martedì 19 marzo 2013

l’Unità 19.3.13
Colle, domani i colloqui Bersani verso l’incarico
Le consultazioni inizieranno con Grasso e Boldrini, previsto anche un incontro con Ciampi
di Marcella Ciarnelli


ROMA Tutto il tempo necessario per valutare le diverse posizioni che i rappresentanti delle istituzioni e le forze politiche si accingono a illustrare da domani al presidente della Repubblica chiamato, in scadenza di mandato, a risolvere la situazione più complessa di questi anni. Il Paese ha bisogno di un governo nella pienezza dei suoi poteri. La crisi condiziona la vita degli italiani e non ha certo fatto passi indietro mentre il confronto (e lo scontro) tra le forze politiche occupa da troppo tempo la scena.
Il presidente Napolitano si avvia ad affrontare la strada in salita che dovrebbe avere come traguardo il necessario esecutivo. Quest’oggi dovrebbero essere completati i gruppi parlamentari e dovrebbero essere eletti coloro che li rappresentano, i capigruppo che da domani saranno consultati al Quirinale. E da queste nomine dipenderà anche l’orario in cui cominceranno i colloqui.
Prima dei partiti, al Colle saliranno i due neoeletti presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini. È in agenda anche un colloquio con l’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Poi toccherà ai partiti. Quelli di centrosinistra che sono maggioranza assoluta a Montecitorio e relativa a Palazzo Madama. La delegazione si preannuncia compatta e pronta ad illustrare al Capo dello Stato un programma di governo di profonda innovazione, di riforme irrinunciabili, di prospettiva. Il nome che sarà indicato a guidarlo, sembra confermato anche dagli eventi di questi giorni, è quello del candidato premier Pier Luigi Bersani.
Per quanto riguarda il centrodestra Pdl e Lega potrebbero, su loro richiesta, essere ascoltati in incontri separati. Ci sono state differenze sempre più sensibili in questi giorni tra gli alleati che una motivazione vera a ricucire i deteriorati rapporti l’avevano trovata solo nel nome della battaglia per Roberto Maroni al Pirellone. Toccherà quindi alle due novità di queste elezioni. La coalizione che si è composta nel nome di Mario Monti che, in vena di previsioni, si è sbilanciato in un «non sarà tanto presto» a proposito della costituzione del nuovo governo. Ed infine i Cinquestelle, il movimento di Beppe Grilllo che sarà, nel caso dovesse chiederlo, l’unico non parlamentare ad essere ricevuto nello studio alla Vetrata dal presidente Napolitano, cui lui non ha lesinato critiche tranne che quando si è trattato di vicenda personale, cioè quando il Capo dello Stato lo ha difeso in Germania dall’accusa di essere un clown.
Per la scansione degli appuntamenti dunque mancano le nomine dei capigruppo. Ma domani via alle consultazioni fino a giovedì. Poi, dopo la più che necessaria pausa di riflessione, Napolitano affiderà l’incarico, con molta probabilità al leader della coalizione di centrosinistra anche perché nessun altro può mettere sul tavolo una maggioranza diversa. D’altra parte dopo elezioni politiche un primo incarico non può essere che politico. Poi ci sono altre strade. Ma le variabili sono molte. All’incaricato toccherà trovare i numeri necessari.
Domenica Napolitano non sarà a Roma perché andrà con il presidente tedesco Gauck a Sant’Anna di Stazzema per commemorare le vittime dell’eccidio nazista. La lettera con la richiesta di quella comunità l’ha consegnata lo stesso presidente della Repubblica durante la sua recente visita in Germania.
Ieri incontri internazionali con i rappresentanti dei Paesi stranieri in Italia per partecipare quest’oggi alla cerimonia che darà il via ufficiale al papato di Francesco. I presidenti di Polonia, Brasile e Slovenia ed un lungo incontro con il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Non è mancato il riconoscimento all’Italia per l’impegno nelle missioni di pace né la conferma delle aspettative per il viaggio di Obama. «Speriamo con forza che verrà trovato un nuovo modo per aprire un processo di pace realmente efficace», ha detto Napolitano che alla sorpresa di Biden per la rapidità con cui i cardinali hanno eletto il Papa ha replicato con una battuta sugli affari interni: «Sono tempi più veloci della politica italiana».

La Stampa 19.3.13
Bersani, due leggi per Grillo
Incandidabilità e conflitto d’interessi, il segretario accelera. E punta a un mandato pieno
di Francesco Grignetti


Incassato il successo sulle presidenze delle Camere, ecco il passo successivo di Bersani: nuove leggi s’annunciano, sulla incandidabilità e sul conflitto di interessi. Misure severe, specie quelle che lascerebbero fuori dal Parlamento i condannati per molti più reati (anche il disastro ambientale) e senza le soglie d’oggi, che non possono non piacere ai grillini. Ma non dovrebbe dispiacere neanche un fortissimo giro di vite sul conflitto di interessi.
Il Pd insomma batte un altro colpo, con una legge che è palesemente un siluro contro Silvio Berlusconi. Chi altri, infatti, se non Lui, è l’emblema vivente del conflitto di interessi della politica italiana? E infatti il Cavaliere ha colto il messaggio e se n’è lamentato: «Altro che conflitto d’interesse e corruzione. Serve la ripresa economica e occorre aiutare le imprese», è quanto ha detto ai senatori Pdl. Per non dargli eccessivo peso, però, ha fatto spallucce: «Comunque è un problema che non mi riguarda, ho già dato tutto ai miei figli... ».
La proposta di legge di Bersani sul conflitto di interessi sarà uno degli 8 punti del programma di governo. Anzi, dato il peso politico e simbolico, sarà la sua proposta più qualificante. «La legge sul conflitto di interessi è al primo punto della nostra azione di governo».
Il Pd vuole riscrivere alcune regole di fondo: abolendo la vecchia legge Frattini (2004), si amplierebbero i controlli a tutti i titolari di cariche di governo, estendendo i poteri delle Authority, obbligando gli interessati a vendere le imprese oppure a congelare le proprie quote di proprietà in un “blind trust” nei casi minori, prevedendo poi una istruttoria preventiva e non solo a posteriori. Ma è sul cosiddetto ambito oggettivo che è nascosta la rivoluzione: attualmente a essere soci di società concessionarie pubbliche non c’è conflitto di interesse. Così non dovrebbe più essere.
Se poi si va a guardare il secondo ddl annunciato da Bersani, quello sulla incandidabilità, si scopre che c’è un capitoletto che sembra anch’esso scritto apposta per il Cavaliere: «Nel caso - scrivono - di soggetti legati allo Stato, alle Regioni o agli enti locali da particolari rapporti concessori o di finanziamento, l’ineleggibilità (o incompatibilità) opera anche indipendentemente dalla qualità formale di concessionario, ovvero dalla carica sociale rivestita dal soggetto interessato, dovendosi guardare anche al dato sostanziale della proprietà o del controllo della società o dell’impresa interessata». E chi è, guarda caso, sostanzialmente, anche se non formalmente, proprietario di alcune reti televisive che godono di una concessione da parte dello Stato? E non sarà una fortuita coincidenza che proprio in questi giorni la rivista “Micromega” abbia rilanciato il tema del conflitto di interessi, raccogliendo oltre 200 mila firme in poche settimane, sottolineando appunto l’interpretazione formalistica che finora ha garantito Berlusconi (il quale non risulta concessionario dello Stato né “in proprio” né in quanto “rappresentante legale di società”)?
Matteo Renzi appoggia la strategia del segretario: «La logica di andare all’attacco e non restare chiusi in difesa, regalando il gioco a Beppe Grillo, mi pare funzioni». La proposta Bersani piacerà anche all’Antitrust. «Una rivisitazione dell’attuale disciplina - scriveva il Garante in un Rapporto al Parlamento, appena depositato - può migliorare il funzionamento delle istituzioni e l’immagine-paese nelle sedi internazionali». Certo non l’attuale soluzione all’italiana «basata sul presupposto che la titolarità di situazioni patrimoniali in potenziale conflitto di interessi con l’esercizio di funzioni governative non può essere considerata un impedimento all’accesso alle relative cariche».

La Stampa 19.3.13
Ma Bersani resta un ostacolo per un accordo con i 5 Stelle
di Marcello Sorgi


Alla vigilia della consultazioni al Quirinale, che cominciano domani, Pierluigi Bersani, candidato all’incarico, ha deciso di congelare l’elezione dei capigruppo del Pd. Una seconda applicazione del «metodo Grasso-Boldrini», invocata da molti parlamentari, avrebbe dato il via a una gara dagli effetti imprevedibili, che il leader del partito che punta a formare un governo, seppure senza nascondersi le difficoltà, in un momento così delicato non poteva permettersi.
A salire sul Colle insieme con il segretario dovrebbero essere Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, presidenti dei deputati e dei senatori nella scorsa legislatura e candidati, ma solo per un giorno, alle presidenze delle Camere poi assegnate a Piero Grasso e Luisa Boldrini. Una contraddizione che ha provocato qualche mugugno alla Camera, dove sono almeno tre, e ciascuno con un profilo diverso, gli aspiranti alla carica di capogruppo: il vicesegretario ed ex-ministro Enrico Letta, dato per certo fino all’apertura a sorpresa della legislatura; la sua controfigura Francesco Boccia; Giovanna Madia, la giovane precaria scelta da Veltroni nel 2008 ed eletta per la seconda volta. Al Senato in corsa c’è il braccio destro del segretario Maurizio Migliavacca: ma anche per lui arriveranno tempi migliori.
Il congelamento è stato proposto da Bersani anche per non rivedere il Pd trasformarsi di nuovo in una pentola a pressione. Da domani il Capo dello Stato dovrà trovare una soluzione per il governo, resa più urgente dal peggioramento della congiuntura e dai riflessi della crisi di Cipro, e nello stesso tempo tentare di risolvere il problema dell’incarico che Bersani chiederà per puntare a costruire direttamente in Parlamento la maggioranza. Il leader del Pd sta facendo circolare una serie di nomi di probabili ministri, tutti provenienti dalla società civile, che nei suoi piani dovrebbero funzionare come appunto ha funzionato l’ex super procuratore antimafia nei confronti dei senatori del Movimento 5 Stelle che lo hanno votato. Ma è inutile nascondersi che in questo caso il problema è legato al fatto che il candidato-premier è, e rimane, Bersani, e che sul suo nome non c’è sufficiente consenso. Anche l’ipotesi che al Senato da M5S, e forse anche dal centrodestra, possano staccarsi dei sottogruppi, solo per consentire al governo di partire, è ancora prematura. Molto dipenderà dunque dall’atteggiamento che le delegazioni degli altri partiti terranno al Quirinale. Ieri sera, da Grillo e Scelta civica, oltre ovviamente che da Berlusconi, i segnali che venivano non erano certo positivi. La Lega intanto continua a fare il pesce in barile.

Corriere 19.3.13
La cruna dell’ago
di Michele Ainis


Siamo viandanti in una terra di mezzo, in un tempo di passaggio. Senza regole a orientarci nel cammino, perché le vecchie ormai sono tramontate, le nuove ancora non s'affacciano. E allora con quale regola potrà sorgere un governo? Non un patto fra Partito democratico e Movimento 5 Stelle, dato che quest'ultimo ha già fatto sapere di non volerne sapere. Non fra Pdl e M5S, pietanza indigesta a entrambi i commensali. Non la Grosse Koalition fra centrosinistra e centrodestra: in questo caso non ci sta il Pd. Non un governo tecnico come il fu governo Monti, che non ha lasciato vedove piangenti ai propri funerali. Insomma i nostri voti si sono trasformati in veti, e inesorabilmente i veti ci stanno riportando al voto.
C'è un modo per uscire dalle secche? C'è una regola transitoria che può guidarci in questa transizione? Fin qui la novità ha investito l'elezione dei presidenti delle Assemblee legislative. Lo schema replica il passato: al partito vittorioso la presidenza del Senato, al suo alleato principale quella della Camera. Dove infatti nelle ultime tre legislature si sono avvicendati Fini, Bertinotti, Casini, nella loro qualità di leader del secondo partito di governo. Ma stavolta no, non c'è Vendola al timone di Montecitorio. C'è una neodeputata, e c'è un neosenatore sullo scranno di palazzo Madama. Lo schema è uguale, cambiano però gli interpreti, e cambia dunque la sostanza stessa della regola.
Da qui il successo di Bersani; ma da qui anche il suo probabile insuccesso. Come potrà infatti ripetere l'impresa, come potrà calamitare qualche adesione dei senatori a 5 Stelle, se riceverà lui stesso l'incarico di formare il gabinetto? A torto o a ragione, da quelle parti la sua faccia bonaria riflette il volto truce dei partiti; per mietere consensi serve quindi l'homo novus, e serve una nuova regola, diversa da quella che fin qui assegnava il bastone del comando al leader del partito maggiore. Solo che in questa circostanza il nuovo coincide con l'antico, con due norme della nostra vecchia Carta che non abbiamo mai preso sul serio.
Dice l'articolo 92: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio». Dunque gli attori sulla scena sono due persone, non due o quattro partiti. D'altronde la Costituzione non cita mai i partiti nel processo di formazione del governo, benché la partitocrazia abbia poi ingoiato qualunque altra istituzione. Non contempla governi tecnici, né governi di scopo, di scopa o di tressette: ogni governo è politico, ognuno ha uno scopo da raggiungere. Infine non lascia spazio a governi del presidente, dato che il governo è sempre sottoposto alla signoria del Parlamento. E allora facciamolo, questo governo antico e nuovo. Apartitico, ma non apolitico, non con l'abito professorale che calzava l'esecutivo Monti. Innervandolo piuttosto con persone in cui ogni cultura politica possa rispecchiarsi: una somma d'identità parziali, un governo di tutti e di nessuno. Appoggiato, magari, solo indirettamente dai principali partiti.
Qui risuona un'altra norma, l'articolo 67 della Carta: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». Nazione, non fazione. Dunque ogni parlamentare custodisce l'interesse collettivo, non quello del proprio elettorato. E tutti noi abbiamo interesse a liberarci del Porcellum, a un'iniezione di moralità nella nostra vita pubblica, a misure sul lavoro e sull'economia. Se nascerà una buona proposta di governo, ricordatevi che la Nazione ha bisogno d'un governo.

il Fatto 19.3.13
L’ultima carta di Bersani e la squadra dei sogni
Anche per l’esecutivo c’è il “metodo Grasso”
Oggi i capigruppo, si sceglie tra prooroghe degli uscenti e volti nuovi
di Wanda Marra


Pier Luigi Bersani continuerà sulla strada che ha portato a farci eleggere Laura Boldrini e Pietro Grasso alle presidenze delle Camere”. Alessandra Moretti, neo deputata nonché fedelissima del segretario, non ha dubbi. La via per Palazzo Chigi è costellata da personalità esterne e volti nuovi. D’altra parte la parola più gettonata nel Pd e dintorni negli ultimi giorni è “rinnovamento”. La doppietta Boldrini-Grasso ha riportato un po’ d’ossigeno in casa democratica. E così il segretario va avanti con la strategia individuata. E dunque, cercare di ottenere l’incarico pieno da parte del presidente della Repubblica. E poi, formare un governo talmente appetibile, con nomi graditi ai grillini, da costringere moralmente i 5 Stelle a dare i loro voti. In realtà, i Democratici, come racconta Stefano Fassina, stanno tenendo aperti vari canali: stanno parlando con i montiani, con i leghisti, con i 5 Stelle. Così, nelle stanze del segretario, girano varie liste di possibili ministri: la lista super tecnici, nel caso di accordi con Monti; la lista società civile e dintorni. Ma la seconda è in assoluto la più gettonata. Molti i nomi. Si va dai costituzionalisti Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà (papapili pure per il Quirinale) passando per Roberto Saviano. Si tirano fuori opzioni come Franco Cordero per la Giustizia o Paolo Leon per l’Economia (in questo contesto è in ribasso Saccomanni, che fa parte di un altro tipo di dinamica).
POI c’è il capitolo donne: in pole position quelle che lo stesso segretario ha voluto in Parlamento, dalla filosofa Michela Marzano al rettore del Sant’Anna di Pisa, Maria Chiara Carrozza. In lizza per un dicastero anche i firmatari dell’appello per un governo Pd - 5 Stelle, a partire da Carlo Petrini, don Luigi Ciotti, Salvatore Settis. Le azioni di nomi dati per certi prima delle elezioni sono in assoluto ribasso: difficile che possano farcela Maurizio Migliavacca o Vasco Errani. Potrebbe rientrare in quanto storico, Miguel Gotor. Praticamente impossibile che possano riproporsi i big. Prima delle primarie, prima dell’exploit di Renzi, Repubblica aveva tirato fuori con forza l’idea di un papa straniero alla guida del Pd. Erano i tempi del “partito di Repubblica”, di quando dalle parti del quotidiano si favoleggiavano liste civiche accanto a quelle politiche, nomi della società civile vicini a quelli dei vecchi leader di partito usurati. Ieri Bruno Manfellotto, il direttore dell’Espresso, ha fatto un’intervista a Youdem, per incitare il segretario ad andare avanti così.
Ma Bersani potrebbe diventare vittima dello stesso “metodo Grasso? ”. Qualcuno tra i Democratici come Pippo Civati lo dice dall’inizio che considerare l’idea di un passo indietro in favore di un nome più gradito ai 5 Stelle potrebbe aiutare la nascita di un governo. Per adesso, lui non ci pensa proprio. “È chiaro che servono facce nuove, giovani, competenti”, dice anche la Marzano. “Ma tocca a Bersani provarci. E poi serve anche qualcuno che abbia un po’ d’esperienza politica”.
LA QUESTIONE potrebbe riproporsi in caso d’elezioni: mentre Laura Boldrini teneva il suo discorso d’insediamento a Montecitorio, nelle zone più a sinistra del Pd è venuta formandosi un’idea: e se fosse l’anti Renzi? A proposito d’esperienza, oggi si votano i capigruppo. “Bisogna continuare sulla strada del rinnovamento”, chiarisce Matteo Orfini. La partita non è secondaria perché proprio i capigruppo andranno a fare le consultazioni al Quirinale. Girano varie ipotesi: il congelamento proprio per le consultazioni degli uscenti (già fermati nella corsa verso i più alti scranni di Montecitorio e Palazzo Madama), Dario Franceschini e Anna Finocchiaro. Altrimenti, per la Camera, si parla di Marianna Madia, Paola De Micheli, Alessia Mosca, passando per Francesco Boccia o Andrea Orlando. Ma sono possibili anche soluzioni come Marina Sereni o Guglielmo Epifani. In Senato, si parla di Luigi Zanda, Felice Casson, Giorgio Tonini, Laura Puppato, Claudio Martini e Valeria Fedeli.

il Fatto 19.3.13
Nuove alleanze
“Pd: coraggio lascia i vecchi e punta tutto su un Rodotà”
di Tomaso Montanari


