lunedì 18 marzo 2013

l’Unità 18.3.13
Bersani: «No a scambi indecenti con il Pdl»
Alfano propone in tv l’appoggio a un governo Pd in cambio del Colle ma l’offerta è respinta al mittente
Il segretario democratico: «Niente accordi preventivi Non funzionerebbero»
di Simone Collini


Il Pd respinge l’offerta di Alfano. All’ipotesi di uno scambio tra Quirinale al Pdl e appoggio al governo Bersani, risponde no: proposta indecente. Il leader Pd dice no anche ad accordi preventivi per il governo. Pronta la legge sulla riforma del finanziamento ai partiti.

Niente accordi preventivi e niente scambi indecenti. Pier Luigi Bersani si prepara alla sfida decisiva, che tra consultazioni al Quirinale, auspicabile incarico e poi incontri con gli altri partiti si gioca tutta questa settimana.
Certo, il successo o il fallimento dell’operazione «governo di cambiamento» si determinerà la prossima settimana, quando se tutti i piani del leader Pd si realizzeranno, le Camere saranno chiamate a votare la fiducia. Ma è soprattutto nelle prossime ore che quella partita verrà preparata. E Bersani lancia dei messaggi piuttosto espliciti agli altri protagonisti in campo. A cominciare dal segretario del Pdl Angelino Alfano, che dice il suo partito potrebbe appoggiare un’ipotesi di governo Bersani se al Quirinale andasse un esponente di area moderata indicato dal centrodestra: «Per scambi indecenti qui non c’è recapito», è la risposta che dal Pd parte a stretto giro di posta.
Ma c’è anche un altro messaggio che, a tre giorni dall’avvio delle consultazioni al Quirinale, Bersani deposita agli atti approfittando di un’intervista a Sky: «No ad accordi politici preventivi, non funzionerebbero». Il leader del Pd sa che un eventuale incarico da parte di Giorgio Napolitano sarebbe condizionato alla ricerca poi dei voti sufficienti ad ottenere la fiducia sia alla Camera che al Senato, dove la sua coalizione dispone di 123 parlamentari.
Bersani, mettendo fin d’ora in chiaro che «accordi politici preventivi non funzionerebbero», vuole non solo chiudere la porta a ogni ipotesi di governo sostenuto da Pd e Pdl, in qualunque forma, ma anche preannnciare che la maggioranza intende cercarla in Parlamento, non prima delle votazioni in trattative con le altre forze politiche. «Bisogna chiedere al Parlamento di sostenere un programma di legislatura», dice il leader Pd insistendo sul fatto che ha ricevuto «un mandato dagli elettori» e che intende rispettarlo dando vita a un «governo di cambiamento» costruito attorno a otto punti qualificati. «Non c’è nessuna pretesa o ambizione ma solo responsabilità», spiega. Ed è quello che dirà, mercoledì, al Capo dello Stato.
La sfida, Bersani, intende giocarla ancora sul terreno del cambiamento. Dopo la scelta vincente di Laura Boldrini e Pietro Grasso come presidenti di Camera e Senato, il leader del Pd fa capire che intende seguire la stessa strategia seguita per il fronte istituzionale anche per il piano governativo. «Questo è il metodo, più o meno bisogna aspettarsi cose così, tenendo conto di tante variabili, di tante esigenze». Bersani punta infatti ad ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento con un governo composto da figure di alto profilo, non provenienti dalle file del suo partito, dalle indubbie competenze, e di fronte alle quali sarebbe complicato, per gli esponenti di Scelta civica come per i parlamentari del Movimento 5 Stelle, esprimere un no motivato.
Col metodo Grasso-Boldrini, alla sfida della fiducia, Bersani è convinto di poter incassare il risultato e dar vita a un governo che possa finalmente «dare risposta ai problemi sociali», avviare un misure per il lavoro e l’economia, dare respiro agli enti locali. Un tema, quest’ultimo, da cui il segretario Pd intende partire per provare a costruire un’intesa politica anche con la Lega, che non ha alcun interesse ad andare in tempi brevi alle urne e che con i suoi 17 senatori ha un’importanza non secondaria a Palazzo Madama. E infatti in queste ore nel Pd si seguono con attenzione le mosse del Carroccio, per capire innanzitutto se la delegazione leghista andrà alle consultazioni al Colle da sola o insieme a quella del Pdl.
LA PARTITA DEI CAPIGRUPPO
Ora il colloquio che mercoledì avrà con il Capo dello Stato è in cima ai pensieri di Bersani, che a quell’appuntamento vuole andare senza portarsi dietro fardelli aggiuntivi. Uno rischia di essere quello derivante dalla scelta dei capigruppo, che andrebbero eletti domani pomeriggio. La rinuncia a candidare Anna Finocchiaro e Dario Franceschini a presidenti delle Camere ha fatto aprire nel Pd una partita di non facile gestione. Le diverse anime del partito sono in fermento, come dimostra la quantità di nomi che da ventiquattr’ore inizia a girare per i ruoli di presidente dei deputati e dei senatori. Alla Camera si va da quello di Andrea Orlando a quelli di Marina Sereni e Antonello Giacomelli, al Senato da quello di Maurizio Migliavacca a quelli di Luigi Zanda e di Felice Casson. Bersani vuole andare alle consultazioni avendo alle spalle un partito unito e concentrato sull’obiettivo del governo, e una discussione e una votazione con i tempi forzati rischierebbe di provocare fibrillazioni dannose. Per questo, l’ipotesi che potrebbe mettere sul piatto oggi, quando si inizierà a discutere chi eleggere domani, è quella di prorogare Finocchiaro e Franceschini, con i quali andare alle consultazioni al Quirinale, e rimandato l’elezione dei nuovi capigruppo a dopo la prova della fiducia.

Corriere 18.3.13
Bersani ai suoi: governo anche solo di due anni
Il piano di riforma del finanziamento pubblico. Renzi: meglio se Pier Luigi va avanti
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Ragazzi, si può andare avanti: c'è la concreta possibilità di fare un governo». Pier Luigi Bersani è convinto che dall'altro ieri si sia aperto uno spiraglio e cerca di galvanizzare i suoi. Con questa spiegazione: «Ieri tutti quelli che volevano il governissimo sono stati sconfitti: l'elezione di Grasso al Senato dimostra che non c'è una maggioranza alternativa alla nostra. Insomma, ora siamo più forti e legittimati per chiedere un mandato». Bersani è fiducioso: «Sono pochi quelli che vogliono veramente andare a votare. La Lega, per esempio, ha bisogno di tempo».
Già, il Carroccio. Raccontano che l'elezione di Laura Boldrini sia stata interpretata da Roberto Maroni come una chiusura. Ma così non è. Tant'è vero che Stefano Fassina, intervistato dall'Avvenire, dichiara: «La Lega sa che Bersani ha una cultura autonomista non improvvisata ed è un interlocutore affidabile, ci può essere attenzione reciproca».
Quindi c'è il capitolo Grillo. Come spiega il segretario del Pd: «Lì dentro si è aperto un confronto politico e questo è un fatto positivo. La verità è che se si va sul loro terreno si aprono delle brecce. Perché ci saranno delle occasioni in cui dovranno decidere se stare con il centrosinistra o con Berlusconi».
Infine, i montiani, perché servono anche loro per un futuribile governo. Bersani non nasconde «l'amarezza» per l'atteggiamento del premier, tant'è vero che l'altro ieri si è negato al telefono quando Monti lo cercava. Però da politico pragmatico sa che con il centro bisognerà comunque arrivare a un accordo se si vuole dare vita a un governo. Che, secondo Bersani, potrebbe durare non meno di due anni, due anni e mezzo, «nonostante la fragilità di questa legislatura».
Infatti nel programma su cui il leader del Pd intende far convergere anche le altre forze politiche sono previsti: il «superamento del finanziamento pubblico», compensato da «un sistema di piccole contribuzioni private assistite da parziali detrazioni fiscali»; il dimezzamento dei parlamentari (da 630 deputati a 300, da 315 senatori a 150); l'equiparazione dello stipendio dei parlamentari a quello di un sindaco di un capoluogo di provincia; l'istituzione di un tetto per i dirigenti pubblici.
Un governo che deve fare queste riforme ha bisogno di tempo, perciò, per dirla con Bersani, «una volta che è partito, poi è difficile staccargli la spina, perché chi si prende la responsabilità di affossare le riforme? Grillo?». Il quale Grillo, sia detto per inciso, continua a crescere nei sondaggi a disposizione del Partito democratico. Ormai ha oltrepassato quota 30 per cento. Certo, bisogna vedere se dopo le ultime mosse di Bersani (l'elezione di Laura Boldrini e Piero Grasso) e il confronto interno che si è avviato dentro il Movimento 5 stelle i nuovi sondaggi, tra qualche giorno, registreranno un'inversione di tendenza. Ma per ora la situazione è questa.
Perciò una parte non indifferente del Pd dubita che in caso di insuccesso di Bersani si vada a votare a giugno. Perché per il centrosinistra le elezioni anticipate possono rivelarsi un azzardo pericoloso. Quindi c'è chi — non Bersani — ipotizza un governo del Presidente presieduto da Grasso o un altro esponente estraneo ai partiti. Ma c'è pure chi — tra i bersaniani — in caso di fallimento punta alle elezioni con Renzi candidato. Il sindaco, invece, non ci pensa. Come ha spiegato ai suoi l'altro giorno: «Se si fa un governo che dura una legislatura per me è anche meglio. Mi ricandido a sindaco e ho il tempo di rafforzarmi nel partito e all'esterno».

Repubblica 18.3.13
Bersani: metodo Grasso anche per i ministri, congelerò i rimborsi
“Niente accordi preventivi né scambi indecenti con il Pdl ma non si può rivotare a giugno”
di Giovanna Casadio


ROMA — Mentre tra i grillini si apre il dibattito sull’anatema del leader contro i dissidenti che hanno votato Grasso, il segretario del Pd annuncia un metodo analogo a quello sperimentato alle Camere per la designazione dei ministri. Bersani si impegna a congelare i rimborsi elettorali fino alla riforma del finanziamento pubblico e respinge al mittente «le proposte indecenti del Pdl». In tv, lite in diretta tra Lucia Annunziata e Angelino Alfano sugli «impresentabili».

Il giorno dopo la “doppietta” delle presidenze di Camera e Senato, Bersani non ha il tempo di godersi il risultato. Ha sentito il presidente Napolitano che gli ha detto di essere stato felicemente sorpreso. Ma sulla domenica bersaniana, trascorsa tra un’intervista tv e l’assemblea di partito a Brescia, piomba l’offerta di Alfano. Il segretario del Pdl, in un’uscita evidentemente concordata con Berlusconi, propone a Bersani un accordo: appoggio a un governo del leader Pd, a patto che «al Quirinale vada una rappresentanza istituzionale del popolo dei moderati». Un uomo del Cavaliere al Colle. Alfano argomenta in televisione, a In mezz’ora, le ragioni del patto che include «una serie di misure per la soluzione della crisi». La risposta del Pd è un “no”.
Con una nota i Democratici chiudono la porta a qualsiasi possibilità: «Per scambi indecenti, qui non c’è recapito». E Bersani torna a parlare delle buone scelte di Laura Boldrini alla presidenza di Montecitorio e di Pietro Grasso come seconda carica dello Stato: «Le istituzioni hanno preso una boccata d’aria fresca». Ora parte la “mission impossible” di formare il governo, privo com’è il centrosinistra di una maggioranza al Senato. Lo sa bene il segretario democratico, e precisa: «Le istituzioni non c’entrano nulla con il governo. Ma io spero non si vada a rivotare a giugno». Il metodo bersaniano è sempre quello di «un passo alla volta»: prima le presidenze delle Camere, poi la tela per l’elezione del successore di Napolitano e il risiko di governo. Con i grillini? Porta aperta sempre, qualche “affondo” di reazione agli insulti di Grillo che, del resto, spara addosso anche ai disobbedienti 5Stelle grazie ai quali Grasso ha battuto Schifani a Palazzo Madama. Ma soprattutto, da Bersani arriva una proposta concreta ai grillini: rivedere cioè il finanziamento ai partiti, la madre di tutte le battaglie del M5S: norme nuove entro luglio, e intanto i Democratici lascerebbero all’Erario i soldi del partito. Tutto scritto sul sito del Pd: «Nello stesso tempo, siamo pronti a votare un provvedimento che sospenda da subito il flusso dei finanziamenti per il tempo necessario, secondo scadenze da concordare, ad approvare una legge sui partiti e sui movimenti politici... ». Il leader democratico guarda quindi ai grillini, glissa sulla Lega che con i suoi 18 senatori sarebbe preziosa al Senato dal punto di vista aritmetico ma poco digeribile da quello politico: «Leggo anch’io queste cose su noi e i leghisti, sarebbe interessante sapere cosa pensi la Lega sul prosieguo della legislatura, lo dico da osservatore... non scambio i destini dell’Italia, dell’unità del paese per un voto». La strada per formare il governo è «stretta», la parola spetta al capo dello Stato. Però Bersani coltiva la speranza che non si torni subito alle urne e ha un timore: «Un governo alla Monti? Lo escludo in premessa. Se alla fine di questo percorso venisse fuori l’idea, e c’è qualcuno che lo sta suggerendo, che in qualunque modo lo chiamiamo, facciamo una specie di governo alla Monti senza Monti, lasciamo stare perché è mettere dei precari coperchi su una pentola a pressione. Serve cambiamento». Così come esclude, «dalla piega presa dalle cose», che il premier uscente sia papabile per il Quirinale. Con i montiani tuttavia il dialogo è indispensabile. Il segretario è sicuro che alcuni di loro hanno votato per Grasso.
La vittoria aveva stemperato le tensioni in casa Pd. Sui capigruppo, che si eleggeranno domani, però è battaglia. Girandola di nomi. In pole position c’è Epifani alla Camera, anche se le correnti avanzano i loro nomi: Orlando (“giovani turchi”) ; Boccia (lettiano), Giacomelli o Sereni (franceschiniani). Al Senato, Migliavacca o Zanda. Bersani però pensa alla proroga di Franceschini e Finocchiaro, per il tempo delle consultazioni al Colle.

Repubblica 18.3.13
Il “dream team” e il boomerang
Ora il segretario teme l’effetto boomerang vittima del “metodo Grasso” per Palazzo Chigi
Ecco il “nuovo piano B”. Pierluigi: vedrete, il nostro funerale non ci sarà
di Francesco Bei


BERSANI è sicuro di essere sul Frecciarossa, direzione palazzo Chigi. «Venerdì ci davano già per morti – scherza il segretario con i suoi – adesso mi sa che devono spostare un po’ la data del funerale». E tuttavia il segretario rischia di essere la prima vittima del suo successo: se infatti il “metodo Grasso” ha funzionato per individuare i presidenti delle Camere, in molti nel Pd iniziano a chiedersi perché non applicare lo stesso schema anche per il premier.
L’IDEA di trovare un outsider per palazzo Chigi, un Rodotà o un Prodi, che spiazzi i cinque stelle e li costringa a uscire dal loro splendido isolamento si va facendo strada. Ne parlano in molti sottovoce, ma nessuno esce allo scoperto finché è in campo il segretario. L’unico che ha il coraggio di teorizzarlo è Pippo Civati, che nel suo blog l’ha definito il Piano C: «Si fa un governo a tempo determinato, un governo del Parlamento, sulla base dei punti che si stanno discutendo in questi giorni, e si cerca una figura che piaccia al Pd e al M5S, se a quest’ultimo non dovesse andare bene il governo Bersani». Una prospettiva che, al momento, il leader del Pd non prende in considerazione. Anzi, è deciso a sfidare la sorte e lo «scetticismo» della gerarchia del partito in nome del «rinnovamento ». Prossima stazione la composizione dell’ufficio di presidenza di Camera e Senato, dove il Pd darà spazio ai candidati vicepresidenti di cinque stelle, Scelta civica, Lega e Pdl. Per ampliare la capacità di attrazione in vista della prova più difficile, quella della fiducia. Galvanizzato dal successo di sabato sulle presidenze parlamentari, Bersani è infatti determinato ad andare avanti e per farcela intende applicare integralmente il “metodo Grasso” anche per la formazione del governo. Costituire un «dream team» di personalità di altissimo profilo, con un programma inattaccabile dai grillini (prova ne è la nuova proposta sul finanziamento pubblico ai partiti, prima difeso ora sostanzialmente superato). I nomi che circolano per la squadra Bersani sono già un manifesto: da Carlin Petrini (il fondatore di Slow Food, per l’Agricoltura) a Milena Gabanelli, da Fabrizio Barca a Don Ciotti, dallo stesso Stefano Rodotà a Giuseppe De Rita. Che il criterio sia quello della massima apertura a personalità esterne lo dimostra, del resto, una battuta fatta ieri dal leader del Pd a Maria Latella su SkyTg24: «Grasso e Boldrini? Ho buttato via due ministri». Il punto fermo, ovviamente, è che il numero uno debba essere proprio lui, nonostante il veto assoluto di Grillo a un governo guidato dal Pd. L’incarico insomma Bersani lo pretende per sé, «non per ambizione ma per senso di responsabilità». E a questo punto, dopo aver eletto il presidente di palazzo Madama, ritiene di aver silenziato chi nel partito puntava ancora sulle larghe intese. «Bersani — riconosce Walter Verini — ha fatto una mossa intelligente. Se avesse presentato Finocchiaro o qualunque altro nome politico la crepa nel M5S non si sarebbe mai aperta».
Ma l’apertura ai bei nomi della società civile non è l’unica arma su cui intende puntare Bersani. Per assicurarsi il sostegno dei senatori di Scelta Civica, raccontano che il segretario abbia riaperto alla grande il canale con Pierferdinando Casini. Riavutosi dalla botta del risultato elettorale, il leader dell’Udc è infatti di nuovo in campo come mediatore per portare i montiani verso il sì alla fiducia. Del resto la leadership di Monti sulla sua formazione politica, dopo i passi falsi sulle presidenze, è in questo momento un po’ appannata.
Anche i parlamentari di Italia Futura sono rimasti senza parole quando il premier, durante l’assemblea (infuocata) del gruppo che doveva decidere come comportarsi sulle presidenze, ha tirato fuori il suo iPhone e ha letto davanti a tutti un Sms ricevuto dal capo dello Stato. Nel messaggio Napolitano sollecitava Scelta Civica ad apprezzare l’offerta del Pd per mandare un montiano alla presidenza della Camera. Ma, al di là del contenuto, tutti i presenti sono rimasti colpiti dal fatto che Monti rivelasse una comunicazione tanto riservata del presidente della Repubblica. Insomma, con il Pdl ormai sulle barricate e proiettato verso le elezioni anticipate, Casini è certo di poter convincere le truppe sbandate di Monti a seguirlo verso la fiducia al governo Bersani. Anche la Lega, con i suoi diciassette senatori, resta un interlocutore del Pd. Quanto meno per ottenere una fiducia “tecnica” che consenta alla legislatura di partire. Insomma, il governo Bersani potrebbe assomigliare al calabrone, che riesce a volare nonostante le leggi della fisica dicano il contrario.

l’Unità 18.3.13
Finanziamento ai partiti: pronta la proposta Pd
Sostituirlo con piccole contribuzioni volontarie dei cittadini
Le novità in una legge da approvare entro luglio, fino ad allora sospendere i rimborsi
Il tesoriere Misiani: «Pensiamo a un modello con libertà di scelta e agevolazione fiscale»
di S. C.


Basta finanziamenti pubblici ai partiti? Bersani prepara un’altra mossa a sorpresa, dopo quella sulle presidenze delle Camere. L’obiettivo è lanciare un altro segnale di cambiamento, mettere i parlamentari del Movimento 5 Stelle di fronte a una scelta che sulla carta è obbligata e togliere argomenti a chi, fuori e dentro il Pd, pensa di poter continuare a utilizzare il tema dei rimborsi elettorali come strumento di polemica ai fini della battaglia politica.
Il leader democratico ha incaricato il tesoriere Antonio Misiani e un ristretto numero di deputati e senatori Pd di preparare un testo sul finanziamento ai partiti da presentare in tempi rapidi in Parlamento. Bersani pensa a una proposta di legge da approvare nei primi cento giorni dopo l’insediamento di quel «governo di cambiamento» a cui sta lavorando. Una legge da far camminare di pari passo a norme per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia e la trasparenza interne ai partiti, di fronte alle quali i Cinquestelle sarebbero chiamati ad esprimersi con un sì o con un no.
Un accenno all’operazione, Bersani, lo ha fatto ieri da Brescia, dov’è andato per partecipare a un’iniziativa di mobilitazione sugli otto punti programmatici attorno a cui intende costruire il suo governo. Prima alle telecamere di Sky e poi a militanti e simpatizzanti del Pd, Bersani ha detto che bisogna approvare entro luglio una legge sul finanziamento ai partiti. «Servono solo piccole contribuzioni dei cittadini volontari», è il succo del ragionamento, «non sono disposto a rinunciare al concetto di finanziamento alla politica». E poi l’annuncio: «Fino a quando non si fa questa norma sono disposto a sospendere l’erogazione dei rimborsi elettoriali».
LA PROPOSTA DI LEGGE
La sfida alle altre forze politiche è lanciata, ma ancora di più se ne capirà la portata quando verrà reso noto il testo a cui sta lavorando il Pd. L’impianto è molto simile a quello della proposta di legge di iniziativa popolare messa a punto dall’economista Pellegrino Capaldo, che è stata sottoscritta da oltre 400 mila persone ma che nella passata legislatura non è riuscita ad aprirsi un varco nella discussione parlamentare. Nella bozza a cui stanno lavorando nel Pd si parla infatti della necessità di affidare ai cittadini la scelta di finanziare i partiti, seppur mantenendo in gran parte l’onere a carico dello Stato. Come? Superando il meccanismo attuale, che prevede che a tot numero di voti incassati da ogni partito corrispondano tot euro di rimborsi elettorali, e prevedendo invece forti detrazioni fiscali per i cittadini che volontariamente decidono di finanziare partiti o fondazioni politiche. Nella proposta Capaldo si fissa a 2000 euro il tetto massimo per tali donazioni e il credito d’imposta è pari al 95% della somma versata.
Antonio Misiani considera quel testo come uno dei più interessanti, anche perché prevede una gradualità nel passaggio tra attuale e nuovo sistema. Anche nel Pd si pensa a un cambio di regime graduale spalmato su più anni, magari riducendo del 20 per cento l’anno, per cinque anni, l’ammontare dei rimborsi elettorali e aprendo man mano ai contributi volontari. Spiega il tesoriere del Pd: «Noi riteniamo cruciale il tema del finanziamento e della democrazia interna ai partiti, e vogliamo affrontarlo senza pregiudizi. Pensiamo che lo Stato non debba disinteressarsi del modo in cui le forze politiche vengono finanziate e puntiamo a un modello che favorisca la libertà di scelta e che preveda una significativa agevolazione fiscale». Far marciare insieme la legge sul finanziamento e quella sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione su democrazia e trasparenza nei partiti è per Bersani il modo migliore per sfidare gli altri, Grillo in primis ma non solo, sul terreno del cambiamento. «Ora si può fare», è il messaggio che lancia il leader Pd. Sta agli altri decidere se favorire questo percorso o se mettersi di traverso.

il Fatto 18.3.13
Bersani: “Subito legge sul conflitto d’interesse”


Bersani ieri ha annunciato su Sky il programma di un suo eventuale governo, che dovrebbe mettere in difficoltà i grillini esattamente come il nome di Grasso al Senato contrapposto a Schifani. “A luglio fermiamo la macchina sui rimborsi però diciamo che quelle stesse norme devono riguardare anche la trasparenza della vita dei partiti. Una legge sul conflitto d’interesse? Siamo pronti, è una delle prime cose da fare”. L’idea è di continuare a ripetere lo schema delle Camere, ideando una compagine di governo con profili di novità e fatta di nomi spendibili anche di fronte all’opinione pubblica e, soprattutto, ai grillini.

