votato cinque anni fa? «Non ho votato». Non ha mai votato prima che nascesse il grillismo? «Non lo chiami così. Dieci anni fa votai per Berlusconi ma presto mi sono accorto di aver sbagliato ». Non mi sembra che la lettura dei miei articoli abbia avuto molto effetto su di lei. «Non è così, capii alcune cose che mi sono rimaste bene fisse nella mente: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di ciascuno, i diritti di cittadinanza. Le 5Stelle vogliono queste cose, i partiti esistenti le vogliono a parole ma non le hanno tradotte in fatti, perciò con loro non collaboreremo, ma accetteremo i loro voti se ce li daranno». Non importa da dove verranno? «No, non importa». Qual è stato il suo lavoro finora? «Ho fatto volontariato per servizi all’estero dove ci sono i caschi blu dell’Onu. Sono stato in Libano e anche in Kenya». Ed ora è un cittadino di 5Stelle. «Già e mi sembra molto coerente col mio lavoro». Non ha figli? «No, non ancora». Un personaggio storico che sente vicino? «Direi Papa Giovanni ma adesso la saluto, sento suonare il campanello, si vota ». Lei è credente? «Lo sono a modo mio» e se ne andò correndo verso l’ingresso dell’aula.
***
Poche ore dopo le due Assemblee parlamentari hanno eletto i loro Presidenti, Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato. Bello il discorso di insediamento della Boldrini, bellissimo quello di Grasso, la cui elezione è stata tanto più importante perché resa più solida dall’apporto di dodici voti provenienti dai neo-senatori del Movimento 5Stelle. Era un fatto atteso da alcuni e del tutto imprevisto da molti altri. Non è la rottura del gruppo grillino ma il segnale di una sua evoluzione che potrebbe rendere costruttivamente utile l’inserimento di quel gruppo nelle istituzioni.
Pierluigi Bersani ha avuto l’intuizione di candidare alla presidenza delle due assemblee parlamentari due personaggi del tutto nuovi alla politica e il Partito democratico, anch’esso fortemente rinnovato nella sua rappresentanza, ha risposto con apprezzabile compattezza. Questo risultato non risolve il problema del governo ma segna comunque una tappa essenziale verso una discontinuità che sia creativa e serva ad un cambiamento profondo dell’etica pubblica e della solidarietà sociale.
Nel suo discorso subito dopo l’elezione Pietro Grasso ha ricordato alcuni nomi di riferimento: Aldo Moro, del cui rapimento ricorreva ieri la data; il suo punto di riferimento nel palazzo di giustizia di Palermo, Antonino Caponnetto; la moglie di uno degli agenti di scorta caduti con Falcone nella strage di Capaci ed ha inviato il saluto di tutto il Senato a Papa Francesco che appena poche ore prima aveva evocato una Chiesa povera a servizio dei poveri. A ciascuno di quei nomi l’intera assemblea ha tributato in piedi lunghi e intensi applausi. Purtroppo c’era nell’aula un settore dell’emiciclo semivuoto e non è stato bello vedere quelle assenze.
L’ultimo e forse e più prolungato applauso è stato per Giorgio Napolitano, la cui presenza istituzionale in questa vicenda è stata decisiva. Senza il suo intervento che ha fermato l’iniziativa di Mario Monti di candidarsi al Senato abbandonando il governo in un momento di particolare delicatezza economica e sociale, non potremmo celebrare oggi il risultato positivo che si è verificato.
*** Può darsi che ora dopo le consultazioni che avverranno al Quirinale a partire dal 20 prossimo, un governo Bersani possa formarsi con la solidità necessaria, ma può darsi anche di no, nel qual caso spetterà al Capo dello Stato nominare un nuovo governo che possa riscuotere un ampio e solido consenso parlamentare.
Credo che non debba esser composto da professionisti della politica ma da persone tratte dalla società civile con le necessarie competenze che ogni governo richiede: economiche, giuridiche, culturali.
Nel frattempo i partiti debbono profondamente trasformarsi diventando o ri-diventando strutture di servizio della società, canali di comunicazione tra i cittadini e le istituzioni, tra i legittimi interessi particolari e quello generale del quale tutte le istituzioni a cominciare dallo Stato debbono essere portatrici.
Elezioni ravvicinate non sono un bene per questo Paese; comporterebbero un prolungato periodo di incertezza che aggraverebbe oltremodo la nostra posizione in Europa con le relative conseguenze sulla nostra già disastrata economia. Un governo solido è dunque estremamente auspicabile e spetta soprattutto al centrosinistra renderlo possibile.

Repubblica 17.3.13
L’amaca
di Michele Serra


Devo dire che se fossi una persona per bene eletta alla Camera (ce ne sono parecchie), non so come reagirei trovando tutta la parte alta dell'emiciclo occupata simbolicamente dai cinquestellati. È, quello «stare sopra», la rappresentazione simbolica di una superiorità morale autoproclamata: «Stiamo in alto, sopra a tutti quanti, perché il nostro compito è controllarvi».
Essendo di indole gentile, non so se riuscirei a pronunciare, sia pure con un sorriso amichevole, il sonante, meritatissimo «vaffanculo» che ristabilirebbe finalmente un rapporto paritario e solidale tra il grillismo e il resto del genere umano. So invece che la collocazione parlamentare di quei deputati ci aiuta non poco a definire la loro natura politica. Esattamente come è avvenuto per “destra” e “sinistra”, concetti nati attorno alla semplice descrizione della porzione di Parlamento occupata dai gruppi. Rispettando la volontà dei cinquestellati di non stare (anche fisicamente) né a destra né a sinistra né al centro, propongo ufficialmente di chiamarli, di qui in poi, i Superiori, in quanto membri del Gruppo Superiore alla Camera dei deputati.

l’Unità 17.3.13
Al corteo di Libera: «Finalmente una svolta»
Gli apprezzamenti per l’elezione di Grasso e Boldrini
«Battaglie importanti su legalità e immigrazione»
di Osvaldo Sabato


Con lo sguardo sul palco e con un orecchio su quanto accade alla Camera e al Senato per la elezione dei presidenti. Appena giunta la notizia della candidatura di Laura Boldrini per la presidenza di Montecitorio e di Pietro Grasso per quella di Palazzo Madama tocca a don Luigi Ciotti fare un primo commento «sono due bei nomi, sono persone di grande valore con storie significative» commenta «Boldrini è una persona particolarmente preparata nel campo della difesa dei diritti e della dignità umana, stimata a livello internazionale Grasso è un simbolo della lotta alla mafia ed ha anche fatto parte della squadra di Falcone e Borsellino». Fra le migliaia di persone che ieri erano a Firenze per la manifestazione contro le mafie organizzata da Libera, la voce gira velocemente. «Davvero Boldrini è stata eletta presidente della Camera?» chiede una signora. Alla risposta positiva applaude con un grande sorriso stampato in faccia. «Boldrini non la conosco, ma a quanto mi dicono si è impegnata molto per gli immigrati, quindi va bene» commenta un uomo di mezza età. Quanto a Grasso «mi sembra un’ottima scelta» dice Maria Giovanna Chelli, vicepresidente dell'Associazione delle vittime di via dei Georgofili «è arrivato forse doveva voleva arrivare». Fra le persone il nome dell’ex procuratore nazionale antimafia è certamente più conosciuto rispetto a quello della ex portavoce dell'Agenzia Onu per i rifiugiati politici. Ma entrambi ai più sembrano due nomi affidabili, molti ritengono che sia una ventata di novità in un mondo, quello della politica, spesso visto con diffidenza da chi da anni lotta contro la mafia. In sottofondo Fiorella Mannoia canta “La storia siamo noi”, la manifestazione è quasi alla fine e le perso-
ne stanno per lasciare il piazzale vicino allo stadio di Campo di Marte. Si commenta la mattinata, ma c’è curiosità sull’esito delle elezioni del presidente di Camera e Senato. «Grasso, lo conosco, mi piace» commenta una signora dall’accento siciliano, che dimostra di conoscere anche Laura Boldrini «so che si è impegnata abbastanza come commissario per i rifugiati, è una figura importante, forse di rottura». La signora, parla, il marito annuisce.
«Penso che sia una cosa giusta, Grasso mi sembra una persona affidabile per quello che ha fatto quando era procuratore antimafia» aggiunge un signore di Trapani. «Speriamo, che si cambi strada, lo spero specie per i giovani, questa è la cosa più importante» commenta un ragazzo che indossa la maglietta di Libera con stampata una frase famosa del giudice Borsellino. «Boldrini speriamo che sia un segno che le cose stanno cambiando e che si riesca a governare, perché è di questo che abbiamo bisogno» afferma una sindaca della Brianza «serve più responsabilità da parte di tutti per andare avanti». L’elezione di Grasso alla presidenza
del Senato avviene nel tardo pomeriggio, ma già in mattinata i commenti fioccano. Un procuratore antimafia alla guida di Palazzo Madama proprio nel giorno in cui a Firenze si manifesta contro tutte le mafie. Sembra quasi uno scherzo del destino. Ma è realtà. «È un segno che viene fuori da questa giornata, che la politica e la magistratura non devono essere contro, devono arrivare fino in fondo per trovare la verità su quanto è accaduto nel nostro Paese» commenta ancora la sindaca brianzola. «Noi come Libera abbiamo chiesto impegni reali, non solo parole» dice Antonio, provenienza Napoli. «Grasso è una persona molto in gamba, l’ho conosciuto, è una persona per bene e questa per me è una garanzia» spiega un altro signore. «Aspettiamo un grande rinnovamento con Grasso, che può portare il rispetto della giustizia e Boldrini le battaglie civili che ha fatto» ricorda Giovanni, prima di fare rientro a Roma. «Speriamo bene» si limita a dire una ragazza. È un operaio in pensione, Gaetano Scollo, originario della Sicilia che sintetizza e mette d’accordo tutti «il vento sta cambiando».

il Fatto 17.3.13
Monti sconfitto ancora rischia di scomparire
di Fabrizio d’Esposito


A Palazzo Madama, ieri pomeriggio, erano solo due i senatori a vita presenti. Per uno, su invito del neopresidente Pietro Grasso, c’è stata un’ovazione alla fine della seduta. Per l’altro, invece solo imbarazzi e silenzi. Il primo è Emilio Colombo, dinosauro democristiano. Il secondo è lo sconfitto Mario Monti, premier dimissionario da dicembre.
Per il Professore di Scelta civica l’analisi della sua disfatta è più psicologica che politica. Ammette un senatore centrista, a microfoni spenti: “Il premier oggi (ieri per chi legge, ndr) ha perso completamente la lucidità”. Spiega sgomento un big del Pd che ha seguito la trattativa decisiva dell’altra notte, tra venerdì e sabato: “Era come impazzito, a ogni nome che abbiamo proposto per sbloccare lo stallo con il centro lui ha risposto: ‘O me o nessuno’. Questo nonostante avesse promesso di tirarsi indietro dopo il no di Napolitano”. Un’ambizione tignosa che ha scorticato a sangue la celebre sobrietà incarnata dall’uomo in loden verde. Monti è salito su una giostra perdente che in 24 ore lo ha portato da Bersani e Napolitano ai berlusconiani e infine all’isolamento nel polo di centro, spaccatosi per la sua ostinazione. Riassunto della puntata precedente: venerdì mattina, Monti pretende dal Pd la candidatura a presidente del Senato, Bersani oscilla e a risolvere la questione è il Quirinale che intima al premier di fare un passo indietro istituzionale. A quel punto il Pd offre ai centristi la Camera (Balduzzi o Dellai) poi lo stesso Senato (l’ex formigoniano Mario Mauro), ma Monti continua a dire no.
IL SABATO NERO del Professore si apre con una scena del tutto diversa. Gli squali del Pdl fiutano il colpaccio e vanno in pressing sui montiani, a tutto campo. B. ha messo in campo Schifani e gli schieramenti hanno numerosi contatti. Da un lato, per il Pdl: Gasparri, Quagliariello, Verdini, Bonaiuti. Dall’altro, per i centristi: Mauro, l’ex aclista Oli-vero, Della Vedova. Viene anche organizzato un faccia a faccia tra Monti e Berlusconi, grazie al lavorìo di Federico Toniato, uomo ombra del premier a Palazzo Chigi. L’annuncio del vertice tratteggia scenari che vanno oltre i voti di Scelta civica a Schifani nel ballottaggio con Grasso: lo stesso Monti presidente del Senato o leader del centro-destra oppure ancora capo dello Stato. Un centrista autorevole decifra così il mistero montiano: “Vuole il Senato per andare al Quirinale”. Casini, senatore anche lui, aiuta il premier a fare i conti sui voti. Prima della seduta pomeridiana, il gruppo di Monti si riunisce e si spacca. La scelta è di votare scheda bianca e non fare “la stampella di nessuno”. Ma c’è una fronda filodemocrat: Olivero, Lanzillotta, Maran, Ichino. Gli ultimi tre provengono proprio da quell’area. Il confronto è duro ma prevale la linea dell’unità per non indebolire ancora di più il confuso Monti. Si vota scheda bianca. Gasparri denuncia: “I montiani piegano la scheda prima di entrare nella cabina per farsi controllare”. È il caso della Lanzillotta che si avvicina al seggio e piega la scheda davanti a tutti. Poi dichiarerà: “I nostri voti sono stati decisivi per l’elezione di Grasso: siamo 21 e la differenza di voti rispetto a quelli ottenuti da Schifani è stata di 20 voti”. Grasso passa che è già buio e ancora Gasparri si prende la sua vendetta: “I montiani ci hanno offerto cose oscene”, avrebbero votato Schifani in cambio di un disimpegno del Pdl per favorire la nascita di un governo tra Pd e Scelta civica. Commento di un berlusconiano: “Secondo Monti loro dovevano fare il governo e noi andarci a nasconderci nei cessi. Roba da mentecatti”.

Repubblica 17.3.13
Il sabato nero dei montiani lacerati sul sì a Schifani e sulla linea del Professore
Il premier uscente continua a puntare al Quirinale
di Alberto D’Argenio


ROMA — I civici di Monti votano scheda bianca per le presidenze di Camera e Senato. Ed è a Palazzo Madama che si consuma la vera partita del premier uscente. Riunioni fiume e contatti frenetici per cercare quello che Linda Lanzillotta chiama «un inizio di legislatura non di contrapposizione e con un coinvolgimento di tutti i partiti». Tradotto: un’elezione dei presidenti che prefiguri l’intesa per un governo di larghe intese sostenuto da Pd, Pdl e, appunto, Scelta Civica. Ma il premier esce sconfitto. Con l’atroce dubbio condiviso da diversi parlamentari centristi che il Professore «stia giocando una partita per se stesso».
Venerdì notte, dopo lo stop di Napolitano alla candidatura di Monti allo scranno più alto di Palazzo Madama, i civici si riuniscono, ma è fumata nera. Nessuna decisione su chi votare alle Camere, con diversi deputati innervositi dal rifiuto del Professore di accettare la nuova offerta del Pd di dare la presidenza della Camera a uno dei suoi (in pole c’era Dellai). Con il dubbio che, svanita l’ipotesi di fare il presidente del Senato per partire davanti agli altri quando si voterà il successore di Napolitano, Monti cerchi un nuovo varco: far pesare i propri voti nell’elezione dei presidenti delle Camere. Ma la giornata si apre con la nomina di Laura Boldrini alla Camera e uno stallo al Senato. Il voto decisivo, il ballottaggio tra Grasso e Schifani, è per il pomeriggio. Monti sente Bersani. È in continuo contatto con Gianni Letta e Schifani, ambasciatori di Berlusconi. Si vocifera per tutto il giorno di un imminente incontro con il Cavaliere. Ma sia i democratici che i berlusconiani raccontano di un Monti che offre i suoi voti in cambio di una spinta nella corsa al Quirinale.
Il Professore cerca di calmare i suoi - innervositi da queste voci ripetendo «il Quirinale non mi interessa, voglio solo dare un governo al Paese per non bruciare i sacrifici fatti dagli italiani». Da Palazzo Chigi insistono: «Il presidente cerca di proporsi per riconciliare le parti, il Pd e il Pdl». Ma l’operazione non va in porto.
Dopo pranzo si riuniscono i senatori civici. Uno di loro racconta: «Abbiamo ragionato se il voto a Schifani potesse aiutare la nascita di un governo». Tema che ha spaccato il gruppo, con più di un senatore contrario a dare il voto all’esponente del Pdl. Tra tutti Pietro Ichino, ex Pd, Pier Ferdinando Casini e Nesi. Nel frattempo dal Nazareno e da Palazzo Grazioli non arrivavano quelle garanzie sul Quirinale che - raccontano - Monti andava chiedendo e così, per non spaccare i suoi e per far pesare i propri voti, il Professore decide la scheda bianca. Equiparando di fatto la candidatura dell’ex procuratore antimafia Piero Grasso a quella di Schifani. Si narra di un ultimo incontro proprio tra il premier e Schifani andato malissimo, segnato da toni sopra le righe. Non a caso il neosenatore del Pdl Augusto Minzolini twittava: «Monti esoso, per votare Schifani chiede il Quirinale per se e Palazzo Chigi per Bersani». Intanto alle telecamere il coordinatore civico Andrea Olivero spiegava che in assenza di una condivisione delle candidature i montiani avrebbero votato anche al ballottaggio scheda bianca. E Monti imponeva ai suoi di sfilare rapidamente in cabina per mostrare visivamente il non voto anche se, a fine giornata, aleggiava il dubbio che qualche montiano avesse comunque votato per Grasso.
In serata Monti fa il punto con i suoi, assicura che continuerà a «tessere la tela» per un accordo con Pd e Pdl per un governo giudicando nefasta per il Paese un’alleanza Pd-Cinquestelle o il ritorno alle urne. Ma sarà dura visto che, confidava ai suoi, «il Pdl continua a chiedere impossibili garanzie giudiziarie per Berlusconi», «con la Lega, che ha aperto, è difficile condividere un programma» ed «è difficile capire quanto la spaccatura dei grillini sia strutturale». Conforta il premier che «almeno i presidenti eletti sono nomi positivi, che non creano ostacoli». E cercherà di ritagliarsi un ruolo considerandosi «garanzia» verso l’Europa e i mercati. Ma il partito faticherà a reggere l’urto del magro bottino elettorale, spaccato com’è su ogni questione tra le varie anime che lo compongono, i cattolici del ministro Riccardi e i montezemoliani di Italia Futura passando per i reduci dell’Udc. E su tutto aleggia il timore che Monti voglia giocare una partita in proprio e disimpegnarsi dal partito. Tanto che in molti si chiedono perché voglia togliere il proprio nome dalla sigla scelta per i gruppi alle Camere “Con Monti per l’Italia”. «Per tenersi mani libere» e potersi sganciare al momento opportuno, sospettano in tanti. Si vedrà.