Secondo gli intramontabili guru della politologia italica gli “intellettuali” che si sono rivolti al Movimento 5 stelle perché non getti via la straordinaria possibilità di cambiamento che ha contribuito a creare sono degli ingenui, indegni epigoni della tradizione che dette al mondo Niccolò Machiavelli. Peggio: sono (siamo, visto che ho firmato anche io) incapaci di distinguere i propri pii desideri dalla dura realtà. E dunque, secondo loro, Piero Grasso non è mai stato eletto presidente del Senato. O, se proprio bisogna ammettere che questa bizzarria sia avvenuta, certo non rappresenta un’indicazione politica, una possibile via d’uscita. Sarebbe interessante intrattenersi sull’aderenza al reale del grande giornalismo, che non è riuscito, non dico a capire l’entità del risultato che avrebbe avuto la lista di Beppe Grillo, ma nemmeno a piazzare il nome di Jorge Mario Bergoglio foss’anche all’ultimo posto dei cardinali papabili.
MA È ASSAI PIÙ interessante chiedersi se ciò che è avvenuto in Senato non sia invece il segno che “qualcosa nella politica italiana si muove”, come ha scritto Peter Gomez.
Grillo ha detto più volte che la linea del Movimento sarebbe stata quella di votare i singoli provvedimenti che corrispondono al programma, o alla prospettiva, a 5 stelle. Su queste basi è difficile dire che i senatori che hanno votato Grasso invece di Schifani abbiano “tradito”. A meno che non si evochi il perseguimento di una politica che prescinde, cinicamente, dal merito delle singole scelte in vista della conquista del potere (come ha fatto, in quella stessa votazione, Mario Monti: perdendo definitivamente la faccia). Ma gli elettori del Movimento si aspettano che a decidere siano due anziani ed eccentrici milionari che non siedono in Parlamento, o invece si aspettano che i deputati e i senatori si assumano le loro responsabilità in prima persona?
Quegli elettori si aspettano soprattutto una radicale discontinuità. E ciò che è successo al Senato è stato come abbattere un ecomostro abusivo in cemento e sostituirlo in un secondo con una villa palladiana. E anche se Grasso è stato portato in Parlamento dal Pd e anche se la tattica che l'ha portato alla presidenza del Senato è stata l'unica mossa geniale di Bersani, la sua elezione (come quella, ancor più entusiasmante, della Boldrini alla Camera) è obiettivamente un prodotto e un successo non del Pd, ma del Movimento. O meglio, la forza di quest'ultimo ha costretto Bersani a fare ciò che davvero vogliono i suoi stessi elettori piuttosto che ciò che vuole la dirigenza del partito.
Ma è possibile trasferire questo felice esperimento sul piano, ben più inclinato e scivoloso, della nascita di un governo che ci porti a nuove elezioni cambiando la legge elettorale, affrontando l'emergenza economica e ripristinando alcune minime regole di legalità costituzionale? Secondo l'organo ufficiale del pensiero neomachiavellico, è impossibile: come ha spiegato domenica Ernesto Galli della Loggia, l'elezione dei due presidenti avvicinerebbe le elezioni perché allontana quella che pare l'unica soluzione 'realistica', la Grande Coalizione col Caimano.
In molti crediamo che le cose non stiano così: ma la premessa indispensabile è che Bersani abbia il coraggio di compiere un passo indietro ancora più radicale (e per lui doloroso). E cioè che faccia subito spazio ad una proposta davvero in discontinuità con la classe dirigente del suo stesso partito: una proposta come, per esempio, un governo guidato da una personalità come Stefano Rodotà (o da altre paragonabili per caratura e indipendenza ), formato da ministri con le stesse caratteristiche.
NON SO COME Grillo potrebbe dire di no a un Rodotà (padre del cruciale successo del referendum sull'acqua bene comune, che è la prima delle famose 5 stelle). Perché non si tratterebbe del ricatto del meno peggio denunciato da Marco Travaglio: si tratterebbe finalmente di un buon governo, anche se di emergenza e a tempo.
E se non riesco a credere che i parlamentari a 5 stelle perderebbero una simile occasione, concreta e immediata, di vero cambiamento, riesco quasi a vedere i cittadini pronti a inseguire col forcone i senatori che dicessero no a tutto questo in nome dei vincoli di appartenenza, o della disciplina di partito. Come ha scritto Antonio Padellaro, “l’idea che sia tutta un’illusione passeggera perché presto si tornerà alle urne è davvero crudele. L’uomo con gli occhiali neri non aspetta altro”.
Sarebbe – ancora una volta – il morto che afferra e trascina a fondo il vivo.

La Stampa 19.3.13
E nel Pd stallo sui capigruppo. Ormai è guerra di generazioni
I giovani turchi e renziani contro la proroga di Finocchiaro-Franceschini
di Carlo Bertini

qui

Corriere 19.3.13
Giovani turchi e renziani Il patto tra gli ex nemici
di Maria Teresa Meli


ROMA — Solo fino a qualche giorno fa sarebbe stata una cosa impensabile. Ma nel Partito democratico alle prese con la «non vittoria» e con l'offensiva grillina, gli eventi si evolvono con una rapidità impressionante. Accade così che i «giovani turchi» e i renziani, un tempo gli uni contro gli altri armati, adesso collaborino per imprimere una svolta rinnovatrice al Pd.
I primi, con Andrea Orlando, Matteo Orfini e Stefano Fassina, hanno condotto la battaglia sulle presidenze delle Camere, e il sindaco di Firenze Matteo Renzi non ha avuto dubbi su come giudicare il risultato di questa azione: «Operazione ottima. Così finalmente parliamo all'esterno. Mi piace proprio». E ora che si appropinqua il giorno in cui il Partito democratico dovrà decidere se congelare i suoi capigruppo almeno per un po' o se eleggerne subito di nuovi, per confermare che il vento del cambiamento ormai soffia dovunque, renziani e «giovani turchi» chiedono all'unisono il «rinnovamento». Non piace né agli uni né agli altri l'idea di lasciare alla guida dei gruppi, anche se per pochissimo, gli esponenti che sono stati già bocciati per le presidenze di Camera e Senato, cioè Dario Franceschini e Anna Finocchiaro.
Del resto, se il tentativo di formare un governo Bersani dovesse fallire, bisognerà pur pensare al futuro. Il che comporta, inevitabilmente, anche un rimescolamento delle alleanze interne. Chissà se è per questa ragione che giorni fa il presidente della Provincia di Pesaro Matteo Ricci, bersaniano vicino ai «giovani turchi», è andato a trovare Renzi, facendosi precedere da questa frase: «Può essere lui il leader di una nuova generazione». E chissà se è sempre per lo stesso motivo che uno dei leader dei giovani della sinistra interna, Matteo Orfini, dopo aver avuto parole durissime nei confronti del sindaco di Firenze, negli ultimi tempi si è molto ammorbidito. Fino al punto di osservare: «Non è affatto detto che andremo a uno scontro con Renzi: in realtà le nostre posizioni sono più vicine di prima».
La possibile alleanza trasversale tra sostenitori del primo cittadino di Firenze e i «turchi» di Orlando, Orfini e Fassina impensierisce la vecchia classe dirigente del Partito democratico. Questo spiegherebbe il recente nervosismo di Rosy Bindi, la quale, peraltro, pare stia perdendo un po' di sostenitori nei territori, i quali, per paradossale che possa sembrare, sono passati proprio con quel Renzi che la vicepresidente del Pd non ama affatto. Un politico di lungo corso, che ormai guarda alle traversie interne del Partito democratico con un certo distacco, perché se ne tiene rigorosamente fuori, ovvero Massimo D'Alema ha una sua personale teoria su quanto sta avvenendo dalle parti del Pd. L'ha spiegata a un caro amico in questi termini: i «giovani turchi» sono pronti a facilitare l'avvento di Renzi e ad aiutarlo a dare la scalata al partito, perché in cambio loro formeranno una corposa corrente interna che si attesterà attorno al 40 per cento.
Il sindaco di Firenze e gli stessi «giovani turchi», ufficialmente, cercano di edulcorare questa lettura delle cose. Se non altro perché in questa fase in cui tutti devono sostenere il tentativo del segretario non è opportuno far vedere che ci si sta già preparando al dopo Bersani. Anche perché il leader del Pd fa mostra di crederci sul serio. Lo smottamento dei grillini siciliani con Pietro Grasso, per esempio, era altamente previsto. Però pure nel giro stretto del leader del Partito democratico si teme che in caso di insuccesso il centrosinistra alle prossime elezioni avrà come leader il sindaco di Firenze. In più d'uno, il giorno dell'elezione di Grasso alla presidenza del Senato, ha sentito il responsabile Enti locali Davide Zoggia mormorare: e ora se va male toccherà andare al voto con Renzi. D'altra parte, proprio ieri un sito assai bene informato sulle segrete cose del Pd, «Il Retroscena», pubblicava un sondaggio della Digis secondo cui un elettore su tre vuole che a guidare il centrosinistra prossimo venturo sia il sindaco di Firenze.

l’Unità 19.3.13
Quirinale, la minaccia del Cav
«Se il Colle va alla sinistra battaglia in piazza». Attacco ai giudici
Ineleggibilità, ora una legge seria
di Massimo Mucchetti


CARO DIRETTORE, AVRAI NOTATO LA COINCIDENZA: mentre Micromega annuncia di aver superato le 200mila firme in calce alla richiesta, rivolta alla giunta delle elezioni, di dichiarare fin d’ora ineleggibile Silvio Berlusconi, il Pd anticipa con dovizia di dettagli il disegno di legge sul conflitto d’interessi e le nuove disposizioni che intende varare in materia di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive parlamentari, regionali e comunali.
Tra queste due linee passa la stessa differenza che separa una scorciatoia dalla strada maestra.
In teoria, il conflitto d’interessi di Berlusconi potrebbe essere risolto dallo stesso sistema finanziario. Non manca il precedente di un’incompiuta. Nel 1996, infatti, Mediobanca pose come condizione per guidare il collocamento delle tv berlusconiane in Borsa l’adozione di drastici rimedi contro il conflitto di interessi del politico proprietario. Non li ottenne: Mediaset era sulla cresta dell’onda, e Berlusconi aveva con sé tanti italiani. Enrico Cuccia lasciò l’affare ad altri banchieri, di manica più larga. Oggi un Cuccia redivivo potrebbe forse trovare interessante organizzare un’offerta d’acquisto a fermo del pacchetto Mediaset con il duplice effetto di promuovere la ristrutturazione della pericolante tv commerciale a opera di nuovi soggetti imprenditoriali senza oneri per lo Stato e di liberare la destra dal suo storico lacciuolo. Ma Cuccia è morto nel 2000 e nessun banchiere odierno se la sente di sbrogliare questa matassa, pur avendo alle spalle i salvataggi di Ligresti e di Alitalia. Al dunque, la buona politica resta sola.
La rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais considera ineleggibile Berlusconi ai sensi della legge 361 del 1957 in quanto titolare «in proprio» delle frequenze radio sulle quali trasmette Mediaset. In realtà, il diritto d’uso delle frequenze è intestato a Mediaset spa quotata in Borsa. Ma Micromega ne attribuisce comunque la titolarità alla persona del leader del Pdl in quanto la famiglia Berlusconi è proprietaria al 100% di Fininvest la quale possiede il 38% di Mediaset, e dunque ne detiene il controllo de facto. Nulla di più giusto in buona sostanza. È certo uno scandaloso paradosso il fatto che Fedele Confalonieri, legale rappresentante di Mediaset, non possa sedere in Parlamento e colui al quale deve l’incarico sì. E tuttavia in democrazia le forme contano. E la sinistra tende talvolta a dimenticare che anche i giacobini finirono, poi, sulla ghigliottina.
Dal 1996 al 2008 le giunte delle elezioni hanno giudicato Berlusconi eleggibile perché, se il legislatore avesse voluto comprendere il socio di controllo de facto della società concessionaria tra i soggetti ineleggibili, avrebbe potuto e dovuto indicarlo espressamente. La genericità della norma, d’altra parte, rifletteva l’Italia del 1957 priva di Antitrust, con la Rai in monopolio e le banche non autorizzate ad avere partecipazioni industriali, dunque nemmeno editoriali ancorché al Banco di Napoli fosse consentita la proprietà del Mattino di Napoli e della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari; un’Italia dove le attività in concessione erano per lo più affidate a imprese pubbliche o direzioni ministeriali. Nel 2013, è maturo, fin troppo, il tempo di una svolta. Finalmente, in Parlamento c’è una larghissima maggioranza che si dice pronta.
Il centrodestra, che nel 2004 varò la legge Frattini per consentire a Berlusconi di non cambiare nulla, è ridotto al 30% e non giurerei che la Lega di Maroni sia pronta a morire per gli affari di Silvio. Ma proprio perché ormai l’opinione pubblica la reputa matura, la svolta va fatta per aumentare il tasso di democrazia nel Paese e non per colpire unicamente il leader di un partito, che è stato comunque votato con la vecchia regola, attraverso la giunta delle elezioni che, nel caso di un ipotetico ritorno berlusconiano, potrebbe sempre ribaltare il suo voto.
Fatte salve regole più rigorose sull’incandidabilità determinata da condanne giudiziarie, molto meglio stare sul piano delle regole generali, valide per tutti, e inserire tra le cause di ineleggibilità e incompatibilità la proprietà personale o familiare, diretta o indiretta, di pacchetti azionari rilevanti di società che, direttamente o per il tramite di affiliate, siano titolari di concessioni e/o licenze d’uso rilasciate da pubbliche amministrazioni ovvero operino in settori regolamentati. Il concetto di partecipazione rilevante, sia detto di passata, è assai più ampio di quello del controllo di fatto invocato da Micromega, che, nell’ansia di regolare i conti con Berlusconi, non tiene in considerazione le nuove forme del capitalismo finanziario, bancario e assicurativo.
Berlusconi potrà sempre scegliere se prepararsi a uscire dal Parlamento quando sarà, o se rimanervi dando mandato irrevocabile a vendere e consentendo al mandatario di cambiare l’intera prima linea manageriale in attesa dell’esecuzione del mandato, ove si dimostrasse che la citata renitenza delle banche ad affrontare il problema di loro iniziativa dipenda dalla scarsa appetibilità di Mediaset.

l’Unità 19.3.13
Sfida del Pd: norme dure sul conflitto d’interessi
di Simone Collini


Non solo media ma anche aziende e banche. Nel testo del Pd sul conflitto di interessi ci sono norme stringenti per chi ricopre incarichi di governo e amministrativi. Rafforzati i meccanismi di controllo e le sanzioni. Immediata la reazione di Berlusconi: «Non è una priorità. E poi non mi riguarda: ho già dato tutto ai miei figli».
E dopo il disegno di legge sull’anticorruzione e quello sul finanziamento pubblico ai partiti, è pronto anche il testo sul conflitto d’interessi. Il Pd mette sul piatto un’altra proposta da approvare nei primi cento giorni, qualora si insediasse il «governo di cambiamento» a cui sta lavorando Pier Luigi Bersani. Un’altra proposta che è sia una sfida lanciata al Movimento 5 Stelle che un paletto piantato per tenere a distanza qualunque ipotesi di esecutivo sostenuto insieme al Pdl. E non a caso calata alla vigilia delle consultazioni al Colle e mentre il centrodestra continua a muoversi sul doppio binario della minaccia della piazza e dei «messaggi di pace» (Fabrizio Cicchitto dixit) condizionati all’elezione al Quirinale di un esponente dei «moderati» (come Berlusconi e Alfano e soci definiscono il Pdl).
SUPERARE LE ATTUALI NORME
Il testo messo a punto dal Pd prevede una serie di interventi in materia di conflitti di interessi non solo per i titolari di cariche di governo, come è oggi, ma anche per chi ha un ruolo nelle Autorità indipendenti o incarichi nelle Regioni e negli Enti locali. «La legge sul conflitto di interessi è al primo punto della nostra azione di governo», si legge nella proposta di legge che dovrebbe sostituire la Frattini e inserire controlli e sanzioni stringenti per chi non rispetti le norme. Il testo approvato dalla maggioranza di centrodestra nel 2004 viene giudicato insufficiente non solo dal Pd. Anche l’Antitrust lo ha riconosciuto come totalmente inutile. Come del resto hanno dimostrato i fatti successivi al via libera a quella legge.
Per questo il Pd attingendo a piene mani dalle proposte depositate in Parlamento dai gruppi Democratici nelle scorse legislature e dalla proposta messa a punto da Elia, Onida, Cheli e Bassanini ha preparato un documento che prevede un rafforzamento dei controlli per accertare se vi sia conflitto di interessi e soprattutto introduce sanzioni più severe per chi viola le norme stabilite. «La politica deve reggersi su un rapporto di fiducia tra cittadini e responsabili politici e occorre cancellare tutte le situazioni nelle quali questo rapporto di fiducia potrebbe venire meno si legge nel testo del Pd si pone perciò il problema di prevenire il conflitto o gli intrecci tra gli interessi privati di queste personalità e gli interessi pubblici che essi devono perseguire».
IL GIUDIZIO DELL’ANTITRUST
Berlusconi, appena saputo della mossa del Pd, è passato al contrattacco dicendo che il conflitto di interessi non è una priorità da affrontare («serve la ripresa e bisogna aiutare le imprese») e che comunque lui non ha nulla a che fare con tale questione: «È un problema che non mi riguarda, ho già dato tutto ai miei figli». Entrambe le posizioni sono però smentite dai giudizi dell’Antitrust, che non solo ha definito la legge Frattini un’arma spuntata (e del resto basti pensare alle elezioni e ai governi che ci sono stati dopo il 2004), ma ha anche sottolineato le conseguenze negative per l’Italia derivanti da una adeguata normativa su questa materia. «Non vanno sottovalutate le ricadute che una maggiore attenzione al tema del conflitto di interessi può produrre in termini di miglioramento dell’immagine-paese nelle sedi internazionali e nelle classifiche relative alla corruzione percepita, stilate da organismi come Trasparency International», si legge infatti nella relazione del secondo semestre 2012 compilata dall’Antitrust. Si legge anche in quel testo che quelle classifiche «influenzano le scelte degli investitori internazionali, spesso scoraggiati dall’esistenza di un deficit di legalità, percepito come ostacolo all’esercizio dell’impresa. In questa prospettiva la lotta al conflitto di interessi, dando maggiore certezza ed assicurazione alle imprese, può costituire uno degli strumenti su cui fondare la crescita economica di un Paese».
NUOVO SISTEMA SUBITO APPLICABILE
Il Pd ha evidenziato tutte le «criticità e inefficienze» contenute nella legge Frattini «sia per quanto riguarda l’ambito soggettivo (circoscritto ai soli titolari di cariche di governo nello Stato), sia per quanto concerne l’ambito oggettivo (la qualità di socio di società concessionarie pubbliche, ad esempio, non è causa di conflitto di interesse). Rispetto alla legge approvata dal centrodestra, il Pd punta ad ampliare i soggetti sottoposti alla disciplina (non solo i titolari di cariche di governo), ad «attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del mercato una serie di poteri, strumenti e responsabilità per agire efficacemente contro le situazioni di conflitto» (oggi può soltanto «promuovere» le misure necessarie) e «rendere il nuovo sistema di controllo e sanzione immediatamente applicabile anche alle cariche attualmente ricoperte». Il testo messo a punto dal Pd prevede anche che le incompatibilità riguardino non solo l’«attività di gestione», come è oggi, «ma anche la “mera proprietà” di impresa, di azioni o di quote di una società». Previsto anche «il mandato irrevocabile a vendere oppure il trasferimento della gestione a un terzo indipendente (il cosiddetto blind trust)» e la precisazione che «il nuovo sistema di controllo e sanzione è immediatamente applicabile anche alle cariche attualmente ricoperte».