La Stampa 18.3.13
Bersani, il rischio di innovare
di Fabio Martini


Il «metodo Francesco» può portare lontano. La suggestione uscita dalla Cappella Sistina è subito diventata potente per la politica domestica: i cardinali del sacro collegio sono riusciti a riassorbire l’inedita «crisi istituzionale» ai vertici di Santa Romana Chiesa, scegliendo di portare un outsider al soglio di Pietro.
Consapevoli che il più autorevole tra i cardinali italiani, forse, non sarebbe bastato per rigenerare il corpo stanco della Chiesa. Una scelta controcorrente che si è consumata in ventiquattro ore: soltanto otto in più sono servite ai parlamentari italiani per scegliersi i Presidenti delle due Camere: un magistrato di lungo e apprezzato corso, una funzionaria dell’Onu, impegnata da anni nella difesa dei diritti umani. Anche loro scelti fuori dal mazzo delle carte tradizionali. Anche loro estranei alle Curie politiche. Certo, «tecnici d’area», ma privi di identità partitiche. Poco importa che la scelta di Pier Luigi Bersani sia l’effetto di una serie di rimpalli e non di un’opzione programmata. Quel che conta è la qualità della scelta finale. E il leader del Pd può rivendicare di esserne l’artefice: i due Presidenti, per la forte personalità e per storia personale, sembrano in grado di garantire in autonomia la funzione di garanzia che li attende. Ma sono anche due personalità scelte dal Pd perché capaci di «parlare» alla vastissima opinione pubblica disgustata dalla politica dei partiti tradizionali. Così adatti a questa missione che alcuni senatori grillini - dieci, forse dodici - nel segreto della cabina-catafalco di palazzo Madama, hanno votato per Pietro Grasso. Facile immaginare che se il Pd avesse proposto per le Presidenze personaggi capaci ma collaudati, visti mille volte in tv, come Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, la secessione grillina non si sarebbe manifestata. Beppe Grillo ha immediatamente scomunicato i misteriosi senatori «ribelli». E lo ha fatto con un lessico lapidario, la prova che da quelle parti hanno accusato il colpo. Dalla rete sono piovute severe reazioni all’anatema. Bersani ha fatto due volte centro. Ecco perché nei prossimi giorni tutto ruoterà attorno ad un enigma: quello proposto dal leader del Pd è un metodo o una eccezione? Finocchiaro e Franceschini: hanno saputo rinunciare alle prestigiose collocazioni loro promesse con uno stile esemplare e lo spirito del tempo rischia di far apparire anacronistico un loro ritorno alle caselle di partenza, la presidenza dei loro Gruppi parlamentari. E Bersani? Fuoriuscire dalla propria identità è impresa davvero complessa. Per chi, come lui, è il leader del Pd, uno dei due partiti-guida della Seconda Repubblica. E dunque il segretario democratico non può non essere consapevole del rischio che lui stesso corre: la potente innovazione da lui avviata potrebbe coinvolgere, per eccesso di successo, anche il suo artefice. Per scongelare una decina di senatori grillini è bastato proporre Pietro Grasso, ma per provare a convincerne altri trenta, bisognerà potenziale la qualità della proposta innovativa. Certo, l’operazione Presidenti può risultare, in ogni caso, un buono spot in vista di elezioni anticipate. Ma come reagirebbero i parlamentari del Cinque Stelle se il partito di maggioranza relativa proponesse una personalità indipendente e dello stesso spessore del presidente del Senato? Col sottinteso che, a questo punto, sono cambiate anche le regole di ingaggio per partecipare alla partita del Quirinale. Dopo la coppia Boldrini-Grasso rischiano di apparire vieppiù invecchiate anche alcune delle più autorevoli riserve della Prima e della Seconda Repubblica.

La Stampa 18.3.13
Bersani: “Sconfitti i tifosi del governissimo, avanti con il modello Grasso”
Spuntano Saviano e Rodotà per un esecutivo “a 10 stelle”
di Carlo Bertini


Anche se le voci più smaliziate nel Pd fanno notare che «Pierluigi ha sparigliato con Grasso e Boldrini solo dopo il no di Monti a qualunque accordo», è pur vero che il risultato di immagine incassato con la «mossa del cavallo» è andato oltre le previsioni: vedere gli applausi dei grillini alla neopresidente della Camera, assistere alla loro spaccatura al Senato, ottenere il placet di Renzi e il plauso di tutte le anime del Pd, ha rinvigorito non poco Bersani. Che si prepara ad affrontare il giro di boa più difficile di tutta la sua carriera continuando a puntare tutte le sue carte sul «cambiamento».
Pur consapevole che dopo le chiusure della Lega e il gelo con Monti, quella «strada stretta» si sta trasformando in un ripido sentiero. Ma se la convinzione di Bersani, condivisa con i «giovani turchi» alla Orfini, è che «ieri sono stati sconfitti tutti quelli che volevano un governissimo», si capisce la determinazione ad andare avanti sfidando i grillini, «perché se vai sul loro terreno si è visto che la breccia si apre». E quindi anche nella preparazione della squadra di governo va seguito quel «modello Grasso» che ha messo in crisi i grillini, certificando pure che in Senato «non c’è una maggioranza alternativa».
Ecco perché ieri sul sito del Pd campeggiavano le proposte sul finanziamento pubblico, sulla moralità e sulla trasparenza della vita pubblica, con la novità di «un sistema di piccoli contributi privati» ai partiti; e la disponibilità annunciata da Bersani di «fermare la macchina dei rimborsi a luglio»; insomma una svolta, condita dal dimezzamento secco dei parlamentari e dei loro stipendi messo nero su bianco. Il tutto a corredo degli otto punti già proposti da Bersani «per dare vita ad un governo del cambiamento». Un esecutivo che per dirla col sindaco di Bari Emiliano, in sintonia con le istanze dei grillini - dovrebbe essere «un governo a dieci stelle». Bersani si guarda bene dallo scoprire le sue carte prima dell’avvio delle consultazioni, anche se si aspetta di ricevere un incarico pieno. Ma nel partito, dove le voci corrono, da giorni circolano nomi del calibro di Roberto Saviano, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, per una rosa di alto livello di un possibile «governo del presidente guidato da Bersani», per usare la definizione di un alto dirigente del Pd. Con l’idea di sfidare tutte le forze politiche, grillini, leghisti e montiani, a dire no a un esecutivo che faccia una serie di riforme sui costi della politica e i tagli alla Casta e che eviti al paese nuove elezioni. Alla Lega Bersani tende la mano dicendosi pronto a discutere di «autonomie, perché di Regioni me ne intendo». A Monti non chiude la porta del tutto sul Quirinale. Ma «niente accordi preventivi con nessuno, ora va chiesto alle forze politiche di sostenere un programma di cambiamento». E nel Pd ormai è pressing a tutto campo per il rinnovamento: i quarantenni si oppongono ad una «prorogatio» di Franceschini e Finocchiaro come capigruppo, ventilata come soluzione ponte. E i candidati non mancano: il «turco» Orlando, il lettiano Boccia e la franceschiniana Sereni alla Camera, il renziano Tonini o l’attuale vice capogruppo Latorre al Senato. Così come la conferma di Bersani che il Pd sarebbe pronto a nuove primarie se si votasse a giugno serve a placare le ansie dei renziani che temono una forzatura dei bersaniani per tornare al voto con lo stesso leader senza passare dai gazebo.

l’Unità 18.3.13
L’Italia stremata dalla crisi cerca un governo valido
L’inizio del 2013 è drammatico:
crolla il valore dei redditi da lavoro e delle pensioni
di Carlo Buttaroni

Presidente Tecnè

Per Confesercenti è una catastrofe. Sono migliaia le imprese del commercio e della ristorazione che stanno chiudendo in questi primi mesi del 2013 e, parallelamente, crolla il tasso di nascita di nuove attività. Analoga situazione per le imprese di costruzioni. Nel 2012 hanno chiuso 62mila imprese edili (su un totale di 895mila del comparto) e sono stati persi 81mila posti di lavoro (-4,6%). Non è andata meglio agli artigiani dell’edilizia, solitamente più reattivi. Hanno chiuso l’attività 55mila piccoli costruttori, con un saldo negativo del 2% rispetto all’anno precedente. Per Confartigianato, il trend della produzione è drammatico: -16,2% nel corso del 2012, tre volte peggio della media europea. Ad aggravare la situazione è stata anche la stretta creditizia. Secondo l’Osservatorio di Confcommercio, quasi il 40% delle imprese si è visto rifiutare la richiesta di finanziamento oppure gli è stata drasticamente ridotta la quota finanziata. Tra giugno 2011 e lo stesso mese del 2012, secondo Unioncamere, si è verificata una flessione nell’erogazione bancaria pari al 2,5%. Nella grande maggioranza dei casi (70%), il finanziamento era necessario a coprire la mancanza di liquidità, mentre solo una minima parte, il 20%, era destinato a nuovi investimenti.
STRETTA DEL CREDITO
La stretta al credito ha colpito anche le imprese esportatrici, benché l’export rimanga l’unica voce col segno positivo. Sul fronte del lavoro il quadro è ancora più drammatico. Nel 2012 gli occupati sono scesi di circa 300mila unità e il tasso di disoccupazione, in un anno, è cresciuto di oltre due punti. Nel 2013 gli occupati potrebbero scendere di altre 600mila unità e la disoccupazione salire ulteriormente di tre punti. Uno studio della Cgil segnala come, solo tra gennaio e febbraio, le ore di cassa integrazione autorizzate siano aumentate del 22,7% rispetto al 2012. All’interno di questo quadro il debito pubblico continua a crescere. Secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia ha raggiunto quota 2.023 miliardi di euro. Il Pil, invece, è diminuito. Il quarto trimestre 2012 ha registrato un andamento peggiore delle previsioni (-2,8%). I primi mesi del 2013 si prefigurano altrettanto drammatici e il tanto annunciato miglioramento del quadro economico è per ora rinviato a data da destinarsi, considerata anche la congiuntura negativa che continua a caratterizzare altri Paesi.
In un contesto di per sé difficile, l’Italia fatica di più e la situazione è persino peggiore del 2008.
Non tanto negli indicatori economici, quanto nella capacità di tenuta del sistema. Quando è scoppiata la crisi, l’Italia aveva ancora risorse cui poter attingere. Oggi queste risorse sono esaurite e il Paese è in ginocchio, stremato, avvitato su se stesso. La linea del rigore, forgiata nei laboratori di Bruxelles, si è rivelata un disastro e il prezzo è drammatico: crescita della disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. Un prezzo che pesa interamente sulle famiglie, sulle fasce di reddito più basse, sui pensionati, sulla classe media e medio-bassa, sui piccoli imprenditori. I prossimi tre mesi saranno decisivi e l’Italia è a un bivio: può iniziare un percorso per uscire dal tunnel o può sprofondare definitivamente. Impossibile non avere consapevolezza della gravità della situazione e cercare di nascondersi dietro concetti da manuale. Abbiamo bisogno della politica come mai è accaduto negli ultimi anni, eppure il groviglio istituzionale in cui ci siamo incastrati esprime impotenza. All’Italia servirebbe un governo forte in grado di imprimere una svolta per far ripartire l’economia, ma il voto non ha restituito alcuna soluzione in questo senso. Abbiamo poco tempo e lo stallo istituzionale in cui ci troviamo rischia di diventare il detonatore di una deflagrazione economica e sociale dalle conseguenze devastanti. E non solo nel nostro Paese. L’Italia rappresenta un pilastro fondamentale dell’impalcatura europea e l’acutizzarsi della crisi può scuotere l’intero architrave. Non c’è da stupirsi, quindi, se abbiamo gli occhi degli altri Paesi puntati addosso, che osservano con attenzione e preoccupazione quanto sta accadendo. Anche perché, in tipico stile italiano, passiamo con disinvoltura da un eccesso a un altro, mantenendo il primato delle contraddizioni.
Il nostro Parlamento era quello più anziano, adesso è quello più giovane. E sarebbe una bella e importante novità se non fosse che alcuni tra i neodeputati e i neosenatori mancano delle basi minime per assolvere il compito cui sono chiamati. Il fatto che un parlamentare non sappia da quanti membri sono composte le Camere non è una questione di costume su cui sorridere. È il sintomo di un decadimento più profondo di quanto siamo disposti ad ammettere. E questa situazione non è altro che l’ennesimo punto di ricaduta negativo della nostra legge elettorale. Una legge che non permette ai cittadini di scegliere un proprio rappresentante in base alle sue idee e competenze politiche, ma spinge a votare per un’«atmosfera», a dare segnali talmente rarefatti da essere destinati a rimanere per lo più inascoltati.
LA SVOLTA
Se le elezioni dovevano rappresentare una svolta, indubbiamente lo sono state. Ma in peggio. E la rivoluzione uscita dalle urne rischia di far sprofondare il Paese, perché non offre alcuna percorribilità. In questo senso, la metafora dell’apriscatole usata da Beppe Grillo per sintetizzare il suo obiettivo, è adeguata. Presuppone che non ci sia qualcosa da costruire, ma solo da scardinare. Frasi che non sarebbero tollerate in nessun altro Paese democratico ma che in Italia sono state sempre derubricate nella categoria del «linguaggio colorito». Il pantano in cui sta affondando l’Italia, d’altronde, è visibile anche nel travaglio con cui sono stati eletti i Presidenti di Camera e Senato. Pietro Grasso e Laura Boldrini sono due personalità di altissimo livello che, in un Paese normale, sarebbero stati accolti come il segnale di una stagione politica finalmente lontana da quelle alchimie di palazzo tanto contestate quanto praticate. Queste nomine, invece, sono passate come uno «strappo» al tentativo di dare un governo al Paese. Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Il Paese è allo stremo e purtroppo sembra che manchi la necessaria consapevolezza rispetto al contesto drammatico che stiamo vivendo. Serve rilanciare l’economia con robuste iniezioni di domanda pubblica, occorre ridurre il cuneo fiscale che preme sul lavoro, ridare potere ai salari, avviare un piano straordinario per pagare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese, finanziare gli ammortizzatori sociali, recuperare risorse per l’occupazione dei giovani, ridurre le disuguaglianze e ampliare le fasce di tutela. Occorre, cioè, un governo in grado di dare un indirizzo al Paese.
SOLUZIONE IN PARLAMENTO
I risultati delle urne non hanno restituito alcuna maggioranza in grado, autonomamente, di dare forza a un esecutivo in grado di fare tutto questo. Oggi tocca a Bersani presentarsi alle Camere con un suo programma e chiedere la fiducia. Il Parlamento deve essere il luogo dove trovare una soluzione allo stallo politico e dove ciascuno si deve assumere le responsabilità che gli competono e che riguardano il futuro del Paese. Perché, piaccia o no, la democrazia ha le sue regole. Se nessun governo dovesse nascere con caratteristiche chiare in quanto a programma, forza e durata, meglio tornare immediatamente alle urne, senza tentennamenti e presupposti aleatori che lascino campo a soluzioni provvisorie. Il Paese non ha più tempo. Le prossime mosse saranno fondamentali. La sfida che abbiamo davanti richiede almeno questa consapevolezza.

l’Unità 18.3.13
Il governo possibile
Il metodo seguito per le presidenze delle Camere può essere la stella polare anche per l’esecutivo
di Gianni Cuperlo


Diciamo la verità, il sentiero non è stretto ma di più. Eppure possiamo farcela. Possiamo dar vita al governo che il Paese attende e di cui c’è bisogno. Governo di cambiamento, l’ha battezzato Bersani.
E se il concetto poteva sembrare vago, la giornata di sabato ha spazzato le nuvole. Cambiamento vuol dire infrangere schemi, linguaggi, profili. Significa fare irrompere dentro le istituzioni l’energia formidabile che il voto ha liberato. Perché questa è una prima valutazione dovuta, prendere atto che la rivolta cosciente verso un potere assimilato all’abuso è stato l’ariete dei 5 Stelle ma non si è racchiusa interamente lì dentro. Una quota di tanta rabbia è penetrata anche altrove. Nello stesso voto nostro e in quello di SeL. Nel rifiuto dell’azzardo montiano e nella crescita di un’astensione come protesta.
L’esito è nella contraddizione fondamentale del nuovo Parlamento: il più giovane, femminile e laico dell’intera storia repubblicana, ma al contempo l’Assemblea mai eletta dal popolo più sensibile a una frattura dell’impianto costituzionale. È qui l’impronta di una legislatura ipotecata da una destra impelagata nell’assalto finale all’indipendenza dei giudici e da un movimento di fattura vergine eppure già predisposto all’obbedienza del Capo. L’esito è una democrazia, ancora una volta, non risolta nell’assetto e con un sistema politico all’apparenza impermeabile alle procedure di una repubblica parlamentare, come ha provato la reazione di Grillo all’offerta di una corresponsabilità nel funzionamento delle istituzioni. D’altra parte è bastata una manciata di ore dentro l’Aula parlo della Camera per averne conferma. Cinque spicchi di emiciclo occupati dal centrosinistra. Su, in alto, spalmata in orizzontale, la novità dei 5 Stelle. A destra, scranni vuoti e una chiusura per inventario. E poi la Lega rattrappita in quattro file e un Centro più etereo della «gravità permanente» di Battiato. Uno spettacolo mai veduto prima. Demerito di una legge elettorale oscena, mai scordarlo, ma con una sola certezza. Che per la nostra cultura dello Stato prima che per i numeri, siamo l’unico argine contro una piena pericolosa. In questa cornice si distingue chi piega il voto al traguardo solito, sgominare l’alternativa riformista e di sinistra nella guida del Paese. Ieri era Monti, oggi l’interdizione di Grillo, domani chissà. Gli epitaffi sulla nostra morte più o meno servono a questo, mentre i più raffinati si fermano al dire che non saremmo mai nati.
Può spiacere ma è probabile che su questo terreno si deciderà il destino del Pd, del solo progetto elaborato da anni per uscire dalla crisi congiunta di economia, democrazia e moralità. Insomma, per mettere in piedi il Paese bisognerà rimetterne assieme i pezzi. E a noi toccherà farlo con l’abilità dell’archeologo: unire i frammenti mentre altri proveranno a fracassarli ancora un po’. Piaccia o meno questo è il nostro compito. Del resto, è nelle fasi drammatiche che la storia inverte la rotta, e fatte le distinzioni a rammentarcelo basterebbe quella Chiesa incalzata dalle difficoltà ma che in un lampo rispetto a tempi secolari riparte dai poveri: quando si dice che le rivoluzioni non sempre hanno bisogno di inventiva. In Italia è tempo che la politica e la sinistra nutrano la stessa ambizione e prendano atto di una verità. Che giunti a questo punto possiamo vincere oppure no, ma l’ambizione almeno quella dovrebbe stare nel rifondare lo spirito del tempo. Cosa questa che da sempre si fa coi programmi, ma sostenuti da idee e principi scolpiti nella pietra. Dobbiamo farlo prima che cali il buio, e il rischio c’è.
Ecco perché sabato quel rimbalzo d’immagini da Montecitorio a Palazzo Madama è apparso un risveglio. Perché i due presidenti, consapevoli e intimiditi, hanno iniziato a formulare un pensiero e a spiegare da dove conviene ripartire: i diritti umani degli ultimi, la potenza dell’uguaglianza, il senso di giustizia, il civismo migliore.
Ieri mattina il Corriere della Sera ha speso un editoriale per spiegare che quelle due biografie certificano la fine della sinistra e della sua eredità. Contenti loro. Però fa impressione il livore cumulato da una borghesia ossessionata dalle proprie paure (ma paura di cosa poi?) e incapace di convivere con la sua fragilità. Nel caso del Corriere, parliamo di un pezzo della borghesia intellettuale e di un pezzo soltanto. Per dire, sempre ieri sul quotidiano di Confindustria, si potevano leggere invece le analisi di Guido Rossi e Paul Krugman sorrette entrambe da una riserva esplicita, e nel caso del secondo spietata, verso la strategia dell’Europa nella crisi. Che poi dovrebbe trattarsi del tema di fondo di questi giorni, a partire dall’esito del Consiglio Europeo della settimana scorsa e dalle sue ricadute sull’azione dei singoli governi per la crescita e sulle deroghe opportune al patto di stabilità.
Lo ricordo perché questo intendiamo, dicendo che all’Italia serve un governo di scopo e di svolta. Del fatto che da qui all’estate solo il trittico sulla copertura agli ammortizzatori in scadenza, l’incudine della Tares e l’aumento dell’Iva, richiederebbe la messa a fuoco e a disposizione di una quindicina di miliardi. Per questo serve un governo, per aggredire le urgenze angosciose di una crisi che non è risolta e per invertire la rotta di un Paese indebolito nei suoi pilastri: etica pubblica, tessuto produttivo, la convivenza dei diseguali. Il punto è che le due dimensioni il fondamento di un pensiero responsabile sulla politica come declinato dai nuovi vertici di Camera e Senato, e la necessità di strappare l’Italia al declino delle sue risorse vitali camminano assieme. E per una volta, il metodo seguito da Bersani, Vendola, Tabacci, può diventare la stella da seguire anche nella complicata vicenda del governo. In fondo sono occorsi un grande coraggio e un’innovazione fuori dalle mode ma dal solidissimo ancoraggio, per riaprire un ponte tra il Paese e le sue istituzioni. Tutto suggerisce di proseguire su quella strada, col medesimo coraggio e, se serve, di più. C’è un programma di cose da fare. C’è una domanda di soluzioni da opporre. C’è una speranza, un’attesa diffusa, che il voto per quanto deludente non ha spento. Insomma, solo a volerlo vedere, c’è quanto serve per cambiare segno agli anni a venire. Tocca provarci.

il Fatto 18.3.13
Stefano Fassina: “Gruppo unico alle Camere con democratici e Sel”

Onorevole Fassina, com’è maturata nel partito la scelta di Grasso e della Boldrini?
È arrivata a tarda notte, dopo che l’idea di lasciare la Camera al candidato grillino e poi di dare la Camera ad un esponente della lista Monti si era rivelata impraticabile. Abbiamo provato fino alla fine, ma non è stato possibile alcun accordo.
Che ruolo ha svolto Vendola?
È stato della partita. D’altra parte con Sinistra Ecologia e Libertà abbiamo deciso di unire i gruppi.

l’Unità 18.3.13
Grillo finisce sulla graticola
La minaccia ai «ribelli» del Senato spacca il movimento: basta, anche tu vali uno
L’editto del web divide i 5 Stelle
Il caso dei commenti scomparsi
Nella notte di ieri gli interventi critici erano la stragrande maggioranza, al mattino meno
Secondo alcuni ne mancano circa duemila
di Toni Jop