l’Unità 17.3.13
E il Corriere cerca disperatamente un altro Monti
di Michele Prospero

CON ANSIA AL CORRIERE GUARDANO ALLE SORTI DEI DEMOCRATICI, PRESENTATI IERI, CON UNA INSOLITA PENETRAZIONE ANALITICA, COME «GLI EREDI DEL PCI». Dopo aver letto (chissà dove) l’avviso di nozze imminenti con il M5S, Angelo Panebianco si rallegra che un matrimonio così insano sia stato scongiurato.
Contro i servili dirigenti del Pd, che si sono «genuflessi» dinanzi al leader genovese, il Corriere spiega cosa si deve fare per salvare il Pd dai suoi inadeguati vertici. L’accusa che l’editorialista muove al Pd è di aver procurato nientemeno «tanti danni al Paese» con l’apertura di credito ai 5 stelle. E però proprio le più autorevoli penne di via Solferino attestavano da mesi che quello di Grillo era soltanto «un cosiddetto populismo», e che quindi nulla di grave si rintracciava nei simboli di rivolta. Dopo le regionali siciliane, il quotidiano celebrava «la rivoluzione scattata con la nuotata del leader maximo».
Sempre dal Corriere veniva poi certificato che il proposito di mandare tutti a casa non era un semplice programma, ma un grande programma. Con la firma di Gian Antonio Stella si ammoniva con enfasi che il pericolo vero erano «i capponi» allevati dai partiti, mentre «i programmi di Grillo traboccavano di proposte». Ora, cancellando tutte le tracce, Panebianco accusa di irresponsabilità il Pd, caduto nella trappola di un comico-leader che considera tutti i partiti come «spazzatura». Ma chi l’ha inventata la categoria di «casta» come deposito melmoso di una vile razza padrona da gettare al macero?
Dopo il voto, il clima attorno ai grillini è cambiato a via Solferino e, il minimo che possa capitare per il comico, è di essere etichettato da Panebianco come antisistema con «gagliardia», populista, antieuropeo. Lo stesso politologo, solo qualche settimana fa, aveva assicurato che quanto al programma, e alla «questione cruciale» del rapporto tra Stato e mercato, le formule dei 5 Stelle presentano molte «più consonanze» con la sinistra che con la destra. Ma le «affinità esistenti» possono rivelarsi nefaste.
Per scongiurare che attorno al Pd restino solo «macerie fumanti», l’anima gentile del politologo suggerisce, non prima di aver chiesto la testa della ristretta leadership attuale che «tiene prigioniero» il partito, di dare vita a un nuovo governo del presidente. È solo un irrilevante accidente storico quello per cui a uscire trafitto dalle urne è stato anzitutto Monti, che aveva agli esordi una maggioranza di oltre il 90 per cento. Con il voto, la strana maggioranza ha perso il 30 per cento dei consensi. Una gigantesca crisi di sistema che per Panebianco non è però un ostacolo per la riedizione di un governo simil Monti, con la missione fondamentale di confezionare una legge elettorale ostile a Grillo.
Sentendosi inascoltato, Panebianco se la prende con il Pd perché pensa più all’uovo di oggi che alla gallina di domani. Maneggiando troppe uova (oltre a scambi indecenti sulle riforme costituzionali auspica «il ricambio al vertice del partito»), il politologo dà però l’impressione di aver già cucinato una frittata. E, non ancora contento, pretende di spacciarla per una ricetta miracolosa, la sola adatta alla «gravità del momento». La cura compassionevole di Panebianco, che si preoccupa della mala sorte del Pd, da lui però sempre dipinto come un «partito statico, conservatore», combatte contro fantasmi inseguendo i mulini a vento di un Monti redivivo.

il Fatto 17.3.13
Il prossimo passo? B. ineleggibile
di Furio Colombo


C’è un appello di Micromega che ho subito firmato. Martedì 23 marzo ci troveremo in piazza (spero in tanti) in molte città italiane per leggere le Costituzione e dire (dimostrare) che Berlusconi è ineleggibile. Solo per colpevole negligenza è stato lasciato entrare per 20 anni nei palazzi della politica e gli è stato permesso di giocare a demolire il Paese, con incarichi di governo. Il fatto nuovo è che nella nuova Giunta delle elezioni i neoeletti Cinque Stelle chiederanno il rispetto della legge 351 del 1957: chi gode (e guadagna) di concessioni governative, come le Tv, non può essere eletto in cariche politiche. Intanto sono successe alcune cose importanti che confermano in modo drammatico questo dovere.
C'è un prima e c'è un dopo nella vita pubblica italiana. Misteriosamente, come in un film bello e irrealistico di Frank Capra, compare in Parlamento Laura Boldrini, la coraggiosa portavoce dell'Onu in nome dei morti in mare e dei rifugiati scacciati o imprigionati, e viene eletta presidente della Camera.
LAURA BOLDRINI, con il discorso più limpido e nobile e coraggioso e totalmente estraneo al politichese dai tempi di Calamandrei, presiede da ieri, con un grande e nobile progetto di lavoro, una assemblea che gode, purtroppo, di pessima reputazione. Eppure bisogna aggiungere due fatti che altrimenti mancherebbero nella cronaca (e poi nella storia) di questo giorno inaspettato e straordinario (si vedano, nelle riprese televisive, le facce di Cicchitto, Alfano, Meloni, chiuse in un silenzio di pietra, i soli a non applaudire le affermazioni ferme e coraggiose della nuova Presidente).
Il primo fatto è che quasi certamente nulla di così disperatamente nuovo sarebbe accaduto senza l'irrompere in buon numero degli estranei Cinque Stelle. È vero che la loro ansia di non essere toccati li rende socialmente ruvidi e non sempre gradevoli. È anche vero che questo è stato il luogo di scandalose omissioni (la ineleggibilità di Berlusconi, la legge elettorale), di scandalosi voti unanimi (quasi) e trasversali, come il trattato di amicizia e fraternità con la Grande Jamahiriya (la Libia assassina di Gheddafi), il mercato di scandalose compravendite di persone elette, da sole o in gruppo, per ottenere il numero giusto di voti..
L'ALTRO FATTO è quasi il rovescio. È stato un partito di nobile ascendenza, e poi scivolato alquanto più in basso, il Pd, a fare due cose che di solito non si fanno: ritirare i propri personaggi storici (nel caso anche rispettabili) destinati alle due più alte cariche dello Stato dopo il presidente della Repubblica, e proporre due nomi estranei, con una loro vita e un loro curriculum (straordinario, nel caso Boldrini, perchè è stata una grande voce senza potere) portatori, se eletti, di una trasformazione profonda, in grado di recidere molte pericolose radici del passato. Ecco, questo è avvenuto. Nel paesaggio del disastro politico italiano, si aggirano figure nuove. Nulla gira più su se stesso fingendo e annunciando cambiamenti impossibili. Nel frattempo la vita continua. Ecco il ritorno di Berlusconi che, sapendo che i tribunali sono chiusi il sabato e la domenica, si è fidato a uscire da quella Cayman Island che è l'ospedale San Raffaele di Milano, ed è venuto a Roma.
Prosegue una vita di scorrerie contro la legge, guidando alternativamente governi (tre) e opposizioni, come se fosse regolarmente eleggibile, e protetto dal far finta di niente dei suoi, diciamo “oppositori”. Berlusconi va al Senato e dirama ordini. Tutti gli ordini hanno a che fare con la sua salvezza, non con il momento, il Paese o le cariche. Occorre la presidenza del Senato di-venuta pericolante perchè, anche qui, i Pd ha ritrovato un soffio di vita e fatto la mossa spiazzante.
E così lo scontro al Senato è fra l'ex magistrato antimafia Grasso e l'ex avvocato palermitano Schifani, che ha appena partecipato alla occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano. E quando alle 7 di sera il senatore a vita Emilio Colombo proclama la elezione a presidente del Senato dell'ex procuratore antimafia Grasso, in un'aula in cui è appena arrivato Berlusconi (occhiali neri, insulti dalla folla prima di entrare e un cerchio stretto di dipendenti) è certo l'inizio di una pagina nuova e diversa.
MA QUESTI FATTI nuovi che annunciano altri fatti nuovi, meritano una iniziativa troppo a lungo rinviata. Ecco perchè andare il piazza, ancora, ingenuamente, come ai tempi del Palavobis, per dire, leggendo a torno tutti gli articoli della Costituzione, che Berlusconi fin dal principio era ineleggibile, che è ineleggibile adesso e deve uscire dal Parlamento subito. Per forza la manifestazione (l'iniziativa è di Micromega) deve avere luogo adesso, subito (il 23 marzo in Piazza del Popolo, a Roma). Quelli di noi che sono orgogliosi della elezione di Laura Boldrini alla presidenza della Camera, del suo discorso da nuova, vera leader, devono dare questo aiuto in più al Parlamento. Sia chiaro che se Berlusconi resta, il danno grave continua.. Soprattutto attraverso quella insidiosa infezione che trasforma in cloni di Berlusconi anche persone dovrebbero essergli avversarie e lontane.

l’Unità 17.3.13
I populismi e l’essenza della politica
di Pasquale Serra


È MOLTO DIFFICILE ANALIZZARE LA QUESTIONE DEL POPULISMO ANCHE PERCHÉ, AL FONDO DI QUESTO TEMA, vi è la riemersione di un disegno potente di esistenza politica, un abisso senza fondo da cui spunta, appunto, il populismo, il quale è incomprensibile se lo si scorpora da questo abisso, anche se è errato ridurre questo ambiguo desiderio di esistenza e di affermazione al populismo stesso. Questa è l’impalcatura generale, storico-esistenziale, dentro la quale noi tutti ci troviamo, al centro della quale vi è un’esistenza mancante, sulla quale affonda le sue radici il populismo, e noi dobbiamo capire il perché e il dove dell’attrattiva che il populismo esercita, o siamo condannati a non capire la storia.
Il fatto è che dentro questa situazione di generale spostamento, alcuni settori sono più spostati di altri, e più di altri rischiano di essere sommersi, e cercano le vie quelle che intravedono, quelle che ci sono per tornare a vivere o, quantomeno, per non morire da soli. E occorre decifrare la composizione sociale dei sommersi, perché solo così possiamo capire qualcosa del populismo, sul perché esso attrae, e sui mali che esso può generare, ovvero sulle forme che possono assumere oggi le forze autoritarie. Una distinzione, quest’ultima, essenziale, perché solo distinguendo tra le varie forme di autoritarismo moderno è possibile capire qualcosa sul dove va o vuole andare, (o, più semplicemente, verso dove viene o può essere trasportato), questo nuovo dato esistenziale. Diceva Germani che tra le condizioni che ci aiutano ad operare questa distinzione vi è il tipo di mobilitazione e la classe da cui vengono tratte le masse mobilitate.
Perché è chiaro che una forma di mobilitazione (primaria) che ha come obiettivo quello di entrare in una società dalla quale si è stati da sempre esclusi, e un tipo di mobilitazione (secondaria) che si struttura, invece, per cercare disperatamente di non uscire da una società nella quale si è già da sempre entrati, è fatta di soggetti diversi (che provengono da classi sociali diverse), e di modi diversi di vivere e di percepire la marginalità, e produce forme diverse, se non opposte, di autoritarismo. Se non teniamo a mente questa distinzione (che è anche una distinzione antropologica), il rischio che corriamo è non solo quello di confondere cose assai differenti come il fascismo e il populismo classico, ma anche quello di chiamare populismo (il quale, come ha notato tra gli altri Mastropaolo, ha sempre un giudizio positivo del popolo) qualcosa, come il cosiddetto neopopulismo odierno (da Berlusconi a Grillo), che populismo, invece, non è. Quanto al berlusconismo, possiamo facilmente riscontrare che si è trattato di un tipo di mobilitazione secondaria (nella quale la classe da cui furono tratte le masse mobilitate è stata sostanzialmente la classe media) e, dunque, di un fenomeno più vicino ad alcune caratteristiche della destra radicale che del populismo in senso classico e tradizionale. Stesso discorso per il movimento di Grillo, perché, sebbene si tratti almeno prevalentemente o almeno all’inizio di mobilitazione politica primaria, questo tipo di mobilitazione oggi assomiglia antropologicamente sempre di più alla mobilitazione politica secondaria, in quanto impregnata, pur essa, dei valori di questa società, e dove dominante è il rancore, il «muoia Sansone con tutti i filistei», e quindi la irrazionalità, sentimenti che, invece, sono assenti, o molto attenuati, nella mobilitazione politica primaria, propria dei populismi classici. E tuttavia, la situazione, oggi, è molto più complessa di questo schema, e, per certi versi, più esplosiva: in primo luogo, perché queste due forme diverse di dislocazione/mobilitazione si manifestano contemporaneamente o, comunque, sono in campo entrambe; e poi perché le due mobilitazioni sul piano antropologico si assomigliano sempre di più e, proprio per questo, si intersecano e, per molti aspetti, si sovrappongono. Cruciale nel grillismo non è tanto la tematica della democrazia diretta e simili, ma una sorta di desiderio di azzeramento della storia, anche perché in alcuni momenti l’alternativa alla distruzione è una vita senza speranza, una specie di morte, e noi i nostri fallimenti li reggiamo fino a quando possiamo immaginare una futura possibilità di soluzione. Quando, invece, questo non appare più possibile o si continua a vivere incatenati dentro un destino immodificabile o si deve distruggere, lavorare ad un azzeramento della storia, perché questo azzeramento è l’unica possibilità per tornare a vivere. Mi sembra che stiamo scivolando impercettibilmente in una sorta di pessimismo tragico, in quel senso della morte che incombe che Renzo De Felice individuava a metà degli anni Settanta come la caratteristica fondamentale della destra radicale, e che oggi esprime in forma parossistica le aspirazioni profonde delle nostre società.
Essenziale è, dunque, la critica di questa forma specifica di autoritarismo, ma ancora più essenziale è la strada che si percorre per fare questa critica, perché ci sono strade che conducono sempre a questo mondo, mentre è innanzitutto questo mondo che oggi va radicalmente messo in discussione, perché in esso, valendo solo le gerarchie e i valori dell’esistente, quando si perde, si perde tutto, e si è poi come necessitati ad azzerare la storia, e a distruggere, per continuare a vivere. Ma con l’avvertenza che è folle immaginare che tutta l’eccedenza possa essere trasportata in politica. Una vecchia follia di un certo marxismo messa a servizio della causa opposta dai moderni autoritarismi, i quali, infatti, sono fortemente dipendenti dalla forma del mondo che vogliono criticare e distruggere. Insomma, per mettere in discussione questo mondo, la sinistra deve, innanzitutto, stare alla realtà, pragmatisticamente, e, insieme, risvegliare tutto il suo lato redentivo, perché non si costruisce nessuna alternativa a tutto ciò, con una interpretazione esclusivamente pragmatica della democrazia, spogliando la democrazia di tutti i suoi aspetti redentori.
Questo modo di interpretare la democrazia scrive Canovan assomiglia al tentativo di far funzionare una Chiesa senza fede. E la mancanza di fede porta alla corruzione, che è l’anticamera del populismo.