il Fatto 19.3.13
Ineleggibilità, Bersani alla prova dei fatti
Sabato in piazza
Berlusconi fuori dal Senato, il Pd faccia la sua parte
di Paolo Flores d’Arcais


Il prossimo passo? Berlusconi ineleggibile. Questo il titolo che domenica riassumeva perfettamente l’articolo di Furio Colombo sulla novità rappresentata dalla scelta di Bersani di accantonare le candidature d’apparato dei Franceschini e delle Finocchiaro, per far eleggere Laura Boldrini e Piero Grasso. Bersani dovrebbe tenere bene a mente che già in un recente passato una sua scelta aveva creato al Pd grandi consensi, svaniti poi in poche settimane: con le primarie, i sondaggi avevano portato la coalizione Pd-Sel a un radioso 43%, il ripiegamento sulla routine di nomenklatura e connessa spartizione anticipata di poltrone hanno prodotto la doccia fredda della sconfitta nelle urne.
Perciò, quando all’inizio della “Settimana santa” si riunirà la “Giunta delle elezioni” al Senato per decidere sui ricorsi contro l’elezione di Berlusconi, che decine di elettori dal Molise stanno già inviando, e il M5S voterà come già annunciato per il rispetto della legge 361 del 1957 e dunque per la ineleggibilità di Berlusconi, Bersani non potrà cavarsela come Ponzo Pilato: o il Pd seguirà il M5S sulla via maestra della legalità (che nelle precedenti legislatura ha invece calpestato per inciucio), e Berlusconi sarà di colpo fuori dal parlamento.
O invece resusciterà il Caimano nuovamente (dopo la sciagurata indecenza della bicamerale dalemiana), e allora non solo perderà tutte le simpatie acquisite con l’operazione Boldrini-Grasso ma subirà il rinculo di qualche milione di voti che abbandoneranno disgustati il Pd.
Se Berlusconi verrà dichiarato non eletto, come vuole la legge, la “rivoluzione” che cancella il regime potrà cominciare davvero. Non a caso il Caimano ha chiamato le sue truppe a manifestare contro la Costituzione e la legalità sabato prossimo a Roma a piazza del Popolo, utilizzando gli illimitati mezzi di cui dispone.
Ma quel giorno a piazza Santissimi Apostoli, alle 17 si svolgerà anche un’altra manifestazione, di povertà francescana ma di intransigente passione repubblicana, perché l’ineleggibilità di Berlusconi venga dichiarata: cento e più personalità si alterneranno su un palco-trabiccolo con megafono a leggere e commentare gli articoli della Costituzione.
Una manifestazione auto-organizzata che dipenderà esclusivamente dalla capacità di mobilitazione di ogni cittadino. Il sito www.micromega.net , dove continua la raccolta di firme (è stata superata quota 220 mila), darà conto di questa e delle altre iniziative che si vanno auto-organizzando in molte città. Finché c’è lotta c’è speranza, e questa volta il sogno è a portata di mano.

Repubblica 19.3.13
Bersani apre al Pdl “Dialogo per il Colle, ma non sarà Silvio a scegliere”
Da Amato a Grasso, si allarga la rosa dei nomi
di Goffredo De Marchis


«IL PROBLEMA esiste. Non è un’invenzione di Berlusconi». Al netto dei toni e delle minacce del Cavaliere, Pier Luigi Bersani sa che il Pd non può permettersi un’occupazione militare delle cariche istituzionali, tanto più dopo una mezza vittoria. E che sul nuovo presidente della Repubblica «occorre cercare una soluzione anche con il Pdl. Non su un nome loro, ovviamente. Ma si deve provare a condividere una proposta».

È UN passo che segue la difficile partita del governo, per il quale rimane il veto assoluto di Largo del Nazareno a una collaborazione con il centrodestra. Però il Quirinale è chiamato a rappresentare, per i prossimi sette anni, il Paese. Compresi gli otto milioni di elettori berlusconiani.
Il segretario del Pd è convinto che il voto del 24 e 25 febbraio abbia cambiato radicalmente la geografia del Parlamento. La massiccia presenza dei 5stelle «modifica il concetto stesso di condivisione e di unità nazionale che abbiamo conosciuto nelle precedenti legislature». Eppure il centrodestra è ancora lì, sconfitto ma vivo. Per questo, escludendo figure di parte come quella di Gianni Letta, andrà aperto un confronto con il Cavaliere. Con una variabile nuova e non di poco conto: il Movimento di Grillo.
Nell’ottica di un dialogo con il Pdl, riaffiora subito il nome di Giuliano Amato, una storia iscritta nella sinistra italiana, con molti passaggi contrastati nel rapporto con Ds, Ulivo e Partito democratico. L’ex premier può contare sul sostanziale sostegno del centrodestra, ma resta l’incognita 5stelle, dei quali Bersani non vuole e non può fare a meno. Il Pd perciò si prepara a lavorare su altri nomi che appaiono lontani dal mondo di Berlusconi. «Ma facciamo l’esempio di Grasso — ragionano a Largo del Nazareno — . Certo, è un senatore eletto nel Pd. Allo stesso tempo è una personalità che ha collaborato con i governi di tutti i colori. Ed è un nome che avrebbe potuto raccogliere voti del centrodestra anche al Senato». Trovare un punto d’incontro in questo Parlamento appare un’impresa impossibile, più della formazione di un esecutivo. Altri candidati in campo sono Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Giuseppe De Rita. E Romano Prodi, naturalmente. Su Massimo D’Alema, che avrebbe il sostegno dell’intero centrosinistra da Nichi Vendola a Enrico Letta, si ipotizza una sponda con il Pdl, come per Amato. Anche se dalla Bicamerale in poi, Berlusconi è sempre riuscito a scottare il presidente del Copasir uscente. E Mario Monti, da tempo, lo vede come il fumo negli occhi.
Il riferimento del Pd a Grasso, alla sua possibilità di allargare il consenso (la prova è il voto di sabato) non è casuale. Il neopresidente del Senato è di diritto nella rosa dei papabili. Mentre, secondo Bersani, non potrà essere utilizzato per un governo di larghe intese o del Presidente «che non esiste perché dalle urne non è uscito uno schema Pd-Pdl-Monti». Il segretario punta a un incarico che gli consenta di cercare la maggioranza in Parlamento. Aprendo a Monti «in continuità con gli impegni internazionale assunti», alla Lega se cerca «un filo di interlocuzione istituzionale», ai 5stelle «puntando su proposte e scadenze come quella del conflitto d’interessi». A questi partiti il Pd è pronto a concedere postichiave in Parlamento. «A Grillo vogliamo dare i vicepresidenti alla Camera e al Senato. E due questori, che hanno in mano la cassa del Palazzo. Vogliono
controllare? Possono farlo. Ma ci vuole un accordo. Devono sapere che se votano solo i nomi loro, come hanno fatto sabato, non otterranno nulla».
È questa la sfida di Bersani. Avere il via libera del Colle per andarsi a cercare una maggioranza al Senato sulla base del programma. Un precedente c’è: quello del primo Berlusconi, 1994, che strappò la fiducia al Senato senza avere la certezza dei voti. Ma i dubbi di Napolitano, alla vigilia delle consultazioni che cominciano domani, non sono sciolti. «Le elezioni dei presidenti delle Camere non hanno cambiato il dato oggettivo — è il ragionamento del capo dello Stato — . Il centrosinistra ha una maggioranza assoluta a Montecitorio e una relativa a Palazzo Madama. Ha dimostrato però che non esiste una maggioranza contrapposta ». Significa che se il Pd «lo chiede», avrà l’incarico per il suo leader. Poi, la palla passa a Bersani, tocca a lui «fare le sue consultazioni». Se il segretario non porta i numeri (ed è consapevole di non averli), Napolitano avrebbe molte remore a mandarlo alle Camere. Bersani però insiste: punta sulla qualità delle proposte, sui nomi della squadra (da Barca, agli stessi Rodotà e De Rita). Ma se fallisce e l’unica strada alternativa è quella del voto? Napolitano non vuole che sia un governo guidato dal leader che ha semivinto le elezioni e senza fiducia a portare l’Italia al voto.

l’Unità 19.3.13
Ma Grillo vuole cantare solo dopo il tramonto?
di Carlo Rognoni


«SIETE UNA FORZA NUOVA CHE, SE I SONDAGGI VERRANNO CONFERMATI, POTRÀ RAGGIUNGERE CIRCA CENTO PARLAMENTARI». Nell’immaginario viaggio dal Pireo ad Atene, raccontato nel libro Il grillo canta sempre al tramonto, Dario Fo parla con quelli che lui definisce «due amici straordinari», Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Il racconto è uscito un mese prima delle elezioni e ci sono alcuni passaggi che fanno capire molto di quello che sta succedendo oggi. Intanto che il risultato avuto dal Movimento 5 Stelle è di gran lunga superiore alle aspettative: non in cento bensì in cento cinquanta sono entrati alla Camera e al Senato. Si tratta di un terzo in più rispetto alle loro stesse più rosee aspettative! E far rispettare a tutti alcune regole capestro che ben poco hanno a che fare con la capacità di fare politica e con quella che chiamano «la democrazia diretta» si è già rivelato un progetto velleitario e contraddittorio.
C’è poi un’altra domanda che Dario Fo rivolge ai suoi due interlocutori che ancor meglio spiega le attuali difficoltà di Grillo e Casaleggio e dunque del Movimento e dei parlamentari 5 stelle: «Che cosa pensate che possa succedere dopo le elezioni?».
Ebbene la risposta è rivelatrice delle convinzioni che i due «non leader» coltivavano. «Pur riuscendo il Pd di Bersani a ottenere quasi certamente la maggioranza, con una decina di punti di vantaggio, il centrosinistra dovrà chiedere l’appoggio del partito di Monti, il quale diventerà il primo ministro del nuovo governo. Naturalmente tutt’intorno a questa situazione ci sarà il solito balletto delle poltrone e degli inevitabili inciuci... cioè tutto come prima».
Eh, no cari Fo, Grillo e Casaleggio. Anche grazie allo straordinario risultato del M5S lo scenario che si è aperto è molto diverso da quello che avete immaginato e forse auspicato. Poter stare saldamente all’opposizione, attaccando ogni giorno il nuovo-vecchio governo e lucrare consensi per eventuali elezioni a venire, non sembra più un’ipotesi realistica.
Per quanti insulti ci si possa ogni giorno immaginare di lanciare dal proprio blog contro il Pd, la sfida che ha lanciato Bersani chiama in causa direttamente il M5S. Vuole provare ad assumersi la responsabilità di far partire o no un governo innovativo, consapevole del bisogno e della richiesta di grande cambiamento che nasce dal Paese e dal risultato elettorale?
Certo Grillo e Casaleggio possono chiamarsi fuori! È uno scenario sorprendente che non avevano pensato e neppure lontanamente immaginato. Per loro era meglio se si stava peggio? In questo caso sicuramente «il grillo non canta all’alba» e continua a cantare «sempre al tramonto».

l’Unità 19.3.13
La democrazia incerta dei Cinquestelle
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Grillini svegliatevi! Ribellatevi! Non piegate la testa al saltimbanco barbuto e al suo tenebroso ispiratore Casaleggio. Si sono create le condizioni per poter cambiare davvero lo stato delle cose esistente. E in politica si deve agire, scegliere quando è il momento. Lo slogan non era: «Uno vale uno?», se sì, questo deve essere anche per lui!
RENATO CASAIOLI

C’è un movimento naturale di simpatia, mi pare, nei confronti dei neoeletti a Cinquestelle. La tendenza ad evitare invece che a cercare i microfoni, l’ingenuità e la vivacità del dibattito tenuto prima all’interno del gruppo parlamentare del Senato e poi sul web di fronte alla «scomunica» di Grillo sono un segnale evidente di discontinuità nei confronti dei modi più tradizionali di fare politica. Piace ai più e desta consensi fra la gente in particolare, però, la ribellione di quelli
che vogliono decidere «secondo coscienza» o contare secondo la regola dell’uno vale uno e lo ricordano con forza al capo, non più indiscusso, di un movimento che è di tutti e non di una sola persona. Di poco trasparente, in questa storia, resta solo la cancellazione dal blog di Grillo di un numero molto alto di messaggi (circa 2.250 su 7.500 per chi li ha contati) critici nei confronti delle richieste di dimissioni fatte dallo stesso Grillo ai senatori che hanno votato Grasso. La possibilità di cancellare le opinioni dei dissidenti propone fantasie inquietanti, in effetti, sulle regole di un movimento che rifiuta di diventare un partito. Per evitare di burocratizzarsi e di assomigliare ad altri? O per evitare di mettere in discussione, qualunque cosa accada, l’autorità (sacra?) del Capo? Un dubbio che solo loro, i 5 stelle, dovrebbero sciogliere. Possibilmente in fretta.

l’Unità 19.3.13
Traditori? Grillo si ferma davanti alla rivolta della rete
Ecco i portavoce M5S. Sono i «commissari» nominati dal leader
Si tratta dei blogger Messora e Martinelli: per il loro lavoro è stanziato un cospicuo fondo dei gruppi
di Toni Jop e Claudia Fusani


Primo: tappare i buchi; secondo: rimettere ordine nella prodigiosa e solitaria macchina da guerra in cui la coscienza individuale ha preso il sopravvento sulle indicazioni e sulle regole di partito; terzo: togliere valore a quel che è accaduto alla Camera e al Senato; quarto: evitare, per il momento, strappi mediaticamente dolorosi e impopolari pur di far rispettare la legge interna; quinto: commissariare questa ormai inaffidabile zolla parlamentare... Grillo ieri mattina aveva un bel programma di cose da fare. Tutte urgenti, tutte non facili; doveva muoversi su tavoli diversi, simultaneamente e aveva l’intera baracca sulle sue spalle, casualmente visto che il Movimento dovrebbe reggersi da sé, guidato da un ininterrotto filo di comunicazione con la sua base.
Lui dovrebbe solo «megafonare», sistemare perché siano opportunamente trasmesse tutte le decisioni adottate dal Movimento. Ma non ci crede più nessuno a questa favola: così, quando la moglie non c’è, gli tocca fare tutto da sé e Grillo lo ha fatto, nel corso di una giornata frenetica e tesa. Qualcuno (Casaleggio?) lo avrà consigliato di smorzare i toni con i suoi «traditori».
Immediatamente dopo la doppia, e storica, votazione che l’altro giorno ha portato Laura Boldrini alla presidenza della Camera e Pietro Grasso alla presidenza del Senato, Grillo aveva perso le staffe, il capo è sanguigno. Aveva chiesto le teste di chi aveva votato Grasso, aveva annunciato per loro una sorta di processo interno che li avrebbe consegnati alle coerenti conseguenze del loro gesto.
Invece no: purtroppo, c’era questa «trappola», ha spiegato Grillo sedato sul suo Blog, e qualcuno c’è cascato «in buona fede»: sollievo, dopo ore d’ansia. Perché nel frattempo alcuni senatori Cinque Stelle davvero bravi e coraggiosi stavano provvedendo ad alzare la mano dicendo «sono stato io a votare Grasso». Alcuni con annesso modesto senso di colpa, altri meno, come Giuseppe Vacciano che ha fatto sapere di aver votato Grasso e di essere pronto a dimettersi. A volte con una verve per niente soggiogata dal fascino del Capo dei Capi, come il senatore Francesco Molinari che rispondendo al primo duro richiamo di Grillo aveva postato su Facebook queste immortali parole: «Meno reazioni isteriche e più fiducia», così il Megafono si è sentito dare dell’isterico e magari lo aiuta.
Intanto si facevano conti: saranno stati una decina, forse di più quelli accusati di aver votato «in buona fede», tanti. Così, hanno provato a convocare una riunione dei parlamentari per esaminare la questione ma ne avrebbero rinviato le conclusioni, e cioè l’ipotesi di mettere ai ceppi i colpevoli, di nuovo non è il momento. Grillo aggiunge bonario che, in sostanza, per questa volta passi, ma la prossima li vuole vedere compatti come da prescrizione, sennò saranno dolori. Come a scuola, come a casa col babbo arrabbiato con i propri figli, non come un Megafono.
La «trappola», par di capire, starebbe nel fatto che si stavano confrontando una candidatura poco credibile, Schifani, «peste bubbonica» e una benevolmente battezzata come un banale «forte raffreddore»: cioè, non c’era partita, meglio il raffreddore. Ecco, in coerenza parabolica col suo pensiero, l’orrenda sinistra sarebbe stata leale evitando di sistemare trappole nel caso avesse proposto, chessò, Totò Riina, invece che Grasso, si capisce da queste scelte come la sinistra sia «putrefatta».
Grillo si incarta, ma lo sta facendo da un po’; aveva iniziato, ad esempio, a parlare di un diabolico progetto che mira a portare D’Alema il nome di D’Alema funziona sempre al Quirinale, che evidentemente sa solo lui, giusto per rassodare la fede dei suoi ormai discretamente sparpagliati sia in Parlamento che nei blog. Nel suo soprattutto, allagato da un fiume di reazioni negative e di franchi vaffanculo al suo primo post in cui chiedeva le celebri teste dei colpevoli. Ok, niente espulsioni, per ora. Ma nemmeno si può pensare che le cose siano lasciate alla libera coscienza dei parlamentari, questa è anarchia.
Quindi, manovra a tenaglia con supercazzola onde mettere in sicurezza quegli sciamannati, eccola. Grillo (consigliato da Casaleggio?) piazza due consulenti «in coppa» ai due gruppi parlamentari con l’incarico ufficiale di coordinarne la comunicazione. Un colpo da maestro? Forse sì forse no: cosa distingue il ruolo di Daniele Martinelli e Claudio Messora i due supervisori, tecnici della comunicazione, mai votati da nessuno tranne che da Grillo e Casaleggio da quello di Starski e Hutch, di due commissari? E chi l’ha detto che i due gruppi parlamentari grillini siano contenti di questa bella soluzione che ne umilia le prerogative istituzionali? Storia avvincente.