Grillo è in un angolo. La minaccia ai «ribelli» che in Senato hanno votato Grasso spacca il movimento. Reagiscono gli eletti. Crimi cerca di fare da paciere, ma il senatore Vaciano si espone: ho votato l’ex procuratore, ecco il mio posto. Rivolta sul web: «Basta, anche Grillo vale uno come tutti».
Aveva a disposizione lo spazio, davvero insperato, per riprendere in mano da stratega la situazione, abbracciandola così com'era, con la sua contraddizione, quella che aveva permesso ad alcuni senatori 5 Stelle di impedire a Schifani, in coscienza e libertà, di rimettere le sue tende nella presidenza della seconda assemblea del Paese. E invece si è fatto prendere la mano dal capriccio degno di un potente di lungo corso e dal fiato corto tipo Berlusconi. Ha reagito come avrebbe reagito lui, piccato, rancoroso, ferito da quello spunto di autonomia, tra l’altro protetto dalla Costituzione, che aveva attraversato il “suo” gruppo parlamentare.
Post sul blog e richiesta, da pre-rappresaglia, di avere presto sul piatto le teste dei traditori. Non lo avesse mai fatto. Il blog del Megafono è stato intasato in tempi strettissimi da migliaia di commenti e tra i più votati fino all’una dell’altra notte, ce ne saranno stati due (forse tre?) che facevano proprie le “ragioni” del leader-santone. Tutti gli altri, per chilometri di pensieri sdraiati nel web, erano un coro immenso, ininterrotto, solidale, motivato che restituiva a Grillo ciò che era di Grillo: un potentissimo, sincero “vaffa”, che come in una millimetrica nemesi divina è tornato al Grande Mittente, a chi era riuscito a condensare proprio attorno a quel richiamo essenziale ed espressivo un quarto dei votanti di questo Paese.
Non secondaria l’evidenza che questo messaggio pazzescamente accordato come l’Internazionale cantato dal coro dell’Armata Rossa, sia salito dal profondo delle sue linee, delle trincee grilline, dalla sua pancia, perché novantanove su cento di quelle voci erano, e sono, la sua base elettorale. «Ma vaffanculo scriveva con passione Michele alle 23,17 in un contesto unicorde ...quindi era meglio Schifani? Ma vaffanculo».
Tuttavia, qualcosa è accaduto in quel blog; e ieri pomeriggio non era più possibile verificare quella notturna compattezza di prese di posizione contro «quel cazzo di editto»; il quadro appariva più articolato: per uno che accusava Grillo di aver sbagliato a censurare il voto per Grasso, ce n’era un altro che invece dava ragione a quella militare richiesta di teste da colpire, da espellere, da mettere alla gogna. Eppure, avevamo seguito direttamente su quel blog l’evoluzione dei commenti, con pazienza e anche con qualche sorpresa, poiché alla luce del coro quella che era stata definita «frattura» nel gruppo senatoriale dei 5 Stelle, appariva nel web una vera e propria faglia tettonica.
Non solo: altri osservatori hanno registrato come nel conto complessivo dei commenti a fine serata di ieri sarebbero spariti oltre duemila messaggi dei settemila che avrebbero dovuto trovare spazio. Un giallo oppure un banale problema tecnico? Fatto sta che chi ha registrato la voragine nella quale sarebbero implosi i commenti aveva anche provveduto a fotografare parte di ciò che era perduto per sempre. Così, nei social network, ha fatto il giro la foto di un messaggio desaparecido firmato dallo pseudonimo letterario di Ferdinand Bardamu in cui si lamentava “urlando” e cioè con una scrittura maiuscola «la svolta autoritaria del Movimento Cinque Stelle».
Non è male per una situazione in cui i «cadaveri della vecchia politica» giocano nulla e per la quale Grillo può chiedere spiegazioni, oltre alle teste da tagliare, solo a se stesso. Infatti, seguendo la corrente dei pensieri e delle volontà depositate a migliaia sul blog del Capo, si trattava solo di accogliere la soddisfazione gioiosa, e partigiana rispetto ai radiosi futuri del Movimento, di aver salvato una grande istituzione della Repubblica dalle mani di Berlusconi. Di aver saputo votare una degna persona, evitando al Movimento di dover rispondere – nel caso quel voto difforme non si fosse espresso – su un sostanziale voto di conferma alla testa del Senato in favore proprio di Schifani. Gente felice che la presenza parlamentare del Movimento avesse saputo tradursi in fatti concreti.
Grillo ha saputo mortificare questo slancio di cuore e cervello e quando si toccano queste corde il prezzo da pagare può essere altissimo. Così è stato. Vendetta per vendetta, ecco il popolo 5 Stelle rompere gli argini della discrezione fin qui osservata: «Inoltre, a proposito di trasparenza – scrive Ezio, Roma – perché la riunione pre-voto non è stata trasmessa in streaming?». Ezio ricorda un fatto vero e inspiegato che moltissimi interventi hanno rimarcato con rabbia: la riunione preparatoria al voto per la presidenza del gruppo 5 Stelle avrebbe dovuto essere trasmessa nel web in diretta e invece, tradendo un principio di trasparenza sacro per loro, nessuna telecamera è stata accesa e puntata sul confronto che ha partorito il voto che ha fatto impazzire un Megafono.

l’Unità 18.3.13
La capacità di scelta e il bivio del movimento
Alla prima prova si sono spaccati. Non si può seguire a lungo la politica della scheda bianca
di Pietro Spataro

RISOLVERE OGNI QUESTIONE CON UN PROLUNGATO VAFFA DAY È LA MASSIMA ASPIRAZIONE di Grillo e Casaleggio. È una tecnica per tenere alto il morale delle truppe impegnate nella guerra santa contro il Potere. Eppure quando quel vaffa, oltre che contro i «nemici» esterni, viene usato per regolare i conti dentro al movimento comincia a esserci qualcosa che non torna e che apre più di un interrogativo sulla capacità di tenuta dei 163 parlamentari Cinque Stelle.
Il salto di qualità non è di poco conto. Perché se si arriva a usare parole come traditori e si pretende l’autodenuncia pubblica di chi al Senato ha preferito votare per Grasso piuttosto che rischiare, con la scheda bianca, la riconferma di Schifani, significa che si agisce in una zona grigia nella quale uno non vale uno ma conta solo il verbo dell’Uno che sta in alto. Siamo oltre la democrazia diretta invocata da Grillo (la fantomatica iperdemocrazia del web che sta mostrando in questi giorni le sue contraddizioni) e dentro una monarchia assoluta, o al massimo una diarchia.
Così alla prima prova il movimento 5 Stelle si è spaccato e non solo nel gruppo del Senato. Le reazioni sul
blog da cui Grillo ha diffuso la scomunica dei ribelli sono emblematiche: una bella razione di critiche feroci e una razione altrettanto consistente di insulti ai traditori e di sostegno al capo. Un fenomeno che è la spia di una eterogeneità delle intenzioni politiche tenute assieme durante l’aspra campagna elettorale e ora messe duramente alla prova del confronto politico.
Certo, Grillo è un abile affabulatore e tenta di nascondere la polvere sotto il tappeto attaccando quello che lui chiama il Pdmenoelle. Confonde le acque. Ma è del tutto chiaro che oggi il leader del movimento che vuole cambiare tutto si trova in un angolo nel quale rischia di diventare un fattore di conservazione anziché di cambiamento. Sta mettendo a repentaglio, venti giorni appena dopo il voto, il credito ricevuto dagli elettori, la maggior parte dei quali non voleva un capitan fracassa che sfasciasse tutto ma un leader capace di fare il bene del Paese e di portare la radicalità del cambiamento nelle stanze dove si decidono le leggi. Di giornate come quella vissuta sabato al Senato ce ne saranno a bizzeffe. Momenti nei quali si dovrà stare da una parte o dall’altra, dare o no il proprio voto a un progetto, sostenere un candidato o un altro. Già la scelta sui vicepresidenti delle due Camere, sui questori e sui presidenti delle commissioni sarà un passaggio cruciale nel quale bisognerà avere le idee chiare sul che fare. Perché la democrazia non ammette (se non in rari casi particolari) la libertà di scelta né tantomeno la politica dell’eterna scheda bianca. Se questa invece dovesse essere la linea dei 5 Stelle sarebbe la paradossale parabola di un partito che finirebbe per ritrovarsi nelle sabbie mobili di una politica fatta di piccole mosse e furbe manovre.
Grillo sicuramente avrebbe preferito che dalle urne non fosse uscito un risultato per lui così impegnativo. Avrebbe preferito guidare un’agguerrita minoranza contro tutto e contro tutti proseguendo sulla linea tracciata in campagna elettorale. Avrebbe preferito anche che si fosse materializzato il fantasma dell’«inciucio», un bel patto tra Bersani e Berlusconi come simbolo del Grande Male da combattere. Sarebbe stata la conferma di quel «sono tutti uguali» che è la filosofia del movimento. Purtroppo per Grillo (e per fortuna per l’Italia) non sono tutti uguali e questo  magico scenario nel quale lui sarebbe emerso come il grande vendicatore dei cittadini non esiste né esisterà. Siamo qui, inutile girarci attorno rispolverando le frasi un po’ stantie sulla stampella da non concedere a nessuno o sulle proposte da votare di volta in volta.
Presto, quando Napolitano darà l’incarico a Bersani, i parlamentari di Grillo si troveranno di fronte alla scelta delle scelte: consentire la nascita di un governo che riserverà nella composizione la stessa sorpresa dei presidenti delle Camere, oppure accodarsi all’ira berlusconiana e riportare l’Italia al voto. In quel momento non serviranno sotterfugi o giochi di parole. Meglio prepararsi per tempo, ascoltando le voci che arrivano dagli elettori piuttosto che gli ordini inviati via blog da due signori. Il dilemma per i parlamentari che si definiscono «portavoce dei cittadini» è questo.

Corriere 18.3.13
«Metodo e moralità Ecco le condizioni poste dai 5 stelle»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — «La scelta di Laura Boldrini e Pietro Grasso rispettava pienamente i criteri che ci erano stati indicati dai rappresentanti del Movimento 5 Stelle. Quando sono stati indicati ho pensato: "Perché non dovrebbero votarli?". Alcuni lo hanno fatto e adesso andiamo avanti». È soddisfatta Rosa Calipari e non lo nasconde. Insieme a Luigi Zanda e Davide Zoggia era stata scelta dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani per trattare con tutte le altre forze parlamentari la nomina dei presidenti delle Camere e di quelli delle Commissioni. Ma non può negare che la partita più complicata fosse, almeno sulla carta, quella giocata con i "grillini". «E siamo appena all'inizio. Da domani ricominciamo a tessere la tela».
Con chi avete trattato?
«Il primo incontro era fissato con i capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi. Lui non c'era per motivi personali, in realtà sono arrivati in diciotto».
Hanno preso la parola tutti?
«Le posizioni generali sono state espresse da lei, altri sono intervenuti».
Il vostro obiettivo era chiudere un accordo?
«Assolutamente no. Noi volevamo far partire la macchina democratica, questo è il termine giusto».
Un termine che piace anche ai "grillini"?
«Sì, loro lo usano».
Ci sono altre parole che prediligono?
«Non vogliono che si usi "corresponsabilità" perché riporta a periodi di larga maggioranza, per esempio quanto accaduto per il governo Monti. Abbiamo parlato di dialogo e condivisione. Ma noi avevamo comunque deciso di non mettere sul tavolo alcun nome, né di proporre incarichi».
E allora qual era l'oggetto della trattativa?
«Il metodo, loro vogliono usare la più ampia collegialità. Sulle presidenze delle Camere hanno chiesto esplicitamente che fosse riconosciuta l'indicazione di voto degli elettori. Ma diciamo che su questo non avevamo bisogno dei loro suggerimenti».
Nessuna condizione più precisa?
«Ci hanno detto che sarebbero stati attenti alle nostre proposte visto che all'interno del Pd ci sono personalità che avevano gestito questo Paese nel bene e nel male. E quando gli abbiamo chiesto di essere più espliciti hanno posto le loro tre condizioni: i candidati dovevano essere di specchiata moralità, non indagati, competenti».
Avevate bisogno che lo imponessero gli M5S?
«Direi proprio di no, come del resto si è visto con tutti i nomi che sono stati fatti in questi giorni e con quelli che sono poi stati eletti».
Nega che l'indicazione di Boldrini e Grasso sia stata fatta proprio per cercare voti esterni al Pd?
«Dario Franceschini e Anna Finocchiaro rispondevano a tutti i criteri. Siamo andati oltre e il risultato ottenuto dimostra che il Pd è la forza di vero rinnovamento. Per questo il gesto di chi si è tirato indietro assume un valore ancora più alto».
Durante i contatti con voi, i deputati e senatori del M5S hanno mai posto il problema di doversi consultare con Grillo o Casaleggio?
«Non ci hanno mai detto nulla del genere. Loro fanno sempre riferimento alla collegialità, non nominano i leader».
E voi ci avete parlato?
«Neanche per idea. I nostri interlocutori sono i parlamentari, le persone che si trovano all'interno delle istituzioni».

«...e c'è @Johnny Palomba che scrive: “Grillo, arimettete er cappuccio”»
Corriere 18.3.13
Sul blog va in diretta la spaccatura
Scoppia il caso del commento «sparito»
di Fabrizio Roncone


La notizia è questa: da qualche ora, nel Web gira, rimbalza, divampa il forte sospetto che, sul blog di Beppe Grillo, un cospicuo numero di commenti critici rivolti al comico dai militanti del Movimento 5 Stelle sia stato censurato. Tecnicamente, censurato.
Li hanno proprio fatti sparire, certi commenti. Ci sono le prove.
Ma andiamo con ordine, perché la Rete, Web, Internet, è ancora per molti un mondo pieno di ombre, di mistero.
Ricostruiamo allora fatti, circostanze, cronologie.
E partiamo dalle 23.02 di sabato. Da quando Grillo pubblica sul suo blog, e in automatico anche su Twitter e su Facebook, il commento a quanto è accaduto poche ore prima al Senato, dove una dozzina di suoi parlamentari ha votato a favore di Pietro Grasso, consentendone l'elezione a presidente.
L'ordine di Grillo e Casaleggio, fatto pervenire al capogruppo Vito Crimi, era stato esplicito: «Votate scheda bianca». Crimi però non riesce a convincere i suoi, che decidono secondo coscienza. Un atto sorprendente, inatteso, con dentro un mucchio di cose: ribellione, libertà di pensiero, autonomia di voto, appoggio esplicito al Pd.
Grillo si prende giusto il tempo di riordinare le idee, poi va giù durissimo. Il succo del suo messaggio è questo: il voto segreto non ha senso, non permette trasparenza, e per questo voglio che ciascun senatore dichiari per chi ha votato; nel codice di «comportamento» del M5S è scritto che le votazioni in aula si decidono a maggioranza, è un obbligo, e chi si è sottratto a quest'obbligo, spero ne tragga le dovute conseguenze, e si dimetta.
È più di un commento: è un colpo di frusta.
Nella notte e finché non albeggia su domenica, e poi anche durante la mattinata, i militanti del Movimento leggono e, sul blog del comico genovese, dopo aver letto, aggiungono il loro parere. Alle 14, per capirci, siamo a oltre 7.500 interventi. Una roba pazzesca. Che, però, non è per Grillo la solita sinfonia di consensi ed evviva. Proprio no.
La maggior parte dei militanti sono infatti assai critici con i toni usati da Grillo. L'idea di aver contribuito ad eleggere una personalità come Grasso è piaciuta a tanti; molti suggeriscono che adesso il M5S debba partecipare alla nascita di un governo solido; coloro che condannano i parlamentari dissidenti sono la minoranza, anche se resiste — ovviamente — un robusto zoccolo duro che approva l'intransigenza del leader.
Fin qui, ci sarebbe già molto materiale su cui riflettere. Ma, ad un certo punto, a metà mattina, succede qualcosa di strano.
Sparisce il commento di un certo Ferdinand Bardamu (pseudonimo ispirato alla figura dell'antieroe inventata da Louis Ferdinand Céline) che, fino a quel momento, era stato il commento che aveva raccolto il maggior numero di preferenze, 250 (sui blog, funziona così: se quello che leggi ti piace, non solo puoi commentarlo a tua volta, ma puoi anche semplicemente cliccare e dire che lo apprezzi).
Cosa diceva il commento di Ferdinand Bardamu?
Leggete qui (su Internet, scrivere usando lettere maiuscole equivale a lanciare un allarme): «Questo movimento per cui ho votato alle ultime elezioni NON MI RAPPRESENTA PIU'. Questo ultimo post rivela la SVOLTA AUTORITARIA del M5S. SE, TRA GRASSO E SCHIFANI, per i deliri di onnipotenza di GRILLO E CASALEGGIO e PER IL VERGOGNOSO CALCOLO DEL "TANTO PEGGIO TANTO MEGLIO" caldeggiato dai pazzi e dai fanatici che ormai qua sono la maggioranza, il movimento avesse permesso l'ELEZIONE DI SCHIFANI, allora davvero nulla avrebbe più senso. INVITO I SENATORI DEL M5S che hanno AVUTO IL CORAGGIO E LA SERIETA' DI RIBELLARSI ai diktat vergognosi di GRILLO e ai SUOI DELIRI DI ONNIPOTENZA, a TENERE DURO».
Sparito.
Molto duro, molto apprezzato, questo commento: ma sparito.
Se ne accorge Dario Raimo, da Napoli, che scrive: «Censura sul blog? Vogliamo sapere! Uno vale uno ma chi detiene il blog (cioè Grillo) quanto vale?». E poi: «È successo un fatto estremamente grave che esprime il vero volto di chi detiene questo blog... stamattina, il commento più votato era questo... ma è stato rimosso».
Alle 13.27, interviene anche Marco B. «Complimenti Grillo per la tua serietà a dire grandi ed enormi cazzate. La smetti di pubblicare cialtronaggini? La gente vuole risposte. Ah, mi raccomando... non eliminare i post a te scomodi come hai già fatto».
Il mistero è autentico. E, di ora in ora, si infittisce. Alle ore 14, infatti, sul blog di Grillo sono accessibili 21 pagine di commenti, e considerato che ciascuna ne contiene 250, siamo a 5.250: ma se il totale dei commenti era di oltre 7.500, al saldo ne mancano almeno 2.000. Erano ostili, critici, polemici? Sono stati cancellati come quello di Ferdinand Bardamu?
Beppe Grillo prova a cambiare discorso.
E sul suo blog pubblica una nuova riflessione: stavolta affronta il tema del Quirinale. Titola: «D'Alema presidente della Repubblica?». Le ultime tre righe sono pesanti: «La candidatura di D'Alema — scrive il comico genovese — sarebbe irricevibile dall'opinione pubblica. Un fiammifero in un pagliaio. Il Paese non reggerebbe a sette anni di inciucio».
Ma cosa fanno i militanti? Restano sulla vecchia polemica.
Marco Blasi, ore 14.56: «Chi credi di essere? Hai inventato il M5S, e allora? Siamo noi ad aver votato. Non puoi dettare legge!». Marta Losi, 14.57: «Sei grande, Beppe. Avanti così contro i traditori». Filippo Cannizzaro, ore 14.59: «Beppe, lasciali lavorare. C'è bisogno di un governo. Non puoi sempre stare alla finestra».
C'è un clima pesante, ci sono toni, ci sono parole e ragionamenti che mai s'erano letti finora su quel blog (e non è una sensazione esclusiva, perché potete andare a verificare anche voi, e farvi un'idea).
Non basta: l'ondata di dissenso monta pure su Facebook e su Twitter.
Su Face, sotto il post in cui Grillo bacchettava i suoi senatori dissidenti, ci sono 13.358 «mi piace», ma anche 16.986 «commenti».
In successione. Annamaria Savo: «Ai senatori del M5S, grazie! E ora avanti, ci serve un governo». Lui Luigi: «Beppe Bravo, via chi tradisce gli elettori». Alessandra Estatico: «Forse invece di seguitare a sbraitare... dovresti pensare al Paese». Fededanyritamarco Bua: «Sono una grillina. Penso che Grasso sia una brava persona».
Su Twitter, Grillo è «seguito» da 1.102.650 persone. E però, anche qui, il consenso non è più bulgaro, le critiche si susseguono, il dubbio s'insinua, e c'è @Johnny Palomba che scrive: «Grillo, arimettete er cappuccio».

il Fatto 18.3.13
Le frasi di Grillo spaccano i Cinque stelle
Senatore: ho votato Grasso, mi dimetterò
Il comico genovese contro chi ha scelto l'ex magistrato per il Senato
Bersani: “Il M5S fa venire in mente dinamiche proprie del leninismo”

qui

il Fatto 18.3.13
Già tre mozioni nel M5S
La fronda dei tredici e la scomunica di Grillo
di Emiliano Liuzzi


Oltre alla spaccatura palese, nel Movimento 5 stelle, durante la prima domenica parlamentare, si aggira il clima del sospetto. Non tanto per quelli che hanno votato Pietro Grasso, ma per quelli che (pochi, massimo 4) potrebbero dare la fiducia a un governo Bersani. Il capogruppo Vito Crimi butta acqua sul fuoco, ma sa bene che lo scouting del Pd può aver avuto già i suoi effetti. Ma soprattutto, Crimi, insieme a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, deve fare i conti con 53 senatori che hanno votato tre mozioni, di cui solo una è passata salvo poi essere smentita al momento del voto. Sabato, nel bel mezzo del caos e in assenza di un piano B, i parlamentari, oltre a far volare gli stracci e gli insulti, piangere lacrime di stress, a un certo punto hanno deciso che sarebbe stato opportuno contarsi. Non una mozione contro un’altra, ma tre mozioni diverse.
LA PRIMA prevedeva la libertà di voto. Alzata di mano, 21 favorevoli. La seconda doveva servire a capire in quanti erano intenzionati a votare Grasso: 18. La terza e ultima è stata la mozione più votata, quella che prevedeva l’astensione: 38 favorevoli. A quel punto, nonostante un’assemblea complessa e mal strutturata (c’è chi si è espresso a favore di due mozioni diverse) avrebbe dovuto prevalere la logica dei numeri. E la decisione maggioritaria era quella di astenersi, “se la sbrighi chi in questo pasticcio ci ha trascinati”. Ma il voto è segreto, e una volta in aula 13 senatori hanno votato Grasso. Hanno proseguito per la propria strada. È per questo che alle 22.58 Grillo, senza aspettare di far trascorrere la notte, ha scritto di suo pugno un post tra i più duri degli ultimi mesi: “Se qualcuno non ha votato si sarebbe sottratto all’obbligo (votare secondo l’opinione della maggioranza, ndr), avrebbe mentito agli elettori, spero ne tragga le dovute conseguenze”. Chiaro, no? C’è stata una mozione, quella dovevano seguire.
Il pensiero di molti va subito alle espulsioni. Ma non è così. È lo stesso codice citato da Grillo a smentire quest’ipotesi. Perché al sesto punto, sotto la voce trasparenza, si legge: “I parlamentari del M5s riuniti, senza distinzione tra Camera e Senato, potranno per palesi violazioni del Codice di comportamento, proporre l’espulsione di un parlamentare a maggioranza. L’espulsione dovrà essere ratificata da una votazione on line sul por-tale del M5s tra tutti gli iscritti, anch’essa a maggioranza”. Sarebbero loro quindi ad avere l’ultima parola. Sicuramente i numeri non rincuorano Grillo e Casaleggio. Perché c’è un particolare che forse sfugge, ma è determinante: in 13 hanno votato Grasso, 13 sono i voti che servirebbero a Bersani per avere una zoppicante maggioranza. Sospetti. Meglio, semplici casualità. Ma, fonti interne al Movimento 5 stelle, confermano che la caccia al probabile traditore esiste ed è destinata a proseguire almeno fino alla prossima conta, quella per Bersani, appunto. “La paura”, dice qualcuno, “è avere in casa persone che non giocano in maniera limpida. L’indicazione che i senatori si erano dati era quella di non votare Grasso e quella doveva proseguire. Con la stessa logica, in nome del bene del Paese, potrebbe essere votata la fiducia a un governo politico. E questo vorrebbe dire la fine di tutto. È vero che sabato si votava una carica istituzionale, è vero che Grasso è altra figura rispetto a Schifani ed è vero che i siciliani hanno posto sul piatto un tema da loro sentito come la lotta alla mafia. Ma la logica del meno peggio non è la nostra logica”.
IERI, uno dei senatori che ha votato per il presidente del Senato espresso dal Pd, si è già presentato: si chiama Giuseppe Vacciano, eletto nel Lazio. Su Face-book mette la faccia, nome e cognome e spiega di “non sentirsi un traditore”. “Nessuno mi ha fatto proposte, offerte o tentato di comprare il mio voto. Ho agito secondo la mia coscienza. Nel mio futuro, se non sarà tra i cittadini del M5s, non ci saranno gruppi misti o gruppi di altri colori. La parola su cui si deve decidere è dimissioni sì o no. Io sono qui pronto”.

il Fatto 18.3.13
Primi mal di pancia
I grillini contro il capo: “Meno isteria, fidati”
di Paola Zanca


Lo spot è quello della compagnia di trasporto pubblico delle Fiandre. Dice che uniti, si viaggia meglio. Per dimostrarlo, mostra un gruppo di granchi che riescono a farsi beffe di un gabbiano affamato; una pattuglia di formiche che si mette in fila e fa le scarpe a un formichiere; un plotone di pinguini che, insieme, sfugge alle grinfie di uno squalo. Qui, nel nostro Belgio senza governo, è diventato un video “tutorial” per i portavoce a Cinque Stelle. Lo mettono su Facebook, come manuale di istruzioni per l’uso: “Solo uniti si vince”. Uniti, adesso non lo sono. E davanti hanno il gabbiano Pier Luigi, il formichiere Bersani, lo squalo segretario del Pd: bisogna fare muro.
Dopo aver minacciato la cacciata degli eletti che hanno votato Pietro Grasso alla presidenza del Senato, Beppe Grillo si prepara al prossimo possibile scivolone: al Quirinale non si scherza. Che a nessuno venga in mente, anche qui, di scegliere il meno peggio. Il rischio c’è. “Chi tradisce anche un solo punto di un accordo scritto, potenzialmente può tradirli tutti”, scrive Claudio Messora, “ideologo” del Movimento. Da una parte, sostiene Grillo, c’è il nome di Massimo D’Alema. Dall’altra, gli fa eco il segretario del Pdl Angelino Alfano, “dopo tre presidenti di sinistra, tocca a un moderato”.
E COSA farebbero i Cinque Stelle che ieri hanno voluto evitare la riconferma di Renato Schifani al Senato, se anche per il Colle si riproponesse un “ricatto” simile? Un’altra “foglia di fico”, come la chiama Grillo, convinto che Laura Boldrini e Pietro Grasso siano bandierine di facciata, dietro cui i partiti continueranno a farsi gli affari loro. Non è contento, il leader del Movimento, di aver costretto i democratici a rinunciare a Franceschini e Finocchiaro. Piuttosto, gli fanno “compassione”. Bersani reagisce, dice che i Cinque Stelle gli ricordano “il leninismo”: “Fanno riunioni chiuse e poi vogliono lo streaming quando vanno dal capo dello Stato: sono un cuneo... ‘mi organizzo più o meno segretamente e poi approfitto di tutti gli spazi che la borghesia cogliona e capitalista mi offre’”. Mentre attacca il Movimento sulla trasparenza e annuncia che “a luglio fermiamo la macchina sui rimborsi”, Bersani dice anche che per il prossimo governo “serve cambiamento”. Eccolo qui, il gabbiano, il formichiere, lo squalo pronto a mangiarsi grillini. Per questo la linea di Grillo è così dura, talmente tanto da contraddire anche le parole del capogruppo al Senato Vito Crimi che, subito dopo l’elezione dei due presidenti “distaccati dall’apparato di partito”, festeggiava il primo giro di apriscatole. Tra pochi giorni Crimi, Grillo e la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi dovranno presentarsi da Napolitano per le consultazioni. Ascolteranno nomi, valuteranno, poi si fa quello che decide la maggioranza, il blog insegna.
LA FIDUCIA a Bersani è fuori discussione, anche se il voto di sabato al Senato, per qualcuno, è un precedente pericoloso. Addirittura c’è chi sostiene che, tutto sommato, una squadretta di dissidenti pronti a sostenere il Pd potrebbe essere un toccasana per il Movimento: rimandare le elezioni, avere il tempo di farsi conoscere e di portare a casa qualche risultato, sacrificando un gruppetto da additare come traditori. I profili Face-book dei senatori accusati di aver votato Grasso ieri sono stati presi d’assalto. Francesco Campanella ha rivendicato la sua scelta e respinto le illazioni: “Non mi hanno promesso nulla. Io ragiono gratis”. Francesco Molinari si rivolge direttamente a Grillo: “Stia sereno. Non c’è nessun traditore. Il M5s al Senato è unito: nessuna alleanza nessuna fiducia. Solo un consiglio a chi ha scritto il post. Studiare le differenze fra Cariche Istituzionali e Ruoli politici non farebbe male. Meno reazioni isteriche e più fiducia! ”. In tanti hanno dichiarato di aver votato scheda bianca (“Ma niente croce addosso” agli altri, scrive la catanese Ornella Bertorotta; “Alcuni stanno postando le loro dimissioni se la base lo riterrà opportuno”, aggiunge Paola Taverna). Maurizio Buccarella (ieri lo avevamo dato per Grasso) chiarisce di aver scritto il nome di Orellana. Lo squalo è avvertito.