Corriere 17.3.13
Le Camere non sono il ripostiglio della Rete
di Antonio Polito


Benvenuti nel mondo dei franchi tiratori. I grillini erano entrati in Parlamento appena l'altro ieri compatti come una falange macedone, monolitici come una novella Compagnia di Gesù, giurando obbedienza perinde ac cadaver. E al primo voto vero, alla prima occasione in cui non hanno potuto evitare di scegliere, si sono clamorosamente divisi. La democrazia parlamentare non è un «meet up». È fatta di voti e di regole. E senza vincolo di mandato.
Messi di fronte all'alternativa tra Grasso e Schifani, numerosi senatori grillini hanno dunque rifiutato una sdegnosa equidistanza, e cioè il mantra stesso di un movimento che considera i partiti tutti uguali e tutti da cancellare, per sostituirli con la democrazia diretta del 100 per cento in cui i cittadini si autogovernano. Non basta star seduti sugli spalti alle spalle di tutti gli altri per evitare di sporcarti nell'arena, quando ti chiamano a votare per appello nominale. Né viene in aiuto la tattica indicata ai suoi seguaci da Beppe Grillo, valutare «proposta per proposta» per evitare così di fare scelte «politiche». Quella di votare Grasso era infatti una «proposta», e un buon numero di senatori grillini l'ha accettata, facendo così una scelta altamente politica.
L'inflessibile logica del sistema parlamentare, nel quale alla fine di ogni discussione c'è sempre un ballottaggio in cui devi dire sì o no, non è d'altra parte aggirabile con i riti della democrazia online, perché sulla Rete non vale la regola «una testa un voto» ma votano solo le minoranze attive. Sarà sempre più difficile, emendamento per emendamento, stare in Parlamento aspettandosi che a decidere sia qualcuno che sta fuori. Ogni giorno si vota innumerevoli volte, e ogni voto può avere conseguenze sulla vita di tutti. Ecco perché l'assemblea parlamentare è diversa da un consiglio comunale o da un'assemblea condominiale: perché fa le leggi, la cosa più politica che ci sia.
D'altra parte i «grillini» non sembrano aver finora trovato nemmeno un modo accettabile per garantire quella trasparenza e pubblicità del dibattito che finché erano fuori del Parlamento sembrava la più innovativa delle soluzioni. Finora l'unica riunione dei gruppi cui abbiamo assistito in «streaming» è stata quella in cui i neoparlamentari si presentavano: più un happening che un'assemblea politica. Ieri, quando il gruppo del Senato ha dovuto decidere, lo ha fatto invece a porte chiuse, con i giornalisti che origliavano come ai bei tempi della Dc, e che riferivano di urla e di pugni sul tavolo poi sfociati in un'aperta contestazione del capogruppo (altra questione delicata: i leader sono essenziali in ogni consesso, e i grillini non ne hanno uno in Parlamento; senza un leader e una linea, il motto «uno vale uno» non può che trasformarsi in continua divisione).
Ma l'astuta mossa di Bersani, che a Schifani ha evitato di opporre un nome usurato della vecchia politica per preferirgli l'ex magistrato antimafia, non ha solo aperto una crepa tra i «grillini», ha anche svelato due punti deboli di quel movimento. Il primo è il rischio di irrilevanza. Se continua così, il 25 per cento dei voti degli italiani in Parlamento non conta nulla. Il Movimento 5 Stelle è completamente privo di potere coalizionale. Il partitino di Vendola, che ha preso poco più del 3 per cento alle elezioni, ha usato invece al massimo quel potere, prendendosi la presidenza della Camera.
La seconda debolezza del M5S è che, per quanto Grillo lo voglia sottrarre alla logica destra-sinistra, la sua élite parlamentare, come segnalava ieri Michele Salvati su questo giornale, pende notevolmente a sinistra e al momento decisivo lo dimostra, come ieri per impedire la vittoria di Schifani. Non basterà forse a risolvere il problema di Bersani, visto che anche con i franchi tiratori «conquistati» ieri gli mancano ancora una ventina di senatori per un voto di fiducia, oltretutto palese; ma può bastare per logorare rapidamente la presa di Grillo sui suoi eletti, forse meno manovrabili di come lui se li immaginava.

Corriere 17.3.13
La primavera dei giovani turchi. Il Grande fratello in Parlamento
Dovevano essere la nuova linfa del trionfo di Bersani

di Aldo Grasso

Se la legislatura non durerà a lungo, Bersani dovrà chiedere ragione ai suoi «giovani turchi», gli Orfini, gli Orlando, i Fassina e i loro affiliati. Dovevano dare al segretario un tocco di modernità nella tradizione e portare dentro al Pd un nuovo significato «a parole come rappresentanza, cittadinanza, mobilità sociale». Dovevano essere la nuova linfa del trionfo bersaniano, ma sembrano solo la caricatura dei «Lothar dalemiani», il pensatoio del Baffino composto da teste lucide (per via della rasatura).
Si sono chiamati «giovani turchi», forse in onore del movimento politico nato nell'Impero ottomano all'inizio del '900 (un sogno infranto miseramente) o più probabilmente per richiamare i giovani turchi sardi di Cossiga alla conquista della Dc. Per chi ha amato «les jeunes turcs» della Nouvelle Vague (Truffaut, Godard, Chabrol...), la corrente di Matteo Orfini è solo fonte di scoramento.
Per contrastare i «rottamatori» si sono persino dotati di un Manuale dei Giovani turchi, scritto da Francesco Cundari, al cui confronto il Manuale delle Giovani marmotte sembra un libro sapienziale. La mitologica Chiara Geloni, direttrice di Youdem, spiega che il libro «con dovizia di dati e rigore scientifico indica chiaramente ai lettori la strada da intraprendere..., schema di gioco e strategia, esercizi per tenersi in forma, manifesto ideologico e bozza per lo statuto del partito (dopo la presa del potere)». Sì, presa del potere: a ogni apparizione televisiva di Stefano Fassina, migliaia di voti s'involavano; Andrea Orlando si occupa del Forum giustizia del Pd e Orfini di cultura, settori nei quali la competenza sarebbe quantomeno necessaria.
Orfini dice che si può tornare alle urne, magari senza Bersani, magari con un Renzi più a sinistra, chi ci capisce è bravo. L'altra sera, ospite di Lerner, esponeva le sue strategie come un vecchio dalemiano: turchi fuori, ma tirchi dentro. Non c'è da stupirsi poi che il reality sia entrato in Parlamento: se i professionisti della politica sono questi, è giusto che la gente comune venga traghettata dall'anonimato ai banchi di Montecitorio secondo il format del Grande fratello.

Corriere La Lettura 17.5.13
Elogio del compromesso
Dai Cinque Stelle a Bersani, passando per Dario Fo, la mediazione viene demolita come un valore negativo
Ma senza non si governa. E l'intransigenza porta alla vera paralisi
di Antonio Sgobba


«L'arte del compromesso, che è stata un'arte della politica, non è più valida». Beppe Grillo, nell'intervista a «Time», è stato chiaro. Dario Fo: «Se andiamo col compromesso, andiamo a rifare tutto daccapo. Troppa intransigenza? Ma è per mancanza di intransigenza che siamo arrivati a questo punto». Pierluigi Bersani ha poi detto senza metafore: «Non riteniamo né praticabili né credibili accordi di governo tra noi e la destra». La portavoce Alessandra Moretti ha aggiunto: «Non possiamo scendere a compromessi con Berlusconi». Per il Pdl ha chiuso il cerchio Cicchitto: «Il nodo politico resta uguale, non ci si può chiedere di fare un accordo».
Sembra ci sia un solo punto su cui i tre partiti protagonisti della politica italiana possono essere d'accordo: non si metteranno mai d'accordo. Risultato? Lo stallo. Non si tratta certo di un'eccezionalità italiana. «Il rifiuto sistematico del compromesso è un problema per ogni democrazia. Pregiudica il progresso politico e favorisce lo status quo», scrivono in The Spirit of Compromise. Why Governing Demands it and Campaigning Undermines it (Princeton University Press, 2012) Amy Gutmann e Dennis Thompson, rispettivamente presidente dell'Università della Pennsylvania e professore di filosofia politica a Harvard. I due politologi prendono in esame casi esemplari dalla politica Usa. Tra i quali il dibattito del 2011 sul tetto del debito sovrano: «Un Congresso diviso. Un accordo tra i due partiti appariva l'unica via per evitare il rischio default. Obama riuscì ad annunciare che i leader di democratici e repubblicani avevano raggiunto un accordo solo all'ultimo momento, la notte del 31 luglio». Preferire lo status quo non vuol dire lasciare le cose immutate. «Significa solo che i politici lasciano che siano altre forze a controllare il cambiamento», spiegano Gutmann e Thompson.
Ma l'ostilità al compromesso continua a crescere. Come mai? Secondo i due autori i fattori determinanti sono tre. Primo: la campagna elettorale permanente. «Prima del voto è un processo democratico indispensabile», scrivono. Il problema nasce quando diventa «intrusiva nell'attività di governo». Secondo: «La tendenza dei media a seguire la politica come le corse dei cavalli». Chi ha vinto? Chi ha perso? Con quale distacco? Sia che si tratti della competizione elettorale, sia dell'attività di governo. Terzo: la caccia ai soldi. «Dal primo giorno dopo le elezione, i deputati iniziano il fundraising per essere rieletti. Una raccolta fondi no stop che li tiene impegnati costantemente a scapito della loro attività». Dei tre il più pesante è il primo, influenza anche gli altri due. «Una campagna appassionata gioca un ruolo morale e pratico in democrazia. Fa sì che i candidati possano comunicare quali sono i loro principi guida e il modo in cui si differenziano dagli avversari. Ma quell'atteggiamento chiuso al compromesso non è utile quando è il momento di governare: un leader eletto a quel punto non deve solo tenere fede ai suoi principi, deve anche fare concessioni. Deve rispettare i suoi oppositori e collaborare per legiferare». Il rifiuto del compromesso quando è tempo di governare è «una specie invasiva proliferata fuori dal suo habitat naturale».
Rimedi? «Più educazione civica e una riforma della campagna elettorale. E far vivere insieme i politici a Washington per più tempo» è la ricetta di The Spirit of Compromise. Spesso infatti i deputati tornano a casa, da chi la pensa come loro. «Così non si contaminano con chi ha idee diverse». Il resto dovrebbero farlo gli elettori: «Dovremmo iniziare a premiare i politici che scendono a compromessi, anziché punirli», è l'auspicio dei due professori. C'è chi invece continua a sperare: «Il mio partito avrà la maggioranza assoluta e potrà realizzare il suo programma, senza cedimenti». Una prospettiva allettante? «Un sogno», per Gutmann e Thompson. «È altamente improbabile che un partito solo ottenga il controllo di tutto. E anche se andasse così, avrebbe comunque divisioni al suo interno. Neanche una leadership forte sarebbe sufficiente. Non si scappa dal compromesso».

l’Unità 17.3.13
Obama in Terrasanta, le sfide di uno storico viaggio
Il nodo degli insediamenti sulla strada di una pace fondata sul principio «due popoli, due Stati»
di Umberto De Giovannangeli


Una visita storica. La prima da presidente. Il mondo guarda con speranza e inquietudine al viaggio di Obama in Israele, Territori palestinesi e Giordania. L’attesa crescerà con l’avvicinarsi del 20 marzo, quando l’Air Force One atterrerà all’aeroporto Ben Gurion.
Obama sa che ogni sua parola, ogni suo gesto saranno «sezionati» per coglierne la vicinanza o la lontananza dai desiderata di israeliani e palestinesi, ebrei e arabi. Il capo della Casa Bianca lo sa bene e per questo, nell’immediata vigilia, cerca di contenere le aspettative. Obama ha ribadito che non viene con una nuova proposta ma sarà a Gerusalemme e a Ramallah per «ascoltare» entrambe le parti per capire come poter far ripartire i negoziati di pace israelo-palestinesi, in stallo totale dalla fine del 2010: «L’obiettivo di questo mio viaggio è ascoltare. Intendo incontrare Bibi (Netanyahu) ... Intendo vedermi con (Salam) Fayyad e Abu Mazen (premier e presidente dell'Anp) per ascoltare da loro le loro strategie e le loro idee, capire dove ci porteranno». Con Israele che sta ancora definendo gli ultimi particolari per formare un nuovo governo di coalizione, Obama avverte che sarà altamente
«improbabile» che si verifichi un svolta. Ma lui punta a fare pressione su entrambe le parti, «affinché riconoscano i legittimi interessi», l’una dell'altra».
Frena le attese Barack Hussein Obama ma i suoi più stretti collaboratori, fuori dall’ufficialità, confidano che il presidente è consapevole che quel viaggio ha come posta in gioco un «nuovo inizio» nelle relazioni israelo-palestinesi. Obama ha chiesto una «tabella di marcia» per il ritiro di Israele dalla Cisgiordania e, a questo riguardo, intende avere un dettagliato piano da parte del premier confermato Benyamin Netanyahu. A rivelarlo è a il giornale americano on line The World Tribune, ripreso dai media israeliani. Citando fonti israeliane, il giornale che firma il servizio da Gerusalemme spiega che il piano israeliano dovrebbe essere considerato come parte dell'iniziativa americana per stabilire uno stato palestinese in Cisgiordania nel 2014. «Obama si legge sul giornale riportando le stesse fonti ha chiarito a Netanyahu che la sua visita non è un'opportunità per scattare foto, quanto piuttosto un’occasione di lavoro sull'Iran e sullo Stato palestinese». «L’implicazione ha proseguito la fonte con il giornale è che se Israele non darà al presidente qualcosa su cui lavorare, lui agirà per proprio conto». Gli uomini di Obama considerano questo la «prova del nove» della leadership e della credibilità di Netanyahu.
Quello del presidente Usa, annota a ragione Janicki Cingoli, direttore del Centro per la pace in Medio Oriente di Milano, è «un approccio soft, lontano dalle fanfare decisioniste e senza risultato del suo discorso al Cairo, all’inizio del suo primo mandato. Ma il viaggio segna un rinnovato impegno diretto del presidente in quest’area, che non vorrà fallire ancora».
Obama, ha in programma la visita alla basilica della Natività, ma non al Muro del Pianto. Parlerà all'International Convention Center di Gerusalemme, ma non davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano. E andrà a vedere da vicino una batteria mobile di missili difensivi ma non una di quelle che protegge Israele dai missili nemici. Queste sono alcune delle scelte fatte dalla Casa Bianca, secondo le indiscrezioni . Ma prima ancora di partire, nota il New York Times, ogni posto che abbia scelto di visitare o non visitare, in una terra ricca di simbolismi, rischia di provocare disappunto. Il simbolismo sarà ancora più centrale nel suo viaggio, viste le speranze riposte da molte persone in Obama per far ripartire il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Ogni viaggio presidenziale è il prodotto di estenuanti negoziazioni tra la Casa Bianca e il governo che accoglie Obama, in particolar modo se si tratta di quello israeliano. Il New York Times ricorda il tentativo di Bill Clinton, nel 1996, di visitare i luoghi sacri per cristiani, ebrei e musulmani, poi fallito per l’impossibilità di andare alla Moschea al-Aqsa.
Nei suoi discorsi sul Medio Oriente, Obama ha sempre perorato un accordo di pace fondato sul principio di «due popoli, due Stati». Ma la pace non si coniuga con la politica degli insediamenti rilanciata da Netanyahu. Concessioni su questo terreno, «Bibi» è difficile che le farà, tanto più che ora al governo è entrato Naftali Bennett, il leader della destra nazionalista legata al movimento dei coloni. Ma uno stop alla colonizzazione è linfa vitale per la leadership moderata palestinese di Abu Mazen, su cui la Casa Bianca continua a puntare. Per questo, Obama non potrà limitarsi ad ascoltare. Da soli i due popoli, le due leadership non riusciranno a riavviare il dialogo e dare un senso concreto alla parola «pace». C’è bisogno di un’azione esterna di sostegno. Generosa, determinata. Il Medio Oriente ha bisogno di un presidente Usa protagonista, e non di un «notaio» attento solo a non scontentare nessuno.

il Fatto 17.3.13
Quarant’anni di aborto di Stato per “frenare” i cinesi
Pechino rende noti i dati suglki aborti: 336 milioni di non nati dal 1971
I nuovi leader confermano la politica del figlio unico nel paese più popoloso del mondo
di Alessandro Oppes