Visto che, come dice Grillo, la nomina di Piero Grasso alla guida del Senato è stata «una trappola» in cui è doveroso che i Cinquestelle non cadano più. Visto che non sarà «il punto G», ma insomma una volta che sono là dentro, deputati e senatori, poi fanno figuracce con «Le Iene» (Gessica Rostellato non ha saputo dire chi sono Draghi e la Bce), esternano a “Un giorno da pecora” e provvedono anche da soli via web (sempre la Rostellato su Facebook). Visto e considerato che tutto questo e molto di più è accaduto in meno di una settimana, Grillo e Casaleggio corrono ai ripari con i loro bravi ma ingenui cittadini Cinquestelle eletti a Camera e Senato. E nominano dei veri e propri tutor. Responsabili comunicazione che avranno la mission dichiarata di «evitare fraintendimenti ottimizzando la comunicazione». Si chiamano Claudio Messora e Daniele Martinelli, 45 e 43 anni, entrambi blogger di successo e, soprattutto, artefici con Casaleggio del successo mondiale del blog di Grillo. Nato, infatti, politicamente prima sulla rete che nella realtà.
Come previsto, quindi, la Casaleggio e associati mette mani e cappello sui gruppi parlamentari e sul grande business dei rimborsi ai gruppi parlamentari. È opportuno precisare bene questo punto prima di andare avanti nel raccontare le doti giornalistiche e comunicative di Messora e Martinelli.
Ogni eletto Cinquestelle infatti vale circa 4.600 euro al mese. Non stiamo parlando dello stipendio di ogni singolo parlamentare, di cui per altro non è ancora ben chiaro se e a cosa rinunceranno tra stipendio netto e diaria mensile (totale circa 12 mila euro netti). Stiamo parlando dei rimborsi ai gruppi parlamentari, i soldi che Camera e Senato elargiscono per il funzionamento dei gruppi che sono appunto 4.600 euro per ogni eletto. Essendo 153 i grillini tra Montecitorio e palazzo Madama, i due gruppi parlamentari Cinquestelle incasseranno ogni mese 703 mila euro e spiccioli. La passata legislatura, nell’ottica di tagli e risparmi, ha deciso che quei soldi almeno per la metà devono essere destinati per pagare il personale, creano quindi posti di lavoro. Ora viene il bello. Nel documento che Grillo ha fatto sottoscrivere agli eletti, si legge che l’altra metà di quella cifra (2.300 euro al mese per ogni parlamentare) dovranno essere versati a Grillo per la comunicazione. Si tratta di 350 mila al mese.
La notizia della nomina di Messora e Martinelli, nei fatti mandati ad affiancare Vito Crimi al Senato e Roberta Lombardi alla Camera, deve aver creato un po’ di tensione ieri. Crimi ha fatto cacciare i giornalisti dal terzo piano del Senato dove i Cinquestelle si riuniscono. «Sabato hanno origliato alla nostra porta» ha denunciato ai commessi. Che hanno dovuto piazzare delle transenne. Stessa scena alla Camera, al quarto piano, davanti alla Commissione Agricoltura. Quando poi alle cinque del pomeriggio scendono tutti insieme alla buvette per un caffè e un tè, si ritrovano in un attimo circondati dai taccuini, e spiegano di non poter andare oltre lo scambio di qualche formalità. A parte una deputata che dice: «Il caso Grasso è già finito, non ci sarà alcune espulsione, anche Grillo ha capito. Uno-vale-uno...».
Claudio Messora è uno dei più noti blogger italiani, conosciuto con il nome di “Byoblu”. Passione per la musica, studi scientifici e informatici alla Statale di Milano, Messora è soprattutto uno smanettatore informatico e un giornalista web d’inchiesta che vanta numerosi premi. Ha una buona opinione di sè: «Le mie posizioni critiche sulle relazioni tra grandi banche d’affari, la speculazione internazionale e le lobby che hanno portato al rovesciamento del governo italiano e di quello greco, con l’insediamento di Monti e Papademos, hanno suscitato un acceso dibattito approdato anche nei salotti televisivi dove sono stato spesso invitato». Martinelli è inviato ufficiale del blog di Grillo e ha precedenti di militanza con l’Idv di Di Pietro (candidato in Lombardia nel 2010). E fino al 2009 è stato «cronista giudiziario» sempre per il blog dell’ex pm. Lui vede così il nuovo incarico: «La mia consulenza servirà ad ottimizzare la comunicazione per evitare fraintendimenti». Il mezzo è e sarà soprattutto uno: La Rete. Sembra di sentire Casaleggio e la voce narrante del video Gaja .

Repubblica 19.3.13
“Io, da blogger a commissario vigilerò sui deputati ingenui”
Martinelli, amico di Casaleggio: qui per evitare che si sputtanino
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — Dicono che l’abbiano scelto per “commissariare” sul piano comunicativo i parlamentari grillini, dopo gli inciampi dell’esordio. Daniele Martinelli, il blogger bergamasco di 44 anni nominato coordinatore del gruppo di comunicazione M5S alla Camera, non nega. «Sarò commissario nel senso che cercherò di evitare che si presti il fianco ad attacchi strumentali, di cui sono pieni i giornali da settimane ». Guiderà le truppe giovani e un po’ smarrite di Montecitorio: «Si tratta di cittadini acqua e sapone, digiuni di stampa. E poi magari l’ingenuità...».
Ingenuità?
«Certo, qualcuno tra loro può peccare di ingenuità e cadere nelle trappole di chi vuole sputtanarlo».
Primo voto in Aula, prima spaccatura. Un problema?
«I sei o otto che hanno votato per Grasso l’hanno fatto in libertà. Ora questi nomi usciranno e si vedrà se si dimetteranno o come si risolverà la cosa. La libertà, comunque, è stata innanzitutto quella di scegliere e votare i 160 parlamentari del M5S».
Altro incidente di percorso: la deputata che non stringe la mano a Rosy Bindi.
«Neanche la conosco, ma comunque non è un mio problema.».
Da domani sarà anche un suo problema.
«E’ grande e vaccinata, decide lei. Fa quello che ritiene giusto, io rispondo di me. E’ un problema tra lei e la Bindi. E comunque non credo sia un fatto importante, né penso sia giusto attaccarla».
Non è stata una grande idea, comunque.
«Sono lì da due giorni, hanno gli occhi di tutti addosso. E’ una fase di assestamento inevitabile, sono osservati 24 ore al giorno per essere giudicati».
Dicono che sia stato Casaleggio a sceglierla. L’ha chiamata?
«Con Casaleggio sono in costante contatto, la nostra è un’amicizia che dura da anni. Ma non ho ancora parlato con Beppe Grillo: non mi sento con lui da tanto tempo. Ho capito che la scelta era ufficiale perché sono stato inondato di richieste di amicizia su Facebook».
Il rapporto tra stampa e grillini è turbolento. Da giornalista, come la vive?
«Sono abbastanza critico verso la categoria, l’ho denunciato in passato sul blog. Credo sia un po’ giustificata l’avversione verso i giornalisti. Poi, certo, ci sono anche quelli obiettivi».
Il suo sarà un compito delicato. Come intende muoversi?
«Bella domanda. Le confesso che devo ancora parlare con la capogruppo Roberta Lombardi per i particolari dell’attività. Per intenderci, io non sono mai stato alla Camera, solo in piazza Montecitorio».
Immagino dovrà trasferirsi a Montecitorio.
«Si, credo nei prossimi giorni. Abbiamo rinunciato ai fondi pubblici, dobbiamo capire come muoverci in un’ottica di spending review. Lavorerò per una comunicazione trasparente e chiara, per evitare gli attacchi strumentali che sta subendo il movimento. L’obiettivo è la comunicazione diretta: la Rete non ha filtro».
Insomma, sarà un “catalizzatore”.
«Non so se sarò in grado di esserlo. Per me è un’esperienza nuova. In passato ho diretto un Tg lombardo, Studio Uno. Avevo con me cinque persone, qui saranno cento. Faccio la rassegna stampa da anni, sono stato inviato unico del blog di Beppe. Ma questo per me è un nuovo incarico, giuro che ancora non so cosa farò».
Grillino purissimo, comunque.
«Ho condiviso la battaglia, sono sempre stato sulla lunghezza d’onda di Beppe. Sono iscritto al movimento, l’ho votato, ma non sono mai stato attivista».
Dal Pd dicono che sia stato “trombato” alle parlamentarie.
«Mi sono sottoposto alla graticola e non mi hanno preso. Anche perché non sono attivista e alcuni non mi conoscevano».

Corriere 19.3.13
Codice etico e tecnologia per evitare nuove «trappole»
Il nodo referendum online sull'espulsione dei dissidenti
di Emanuele Buzzi

MILANO — Tecnologia e politica, la ricetta per uscire dall'impasse. E dalle polemiche di questi giorni. I Cinque Stelle si dividono su come evitare nuove «trappole» — come le ha chiamate Beppe Grillo — dell'Aula. Le votazioni a maggioranza hanno creato qualche malessere, che si esplicita anche in alcune perplessità sui metodi finora utilizzati. Un parlamentare sbotta: «Non è possibile che dopo ogni votazione ci sia una minoranza che tenti di capovolgerne l'esito. Ormai è la terza volta». Questioni di democrazia (interna), presenti in ogni gruppo in Parlamento ma che tra gli eletti del Movimento hanno dato vita a una discussione più radicale sulla gestione di discussioni e votazioni. Già prima della giornata di sabato era emersa la volontà di trasmettere in streaming le riunioni dei parlamentari. Così è stato fatto ieri per la Camera (dopo una parte a porte chiuse), con qualche esito imprevisto: «Mi avvisano da casa che ho sbagliato un congiuntivo. Mi spiace, faccio ammenda, domani prevista fustigazione a mensa», interviene in diretta il moderatore Alessandro Di Battista. Domenica si era riunito per la prima volta un gruppo di lavoro ad hoc per stabilire con quali modalità trasmettere le riunioni.
«A giorni» — come sostengono fonti vicine ai Cinque Stelle — dovrebbe essere pronta e attiva la piattaforma promossa e creata dallo staff di Gianroberto Casaleggio. Dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni, la chiave di volta dell'esperienza parlamentare dei Cinque Stelle, lo strumento in grado di garantire l'interazione tra la base degli attivisti e gli eletti a Roma. E non solo. Potrebbe già diventare fondamentale nei prossimi giorni. Il caso dei senatori dissidenti e del loro eventuale allontanamento dai Cinque Stelle fa dibattere. Anche perché ci sono regole precise, contenute nel «Codice di comportamento», firmato da tutti gli eletti. «I parlamentari del M5S riuniti, senza distinzione tra Camera e Senato, potranno, per palesi violazioni del Codice di comportamento, proporre l'espulsione di un parlamentare del M5S a maggioranza — si legge —. L'espulsione dovrà essere ratificata da una votazione online sul portale del M5S tra tutti gli iscritti, anch'essa a maggioranza». Lo stesso capogruppo al Senato Vito Crimi, intervistato da La7, dichiara: «Cosa farei oggi se avessi votato per Grasso? Non lo so, probabilmente cercherei di spiegare ma probabilmente rimetterei alla rete la decisione se mi deve essere data una seconda possibilità o meno».
Un caso nel caso. Loro, gli attivisti, quelli che dovrebbero votare e usare la piattaforma dibattono. E non solo dei senatori dissidenti. Ieri parecchi sono stati i commenti sulla scelta dei responsabili per la comunicazione. E non tutti positivi. Come Francesco De Paoli, che scrive alla deputata Paola Nugnes: «Ma questi due affiliati del blog di Grillo li ha scelti qualcuno? Non è questo forse un modo per tenervi un po' più a bada?». C'è anche però chi vede la mossa con fare benevolo. Mauro Iotti sul blog del leader è pragmatico: «Bisognava avere una congiunzione tra Grillo-Casaleggio e i neoparlamentari» per «non ripetere quella votazione infelice».
Intanto, mentre la base discute e si mettono a punto le strategie tecnologiche, i parlamentari si stanno preparando a lanciare la loro offensiva contro sprechi e abusi della politica. Già nei prossimi giorni dovrebbero essere lanciate le prime denunce-battaglie di questa nuova legislatura. Dopo la baruffa (interna), i Cinque Stelle si preparano allo scontro con il mondo dei palazzi della politica.

Repubblica 19.3.13
La democrazia dell’anatema
di Nadia Urbinati

MOLTI cittadini hanno espresso il loro disappunto per l’anatema lanciato da Beppe Grillo contro i “traditori” che in Senato non se la sono sentita di considerare Schifani e Grasso equivalenti. Quei cittadini hanno messo il dito nella piaga di un movimento che crede che la democrazia implichi unanimità (salvo poi praticare la regola di maggioranza quando deve espellere i traditori!).
Ehanno messo in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche libertà di decisione di chi siede in Parlamento. Come sanno bene i partiti, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. E le espulsioni dal partito non si traducono in decadenza del mandato parlamentare. La nostra libertà come cittadini dipende da questa intraducibilità, e cioè dalla libertà dei nostri rappresentanti. Nel libero mandato sta la forza della democrazia elettorale. Senza il quale i deputati sarebbero dipendenti al servizio di un padrone che sta al di sopra dell’interesse generale.
Ha colto nel segno quel blogger che ha scritto, rivolgendosi a Grillo e alla sua minaccia di espellere chi ha votato Grasso, queste parole: “E voi sareste contro la partitocrazia? Ma è proprio questo! Limitare la libertà di scelta perché fa comodo al partito. Siete peggio dei peggiori partiti della prima repubblica. Viva la libertà di pensiero. Viva i cittadini che hanno scelto di dire no al padrone del partito. Così hanno reso un servizio alla gente”.
La libertà dei rappresentanti si incontra con quella dei cittadini e, se la prima viene meno, anche la seconda è violata. Il mandato libero, ripetiamolo a chi ne ha dato una definizione distorta e sbagliatissima, non serve a dare all’eletto la libertà di saltare i fossi e passare da uno schieramento a un altro — se questo avviene, non si deve concludere che la norma è sbagliata. Ad essere “sbagliato” – nel senso di eticamente riprovevole – è il comportamento del deputato. Ma meglio rischiare queste violazioni (e, se necessario, lasciare che la legge le punisca se il salto è stato pagato con moneta sonante) che volere una violazione fatale: quella che ci sarebbe se non ci fosse mandato libero.
La libertà di essere responsabili di fronte ai cittadini significa anche rendersi conto chi siede in Parlamento è come un pezzettino del popolo sovrano e che, quando si trova a dover decidere su questioni istituzionali, dovrebbe ragionare mettendosi dal punto di vista dell’interesse generale, ovvero del “come se” al suo posso ci fosse il popolo tutto. Un processo che potrebbe sembrare astratto, ma non lo è perché tutti noi siamo capaci di ragionare mettendoci dal punto di vista degli altri, anzi di tutti. Questa visione larga del giudizio politico che ci consente di pensare a noi come parte di un tutto grande è alla base della nostra capacità di cittadinanza. Il parlamentare si identifica certamente con una bandiera ma sa che perfino mettendosi dal suo punto di vista può riuscire a vedere il tutto, il generale. Un po’ come avviene con la prospettiva pittorica: certo, diversi punti di vista ci danno diverse visioni dello stesso luogo. Diverse idee politiche, anche opposte, ci portano a vedere una stessa cosa da diverse angolature e però sappiamo che si tratta della stessa cosa. Il disonesto non diventa onesto se visto da una diversa prospettiva. E quando si impongono scelte istituzionali (come quelle che portano all’elezione dei presidenti di Camera e Senato), scelte che dovrebbero interrogare proprio quel giudizio largo sull’interesse generale, questo lo si vede con facilità... a meno che l’identità di partito non faccia ombra al giudizio. È questo che Grillo si ostina a chiedere ai suoi che siedono in Parlamento.
Ed è questo che ha fatto il gruppo dei montiani, del quale desta particolare stupore la decisione di votare scheda bianca. Poiché la filosofia nel nome della quale è nata la lista montiana è la competenza e l’oggettività, la dirittura morale e l’onestà, contro le ideologie di destra e di sinistra. E quindi ci si sarebbe aspettati che non decidessero per ideologia, come hanno invece fatto votando scheda bianca. La similitudine di M5S e montiani è sorprendente: si sono entrambi candidati appellandosi all’antipolitica contro i partiti (nel nome della totale trasparenza, sia essa della moralità o della verità) ed entrambi si sono comportanti come i partiti, anzi i peggiori dei partiti: con ideologia e per disciplina di partito.

l’Unità 19.3.13
La senatrice Fucksia
«Curriculum troppo bello, Boldrini non mi piace»

Ha un curriculum «troppo bello» e per questo la boccia. «A me Laura Boldrini non piace»: così Serenella Fucksia, senatrice del Movimento Cinque Stelle, ieri al programma di Radio Due «Un Giorno da Pecora» ha parlato della neo-presidente della Camera. Perché non le piace? «Perché ne parlano tutti bene ha risposto la neoparlamentare della Repubblica ed è fin troppo facile parlarne bene. Lei ha un curriculum fin troppo bello, con questi incarichi troppo veloci e troppo facili. È figlia di una famiglia che sicuramente l’ha sostenuta e gli ha permesso di fare quello che ha fatto. E a me le persone che si fan belle...», “argomenta” Fucksia, che nei giorni scorsi era finita sui giornali per non aver detto nulla al contrario di quanto annunciato dal M5S sulla ineleggibilità di Berlusconi, alla riunione della Giunta per le elezioni. Sul voto per Grasso, invece, Fuksia ha commentato con SkyTg24: «La libertà di coscienza era ammessa. Chi ha dichiarato con onestà e chiarezza un voto contro la mafia, chiaramente non a sostegno del Pd, mi sta bene. Non escludo però che persone nel Movimento in totale cattiva fede. La mano sul fuoco su Vacciano non ce la metto».

Repubblica 19.3.13
Alessandra Longo

Inquietudine in casa leghista per le elezioni alla Camera di Laura Boldrini. Una scelta che equivale — leggiamo su “La Padania” di ieri — a «mettere un dito nell’occhio» al partito. La Padania ricorda che la «fustigatrice rossa» è stata «l’implacabile avversaria» dell’ex ministro dell’Interno Maroni in materia di immigrazione. Il Carroccio già prevede «la declinazione aspramente antileghista» della neopresidente. Aurora Lussana racconta che, proprio mentre Boldrini raggiungeva lo scranno più alto, lei leggeva su Wikipedia una definizione di Donna Prassede, personaggio manzoniano: «Nella sua volontà di bene c’è una smania di dominio, ha l’ossessione delle cause e dei princìpi; esercita una pseudo-carità balordamente raziocinante; si cura di detenere il monopolio di tutte le buone azioni...».