Repubblica 18.3.13
“Beppe ora che fai, li cacci?” processo in Rete all’ex comico
Proteste anche sul blog: “Chi dissente è censurato”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Lo insultano: «Caro Grillo, è ora che ti prendi qualche vaffa... ». Lo deridono: «Mago della trasparenza, sei un buffone!». Lo sfidano: «Magari pensare, prima di scrivere baggianate di stampo stalinano?». Sulla pubblica piazza virtuale va in scena il processo a Beppe Grillo. La miccia è il post con il quale il leader ha scomunicato sul suo blog i senatori dissidenti che hanno scelto Piero Grasso nel segreto dell’urna. La reazione è imponente, diecimila commenti in venti ore. E per Grillo è letteralmente un massacro: «Beppe che fai, li cacci?» chiedono parafrasando l’ormai famosa domanda di Fini a Berlusconi.
A dare retta all’umore del web, il re è nudo e neanche il guru Casaleggio se la passa tanto bene: «Sono un elettore del M5S - premette RiccardoBcupra - ma ho fatto votare almeno un centinaio di parenti e amici per il movimento. Dico a Grillo e a Casaleggio... fate attenzione e cercate di riflettere prima di sparare sentenze. Io ed i miei condividiamo le scelte dei 12 che hanno votato Grasso. Rifletti caro Beppe....rifletti...». La fronda meridionale raccoglie consenso: «Caro Grillo - scrive un altro utente - è vile sparare sui senatori M5S siciliani, il loro è stato un atto di coraggio».
Coraggio è la parola chiave, l’argine di chi sul blog si oppone alla denuncia del presunto «tradimento » dei senatori. Le due anime si danno battaglia, innanzitutto sulla scelta di sfidare il movimento nel segreto dell’urna. C’è chi attacca: «Da elettore del M5S ESIGO sapere chi ha votato Grasso, perché è giusto che si dimetta immediatamente». E c’è chi controbatte: «Voto palese perchè così tu lo potessi mettere sul patibolo per essere linciato?».
Stavolta la caccia all’infiltrato neanche parte, dalla valanga di commenti è chiaro che la sfida è tutta interna. E infatti neanche Casaleggio, la mente, viene risparmiata: «Grazie al cielo - dice Alessandro Rodi - c'era il voto segreto, in questo modo non ha vinto Schifani e qualche senatore 5S ha ascoltato il cuore invece del guru ». Difficile attribuire una percentuale al partito del dissenso interno. Ma sfogliando a caso le pagine del blog, per costruire un rudimentale campione statistico, si scopre che almeno la metà dei commenti sembra sfidare il leader. Una valanga che secondo qualcuno non piace al quartier generale di Grillo, almeno secondo le denunce di alcuni utenti: «Ma i commenti più votati vengono eliminati? Esiste una censura? », chiede Ilario da Perugia. Il sospetto si fa strada fra gli utenti, l’accusa è che il blog abbia sbianchettato gli interventi più duri e sgraditi. La prova, sostengono, è che facendo di conto (ogni pagina contiene 250 commenti) mancano all’appello diverse centinaia di post.
Nulla viene risparmiato, in nome dell’amata trasparenza: «Volevo sapere - chiede Andrea - come mai non è stata mandata in streaming la riunione di ieri e se fosse possibile recuperarla da qualche parte». E Maria, che evidentemente non ama i giri di parole: «Trasparenza una fava, dove è lo streaming della riunione prevoto???? ».
Dure le critiche a Grillo, durissime anche le repliche dei pretoriani del movimento: «Bravissimo Beppe - scrive Fabio - Basta coi furbini». Antonio è altrettanto netto: «C'è sempre un buon motivo per comportarsi da cani sciolti ». Non è da meno un altro utente, “dottorj zagortenay”: «Io e la mia famiglia di 6 persone non meritiamo di essere presi per i fondelli, buttali fuori altrimenti io con il movimento ho chiuso». Con lui, sono in migliaia a denunciare i frondisti meridionali con toni durissimi.
Resta evidente la contestazione, inarrestabile: «Esistono cose buone e cose cattive. Se una cosa buona viene da una persona che non reputi buona e tu non l'accetti sei un coglione, caro Grillo». Dalla trincea degli anti-Schifani si spara sul leader senza sosta: «Se non ci foste stati voi avremmo avuto Franceschini e Finocchiaro, perciò vi prego continuate così che allo psiconano gli è già venuto il cagotto».
Non bastano le accuse di «stalinismo », lo spettro del presunto autoritarismo del Capo tracima: «Ho letto molti post che vogliono buttare fuori i traditori. Se siete fascisti - attacca Quinto da Arezzo avete sbagliato a votare M5S. Continuate pure la vostra caccia alle streghe. La caccia ai Senatori, paura, terrore. Che delusione!».
Per tutti, comunque, i problemi sono appena iniziati. Che fare, come comportarsi per evitare nuove fratture? Tanti, tantissimi invocano forme di democrazia diretta via web, consultazioni telematiche per coinvolgere i cittadini. Ma a leggere Arturo da Catania, il risveglio è stato brusco: «Caro Beppe, sono profondamente amareggiato. Ieri ho trascorso tre ore a cercare di esternare il mio desiderio a Crimi, a te e al M5S Sicilia a favore di Grasso. Oggi questo tuo post assolutamente antidemocratico dove si sancisce che uno vale uno e due valgono 2 milioni?? Non ci fare perdere la speranza».

il Fatto 18.3.13
Il costituzionalista
“Impossibile un governo a punti”
di Thomas Mackinson


Il Pd porta a casa i presidenti di Camera e Senato, anche grazie ai voti dei grillini. Ma non per questo la strada per un incarico a Bersani è più vicina o si spiana l’ipotesi di maggioranza a punti, per singoli temi. Antonio D’Andrea, ordinario di diritto pubblico a Brescia, alla vigilia del voto ha fatto da nave scuola ad alcuni esponenti del Cinque Stelle, compreso il capogruppo al Senato Vito Crimi. Nelle sue lezioni di diritto costituzionale ha spiegato che, contrariamente ad altri pareri, un parlamento senza un governo non sta in piedi, tantomeno un governo di minoranza. E il nodo, dice D’Andrea, non è sciolto per nessuno. Grillini compresi.
Partiamo dall’ultimo dato: con un consenso del 30% il centrosinistra ha portato a casa i vertici delle Camere.
Un risultato che non era affatto scontato ma che va letto con attenzione. È una sconfitta per il Pd, se la si guarda con gli occhi di chi cercava su quel terreno un dialogo utile all’intesa con Grillo. E tuttavia è una vittoria del centrosinistra che l’ha spuntata, pur senza consensi sufficienti, puntando su due nomi presi fuori dal ceto politico strutturato nel partito.
Ma quel voto degli esponenti a Cinque Stelle per Grasso, la spaccatura insomma, fa presagire una convergenza sul governo?
No, escludo che un simile travaso si possa ripetere sulla fiducia a un esecutivo sotto il sigillo del Partito democratico. Ricordiamoci che ogni voto di fiducia è a scrutinio palese per appello nominale dei singoli parlamentari. Mentre sull’elezione dei presidenti delle Camere vale un voto di coscienza quello sulla fiducia al governo esprime una scelta politica palese e la spaccatura è assai improbabile.
Ma è possibile un governo a punti, su singoli provvedimenti?
Ritengo di no e anche i parlamentari del Movimento lo sanno. Il nostro dettato costituzionale vede governo e parlamento congenitamente connessi, dove il primo è espressione della maggioranza emersa nel secondo in Parlamento. Certo le maggioranze si possono formare di volta in volta, anche su specifici provvedimenti, ma non come presupposto di un governo: la stessa funzione legislativa del Parlamento, per potersi esplicare, presuppone un governo effettivamente in carica e nella pienezza dei suoi poteri. In questo stato non è l’attuale governo Monti, dimissionario, e non lo sarebbe alcun governo di minoranza, che per altro non potrebbe neppure legittimamente nascere.
E allora, perché persiste sulla linea di chiusura totale?
Il M5s è la novità del sistema politico, ma è anche una forza che si cimenta con le prime prove parlamentari partendo da una difficoltà iniziale a relazionarsi con i partiti tradizionali e le loro logiche. Al momento mi pare dunque arroccato su una linea attendista, marca stretti i temi della produttività parlamentare e dei costi della politica ma rimanda la scelta di dar vita o meno a un governo, pur sapendo che senza, anche le loro proposte riformatrici finirebbero in nulla. Poi si va al voto e l’esito, si sa, è incerto per tutti.
Napolitano potrà dare l’incarico a Bersani sapendo che non ha una maggioranza parlamentare?
Direi di no. Più probabile è che Bersani faccia un passo indietro per verificare il gradimento di un esecutivo di scopo, a termine. Ma la prospettiva del voto resta dietro l’angolo.

La Stampa 18.3.13
Il movimento, le polemiche
Nervi tesi dopo la “scomunica”
Grillini, l’eccessivo rigore del fondatore aumenta il malumore tra i parlamentari e rischia di isolarlo
Grande delusione per le affermazioni violente e l’incapacità di difendere i suoi
di Andrea Malaguti


Io, tanto intransigente e incazzosa, quando è stato eletto Grasso ho tirato un sospiro di sollievo. Sembra che siano tutti diventati padroni e in grado di dire chi deve dimettersi Elisa Bulgarelli Deputata del Movimento 5 stelle Un gruppo di senatori 5 Stelle discutono prima del voto per l’elezione del presidente Meno reazioni isteriche e più fiducia Beppe stia sereno qui non c’è nessun traditore. In Senato siamo uniti: nessuna alleanza e nessuna fiducia Francesco Molinari Senatore del Movimento 5 stelle
Che fai, ci cacci? Nel mondo rovesciato del MoVimento 5 Stelle, anche la scomunica di Beppe Grillo ai tredici liberi pensatori che hanno deciso di allontanarsi dalla linea della scheda bianca o nulla per appoggiare la candidatura di Pietro Grasso al Senato, finisce per trasformarsi in un boomerang. Che va a colpire proprio il papa ligure, finito per la prima volta al centro di un dibattito in cui il vero problema è Lui. Le sue esternazioni violente. La sua incapacità di difendere i suoi uomini. La superficiale facilità con cui li accusa di tradimento. Come se da qualche parte temesse che la maturità improvvisa dei cittadini-parlamentari finisse per rendere marginale l’importanza della sua paternità. Come se l’attaccamento a un anelastico rigore regolamentare nascondesse la debolezza di chi ha paura di non trovarsi più al centro del progetto.
Il primo a mettere in discussione la tranquillità del leader, in un pomeriggio in cui la tensione finisce per diventare incontrollabile, è il senatore calabrese Francesco Molinari. Un uomo energico, con il profilo identico a quello di John Cazale nel «Cacciatore» di Cimino. Affidando il suo pensiero a Facebook richiama il Capo a un maggiore autocontrollo. «Meno reazioni isteriche e più fiducia. Non c’è nessun traditore. A chi ha scritto il post do solo un consiglio: studiare la differenza fra cariche istituzionali e ruoli politici non farebbe male». Un atteggiamento sorprendente. Ma non solitario. Che finisce per sbriciolare una volta per tutte l’idea della setta. Dei pupazzi manipolati da Genova e da Milano.
Pochi minuti prima che il senatore laziale Giuseppe Vacciano decida infatti di ammettere la propria scelta a favore dell’ex procuratore antimafia («sono pronto a dimettermi se così vorrà la base»), la collega emiliana Elisa Bulgarelli - come se fosse mossa da un presentimento esprime solidarietà a chi ha avuto la forza di non farsi condizionare dal gruppo. «Io, tanto intransigente e incazzosa, quando è stato eletto Grasso ho tirato un sospiro di sollievo», scrive. E perché non ci siano dubbi sulla sua posizione aggiunge: «Dentro di me ho infinitamente ringraziato chi mi ha permesso di rimanere fedele ai miei principi, ma non ha permesso a " Schifano" di essere eletto presidente del Senato». Chiara? Chiarissima. Ma non abbastanza evidentemente. Perciò conclude: «Qui sono tutti diventati padroni del MoVimento e quindi in grado di indicare chi si deve dimettere. Anche io ho votato M5S e quindi, in qualità di comproprietario, dico che mi fa piacere avere votato per persone che hanno una coscienza». Un siluro. Nessuno ha la forza di dire: Grillo ha sbagliato. Ma oggi la sensibilità collettiva è ovviamente lontana da quella del papa ligure. «Dovremo fare una riunione generale. Se mi fossi trovato al Senato anziché alla Camera, avrei avuto le stesse difficoltà di chi ha votato Grasso. Era un ballottaggio. Il nostro candidato era fuori. E Grasso e Schifani non sono la stessa cosa. Nella mia testa il buon senso deve venire prima di tutto», spiega il triestino Aris Prodani. «Però credo che il post di Grillo più che a noi fosse diretto a Pd e Pdl, un modo per dire “nessun accordo”».
Ma è in Sicilia poi il dibattito rischia di diventare esplosivo. Il MoVimento isolano è abituato ad andare al sodo. A scegliere strade pratiche per raggiungere l’obiettivo. Qui il gruppo dei parlamentari insoddisfatti dal mancato referendum per chiedere alla base se appoggiare il Pd in un governo di scopo è più forte che in qualsiasi altra parte d’Italia. «Avremmo l’occasione storica di togliere soldi alle mafie. Potremmo tenere il Pd sotto schiaffo. Invece di certe cose non si può parlare», racconta nervoso un senatore chiedendo l’anonimato. Diverso l’atteggiamento di Francesco Campanella, che, avendo un passato da sindacalista, non ha paura di uscire allo scoperto. «Sì, ho votato Grasso. E come me altri. Perché la distanza tra lui e Schifani era ed è enorme. Ma sia chiaro, non abbiamo firmato nessuna apertura di credito al Pd. Grillo? E’ uno di noi. La polemica rientrerà presto», assicura, rimpiangendo presumibilmente quei giorni in cui era possibile tirare dritto, semplicemente perché - immersi nei propri pensieri privati - era davvero facile non accorgersi dell’universo intorno. Grillo è uno di noi. Uno dei tanti?

La Stampa 18.3.13
Vacciano: “Dimettermi? Solo se me lo chiede la base Il parere del leader vale uno”
«Per noi contano le idee non le persone. Se non vado bene lascerò»
«Se l’alternativa fosse Schifani voterei ancora per Grasso»
di A. Mala.


«Se si cercano i colpevoli di alto tradimento ai principi dell’M5S, ecco, uno l’avete trovato».
Cittadino-senatore Giuseppe Vacciano, quell’uno è lei?
«Io, esatto. E se la base vuole sono pronto a dimettermi».
Perché lo chiede Grillo?
«Figuriamoci. Il suo parere vale esattamente quanto quello di chiunque altro all’interno del MoVimento».
Però è stato lui a puntare il dito.
«Non so perché l’abbia fatto. Dovete chiederlo a lui. Ma soprattutto non mi importa. Ci mancherebbe altro che Grillo non fosse libero di esprimere la propria opinione».
E allora?
«E allora, il voto per Grasso al Senato ha scatenato un dibattitto gigantesco in rete. Molti sono convinti che la scelta di non mantenere le distanze dalla casta sia stata sbagliata. Io credo che ci sia una differenza tra un voto destinato a una carica istituzionale rappresentativa e un voto destinato a chi deve governare. E questo secondo voto, se mai dovessi rimanere in carica, da me non l’avranno mai. Né il Pd né il Pdl».
Amareggiato.
«No. Quello che è capitato è nella natura delle cose. Il posto al Senato e alla Camera non è un tesoro conquistato. Soltanto uno strumento attraverso il quale speriamo di fare delle cose buone per il Paese. Abbiamo portato nel Palazzo delle persone splendide, che possono fare la differenza vera per l’Italia».
Perché ha scelto Grasso?
«Me lo imponeva la coscienza. Di fronte al rischio di vedere nuovamente una persona come quella proposta dal Pdl quale seconda carica dello Stato (non credo che i cittadini italiani meritino una cosa del genere), pure tra mille dubbi, e consapevole che tra Pd e Pdl non esiste il meno peggio, ho votato Grasso. Non potendo più indicare l’unico candidato al quale avrei affidato quell’incarico: Luis Alberto Orellana. È esattamente quello che ho scritto su Facebook. Se lo cita testualmente mi fa un piacere».
Ha ricevuto pressioni esterne per il suo voto?
«No, no e poi no. Io sono una persona libera. Nessuno mi ha fatto proposte o offerte. E non mi vedrete mai in un gruppo misto o in un gruppo di un altro colore. Io sono un cittadino Cinque Stelle».
Grillo non l’ha chiamata per dirle: Giuseppe, ma che hai fatto?
«Assolutamente no. Beppe è una persona che stimo e che stimerò sempre. Ma che nella mia ottica conta sempre uno».
Dunque a chi rimetterebbe il suo mandato se non a lui?
«Alle persone che mi hanno eletto».
Un po’ vago.
«Per nulla».
Ce lo spiega?
«Oggi e domani mi confronterò con gli altri componenti del Senato. Sentirò il loro parere. Se mi chiederanno di farmi da parte lo farò. Ma mi piacerebbe che ci fosse anche la possibilità di un confronto in rete. Con la base. Sono nelle loro mani. Se non vado bene io, sono sicuro che troveranno uno migliore di me».
Non le pare un filo drastico?
«Sembrerà drastico a chi ragiona con i criteri della vecchia politica. Ma noi del MoVimento siamo fatti così. Contano le idee, non le persone».
Lo darebbe ancora il voto a Grasso?
«Se mi trovassi nella stessa situazione, con lo stesso dilemma tra lui e Schifani e con lo stesso quadro politico, certamente sì».
Perché il vostro dibattito non è andato in diretta streaming?
«Solo per ragioni tecniche. Presto ogni singola parola sarà a disposizione di tutti».

La Stampa 18.3.13
Grillo e Casaleggio compatti M5S sempre più lontano dal Pd
I leader caustici sull’elezione di Boldrini e Grasso: “Sono foglie di fico”
di Jacopo Iacoboni


«Immaturi» I contrasti al momento del voto in Senato hanno evidenziato il bisogno di un «rodaggio» per non trovarsi più impreparati

Il primo risultato della giornata di sabato - in cui una parte del Pd ha cercato il cambiamento che poteva ma un’altra utilizzava l’insegna del cambiamento, come ha detto qualcuno, per «aprire come una scatola il M5s» - è che lo staff di Beppe Grillo e Casaleggio s’è irrigidito. Da questo punto di vista, risultato negativo. «È ancora peggio di prima per noi», dicono. I nomi di Boldrini e Grasso, hanno postato sul blog senza firma, ossia con la firma più nota, «sono foglie di fico», come Doria a Genova e Ambrosoli a Milano. Nomi nuovi di una politica vecchia e di un partito «impresentabile» sempre guidato da... D’Alema. Tra l’altro, a Milano - punto terminale dell’intelligenza collettiva dei cinque stelle - sono convinti che D’Alema sia il vero candidato del Pd per il Quirinale, previo accordo con il Pdl. «La sua candidatura sarebbe irricevibile dall’opinione pubblica, il Paese non reggerebbe sette anni di inciucio», scrive Grillo. E nello staff spiegano «ci tenteranno; se non è vero siamo lieti, possono smentire».
Insomma, nei giorni che verranno non c’è da aspettarsi un disgelo tra i due mondi, Pd e cinque stelle: quella di sabato è stata vissuta come una specie di aggressione al gruppo parlamentare del Movimento (definito «immaturo» anche da alcuni insider). È vero che in quel gruppo si discute, e il tweet di Grillo ad alcuni ha fatto drizzare i capelli, ma su questo nello staff sono intransigenti. Evitano accuratamente la parola «traditori» o «Giuda», la formula che viene più usata è «hanno commesso un errore». Nessuno evoca «espulsioni», ma il ragionamento che si sente fare è: «Per coerenza dovrebbero dimettersi». Per i fondatori la cosa fondamentale è che gli eletti siano una cinghia di trasmissione con gli elettori, e tengano fede al regolamento sottoscritto a ottobre: quando ci sono opinioni diverse, il gruppo vota una posizione a maggioranza e poi tutti la rispettano. Salvo casi singoli, che possono riguardare votazioni di coscienza, non voti politici come il presidente del Senato e, ancora di più, i prossimi sulla formazione di un governo o l’elezione del capo dello Stato. Il problema è che dal Parlamento non ci si dimette; se non per motivate ragioni. Semmai si finisce nel gruppo misto. Sarebbe la più classica deriva politichese. Una nemesi, per loro.
Neanche tanto paradossalmente, allora, il Parlamento è il terreno più difficile, dove dimostrano di avere tanto da imparare. E anche Crimi forse in futuro sarà più rigido. Fuori, invece, i cinque stelle si sentono ancora su un’onda. Venerdì - il giorno prima dello scacco al Senato - circolavano a Milano numeri impressionanti sui consensi attuali. Non i sondaggi di istituti tradizionali, ma una convinzione, informata, di viaggiare al 32 per cento. Ecco perché sono scettici su elezioni a giugno, «non ci faranno tornare a votare».
Certo la strada per un governo con il Movimento è chiusa. A Milano prevedono, nonostante tutto, che alla fine «faranno un governo che chiameranno del presidente, o istituzionale». E, anche se non lo dicono, forse a loro converrebbe. Ma «se si vota naturalmente siamo felici». È l’unica vera via per risolvere lo stallo, spiegano.
In effetti una delle caratteristiche poco colte, di fronte a questo Movimento per tanti sconosciuto, è che per la prima volta nelle dinamiche politiche italiane - lo staff dei garanti è anche più radicale della base (per dire, nel Pci, o nella Fgci, è sempre stato il contrario). Se alcuni parlamentari si mostrano possibilisti, non si può dire che sensazione analoga si ricavi a Milano. Claudio Messora, il blogger byoblu, dice che quelli che hanno votato Grasso sono «quindici uomini sulla cassa del morto». Ma persino quelli che chiedevano più libertà, ieri si affrettavano a dire: è chiaro che sulla fiducia voteremo tutti uniti.
Questa è al momento la fotografia. Ne dobbiamo ricavare che ogni strada è chiusa? Forse l’unica sfida a questa posizione sarebbe un incarico a un premier stimatissimo da tutti (Rodotà, o un nome di questo tipo), pronto però ad andare in parlamento direttamente, senza passare dai partiti, e facendo in sostanza un «governo del M5s». È facile capire quanto questa strada sia ai limiti dell’impossibile.