Cambia il vertice del regime a Pechino, ma resta invariata la legge che, forse più di qualunque altra, i cinesi avrebbero voluto vedere abrogata: non si tocca la cosiddetta “regola del figlio unico”, quella norma introdotta nel 1978, proprio in coincidenza con l'avvio del processo di apertura dell'economia agli investimenti stranieri, che prevede l'imposizione di pesanti multe alle coppie urbane che hanno più di un figlio. Lo fa sapere - all'indomani dell'insediamento del nuovo presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqang - il Ministero della Sanità in una nota dalla quale si apprende l'inquietante escalation dei dati sull'aborto, diretta conseguenza della politica del governo: nel corso degli ultimi quarant'anni, a partire dal 1971, sono stati 336 milioni i casi di interruzione della gravidanza .
UNA CIFRA sconvolgente, ma che sorprende solo fino a un certo punto, perché corrisponde più o meno ai calcoli approssimativi già rivelati in passato dal regime, secondo cui in assenza di una rigida politica di contenimento delle nascite, oggi in luogo del miliardo e 300 milioni di abitanti censiti tre anni fa, gli abitanti della Cina sarebbero almeno 400 milioni in più.
Ma non basta. Le autorità di Pechino fanno anche sapere che, nel corso dello stesso periodo, 196 milioni di uomini e donne sono stati sterilizzati e 403 milioni di donne hanno fatto ricorso alle spirali intrauterine per evitare “gravidanze indesiderate”. Verrebbe da chiedersi quante fossero effettivamente “indesiderate”, e in che percentuali questi casi siano da ricondurre alla politica governativa. Quando, nei giorni scorsi, è stato annunciato lo scioglimento della Commissione per la pianificazione familiare, che sarà assorbita dal Ministero della Sanità, qualcuno ha cominciato a sperare che potesse essere solo il primo passo verso l'abrogazione dell'odiata legge sul figlio unico. Illusione subito frustrata dalle dichiarazioni ufficiali. “La pianificazione verrà rafforzata, non indebolita”, ha detto Wang Feng, numero due dell'ufficio per la riforma del settore pubblico. “Dopo questa riforma, la Cina proseguirà nella sua politica di pianificazione familiare”, ha confermato il segretario generale del governo, Ma Kai, gelando le ultime speranze.
L'INCUBO, DUNQUE, continua. La legge è estremamente impopolare, anche per l'assurda ferocia con la quale, a volte, viene applicata dalle autorità. Lo scorso anno, fu enorme lo scandalo provocato dal caso di Feng Jianmei, una ragazza di 23 anni costretta ad abortire al settimo mese di gravidanza. Feng e il marito, Deng Jiyaun, si erano rifiutati di pagare una multa pari a 4500 euro imposta loro dalle autorità della provincia nord-orientale del Shanxi per aver deciso di tenere il secondo figlio. Milioni di persone protestarono sui social network contro il governo locale. L'attivista democratico Chen Guangcheng, emigrato lo scorso anno negli Usa, ha denunciato pratiche simili e estremamente diffuse nella sua provincia natale dello Shandong.

Corriere 17.3.13
Cina, 330 milioni di aborti in 40 anni
Ma entro il 2015 dovrebbe essere concesso alle coppie di avere un secondo figlio
di Guido Santevecchi


PECHINO — Nel 1971 la Cina cominciò ad «incoraggiare» le coppie a fare meno figli per evitare l'esplosione della bomba demografica. Nel 1980 il regime impose la «politica del figlio unico». Ora il ministero della Salute ha comunicato i numeri di questa imposizione: dal 1971 i medici cinesi hanno praticato 336 milioni di aborti e hanno sterilizzato 196 milioni di uomini e donne, oltre ad avere impiantato 403 milioni di spirali intrauterine. In base a questa contabilità dell'aborto, nella Repubblica Popolare sono state interrotte in media oltre sette milioni di gravidanze all'anno per quarant'anni.
Secondo la «Commissione per la popolazione nazionale e la pianificazione familiare», incaricata di gestire la politica del figlio unico, senza restrizioni, aborti e sterilizzazioni, la popolazione cinese (che supera il miliardo e trecento milioni) sarebbe cresciuta di un altro 30 per cento. Un altro effetto dello stretto controllo è lo squilibrio di genere: i maschi sono 34 milioni più delle femmine, perché quando una coppia scopre di aspettare una bambina, sapendo che poi non potrà avere un altro bimbo, spesso ricorre a un aborto selettivo.
Nella Cina diventata seconda potenza economica del mondo, con una nuova classe media molto istruita e urbanizzata, diverse voci si sono levate per invocare la libertà di poter costruire famiglie senza l'intromissione oppressiva dei pianificatori statali.
I giornali hanno cominciato a raccontare casi di applicazione ottusa e feroce della legge: le punizioni sono lasciate alla discrezionalità (spesso all'arbitrio) delle autorità amministrative e possono variare dalla multa fino al licenziamento dal lavoro per il padre o la madre. L'ultimo episodio tragico è successo il mese scorso nella provincia meridionale dello Zhejiang: in casa di due genitori che avevano violato la regola si sono presentati 11 agenti del locale ufficio pianificazione. Il padre ha preso in braccio il piccolo di 13 mesi ed è fuggito nel cortile, mentre la moglie veniva portata via per essere interrogata. Non si è capito bene come, ma il bambino è stato investito e ucciso dall'auto dei funzionari.
Le multe per chi ha violato la legge del figlio unico possono essere molto pesanti e variano a seconda del reddito della zona in cui nasce il bimbo «illegale»: a Pechino si può arrivare fino a 300 mila yuan (35 mila euro). Ci sono dei genitori che non potendo pagare nascondono il piccolo, non lo registrano. Questo però lo condanna a una vita clandestina: niente assistenza ospedaliera e niente scuola. L'unica soluzione è corrompere qualche funzionario. Ora c'è grande attesa, dopo alcuni segnali arrivati dal governo centrale. L'odiata «Commissione per la popolazione nazionale e la pianificazione familiare» è stata abolita e le sue competenze passate al ministero della Salute. L'«Agenzia per lo sviluppo economico» ha raccomandato un allentamento della politica: entro il 2015 dovrebbe essere consentito a tutte le coppie di avere un secondo figlio. Questa concessione è già in vigore per alcune zone rurali, per alcune minoranze etniche e per i genitori che sono a loro volta figli unici.
Ma soprattutto, sono i dati dell'economia che spingono a un ripensamento: nel 2012 per la prima volta in Cina è cresciuto il «tasso di dipendenza» che compara la forza lavoro con la somma di anziani e minori. I pianificatori di Pechino temono che questa tendenza possa portare a una carenza di mano d'opera nella «fabbrica del mondo».

Corriere 17.3.13
Onu, la protesta islamica non ferma i diritti delle donne
di Monica Ricci Sargentini


Ci avevano provato i Fratelli musulmani egiziani a non far passare all'Onu la Dichiarazione che condanna ogni forma di violenza contro le donne. Nei giorni scorsi, attraverso il sito web, avevano lanciato un appello a tutti i Paesi islamici perché bocciassero il documento che, secondo loro, «contiene articoli contro l'Islam e la sunna, che porteranno al sabotaggio della morale musulmana e alla demolizione della famiglia». Parole che sono cadute nel vuoto. Ieri 131 Paesi su 198 hanno firmato la Carta che chiede protezione, promozione di diritti umani e libertà fondamentali per donne e bambine. Lo schiaffo più forte ai Fratelli musulmani l'ha dato Mervat Tallawy, capo della delegazione egiziana, quando ha firmato il testo di 17 pagine senza colpo ferire. «Credo nella causa delle donne — ha detto Tallawy —. Non prendo denaro dal governo, lavoro in modo volontario e se vogliono farmi fuori possono farlo. Ma non cambierò idea sull'argomento. Le donne sono schiave in questa era, e questo è inaccettabile. Soprattutto nella nostra regione». In Egitto, secondo alcuni dati, l'83% delle donne è stata molestata sessualmente. Gli islamici egiziani, la più potente forza politica nel Paese dalle rivolte del 2001, avevano proposto un emendamento al testo che avrebbe consentito a ogni Stato di modellare la Carta in base alle proprie leggi. Ma si sono ritrovati isolati e alla fine a votare contro il documento sono stati solo i libici mentre gli altri Paesi che avevano espresso perplessità, tra cui Iran, Sudan e Arabia Saudita, hanno firmato. Tra i punti considerati inammissibili c'è la «piena uguaglianza nel matrimonio» che toglie ai mariti l'autorità sul divorzio e consente di denunciare il coniuge violento e la garanzia di libertà sessuale per le ragazze compreso l'accesso ai contraccettivi. Ora però bisogna passare dalle parole ai fatti. L'ha ricordato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, quando ha detto di «sperare che tutti i partner che sono arrivati a questa storica sessione ora trasferiscano l'accordo in azioni concrete». Il documento, infatti, non è vincolante ma «esorta tutti i Paesi a condannare ogni forma di violenza contro le donne e le bambine, e ad astenersi dall'invocare qualsiasi costume, tradizione o considerazione religiosa per non rispettare i propri impegni a favore della sua eliminazione». Il messaggio è forte e chiaro.

Corriere La Lettura 17.3.13
Anche l'Arabia avrà una piazza Tahrir
Lo studioso Marc Lynch sostiene che le Primavere arabe avranno bisogno di dieci anni per uscire da instabilità e violenze
Con nuovi fronti e un nuovo ruolo dei social media
di Lorenzo Cremonesi


«C'è un vasto effetto boomerang di Internet sulla politica del Medio Oriente. Twitter può sviare, illudere, imbrogliare. E le avanguardie delle Primavere arabe pagano sulla loro pelle i limiti dei nuovi mezzi di comunicazione. I blog, Facebook, tutti i sistemi di interscambio via web, in generale, nel passato sono stati il loro maggior punto di forza. È stato detto che il tam tam dei messaggi su Internet è stato alla base delle rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia, Siria. La spinta alla mobilitazione contro le dittature nasce da quei giovani aperti alle tecnologie, ai linguaggi provenienti dall'estero. Ma adesso le cose sono cambiate. Anche i regimi possono utilizzare Internet per rilanciare i loro messaggi e distorcere quelli degli avversari. Le dittature reagiscono. E soprattutto i militanti delle rivoluzioni rischiano di restare prigionieri del loro mondo. Parlano al loro interno, predicano ai convertiti. Ciò appare evidente in Egitto, dove i militanti laici di piazza Tahrir non si sono accorti di essere minoranza. Non sanno rapportarsi alla grande maggioranza del Paese, che non è su Internet. Milioni di fellahim dell'alto Nilo non hanno il computer. Così gli entusiasti della democrazia diretta subiscono la forza profonda e radicata dei Fratelli musulmani, che pure non c'erano all'inizio delle sommosse, ma hanno ben saputo mobilitarsi in vista delle prime elezioni libere». Marc Lynch è da almeno due decenni attento studioso degli umori delle piazze in Medio Oriente. I temi di cui tratta sono però di stretta attualità e vanno ben oltre i confini regionali.
In un libro uscito nel 2006, Voices of the New Arab Public (Columbia University Press), esaminava gli effetti dell'enorme diffusione dell'emittente televisiva del Qatar, Al Jazeera. Ora torna sul rapporto tra opinioni pubbliche, nuovi media e politica, con il suo ultimo lavoro The Arab Uprising («La rivolta araba», PublicAffairs) e i pericoli della sua deriva fondamentalista.
Le Primavere arabe e il loro progetto di rinnovamento sono falliti?
«Non sarei tanto perentorio. È un processo lungo, iniziato ben prima dello scoppio delle rivolte nella Tunisia meridionale nel dicembre 2010. Covava da almeno un decennio. Le sommosse dei poveri per il pane già dal Duemila erano quasi quotidiane. In Egitto c'erano state mobilitazioni di piazza in nome della causa palestinese. Soprattutto le folle già nel 2006 si erano ribellate violentemente contro la prospettiva che il presidente Hosni Mubarak imponesse come suo successore il figlio Gamal. Proteste a ondate c'erano state anche in Giordania e persino sotto il tallone oppressivo della dittatura in Siria. Lo status quo era instabile. Non poteva più tenere».
Il risultato però non è stato ciò che speravano i primi rivoltosi: in Tunisia i religiosi di Ennahda sono al governo, così i Fratelli musulmani in Egitto, in Libia le brigate islamiche fanno il bello e il cattivo tempo e lo stesso avviene in Siria.
«È troppo presto per trarre conclusioni. Lo scoppio delle rivoluzioni risale a poco più di due anni fa. Ci vuole tempo, molto più tempo. I gruppi legati ai Fratelli musulmani potrebbero rivelarsi tigri di carta. A conti fatti il loro leader al Cairo, l'attuale presidente egiziano Mohammed Morsi, controlla solo il 25 per cento dei voti. In Egitto, come del resto in Tunisia, i gruppi laici e moderati hanno perso le prime elezioni libere perché si sono presentati disuniti, frammentati in tanti partiti, ognuno con una propria piattaforma particolare. Sono convinto che impareranno presto come funzionano la democrazia e il Parlamento in una società aperta: potrebbero allora creare liste unitarie e al prossimo voto i risultati potrebbero essere totalmente ribaltati».
Dunque sono ancora possibili sviluppi democratici?
«Certamente. Ma solo nel lungo periodo. Invece nei prossimi dieci anni resteranno violenze e instabilità».
Dove prevede lo scoppio di nuovi moti rivoluzionari?
«Uno dei pareri più diffusi è che nelle monarchie come Arabia Saudita, Emirati e Giordania o Marocco la situazione sia sotto controllo. Ma non ne sono affatto sicuro. Anzi, in Arabia Saudita, dove Internet è libera e diffusa, noto una forte mobilitazione di protesta sulla Rete tra le masse di giovani scolarizzati e poveri. Il fuoco cova sotto la cenere. Lo stesso vale per la Giordania».
Che cosa accade in Siria?
«Va di male in peggio. Se anche Assad dovesse cadere, i massacri continueranno. La guerra civile tra sciiti e sunniti sarà ancora più sanguinosa».
Al Jazeera è meno importante di qualche anno fa?
«Si è screditata dall'estate del 2011, quando è risultato evidente che era diventata uno strumento d'influenza del ministero degli Esteri del Qatar. Per esempio, ha dato poco spazio alle rivolte sciite nel Bahrain e troppo per contro alle vittorie, assistite dalla Nato, delle brigate rivoluzionarie libiche su Gheddafi. Peccato per Al Jazeera, era la grande tribuna del libero dibattito in Medio Oriente. Ma è ormai vista come un media partigiano. Nessun'altra televisione è riuscita a sostituirla. Rimane un vacuum».
Al Jazeera rimpiazzata da Internet?
«Con molti limiti però. La grande forza dei nuovi media è che rendono impossibile la censura delle dittature. Nella crisi del Golfo del 1990-91 molti regimi arabi riuscirono a nascondere alle loro opinioni pubbliche che i loro eserciti erano schierati con gli americani per scacciare la truppe di Saddam Hussein dal Kuwait. Oggi sarebbe impossibile. Come del resto sarebbe impossibile il silenzio sul massacro di Hama compiuto dal regime siriano nel 1982. È però sbagliato pensare che Internet sia di per sé democratica».
Può spiegare perché?
«I nuovi media registrano e amplificano ciò che sta già sul terreno. Possono contribuire alla libertà, ma anche alla dittatura; creare unità, armonia, ma anche divisioni e guerra. Possono incitare alla violenza, all'odio razziale, persino inventare fatti che non esistono. Poche settimane fa su alcuni siti egiziani apparve la notizia che era stata data alle fiamme una chiesa copta ad Alessandria. C'erano foto, testimonianze, appelli. Ciò provocò una vampata di tensioni. Poi un giornalista del nuovo media "Daily News Egypt" andò sul posto e scoprì che era tutto falso. Lo stesso vale per le cronache delle rivolte da piazza Tahrir: quante volte sui blog locali ci raccontano che la piazza brucia, salvo poi appurare che ci sono solo un paio di tafferugli, mentre al Cairo regna la calma piatta? La verità è che gli attivisti delle Primavere arabe si rivelano spesso vittime della bolla magica in cui si sono rinchiusi. In Arabia Saudita i loro contatti via Twitter sono ancora una forza innovativa. Ma in Egitto non più. Dovranno imparare a gestirsi».

l’Unità 17.3.13
Il dolore evitabile
Una legge riconosce al malato il diritto di non soffrire. Ma è difficile applicarla
di Pietro Greco