Corriere 19.3.13
La Comunità araba contro l’ex comico
«Noi indignati dalle parole su Ruby e le ragazze tunisine»

MILANO — «Berlusconi ha paura di fare la fine di Bottino (sic) Craxi, ma sarebbe invece la sua fortuna. In fuga sulle spiagge tunisine piene di Ruby e senza la rottura quotidiana dei suoi questuanti» scriveva Beppe Grillo il 12 marzo sul suo blog. La frase non è sfuggita alla comunità tunisina che, con una nota del Centro socioculturale tunisino di Roma, fa sapere di essere pronta a denunciare lo showman per diffamazione. «Il presupposto di tali affermazioni — si legge nella nota — è il giudizio etico negativo a carico della signora Ruby, che peraltro non è tunisina (è nata in Marocco, ndr), che viene esteso alla generalità delle donne tunisine. Questo lede gravemente l'immagine e la dignità dell'intero popolo tunisino». Secondo il Centro, molti tunisini residenti in Italia si sarebbero sentiti offesi dal commento, rivolgendosi alle rappresentanze consolari per essere tutelati.

La Stampa 19.3.13
Il doppio salto mortale dei grillini
di Elisabetta Gualmini


Il «partito di Grillo» è alle prese con un problema cruciale, che tutte le forze politiche hanno dovuto affrontare e nel corso del tempo hanno codificato. Di più, si tratta di uno dei dilemmi organizzativi chiave per qualsiasi partito che operi in una democrazia parlamentare. Come devono essere disegnati i rapporti e quale equilibrio deve esistere tra il gruppo dirigente (party in the central office), la base associativa (party in the ground) e gli eletti nelle istituzioni (party in public office)?
Storicamente, ad esempio, nei partiti comunisti e, in minore misura, nei partiti socialdemocratici, i gruppi parlamentari erano visti come esecutori di una linea politica concepita e dettata dal Segretario e dalla segreteria. Nei partiti liberal-democratici, al contrario, la linea politica e la leadership emergevano dall’interno dei gruppi parlamentari.
Grillo e i grillini devono risolvere questo dilemma organizzativo esibendosi in un doppio salto mortale (con tutti i rischi che ciò comporta di rimetterci l’osso del collo). Perché non hanno alle spalle una pratica, una tradizione o una teoria a cui appoggiarsi, e perché la loro impresa politica ha caratteri del tutto peculiari che a questo punto rischiano di entrare in collisione. Come ormai tutti vedono, il Movimento 5 Stelle è nato da un lato diffondendo a piene mani la retorica partecipativa, orizzontale e iper-inclusiva, dei cittadini normali plenipotenziari che decidono su tutto, ognuno-vale-uno nei Meetup; dall’altro attraverso la comunicazione unilaterale e ultimativa del capo che, eventualmente, ricerca il consenso con domande retoriche, solo dopo aver emesso i suoi ukase, e che zittisce chi dissente o deraglia con scomuniche senza appello.
La sequenza che ha portato prima all’elezione dei capigruppo parlamentari in base a un canovaccio del tutto in linea con la logica orizzontale e poi alla nomina dall’alto dei due blogger «responsabili della comunicazione» sembra il segno eloquente di questa tensione, della ricerca di un equilibrio per prove ed errori o anche, di un tentativo di «routinizzazione del carisma».
In maniera sgangherata e sgarruppata il líder máximo si sta umanizzando. La sua sacralità si sta erodendo. Il carisma straordinario che ha guidato la battaglia (Siamo in guerra, scrivevano Casaleggio e Grillo nel 2011), richiamato le folle, adunato migliaia di truppe e preparato l’assedio al Parlamento, per poter durare deve mutare carattere. Un po’ come ci ha spiegato Max Weber. Per gestire le fasi di ordinaria quotidianità e le loro innumerevoli derive, il potere carismatico deve strutturarsi e normalizzarsi. Incarnarsi in strumenti concreti e alla portata dei comuni mortali, magari poggiando su livelli e filtri intermedi (i due blogger) che appunto negoziano tra gli eletti e il leader, oppure controllano i secondi da parte del primo.
E così chiusa la porta dell’iperuranio, Grillo si è teletrasportato in mezzo a noi. Costretto a scendere a patti con quel consorzio umano di parlamentari-cittadini, ai loro primi giorni di scuola, che un po’ schifa e un po’ blandisce. Costretto a sedare pianti, lamentele, impuntature e «reazioni isteriche» (così il Sen. Citt. Molinari) di chi con baldanza ha provato ad alzare la testa pur sapendo allo stesso tempo che senza il capo dei capi quel banco di Palazzo Madama o di Montecitorio l’avrebbe visto solo in cartolina.
Il bello di questo esercizio è che ci regala ogni giorno una notizia. Un fatto nuovo e inatteso. Un nuovo personaggio in cerca d’autore. Il brutto è che il teatrino dell’apprendimento organizzativo si svolge nella sede cardine della rappresentanza, durante il momento più drammatico di una crisi economia e politica di cui non si intravede da tempo la fine.

il Fatto 19.3.13
Scomuniche
Grillology, le leggi fai-da-te
di Marco Lillo


Bernardo di Chartres diceva che noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, cosicché possiamo vedere più lontano di loro non grazie alla nostra statura o all'acutezza della nostra vista, ma perché - stando appunto sulle loro spalle - stiamo più in alto di loro”. Grillo, prima di scrivere i suoi post sull’articolo 67 della Costituzione dovrebbe meditare su questa massima. Ieri, il leader 5 stelle ha scritto sul suo blog: “Il problema non è Grasso. Se, per ipotesi, il gruppo dei senatori del M5S avesse deciso di votare a maggioranza Grasso e tutti si fossero attenuti alla scelta, non vi sarebbe stato alcun caso. In gioco non c’è Grasso, ma il rispetto delle regole del M5S”.
DOPO QUESTA premessa su una presunta libertà di autodeterminazione degli eletti che non esiste (provate a immaginare cosa accadrebbe se i grillini decidessero a maggioranza di votare D’Alema presidente) Grillo va al nocciolo del problema: “Nel ‘Codice di comportamento eletti Movimento 5 Stelle in Parlamento’ sottoscritto liberamente da tutti i candidati, al punto Trasparenza è citato: Votazioni in aula decise a maggioranza dei parlamentari del M5S”. Non si può disattendere un contratto. Chi lo ha firmato deve mantenere la parola data per una questione di coerenza e di rispetto verso gli elettori”. Ecco il punto: il contratto violato dall’eletto, quello che impone di votare secondo la scelta presa a maggioranza dal gruppo. Anche i dissidenti che hanno votato il procuratore antimafia Grasso, in verità, non contestano questa impostazione. Scrive il senatore Marino Mastrangeli: “Ho votato Grasso attenendomi al supremo principio contenuto nel comunicato politico numero 45 scritto da Grillo l’11 agosto 2011” in cui viene sancito il diritto di ogni elettore a rispondere “al Movimento 5 Stelle e alla propria coscienza”. E anche il senatore Giuseppe Vacciano ci tiene a dire: “certamente non mi trincererò dietro l’articolo 67 della Costituzione, ho seguito la mia coscienza e sono pronto a discutere l’opportunità delle mie dimissioni”. Altri precisano che comunque l’espulsione può essere decisa solo da tutti i parlamentari 5stelle e poi deve essere ratificata da tutti gli iscritti sul web.
La partita per stabilire dove sia il giusto e lo sbagliato resta insomma tutta interna a questo mondo un po’ claustrofobico: il contratto, il comunicato 45 e l’ordalia del popolo grillino sul web, sono questi i riferimenti supremi del movimento, altro che la Costituzione o i principi generali delle leggi. A Grillo si potrebbe rispondere che un contratto che impedisce a un parlamentare di votare secondo coscienza viola l’articolo 67 della Costituzione e che un contratto contrario alla legge è nullo. Ma sarebbe una risposta “giuridica” mentre è chiaro che il leader del Movimento 5stelle lamenta l’inadempimento di un patto politico e morale, non legale.
La questione alla fine non è Grasso ma non è nemmeno la violazione del contratto-non statuto da parte dei senatori. Il problema è proprio il rispetto dell’articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Non a caso Grillo nel comunicato precedente aveva chiesto di gettare a mare questo principio che risale addirittura a Edmund Burke perché così finalmente avrebbe potuto “perseguire penalmente e cacciare a calci dalla Camera e dal Senato” i traditori. Grillo scriveva quel post pensando a Scilipoti ma il rischio è gettare via un principio basilare della democrazia parlamentare assieme all’acqua sporca della Casta.
NON È UN CASO se i Padri costituenti hanno voluto l’articolo 67. La Corte costituzionale nel 1964 ha stabilito che “nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che abbia votato contro le direttive del suo partito” per tutelare i cittadini dalla partitocrazia. Nel 1969 il Consiglio di Stato è arrivato ad annullare una delibera del consiglio provinciale di Rieti perché i consiglieri dichiararono di essersi determinati a votarla solo per disciplina di partito. Quella norma è ispirata non alla tutela del posto di Scilipoti, ma a un principio alto: l’attività politica deve essere esercizio di libertà anche nel modo in cui la volontà dei singoli partiti si trasforma in volontà del parlamento e quindi in volontà dello Stato.

Corriere 19.3.13
Boeri, un caso per il Pd «Mi hanno venduto. Renziani nel mirino»
Milano, lo sfogo dell'ex assessore dopo essere stato congedato da Pisapia
di Maurizio Giannattasio Elisabetta Soglio


MILANO — Un regolamento di conti in casa Pd, con i renziani nel mirino. E un sindaco Giuliano Pisapia pronto ad approfittare della situazione per togliersi dai piedi un personaggio scomodo con «motivazioni del tutto ingiustificate». È l'«ipotesi ragionevole» che mette sul piatto l'ormai ex assessore Stefano Boeri dopo il suo licenziamento in tronco deciso dal sindaco Giuliano Pisapia. L'architetto mette in fila alcuni nomi: cita la consigliera Anna Scavuzzo, «doveva entrare in giunta ma l'hanno silurata»; il capo di gabinetto del sindaco Maurizio Baruffi, «non è stato eletto al Parlamento»; e poi se stesso, che ieri ha fatto le valigie lasciando l'ufficio della Cultura al maestro Filippo Del Corno. Boeri va all'attacco del partito che lo aveva candidato alle primarie del 2010, proprio come sfidante di Pisapia: «Il Pd con i suoi vertici appassiti mi ha venduto per un piatto di lenticchie».
È la giornata delle dichiarazioni ufficiali. Che divergono totalmente. Parte il sindaco Pisapia che ieri sera in consiglio comunale ha dato il via alla Fase 2 del suo mandato: «Oggi affrontiamo un nuovo inizio. C'è bisogno di una squadra unita e motivata». A sottintendere che Boeri non contribuiva a questo risultato. Continua: «Non è una questione personale. Si era compromesso il rapporto di fiducia e ho ritenuto, anche con profondo dolore, che non ci fossero più le condizioni per proseguire la collaborazione». Non entra nelle motivazioni che hanno portato al ritiro della fiducia. Ma fa una serie di riferimenti indiretti. «Milano ha bisogno di una giunta che lavori con armonia e in armonia, senza personalismi non solo nei confronti del sindaco ma anche dei colleghi assessori. Il che non vuol dire non discutere — magari senza poi dirlo subito, per di più in forma anonima, ai giornali — ma poi bisogna scegliere e rispettare le decisioni prese».
Due ricostruzioni agli antipodi: quella di Boeri poggia su questioni prettamente politiche e personali. Il sindaco, invece, richiama a urgenze amministrative, a partire dal tema della crisi occupazionale ed economica e dalla necessità di dare risposte ai cittadini con una squadra coesa che marci unita nella stessa direzione. La verità è che l'avvocato e l'archistar non si sono mai amati. Fin dall'inizio si scontrano su tutto come se le primarie non si fossero mai concluse. Dall'Expo a dove mettere il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, dalla vendita dei gioielli di famiglia (Sea e Serravalle) al Museo dell'Arte contemporanea a Citylife, dai rapporti con il governatore Roberto Formigoni agli Ambrogini d'oro. Un anno fa si arriva sull'orlo della rottura. Boeri recita un mea culpa pubblico e miracolosamente la frattura si ricompone. Solo in apparenza. Anche se l'archistar rinuncia alla sua vena polemica e si butta solo su mostre e cultura, la ruggine resta. Un mese fa il primo casus belli della nuova serie: un concerto all'Ex Ansaldo privo delle autorizzazioni per la sicurezza. Il sindaco è costretto a firmare l'ordinanza per permettere il concerto. Ma si infuria: «Se succede qualcosa sono il responsabile». Poi l'attacco frontale sulle spese eccessive per le mostre, la scarsa attenzione alle periferie, le spese per le consulenze. Tutte accuse che Boeri respinge. A sua difesa si mobilità una fetta della società civile, alcuni consiglieri del Pd chiedono di soprassedere. Altri intellettuali appoggiano la scelta del sindaco. Ma ormai la macchina è lanciata a 300 all'ora. C'è anche l'occasione: il rimpasto di giunta previsto da mesi. Il nome dell'architetto finisce nell'elenco di quelli che volenti o nolenti lasciano la poltrona. E siamo a ieri. Con l'ufficializzazione dei nuovi assessori, con i consiglieri di maggioranza che rientrano nei ranghi. Con un vago ritorno alla normalità. Questo dentro al Palazzo. Fuori la situazione è diversa. Perché la spaccatura tra Pisapia e Boeri è una spaccatura trasversale. Spacca il mondo della cultura, spacca il mondo della borghesia milanese e spacca il partito di maggioranza relativa in città.

l’Unità 19.3.13
Non dimenticate i manicomi giudiziari
di Mariapia Garavaglia


AL CHIARO PROGRAMMA DEL PD BISOGNA AGGIUNGERE DELLE INTEGRAZIONI CHE SONO QUALIFICANTI PER LA NOSTRA CONCEZIONE DEI DIRITTI E DEI DOVERI. Perché gioire di riforme fondamentali se siamo sicuri di non applicarle? Passa anche da qui la sfiducia nella politica. Infatti il prossimo 31 marzo si dovrebbero chiudere definitivamente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), ma quasi sicuramente non sarà possibile e dunque si presenterà un decreto di proroga.
È noto che sia gli ospedali psichiatrici, i famosi manicomi, sia gli Opg sono stati oggetto di molte indagini e inchieste, essendosi rivelati troppo spesso luogo di degrado e di violazione di ogni minima dignità degli ospiti. Se in Aula, abbiamo gioito della votazione unanime della norma che prevede la chiusura, oggi ci rattrista constatare che, in assenza di una pianificazione delle strutture, dei servizi e della loro distribuzione territoriale con il necessario e qualificato corredo di personale, si rischia di affidare alle Regioni delle risposte qualsiasi.
Dobbiamo certamente tenere in considerazione che non tutte le situazioni sono uguali e, ancor di più, che sono molto diversificate le condizioni personali degli ospiti, quanto a stato di salute e a pena da scontare. Servirebbero prestazioni individualizzate che consentano di selezionare in base alle situazioni, perchè non ci nascondiamo che sono necessarie anche misure di sicurezza. Sono, infatti, da bilanciare due diversi diritti:quelli della comunità che ha diritto ad essere messa al riparo da comportamenti pericolosi e quelli degli ospiti che hanno il diritto costituzionale a ricevere le cure appropriate, senza discriminazioni, fino alla conclusione della pena. Ricordo che, quanto alla pena, gli Opg sono strutture «senza fine pena certa»; non è un particolare trascurabile.
La legge n.9/2012, fortunatamente, è finanziata e in Italia, nelle Regioni, ci sono sporadici ma buoni esempi di applicazione delle norme funzionali ad attuare le finalità di questa legge, come della legge 180/1978.
Non è coerente con la nostra impostazione che vede nella regionalizzazione della sanità l’ occasione per aggiornare e adattare alle esigenze territoriali e culturali l’organizzazione sanitaria, ma viene spontaneo chiedersi se non sia il caso di prevedere un commissario ad acta per ottenere entro il più breve tempo possibile l’attuazione di una legge che non è solo una coerente scelta di civiltà, ma anche la dimostrazione che le riforme non sono bandiere.
Si riconquista la fiducia dei cittadini facendo seguire l’attuazione ai programmi annunciati, salvaguardando diritti e doveri, nonché le aspettative dei cittadini, a cominciare dai più deboli e indifesi.
Il Pd qualifica le sue scelte «di sinistra» se dà voce anche a chi elettoralmente esprime preferenze di voto in centesimi di percentuali.

l’Unità 19.3.13
Il silenzio degli innocenti
Il documentario-choc sugli abusi dei preti pedofili in Usa
Da domani nelle sale il film «Mea maxima culpa» del premio Oscar Alex Gibney Un’inchiesta tra gli orrori in un istituto a Milwaukee
di Gabriella Gallozzi


C’È IL SILENZIO SOPRATTUTTO. QUELLO DELLE VITTIME, RAGAZZINI SORDOMUTI DI UN ISTITUTO RELIGIOSO DI MILWAUKEE, WISCONSIN. Quello delle autorità religiose locali, risalendo via via tutte le gerarchie ecclesiastiche vaticane, fino ai piani alti della Curia romana: Joseph Ratzinger.
È un muro di silenzio, omertà, secolare e potente come la Chiesa, quello contro il quale si scaglia l’americano premio Oscar Alex Gibney col suo impressionante Mea maxima culpa: silenzio nella casa di Dio, il documentario che Feltrinelli Real cinema porterà nelle sale da domani sfidando sicuramente le ire più terrene di quanti, ancora oggi, si ostinano a non fare i conti con la necessità di un radicale rinnovamento della Chiesa.
Il tema, infatti, è quello dello scandalo dei preti pedofili, dagli Stati Uniti all’Europa, Italia compresa. Una inchiesta dettagliata, con dati, atti giudiziari, nomi e cognomi di vittime e carnefici nel consolidato stile di un regista che ha sempre menato duro contro gli abusi di potere, che siano quelli del capitale (Enron: l’economia della truffa) o delle istituzioni che violano i diritti umani, come ha fatto l’amministrazione Bush per combattere il «terrorismo islamico» (Taxi to the Dark Side, Oscar 2007).
Dare voce a chi non ce l’ha, in questo caso letteralmente, è il punto di partenza di questo nuovo durissimo lavoro di Gibney che arriva in Italia quando i riflettori planetari sono ancora accesi sull’uscita di scena di Benedetto XVI e l’arrivo di papa Francesco. Il racconto, infatti, parte proprio dalle testimonianze di chi la violenza dei preti pedofili l’ha vissuta sulla propria pelle. Senza poterla denunciare per anni, lunghissimi, interminabili. Parliamo di quattro ex allievi dell’istituto per sordomuti St. John’s di Milwaukee, dove per trent’anni padre Lawrence Murphy ha abusato e violentato i ragazzini nell’omertà delle più alte gerarchie vaticane. Sono loro oggi, ormai uomini di mezz’età, a raccontarci dell’incubo vissuto, per il quale hanno invocato la giustizia degli uomini, arrivando a far causa al Vaticano e allo stesso Ratzinger, allora alla guida della Congregazione della dottrina della fede, sul cui tavolo arrivano d’ufficio tutte le denunce di abusi sui minori da parte del clero.
E sono testimonianze agghiaccianti. Padre Murphy, l’unico in istituto a parlare la lingua dei segni, aveva gioco facile. I ricordi delle notti in camerata quando lo sentivano entrare «come un lupo» in cerca della preda evocano un film horror che si è perpetrato per anni. Inutili i tentativi dei ragazzi di diffondere volantini di denuncia. Inutili quelli di comunicare le violenze ai genitori, i pochi a conoscenza del linguaggio per sordomuti. Inutili quelli di rivolgersi alla polizia. Sono passati «secoli» prima che lo scandalo di Milwaukee venisse alla luce. Mentre padre Murphy ha continuato ad agire indisturbato (si parla di circa 200 abusi) fino a metà anni Settanta, quando viene finalmente rimosso dall’incarico di direttore dell’istituto, ma senza subire alcun processo canonico, senza rinunciare all’abito, nonostante le denunce dello stesso arcivescovo di Milwaukee, pervenute a Ratzinger.
È una storia di violenze e silenzi colpevoli quella che ci racconta Mea maxima culpa, in cui il «caso Murphy» è solo uno dei tanti che hanno macchiato la Chiesa negli anni. E che ha sempre taciuto. Già nel primo dopoguerra i Paracletes Center, istituti per «il recupero» dei preti pedofili, sorgevano isolati in luoghi protetti dagli sguardi indiscreti. A dire di un fenomeno di impressionante vastità. Meticoloso, puntuale cronista Alex Gibney ascolta un gran numero di testimoni, giornalisti, avvocati. Passa al setaccio gli scandali scoppiati in Irlanda, Germania. In Italia, anche, a Verona, pure qui un istituto per sordomuti che ha fatto da scenario alle violenze per oltre trent’anni. È un puzzle dell’orrore Mea maxima culpa in cui, tassello dopo tassello, la requisitoria contro il silenzio della Chiesa è senza appello.