Corriere 18.3.13
Il 70% dei cinquestelle boccia l'asse col Pd
di Renato Mannheimer


La divisione creatasi tra i senatori del M5S rappresenta un fatto significativo e indicativo della natura estremamente composita della base elettorale — ma anche dei parlamentari — del Movimento. E a poco valgono le ire di Grillo: il M5S, per sua precisa volontà, non è un partito organizzato come quelli tradizionali. È il contesto, talvolta disordinato, di raccolta di istanze molto differenziate e disomogenee, dalla semplice protesta all'adesione a proposte molto specifiche, anche se tutte connotate da una forte voglia di rinnovamento. In particolare, solo il 18% (che corrisponde grossomodo al 4% dell'elettorato italiano) dei votanti per il comico genovese è costituito da quanti animano attivamente e in modo continuativo il Movimento. Sono stati definiti dallo stesso Grillo come più partecipi: ad esempio, chi discute online su Meetup e/o dà impulso a raccolte firme o altre azioni. Qui si trovano in particolare i più giovani, specie sotto i 24 anni, e i possessori di titolo di studio più elevato. Un ulteriore 24% prende comunque parte al Movimento attraverso la pubblicazione di propri commenti e interventi sul blog, pur senza promuovere vere e proprie iniziative. Ancora, il 28% dei votanti per Grillo legge comunque regolarmente il blog, anche se non vi partecipa attivamente. Solo il 30% dell'elettorato del M5S è costituito da semplici elettori, meno giovani di età e più lontani dal dibattito politico (tanto che buona parte di essi si definisce «apolitico») che in molti casi si sono decisi all'ultimo momento a dare il voto a Grillo, e che, però, non prendono (sinora) parte a nessuna delle attività e delle iniziative promosse dal Movimento. Dall'insieme di questi dati emerge comunque come l'M5S sia caratterizzato da un forte tasso di partecipazione attiva — assai maggiore di quello riscontrato nei partiti tradizionali — legato certamente anche alla grande quantità di giovani che in esso sono presenti e, al tempo stesso, dalla forte ed efficace capacità di mobilitazione di Grillo. A questi caratteri non corrisponde tuttavia — come si è visto anche in Parlamento — sempre una coesa unanimità sulle posizioni espresse da Grillo. Si è già rilevato come sull'euro buona parte degli elettori grillini assuma una posizione di contrarietà e ritenga addirittura non opportuna la proposta di un referendum popolare al riguardo. Ma anche sulla più rilevante e attuale prossima decisione se acconsentire o meno a entrare in un governo di coalizione, per esempio con il Pd, una quota consistente di votanti del M5S esprime orientamenti diversi da quelli proposti dalla leadership. È vero che il 77% di quanti optano oggi per il M5S si dichiara contrario a concedere la fiducia a un esecutivo che veda la presenza dei partiti tradizionali. Ma, al tempo stesso, quasi un elettore grillino su quattro assume una posizione opposta. Ancora una volta, c'è differenza tra le posizioni di chi ha votato M5S senza parteciparvi attivamente (si tratta, come si è detto, di grossomodo il 30% dell'elettorato del Movimento) e chi prende parte in qualche modo alle attività promosse da Grillo. I primi appaiono in qualche misura più propensi e disponibili ad una apertura nei confronti del Pd (così come si erano dimostrati più favorevoli ad un mantenimento della nostra presenza nell'euro), mentre i secondi assumono una posizione di maggior chiusura. Ma anche tra questi ultimi — gli «attivisti» del M5S — ben il 25% ritiene opportuna una alleanza di governo in cui partecipi anche il Movimento. Insomma, una parte significativa dell'elettorato di Grillo appare più disponibile ad un confronto. E lo è, di conseguenza, un segmento degli eletti. Che potrebbe essere forse in qualche misura recuperato dai partiti tradizionali. Solo però se questi ultimi offriranno un'immagine — e proporranno delle scelte — coerenti all'ascolto delle istanze di rinnovamento espresse dagli elettori con il voto di Febbraio. In caso contrario — ed è quello che suggeriscono alcuni avvenimenti e alcune prese di posizione anche di questi ultimi giorni — l'elettorato del M5S non potrà che aumentare ancora.

Repubblica 18.3.13
Il partito autobus dei Cinque stelle
di Ilvo Diamanti


CE L’HA fatta, il Pd, a far eleggere i propri candidati alle Camere. Era tutt’altro che scontato, soprattutto al Senato. C’è riuscito perché non li ha “imposti”, ma “proposti”. Ha scelto due figure credibili e di alto profilo. Esterne al partito. Laura Boldrini, già portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Eletta nelle liste di Sel.
Epoi Pietro Grasso. Una biografia esemplare e coerente, di lotta alle mafie. Al Senato, soprattutto, era difficile prevedere che l’elezione sarebbe avvenuta in tempi tanto rapidi. Senza negoziati né compromessi. È giunta grazie al voto di alcuni senatori del M5S, una decina almeno. Al ballottaggio fra Grasso e Schifani, non si sono sentiti di astenersi o di annullare il voto. E ciò ha suscitato sorpresa oltre a reazioni e commenti – a mio avviso – un po’ azzardati. In particolare, dopo il voto dei senatori, in contrasto con le indicazioni di Beppe Grillo, c’è chi ha pronosticato l’implosione del M5S. Incapace di assumere posizioni coerenti e unitarie. Perché vulnerabile alle logiche di corridoio e alle pressioni degli altri gruppi. Oppure, più semplicemente, perché impossibile da “governare”, per un Capo esigente ma assente, in Parlamento. Beppe Grillo, in effetti, non l’ha presa bene. A coloro che, nel segreto dell’urna, avevano votato per Grasso, ha chiesto di «trarre le dovute conseguenze ». Cioè, dimettersi. D’altronde, la concezione della rappresentanza e dei rappresentati proposta da Grillo prevede il «mandato imperativo». Cioè, la “dipendenza” diretta degli eletti dagli elettori. Interpretati dal Capo e Garante del Movimento (e dal suo intellettuale di riferimento, Roberto Casaleggio). In rapporto con i seguaci e i militanti attraverso la Rete.
Tuttavia, io credo che entrambe le “pretese” siano difficilmente realizzabili.
La prima – che prevede la rapida dis-integrazione del Movimento, in Parlamento e, dunque, in ambito politico e sociale – considera il M5S un partito come gli altri. Una “organizzazione” di politici più o meno professionalizzati, tenuti insieme da un’identità e da interessi comuni, sempre più deboli. Vulnerabili di fronte alle tentazioni e ai privilegi del potere. Un po’ come i leghisti, giunti in Parlamento “padani” e divenuti rapidamente “romani”.
Ma il M5S non è come gli altri partiti. Un partito come gli altri. È una Rete. Non solo
perché si è sviluppato attraverso il web e i meetup. Perché, piuttosto, è cresciuto nel tessuto dei gruppi e dei comitati locali impegnati sui temi dei beni comuni, dell’ambiente, dell’etica pubblica. In altri termini, è una “rete” di esperienze e di attori “volontari”. Perlopiù giovani, che operano su base locale. Da tempo. Certo, Roma e le aule del Parlamento sono grandi. Ma il legame con i mondi e le reti sociali di appartenenza lo è altrettanto. Per ora, molto di più. Chi pensa di “reclutarli” – con la promessa di ruoli e incarichi – sbaglia di grosso. Non avverrà.
Tuttavia, per la stessa ragione, mi pare difficile che possano rispondere al richiamo del Capo, in ogni occasione. Prima ancora: che possano accettare il modello della democrazia diretta e del mandato imperativo imposto da Beppe Grillo. Perché, anzitutto, presentandosi alle elezioni, hanno accettato le regole e i principi della democrazia rappresentativa. Perché, inoltre, non è facile individuare le domande degli elettori che li hanno eletti. Come abbiamo già rilevato, sul piano elettorale, il M5S è un “partito pigliatutti”. Votato da componenti molto diverse, dal punto di vista socioeconomico e politico. Un terzo dei suoi elettori, infatti proviene da centrodestra. Altrettanti da centrosinistra. (Le analisi di Bordignon e Ceccarini, sull’ultimo numero della rivista “South European Society and Politics”, sono molto chiare.) Inoltre, è la forza politica più votata dagli operai ma anche dagli imprenditori, dai lavoratori, dai disoccupati, dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dagli studenti. Difficile rivolgersi e riferirsi, direttamente, a un elettorato tanto eterogeneo. Anche la “fedeltà” al Capo appare una pretesa difficile da esigere. Perché, come abbiamo detto, il M5S non è un partito coeso, strutturato. Che possa venire controllato dall’alto e dal centro. E non è un partito “personale”, come Forza Italia, il Pdl, ma anche l’Idv. Gli eletti, gli attivisti, non rispondono solo o direttamente al Capo. Perché non sono stati scelti da lui. Ma dagli altri attivisti e seguaci, con cui avevano un rapporto stretto e diretto, anche prima.
Con loro – e non con Grillo – si instaura il legame di fiducia alla base del loro impegno e della loro azione (come emerge dalle interviste ai militanti analizzate nel volume “Il partito di Grillo”, curato da Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini e pubblicata dal Mulino). Insomma, il M5S non è un partito “tradizionale” ma nemmeno un partito “personale”. Senza Grillo non esisterebbe. Grillo, però, è il proprietario del marchio, ma non il “padrone” di un’azienda-partito, di cui gli eletti sono i dipendenti.
In effetti, come ho già avuto modo di sostenere, il M5S, mi rammenta un autobus. Sul quale sono saliti passeggeri diversi, con destinazioni diverse. Uniti, in questa fase del percorso, da una comune destinazione intermedia. Destrutturare il sistema dei partiti della Seconda Repubblica. Incapaci di cambiare le logiche della Prima. Grillo li ha raccolti e accolti. Insieme agli altri, saliti in precedenza. Interessati ad arrivare altrove e più lontano. Nella Terra dei Beni Comuni. Grillo, per questo, è un Altoparlante. Un Autista. In grado di scagliare il suo “Mezzo” contro il muro del Vecchio che Resta. Ma, appunto, un Mezzo. Usato, in parte, da elettori e militanti, per i loro “fini” specifici. Non per il Fine generale.
Per questo i suoi elettori, ma anche i suoi eletti, gli attivisti e i militanti, non si sentono vincolati al mandato imposto dal Capo. E scelgono liberamente, “secondo coscienza”. Votano insieme ai parlamentari del Pd, quando si tratta di sostenere un candidato come Grasso. Avverrà lo stesso in altre occasioni analoghe. Né la minaccia del conducente di abbandonare la guida dell’autobus farà loro cambiare opinione. Senza che ciò significhi, in alcun modo, confluire nel Pd o in un altro gruppo e partito.
La seconda Repubblica è finita. I passeggeri dell’autobus di Grillo lo hanno dimostrato in modo inequivocabile. Ma dove andranno, dove scenderanno. E dove arriverà e si fermerà l’Autobus: non è possibile stabilirlo. Non lo sa nessuno. Di certo, neppure Grillo.

Corriere 18.3.13
L’anarchia della Balena
di Beppe Severgnini


Beppe Grillo ha buttato la rete nel malcontento italiano, e la pesca elettorale è stata abbondante. Perché il malcontento è grande e giustificato; perché il pescatore è stato abile a manovrare la barca. Ha saputo mescolare rivendicazioni e rimostranze, solidarietà e sarcasmo, tempismo e tecnologia. Non è il primo a esercitarsi in questo tipo di attività, nella politica italiana ed europea. Ma nessuno aveva ottenuto risultati così clamorosi. Perché nella rete di Grillo non c'è pesce: c'è una balena.
Come definire, altrimenti, quasi nove milioni di elettori che hanno investito nel Movimento 5 Stelle molte speranze, lo hanno incaricato di rappresentare le proprie delusioni e ora s'aspettano che trovi soluzioni? Come classificare un numero di parlamentari capace di rendere difficilissima una maggioranza di governo?
Per il gran pescatore politico, passata l'euforia, si pone un problema. Gigantesco, come la sua conquista. La balena non si può tirare a bordo: la barca si rovescerebbe. Ma non si può lasciare lì a lungo, prigioniera nella rete. Perché prima o poi il cetaceo elettorale si sveglia. E allora, per chi sta in superficie, sono guai.
I primi segni del risveglio della balena sono evidenti. I voti che hanno consentito a Pietro Grasso di arrivare alla presidenza del Senato erano prevedibili. La psicologia, talvolta, può più della strategia: chi era tanto orgoglioso di mostrarsi alle famiglie nel Parlamento degli italiani, non poteva avallare il «Tanto peggio, tanto meglio!» invocato dal pescatore-capo chiuso nella sua villa sul mare. E poi diciamolo. Se Beppe Grillo è un «portavoce» — così si definisce — il suo ruolo è comunicare la volontà degli eletti; non imporre la propria.
Il segnale inequivocabile del risveglio della balena è però un altro. Dopo il comunicato di centosedici parole («Trasparenza e voto segreto»), con cui Grillo rimette bruscamente in riga gli eletti del M5S, il blog s'è rivoltato. Moltissimi hanno protestato, anche per la rinuncia alla diretta-video della discussione alla vigilia del voto. Altrettanti si sono detti delusi e amareggiati. Vogliamo un movimento nuovo dove si decide insieme, hanno scritto (prima di essere in parte rimossi). Non un partito dove il capo emette comunicati, non risponde alle critiche e lascia intendere: pensatela come volete, basta che la pensiate come me.
La balena s'è svegliata, e dimostra di avere una certa personalità, come il capitano Achab imparò a sue spese con Moby Dick. Cosa farà il mastodonte, è presto per dirlo. Mentre Mario Monti mulina la piccozza, dimostrando di conoscere poco le tecniche di pesca, Silvio Berlusconi e il Pdl appaiono preoccupati. Ma come potevano pensare che la balena dormisse a lungo?
Il problema è che nessuno ha idea, oggi, di quale direzione prenderà. Non Bersani, non Monti, non Berlusconi. Neppure Beppe Grillo. Non basta aver l'aspetto del lupo di mare. Bisogna esserlo davvero.

Corriere 18.3.13
Verso una deriva estremista
di Massimo Franco


I nomi sono nuovi e rispettabili.
È difficile, tuttavia, sfuggire ad un leggero senso di vertigine per lo sbilanciamento a sinistra che i vertici del Parlamento certificano.
Il «sistema delle spoglie» all'italiana consegna una fotografia degli equilibri di potere che sembra scattata sette anni fa, ai tempi dell'Unione. E non promette una stabilizzazione delle istituzioni, ma una fragilità che accentua il timore di una legislatura già incanalata sul binario morto. Si deve concedere che la responsabilità non possa attribuirsi al solo Pd. L'esito è anche figlio di un risultato elettorale ambiguo e destabilizzante in sé.
Ma si sperava che venisse «letto» in maniera diversa. E invece, brillano la contraddizione esistenziale di un Movimento 5 Stelle incapace di assumersi con trasparenza un ruolo in positivo; un Pdl risucchiato in una deriva giudiziaria, cavalcata nella speranza che un Silvio Berlusconi nel ruolo di vittima porti voti; e un centrismo montiano in affanno a ritrovare bussola e sponde internazionali. Comunque la si guardi, la situazione appare sconfortante. Neppure un mese dopo un voto annunciato come decisivo, l'Italia è di nuovo immersa in una campagna elettorale. Anzi, in fondo non è mai uscita dall'altra. Ma il guaio non dipende solo dal fatto che il Senato sia senza una maggioranza.
Il problema è la deriva estremista delle posizioni. È il rifiuto dei partiti di cercare un qualunque compromesso. È il peso dell'impotenza del sistema politico scaricato sul Paese, senza alcuna riforma. Si finge di ignorare che il bipolarismo è reso tale solo da meccanismi elettorali perversi; e che promette frutti avvelenati in vista della scelta del prossimo presidente della Repubblica, a metà aprile. Per come si stanno mettendo le cose, rischia di prevalere un'autosufficienza della sinistra declinata nel modo più conflittuale e corrosivo per la legittimità delle istituzioni: col risultato di regalare argomenti alla propaganda berlusconiana. Insomma, la politica è tornata, e offre uno spettacolo mediocre.
Forse perché in realtà non se n'era mai andata, nonostante il governo dei tecnici. Certo, se si pensa che il Pd prometteva di comportarsi come se avesse il 49 per cento anche ottenendo il 51, c'è da trasalire. Con il 29,5 insieme con il Sel di Nichi Vendola, si comporta come se avesse una percentuale doppia. Quanto alle alleanze, il discrimine dell'europeismo è stato messo in ombra per inseguire il fantasma di un'intesa con un Beppe Grillo che persegue, per tacere il resto, un referendum per fare uscire l'Italia dall'euro: una linea irresponsabile, prima che impraticabile. Insomma, dopo il 24 e 25 febbraio si è persa un'occasione per offrire l'immagine di un Paese avviato alla stabilità e credibile in Europa.
Ma ora sarebbe bene non creare le premesse per perderne un'altra. Usare il «premio» fornito da una legge elettorale più che discutibile per annettersi una ad una le cariche istituzionali scadute o in scadenza potrebbe rivelarsi non solo miope ma pericoloso. Il «partito italiano» in Conclave era numeroso e in apparenza potente, e ha perso perché era debole nella Chiesa cattolica. Forse, quell'esempio può essere un motivo di riflessione per il «partito della sinistra italiana» alla vigilia di appuntamenti laici ai quali si presenta gonfia di parlamentari ma non di voti.

Repubblica 18.3.13
La Costituzione partecipativa
di Andrea Manzella


Per fortuna, nel Parlamento che è cominciato, la grandissima maggioranza degli eletti ha meno anni della Costituzione. Ma vi è anche una giovinezza della Costituzione con la quale possono e devono incontrarsi. Basta saperne vedere le “ammorsature”.
Con questa vecchia parola dell’arte muraria, Piero Calamandrei significava che la Costituzione ha molte sporgenze a cui, come nelle vecchie case, ci si può appigliare per continuarne la costruzione. È il progetto costituzionale, insomma, che si spinge nel futuro e perciò si mantiene giovane.
Presidenti delle Camere sono ora due rappresentanti della società civile, appena ieri incaricati in essa della funzione più alta: la tutela della comunità nazionale e internazionale contro la prepotenza e l’esclusione. Tocca a loro una parte rilevante nel portare avanti il progetto costituzionale.
Dal momento in cui sono eletti, i presidenti di Senato e Camera entrano a comporre, con il presidente della Repubblica, la triade che guarda all’equilibrio complessivo delle istituzioni. Devono stare accanto al capo dello Stato se arriva il momento più critico del regime parlamentare: lo scioglimento anticipato delle Camere (articolo 88). Capire cioè quando l’istituzione non riesce più a comunicare con gli elettori. È questo momento che colora giuridicamente tutto il resto: il loro dovere di essere, fin dall’inizio gli speaker di tutti, per parlare a tutti, dopo aver ascoltato tutti.
Questa opera di collegamento tra il lavoro della rappresentanza parlamentare e la società “informata” (e isolata) dei nostri giorni deve d’altra parte essere la bussola nella ricerca di una legittimazione smarrita. E se si seguono le “ammorsature” – le pietre che spuntano dall’ordinamento del passato per indicare l’avvenire – si scopre che la voce dei cittadini potrebbe continuare a sentirsi nelle procedure della democrazia parlamentare, lungo vie possibili in Costituzione, ma ostruite dal tempo e dalla cattiva volontà politica.
Si è fatto, ad esempio, un gran parlare di sotterfugi ideati per rendere trasparenti le sedute delle commissioni parlamentari. Ma la Costituzione dice che “le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni” sono liberamente determinate dai regolamenti parlamentari (articolo 72). Non è difficile cambiarle con innovazioni comunicative se la grande ansia di parlare subito ai cittadini – di cominciare così a porre le premesse di una “procedura deliberativa” – è condivisa, come pare, dalla maggioranza assoluta dei parlamentari.
Ecco, ancora, la Costituzione dire che “ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse” (articolo 82). Il presidente Grasso ne ha già richiamato una, e cruciale. Ha fatto capire che questo “pubblico interesse” non può essere individuato solo dall’interno del Parlamento, in un gioco politico racchiuso tra maggioranza e opposizione. La Costituzione non si oppone infatti a che la richiesta di indagine su interessi e beni pubblici possa venire, rinforzata, dall’esterno: secondo procedure cittadine informatizzate e certificate in quel luogo di evidenza pubblica che è, di per sé, proprio il Parlamento.
Ecco l’opportunità costituzionale dell’iniziativa di progetti di leggi, redatti in articoli (articolo 71). Dice la Costituzione che ci devono essere almeno cinquantamila firme: ma è questo un problema con la possibilità di firme elettroniche certificate? E se i pigri regolamenti parlamentari fissano solo l’inizio e non la fine dell’esame di questi progetti sarebbe un problema modificarli per dare all’iniziativa popolare un percorso certo fino alla decisione obbligatoria? Per non parlare della possibilità che c’è ora di collegare iniziative popolari nazionali a iniziative cittadine europee (articolo 11 del Trattato: cittadini di almeno sette Stati dell’Unione che promuovono insieme “leggi” europee, ormai così incisive sul destino di tutti).
Ecco ancora la facoltà costituzionale di chiedere alle Camere “provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”( articolo 50). Le “petizioni”: strumento sorpassato? Così sembra da noi a leggere gli striminziti regolamenti parlamentari. Non però se guardiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (articolo 44) e al Parlamento europeo dove è istituito un registro informatizzato sul quale i cittadini possono dare, con la propria firma elettronica, il loro appoggio alle richieste di provvedere. E dove esiste addirittura una Commissione parlamentare per le petizioni (con una accurata procedura fatta da 24 commi contro l’avarizia dei nostri 9 commi, tra Camera e Senato).
E si potrebbe continuare. Ma già si vede insomma, che tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa non c’è il vuoto che si vuole artificiosamente immaginare e propagandare. Non c’è per il semplice fatto che la Costituzione del 1948 pone tra i suoi principi fondamentali proprio quello della “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”(articolo 3). Ancora oggi, non si potrebbe dire meglio.
Il punto è che per rendere davvero “effettiva” quella partecipazione è ormai tempo di sviluppare, con i nuovi strumenti disponibili, le risorse dimenticate, le “ammorsature” della Costituzione. Anche questo è un programma di cittadinanza: i nuovi presidenti del Senato e della Camera lo hanno subito colto.