SEDICI MILIONI DI ITALIANI VANNO OGNI ANNO DAL MEDICO ACCUSANDO UN QUALCHE DOLORE: UN’EMICRANIA, UNO SPASIMO, UNA FITTA ALLA SCHIENA, UNA QUALSIASI SOFFERENZA FISICA. Per tre su quattro – ovvero per 12 milioni di persone, pari al 20% dell’intera popolazione – quella sofferenza fisica, quella fitta, quello spasimo, quel dolore sono cronici.
Il dolore è una vera e propria malattia: non solo perché il 61% delle persone con dolore cronico ha una ridotta capacità di lavoro e il 50% ha una qualche forma di depressione, ma perché, come diceva Aristotele oltre duemila anni fa è «un’affezione dell’anima» che erode la dignità delle persone.
Questa diffusa condizione di malessere – questa malattia del corpo e dell’anima – interroga già oggi il servizio sanitario nazionale. Perché l’incidenza del dolore in Italia è la più alta d’Europa, Norvegia esclusa. Perché, per la gran parte, è dolore evitabile. Perché, ancora in larga parte, è dolore non evitato.
La domanda di aiuto è destinata ad aumentare: per motivi demografici. Il dolore, infatti, interessa maggiormente gli anziani: nel nostro paese ne soffre il 50% delle persone con più di 70 anni di età. E la popolazione anziana in Italia – come dimostrano i risultati del censimento 2011 di recente pubblicati dall’Istat – tende a crescere, come dimostrano i dati degli ultimi censimenti. Gli italiani con oltre 65 anni di età erano 8,7 milioni nel 1991,pari al 15,3% dell’intera popolazione. Sono diventati 10,6 milioni del 2001 (18,7%) nel 2001. Sono saliti a 12,4 milioni nel 2011: il 20,8% dell’intera popolazione italiana. Questa tendenza, assicurano i demografi, caratterizzerà anche il futuro prossimo: gli anziani aumenteranno ancora. E con essa l’incidenza del dolore.
UN AUTENTICO PARADOSSO
È un autentico paradosso. Visto che mai, prima d’ora, l’umanità ha avuto la possibilità tecnica di eradicare completamente il dolore non necessario. E visto che dal 15 marzo 2012 esiste una legge, la n.38, che riconosce il diritto di tutti gli italiani a evitare il dolore evitabile. E impone al servizio sanitario nazionale di fare in modo che il dolore evitabile sia effettivamente evitato.
Non è un’ovvietà. Questo diritto è una conquista culturale recente. Se, infatti, nell’antichità Galeno, riprendendo gli insegnamenti di Ippocrate sosteneva che «divinum opus est sedare dolorem», è di origine divina l’imperativo che impone al medico di adoperarsi per sedare il dolore, la difficoltà tecnica dell’impresa, malgrado un uso esteso di oppiacei, ha portato molti in epoca cristiana ad accettare di convivere col dolore, cui è stato attribuito un ruolo catartico. Tanto da portare molti chirurghi, ancora all’inizio del XX secolo, a esaltare la sofferenza dei loro pazienti e rifiutare loro l’anestesia.
Malgrado nell’ultimo secolo la possibilità tecnica di contrastare, lenire e persino annullare del tutto sia il dolore acuto, generato per esempio da un trauma, sia il dolore cronico, generato per esempio da un tumore, sia venuto aumentando fino a diventare pressoché totale, abbiamo dovuto attendere il 15 marzo 2010 e la legge n. 38 perché in Italia venisse riconosciuto il diritto di ciascuno di noi a vedersi risparmiato un dolore inutile ed evitabile.
La legge obbliga il servizio sanitario nazionale ad allestire due reti distinte, una per la terapia del dolore una per le cure palliative. La prima deve rendere possibili agli italiani di accedere ai farmaci e in genere alle terapie che combattono il dolore acuto e il dolore cronico, che è soprattutto di natura oncologica. La seconda rete, quella delle cure palliative, che deve garantire a tutti gli italiani la possibilità di un fine vita dignitoso attraverso quelle che l’Organizzazione Mondiale di sanità definisce «la prevenzione e il sollievo della sofferenza». Un fine vita, insomma, senza dolore e carico di cure premurose. La legge n. 38 prevede anche una terza rete, per la diagnosi e la cura del dolore dei bambini.
Con quali risultati concreti?
Gli ultimi a rispondere a questa domanda sono stati, lo scorso anno, gli esperti di Nopain, l’Associazione italiana per la cura della malattia dolore. Nel 2012 le strutture di terapia del dolore in Italia erano 190 (161 pubbliche e 29 private accreditate). Erano 158 nel 2009. Dunque, dopo la legge n. 38, sono aumentate del 20%: passando da 2,64 a 3,12 strutture ogni milione di abitanti .
In realtà ad essere aumentate sono state soprattutto le strutture cosiddette di livello I, quelle con dotazioni elementari, passate da 70 a 96. Le strutture di livello III, quelle davvero ben attrezzate e ben organizzate per combattere il dolore e somministrare le migliori cure palliative, sono addirittura diminuite: da 53 a 52. Ma, soprattutto, hanno visto diminuire la qualità delle prestazioni offerte.
Che la qualità dell’offerta non sia aumentata – non nella maniera attesa, almeno – lo dimostra il fatto che il numero dei medici preposti alla terapia antalgica è rimasto pressoché immutato: erano 4,84 ogni milione di abitanti nel 2009, sono diventati 5,76 nel 2012. E il dato, sostiene Nopain, rischia di essere sovrastimato rispetto alla realtà per il fatto che, in almeno quattro regioni, sono stati integrati i servizi di cure palliative e di terapia del dolore. Insomma, sono più o meno le stesse persone di prima a svolgere i due compiti: ne consegue che né l’aumento del numero di strutture né l’entrata in vigore della legge hanno determinato una maggiore efficienza dei servizi.
In realtà questi numeri ci dicono poco, se non li confrontiamo con i dati internazionali. Ovvero se non facciamo un confronto con gli altri paesi. E il confronto ci dice che, malgrado la legge, molta è ancora la strada da fare nella lotta al dolore evitabile e/o per un fine vita dignitoso. Prendiamo il caso dei farmaci. L’Italia è penultima nella graduatoria europea di uso dei farmaci oppiacei. Sia perché i medici di base sono riottosi a prescriverli, sia perché noi tutti facciamo ancora una certa fatica a considerare il dolore una malattia. Oppure, prendiamo il caso della «rianimazione a porte aperte» (vedi articolo qui a fianco): in Italia, secondo il dottor Fabio Gori, direttore di Anestesia e Rianimazione del Nuovo Ospedale di Città di Castello, è una pratica che riguarda il 7-8% delle strutture di rianimazione. In altri paesi europei il 50 e persino il 60% delle rianimazioni sono «a porte aperte» e cercano di restituire anche agli ammalati gravi la dignità erosa dal dolore e dalla sofferenza.

l’Unità 17.3.13
Quando la rianimazione è a misura d’uomo
Reparti a porte aperte per i familiari del paziente anche in piccoli ospedali. Succede a Città di Castello
di P. G.


SI CHIAMA «RIANIMAZIONE A PORTE APERTE». OPPURE «RIANIMAZIONE A MISURA D’UOMO». È UNA NORMALE SALA DI OSPEDALE DOVE SI PRATICANO CURE INTENSIVE PER MALATI in condizioni molto gravi. Ma a differenza delle normali sale di rianimazione, i pazienti non si guardano da lontano, dietro una finestra di vetro, oppure non si visitano per pochi minuti dopo aver indossato tute e mascherine come soldati impegnati in una guerra biologica.
Per esempio, nella sala di «rianimazione a porte aperte» del reparto di Anestesia e Rianimazione del Nuovo Ospedale di Città di Castello in provincia di Perugia, diretto dal dottor Fabio Gori, i parenti del malato possono entrare tutte le ore dopo le 12.30 fino alla sera e persino all’intera notte, privi di ogni protezione e con l’unico accorgimento di un attento lavaggio delle mani.
Perché? «I motivi sono diversi», spiega Fabio Gori. «Ma il principale è restituire dignità alla persona malata. E offrire consolazione attiva ai suoi cari». Intanto non c’è alcuna evidenza scientifica che la iper-protezione riduca un qualche fattore di rischio. Mentre il tentativo è quello di rendere la vita in un reparto di terapia intensiva il meno diverso possibile dalla vita quotidiana. Richiamando con l’uso delle luci il ciclo del giorno e della notte e accendendo qualche televisore, per ridare i punti di riferimento dello spazio e del tempo ai pazienti. Formando medici e infermieri al lavoro in terapia intensiva facendosi carico anche della vita emotiva degli ammalati e dei loro parenti. Ma, soprattutto, riavvicinando il paziente ai suoi cari, alle loro parole, alle loro carezze.
In questo modo la malattia grave che spesso è un fine vita è meno pesante per tutti. È, appunto, a misura d’uomo. Tuttavia la pratica sperimentata per la prima volta in Italia in Emilia-Romagna a partire dal 2004 da Rita Maria Melotti ha anche altri effetti. A iniziare da quelli terapeutici. «La presenza dei familiari al proprio capezzale ha effetti terapeutici per il paziente. In primo luogo previene il delirio» sostiene Fabio Gori. Inoltre migliora le condizioni psicologiche del malato e aumenta le sue speranze di guarigione.
Ha anche effetti, per così dire, medico-legali: infatti diminuisce il contenzioso tra medici e famiglie dei pazienti. Inoltre ha implicazioni bioetiche. Migliora le condizioni per la desistenza terapeutica e accompagna i malati terminali verso un fine vita, ancora una volta, più dignitoso.

Corriere 17.3.13
Barcellona 1938 così la morte arrivò dal cielo

La strage che pesa sugli Italiani
75 anni fa gli aerei di Mussolini colpirono Barcellona
di Enric Juliana


Nel marzo del 1938, gli abitanti di Barcellona — e quelli delle altre città catalane — sapevano bene cosa fosse un bombardamento aereo. La città era già stata attaccata più volte dall'Aviazione Legionaria italiana, che aveva sede a Maiorca, ma il primo bombardamento a tappeto era arrivato dal mare, il 13 febbraio 1937, otto mesi dopo l'inizio della Guerra Civile, quando l'incrociatore italiano Eugenio di Savoia aveva riversato il fuoco delle batterie contro il quartiere centrale. Tra il 16 e il 18 marzo del '38, però, l'aria tremò in un modo diverso. Il bombardamento, lento, prolungato nel tempo, non finiva mai. Quando le sirene si zittivano e sembrava che il pericolo fosse cessato, l'allarme suonava di nuovo. Tredici attacchi in 40 ore. E, non appena si seppe di una forte esplosione nel centro della città, fu il panico generale. Un incidente incredibile e tragico: una bomba aveva colpito un camion militare che trasportava in centro un carico di dinamite e aveva provocato una strage. Cominciò a circolare la voce che gli italiani stessero testando un nuovo tipo di esplosivo e migliaia di persone iniziarono a scappare verso le periferie. Tre giorni dopo, quando quell'incubo terminò, l'aviazione italiana aveva ucciso oltre 900 persone e causato 1.500 feriti, intasando gli ospedali. Aveva generato il panico e, soprattutto, aveva demoralizzato la popolazione. I barcellonesi sapevano che la Repubblica e la Generalitat (il governo autonomo catalano) avevano perso la guerra.
Barcellona era stata bombardata in quel modo per impressionare Hitler. Il 12 marzo del 1938, il regime nazionalsocialista tedesco aveva portato a termine l'Anschluss, l'annessione dell'Austria al Terzo Reich. Non era una buona notizia per Benito Mussolini, che aveva cercato di tenere in piedi il governo autoritario del cancelliere Dollfuss, padre di un austrofascismo che si opponeva alla perdita di sovranità nazionale. Mussolini era preoccupato. Doveva mandare un «segnale» a Hitler, un messaggio per ricordare ai tedeschi, e a tutta l'Europa, la potenza del regime fascista. Era ancora fresco, troppo fresco, il ricordo della sconfitta italiana nella battaglia di Guadalajara (8-23 marzo 1937), e varie associazioni antifasciste si preparavano a festeggiare a Parigi il suo primo anniversario. Serviva una prova di forza. Mussolini dette l'ordine.
Nel marzo del 1938 era passato quasi un anno dal violento bombardamento di Guernica, compiuto dalla Legione Condor tedesca. Questa piccola città basca di cinquemila abitanti era stata completamente distrutta, il 26 aprile 1937, da un attacco devastante che si era avvalso di bombe incendiarie. Guernica, luogo simbolo per la nazione basca, era stata rasa al suolo. I resoconti per il Times del giornalista britannico George Steer, arrivato sul posto un paio di giorni dopo, avevano contribuito a diffondere la notizia e a trasformare quell'evento nel segno più tragico della guerra di Spagna. Il governo repubblicano volle che il dramma di Guernica fosse presente all'Esposizione Internazionale di Parigi del luglio 1937, e commissionò una grande tela al pittore Pablo Picasso. Un quadro che sarebbe diventato un simbolo universale.
I bombardamenti di Barcellona non vennero dipinti da nessun artista famoso, ma catturarono l'attenzione della stampa europea e americana. Una delle reazioni più significative fu quella de L'Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, che li condannò nell'edizione del 24 marzo. Pio XI incaricò il nunzio Ildebrando Antoniutti di esprimere il suo disagio al generale Franco. Protestarono anche il primo ministro francese Léon Blum e il premier britannico Chamberlain. Diversi anni dopo, quando iniziarono i bombardamenti degli aerei nazisti su Londra, Winston Churchill disse: «Spero che i nostri cittadini si dimostrino in grado di resistere, così come fece la coraggiosa popolazione di Barcellona».
Franco, in realtà, non ne sapeva nulla. Non questa volta. Dopo tre giorni, preoccupato per la risonanza internazionale della notizia, il quartier generale di Burgos chiese agli italiani di fermare l'attacco. L'Aviazione Legionaria italiana si muoveva su obiettivi segnalati in precedenza dal comando franchista, ma godeva di autonomia. Mussolini sosteneva i soldati ribelli e, allo stesso tempo, conduceva la sua guerra personale all'interno della guerra spagnola. La base di Maiorca, istituita nel 1936 dal leader fascista Arconovaldo Bonaccorsi, il «conde Rossi», rappresentava l'ambizione di creare un impero mediterraneo. Mussolini calcolava le sue mosse in funzione degli instabili equilibri europei e dei suoi complessi rapporti con il Vaticano. Nell'agosto del 1937, dopo la caduta della città di Bilbao, offrì ai nazionalisti cattolici baschi la possibilità di una resa onorevole per far cosa gradita alla Santa Sede. Con il beneplacito di Pio XI, gli ufficiali baschi si arrendevano alle truppe italiane e avrebbero potuto lasciare la Spagna via mare. Quando Franco lo venne a sapere, andò su tutte le furie e ruppe l'accordo. Gli ufficiali baschi furono imprigionati, processati e molti di loro vennero fucilati. Si può affermare che la nascita dell'Eta nel 1959 — ventidue anni dopo il patto di Santoña — sia stata, in parte, il risultato di questa umiliazione. Dopo quel segno di moderatezza verso i baschi, il dittatore italiano ordinò che Barcellona venisse bombardata con violenza per impressionare Hitler e per cancellare ogni sospetto di debolezza.
Oggi ricorrono i 75 anni di quell'evento. La Repubblica italiana, nata dalla vittoria sul fascismo, non ha colpe per un attacco tanto crudele. Mussolini, il dittatore, è stato giustiziato. E non si può dimenticare che nel 1946 il nuovo governo italiano, su proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, varò un'amnistia generale. Barcellona e le altre città catalane bombardate, però, aspettano ancora un gesto dall'Italia democratica.
(Traduzione di Sara Bicchierini)

Corriere 17.3.13
«Noi brava gente», lo stereotipo immeritato e le scuse mai presentate
di Dino Messina