Repubblica 19.3.13
L’inferno dei bambini il silenzio della Chiesa le accuse in un film
“Mea maxima culpa” di Alex Gibney
di Arianna Finos

Esce in alcune sale e in dvd il documentario del regista premio Oscar che ha raccolto le denunce contro padre Murphy, un prete di Milwaukee che approfittò dei piccoli ospiti di un istituto per sordi

ROMA «Caro Cardinale Angelo Sodano, le scrivo questa lettera perché sono infuriato con un prete cattolico che si chiama Lawrence Murphy e voglio sapere se papa Giovanni Paolo II lo scomunicherà. Sono sicuro che il Papa sa che molti preti hanno molestato bambini americani, ma vorrei raccontargli dei preti che hanno molestato anche bambini sordi. Questi ragazzini vivevano in un dormitorio senza speranza di fuggire. Io sono uno di loro». Inizia così una delle lettere di Terry Kohut, uno dei ragazzini che padre Murphy ha molestato. Oltre duecento le vittime, dal 1950 al ‘74, nell’istituto per sordi John’s School for deaf. Il prete pedofilo è morto libero, nel 1998. Sono scritti, quelli di Kohut, pieni di rabbia, dolore, frustrazione ma anche di coraggio e voglia di giustizia. Un urlo partito da Milwaukee che ha fatto tremare il Vaticano e che, secondo il regista americano Alex Gibney (Oscar nel 2007), che ha girato il corposo Mea maxima culpa: silenzio nella casa di Dio( in alcune sale domani e in dvd con Feltrinelli) ha contribuito alla decisione di rinuncia di Benedetto XVI, che prima di essere papa, «come prefetto per la congregazione della fede era l’uomo che più al mondo conosceva i casi di pedofilia: tutti i documenti finivano sulla sua scrivania».
Nei cento minuti di testimonianze, foto, filmati, documenti che sono un necessario viaggio all’inferno, Gibney intervista i quattro uomini che hanno fatto partire le denunce: sullo sfondo ecco le foto e i filmini sbiaditi che mostrano le suore e i bambini, a mensa, nei pigiamini, cantare in coro. Un’innocenza violata, quelle suore sorridenti che rifiutavano di vedere quello che succedeva la notte. «Padre Murphy arrivava silenzioso nel dormitorio, sceglieva le sue vittime tra i bambini i cui genitori non conoscevano il linguaggio dei segni». La tecnica era la stessa «dopo la confessione ci chiamava nel suo ufficio, ci faceva tirare giù i pantaloni, ci toccava». «Ci faceva sdraiare sul letto, voleva che lo toccassimo. Poi ci assolveva». «Ci diceva che poiché lui era un prete quello non era un peccato», «che nostra madre non ci voleva più bene e solo lui si occupava di noi», «non capiva perché noi ragazzini sordi lo avessimo pugnalato alle spalle».
Non capiva, padre Murphy che nelle foto sorride, il viso rubicondo e gli occhi da predatore. «Il lupo », lo chiama uno degli ex ragazzini. Qualcuno di loro si sente in colpa per non aver denunciato l’accaduto: «Mi sento colpevole per il dolore del mio amico che per le molestie si è suicidato». Quelli che l’hanno fatto non hanno avuto ascolto: «Un amico andò alla polizia e padre Murphy li convinse che era mentalmente ritardato» o addirittura «quando prete Barrett ci vide mentre mi molestavi pensò che poteva farlo anche lui. E lo fece». Tre vescovi furono informati, non fu preso nessun provvedimento, poi ci fu il trasferimento. Due anni prima della morte di Murphy, il vescovo scrisse a Ratzinger due lettere che non hanno mai avuto risposta. Otto mesi dopo Tarcisio Bertone ordina un processo canonico che sarà bloccato perché «si ravvedono segni di pentimento».

Repubblica 19.3.13
Parla il regista americano
“Nel mio lavoro luce dopo il buio”


ROMA — Alex Gibney, il regista di
Mea maxima culpa: Silenzio nella casa di dio,
confessa: «Girare questo documentario è stata dura. Ma ciò che mi ha permesso di farlo è la storia eroica di questi uomini che sono riusciti a far sentire forte e chiara la loro voce. Alla fine del film mi sembra di regalare la luce dopo le tenebre».
Quali sono state le reazioni al suo documentario?
«Positive, soprattutto tra i cattolici. Perché, per la prima volta, il film separa la questione della fede dal crimine, un crimine contro i bambini. È un film difficile da guardare, ma anche pieno di speranza. Purtroppo hanno reagito male il gruppo della Catholic League, e la Chiesa di Milwaukee: questo è triste, dimostra che non hanno capito il senso del nostro film»
Come hanno reagito le vittime?
«Sono sempre più le vittime che, sentendosi meno isolate e più libere, trovano il coraggio di denunciare gli abusi subiti».
Crede che un cambiamento sia possibile nella Chiesa?
«Tutto è possibile, ma non si può aspettare più. Altrimenti la reazione sarà quella che c’è stata in Irlanda, dove i fedeli hanno smesso di andare a messa e non per mancanza di fede. Li faceva infuriare il silenzio, l’omissione della verità dei vescovi irlandesi».
Cosa pensa della rinuncia di Benedetto XVI?
«Credo che con le sue dimissioni in qualche modo abbia riconosciuto di non essere in grado di affrontare alcune questioni della Chiesa, tra cui lo scandalo della pedofilia. Quando era prefetto per la congregazione della fede era l’uomo che più al mondo conosceva l’entità dei crimini dei preti pedofili e non ha lottato abbastanza. Perciò la Chiesa non avrebbe potuto affrontare la questione finché Benedetto fosse stato Papa».
Cosa chiedono le vittime al nuovo pontefice?
«Vogliono essere ascoltati. E che sia fatta chiarezza: gli archivi di alcune diocesi, Milwaukee, Los Angeles sono stati aperti, quelli vaticani finora sono rimasti chiusi. Per la Chiesa è il momento di andare fino in fondo».
(ari.fi.)

l’Unità 19.3.13
La sinistra e la lezione di Francesco
Il Conclave ha dato una risposta alla crisi della Chiesa, noi siamo una cosa diversa ma vedo analogie
di Alfredo Reichlin


SONO GIORNATE DIFFICILI MA IMPORTANTI, DESTINATE A CONTARE MOLTO NEL FUTURO. L’avvento di un Papa straniero col nome di Francesco, il «poverello di Assisi» è stato sorprendente ma io credo che l’entusiasmo con cui è stato accolto è il segno che qualcosa sta cambiando nella vicenda del mondo. La necessità di un grande cambiamento era già nell’animo della gente. Una svolta nel senso della giustizia era attesa. Dunque decisioni nuove e straordinarie devono essere prese.
Ma il dramma dell’Italia sta proprio in ciò: il suo sistema politico non sembra in grado di prenderle.
Io parto sempre dal Paese. E continuo a pensare che la nostra amata Italia così com’è non regge alle sfide dei nuovi tempi. La crisi economica è giunta ormai al rischio di una necrosi del tessuto produttivo (stanno chiudendo troppe imprese) di un impoverimento per grandi masse e anche di rotture serie della compagine nazionali: i ricchi e i poveri, il legame tra le generazioni, il rapporto non solo economico ma di solidarietà e di cittadinanza tra l’Italia padana e il Mezzogiorno. Credo che così si spiega l’accumulo di divisioni, di sfiducia, perfino di disprezzo di tutti contro tutti.
Eppure in questo quadro italiano c’è qualcosa che allude a un’alba. Sono le nuove soggettività. È il bisogno dirompente di cambiamento e di moralità che abbiamo sentito anche nei discorsi dei nuovi presidenti delle Camere. Io aggiungo il fatto che la crisi non riguarda solo noi e può quindi creare uno spazio nuovo che le forze del cambiamento se vogliono e se alzano il loro sguardo possono occupare. Sono sempre più convinto che la politica dovrebbe parlare qualche volta anche di questo: del fatto che siamo arrivati a un «tornante» della storia, a un tramonto dell’ordine economico e culturale (il cosiddetto «pensiero unico» liberista) finora dominante.
Anche l’elezione del nuovo Papa ci dice che si è aperta a livello mondiale una enorme questione sociale. Ed è questa che sta provocando fenomeni inusitati di ribellione anche morale. Gli uomini, ma soprattutto i giovani, sentono sia pure confusamente, che il «sistema» chiude i loro orizzonti e spegne le speranze delle loro vite, per cui si fa strada l’idea che il mondo non può essere governato da una ristretta oligarchia finanziaria, la quale è più potente di qualsiasi Stato. Il denaro prodotto col denaro, questa enorme «rendita» moderna che si mangia l’economia reale non va bene. Il risultato è un mondo coperto di debiti che tocca ai poveri pagare riducendo le loro pensioni e finendo in mezzo alla strada. È davvero una insopportabile vergogna.
Di qui l’enorme bisogno di cambiamento. Però io aggiungo cambiamento vero, non solo «facce nuove» nè quel tipo di «rottamazione» che è fuga dalla storia e dalla coscienza critica di essa. Non bisogna avere paura di andare controcorrente e dire la verità. La verità è che il cambiamento non è ostacolato dall’esistenza dei partiti politici ma dal fatto che la gran parte delle classi dirigenti italiane è così cinica che pur di fare gli affari suoi ha scambiato Berlusconi per uno statista, (e continua). Ed è così sciocca da non capire che senza una idea nuova dell’Italia, dalle sue debolezze come del suo grande passato non si può fare nessuna svolta verso il futuro.
E io credo che in qualche misura questo discorso vale anche per la sinistra. Siamo in forte ritardo, rispetto alle cose, perdiamo consenso tra i giovani e tra gli operai. Questa è la cosa amara che ci hanno detto le elezioni. Ma è anche per queste ragioni che la decisione del Conclave mi fa esultare. Hanno eletto Papa un vescovo argentino che si è dato il nome di Francesco d’Assisi, il Santo dei poveri. Questo si che è una grande notizia. Un centinaio di anziani cardinali per mezzo di vetuste liturgie ci hanno dato una lezione. Hanno dato una risposta alla crisi della Chiesa, non negando gli aspetti più contingenti di essa (la pedofilia, i complotti della Curia, ecc.) ma andando, con un colpo d’ala, alla sostanza del rinnovamento: la necessità di riscoprire il «cristiano». Ciò che è la grandezza del cattolicesimo. Il Dio che si fa uomo, che scende in terra e guida il cammino spirituale degli uomini ma stando nella storia. Quindi immergersi nella vita di oggi, nelle ingiustizie e nelle sofferenze della gente povera. Ripartire dalla fratellanza. Camminare insieme.
È chiaro. Noi siamo una cosa completamente diversa ma io vedo una analogia. Noi parliamo troppo di politica ai politici con la «lingua di legno» della politica. Non parliamo abbastanza alla gente delle cose e dei loro sentimenti, di ciò che sta letteralmente sconvolgendo le loro vite. Ci rendiamo conto delle ingiustizie del mondo di oggi? Tanto più insopportabili perché questo non è più il mondo dei servi e dell’ottuso contadiname analfabeta di una volta. E il mondo di giovani acculturati e informati ma privati del futuro.
Vorrei però chiarire bene il senso di queste mie parole. Io non sto fuggendo dalla dura realtà in nome di astratti ideali. Io parto da una analisi (forse sbagliata) ma concreta, «materiale», «strutturale» secondo la quale siamo in presenza non di una crisi ciclica ma della crisi del «meccanismo di accumulazione». Questa mi sembra la novità. Il sistema non solo è ingiusto ma non funziona. L’economia a dominanza finanziaria si è separata troppo dalla società. Il predominio della rendita finanziaria e la gravità degli squilibri alimentati dalle logiche speculative di breve periodo stanno distruggendo quel «valore aggiunto» che in definitiva è prodotto dal lavoro e dalla creatività umana. In ciò io vedo non solo la necessità ma la possibilità di una svolta che porti alla creazione di un nuovo rapporto tra l’economia e la società.
Un nuovo modello di crescita, il quale nasca non dalla buona volontà della Signora Merkel ma dalla capacità dell’iniziativa politica e delle strutture organizzate dalla democrazia di far leva su bisogni, capacità, contesti, patrimoni storici e culturali. Insomma, camminare di più (anche noi) insieme e accanto alla società italiana.
Per riformarla.

il Fatto 19.3.13
Alla festa di Francesco non manca il dittatore
Ritorna a Roma il tiranno africano Robert Mugabe, e c’è il discusso indiano Kurien, implicato in un caso di stupro
di Marco Politi


Città del Vaticano Francesco di fronte al Lupo della ragion di Stato. Per papa Bergoglio arriva la prima prova. Trovarsi faccia a faccia con gli impresentabili. Perché – come dice il portavoce vaticano Paolo Lombardi – per la messa d’inaugurazione del pontificato la Santa Sede non fa inviti e allora capita che arriva chi vuole.
Per esempio Robert Mugabe, l’ex combattente per la libertà dello Zimbabwe, trasformatosi (come spesso accade) in dittatore feroce per mantenersi al potere dal 1980 ad oggi e anche oltre, come ha già fatto sapere. Violenze, corruzione e campagne terroristiche ai danni degli avversari politici e della minoranza bianca è quanto gli viene rimproverato nello Zimbabwe e sulla scena internazionale dagli oppositori e dalle organizzazioni dei diritti umani.
STATI UNITI e Unione europea non gli permettono di entrare nei loro confini, ma la Ue ha un codicillo liberale che permette il transito a chiunque per adempiere “obblighi religiosi” e Mugabe ne approfitta. Sarà oggi alla messa così come nel 2005 ai funerali di Giovanni Paolo II e nel 2011 alla beatificazione del papa polacco. Non farà certo nemmeno piacere a papa Francesco scoprire che il vicepresidente del senato indiano, P. J. Kurien, nel 1996 è stato rinviato a processo per lo stupro collettivo di una minorenne nel Kerala. Assolto nel 2005. Ma non è la prima volta che sotto qualsiasi latitudine i potenti vengano guardati dalla giustizia con un occhio di favore per la presunzione d’innocenza. Anche la giustizia francese si mostrò assai benevola a suo tempo con Vittorio Emanuele quando, nel 1978, animato da furia alcolica impugnò il fucile e un proiettile andò a colpire a morte lo studente diciannovenne Dirk Hamer. Il Savoia fu condannato solo a sei mesi con la condizionale per porto d’armi abusivo. In India, la vittima era una studentessa sedicenne, fu tenuta segregata per quaranta giorni e violentata da 46 uomini. Ieri il padre, informato che Kurien sarà in piazza San Pietro, ha commentato amaramente: “Mi sono rattristato quando l’ho saputo e di sicuro non è una bella notizia per il nuovo papa”. Il mondo si muove per omaggiare (ma anche conoscere) il nuovo leader della Chiesa cattolica. Arriveranno 132 delegazioni: dal vicepresidente americano Joe Biden alla cancelliera Angela Merkel, dalle massime autorità dell’Unione europea ad una nutrita rappresentanza di capi di Stato latino-americani. Nutrita naturalmente la delegazione italiana, capeggiata dal presidente Giorgio Napolitano. Ci saranno i presidenti di Senato e Camera – Pietro Grasso e Laura Boldrini – e il premier Mario Monti, che per una mattinata potrà rilassarsi dalla sindrome Napoleone, tipica di chi si è pensato come nuovo De Gasperi, presidente del Senato e possibilmente anche inquilino del Quirinale. Dalla Cina non verrà nessuno. La Repubblica popolare non accetta che sia presente il presidente di Taiwan, Ma Ying-jeou. Tuttavia le autorità di Pechino hanno mandato un segnale: si sono congratulate per l’elezione di papa Bergoglio e hanno espresso l’augurio che possa “portare novità della vita della Chiesa”.
IN PIAZZA San Pietro arriveranno anche delegazioni delle altre Chiese cristiane e rappresentanti dell’ebraismo e dell’islam. Grande è l’attesa per l’omelia di Francesco. Sarà letta come il suo programma, sebbene importanti integrazioni verranno anche dal suo incontro domani con le confessioni cristiane e venerdì con il corpo diplomatico.

il Fatto 19.3.13
L’accusa
“I due volti di Bergoglio tra fede e militari”
di Horacio Verbitsky