il Fatto 18.3.13
Si fa presto a dire Nuovo
di Marco Travaglio


Gli innegabili aspetti positivi dell'elezione di Laura Boldrini e di Piero Grasso a presidenti di Camera e Senato li ha elencati ieri il nostro direttore Antonio Padellaro. Ma il coro di Exultet, con sottofondo di trombe e tromboni, che ha accompagnato la doppia votazione di sabato rischia di occultarne le ombre, che pure ci sono e vanno segnalate. A costo di passare per bastiancontrari.
1) È comprensibile che alcuni senatori di 5Stelle, pare di provenienza siciliana, non se la siano sentita di contribuire, astenendosi, al ritorno di Schifani (tuttoggi indagato per mafia a Palermo, sia pure con una richiesta di archiviazione dei pm pendente dinanzi al gip) alla presidenza del Senato. E abbiano dunque votato per Piero Grasso, evitando il peggio per la seconda carica dello Stato. Ma il metodo seguito non è stato dei più trasparenti: siccome tutti i candidati M5S si erano impegnati con gli elettori ad attenersi alle decisioni democraticamente assunte a maggioranza dai gruppi parlamentari, chi s'è dissociato dall'astensione decisa dal gruppo del Senato avrebbe dovuto dichiararlo e motivarlo apertamente, anziché rifugiarsi nel voto segreto. E precisare che lo strappo alla regola vale soltanto questa volta, in via eccezionale, trattandosi delle presidenze dei due rami del Parlamento, e non si ripeterà più.
2) Grillo, non essendo presente in Parlamento, deve rassegnarsi: i parlamentari di M5S saranno continuamente chiamati a votare sul tamburo, spesso con pochi secondi per riflettere, quasi sempre col ricatto incombente di dover scegliere il “meno peggio” per sfuggire all'accusa del “tanto peggio tanto meglio”, e neppure se volessero potranno consigliarsi continuamente con lui (che sta a Genova) e col guru Casaleggio (che sta a Milano). È la normale dialettica democratica, che però nasconde un grave pericolo per un movimento fragile e inesperto come 5 Stelle: la continua disunione dei gruppi parlamentari che, se non si atterranno alle regole che si sono dati, si condanneranno all'irrilevanza, vanificando lo strepitoso successo elettorale appena ottenuto. La regola non può essere che quella di decidere a maggioranza nei gruppi e poi di attenersi, tutti, scrupolosamente a quel che si è deciso. Anche quando il voto è segreto. Le eventuali eccezioni e deroghe vanno stabilite in anticipo, e solo per le questioni che interrogano le sfere più profonde della coscienza umana. Nelle prossime settimane il ricatto del “meno peggio” si ripeterà per la presidenza della Repubblica, per la fiducia al governo, per i presidenti delle commissioni di garanzia. Ogni qualvolta si fronteggerà un candidato berlusconiano e uno del centro o del centrosinistra, ci sarà sempre qualcuno che salta su a dire: piuttosto che Berlusconi, meglio D'Alema; piuttosto che Gianni Letta, meglio Enrico; piuttosto che Cicchitto, meglio Casini. Se ciascuno votasse come gli gira, sarebbe la morte del Movimento, che si ridurrebbe a ruota di scorta dei vecchi partiti, tradendo le aspettative dei milioni di elettori che l'hanno votato per spazzarli via o costringerli a rinnovarsi dalle fondamenta. ll che potrà avvenire solo se M5S, pur non rinunciando a fare politica, manterrà la sua alterità e sfuggirà a qualsiasi compromesso al ribasso, senza lasciarsi influenzare dai pressing dei partiti e dai media di regime. 3) Grasso e la Boldrini hanno storie diverse, non assimilabili in un unico, acritico plauso alla loro provenienza dalla mitica “società civile”. La Boldrini, per il suo impegno all'Onu in favore dei migranti, è una figura cristallina e super partes, mai compromessa con i giochetti della bottega politica. Grasso invece alle sirene della politica è stato sempre sensibilissimo, come dimostra la sua controversa carriera di magistrato antimafia: da procuratore di Palermo si sbarazzò dei pm più impegnati nelle indagini su mafia e politica e sulla trattativa Stato-mafia e trascurò filoni d'inchiesta che avrebbero potuto far emergere responsabilità istituzionali con una decina d'anni di anticipo; poi incassò la gratitudine del centrodestra, che di fatto lo nominò procuratore nazionale antimafia con tre leggi contra personam (incostituzionali) che eliminarono il suo concorrente Caselli; infine incassò la gratitudine del centrosinistra con la cooptazione nelle liste del Pd, dopo aver flirtato col Centro di Casini ed essersi guadagnato gli applausi del Pdl proponendo la medaglia al valore antimafia nientemeno che per Berlusconi. Solo la faccia del suo avversario Schifani può nascondere questi e altri altarini.
4) Il centrosinistra ha prevalso d'un soffio alle ultime elezioni col risultato più miserevole mai ottenuto da un vincitore nella storia della Repubblica: meno di un terzo dei votanti. Con che faccia Bersani e Vendola, nonostante le parole di apertura agli altri schieramenti per una distribuzione più equa delle presidenze delle Camere, se le sono accaparrate entrambe? Un minimo di decenza, oltrechè di spirito democratico, avrebbe dovuto indurli a rinunciare all'arroganza e all'ingordigia da poltrone, e a votare, senza mercanteggiare nulla in cambio, il candidato di 5 Stelle (o di un'altra coalizione) al vertice della Camera o del Senato. 5) A prescindere dai meriti e dai demeriti individuali, sia la Boldrini sia Grasso sono parlamentari esclusivamente grazie a quel Porcellum che i loro rispettivi partiti, Sel e Pd, contestano a parole e sfruttano nei fatti. Nessun elettore li ha scelti: sono stati cooptati nelle liste del centrosinistra dagli apparati, all'insaputa degli elettori, non avendo partecipato neppure alle primarie per i candidati. L'altro ieri Vendola e Bersani li hanno estratti dal cilindro all'ultimo momento, senz'alcuna consultazione dei rispettivi gruppi, per dare una verniciata di nuovo alle vecchie logiche spartitorie che sarebbero subito saltate agli occhi se a incarnarle fossero stati i Franceschini e le Finocchiaro. Ma la sostanza non cambia. La Boldrini poi rappresenta un partito del 3% e ora presiede la Camera grazie a un altro meccanismo perverso del Porcellum: il mostruoso premio di maggioranza del 55% dei seggi assegnato allo schieramento che arriva primo, anche se non rappresenta nemmeno un terzo dei votanti. Grasso è presidente del Senato per conto di una coalizione minoritaria, con l'aggiunta decisiva di alcuni franchi tiratori del Centro e di 5 Stelle. Quanto di meno nuovo e trasparente si possa immaginare.

Corriere 18.3.13
Grasso: mi occuperò di giustizia Il neopresidente che può salire ancora
«Bisogna fermare il conflitto sociale anche tra politica e toghe»
di Giovanni Bianconi


ROMA — Era un incontro programmato da tempo, d'accordo. E il neopresidente del Senato è persona a cui non piace disattendere gli impegni. Ma dopo l'elezione a seconda carica dello Stato, se non si fosse presentato tutti avrebbero capito e nessuno si sarebbe offeso. Tanto più nel giorno di festa. Invece no. Con appena qualche minuto di ritardo rispetto al programma, ecco arrivare la macchina di servizio con fari e lampeggianti accesi, scortata da altre due e uno schieramento di protezione rafforzato. Ne esce Pietro Grasso con la camicia slacciata sul collo, niente cravatta e scarpe da velista ai piedi, che s'infila in un teatro romano dove un pezzo di società civile molto vicina al Partito democratico l'aveva invitato a discutere di «emergenza sicurezza a Roma, ripartiamo dalla legalità».
Prima di dargli la parola, il conduttore presenta Grasso come il volto pulito delle istituzioni, rispetto ad altre immagini giunte ieri dal Senato che assomigliavano — dice — a scene tratte da Il Padrino. Il pubblico applaude, l'ex procuratore nazionale antimafia si limita a un sorriso. Gli ricordano di quando Cosa nostra voleva ucciderlo, e lui — salito sul palco — racconta come scoprì il progetto di attentato ai suoi danni. Glielo svelò un pentito che stava partecipando a quel tentativo, interrotto solo dagli arresti e qualche coincidenza. «Dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio — spiega Grasso — la trattativa fra lo Stato e la mafia languiva, e Riina disse che bisognava dare un altro "colpettino". Che ero io. Ero diventato oggetto della trattativa, una vittima designata. Per fortuna le cose andarono diversamente, e siamo qui a raccontarle».
Era il 1992, una stagione di crisi istituzionale che ha più di un punto in comune con l'attuale. A partire da un Parlamento nuovo di zecca, rivoluzionato rispetto ai vecchi equilibri. E c'era da eleggere il capo dello Stato, scadenza che si ripresenterà tra un mese. Allora, sull'onda terribile della bomba che dilaniò Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli uomini di scorta, lo stallo fu superato dalla scelta di Oscar Luigi Scalfaro, che era appena salito alla presidenza della Camera. Senza evocare scenari tanto drammatici, dopo l'esito delle votazioni dell'altra sera nei palazzi della politica c'è chi ha cominciato a ragionare sull'eventualità che anche l'ex magistrato antimafia possa diventare una carta da giocare. Nei colloqui ufficiali e ufficiosi i nomi in lizza per adesso sono altri, ma se uno fra quelli circolati finora non fosse in grado di sciogliere il groviglio, il neopresidente del Senato potrebbe rappresentare una soluzione istituzionale capace di raccogliere il consenso necessario. Al di là dei proclami e degli anatemi dell'ultima ora.
Ovviamente Grasso a tutto questo fa mostra di non pensare nemmeno lontanamente. Lo aspettano impegni già sufficientemente gravosi, che ne fanno un protagonista del tentativo di far vivere la legislatura appena nata, superando il primo ostacolo che è la formazione del governo. «È un sentiero stretto — confida mentre lascia il teatro — ma dobbiamo provare a percorrerlo. Bisogna oltrepassare lo scoglio del voto di fiducia che, per esempio, in Sicilia non c'era. Lì l'elezione diretta del governatore ha consentito al governatore di instaurare un rapporto proficuo col Movimento 5 Stelle; qui la situazione è diversa. Ma faremo tutto il possibile per trovare una via d'uscita». Parole da seconda carica dello Stato. In precedenza, sul palco, quando una ragazza gli ha consegnato una copia della Costituzione ha scelto di leggere l'articolo 3, quello che sancisce l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e il dovere di «rimuovere gli ostacoli» alla partecipazione di tutti alla vita delle istituzioni. Chiosa Grasso: «È ciò che non viene ancora attuato». Nel suo primo discorso a Palazzo Madama ha invocato una «pace sociale» che, chiarisce ora, «comprende anche il conflitto tra politica e giustizia». Ma come a rintuzzare chi continua a indicare giudici e pubblici ministeri come un pericolo, aggiunge: «Anche l'autonomia e l'indipendenza della magistratura sono un dettato costituzionale, valori da difendere perché non sono un privilegio ma rappresentano il controllo di legalità da parte della società». Poi saluta e se ne va. L'aspettano una cravatta e la prima salita al Quirinale nella nuova veste. Per incontrare il presidente della Repubblica.

Corriere 18.3.13
I marò rimangono in patria, ma lo spread morale peggiora
risponde Sergio Romano


La marò è tornata d'attualità. I rapporti tra India e Italia risultano deteriorati e mi sembra che il buon nome di entrambi i Paesi ne esca ridotto male. Non mi sembra che la decisione italiana di venir meno alla parola data sia una legittima ritorsione a una pretesa violazione di accordi internazionali e altrettanto sconcertante mi appare la decisione della Corte Suprema indiana, di vendicarsi sull'ambasciatore italiano. Altro avrei da dire e se la psicoanalisi si potesse applicare agli Stati, ci troviamo di fronte a un esempio di regressione infantile.
Pietro Bognetti

A proposito del mancato rientro dei marò, Edward Luttwak, noto saggista americano, ha detto al Corriere del 16 marzo che «pacta sunt servanda» (i patti si rispettano). Vorrei chiedergli se ricorda la strage in Val di Fiemme in cui morirono 20 persone a causa di una spericolata bravata di due aviatori Usa. Fu promessa giustizia in Italia, ma il processo farsa si svolse in Carolina del Nord con una mite condanna dei piloti per aver sabotato la registrazione della cassetta a bordo dell'aereo.
Antonio Borin

Cari lettori,
Un americano potrebbe rispondere che i patti, nel caso del Cermis, furono rispettati. Il processo ebbe luogo negli Stati Uniti perché così prevedevano la convenzione di Londra del 1951 e gli accordi fra i due Paesi sullo status giuridico dei militari americani nell'esercizio delle loro funzioni. Credo che quegli accordi siano ineguali e che occorrerebbe rinegoziarli. Ma nessun governo italiano, di destra o di sinistra, ha osato sinora sollevare il problema e chiedere l'apertura di un negoziato.
Il caso dei marò, quindi, è completamente diverso. Forse l'Italia avrebbe dovuto appellarsi immediatamente alla giustizia internazionale, ma è possibile che anche Roma avesse qualche dubbio sull'esatta collocazione della nave e del peschereccio al momento dell'incidente. A torto o a ragione, comunque, il governo italiano ha deciso di perseguire una linea dialogante e pragmatica, fatta di contatti e sollecitazioni, forse nella speranza che le arti della diplomazia e il passaggio del tempo servissero a modificare gradualmente la posizione delle autorità indiane. Quella linea sembrò dare qualche risultato. Alcuni carabinieri hanno potuto assistere, in veste d'osservatori, agli esperimenti balistici. I due marinai italiani sono stati trattenuti agli arresti, ma alloggiati in un albergo. E sono stati autorizzati a venire in Italia, su cauzione, per le feste di Natale e Capodanno. Più recentemente, quando hanno avuto il permesso di tornarvi per il voto, è parso che il clima fra i due governi fosse considerevolmente migliorato. Ma il governo italiano, improvvisamente, ha cambiato la sua tattica e ha deciso di trattenere i marò in Italia. Se avesse potuto accusare il governo indiano della violazione di un impegno assunto precedentemente, la decisione sarebbe stata forse giustificata. Ma non sembra che agli indiani possa essere mosso questo rimprovero. Allo stato delle cose l'Italia, quindi, è un giocatore che cambia improvvisamente le regole della partita e butta via il mazzo di carte di cui si era servito fino a quel momento. Può darsi che il governo Monti volesse terminare la sua esistenza con una decisione popolare, gradita a una buona parte del Paese. Ma ha dimenticato che nei rapporti internazionali non esiste soltanto lo spread finanziario. Esiste anche lo spread morale, vale a dire il divario fra la parola di un Paese affidabile e quella di un Paese non affidabile. Il governo se ne va lasciando al suo successore il compito di sbrogliare una brutta crisi con l'India: una eredità singolare per un esecutivo che, dopo lo scioglimento delle Camere, avrebbe dovuto occuparsi soltanto di «affari correnti».

l’Unità 18.3.13
Germania, Spd prima nei sondaggi
Socialdemocratici e Verdi in salita
Cala di nuovo la Cdu-Csu. Le elezioni a settembre prossimo
di Paolo Soldini


Se si votasse domenica prossima la Germania sceglierebbe un governo rosso-verde. Per la prima volta dopo molti mesi, infatti, i sondaggi resi noti ieri attribuiscono alla Spd e ai Grünen la maggioranza relativa dei voti e una probabile maggioranza assoluta dei seggi. Se le previsioni sono giuste, e soprattutto se non cambieranno gli umori degli elettori da qui alle elezioni «vere» del 22 settembre, le uniche alternative possibili per il governo federale sarebbero una grosse Koalition tra la Cdu-Csu e i socialdemocratici oppure, per l’appunto, una maggioranza di sinistra che, almeno sulla carta, è la formula cui si sono impegnati la Spd che i Verdi. La scomparsa dei liberali, ormai costantemente sotto la fatidica soglia del 5%, renderebbe impossibile qualsiasi altra ipotesi.
Siamo, ovviamente, nel campo delle speculazioni, anche se i sondaggisti tedeschi appaiono, per tradizione, molto più affidabili di quelli di altri Paesi, a cominciare dal nostro. E va considerato che i rilevamenti degli orientamenti elettorali non tengono ancora conto d’una novità politica che tra un paio di settimane sarà ufficializzata: il nuovo partito «Alternative Deutschland», che predicando la tutela degli interessi tedeschi contro i salvataggi dei Paesi «deboli» a spese dei contribuenti fino all’uscita eventuale dall’euro, andrà a collocarsi sulla destra della scena politica federale e potrebbe risucchiare consensi non solo dall’area dei liberali e da quella dei cristiano-sociali e cristiano-democratici, ma forse anche un po’ dalla sinistra. Oggi come oggi, comunque, le stime dei ricercatori della Enmid, il più quotato degli istituti tedeschi, fotografano la situazione così: l’Unione (cioè la Cdu della cancelliera Merkel più la sorella Csu bavarese) scendono per la prima volta da un anno a questa parte sotto il 40% delle intenzioni di voto. Il salasso è sensibile nelle file del partito bavarese, mentre è più contenuto, ma comunque indicativo, in quelle della Cdu. La Spd, i cui dirigenti qualche giorno fa hanno reso pubblico il programma di governo, sale di un punto al 28% che, sommato allo score dei Verdi, saliti anche loro d’un punto al 16%, fa un totale del 44% che, tradotto in seggi e considerato il prevedibile flop dei liberali, dovrebbe configurare una agibile maggioranza al Bundestag. Al Bundesrat, l’altra Camera
in cui sono rappresentati i Länder, già adesso esiste una maggioranza rosso-verde. Oltre alla Fdp resterebbero fuori dal parlamento i Piraten, la formazione che sostiene la democrazia diretta e telematica che l’anno scorso aveva raggiunto clamorose e inaspettate vittorie in alcune elezioni regionali, tra cui quelle di Berlino. Otterrebbe invece rappresentanza parlamentare il partito della sinistra radicale della Linke, che viene quotato intorno all’8%, raccolto soprattutto nei Länder dell’est.
Il gruppo dirigente dell’Unione Cdu-Csu ha tutti i motivi per guardare con una certa apprensione al quadro che esce da questo sondaggio. Ci sono due elementi molto preoccupanti. Il primo è l’erosione da destra che potrebbe venire da «Alternative Deutschland»: già ora esiste, soprattutto nella Csu ma anche nella Cdu, una vivacissima fronda che contesta la strategia anticrisi del debito messa in atto dal governo Merkel e chiede a gran voce il blocco degli esborsi tedeschi per i sostegni ai paesi a rischio debito. Nelle riunioni pubbliche che gli esponenti della nuova formazione stanno tenendo in questi giorni in tutto il Paese sono spesso presenti rappresentanti locali dei partiti dell’Unione. Il secondo è l’effetto che «Alternative Deutschland» esercita già oggi sulla Fdp, i cui dirigenti attuali si stanno spostando su posizioni sempre più radicali nel tentativo disperato di contenere la concorrenza. La congiunzione dei due elementi potrebbe avere effetti pericolosissimi per la cancelliera quando, tra qualche settimana, dovrà presentarsi al Bundestag a chiedere nuovi finanziamenti per gli aiuti europei a Cipro. Paradossalmente, la crisi bancaria del piccolo paese mediterraneo potrebbe mettere in crisi gli assetti di potere del colosso Germania.

Corriere 18.3.13
Decorazione in Ungheria per tre razzisti antisemiti


BUDAPEST — Tre medaglie a tre esponenti di estrema destra. Dopo le tanto contestate modifiche alla Costituzione e i richiami da parte dell'Europa, il premier ungherese Viktor Orbán torna a sfidare le opposizioni decorando tre personalità di estrema destra e apertamente razziste: un giornalista tv, un archeologo e un cantante rock. Tra i tre decorati c'è Kornel Bakay, che ha ricevuto l'Ordine al merito, un archeologo noto per le sue teorie antisemite. In passato aveva affermato che sarebbero stati gli ebrei a organizzare il commercio degli schiavi nel Medioevo. C'è poi Ferenc Szaniszlo, giornalista della Echo Tv, vicino al partito di Orbán, Fidesz. Al reporter, recentemente sanzionato dall'Autorità di sorveglianza dei media per avere definito i Rom delle «scimmie», è stato conferito il premio Tancsics, uno dei più alti riconoscimenti per i giornalisti. In segno di protesta una decina di suoi colleghi decorati in passato hanno riconsegnato l'onorificenza. Il terzo caso è quello del cantante Janos Petras, del gruppo rock «Karpatia», che ha ricevuto la Croce d'Oro al Merito. La sua band in passato ha partecipato a una marcia della Guardia ungherese (organizzazione paramilitare) e nelle sue canzoni ha chiesto di rivedere i confini nazionali.

La Stampa 18.3.13
Omicidi razziali, l’Fbi si arrende
Chiusi i “cold cases” riaperti nel 2006: omertà, i colpevoli non si trovano
di Maurizio Molinari


Testimoni introvabili, presunti colpevoli deceduti, prove difficili da ricostruire e una persistente, diffusa omertà: sono questi gli ostacoli che hanno spinto l’Fbi a dichiarare «chiusi» 92 dei 112 pendenti «cold cases» ovvero i delitti irrisolti commessi in passato, quasi sempre a sfondo razziale.
Si tratta di una pagina oscura della Storia nazionale, che nel 2006 l’Fbi decise di riaprire puntando a portare davanti alla giustizia colpevoli e complici di crimini la cui costante è nell’essere stati commessi negli Stati del Sud da bianchi nei confronti di neri. Nel varare la «Cold Case Initiative» il direttore dell’Fbi Robert Mueller contava di adoperare nuove tecniche investigative, a cominciare dall’esame del Dna, per poter identificare i colpevoli ma sette anni dopo gli unici successi sono la condanna di James Ford Seale, per l’assassinio di due giovani afroamericani nel 1964, e l’indagine a carico dell’ex militare James Bonard Fowler per l’omicidio dell’attivista dei diritti civili Jimmie Lee Jackson nel 1965.
Tutto qui. Senza colpevole restano dunque quasi 100 omicidi: dall’aiutante-benzinario Clinton Melton, freddato da un automobilista in Mississippi a causa di un disaccordo sull’ammontare delle benzina pompata nell’auto, a Jasper Greenwood, il cui errore fu di avere una relazione con una donna sposata bianca sempre in Mississippi, fino a John Earl Reese, ucciso in Texas da due giovani bianchi, e Herber Orsby, attivista anti-apartheid trovato morto in un canale di New Orleans. Senza contare il «cold case» più lontano nel tempo ed anche più noto: il linciaggio di Claude Neal in Florida nel 1934.
In queste, e molte altre, indagini l’Fbi si è trovata di fronte a un muro di gomma che ha riproposto l’omertà dei bianchi e la rabbia dei neri in maniera non troppo dissimile da quanto avveniva mezzo secolo fa. Gli ostacoli sono stati tali che a dispetto di decine di milioni stanziati dal Congresso di Washington per finanziare le indagini, l’Fbi ne ha spesi appena 2,8. Al «Southern Povery Law Center» di Montgomery in Alabama, una roccaforte della lotta al razzismo, parlando di «fallimento prevedibile». «Quando l’Fbi annunciò la riapertura di così tanti casi temetti il rischio di infondere false speranze nelle famiglie - ricorda Mark Potok, direttore del Southern Povery Law Center - e questo è ciò che è avvenuto».
Ad aggravare il fallimento dell’Fbi ci sono le lettere che gli agenti consegnano ai parenti delle vittime, ammettendo nero su bianco l’impossibilità di punire i responsabili e dichiarando il caso «chiuso». La rabbia delle famiglie si deve al fatto di ritenere che, sebbene i diretti responsabili dei delitti siano spesso morti, le indagini dovrebbero continuare per appurare omissioni e complicità. Basti pensare che alcuni dei delitti sono irrisolti perché i colpevoli, individuati e processati, vennero assolti da giurie composte in gran parte da bianchi. Ad esprimere amarezza è anche Janis McDonald, giurista della Syracuse University e co-direttore della «Cold Case Justice Initiative» che aveva proposto la creazione di una task force regionale da affiancare agli agenti «ma il Dipartimento di Giustizia non l’ha presa in considerazione», sebbene il ministro obamiano Eric Holder sia uno dei volti di spicco della comunità afroamericana.