Che nei cieli e per le strade di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938 fosse avvenuto qualcosa di terribile gli italiani lo appresero subito attraverso le corrispondenze del Corriere della sera, il più diffuso giornale italiano, dal 1925 controllato dal regime. Già il 18 marzo il quotidiano milanese titolava: «Il popolo di Barcellona chiede la resa», il 20 avvertiva: «Barcellona abbandonata da centinaia di migliaia di abitanti — scene di terrore e di rivolta». E il 21: «Barcellona stremata». I corrispondenti come lo scrittore Guido Piovene o l'inviato Mario Massai sottolinearono la gravità dell'impatto che i bombardamenti dell'aviazione italiana avevano avuto sul corso della guerra ma si guardarono bene dal denunciare, come fece il Times di Londra, che almeno seicento abitanti in tre giorni avevano perso la vita (in realtà circa il doppio), tantissimi bambini, per lo più residenti nei quartieri popolari. Fu subito chiaro, insomma, che la strage non era stata causale ma voluta, per un preciso ordine arrivato all'improvviso da Benito Mussolini in persona. Tutto scritto, tutto documentato dalle cronache dell'epoca, nelle pagine del diario del ministro degli Esteri italiano e genero del Duce, Galeazzo Ciano, nei libri scritti dagli storici italiani, da Giorgio Rochat (Le guerre italiane 1935-1943) a Lucio Ceva, Spagne 1936-1939. Eppure ben poco della verità sull'orrore scatenato dai bombardieri italiani decollati dalle Baleari con l'ordine preciso di colpire e seminare terrore è giunto alla nostra opinione pubblica. Per prendere coscienza delle responsabilità italiane nel primo civil bombing di una grande città europea forse occorrerebbe un atto pubblico simile a quello compiuto dal presidente tedesco Roman Herzog che nel 1997, nel sessantesimo anniversario di Guernica (26 aprile 1937), chiese scusa alla gente spagnola. Guernica-Barcellona un paragone azzardato? Nient'affatto. Altri se ne potrebbero fare. Per esempio con Durango, la cittadina della Vizcaya che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone.
Barcellona tuttavia resta una pietra miliare del terrore e forse è venuto il momento, dopo aver analizzato per circa un ventennio gli effetti che la «guerra ai civili» ha avuto sul suolo italiano (dai rastrellamenti nazisti dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 ai bombardamenti dell'aviazione Alleata), che gli storici facessero uno sforzo pari in direzione diversa. Raccontarci, cioè, dall'Etiopia ai Balcani, dalla Grecia alla Spagna la guerra vista dalla parte delle vittime, con gli italiani nelle vesti di aggressori. Non che manchino studi di questo tipo, da Angelo del Boca in poi, ma si sente soprattutto in ambito divulgativo, una reticenza lontana. Quella che deriva dall'auto rappresentazione di «italiani brava gente», ma anche da una mancata Norimberga successiva al fascismo e, non ultimo, dal fatto di essere entrati nella Seconda guerra mondiale con una casacca e nell'esserne usciti con un'altra.
Il bombardamento di Barcellona, così come tutti gli altri atti di terrore dall'aria durante l'aggressione alla Repubblica spagnola, è il frutto ideologico, militare e politico di una storia tutta italiana. Il punto di vista militare e ideologico risale a Giulio Dohuet, che ben prima del britannico Hugh Trenchard, cioè negli anni Venti, con un'opera ancora oggi citata in tutti i manuali di strategia militare, Il dominio dell'aria, anticipò il concetto del «civil bombing»: «Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all'incirca, colpita da una massa di proiettili dal peso complessivo di una ventina di tonnellate...». Sembra la profezia di quanto sarebbe avvenuto a Barcellona dove i bombardieri Savoia Marchetti 79 in un paio di giorni sganciarono circa 44 tonnellate di esplosivi.
E a un'azione dimostrativa che seminasse terrore, come ha raccontato anche Edoardo Grassia, pensava Mussolini quando pochi minuti prima di pronunciare alla Camera il suo discorso in reazione all'Anschluss dell'Austria da parte delle truppe di Hitler, diede l'ordine al Capo di Stato Maggiore della Regia aeronautica di «iniziare azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo». Nessuna consultazione con altri organismi militari, nemmeno con Franco. Fu una decisione di Mussolini per seminare terrore. E nelle intenzioni anche una cinica operazione mediatica per recuperare terreno rispetto all'iniziativa di Hitler e magari rimediare alla figuraccia ancora non dimenticata della disfatta di Guadalajara. La riprova delle intenzioni di Mussolini si ha nel diario di Galeazzo Ciano, quando annota la reazione del duce alle proteste di parte britannica: «Quando l'ho informato del passo di Perth (ambasciatore inglese a Roma, ndr), non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti». A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano non riuscì ma il fascismo portò «la brava gente» a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa.

Corriere La Lettura 17.3.13
Il ruggito del prof. Tigre
Ascesa dell'Asia e pedagogia: quella occidentale cerca l'interpretazione del mondo, quella orientale insegue moralità e bene della società
Per la studiosa Jin Li la sintesi è impossibile
di Marco Del Corona


L'Occidente — un Occidente di madri, padri e pedagoghi — ha appena cominciato a fare i conti con l'agonismo educativo della Mamma Tigre e già si affaccia, nella giungla delle ansie contemporanee, un'altra, non meno minacciosa figura. Arriva il Maestro Tigre, corollario persino ovvio della Mamma Tigre, incarnazione della stessa tradizione educativa: il mondo culturale e antropologico del confucianesimo che l'universo globalizzato avvicina a noi. Passaggio inevitabile. E i flussi di studenti dalla Cina agli atenei Usa, australiani, canadesi, europei danno slancio ai confronti tra due tradizioni e sistemi educativi che appaiono alternativi e/o difficilmente compatibili. Nuova Kulturkampf.
Il Maestro Tigre può essere il simbolo un po' caricaturale di una pedagogia confuciana che va guardata in faccia. È tra noi. E occorre prendere atto anche del fascino che esercita la solidità della tradizione dell'Asia orientale, come dimostra l'osservazione affidata al «New York Times» dall'editorialista David Brooks: «Le culture che fondono accademia e morale, come il confucianesimo e lo studio ebraico della Torah, producono pazzesche esplosioni motivazionali…». Esplosioni che noi, Occidente decadente, non sappiamo forse più provocare. Così Brooks si spinge ad auspicare che «altri codici morali/accademici possano esaltare la motivazione là dov'è assente». Ciò che è quasi certo, intanto, è che la contaminazione fra il sistema educativo occidentale, che affonda le sue radici nella Grecia antica, e quello dell'Asia orientale difficilmente possono ibridarsi. Jin Li, studiosa americana di origine cinese, ne è convinta e al tema ha dedicato un ponderoso volume, Cultural Foundations of Learning, nel quale scrive che «le tradizioni intellettuali delle due culture si sono sviluppate sulla base di interessi e premesse diverse. Non è ancora successo, ed è improbabile che succeda in un prevedibile futuro, che le tradizioni intellettuali delle due culture si intersechino o si mescolino».
Il libro di Li, docente associata alla Brown University, in Rhode Island, ha evidentemente colpito nervi scoperti. «Tratta — spiega a "la Lettura" — essenzialmente di influenze culturali. La mia ricerca e quelle di altri mostrano come i cinesi, ovunque nel mondo, restano attaccati ai loro valori che consentono di ottenere risultati eccellenti nell'apprendimento. E la cultura trascende il sistema politico, in quanto abbraccia popolazioni e Paesi che non sono Cina». Ecco perché le implicazioni dei meccanismi pedagogici asiatici ci riguardano.
Le differenze tra noi e loro, nelle aule così come nelle aspirazioni dei genitori-educatori, maturano all'origine. «L'approccio occidentale all'apprendimento — ci dice Li — enfatizza la comprensione del mondo là fuori; la certezza della conoscenza; lo sviluppo e l'uso della mente; curiosità e interesse come strumenti d'indagine; l'espressione del sé. L'attitudine dell'Asia orientale sottolinea al contrario la necessità di perfezionare se stessi rispetto a società e moralità; il contributo alla società stessa; l'acquisizione e, come dire?, l'incorporazione delle virtù dell'apprendimento (sincerità, diligenza, sopportazione, perseveranza, concentrazione); l'apprendimento attraverso l'umiltà e il rispetto dei maestri; poche parole e molti fatti, insomma».
Mentre nella tradizione confuciana un insegnante è dunque una sorta di «genitore che non solo trasmette nozioni ma costruisce il benessere sociale, morale e psicologico del ragazzo», e quindi è «idealmente un modello», in Occidente — aggiunge la professoressa Li — «il ruolo del docente si riduce al fatto che insegni quella determinata materia. Ci sono chiari limiti tra cosa il maestro è pagato per fare e cosa no. Per dire: qui in America il sindacato non permette che un docente lavori oltre i termini contrattuali. In Asia orientale il maestro gode invece di un credito e di un rispetto molto maggiori». Il maestro orientale è dunque un Maestro Tigre, la cui severità non conosce i confini tra nozioni e vita? Jin Li non sposa la definizione di «Maestro Tigre»: traccia piuttosto, a sua volta, una barriera. La barriera tra normalità ed eccessi: «In Asia orientale — dice — c'è una distinzione fra maestri esigenti e maestri irrispettosi o troppo severi. I primi sono coloro che si mostrano investiti del loro compito davanti alla società: esigenti, appunto, nei confronti degli allievi. E questo è quanto viene riconosciuto sia dai genitori sia dagli alunni, nello sforzo concertato di garantire un certo livello educativo. All'opposto, insegnanti irrispettosi o troppo severi non sanno prendersi cura dei ragazzi, sono irresponsabili, incompetenti. Genitori e comunità vigilano, pronti a sbarazzarsene».
Noi rimaniamo turbati dall'invadenza del ruolo che una società confuciana consegna ai maestri. La presenza del limite ci soccorre. In Cina, a Taiwan, nell'immensa diaspora cinese, in Giappone e in Corea del Sud — quest'ultima tenace potenza che tenta ciclicamente di attribuirsi il copyright di Confucio, sostenendo che fosse di sangue coreano — scuola e vita si mescolano. «È per il ruolo che famiglia e religione conservano nell'educazione dei figli che in Occidente gli insegnanti non hanno la stessa rilevanza che si osserva in Oriente. Lì è diverso. Nell'antica Cina la gerarchia del potere e dell'autorità vedeva prima il Tian, impropriamente tradotto come Cielo, giudice morale e signore delle diverse forme di vita; quindi la Terra, che alimenta i viventi; poi l'Imperatore che governa, protegge e si prende cura del popolo; i genitori; e gli insegnanti, che devono trasmettere la morale, in questo simili al clero cristiano».
Si tratta di due universi distanti, con orbite che si sono incrociate. Asimmetricamente, però. «L'Asia orientale ha cercato di imparare dall'Occidente per circa due secoli. E ha ottenuto un discreto successo con la scienza, la tecnologia, il commercio, la democrazia nel senso originario del termine. In Asia orientale ovunque si fanno matematica, scienze e inglese. Ma ci sono cose nelle quali gli asiatici è improbabile possano farcela: intendo la capacità di confronto con l'autorità, di pensare in modo anticonvenzionale, di creare in modo radicale, in pratica di produrre un Galileo, un Newton, un Einstein o uno Steve Jobs. I sistemi di relazioni familiari e interpersonali crollerebbero se i figli dell'Asia si comportassero all'occidentale». L'Oriente ha attinto all'Occidente, non viceversa, o non abbastanza. Passata attraverso la Rivoluzione Culturale, studi in Germania, sposata a un americano, carriera cominciata a Harvard, madre di un ragazzo che definisce «misto» perché «cresciuto secondo i due sistemi», Jin Li riconosce che «in Europa e in America si studiano cinese, arti marziali, cose così, ma non vedo alcuna seria combinazione tra le due visioni. Gli scienziati asiatici, compreso chi ha vissuto in Occidente, nella vita quotidiana tende ancora a pensare dialetticamente da taoista». Il Maestro Tigre è qui. Ma non c'è fretta di conoscerci.

Corriere La Lettura 17.3.13
La Casa Stregata che imprigiona l'America
Nel 1974 un ventitreenne massacra genitori, sorelle e fratelli: sei morti
Da allora l'edificio coloniale di Long Island e la sua aura maledetta ispireranno una serie di film dell'orrore, trasformandosi in una metafora shakespeariana
E un documentario indaga ancora
di Matteo Persivale


La registrazione della telefonata comincia alle diciotto e trenta di mercoledì 13 novembre 1974. La voce dell'operatore che risponde con la formula rituale: «Polizia della contea di Suffolk, come posso aiutarla? ». Un uomo, dall'altra parte, dice soltanto: «C'è stata una sparatoria qui. Ah... DeFeo». L'orrore di Amityville che dopo quarant'anni continua a interrogare l'America è cominciato con la voce incredula e un po' impastata di un uomo interrotto all'ora dell'aperitivo da un ragazzo che entra di corsa nel bar gridando che la sua famiglia è stata sterminata. L'uomo corre fuori con il ragazzo. La bella casa signorile è a pochi passi. L'arredamento curato. I bei tappeti. E sei cadaveri che riposano al piano di sopra, nei loro letti allagati di sangue. Quei sei cadaveri — Ronald DeFeo senior, 43 anni, la moglie Louise di 42, le figlie Dawn di 18 e Allison di 13, i figli Marc di 12 e John Matthew di 9 — sono stati uccisi a fucilate da Ron junior, 23, che confessa dopo qualche ora e non spiegherà mai chiaramente il motivo del massacro dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, anche se l'avvocato provò a sostenere che il suo cliente sentiva le voci. Ma l'orrore di Amityville, che trasforma la bella villa al 112 di Ocean Avenue della cittadina di Long Island, stato di New York, in una delle case stregate dei racconti di Lovecraft, si consolida con quanto accadde ai successivi inquilini della casa.
Un anno dopo il massacro George e Kathy Lutz, sposati da pochi mesi, vanno a vivere nella villa di Ocean Avenue con i tre figli di Kathy. Ci resteranno solo ventotto giorni prima di abbandonarla. Quel che è successo in quei ventotto giorni è ancora oggi oggetto di discussione — oltre che, in passato, di cause civili — e argomento di tanti libri e film. Le poche settimane passate in quella casa diventano la base per un libro bestseller, The Amityville Horror di Jay Anson, diventato poi il primo film di una lunga serie di grande successo, ispiratore di un genere cinematografico, quello della «casa stregata». Nella quale alberga il Male, a causa di fatti sanguinosi avvenuti in passato o addirittura perché sorge sui resti di un antico cimitero profanato. Secondo i Lutz, nella villa c'era una presenza malvagia: rumori inspiegabili, melma verdastra che usciva dalle serrature delle porte, in cantina una misteriosa stanzetta segreta dipinta di rosso, apparizione di creature infernali nel giardino, infestazioni di mosche anche nel freddo di dicembre. Venne chiamato un prete, padre Ralph Pecoraro, che disse di essere stato schiaffeggiato da una mano invisibile mentre cercava di benedire la casa e di aver sentito una voce che gli intimava di andarsene. Se ne andarono anche i Lutz dopo quei ventotto giorni, scacciati dalle presenze malefiche dissero loro, per la resa davanti a un mutuo che non potevano permettersi secondo gli scettici. La loro storia divenne, s'è detto, un libro e poi un film, Amityville Horror del 1979 diretto da Stuart Rosenberg con Margot Kidder e James Brolin. Anche se non giovò alla loro credibilità l'ammissione dell'avvocato-agente letterario che venne tutto inventato «davanti a una bottiglia di vino» rubacchiando idee qua e là, anche da L'esorcista, e non aiutò neanche la sospensione a divinis di padre Ralph, sic transit gloria mundi per colui che al cinema era stato interpretato dal sommo Rod Steiger. Attraverso gli anni è diventata tappa imperdibile del turismo dei fan dell'horror, specialmente nel periodo di Halloween, non soltanto la casa di Ocean Avenue a Amityville ma anche quella, molto simile, usata per gli esterni del film, che sta a Toms River, New Jersey. La curiosità di chi vuole dare un'occhiata alla «casa stregata» di Amityville e si fa fotografare con la facciata come sfondo ha convinto i successivi proprietari a cambiare l'indirizzo (ora la casa è registrata ufficialmente al civico 108) e a ristrutturare le due famose finestre a spicchio di luna dell'ultimo piano che potevano sembrare occhi simili a quelli scavati nelle zucche di Halloween (ora sono noiosamente rettangolari). La filmografia relativa alla storia di Amityville comprende dopo l'originale i sequel Amityville II: The Possession (1982), Amityville 3-D (1983, con occhialini rossi e blu di plastica), Amityville Horror - La fuga del diavolo, e così via attraverso i decenni fino a Amityville Haunting (2011), pubblicato direttamente in dvd negli Usa e inedito in Italia. Ma se George e Kathy Lutz sono morti qualche anno fa il figlio Danny, che ora ha 47 anni, è protagonista di un film tutto suo, un documentario, My Amityville Horror che è appena uscito negli Stati Uniti, nel quale racconta, spesso in un primo piano vagamente inquietante sugli occhi cerulei, storie terrificanti, compresa quella volta — garantisce — che vide il patrigno muovere oggetti col pensiero nel garage. Impermeabile al fatto incontrovertibile che nessuno, tra tutti coloro che hanno vissuto nella casa di Ocean Avenue da allora, ha mai visto o sentito qualcosa di strano, che non c'è stato nessun cimitero di nativi americani dove negli anni Venti vennero gettate le fondamenta della villa, che l'unico ex inquilino ad aver trovato una morte violenta è stato un ragazzo vittima dell'11 settembre, Peter O'Neill che lavorava in una finanziaria nelle Torri ma sognava di diventare paramedico «per aiutare gli altri». Gli agenti immobiliari, sempre pragmatici, incassano le commissioni sulle vendite delle case di Ocean Avenue il cui valore negli anni si è impennato, è il successo dello stile coloniale olandese con quegli inconfondibili tratti e i solidissimi metodi di costruzione propri del primo Novecento.
Per capire come mai la presenza di un non meglio identificato Male fuori da noi venga così spesso evocata quando gli umani compiono atti di crudeltà inspiegabile aiuta, ancora una volta, rileggere William Shakespeare. Il poeta che, come diceva Laurence Olivier, «è quanto il mondo abbia di più vicino all'incarnazione dell'occhio di Dio». Nel prologo del Macbeth le tre streghe fanno scaturire l'azione della tragedia più terribile del Bardo: l'omicidio di Duncan che non nasce dall'ambizione di Macbeth e dalla crudeltà della sua Lady, ma dai poteri misteriosi delle forze oscure. Erano i tempi di re Giacomo I, che fece tradurre la Bibbia nella sua lingua regalando al mondo una delle vette della poesia in inglese, ma scrisse anche un trattato sull'occulto, Daemonologie, spiegando che «le streghe possono scatenare tempeste nell'aria, per terra e per mare». Per il pubblico di allora le streghe shakespeariane erano manna — proprio come per gli spettatori moderni dei dieci film ambientati nella casa di Ocean Avenue dove il figlio di un concessionario d'auto sterminò la famiglia, forse, semplicemente, per incassare l'eredità. È sempre Shakespeare, d'altronde, che fa chiedere a Re Lear: «Esiste una causa in natura che renda questi cuori così spietati? ».