Buenos Aires La prima volta che scrissi dell’attuale papa Francesco fu nel 1999, quando assunse l’incarico di arcivescovo di Buenos Aires. Dissi che “a seconda della fonte che si consulti, è l’uomo più generoso e intelligente che abbia mai detto messa in Argentina o un machiavellico fellone che tradì i suoi fratelli spinto da un’insaziabile ambizione di potere. Forse la spiegazione risiede nel fatto che Bergoglio riunisce in sé due caratteristiche: è un conservatore estremo in materia dogmatica e possiede una manifesta inquietudine sociale. In entrambi gli aspetti somiglia a chi lo designò alla guida della principale diocesi del Paese, il papa Karol Wojtyla”.
LA DECISIONE del collegio cardinalizio è stata adottata con la consapevolezza che pesano su di lui gravi accuse di aver consegnato i suoi sacerdoti alla giunta militare. Già nel Conclave del 2005, aveva ottenuto una buona quantità di voti, nonostante il fatto che un dossier contenente parti della mia indagine su di lui fosse stato collocato in un centinaio di casellari dei cardinali da una qualche fazione che voleva sbarrargli il passo. Quando l’elezione era in una fase di impasse, Bergoglio decise di ritirarsi e di appoggiare Joseph Ratzinger. Nella prima conferenza stampa successiva al Conclave della settimana scorsa, il suo portavoce Federico Lombardi, gesuita come lui, ha convocato i giornalisti per dire loro che le accuse erano calunniose e provenivano da un giornale di sinistra anticlericale. È stata una cattiva giocata dell’inconscio, che il papa non è riuscito a controllare nonostante i suoi studi di psicologia. L’accusa di essere “di sinistra” è la stessa che Bergoglio fece 37 anni fa contro i sacerdoti Orlando Yorio e Francisco Jalics, che a conseguenza di ciò vennero sequestrati e torturati nel campo di concentramento clandestino della Marina argentina. Il papa non apprende né dimentica. La realtà è che l’accusa a Bergoglio fu scritta da una delle sue vittime, Orlando Yorio, in una lettera inviata al superiore della Compagnia di Gesù nel 1977. E la sua caratterizzazione come il pastore che consegna le sue pecore al lupo la fece nel 1986 un uomo della Chiesa, Emilio Mignone, la cui figlia fu sequestrata insieme a quei sacerdoti ma, mentre loro furono liberati cinque mesi più tardi, la ragazza, una catechista di 22 anni, non è più ricomparsa. Il quotidiano Pagina12, la sinistra anticlericale a cui si riferisce il portavoce vaticano, riprese quel caso nel 1999. Questo accadde quattro anni prima dell’insediamento del presidente Néstor Kirchner, la qual cosa smentisce anche l’idea secondo cui qualunque critica al papa dev’essere attribuita al governo di Cristina Kirchner. Il Vaticano ha anche sottolineato che il sacerdote Francisco Jalics si era riconciliato con Bergoglio. In realtà, Jalics ha detto di essere in pace con Bergoglio e riconciliato con i fatti, che si era lasciato alle spalle. Ma si è rifiutato di giudicare il ruolo del papa in quei fatti. La riconciliazione è un sacramento che consiste nel perdonare il male. Lungi dal negare i fatti, li conferma. Se non fosse esistita l’offesa, Jalics lo avrebbe detto apertamente e non avrebbe avuto niente da perdonargli. Ricordo che esistono prove documentali del doppio gioco di Bergoglio, che trovai nell’archivio del Ministero degli Esteri mentre indagavo per uno dei miei libri. La prima è una lettera che Bergoglio presentò con timbro e firma chiedendo una procedura d’eccezione perché Jalics potesse rinnovare il suo passaporto dalla Germania, dove ancora oggi vive.
LA SECONDA è la nota del funzionario che ricevette la richiesta e che suggerisce di rifiutarla a causa dei precedenti di Jalics, che non menziona. La terza è una breve nota dello stesso funzionario in cui racconta che Jalics e Yorio hanno legami con i guerriglieri e rapporti con le donne, che hanno disobbedito ai loro superiori e turbano la disciplina. E conclude che quelle informazioni gli vennero fornite dallo stesso padre Bergoglio, che come i Borboni reinsediati in Francia, non dimenticò né apprese nulla. Il suo pontificato si è aperto con una serie di gesti, di umiltà e rettitudine, come il suo ordine a Santa Maria Maggiore perché non si faccia più vedere il cardinale statunitense accusato di proteggere i preti pedofili di Boston, Bernard Law. Ma anche in Argentina ci sono preti pedofili, e Bergoglio ha protetto Julio César Grassi, condannato a 15 anni di carcere ma ancora in libertà per le pressioni della Chiesa. Come presidente della Conferenza episcopale, l’attuale papa affidò al giurista Marcelo Sancinetti l’incarico di scrivere un libro che proclama Grassi “innocente” delle imputazioni che gli vennero formulate per “abuso sessuale e corruzione di minorenni”, e nega persino che esista l’abuso sessuale infantile come tale, che equipara con i processi per stregoneria del Medioevo. Forse il problema di Francesco non è con il cardinale Law, ma con la legge che punisce la pedofilia.

l’Unità 19.3.13
L’Italia della Terza Repubblica
Il sistema partitico in realtà è crollato all’inizio degli anni 90 con Berlusconi
di Marco Almagisti


Marco Revelli, Finale di partito
pag. 140 euro 10,00 Einaudi

Partendo dall’analisi di Marco Revelli e dal suo libro «Finale di partito» bisogna capire se la crisi della politica sia frutto delle conseguenze sociali  o causata dalle responsabilità delle élite nella mancata ricostruzione

La crisi dei tradizionali partiti politici è ormai conclamata. Secondo i piú recenti sondaggi, meno del cinque per cento degli italiani ha fiducia nei partiti politici, poco piú del dieci per cento nel Parlamento. Particolarmente evidente in Italia, il fenomeno è tuttavia generale: ovunque i «contenitori politici» novecenteschi stentano a conservare il consenso. . E ovunque cresce un senso di fastidio verso quella che viene considerata una «oligarchia», separata dal proprio popolo e portatrice di privilegi ingiustificati.

«ERO CONTENTO DI ESSERE UNA DI QUELLE OMBRE CHE SOLO AL CALDO DELLA LUCE GIALLA, VARCATA LA SOGLIA, RIVELAVANO LA PROPRIA FISIONOMIA. SALUTAVO CHI MI STAVA ASPETTANDO, appoggiavo il cappotto sopra un mucchio di altri cappotti, accendevo una sigaretta e mi sedevo dietro un grande tavolo spoglio». In un libro di undici anni fa, Michele Serra (Cerimonie, Feltrinelli, 2002) così descriveva la sua trascorsa militanza nel partito comunista, rievocando quel senso di comunità scaturente dall’appartenenza ad un partito di massa, che né i dati elettorali né le statistiche sulla membership dei partiti possono mai rendere nella loro interezza.
Mi sono riaffiorate alla mente queste parole durante la lettura dell’ultimo libro di Marco Revelli, Finale di partito (Einaudi, 2013), che sin dal titolo preconizza il possibile tramonto del partito politico quale protagonista attivo della vita democratica. La lettura dei testi di Revelli si rivela sempre molto utile e ricca di stimoli: già durante gli anni Novanta il politologo piemontese ci ha aiutato a comprendere le metamorfosi connesse al declino del modo «fordista» di produzione e al loro drammatico impatto sulle dinamiche della nostra vita associata (Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, 1997).
LE ANALOGIE COL RESTO D’EUROPA
Anche nel suo libro più recente, la riflessione di Revelli origina dalla consapevolezza della crisi dell’organizzazione produttiva fordista massificata e all’affermarsi di nuove forme organizzative più leggere. Così come rende incerto il controllo del territorio da parte degli Stati-nazione, tale trasformazione produttiva globale svuota di senso il modello della «democrazia dei partiti» cresciuta per decenni entro i confini nazionali. In questo modo l’organizzazione dei partiti appare agli occhi dei cittadini quale oligarchia, tenuta assieme da privilegi ingiustificati.
Risulta magistrale il capitolo iniziale, «Vasi infranti», in cui Revelli descrive l’esodo dei cittadini italiani dai partiti maggiori. In analogia, viene richiamata l’esperienza greca, i cui si ricostruiscono le fasi di rapida evaporazione dei partiti tradizionali, sotto il duplice maglio della crisi economica e della sfiducia sociale.
Viene da chiedersi se questa sia proprio una tendenza inesorabile, oppure la sorte di Paesi in cui i partiti non sono stati in grado di adattarsi alle sfide sopraggiunte. Infatti, nell’estate del 2012 in Olanda i partiti tradizionali hanno saputo respingere l’assalto delle formazioni estremiste e antieuropeiste. In Germania i partiti pro-sistema sono strutture politiche forti e funzionanti, al punto da lasciare margini di manovra molto ridotti alle forze populiste. Anche negli Stati Uniti, in un contesto segnato da profonde differenze rispetto all’Europa continentale, i due partiti rilevanti riescono a convogliare al loro interno le principali correnti d’opinione presenti nella società (e Revelli, opportunamente, ricorda quanto le fortune di Barack Obama dipendano dalla sua abilità nell’intrecciare le nuove forme di comunicazione e partecipazione legate alla rete, con le forme di militanza e di finanziamento tradizionali). Storicamente, i partiti possono vivere periodi di crisi, ma possono essere in grado di resistervi, di adattarsi e a volte possono rafforzarsi, persino in situazioni che paiono avverse. In Francia, alla fine degli anni Cinquanta, con il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica, Charles De Gaulle volle redigere una Costituzione che penalizzasse i partiti, ma nei decenni successivi essi si sono ristrutturati e adattati al nuovo contesto.
Di fatto, l’Italia è stata l’unica democrazia consolidata di un certo rilievo in cui un intero sistema partitico è crollato, all’inizio degli anni Novanta. E siamo, al contempo, l’unico Paese occidentale in cui si è affermato un tipo di partito completamente inedito, nato per emanazione diretta di un network finanziario e mediatico, il cui leader ha potuto beneficiare per due decenni degli effetti di un enorme conflitto di interessi fra le sue attività private e le sue cariche istituzionali. Probabilmente, la crisi dei partiti in Italia non è soltanto il frutto delle conseguenze sociali derivate dalla transizione al postfordismo, bensì è dovuta anche alle responsabilità delle élite nella mancata ricostruzione di un efficiente sistema partitico post-Novantadue e nel mancato adeguamento delle culture partitiche alle nuove sfide emergenti dai contesti locali di insediamento.
LE GRANDI FABBRICHE FORDISTE
Tanto più che in Italia, le fortune dei partiti di massa non sono dipese unicamente dalla presenza delle grandi fabbriche fordiste, dal momento che i principali bacini di radicamento della Dc e del Pci si sono situati entro quelle aree della «Terza Italia» (il Nordest e l’Italia centrale) in cui, nel corso degli ultimi quattro decenni, è avvenuto lo sviluppo dei distretti industriali di piccola e media impresa, in stretto contatto con le istituzioni locali e il capitale sociale prodotto in loco. La Dc si è condannata al declino quando non è riuscita a interpretare e guidare politicamente la richiesta di maggiore efficienza amministrativa e di rappresentanza politica dei ceti emergenti di piccola e media impresa del Nordest. Il tracollo del partito democristiano ha comunque segnato il «paesaggio» locale, secondo una dinamica descritta in «tempo reale» da Ilvo Diamanti negli Anni Novanta. Il progressivo distacco delle crescenti esperienze associative dai precedenti riferimenti culturali e partitici ha provocato l’erosione delle solidarietà più ampie, lasciando esposta per lungo tempo tale porzione del nostro Paese al richiamo del particolarismo.
Oggi che anche la Lega deve affrontare scandali e spaccature interne, il Nordest deve affrontare nuovamente i problemi di coesione interna e di rappresentanza politica, ma stavolta in concomitanza di una crisi drammatica.
In tempi più recenti, anche nelle zone «rosse» sono emersi segni di logoramento e si sono verificati casi di cattivo funzionamento delle istituzioni locali, che hanno in parte offuscato il modello di buon governo tipico di queste regioni. A differenza del Nordest, in queste zone è prevalsa fino ad oggi la continuità nelle scelte di voto e negli orientamenti culturali, ma l’indebolimento organizzativo del partito di riferimento e alcune sue incertezze ideologiche in assenza del «pungolo» costituito da un’opposizione di centrodestra realmente competitiva hanno inciso negativamente sul controllo di qualità della classe politica e sul’efficacia di alcune scelte di policies. A questo punto è emersa l’insofferenza di parte dell’elettorato di sinistra nei confronti di quanti risultano identificabili come «apparato»: quando una pluridecennale eccellenza amministrativa è divenuta materia di dubbio, rendendo meno certa la riproducibilità nel futuro dello sviluppo locale. E quando l’insicurezza conseguente ha messo in discussione elementi quali l’inclusione sociale e la solidarietà che, in questa porzione d’Italia, hanno costituito per molti anni una sorta di «componente del paesaggio».
Se è vero che, sia nel caso del Nordest, sia nell’Italia centrale, non sembrano bastare la presenza di un ricco tessuto associativo e tradizioni civiche diffuse a riconnettere istituzioni e cittadini, garantendo, al contempo, sviluppo locale e integrazione sociale, allora il problema della rappresentanza politica di tali territori resta questione politica di salienza primaria. E chiama alla riflessione soprattutto chi, come il Pd, orgogliosamente rifiuta il modello di leadership mediatica e padronale e non rinnega la propria continuità con le culture politiche fondatrici della Repubblica. Forse i suoi voti mancanti non sono semplicemente imputabili alla pesantezza delle sue strutture, oppure al mancato accoglimento delle aspettative dei moderati (particolari i moderati italiani raccontati dalle cronache di queste settimane: capaci di farsi spaventare da Vendola e Camusso, ma pronti all’avventura fra le braccia di Grillo... ). Forse quei voti il Pdi ha perduti per non aver saputo infondere abbastanza fiducia ai molti che, nei territori dell’Italia flagellata dalla crisi, appendono i loro cappotti in spazi solitari, intrisi di inquietudine e sgomento.

La Stampa 19.3.13
Obama alla conquista di Israele
Dopo anni di frizioni con Netanyahu, un discorso “al popolo” come fece al Cairo
di Maurizio Molinari


Barack Obama parte questa sera per Gerusalemme con l’intenzione di aprire un dialogo diretto con gli israeliani. Ben Rhodes, 35enne consigliere strategico e speechwriter del presidente americano, vede in questo viaggio un parallelo con quello fatto al Cairo nel giugno 2009: «Allora Obama si rivolse direttamente ai popoli arabi del Medio Oriente, ora lo farà con gli israeliani». Poiché il primo quadriennio di Obama è stato segnato dalle fibrillazioni fra Washington e Gerusalemme «il presidente vuole gettare le basi di un nuovo rapporto con il popolo israeliano prima ancora che con i suoi leader» anticipa Dennis Ross, ex consigliere della Casa Bianca sul Medio Oriente, spiegando che «Obama punta a far coincidere la realtà di un’alleanza strategica mai così solida con una percezione pubblica israeliana che finora è stata negativa».
Come dimostrando i sondaggi d’opinione, secondo cui appena il 18 per cento degli israeliani si fida di Barack. Da qui il valore dell’itinerario che la Casa Bianca ha studiato per le 48 ore di visita, al fine di evidenziare gli aspetti di Israele a cui Obama vuole rivolgersi. Il presidente visiterà una batteria antimissile dell’Iron Dome per sottolineare la cooperazione nella sicurezza, farà tappa al Museo Israel per rendere omaggio all’alta tecnologia, sosterà sulla tomba di Teodoro Herzl padre del sionismo e allo Yad va-Shem, in segno di rispetto per la memoria della Shoà, parlando giovedì a Gerusalemme a duemila giovani invitati dall’ambasciata Usa, che ha depennato gli studenti dell’ateneo di Ariel perché nei territori occupati nel 1967.
È un percorso dal quale mancano il Muro del Pianto, la Città Vecchia di Gerusalemme e ogni riferimento a Giudea e Samaria contese con i palestinesi perché l’intenzione è di rivolgersi all’Israele giovane, laica e sionista di Tel Aviv, culla dell’industria hi-tech della «Start Up Nation» descritta nel libro di Dan Senor e Saul Singer, con oltre 130 aziende quotate a Wall Street. Per questo Obama, nell’intervista alla tv «Arutz 2», dice «vorrei passeggiare in incognito fra i locali di Tel Aviv».
Sono gli stessi pub dove leader politici come Yair Lapid e Tzipi Livni passano le serate e da cui è arrivata la messe di voti che ha premiato Yesh Atid, il partitosorpresa delle ultime politiche. In realtà le urne hanno regalato anche la sorpresa del Focolare Ebraico di Naftali Bennett ma rappresenta gli israeliani degli insediamenti, che sono i più lontani da Obama. Dan Shapiro, 44enne ambasciatore Usa in Israele, è il volto di punta dell’ «offensiva del sorriso»: campeggia in tv e sui social network, va negli atenei e nelle serre nel deserto per incarnare l’integrazione con l’America di Obama. L’ebraico perfetto di Shapiro è un messaggio in sé, che Rhodes rilancia: «Lo parla assai meglio di me».
Il premier Benjamin Netanyahu punta a esaltare le convergenze: dal logo della visita con due bandiere e la scritta «Alleanza infrangibile» alle foto delle operaie di Kfar Saba intente a cucire bandiere a stelle e strisce. Ma Ross lo avverte: «Obama avrà un linguaggio pubblico e uno privato». Ovvero, punterà a creare un legame diretto con gli israeliani ma negli incontri politici parlerà con franchezza. A cominciare dagli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est, a cui Obama si oppone ritenendoli un ostacolo allo Stato di Palestina. Rhodes tuttavia assicura: «Non proporremo soluzioni negoziali perché andiamo in Medio Oriente per ascoltare israeliani e palestinesi». Come dire: le mosse arriveranno dopo.
Terranno dunque banco Iran e Siria. Netanyahu vuole siglare con Obama un’intesa sulla definizione della «linea rossa» oltre la quale il programma nucleare iraniano dovrà essere colpito per impedire a Teheran di avere l’atomica. E poi c’è l’emergenzaSiria: l’arrivo dei jihadisti nelle basi siriane lungo il confine del Golan fa temere a Israele una situazione di conflitto permanente come in Libano con gli Hezbollah. Obama parlerà di Siria anche ad Amman, nell’ultima tappa, mentre giovedì è atteso da Abu Mazen a Ramallah dove il malumore dei palestinesi dilaga. Centinaia di manifesti con l’effigie di Obama coprono la città palestinese con slogan irridenti per il presidente Usa che arriva senza proposte negoziali nel suo primo viaggio dopo la rielezione.