La Stampa 18.3.13
Francia, vietato bocciare L’égalité conquista le aule
Ripete l’anno uno studente su tre. Ora i socialisti vogliono farla diventare “un’eccezione”
di Alberto Mattioli


Dal vietato vietare di sessantottina memoria al vietato bocciare. Gli obbiettivi della gauche diventano meno ambiziosi ma più realisti. Nella scuola francese, far ripetere l’anno diventa fuorilegge. O quasi: «Nel quadro dell’acquisizione di conoscenze, competenze e metodi prevista alla fine del ciclo e non più dell’anno scolastico, far ripetere un anno dev’essere eccezionale». Così recita l’articolo primo della «legge di rifondazione» della scuola, fiore all’occhiello del programma di François Hollande, attualmente in discussione all’Assemblée nationale.
Con un emendamento, i deputati socialisti sono andati anche più in là di quanto proposto dal loro governo, che si era limitato a scrivere che si deve «proseguire la riduzione progressiva» dei ripetenti. Invece adesso la bocciatura diventa l’eccezione che dovrebbe confermare la regola di una scuola migliore. Liberté, égalité, fraternité e promozione.
Il benefattore della peggio gioventù è il controverso responsabile dell’Educazione nazionale, il filosofo socialista Vincent Peillon, una specie di mina vagante nelle acque governative, un ministro iperattivo che una ne fa e cento ne propone, compresa quella di legalizzare le droghe leggere (si spera non in classe). Però la sua crociata contro le bocciature non è così eccentrica. Fra i Paesi dell’Ocse, la Francia detiene saldamente il record del «redoublement», la ripetizione dell’anno: tocca a più di uno studente su tre, quando la media nel resto del mondo è di meno di uno su sette.
Da tempo, gli esperti vanno ripetendo che la misura è, ai fini pedagogici, del tutto inutile. Di certo, è disastrosa per quelli economici: nel 2009, per esempio, ha rappresentato un aggravio di più di due miliardi di euro per le esauste casse pubbliche. E del resto la mitica «circolare della rentrée», cioè l’editto del ministero che indica obiettivi e modalità dell’anno scolastico che inizia, già nel 2010 spiegava ai professori recalcitranti che far ripetere l’anno «costituisce l’ultima risorsa». Ma i docenti francesi finora non se ne sono dati per inteso e proseguono le loro stragi di discenti.
Sulla scuola, Hollande si gioca molto. Quello dell’Educazione nazionale è uno dei tre ministeri (gli altri sono gli Interni e la Giustizia) dove lo Stato continuerà a investire. Delle 60 mila persone che assumerà nei prossimi cinque anni, 54 mila saranno nella scuola.
Se finora tutte le riforme erano partite dal liceo per «scendere» verso le elementari, la filosofia di Peillon è opposta: gli sforzi e i mezzi saranno concentrati sulla «primaire», specie per gli alunni che per ragioni di estrazione sociale o provenienza territoriale sono svantaggiati. Secondo le statistiche, alla fine delle elementari è scolasticamente «fragile» un ragazzino su quattro e questo ritardo, nell’implacabile logica selettiva della scuola francese, in seguito non viene colmato quasi mai.
Certo, l’Educazione nazionale è un tale mastodonte (850 mila insegnanti, 12 milioni di studenti) che chi la tocca deve armarsi di pazienza e prudenza. Peillon ha già scatenato un putiferio proponendo di passare alle elementari dalla settimana di quattro giorni (ovviamente pieni) a quattro giorni e mezzo. E anche il dibattito sulla sua legge si sta svolgendo in un’atmosfera da per chi suona la campana, anzi la campanella. La destra giudica la riforma «ideologica» e «chiacchierona» e cerca di soffocarla sotto 1.400 emendamenti. La gauche più a gauche la trova non abbastanza audace e non la voterà. I Verdi avevano addirittura proposto di vietare i voti alle elementari, ma il loro emendamento è stato respinto. I voti restano, la bocciatura no.

La Stampa 18.3.13
“Aiutarli nelle scelte invece di punirli”
Gavosto: da noi penalizzati gli immigrati
intervista di Flavia Amabile


Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: perché questa decisione della Francia? Davvero bocciare non serve?
«È dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi non aiuta. Chi aveva un percorso difficile continua ad averlo anche dopo essere stato bocciato, e spesso viene bocciato di nuovo. A volte, se può, abbandona del tutto. C’è stata una presa di posizione molto netta su questo punto anche da parte dell’Ocse: non è questo lo strumento migliore per evitare lo spreco di risorse umane».
In Italia siamo un po’ troppo buonisti però, dicono in tanti.
«In Italia il tasso di bocciature è insignificante alle elementari, è intorno al 4% alle medie e sale invece al 10% alle superiori ma con tassi anche del 17% per chi frequenta i primi anni delle superiori».
Insomma nella scuola dell’obbligo si boccia poco.
«Si bocciano soprattutto gli immigrati. Il loro rischio di non farcela può essere fino a 19 volte più elevato di quello che corre uno studente italiano. L’obbligo è esteso fino a 16 anni, però, dunque si devono frequentare almeno uno o due anni di superiori».
Ed è a quel punto che inizia la selezione vera e propria.
«È giusto che ci sia severità, ma le bocciature si potrebbero evitare aiutando gli studenti a scegliere il percorso più adatto alle loro caratteristiche. E poi, organizzando attività di sostegno, corsi pomeridiani, o allungando il tempo della scuola anche al pomeriggio. È importante anche che il gruppo docente faccia agire i compagni di classe, lasciando che siano loro ad aiutare chi è più fragile».
Attività di sostegno, corsi pomeridiani e tempo allungato: bellissimo e irrealizzabile. Mancano i fondi.
«Verissimo, ma la realtà non cambia: bocciare è un fallimento della scuola, un arrendersi di fronte a un problema che non si è stati in grado di risolvere».

Corriere 18.3.13
Il discorso dell'«imperatore» Xi: lotta alla corruzione per la rinascita
«Ci batteremo con spirito indomito per il rilancio della nazione»
di Guido Santevecchi


PECHINO — La lunga marcia del passaggio dei poteri dalla quarta alla quinta generazione di leader della Cina comunista è compiuta. Al presidente Xi Jinping si è aggiunto il premier Li Keqiang. Ieri i due si sono presentati ai cinesi e al mondo. Xi con un discorso dal contenuto molto nazionalista ai tremila delegati del Congresso del popolo: promettendo di «portare avanti la grande causa del socialismo con caratteristiche cinesi» e di «battersi con spirito indomito per il grande rinascimento della nazione e il sogno cinese». Poi incitando «soldati e ufficiali dell'esercito a tenersi sempre pronti a combattere e vincere». E non dimenticando di attaccare ancora sul suo fronte preferito, quello della lotta alla corruzione: «Bisogna ripudiare risolutamente formalismo, burocratismo e stravaganza», ha detto. Ha concluso scomunicando anche «l'edonismo», vocabolo per il quale non pochi delegati arrivati dalle più lontane province dell'Impero di Mezzo avranno dovuto ricorrere al dizionario mandarino.
Li Keqiang, economista di 57 anni, si è concesso ai giornalisti in una conferenza stampa molto coreografica e molto di regime: nell'enorme sala tutta marmo e colonne smaltate di rosso, molti posti erano occupati da schiere di tizi vestiti di nero con auricolare da bodyguard, da sedicenti giornalisti cinesi che non prendevano appunti, hostess molto carine. Nessuna domanda a sorpresa, tutto era stato concordato. I giornalisti, anche quelli occidentali, servivano al nuovo capo del governo per annunciare la linea.
Al primo punto Li ha posto la riduzione del ruolo dello Stato. «Ci siamo imposti una rivoluzione per ridurre la presenza del governo, sapendo che dovremo scuotere interessi acquisiti e che questo sarà difficile. Ma io parlo con la gente e so quello che vuole: meno burocrazia. Prometto che la ridimensioneremo drasticamente, cancelleremo un terzo delle autorizzazioni amministrative necessarie all'attività economica privata. E prometto che taglieremo le nostre spese, da quelle per le auto pubbliche ai viaggi, e non costruiremo nuovi palazzi governativi». La Cina spende per la macchina burocratica circa 140 miliardi di euro l'anno e si rivolge soprattutto a multinazionali globalizzate (che dovranno rifare i conti).
Li ha detto che l'altra priorità sarà la crescita: «Puntiamo a mantenerla stabile al 7,5% nei prossimi dieci anni». Ma uno dei guasti della corsa per diventare seconda potenza economica del mondo è stato il grande aumento della diseguaglianza sociale. Secondo i dati Onu, il 13% dei cinesi vive ancora con meno di un euro al giorno. Per ridurre il divario tra popolazione cittadina e contadini la ricetta è l'urbanizzazione. I pianificatori del regime vogliono portare altri 400 milioni di cinesi in città nei prossimi dieci anni. Il governo promette di investire 40 trilioni di yuan per costruire città medie (500 mila-1 milione di abitanti) e piccole (meno di mezzo milione). Questa spesa in infrastrutture permetterà, secondo i calcoli dei consiglieri di Li, di sostenere la domanda interna.
Un giornalista cinese ha chiesto (gli è stato «suggerito» di chiedere) se finirà il sistema dei campi di lavoro rieducativi, i famigerati laojiao: «Ci stiamo lavorando, entro l'anno la riforma dovrebbe essere pronta».
Altra domanda: ha visto la nebbia sporca che avvolge Pechino stamattina? «Ho visto oggi e ho visto in tutti questi giorni e so che è così in tutta la Cina orientale. Non dobbiamo più inseguire la crescita a spese dell'ambiente», ha risposto in tono grave il premier. E ha concluso in modo filosofico: «Non è buono essere poveri in un bell'ambiente, ma non è buono neanche essere ricchi in un ambiente degradato. E in definitiva respiriamo tutti la stessa aria, poveri, ricchi e governanti».
Al corrispondente dell'Associated Press Usa è stato consentito di sollevare il tema dell'hackeraggio cinese ai danni di Washington. Li è stato conciliante: «Ci trattate da presunti colpevoli, invece di scambiarci accuse sarebbe meglio collaborare con idee concrete per la sicurezza cibernetica».
Tempo scaduto. Ma Li, magnanimo, s'è offerto di porsi una domanda da solo: la Cina avrà una politica estera aggressiva nel Pacifico? «No, perché noi abbiamo sofferto per colpa di altri in diverse epoche. Ma tra atteggiamenti pacifici e difesa dell'integrità territoriale della Cina non c'è contraddizione». E sorridendo e salutando con ampi gesti è uscito.

«Nel 2006 è stato rivelato che le sacche di sangue donato dagli africani venivano gettate via per paura che fossero contaminate con il virus dell'Hiv, pochi mesi fa che le donne nei campi di transito erano state costrette a lasciarsi iniettare dosi di Depo-Provera, un contraccettivo a lungo termine»
Corriere 18.3.13
Obama e Miss Israele, metti una sera a cena
La bellissima ebrea etiope invitata alla serata ufficiale: «Il presidente, il mio modello»
di Davide Frattini


TEL AVIV — La sua agente starà ad aspettarla nel parcheggio come una madre al primo appuntamento della figlia, come la madre che Yityish ha sepolto in Etiopia. Hanno cercato di ottenere un secondo invito, un altro posto alla tavola più ambita, quella della cena in onore di Barack Obama allestita alla residenza di Shimon Peres, il presidente israeliano.
Più eccitata che impaurita, la ventunenne Yityish Aynaw dovrà cavarsela da sola. Prima di giovedì sera le lezioni di inglese sono intensificate, anche se non ha ancora pensato quale frase potrebbe dire al presidente americano. Che l'ha voluta inserire nella lista dei centoventi ospiti, tra ministri, ex direttori del Mossad, generali e celebrità da più tempo di lei che lo è diventata meno di un mese fa, quando è stata eletta Miss Israele, la prima ragazza di origine etiope a vincere il titolo assegnato da 63 anni (il concorso è nato due anni dopo lo Stato ebraico). «Abbiamo una storia simile — commenta —. Anche Obama ha dovuto conquistarsi tutto da solo, è stata dura per lui come è stata dura per me».
Durante le finali ha battuto le altre 19 concorrenti — ha spiegato l'organizzatrice Iris Cohen alla rivista Tablet — per l'attitudine («non era la più bella, ma quando sale sul palcoscenico non puoi non notarla, è alta quasi 1 metro e 80») e per le frasi che hanno colpito i giudici. Come eroe ha scelto Martin Luther King e all'ambasciata americana non può essere sfuggito.
Obama arriva mercoledì in Israele per un'operazione fascino, così ha chiesto di parlare agli studenti delle università invece che davanti ai parlamentari della Knesset. Non porta un piano di pace dettagliato — ripetono i portavoce della Casa Bianca — vuole rassicurare Benjamin Netanyahu di essere pronto a intervenire per impedire che l'Iran costruisca la bomba atomica. I tempi (e le linee rosse che Teheran non deve superare) restano però quelli definiti da Washington: l'obiettivo della missione è strappare al primo ministro appena reinsediato la promessa di aspettare.
Nel 2003 Yityish ha lasciato le montagne di Gondar dove i Bet Israel (Casa d'Israele) hanno sempre pregato di «poter rivedere le colline di Gerusalemme» e con il fratello ha raggiunto la nonna a Netanya, sulla costa a nord di Tel Aviv. Il padre è morto in guerra quando aveva 2 anni, la madre di malattia quando ne aveva 10. «Ho usato i soldi messi da parte durante il militare per volare ad Addis Abeba e visitare la tomba di mia mamma. Era devastata come il resto del cimitero, sono rimasta finché non l'hanno sistemata».
Nell'ufficio di Bat Cohen, la sua agente, sta appesa una foto in bianco e nero di Golda Meir, scarpe sportive e impermeabile, la prima (e ancora unica) donna a ricevere l'incarico di primo ministro proprio il 17 marzo di 44 anni fa. «La ammiro perché è stata capace di ammettere gli errori commessi durante la guerra del 1973 e di dimettersi». Da allora — sostiene Yityish — le israeliane hanno conquistato sempre di più la parità e porta come esempio il suo periodo da sergente nell'esercito: «Addestravo i maschi e tutti quelli intorno a me erano maschi, mi rispettavano e la mia squadra era tra le migliori».
Sono passati quasi trent'anni dai primi voli organizzati dai servizi segreti che hanno portato gli ebrei etiopi nel Paese. Non la disturba che ci sia voluto così tanto tempo per eleggere una reginetta e non pensa che gli israeliani siano razzisti. Nel 2006 è stato rivelato che le sacche di sangue donato dagli africani venivano gettate via per paura che fossero contaminate con il virus dell'Hiv, pochi mesi fa che le donne nei campi di transito erano state costrette a lasciarsi iniettare dosi di Depo-Provera, un contraccettivo a lungo termine.
«Anche la nostra comunità ha bisogno di aprirsi, spero che le storie come la mia aiutino a integrarci senza dimenticare chi siamo e da dove veniamo». Per questo non ha voluto cambiare il suo nome, come hanno fatto e fanno altri immigrati: Yityish in amarico vuol dire «guardare al futuro».

Repubblica 18.3.13
Israele Usa, quasi amici
Sorrisi e cordialità, ma il vecchio amore è quasi un ricordo
di Bernardo Valli


Il primo ministro israeliano, Menachem Begin, giudicò unashutzpah, insolenza in ebraico, il perentorio invito di Jimmy Carter. Il presidente americano gli aveva intimato di firmare gli accordi di Camp David, riguardanti la riconsegna all’Egitto del Sinai occupato durante la guerra del ‘67. Alle parole di Carter («Adesso o mai»), a Begin montò il sangue alla testa, al punto che la visita del presidente americano in Israele rischiò di prendere una cattiva piega, e di mettere in crisi i rapporti tra lo Stato ebraico e la superpotenza. Due alleati di ferro. Questa accadde 34 anni fa, nel mese di marzo, e non è certo casuale che proprio alcune ore fa, due giorni prima dell’arrivo di Barack Obama a Gerusalemme, gli Archivi di Stato israeliani abbiano rivelato i verbali (finora segreti) del Consiglio dei ministri in cui Begin espresse la sua collera durante la visita di un altro presidente democratico non troppo gradito a Israele.
Più che una coincidenza fortuita, la pubblicazione di quei verbali sembra adombrare il pericolo che, al pari di quello di Carter, il viaggio di Obama possa suscitare la collera, sia pur contenuta come quella di Begin, di fronte a un’insolenza americana. Quale sarebbe una eccessiva insistenza sulla questione palestinese: vale a dire sui negoziati oggi a livello zero, sulla contrastata (o addirittura sfumata) soluzione dei due Stati, e sull’annesso, essenziale problema degli insediamenti israeliani nei territori occupati di Cisgiordania.
Barack Obama non può farsi illusioni. Sa benissimo che in Israele è considerato, a memoria d’uomo, il meno amichevole dei presidenti americani. E non solo perché tra i suoi nomi c’è anche quello di Hussein. I suoi rapporti con Benyamin Netanyahu, il primo ministro appena rieletto, non potrebbero essere più freddi. Al contrario di Begin, che espresse la sua collera nei confronti di Carter in un consiglio dei ministri a porte chiuse e che poi fini col firmare gli accordi di Camp David, Netanyahu è andato a esprimere la sua aperta sfiducia in Obama negli Stati Uniti appoggiando in pubbliche manifestazioni
il suo avversario, Mitt Romney, durante la campagna per la Casa Bianca dell’anno scorso.
Tuttavia il presidente americano esprimerà amicizia e solidarietà allo Stato ebraico, e insisterà sull’indissolubilità del legame tra l’America e Israele, senza dimenticare la promessa di impedire all’Iran di realizzare armi nucleari. In una recente intervista a una televisione israeliana Obama ha valutato a un anno il tempo necessario a Teheran per raggiungere l’obiettivo atomico attribuito agli ayatollah. E il pronostico é risuonato a Gerusalemme come un impegno ad agire entro quella data se fosse necessario. Insomma parole di buona volontà, anche se non vincolanti, alla vigilia del viaggio. Netanyahu ricambierà esprimendo gratitudine per la comprensione americana nella recente azione israeliana contro i palestinesi di Gaza e per il contributo tecnico all’Iron Dome, lo scudo difensivo anti-razzi creato da Israele.
Ci sarà insomma un momento dedicato alla liturgia, al fine di celebrare l’alleanza tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico, più che l’intesa politica tra la Casa Bianca e il governo israeliano. La prima, l’alleanza tra la superpotenza e il piccolo ma efficace Paese, visto come un “fortino” occidentale nel Medio Oriente insicuro, è strategicamente irrinunciabile. Ed è basata anche su sentimenti tenuti vivi dalla indimenticabile tragedia ebraica del Novecento. Né si può escludere la solidarietà per dei coloni in terra ostile, che ricordano agli americani la loro non tanto remota storia.
Se non proprio inquinata, l’intesa tra chi governa a Washington e a Gerusalemme è nevrotizzata, tormentata, dalla questione palestinese. A renderla tale è la situazione in Cisgiordania, dove da quasi mezzo secolo le forze d’occupazione, militari e poliziesche, di un Paese con istituzioni e pratiche democratiche al suo interno, nega i diritti essenziali alla popolazione palestinese. I riflessi sul mondo arabo avvelenano i rapporti con la super potenza, alleata di Israele. In sintesi è il dramma di una terra contesa da due popoli. Un dramma che rifiuta il compromesso. Quindi la ragione, che, come dice Amos Oz, deve sempre condurre a valutare l’opinione del-l’altro, chiunque sia.
In concreto l’interesse strategico dell’alleanza ha prevalso e prevale sull’incertezza dell’intesa politica tra Casa Bianca e governo israeliano. Dopo le pubbliche assicurazioni sulla solidità del rapporto tra i due paesi, Obama e Netanyahu arriveranno comunque a verità sgradevoli. Durante il primo mandato il presidente americano, dimenticando il promettente discorso iniziale del Cairo, si è piegato di fronte a Netanyahu, o ha schivato la sua riluttanza a far avanzare il processo di pace, e il suo rifiuto di mettere fine all’espansione delle colonie nei territori occupati, come chiesto dalla Casa Bianca. Obama non si è prodigato per smuovere quel logorante immobilismo e ha subito la disattenzione o gli sgarbi di Netanyahu. I difensori di Obama sostengono che la situazione mediorientale (l’abbandono dell’Iraq tutt’altro che pacificato, la guerra civile siriana, e l’avanzata dell’Iran verso il nucleare) ha relegato in seconda posizione la questione israelo- palestinese.
Barack Obama non arriva a Gerusalemme con un nuovo piano per la coabitazione tra due Stati, quindi per la creazione di un vero Stato palestinese a fianco di quello israeliano, che resta l’obiettivo dichiarato di larga parte della società internazionale. Si limiterà a rispolverare le proposte di Clinton. Ma non troverà un terreno favorevole. A Ramallah, la provvisoria capitale dell’Autorità palestinese, dove farà una tappa importante, non incrocerà soltanto sorrisi. Gli Stati Uniti hanno tolto mezzo miliardo di dollari di aiuti dopo la promozione della Palestina a Stato osservatore all’Onu, che per Washington doveva essere raggiunta attraverso un negoziato con Israele e non con una singola candidatura. La conseguenza è che i funzionari palestinesi stentano a ricevere gli stipendi a fine mese. A Gerusalemme Obama trova un primo ministro indebolito dall’ultimo voto e con un governo non particolarmente interessato a creare uno Stato palestinese.
Nel 2009 Benyamin Netanyahu dichiarò nel corso di una conferenza a Bar-Ilan, la più americana delle università israeliane, di condividere l’idea dei due Stati. Da allora non si è mai più espresso con entusiasmo in favore di quella soluzione. E due anni dopo, parlando al Congresso di Washington, disse tra gli applausi che Israele non avrebbe mai rinunciato all’intera sovranità su Gerusalemme. E questo escludeva di fatto i due Stati, poiché i palestinesi non accetterebbero mai una Palestina senza una presenza a Gerusalemme. Nel frattempo le elezioni di gennaio hanno condotto alla faticosa formazione del 33esimo governo di Israele (il terzo con Netanyahu primo ministro) in cui sono fortemente rappresentati i coloni di Cisgiordania, i più tenaci oppositori di uno Stato palestinese.
Tutti i partiti che lo compongono, ad eccezione della piccola formazione di Tizpi Livni, l’ex ministro degli Esteri, non tengono in considerazione l’idea dominante fuori dai confini di Israele, e ufficialmente sostenuta da Barak Obama. Il partito di Benyamin Netanyahu (Likud), come quello dell’alleato Avigdor Liebermann (Beiteinu), sono molto più decisi dello sfuggente primo ministro nell’escludere uno Stato palestinese. In quanto al partito del giornalista Yair Lapid (Yesh Atid), grande sorpresa del voto di gennaio, otterrà i vantaggi fiscali per i suoi elettori delle classi medie, ma lascerà campo libero a Naftali Bennet (Habayit Hayehudi), fervente religioso e re dell’informatica, ma soprattutto guida dei coloni e favorevole alla loro moltiplicazione sul territorio che dovrebbe essere quello della futura Palestina. Il governo che accoglierà Barack
Obama è probabilmente il più a destra nella storia di Israele. E’ dominato da ebrei askenaziti, originari dell’Europa orientale, laici, e per lo più appartenenti a classi agiate. Sono un cocktail di modernità e di intransigenza.
L’idea di uno Stato unico a lungo tramontata, riemerge a sinistra e a destra, con motivazioni e interessi opposti. Gli estremisti dell’uno e dell’altro campo immaginano, sognano, uno Stato tutto musulmano, o uno Stato tutto ebraico. Entrambi gli obiettivi implicano odio, egemonia, sopraffazione. Il progetto di uno Stato unico binazionale apre la porta a progetti più elaborati. Per Barack Obama sarà facile spiegare che uno Stato binazionale sarebbe pericoloso soprattutto per Israele, tenendo conto del dinamismo demografico palestinese. Quindi la soluzione dei due Stati, con tutte le garanzie per gli uni e per gli altri, resta la più praticabile.
Ostacoli enormi, come lo smantellamento delle colonie israeliane in territorio palestinese, potrebbero essere superati, mettendo quelle colonie sotto la sovranità palestinese ma con giurisdizioni particolari. Sono opzioni approssimative, ispirate da un irrilevante desiderio di imporre la ragione. Tanto non troveranno spazio nei giorni di Obama a Gerusalemme e a Ramallah. Dove prevalgono l’intransigenza, la frustrazione e la diffidenza. Ma il presidente americano deve affrontare una tragedia che finora ha trascurato e che è una polveriera in attesa di esplodere.