Corriere La Lettura 17.3.13
La nostalgia dell'uguaglianza
L'esplosione delle disparità sociali mina la qualità della democrazia
di Antonio Polito


La lamentazione è corale, e globale. Ormai anche i sassi sanno della Fine dell'uguaglianza, per dirla con il titolo di un libro di Vittorio Emanuele Parsi, fortunatamente meno apodittico del titolo (Mondadori). Democrazia e mercato non vanno più d'accordo, hanno perso «la consapevolezza che, privati ognuno del sostegno dell'altro, possano essere travolti dai loro stessi difetti», «i dati che ci parlano della continua flessione dei consumi, dell'erosione del ceto medio, della polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza dovrebbero dunque inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico». Viene in discussione — scrive Parsi — il principio stesso della Rivoluzione americana, trascritto nella Dichiarazione d'indipendenza: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali».
Secondo Nadia Urbinati questa crisi dell'uguaglianza potrebbe innescare, e forse già ha innescato, una Mutazione antiegualitaria, come la chiama nel libro-intervista con Arturo Zampaglione (Laterza); potenziale inizio di un cambio di paradigma che può mettere le nostre idee di libertà in conflitto con la democrazia. «La crescita delle diseguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata — ha scritto Chiara Saraceno a proposito del libro — rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta la democrazia occidentale». E qui a tremare è la triade della Rivoluzione francese.
Brutte notizie, dunque; soprattutto per chi, come Biagio de Giovanni nel suo Alle origini della democrazia di massa (Editoriale Scientifica), pensa che l'uomo sia un «ente desiderante eguaglianza». Adesso poi è arrivata anche da noi, tradotta da Einaudi, la Bibbia del movimento intellettuale che rimpiange l'uguaglianza perduta, diventata il pensiero egemone (si potrebbe dire il «pensiero unico») dopo l'esplosione della crisi che attanaglia l'Occidente dal 2008. Con Il prezzo della disuguaglianza Joseph Stiglitz, Nobel per l'Economia, è uscito dai confini della sua «triste scienza» per acquisire il ruolo di un vero e proprio guru della rivolta contro neo-liberismo e mercatismo. A tutela del copyright, Stiglitz ci tiene a ricordare che lo slogan dei ragazzi di Occupy Wall Street, «Noi siamo il 99%», nasce da un suo articolo su «Vanity Fair» con il titolo «Dell'1%, dall'1%, per l'1%». Che poi era una raffinata e polemica parodia di un topos della democrazia americana, visto che faceva il verso al celebre discorso di Gettysburg in cui Abraham Lincoln definì la democrazia come «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo».
L'uno per cento degli straricchi avrebbe dunque usurpato il potere del popolo; il privilegio si sarebbe preso una rivincita nei confronti dell'uguaglianza. Si capisce che Stiglitz sia diventato l'oggetto dei desideri di Beppe Grillo, che gli ha pubblicamente attribuito il suo programma economico (ottenendone una imbarazzata presa di distanza).
Stiglitz argomenta da par suo una realtà difficilmente confutabile: negli ultimi trent'anni le disuguaglianze di reddito sono aumentate in quasi tutto l'Occidente. Nel 2010 il famoso 1% al top della popolazione americana ha intascato il 93% dell'aumento del reddito generato. L'America sarebbe dunque diventata «non il Paese della giustizia per tutti, ma piuttosto il Paese del favoritismo per i ricchi e della giustizia per chi può permettersela», rinnegando così quel sogno di uguaglianza delle opportunità invocato da Obama nel discorso di inaugurazione del suo secondo mandato: «Noi teniamo fede a ciò in cui crediamo: solo quando una bambina nata nella più cupa povertà sa di avere la stessa possibilità di successo di chiunque altro, perché è americana, è libera, è eguale, non solo agli occhi di Dio ma anche ai nostri».
Ma anche agli argomenti forti si può muovere — e viene mossa — qualche obiezione. La prima è che se la diseguaglianza è aumentata negli ultimi trent'anni all'interno delle nazioni ricche, si è certamente ridotta tra nazioni ricche e nazioni povere; la seconda è che se è cresciuta rispetto ai «gloriosi Trenta» anni del dopoguerra, dal 1950 al 1980, non è maggiore che in ogni altra epoca della storia del capitalismo; la terza è che la diseguaglianza non è una conseguenza diretta del mercato, visto che è cresciuta a dismisura anche in società che rifiutavano il mercato in nome dell'uguaglianza; la quarta — proposta da Alberto Mingardi nel suo L'intelligenza del denaro (Marsilio) — è che per misurare l'uguaglianza «non possiamo fermarci al reddito e non pensare a quello che il reddito può comprare», perché «i poveri di oggi possono sembrarci molto più poveri dei ricchi di oggi, ma sono strepitosamente più ricchi dei poveri di ieri, e forse anche dei ricchi dell'altro ieri».
Più delle obiezioni, è però interessante discutere i paradossi che accompagnano questa polemica. Il primo l'ha segnalato l'«Economist»: le diseguaglianze in Occidente sono in crescita da trent'anni, ma fino alla crisi del 2008 nessuno sembrava preoccuparsene, nessuno protestava nelle strade, e i politici non lo consideravano un problema. Finché tutti diventavano rapidamente più ricchi, nessuno si lamentava se qualcun altro si arricchiva ancor più rapidamente. L'ineguaglianza è sentita come un'ingiustizia solo quando la crisi morde, come in Usa, o l'austerità arriva, come in Europa. Ma se è così, vuol dire che il problema non è la diseguaglianza, bensì la mancata crescita, e la prospettiva cambia radicalmente: invece di più redistribuzione, che si può chiedere allo Stato, serve più creazione di lavoro, che può dare solo il mercato. E l'offensiva dei neo-keynesiani finisce in un cul-de-sac (lo stesso Stiglitz ammette che lo «stimolo fiscale» di Obama del 2009 non ha dato i risultati sperati, ma ne attribuisce la colpa al modo in cui è stato concepito e alla carenza di risorse investite).
C'è però un secondo paradosso, forse ancora più intrigante. L'aggravarsi delle diseguaglianze non ha infatti prodotto in Europa, forse con la sola eccezione della Grecia, uno spostamento a sinistra dell'opinione pubblica, l'affermarsi cioè di forze che basino il loro programma su politiche redistributive più o meno socialiste. Piuttosto il contrario. L'ansia e il disagio hanno favorito la nascita di movimenti di genere del tutto nuovo e spesso tutt'altro che di sinistra. Ian Buruma ha stilato un catalogo di questo nuovo radicalismo: «I blogger cinesi, gli attivisti del Tea Party negli Usa, gli eurofobici britannici, gli islamisti egiziani, i populisti olandesi, i sostenitori dell'estrema destra in Grecia e le "camicie rosse" thailandesi sono tutti accomunati dall'odio per lo status quo e dal disprezzo per le élite dei loro rispettivi Paesi» (si potrebbero aggiungere i vincitori del referendum in Svizzera contro i fat cats, i manager delle multinazionali; i fondatori del partito tedesco contro la moneta unica; l'estrema destra razzista in Ungheria).
Prendiamo il fenomeno Grillo in Italia. La sua ossessione è più per l'uguaglianza civile che per quella sociale; il suo messaggio riguarda più il funzionamento della democrazia che quello del mercato; l'egualitarismo che propugna è cercato nella Rete, non atteso dallo Stato. Lo slogan «uno vale uno» si riferisce alla distribuzione del potere, non a quella del reddito. Riscopre la parola «cittadino» invece dell'appellativo «compagno».
Il denominatore comune di questa insorgenza non sembra dunque essere il ritorno a una classica politica egualitaria di stampo socialdemocratico. Più che a correggere il mercato, ambisce a una rigenerazione della democrazia. Se le cose stanno così, si capovolge però la vulgata secondo cui un mercato malato sta infettando la democrazia; e non basta più una Tobin Tax o una stretta sui derivati per ripristinare la virtù del canone occidentale.
In effetti anche una lettura attenta di Stiglitz può mettere in guardia dalle semplificazioni. Egli resta infatti convinto che un mercato libero e competitivo produca grandi benefici alla società; è col processo politico che se la prende. Per lui l'ineguaglianza è il risultato di politiche pubbliche sbagliate, catturate da un'élite che le piega al proprio vantaggio. Molti dei nuovi ricchi contro i quali si scaglia non sono imprenditori, ma cacciatori di rendite (rent seekers), che sfruttano i privilegi monopolistici concessi loro dal potere politico.
Tornano in mente quei robber barons contro cui combatté la sua battaglia antitrust un grande presidente americano dell'inizio del Novecento: Theodore Roosevelt. La sua unità di misura della ineguaglianza era forse più moderna di molte caricature che sono oggi di moda: diceva che bisogna ridurre la distanza tra coloro che guadagnano più di quanto possiedono e coloro che possiedono più di quanto guadagnano. Perché la diseguaglianza di reddito è accettabile e giustificata, ma quella che deriva dalla rendita è dannosa, oltre che odiosa.
L'ineguaglianza è dunque un fenomeno complesso, e non si lascia facilmente manipolare. «Nonostante ciò che in molti pensano a sinistra — ha scritto Jerry Muller sull'ultimo numero di "Foreign Affairs", che ha dedicato la copertina al tema — non è il risultato della politica ed è improbabile che si possa curare con la politica, perché è un inevitabile prodotto dell'attività capitalistica; ma, a dispetto di ciò che molti pensano a destra, è un problema per tutti, non solo per quelli che se la passano male, perché ineguaglianza crescente e insicurezza economica possono erodere l'ordine sociale e generare un contraccolpo populista contro il sistema capitalistico nel suo complesso».
«Ci sono momenti nella storia — scrive Stiglitz — in cui la gente in tutto il mondo si alza in piedi per dire che qualcosa è sbagliato». Che questo sia uno di quei momenti non c'è dubbio. Sarebbe bene però mettersi d'accordo su che cosa è sbagliato.

Corriere La Lettura 17.3.13
Metropoli e cosmopoli: luoghi ingiusti pieni di futuro
di Danilo Taino


La lamentazione è corale, e globale. Ormai anche i sassi sanno della Fine dell'uguaglianza, per dirla con il titolo di un libro di Vittorio Emanuele Parsi, fortunatamente meno apodittico del titolo (Mondadori). Democrazia e mercato non vanno più d'accordo, hanno perso «la consapevolezza che, privati ognuno del sostegno dell'altro, possano essere travolti dai loro stessi difetti», «i dati che ci parlano della continua flessione dei consumi, dell'erosione del ceto medio, della polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza dovrebbero dunque inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico». Viene in discussione — scrive Parsi — il principio stesso della Rivoluzione americana, trascritto nella Dichiarazione d'indipendenza: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali».
Secondo Nadia Urbinati questa crisi dell'uguaglianza potrebbe innescare, e forse già ha innescato, una Mutazione antiegualitaria, come la chiama nel libro-intervista con Arturo Zampaglione (Laterza); potenziale inizio di un cambio di paradigma che può mettere le nostre idee di libertà in conflitto con la democrazia. «La crescita delle diseguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata — ha scritto Chiara Saraceno a proposito del libro — rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta la democrazia occidentale». E qui a tremare è la triade della Rivoluzione francese.
Brutte notizie, dunque; soprattutto per chi, come Biagio de Giovanni nel suo Alle origini della democrazia di massa (Editoriale Scientifica), pensa che l'uomo sia un «ente desiderante eguaglianza». Adesso poi è arrivata anche da noi, tradotta da Einaudi, la Bibbia del movimento intellettuale che rimpiange l'uguaglianza perduta, diventata il pensiero egemone (si potrebbe dire il «pensiero unico») dopo l'esplosione della crisi che attanaglia l'Occidente dal 2008. Con Il prezzo della disuguaglianza Joseph Stiglitz, Nobel per l'Economia, è uscito dai confini della sua «triste scienza» per acquisire il ruolo di un vero e proprio guru della rivolta contro neo-liberismo e mercatismo. A tutela del copyright, Stiglitz ci tiene a ricordare che lo slogan dei ragazzi di Occupy Wall Street, «Noi siamo il 99%», nasce da un suo articolo su «Vanity Fair» con il titolo «Dell'1%, dall'1%, per l'1%». Che poi era una raffinata e polemica parodia di un topos della democrazia americana, visto che faceva il verso al celebre discorso di Gettysburg in cui Abraham Lincoln definì la democrazia come «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo».
L'uno per cento degli straricchi avrebbe dunque usurpato il potere del popolo; il privilegio si sarebbe preso una rivincita nei confronti dell'uguaglianza. Si capisce che Stiglitz sia diventato l'oggetto dei desideri di Beppe Grillo, che gli ha pubblicamente attribuito il suo programma economico (ottenendone una imbarazzata presa di distanza).
Stiglitz argomenta da par suo una realtà difficilmente confutabile: negli ultimi trent'anni le disuguaglianze di reddito sono aumentate in quasi tutto l'Occidente. Nel 2010 il famoso 1% al top della popolazione americana ha intascato il 93% dell'aumento del reddito generato. L'America sarebbe dunque diventata «non il Paese della giustizia per tutti, ma piuttosto il Paese del favoritismo per i ricchi e della giustizia per chi può permettersela», rinnegando così quel sogno di uguaglianza delle opportunità invocato da Obama nel discorso di inaugurazione del suo secondo mandato: «Noi teniamo fede a ciò in cui crediamo: solo quando una bambina nata nella più cupa povertà sa di avere la stessa possibilità di successo di chiunque altro, perché è americana, è libera, è eguale, non solo agli occhi di Dio ma anche ai nostri».
Ma anche agli argomenti forti si può muovere — e viene mossa — qualche obiezione. La prima è che se la diseguaglianza è aumentata negli ultimi trent'anni all'interno delle nazioni ricche, si è certamente ridotta tra nazioni ricche e nazioni povere; la seconda è che se è cresciuta rispetto ai «gloriosi Trenta» anni del dopoguerra, dal 1950 al 1980, non è maggiore che in ogni altra epoca della storia del capitalismo; la terza è che la diseguaglianza non è una conseguenza diretta del mercato, visto che è cresciuta a dismisura anche in società che rifiutavano il mercato in nome dell'uguaglianza; la quarta — proposta da Alberto Mingardi nel suo L'intelligenza del denaro (Marsilio) — è che per misurare l'uguaglianza «non possiamo fermarci al reddito e non pensare a quello che il reddito può comprare», perché «i poveri di oggi possono sembrarci molto più poveri dei ricchi di oggi, ma sono strepitosamente più ricchi dei poveri di ieri, e forse anche dei ricchi dell'altro ieri».
Più delle obiezioni, è però interessante discutere i paradossi che accompagnano questa polemica. Il primo l'ha segnalato l'«Economist»: le diseguaglianze in Occidente sono in crescita da trent'anni, ma fino alla crisi del 2008 nessuno sembrava preoccuparsene, nessuno protestava nelle strade, e i politici non lo consideravano un problema. Finché tutti diventavano rapidamente più ricchi, nessuno si lamentava se qualcun altro si arricchiva ancor più rapidamente. L'ineguaglianza è sentita come un'ingiustizia solo quando la crisi morde, come in Usa, o l'austerità arriva, come in Europa. Ma se è così, vuol dire che il problema non è la diseguaglianza, bensì la mancata crescita, e la prospettiva cambia radicalmente: invece di più redistribuzione, che si può chiedere allo Stato, serve più creazione di lavoro, che può dare solo il mercato. E l'offensiva dei neo-keynesiani finisce in un cul-de-sac (lo stesso Stiglitz ammette che lo «stimolo fiscale» di Obama del 2009 non ha dato i risultati sperati, ma ne attribuisce la colpa al modo in cui è stato concepito e alla carenza di risorse investite).
C'è però un secondo paradosso, forse ancora più intrigante. L'aggravarsi delle diseguaglianze non ha infatti prodotto in Europa, forse con la sola eccezione della Grecia, uno spostamento a sinistra dell'opinione pubblica, l'affermarsi cioè di forze che basino il loro programma su politiche redistributive più o meno socialiste. Piuttosto il contrario. L'ansia e il disagio hanno favorito la nascita di movimenti di genere del tutto nuovo e spesso tutt'altro che di sinistra. Ian Buruma ha stilato un catalogo di questo nuovo radicalismo: «I blogger cinesi, gli attivisti del Tea Party negli Usa, gli eurofobici britannici, gli islamisti egiziani, i populisti olandesi, i sostenitori dell'estrema destra in Grecia e le "camicie rosse" thailandesi sono tutti accomunati dall'odio per lo status quo e dal disprezzo per le élite dei loro rispettivi Paesi» (si potrebbero aggiungere i vincitori del referendum in Svizzera contro i fat cats, i manager delle multinazionali; i fondatori del partito tedesco contro la moneta unica; l'estrema destra razzista in Ungheria).
Prendiamo il fenomeno Grillo in Italia. La sua ossessione è più per l'uguaglianza civile che per quella sociale; il suo messaggio riguarda più il funzionamento della democrazia che quello del mercato; l'egualitarismo che propugna è cercato nella Rete, non atteso dallo Stato. Lo slogan «uno vale uno» si riferisce alla distribuzione del potere, non a quella del reddito. Riscopre la parola «cittadino» invece dell'appellativo «compagno».
Il denominatore comune di questa insorgenza non sembra dunque essere il ritorno a una classica politica egualitaria di stampo socialdemocratico. Più che a correggere il mercato, ambisce a una rigenerazione della democrazia. Se le cose stanno così, si capovolge però la vulgata secondo cui un mercato malato sta infettando la democrazia; e non basta più una Tobin Tax o una stretta sui derivati per ripristinare la virtù del canone occidentale.
In effetti anche una lettura attenta di Stiglitz può mettere in guardia dalle semplificazioni. Egli resta infatti convinto che un mercato libero e competitivo produca grandi benefici alla società; è col processo politico che se la prende. Per lui l'ineguaglianza è il risultato di politiche pubbliche sbagliate, catturate da un'élite che le piega al proprio vantaggio. Molti dei nuovi ricchi contro i quali si scaglia non sono imprenditori, ma cacciatori di rendite (rent seekers), che sfruttano i privilegi monopolistici concessi loro dal potere politico.
Tornano in mente quei robber barons contro cui combatté la sua battaglia antitrust un grande presidente americano dell'inizio del Novecento: Theodore Roosevelt. La sua unità di misura della ineguaglianza era forse più moderna di molte caricature che sono oggi di moda: diceva che bisogna ridurre la distanza tra coloro che guadagnano più di quanto possiedono e coloro che possiedono più di quanto guadagnano. Perché la diseguaglianza di reddito è accettabile e giustificata, ma quella che deriva dalla rendita è dannosa, oltre che odiosa.
L'ineguaglianza è dunque un fenomeno complesso, e non si lascia facilmente manipolare. «Nonostante ciò che in molti pensano a sinistra — ha scritto Jerry Muller sull'ultimo numero di "Foreign Affairs", che ha dedicato la copertina al tema — non è il risultato della politica ed è improbabile che si possa curare con la politica, perché è un inevitabile prodotto dell'attività capitalistica; ma, a dispetto di ciò che molti pensano a destra, è un problema per tutti, non solo per quelli che se la passano male, perché ineguaglianza crescente e insicurezza economica possono erodere l'ordine sociale e generare un contraccolpo populista contro il sistema capitalistico nel suo complesso».
«Ci sono momenti nella storia — scrive Stiglitz — in cui la gente in tutto il mondo si alza in piedi per dire che qualcosa è sbagliato». Che questo sia uno di quei momenti non c'è dubbio. Sarebbe bene però mettersi d'accordo su che cosa è sbagliato.