Repubblica 18.3.13
Obama il pragmatico e l’eterno fantasma della pace impossibile
di Federico Rampini

Quando Barack Obama salirà sull’Air Force One domani sera, per la prima volta da quando lui è alla Casa Bianca i suoi piloti avranno come destinazione l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Nel primo mandato Obama fece un solo viaggio in quell’area: Cairo, giugno 2009. Aveva visitato Israele quand’era solo senatore, nel 2008. Questa “dimenticanza” gli è valsa nella destra Usa l’accusa di essere il presidente meno filo-israeliano nella storia degli Stati Uniti. Si spiega così l’attenzione che circonda questo viaggio: nonostante sia breve (tre giorni comprese le tappe in Cisgiordania e in Giordania), e malgrado la Casa Bianca abbia escluso ogni tentativo di rilanciare un “processo di pace”, almeno con questo nome.
Minimizzare le aspettative è la parola d’ordine a Washington. Eppure questa visita avrà un’importanza legata a profondi cambiamenti di scenario. Obama arriva in Israele dopo le primavere arabe – a cui lui stesso contribuì con quel discorso sull’Islam all’università del Cairo, poi con la decisione strategica di “mollare” il dittatore egiziano Hosni Mubarak – che hanno stravolto equilibri antichi e il cui esito finale è tuttora incerto. Tra lui e il premier israeliano Benjamin Netanyahu i rapporti di forze sono mutati.
«Strana coppia», li definisce l’esperto di Medio Oriente Aaron David Miller del Woodrow Wilson International Center di Washington. «Ciascuno di loro — sostiene — ha tifato per la sconfitta dell’altro ». Nel caso di Netanyahu il tifo fu evidente a favore di Mitt Romney nell’elezione presidenziale del 2012. Oggi Obama è due volte più forte: perché in carica per altri quattro anni, e perché in un secondo mandato non ha bisogno di cercare voti tra le varie constituency.
Mentre Netanyahu è indebolito dalle sue elezioni.
A questo si aggiunge un “sisma geo-economico” di cui ancora si stenta a capire la portata. L’America è alle soglie dell’autosufficienza energetica, ha quasi smesso di importare petrolio dal Medio Oriente, ben presto le sue risorse supereranno quelle dell’Arabia saudita e gli Usa diventeranno esportatore netto. Questo non significa che l’America voglia ritirarsi: il ruolo di leader mondiale le impone di restare l’arbitro di ultima istanza in Medio Oriente, anche se a dipendere da quell’area per il petrolio saranno solo gli alleati europei, la Cina e l’India. Ma il fatto che l’America non dipenda più dal greggio arabo è una rivoluzione, dalle conseguenze profonde sul suo ruolo. Il basso profilo di Obama alla sua prima visita presidenziale in Medio Oriente provoca ironia. «E’ il primo presidente a fare solo turismo in Israele? » si è chiesto il columnist del New York Times, Thomas Friedman. L’itinerario include incontri col presidente palestinese Abu Mazen e ad Amman col re di Giordania, ma ha delle omissioni significative: a Gerusalemme non andrà alla Knesset (il Parlamento) preferendo parlare in un luogo meno politico come il centro congressi; visiterà la chiesa della Natività a Betlemme ma non il Muro del Pianto né la moschea Al Aqsa. Tappa obbligata il memoriale dell’Olocausto, Yad Vashem. Al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv passerà in ispezione una batteria anti-missili, prova del concreto sostegno dell’Amministrazione Obama all’Iron Dome (“cupola d’acciaio”), la difesa d’Israele contro i missili di Hamas, e quelli che un giorno potrebbero piovere dall’Iran, dotati di testata nucleare. L’Iran sarà in cima ai colloqui Obama-Netanyahu. Il presidente americano ribadirà l’impegno a difendere Israele contro l’aggressione; e la sua determinazione a impedire che Teheran si doti della bomba. Obama non dimentica che Netanyahu minacciò di sconvolgere la pace mondiale — e l’elezione presidenziale americana — con un attacco preventivo all’Iran nell’estate-autunno scorso. Sulla questione palestinese la Casa Bianca conferma che non avanzerà nuove proposte. I più autorevoli collaboratori di Obama però citano il documentario israeliano “The Gatekeepers” presentato agli Oscar e uscito nelle sale Usa: un’impressionante raccolta d’interviste con gli ex capi del Shin Bet (servizi segreti israeliani) che ammettono il fallimento della politica seguita finora verso i palestinesi, e indicano il dialogo come unica soluzione. L’opinionista israeliano Ari Shavit sul giornale Haaretz assegna un ruolo decisivo a Obama per promuovere una Nuova Pace, spingendo in quattro direzioni: «Un congelamento dei nuovi insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania. Una cooperazione tra Egitto e Israele nelle reti idriche. Un accordo Turchia-Israele sul gas. Un piano saudita-israeliano- palestinese per finanziare con le risorse del Golfo la rinascita pacifica della Palestina». Le facili ironie sul “turismo” di Obama dimenticano i ripetuti fallimenti di tutti i suoi predecessori che si erano dati obiettivi ambiziosi.
«Quattro presidenti americani — ricorda Rashid Khalidi, esperto del mondo arabo alla Columbia University — hanno voluto mediare un piano di pace, il risultato è che in 34 anni la pace è diventata più lontana e sfuggente di prima. Nel 1991, prima degli accordi di Oslo, la maggioranza dei palestinesi poteva ancora viaggiare liberamente, oggi un’intera generazione di palestinesi non ha mai potuto visitare Gerusalemme». Obama parte con aspettative ridotte, e un’agenda politica dominata dalla ripresa economica interna. In questo forse è più realistico di Jimmy Carter e Bill Clinton che vollero “passare alla storia”, e in Medio Oriente hanno lasciato un’impronta effimera.

Corriere 18.3.13
Disney insegna: cogito, ergo Topo
Metafisica, etica, epistemologia. Sì, c'è filosofia in quei fumetti
di Dario Fertilio


Che il mondo di Topolino sia una cosa seria, oggi si potrebbe negarlo soltanto con sprezzo del ridicolo. Sono troppe ormai le dimensioni, interpretazioni, metamorfosi riconosciute dell'universo disneyano; a ottant'anni dal Big Bang esso si è trasformato definitivamente in metafumetto, deposito di idee e suggestioni, tessuto connettivo dei miti contemporanei. Si illude insomma, la potente Walt Disney Company, se crede di governarne insindacabilmente i diritti: in realtà il Topo e i suoi amici già le sfuggono e sempre più in futuro se ne renderanno autonomi, alla stregua di un patrimonio dell'immaginazione collettiva degno della protezione dell'Unesco.
Così, quando un filosofo di prima grandezza come Giulio Giorello decide di affrontare l'universo di Pippo, Pluto e Macchia Nera — il saggio che ha scritto con Ilaria Cozzaglio e pubblicato dalla Mursia è intitolato La filosofia di Topolino — non si deve affatto pensare alla civetteria pop di un intellettuale che «prenda spunto» da personaggi immaginari dei fumetti per parlare d'altro, o intenda usarli allo scopo di rendere più accattivanti i concetti difficili. Tutto il contrario: Giulio Giorello è in pieno, irrevocabilmente dentro il mondo che intende descrivere: è insomma un vero e proprio abitante di Topolinia.
E qui dobbiamo rendere omaggio, insieme alla sua incredibile capacità di immedesimazione nei personaggi, alla capacità dell'autore di riviverli dall'interno, confrontandoli con i grandi classici del sapere, allo scopo di farne risaltare le profonde motivazioni. Quando Giorello affronta il tema faustiano dell'eterno femminino, centrandolo sul carattere di Minni, è rigorosamente filologico. Se si dedica al professor Enigm, inventore eccentrico rifugiatosi nell'iperspazio per nascondere le sue pericolose scoperte atomiche, il parallelo che traccia con la scomparsa dello scienziato Majorana possiede la stessa serietà di un saggio storico. Le indagini sulla natura dei fantasmi, della criminalità, dei selvaggi, dei diritti degli animali, dei viaggi nel tempo o delle discese nell'inconscio — tutti riferimenti a classiche storie topoliniane che gli appassionati riconosceranno al primo accenno e che persino i lettori più tiepidi qui si vedono spiegare nella maniera più semplice e convincente — il tutto si sussegue certo con profondità umanistica, ma anche con intatta allegria fumettistica.
Se al centro del discorso c'è «Topolino giornalista», il punto capitale riguarda sia il dovere della verità che il diritto all'errore. La celebre avventura che l'eroe dalle orecchie tonde vive al fianco dell'ambiguo idraulico Giuseppe Tubi riporta senz'ombra d'ironia al complesso rapporto fra Leopold Bloom e Dedalus nell'Ulisse di Joyce. La «Casa stregata» in cui Pippo e Topolino si trovano a tu per tu con i fantasmi rivela la matrice speculativa di Lucrezio e Spinoza, nel senso che un autentico pensiero filosofico non può delegare la spiegazione dei fatti a cause soprannaturali. La «Lampada di Aladino» non si rivela una favoletta divertente, ma il modo in cui il nostro razionalistico eroe rifiuta l'idea che il bene possa essere imposto all'umanità attraverso la magia. L'incontro con Giovedì, piccolo selvaggio irriducibile alla civiltà occidentale, non è solo un'ironica allusione letteraria al Venerdì di Robinson Crusoe, ma una manifestazione moderna di relativismo, intesa come accettazione della insopprimibile differenza tra le culture. La battaglia d'amore per conquistare il cuore di Minni, in «Topolino e l'illusionista», è puro proseguimento della politica con altri mezzi, e insieme rivincita della realtà sull'apparenza. Un'altra avventura famosa, quella della «Casa misteriosa», ha a che fare con il tema della differenza femminile e del suo rapporto con il crimine. La storia che si svolge nel «deserto del nulla», annunciato dallo sconvolgente cartello «Niente. Fine della pista», si tinge addirittura di riflessi agnostici, se non apertamente antimetafisici. E qui dovremmo fermarci, per non lasciarci condurre da Giorello in un labirinto disneyano senza ritorno.
Vediamo di trarre qualche conclusione, riguardo al Topo. Giorello vede in lui un genio perturbatore, «capace di mettere in discussione la costellazione degli stereotipi», senza aver nulla da invidiare a Bertrand Russell, Claude Lévy-Strauss o a Paul Feyerabend. Lo segue con amore, avventura dopo avventura, trovandolo costantemente in precario equilibrio fra le sue due nature topesca ed umana, «sempre più dubbioso sul significato dell'Universo e il complicato mondo di idee che uomini e topi hanno costruito». Giorello fa di Micky Mouse, insomma, un intellettuale liberal a tutto tondo. Ma è troppo, o troppo poco, definirlo così? Può bastare la filosofia della scienza, o magari una spruzzata di Popper, per definire la sua anima (posto che i personaggi dei fumetti ne abbiano una)?
E qui il dubbio ritorna: non potrebbero esistere, del misterioso e ineffabile Topo, mille altre dimensioni e incarnazioni? Non è un po' icona magica, modello d'arte pop, materia per la psicanalisi, archetipo dell'eroismo? Non è lui, il portatore di una nostalgia struggente per l'infanzia, la vera guida di Giulio Giorello quando confessa nell'ultima pagina di avere «negli occhi e nel cuore il suo sorriso, un'espressione — anche di fronte al pericolo — ben lontana dal ghigno di qualsiasi Gambadilegno, ma così incredibilmente umana?». Insomma il meno che si possa promettere ai lettori di questo libro è una certezza: dopo averlo letto, per loro Topolino non sarà più lo stesso.

Repubblica 18.3.13
Quando Platone parla proprio di noi
Badiou ha riscritto la “Repubblica”. Con un occhio all’oggi
di Roberto Esposito


Come cambia la politica – i suoi soggetti, i suoi strumenti, i suoi contesti? È questa la domanda che in maniera martellante ci insegue dagli schermi televisivi, dalle pagine dei quotidiani, dalla produzione saggistica. Fine dei partiti, crisi della rappresentanza, populismo telematico sono alcune delle categorie attraverso le quali sociologia e politologia cercano di stare al passo col mutamento in una rincorsa ossessiva del nuovo. Ma non è la domanda della filosofia. Ad essa non interessa ciò che cambia, ma ciò che non cambia.
O, forse meglio, ciò che, in una temporalità sempre più schiacciata sulla dimensione del futuro, permane stabile e si ripete. Se si prendono i tre maggiori pensatori novecenteschi della politica, Carl Schmitt, Hannah Arendt e Michel Foucault, questo è l’interrogativo che muove la loro ricerca: quale è l’essenza della politica? – si chiede il primo nel suo celebre saggio degli anni Venti. Che cosa è la politica?, incalza la Arendt negli anni Cinquanta. Come funziona il potere? si domanda Foucault negli anni Settanta. Nessuno di loro, naturalmente, trascura le trasformazioni storico-concettuali che differenziano radicalmente la scena della polisgreca da quella dello Stato moderno, e questo dall’attuale regime biopolitico. Ma con lo sguardo puntato al rapporto genealogico tra origine ed attualità. È a partire da questa prospettiva che va colto il rilievo del lavoro filosofico di Alain Badiou – uno dei maggiori pensatori francesi e non solo, già allievo di Althusser e Lacan – e, in particolare, della sua ritrascrizione della Repubblica di Platone (tradotta adesso dal Ponte alle Grazie, per la cura di Ilaria Bussoni e con una limpida introduzione di Livio Boni). In essa – alla fine di un lungo itinerario che ha trovato ne L’Essere e l’evento (Il Melangolo) l’apice teoretico e ne L’ipotesi comunista (Cronopio) la punta più acuminata – Badiou riconosce nel grande dialogo platonico qualcosa che oltrepassa il suo contesto storico, per parlarci in maniera, appunto, essenziale. Si tratta del rapporto metafisico tra politica, verità e pensiero. Dove, però, il termine “metafisica” non allude a un piano trascendente e superiore a quello dell’esperienza, ma a un nucleo universale che lo attraversa e lo mobilita dall’interno. Contro l’interpretazione teologica, ma anche contro quella razionalistica di Platone, Badiou difende una lettura dialettica, intenta a coniugare il carattere materialistico della conoscenza sensibile con quello, universale, della verità.
Naturalmente l’autore conosce perfettamente il carattere aristocratico e dunque esplicitamente antidemocratico della concezione platonica. Ma è proprio tale critica della democrazia, inevitabilmente legata al proprio tempo, a mettere il dialogo di Platone in risonanza con la contemporaneità. Nella sua polemica contro gli eccessi “populistici” del demos, non troviamo qualcosa che continua a interpellarci da vicino? E il rifiuto della proprietà privata, aspramente stigmatizzato da una diffusa tradizione antiplatonica, non contiene un riferimento, certo problematico, alla nostra idea di “bene comune”? Ovviamente per collegare, traversando le epoche, un testo originario come quello platonico alle dinamiche del nostro tempo, occorre operare una sorta di sottrazione del pensiero alla storia in cui si genera e anche a quella cui sembra dar luogo. Ciò spiega come il comunismo, di cui Badiou individua la radice genealogica proprio nel dialogo platonico, possa essere valutato più che in riferimento ai suoi effetti storici, in relazione a una verità metastorica. E cioè a quella intenzione emancipativa, fondata sull’idea universale di giustizia, poi rovesciata e mortificata in tutte le sue espressioni storiche.
Come l’idea di uguaglianza, anche la tendenza totalitaria – che autori come Popper e perfino Arendt hanno voluto leggere nella concezione platonica – è una modalità metafisica che tende a risorgere come uno spettro non solo all’esterno, ma anche all’interno della democrazia, tutte le volte che il rapporto tra politica e verità si cristallizza in una forma bloccata e univoca. Ciò, secondo Badiou, vale per il fascismo, per il comunismo, ma anche, certo in forma diversa, per l’attuale capitalismo finanziario, che esclude di per sé tutto ciò che non rientra all’interno dei propri presupposti.
Cercare un rapporto con la verità nell’orizzonte della politica non significa oggettivarla in un particolare contenuto, così da cancellare, come errore, tutti gli altri. Il filosofo deve confutare il sofista che è in lui, ma senza mai pensare di poterlo eliminare. In questo senso, secondo l’insegnamento di Lacan, Badiou può sostenere che non soltanto la verità è vuota, libera di accogliere gli eventi che scuotono la nostra esistenza, ma anche molteplice, come lo stesso essere delle cose, mai univoco e sempre plurale. È così che, pur assegnando all’universale tutti i diritti che il relativismo contemporaneo vorrebbe negargli, l’autore può salvare la logica del singolare, facendo ricorso anche alla teoria matematica degli insiemi di Cantor.
Nella sua godibilissima riscrittura della Repubblica Badiou non si limita a dar voce al suo lessico lacaniano – trasfor-mando ad esempio la caverna platonica in una sala cinematografica o chiamando Dio il Grande Altro –, ma vivacizza il dialogo con una serie di trovate sceniche che egli attinge dal proprio repertorio di drammaturgo. Riproporre oggi, riattualizzandolo, il gesto platonico vuol dire anche ripristinare la potenza creativa di un linguaggio filosofico sempre più appiattito sul lessico incolore della logica formale.

IL LIBRO La Repubblica di Platone di Alain Badiou (Ponte alle Grazie, pagg. 422, euro 28)

La Stampa 18.3.13
Stonehenge si rifà il look e riscrive la propria storia
Cimitero o luogo di guarigione? Litigio tra gli archeologi
di Claudio Gallo


Nonostante Stonehenge porti bene i suoi cinquemila anni, è tempo di fare qualche lavoretto per convogliare meglio la fiumana di turisti che arriva per contemplare uno dei pochi misteri rimasti in un mondo passato al setaccio con il microscopio. Gli studiosi infatti non riescono a mettersi d’accordo su quale fosse il suo utilizzo. Stravaganze e ufologie a parte, sono divisi in due principali scuole: chi dice che fu un luogo di sepoltura e chi lo interpreta come un recinto di guarigione, una specie di santuario di Ascelpio, una Lourdes preistorica.
Ogni anno arrivano nella piana di Salisbury, nel Sud dell’Inghilterra, un milione di visitatori. Per rendere il sito ancora più suggestivo (fondi permettendo in questo periodo di austerità nera), c’è il progetto di interrare la vicina strada per ampliare l’area e rendere il paesaggio più simile a quello antico. Sarà costruito un nuovo centro turistico a circa due chilometri dal cerchio di pietra.
Ma perché nel passato remoto tanti uomini da ogni parte del paese si riunirono al fondo dell’Inghilterra per mettere faticosamente insieme enormi pietre in modo che formassero un circolo con in mezzo cinque megaliti? La risposta più romantica e meno scientifica dice che Stonehenge fu costruita da Merlino per commemorare i cavalieri morti nella battaglia contro gli invasori sassoni. C’è anche chi ha avanzato l’ipotesi che il complesso fosse un osservatorio astronomico, dopo tutto esempi più recenti, dal Medio Oriente all’India, non mancano e il cielo era pur sempre l’orologio degli antichi.
Più o meno un mese fa il professor Michael Parker Pearson dell’University College di Londra ha avanzato una nuova spiegazione: è un cimitero d’élite, un luogo nel quale venivano sepolti i capitribù con i loro famigliari. «Era un luogo per i morti», ha concluso Michael Parker Pearson nel suo studio.
L’altro grande studioso britannico del monumento non è d’accordo per niente. Il professor Tim Darvill dell’università di Bournemounth è convinto che Stonehenge fosse invece una Lourdes megalitica. Gli ammalati arrivavano in quella pianura di erba smeraldina per curarsi con le allora celebri pietre blu portate del Galles. «Si trattava di un luogo per i vivi», ha ribattuto Tim Darvill.
Susan Greaney, storica dell’English Heritage fa il punto della situazione: «Non è che non conosciamo proprio niente. Sappiamo chi costruì il complesso e quando. Abbiamo una buona idea di come lo fecero. Ci resta da scoprire soltanto perché lo fecero».

La Stampa 18.3.13
Così il romanticismo si tinge di nero
Da Goya a Max Ernst, una grande mostra a Parigi propone un trionfo di spettri, streghe e figure luciferine entrate nel nostro immaginario
di Francesco Poli


Un trionfo di spettri, streghe, figure luciferine, scheletri, mostri bestiali, donne meduse, vampiri, eros e thanatos, paesaggi infernali, desolate lande cimiteriali, lugubri castelli, stanze da incubo. Il tutto per lo più immerso in atmosfere fosche e tenebrose. Questo inquietante e fantastico repertorio iconografico (ampiamente sfruttato ancora oggi nelle produzioni di film con effetti speciali, di serial televisivi, di cartoni animati e videogiochi del filone fantasy, horror e new gotic) è quello che la mostra «L’Ange du bizarre. Le romantisme noir de Goya à Max Ernst», al Musée d’Orsay, mette in scena, con un taglio storico critico e tematico ben definito.
Attraverso circa duecento opere, fra dipinti, sculture, disegni, incisioni, e anche film, che vanno dalla fine del XVIII secolo agli Anni 30/40 del XX, il percorso espositivo è scandito da tre principali fasi culturali artistiche legate al primo romanticismo, al simbolismo, e al surrealismo fra le due guerre. Il «romanticismo nero», che non rappresenta una tendenza precisa, ma fa riferimento in generale alla dimensione oscura e irrazionale, letteraria e artistica, del movimento, è una definizione che deriva dal magistrale saggio di Mario Praz La carne, la morte e il diavolo, mentre L’angelo del bizzarro è il titolo di un racconto di Poe. Per il titolo della mostra si poteva anche usare quello di una famosa incisione di Goya (esposta), Il sonno della ragione genera mostri, che sintetizza perfettamente la drammatica crisi dei valori dell’Illuminismo, e l’avvio della moderna percezione dei territori inesplorati dell’inconscio.
Il romanticismo nero nelle arti figurative è influenzato fortemente dalla produzione letteraria, a iniziare da quella di scrittori anglosassoni come Walpole, Mary Shelley, Ann Radcliffe e Poe, o tedeschi come Goethe (il Faust) e Hoffmann per arrivare fino a Barbey d’Aurevilly e a Bram Stoker autore di Dracula. Ed è proprio il vampiro della Transilvania, nella versione cinematografica di Murnau, che introduce il pubblico alla mostra, che inizia con una straordinaria sala dominata dall’ Incubo di Füssli del 1781, in cui è protagonista la donna addormentata su cui siede un mostro onirico. Insieme a quelle di Füssli troviamo opere di altri artisti fantastici inglesi come William Blake, con i suoi apocalittici disegni colorati, Samuel Coleman e John Martin, che in una grande composizione fiammeggiante illustra il Pandemonium descritto da Milton.
Si passa poi agli incubi, ai sabba di streghe e alle crudeltà inaudite illustrate da Goya nelle sue incisioni dei Capricci e dei Disastri della guerra, e nei dipinti, tra cui spicca una tremenda scena di cannibali danzanti. Particolarmente affascinante è la parte dedicata alla misteriosa solitudine, impregnata di suggestioni inquietanti, dei paesaggi nordici da quelli del primo romanticismo di Friedrich e Carus fino a quelli simbolisti di Böcklin, di Spillaert e di de Nuncques. La figura della donna, che Praz aveva definito «medusea», e cioè quella con connotazioni oscure, perverse, fatalmente distruttrici, è ben presente in varie versioni soprattutto nell’ambito del decadentismo simbolista: dalla sfolgorante crudeltà della Salomé di Moreau, al peccaminoso nudo avvolto da un serpente di von Stuck, dalla testa di Medusa di Böcklin alla Sfinge di Rops, fino ad arrivare al bacio vampiresco della donna con i capelli rossi di Munch. E sono presenti anche cadaveri e scheletri di ogni sorta, macabri e grotteschi, come nel caso di un disegno di Kubin dove si vede una pendola le cui lancette tagliano teste, oppure in quello altrettanto bizzarro di Duvocelle intitolato Cranio con occhi fuori dalle orbite e mani che si aggrappano a un muro .
La sezione dedicata al surrealismo documenta in modo abbastanza adeguato l’influenza dei temi del romanticismo nero nell’elaborazione dell’immaginario di vari artisti tra cui in particolare Max Ernst (i cui paesaggi in vari casi si ispirano a Böcklin), Dalí, Bellmer e Masson. Fonte fondamentale di ispirazione per i surrealisti è il marchese de Sade, autore rimasto nel passato sempre assolutamente all’indice, ma la cui sovversiva presenza sotterranea non mai stata soffocata del tutto.

L’ANGE DU BIZARRE.LE ROMANTISME NOIR DE GOYA À MAX ERNST PARIGI.MUSÉE D’ORSAY FINO AL 9 GIUGNO
"Oltre 200 opere sovente di ispirazione letteraria nelle sale del Musée d’Orsay Accanto a dipinti, disegni e bozzetti anche i film dell’espressionismo"