Repubblica 17.3.13
Il nuovo Papa, la chimica, Galileo Galilei e la scienza
di Piergiorgio Odifreddi


In passato avevamo avuto un chimico premio Nobel per la letteratura: Elias Canetti, nel 1981. Ora abbiamo anche un chimico papa, il neoeletto Jorge Mario Bergoglio. La cosa è interessante, perché al cuore della dottrina cattolica sta il dogma della transustanziazione, che ha appunto a che fare con le proprietà chimiche del pane e del vino consacrati.
Secondo la definizione dogmatica del 1551 del Concilio di Trento, con la consacrazione tutti gli accidenti del pane e del vino rimangono inalterati, ma la loro sostanza si muta in quella del corpo e del sangue di Cristo. Secondo una pagina del 1623 del Saggiatore di Galileo, invece, non può esistere nessuna sostanza del pane e del vino separata dai loro accidenti.
Un documento ritrovato negli anni ’80 negli archivi vaticani attesta che Galileo fu denunciato al Santo Uffizio perché questa sua visione contrastava con il dogma della transustanziazione, appunto. E Pietro Redondi afferma in Galileo eretico (Einaudi, 1983 e Laterza, 2009) che questa fu una concausa della sua condanna nel 1633, insieme alla visione copernicana del mondo.
Oggi la visione di Galileo è diventata la posizione ufficiale della scienza: in particolare della chimica, che non crede più all’esistenza di una sostanza disgiunta dagli accidenti. Ma la visione del Concilio di Trento rimane la posizione ufficiale della Chiesa, e costituisce un dogma di fede per i cattolici.
Cosa ne pensa il papa chimico Francesco, o il chimico papa Bergoglio, visto che le due posizioni sono antitetiche e incompatibili? La domanda si situa sulla linea di demarcazione tra scienza e fede cattolica. E dalla risposta dipende la natura dei loro possibili rapporti.

Repubblica 17.3.13
L’opera omnia di Freud si può scaricare
di Stefania Parmeggiani


Le fondamenta della psicoanalisi in e-book. Le opere complete di Freud, nell’edizione diretta da Cesare Musatti e pubblicata per la prima volta da Bollati Boringhieri nel 1966, è oggi disponibile anche in digitale. L’editore ha infatti deciso di mettere a disposizione dei lettori ebook di ogni formato: i saggi possono essere acquistati singolarmente o anche tutti insieme, scaricando sul proprio tablet o computer tutte le 7.500 pagine del corpus freudiano, compresi 10mila link interni che aiutano nella navigazione.
L’equivalente di 10 chili di libri al prezzo lancio di 49,99 euro, che dopo due settimane diventerà 69,99.
Prezzo leggermente superiore per chi deciderà di acquistare non l’intero corpus, ma i singoli testi.

Repubblica 17.3.13
Quella finestra che guarda l’anima di Matisse
di Melania Mazzucco


Un uomo senza volto suona il violino davanti alla finestra di un appartamento, a Nizza. È uno dei rarissimi quadri di Matisse in cui compaia una figura maschile. Le stanze d’albergo e gli appartamenti d’affitto nelle località balneari comunicano all’ospite un senso di estraneità, che può generare malinconia e depressione, oppure esaltazione creativa. Matisse ne fece il palcoscenico dei suoi quadri, oggetto e soggetto di una fase durevole della sua pittura.
Nella primavera del 1918, Matisse aveva quarantanove anni e già due vite alle spalle. Era stato un borghese di provincia, che aveva scoperto tardi la sua vocazione e dedicato all’apprendistato tutta la giovinezza, vagando tra accademie e atelier d’artista, in cerca di se stesso. Poi, dopo il Salon des Indépendents del 1906, dove aveva esposto Le bonheur de vivre, si era imposto come maestro dell’avanguardia, trovando raffinati collezionisti che gli acquistavano o commissionavano opere. Poté regalarsi viaggi in Italia, Marocco e Russia, dove si abbeverò di luce e scoprì l’arte islamica e bizantina. Nel frattempo, però, era esploso il fenomeno Picasso, e Matisse aveva dovuto confrontarsi col cubismo e mettere in discussione la sua pittura. Trovava difficile ormai vivere a Parigi e nell’inverno del 1917 scese nel sud della Francia. Fu una rivelazione. L’inverno successivo, vi tornò - definitivamente.
Iniziò a sperimentare il suo nuovo genere: interni sgargianti con seducente figura femminile, in un tripudio di colori e tappeti. Quadri che i critici trovarono borghesi e di retroguardia, ma che divennero popolari. A questi, insieme alle serie della Danza e alle guaches découpées dell’estrema produzione, è legata la sua fama. Matisse dipinse quasi solo donne. Ed è stato uno dei più grandi maestri del colore. Eppure, alle sue odalische e anche alle imprese decorative, con le quali rinnovò la tradizione muraria degli affreschi, preferisco questo quadro di dimensioni modeste, di tono sommesso e dai colori spenti. È un quadro sulla pittura. La struttura dell’immagine è classica: una figura davanti a una finestra. Per la sua forma, un quadro è una finestra aperta, che consente di vedere la storia (l’aveva scritto Leon Battista Alberti nel De Pictura già nel 1436), mentre separa lo spettatore dalla scena. Ma è vero anche il contrario: la finestra è un quadro. Mette in relazione l’interno e l’esterno, il soggetto e il mondo. La storia dell’arte abbonda di finestre. Vere o immaginarie, oniriche o naturalistiche, aperte o chiuse, nel Rinascimento italiano come negli olandesi del XVII secolo, nei romantici come nei contemporanei di Matisse - Monet, Bonnard, Juan Gris, Picasso raccontano un episodio o un brano di paesaggio; creano profondità o la annullano; delimitano lo spazio o vi risucchiano colui che guarda.
La finestra qui è chiusa. Gli scuri celesti sono aperti, ma verso l’interno della stanza, immersa nell’oscurità - due rettangoli neri d’ombra che formano la vera cornice del quadro. Il violinista suona volgendo le spalle al pittore e all’osservatore, i quali sembrano perciò collocarsi nella stanza, dentro la quarta parete. L’uomo guarda fuori, ma la sua testa - un ovale bianco come quello di un manichino - si staglia là dove si incrociano i listelli: una parete di vetro lo separa dal mondo. E nella cornice della finestra, al di là del balcone di cui è mostrata solo la balaustra, non vediamo il gioioso paesaggio mediterraneo che ha sedotto l’artista - niente palme, niente spiaggia - ma una nuvola cinerea che incombe sul mare, al punto da inglobarlo in sé. E il cielo non è azzurro, ma color mattone, come il pavimento. Chi è il violinista?
Si potrebbe pensare che sia il figlio dell’artista, l’adolescente Pierre che Matisse aveva costretto a studiare violino e che aveva già ritratto nella Lezione di piano.
Nella Pasqua del 1918 Pierre venne a trovarlo a Nizza. Si conserva un disegno, in cui Matisse lo ritrae di spalle mentre si esercita, quasi dallo stesso punto di vista del quadro. Però anche Matisse suonava bene il violino, e cercava di migliorarsi. A Nizza, isolandosi per non disturbare, si esercitava con la stessa diligenza con cui aveva studiato le opere del Louvre. Inoltre Matisse aveva usato già la figura del violinista come colui che scatena la Danza, immagine- simbolo dell’artista. Perciò si potrebbe pensare che il violinista sia lui stesso e che questo sia un autoritratto.
Matisse era ossessionato dai pesci rossi, prigionieri delle bocce di vetro. Li aveva rappresentati più volte, e in un quadro del 1914 come un’immagine di sé. Lo sguardo sul mondo di Matisse, osservò un amico, era inumano come quello di un pesce rosso. Una volta Matisse stesso disse che avrebbe voluto essere un pesce rosso - per poter guardare il mondo, restandone separato da un diaframma trasparente. E così è il violinista. Solo, assorto chiuso nella stanza come un pesce rosso nella boccia di vetro, al sicuro mentre il mondo, là fuori, è in fiamme. Mentre la guerra distrugge la vecchia Europa, i suoi collezionisti russi sono travolti dalla rivoluzione bolscevica, la sua pittura di un tempo si allontana da lui e quella nuova deve ancora nascere. Ma nascerà. Il violinista è concentrato unicamente nella musica, cioè nell’arte, perché essa sola dà senso, ordine, bellezza e luce al mondo.
Elegante, raffinato, circondato di lusso, bellezza e voluttà, Matisse parlava di sé solo dipingendo. La sua produzione sterminata è l’espressione di un mondo a colori, di una gioia di vivere e di creare che neanche la malattia interruppe. Che questo quadro rappresentasse un’anomalia rischiosa lo dice, del resto, Matisse stesso. Non volle mai venderlo né esporlo. Lo conoscevano solo i pochi eletti ammessi alla sua intimità. Questa coi vetri chiusi e gli scuri spalancati all’interno è dunque l’unica finestra della sua produzione che si apre all’inverso: ci permette di entrare nella camera oscura della sua arte e di guardare dentro di lui.
Henri Matisse Violinista alla finestra (1918), Musée National d’Art Moderne, Parigi

Corriere 17.3.13
Facebook
Il Grande Fratello vede ciò che ti piace
I «Like» su Facebook e ogni altra azione digitale finiscono in un Big Data


O gni volta che premete il tasto «Mi piace» («Like») su Facebook, l'informazione finisce nel Big Data. Lo stesso ogni volta che vi muovete con un telefono cellulare nella borsetta. Oppure usate una carta di credito. Ogni cosa facciate con uno strumento in Rete, la vostra azione viene registrata e immagazzinata in un database. Che nella maggior parte dei casi vende queste informazioni. Numeri e frequenze che, una volta ordinati e analizzati da software ogni giorno più precisi, servono a creare il vostro profilo: per questo aziende commerciali o partiti politici o altre organizzazioni li comprano. Questa enorme, infinita massa di dati è la grande discussione del momento, il Big Data che promette di cambiare il mondo del business, la politica e probabilmente molti modi di vivere.
Per dire. Facebook ha rivelato l'anno scorso che ogni giorno il suo sistema processa 2,5 miliardi di contenuti e più di 500 terabyte (un terabyte corrisponde a mille miliardi di byte, cioè di unità di informazione digitale). Nelle stesse 24 ore, gestisce 2,7 miliardi di «Like» e 300 milioni di foto. Ogni mezz'ora analizza più di cento terabyte. Numeri che vanno moltiplicati per milioni di altri operatori della Rete. Una volta elaborati, questi numeri diventano profili psico-demografici fondati su informazioni statistiche che individuano il vostro credo religioso, la propensione politica, i gusti musicali e culinari, la razza, il livello di felicità, il grado di ottimismo, gli interessi letterari, la sessualità, l'uso di droghe, il divorzio dei genitori. Il Centro di Psicometria dell'Università di Cambridge è riuscito a individuare queste caratteristiche limitandosi ad analizzare grandi masse di dati provenienti dai profili personali di 58 mila membri di Facebook e dai loro Like: ha colto nel segno per l'88 per cento dell'orientamento sessuale, il 95 per cento della razza, l'80 per cento di religione e idee politiche, tra il 62 e il 75 per cento della stabilità emotiva.
Con questi dati e con i software che li elaborano, le imprese fanno grandi cose: dal decidere in quali negozi mandare certi merci fino a creare prodotti e servizi personalizzati. Nella campagna presidenziale dell'anno scorso, il team di Barack Obama ha usato il Big Data e la statistica a 360 gradi: sapeva cosa pensavano gli elettori sul controllo delle armi piuttosto che sul matrimonio gay, conosceva quale autobus prendevano per accompagnare i figli a scuola, era al corrente dell'attore di sit-comedy preferito dalla famiglia.
Piaccia o meno, il Big Data sarà sempre di più parte delle nostre vite. I governi dovranno però rendere trasparente quel che succede, spingere chi gestisce i dati a informare coloro da cui li estrae. E trovare un modo per chiedere a questi ultimi il consenso all'utilizzo (le regole di oggi non bastano ma la tecnologia può aiutare). Soprattutto, bisognerà spiegare ai bambini cosa succede quando dicono «Mi piace»: la Rete ascolta.