La Stampa 19.3.13
Il nuovo governo
L’offerta di Bibi “Compromesso storico con i palestinesi”
di Aldo Baquis


A due giorni dalla visita di Barack Obama in Israele e nei Territori palestinesi, la Knesset ha concesso la fiducia a larga maggioranza al nuovo governo di Benyamin Netanyahu (Likud Beitenu), che si appoggia sulle due forze politiche emergenti nelle ultime elezioni: i centristi laici di Yesh Atid, guidati da Yair Lapid, e il Focolare ebraico di Naftali Bennett, per molti versi espressione del movimento dei coloni.
Malgrado la presenza di Tzipi Livni in funzione di coordinatrice del processo di pace (oltre che di ministro della Giustizia), nel nuovo esecutivo a dare il tono sulle questioni di Stato più rilevanti saranno Netanyahu e il nuovo ministro della Difesa Moshe Yaalon che, per gli analisti, «è falco in politica, e pragmatico nelle cose militari». In particolare Yaalon si oppone a concessioni all’attuale leadership dell’Anp che, a suo parere, resta visceralmente ostile ad Israele.
Per acquietare le prevedibili apprensioni di Obama – che progetta una spola fra Gerusalemme e Ramallah per rilanciare un dialogo di pace - Netanyahu ha pronunciato alla Knesset un discorso improntato alla moderazione. «Siamo pronti ad un compromesso storico – ha assicurato - che metta fine al conflitto con i palestinesi, una volta per tutte. Tendiamo ai palestinesi una mano di pace».
Poco prima Avigdor Lieberman - l’ex ministro degli Esteri che conta di riconquistare l’incarico quest’estate, se uscirà indenne dal processo per frode e abuso d’ufficio - ha chiarito che comunque i deputati a lui fedeli si opporranno a qualsiasi congelamento degli insediamenti in Cisgiordania. Perché israeliani e palestinesi possano riprendere il dialogo, ha aggiunto Netanyahu, occorre che da ambo le parti esista una disponibilità. Parole di cautela, che pure sono state accolte con favore dal Segretario di Stato John Kerry. Ed Obama ha fatto sapere di aver concordato che a Gerusalemme avrà non uno, ma due colloqui con il premier.
Sul tavolo, ha chiarito Netanyahu, ci sono infatti «sfide» che scottano: «Gli iraniani continuano la corsa verso le armi atomiche, e si stanno avvicinando alla “linea rossa” che ho tracciato all’Onu», nel settembre scorso. Sul dossier iraniano Yaalon, secondo la stampa, è comunque disposto ad assecondare in questa fase l’approccio di Obama. «La Siria – ha proseguito il premier - si spacca e ne schizzano fuori armi letali su cui le organizzazioni terroristiche si gettano, come bestie feroci sulla preda». Israele, ha assicurato Netanyahu, si sente comunque vincolato dagli accordi di pace con Egitto e Siria «che rappresentano un’ancora di stabilità nella regione».

Corriere 19.3.13
Prima visita di Obama in Israele Tutte le trappole dell'itinerario
Yad Vashem sì, Muro del Pianto no. E neanche Moschea
di Massimo Gaggi


GERUSALEMME — Barack Obama inizia la sua missione internazionale più difficile: da domani in Israele, poi a Ramallah, nei territori palestinesi governati da Abu Mazen, infine in Giordania. Coi riflettori di tutto il mondo di nuovo puntati su di lui, il presidente Usa affronta il rischio — anzi la probabilità — di tornare a casa a mani vuote o, al massimo, con sotto braccio una cornice nella quale provare a inserire la ripresa del difficile dialogo tra lo Stato ebraico e l'Autorità palestinese espressione di Al Fatah.
La prima visita al principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente arriva solo nel quinto anno della sua presidenza. Obama troverà la diffidenza di molti ebrei che lo considerano il presidente meno filo-israeliano a memoria d'uomo, ma anche l'ostilità di un mondo arabo in pieno subbuglio politico nel quale le voci democratiche della primavera egiziana e tunisina di tre anni fa sono state soffocate dal prepotente riemergere del radicalismo islamico.
Così stando le cose, ironizza Tom Friedman sul New York Times, Obama potrebbe essere il primo presidente americano della storia ad andare in Medio Oriente a fare solo il turista. Friedman, ovviamente, esagera: piccoli margini per la riapertura di un dialogo tra israeliani e palestinesi ci sono, anche se almeno tre fattori inducono a non farsi troppe illusioni: l'intransigenza e l'aggressività di Hamas, l'ulteriore spinta agli insediamenti ebraici nei territori occupati (in Cisgiordania vivono ormai 300 mila coloni) e la stessa struttura del nuovo governo dello Stato ebraico (nel quale non sono entrati gli ultraortodossi, ma ha trovato spazio un partito dei coloni che chiede l'annessione della Cisgiordania).
Del resto è la stessa Casa Bianca ad avvertire che è meglio non farsi illusioni su una visita che ha soprattutto il valore di una testimonianza di solidarietà a Israele (anche, e forse soprattutto, rispetto alla minaccia nucleare iraniana), oltre che di un tentativo di vedere e capire, di esplorare i margini che ci possono essere per una ripresa del dialogo.
Un tour — non turistico, ma politico, culturale e anche simbolico — che è stato assai difficile da costruire tra veti contrapposti, esigenze di sicurezza e timori di offendere le diverse suscettibilità in una terra contesa da due popoli e in una città, Gerusalemme, culla di tre religioni. E così il presidente americano, dei grandi simboli religiosi dei luoghi santi, visiterà solo la Chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, mentre rinuncerà al Muro del Pianto, il luogo sacro degli ebrei, e la moschea di Al Aqsa, luogo sacro per i musulmani. Del resto qualcosa del genere accadde anche nel 1996 quando Bill Clinton, che voleva ardentemente visitare questi tre luoghi, cancellò tutto dopo il veto palestinese all'ingresso nella moschea del premier israeliano Olmert, deciso ad accompagnare il presidente Usa.
Altra scelta delicata quella del discorso pubblico: Obama non parlerà davanti alla Knesset, ma al Convention Center. Perché non vuole parlare solo ai politici ma alla società civile e soprattutto ai giovani, spiegano alla Casa Bianca. Perché, replicano i suoi critici, nel Parlamento israeliano ha molti nemici, soprattutto nelle forze politiche radicali: non vuole rischiare di essere sonoramente contestato in mondovisione.
A Ramallah Obama vedrà i palestinesi dialoganti di Abu Mazen mentre non avrà contatti con Hamas. Il presidente visiterà poi, come ogni capo di Stato, il museo dell'Olocausto e renderà omaggio alla tomba di Theodor Herzl, considerato il padre del sionismo moderno. La Casa Bianca ha, però, declinato l'invito a visitare la città costiera di Haifa dove il premier Netanyahu voleva mostrare a Obama il volto del nuovo Israele delle tecnologie avanzate. A conferma dell'impegno a difendere lo Stato ebraico dalla minaccia nucleare di Teheran, Obama esaminerà una delle batterie di missili antimissile realizzate con l'aiuto americano, ma non quella operativa montata sulle colline che dominano Tel Aviv che era stata scelta dagli israeliani.
Poche illusioni sui risultati, si diceva. La settimana scorsa è stata la stessa Casa Bianca a spegnere ogni focolaio di ottimismo. Dopo un vertice a porte chiuse dedicato alla missione mediorientale, alcuni anonimi funzionari hanno fornito indiscrezioni a vari «media» americani che vanno tutti nella stessa direzione: la soluzione di questa controversia che dura da decenni è in cima alle preoccupazioni del presidente, ma al momento non si vedono spiragli che possano far sperare ragionevolmente in un progresso decisivo verso la ripresa del negoziato di pace. Solo la speranza che i cambiamenti in atto nei Paesi arabi e certi fermenti giovanili che si avvertono anche in Israele possano pian piano portare a un maggior pragmatismo da parte di tutti, a una maggiore attenzione ai problemi interni di queste società sciogliendo gradatamente le incrostazioni prodotte da contrapposizioni antiche.

Repubblica 19.3.13
Israele
Bar Refaeli “spacca” il governo “Niente leva, non faccia la testimonial”


GERUSALEMME — La top model israeliana Bar Refaeli si è trovata al centro di uno scontro fra esercito e ministero degli Esteri. Il portavoce dell’esercito, il generale Yoav Mordechai, si è scagliato contro la Refaeli, scelta dal ministero come testimonial in un breve filmato sulle «invenzioni israeliane che hanno cambiato il mondo», dai pomodorini all’irrigazione a goccia. La super modella, ha scritto il generale, lancia «un messaggio negativo» ai giovani israeliani perché non ha completato, come le altre donne, il servizio militare obbligatorio «preferendo la carriera ». La Refaeli si è sposata — e questo consente l’esonero — ma ha divorziato poco dopo. Il ministero degli Esteri ha replicato che «Bar Refaeli è il volto più bello di Israele». La modella, dal canto suo, ha affidato la controffensiva a Istagram e Twitter, dove la seguono quasi 500mila persone. «Decidano quello che credono, io ho un seguito maggiore di quello del “giornale di Stato”. L’essenziale è occuparsi di cose importanti non di frivolezze».

La Stampa 19.3.13
In Cina una Consob che non abbaia e non morde
di John Foley


In qualità di presidente dell’autorità di vigilanza del mercato cinese, Xiao Gang ha un difficile compito: sputare sul piatto dove ha mangiato. Prima delle recenti dimissioni, quando rivestiva ancora il ruolo di presidente della Bank of China, Xiao Gang ha sovrinteso a un frenetico ricorso al credito senza precedenti che ha contribuito al nascere dell’economia cinese per come la conosciamo oggi. Il prossimo obiettivo, in veste di presidente della China Securities Regulatory Commission (Csrc), vale a dire la Commissione cinese di sorveglianza del mercato mobiliare, sarà quello di rafforzare i mercati dei capitali del Paese - indebolendo il controllo pressoché soffocante dei grandi istituti di credito.
La Cina ha un urgente bisogno di regolare i propri mercati azionari. Quasi 900 aziende attendono di essere quotate, ma le basse valutazioni impediscono loro di accedere a tale mercato. Il presidente uscente della Csrc, Guo Shuqing, ha cercato di apportare alcune modifiche ai prezzi eccessivamente elevati delle offerte pubbliche iniziali nonché di attirare investitori stranieri, ma è stato riassegnato dopo soli 17 mesi di incarico. Una governance debole e una cultura fortemente orientata agli insider hanno tenuto a bada gli investitori: il rapporto prezzo-utili di Shanghai prendendo in considerazione gli ultimi dodici mesi si attesa a 11,5, meno della metà della media registrata negli ultimi dieci anni.
L’esperienza maturata nel settore bancario da Xiao gli offre la reale possibilità di mettere in atto manovre concrete per porre fine all’eccessivo potere dei grandi istituti di credito. Ma coloro che si attendono una rivoluzione potrebbero rimanere delusi. Il maggiore successo di Xiao Gang alla Bank of China è stato quello di aver portato il portafoglio crediti della banca a più del doppio del valore originario in meno di quattro anno, vale a dire con tempistiche nettamente più rapide rispetto ai maggiori concorrenti. È probabile che la sua promozione debba molto all’atteggiamento di seguire quanto gli viene impartito - ma non è di questo che i mercati cinesi hanno bisogno.

La Stampa 19.3.13
Quando Churchill sognò di bombardare Roma
di Umerto Gentiloni


«Considerare Roma una città aperta è grottesco. Un inganno per fermare le incursioni aeree». Con queste parole si apre il quotidiano londinese «The Daily Telegraph» del 17 agosto 1943, a poche ore dal secondo attacco dell’aviazione alleata sui cieli della capitale.
La seconda guerra mondiale non ammette limiti: si combatte da terra, dal mare e dai cieli. Il destino dei civili dipende dai raid aerei che attraversano il continente europeo. I bunker sono parte della ricerca di difese e protezioni a fronte di armi di distruzione capaci di radere al suolo intere città. Rifugi antiaerei per famiglie in cerca di sicurezze e nascondigli privati, sotterranei di palazzi del potere o cunicoli per proteggere uomini al comando di Paesi in guerra. Non stupisce che Mussolini avesse fatto edificare a Villa Torlonia, all’Eur e sotto Palazzo Venezia i propri rifugi segreti a prova di bomba, al riparo da possibili strategie della controffensiva anglo americana. Winston Churchill aveva fatto riferimento, in un intervento alla Camera dei comuni (30 settembre ’41) a un piano di possibili bombardamenti sulla città di Roma: «Abbiamo il diritto di bombardare Roma quanto ne avevano gli italiani di bombardare Londra lo scorso anno, quando ritenevano che fossimo sull’oro del collasso; e non dovremmo esitare a bombardare Roma al meglio delle nostre capacità, e il più pesantemente possibile, se il corso della guerra facesse risultare opportuna e utile un’azione del genere».
Qualche mese dopo il capo dell’aviazione inglese si era rivolto con un telegramma al primo ministro: «È giunto il momento in cui il bombardamento di Roma si profila essere opportuno ed estremamente utile. Ho fatto perciò preparare un piano per un attacco diurno contro Palazzo Venezia di sei Lancaster con equipaggi particolarmente selezionati. Per quanto possibile, l’attacco dovrebbe limitarsi strettamente a Palazzo Venezia». Churchill approva i piani del Bomber Command e con ironia replica: «Mi piace il progetto, ma cosa resta per la Germania? ». Nonostante gli sforzi del pontefice Roma non è un luogo franco, né il suo status di città aperta ha rappresentato un limite invalicabile al dispiegamento delle logiche di guerra. Roma non è mai stata aperta negli anni del conflitto. Altre le sue definizioni che si sovrappongono nella cronologia degli eventi: sacra, fascista, prigioniera, occupata, alleata e finalmente libera. Da qui le tracce che emergono dal passato, nella stratificazione di luoghi e nella costruzione di possibili nascondigli. Sarebbe importante valorizzare il contesto di memorie e situazioni in grado di arricchire conoscenze e consapevolezze. Basta metter piede nel War Cabinet di Churchill a Londra o seguire i percorsi della Topografia del terrore a Berlino per cogliere il nesso tra quelle stanze e il cammino del lungo dopoguerra.

La Stampa 19.3.13
“Caro papà se ci sei batti un colpo”
Lo psicoanalista Naouri : “Figli più deboli se i padri rinunciano al loro ruolo normativo”
intervista di Mirella Serri


Papà addio? A porre l’interrogativo è un papà per eccellenza, Aldo Naouri, nato a Bengasi, ebreo libico che espulso dal suo paese ha poi vissuto in Algeria e a Parigi. In quanto pediatra per più di 40 anni è stato, metaforicamente parlando, il genitore putativo di migliaia di bambini. Proprio oggi, nel giorno della festa del papà, il medico e psicoanalista sarà al Circolo dei lettori di Torino per inaugurare un importante ciclo di incontri su «Famiglie. Variazioni sul tema». Naouri, abituato a sollevare polemiche e discussioni con i suoi provocatori libri - «Le suocere, le nuore e altre relazioni pericolose», «Piccoli tiranni (non) crescono», «Adulteri» -, ora pone un tema scottante, la perdita del ruolo del padre e della sua centralità nel nucleo familiare contemporaneo.
Nella famiglia che cambia sembra non esserci più posto per la tradizionale figura paterna. E’ veramente così?
«Oggi tutto sta mutando. Siamo di fronte a un’accelerazione che in milioni di anni non si è mai verificata. Le nostre percezioni, quelle inconsce, si sono sviluppate in un arco di tempo per noi inconcepibile. Stiamo parlando di 8 milioni di anni dove la nostra contemporaneità occupa uno spazio infinitesimale, l’equivalente di 22 secondi su 24 ore. Per il resto del tempo, la specie umana ha sempre vissuto puntando, come gli animali, solo alla sopravvivenza e alla soddisfazione dei bisogni più elementari».
E le famiglie?
«Sto usando lo sguardo del paleontologo. Oggi la psicoanalisi deve essere integrata da tutte le acquisizioni cui sono giunte altre discipline. In questi milioni di anni o 24 ore, per rimanere nell’esempio, in cui si è evoluto l’inconscio, le donne, pur simili alle femmine di altri mammiferi, erano connotate da una radicale diversità, sempre sessualmente disponibili e passavano quasi tutto il loro tempo occupate dalla funzione di madri. Tra loro e la progenie si stabiliva, ed esiste tutt’ora, un legame privilegiato e la madre è sempre stata pronta e attiva nel soddisfare tutte le pulsioni e i desideri del bambino».
Quale il compito del padre?
«Con il/i figlio/i era un estraneo. Rappresentava l’esercizio della violenza, poteva anche sopprimere la prole se la sua presenza ostacolava i suoi approcci sessuali con la madre».
Quando cambia tutto questo?
«La questione tempo è fondamentale: 15 o 20 mila anni fa i modelli familiari attribuiranno al maschio il compito di chi fa rispettare la legge. Questo avviene con la sedentarizzazione, l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento nel sistema di vita quotidiano. Il padre diventa il capofamiglia, colui che, rispetto all’acquiescenza materna, rappresenta il diniego e sostituisce al principio del piacere quello di realtà».
Per il figlio è la privazione, l’assenza di soddisfazione?
«Frustrazione, la chiamerei, che modifica la struttura psicologica “perversa” del piccolo, dipendente dal piacere materno. Ma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale assistiamo, nei genitori, nella famiglia e nella società, a un investimento sempre crescente sul bambino, che alimenta l’illusoria potenza infantile. E mina la sua capacità di futuro adulto di stringere alleanze sociali e di formare una nuova coppia. Questa supervalutazione dei membri più piccoli e la perdita di autorità dell’immagine paterna finisce per indebolire i legami parentali».
E’ la condizione odierna?
«Basato sui ruoli famigliari e sulla contrapposizione padre/ madre, il nostro inconscio che si è sedimentato nello scorrere di epoche millenarie oggi si trova di fronte a famiglie nuove e complicate, allargate, senza figli, monogenitoriali con supermamme o super papà, gay o etero. Non possiamo pensare di superare tutte le difficoltà che queste novità ci pongono e cancellare il passato d’un colpo: ci vogliono anni e anni per ristrutturare l’inconscio che ha introiettato l’immagine di una famiglia sempre uguale nei secoli di cui il padre era la struttura portante. Oggi ognifamiglia è diversa da tutte altre, anzi si potrebbe dire, parafrasando Tolstoj, che neppure quelle felici sono simili fra loro. E questa è una straordinaria rivoluzione con cui dobbiamo fare i conti e che non possiamo sottovalutare come spesso tendiamo a fare».

Corriere 19.3.13
Machiavelli ammirava il suo nemico Savonarola
Ne riconobbe le doti ma poi lo criticò nel «Principe»
di Paolo Mieli


La vita e le opere del genio toscano
Esce domani in libreria il saggio Machiavelli di Gennaro Maria Barbuto (Salerno Editrice, pagine 380, 23). La stessa Salerno ha appena pubblicato il tomo degli Scritti in poesia e in prosa di Machiavelli, nell'ambito della Edizione nazionale delle Opere del grande autore fiorentino. Uscirà invece nei prossimi mesi per i tipi del Mulino un saggio di Donald Weinstein intitolato Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento

Passa per il 1498, tra una lettera di Machiavelli e le fiamme che bruciarono Savonarola, la linea di demarcazione che separa il Medioevo dal tempo moderno. Lo hanno scritto, più o meno esplicitamente, Federico Chabod, Roberto Ridolfi, poi Eugenio Garin, Carlo Dionisotti, Luigi Russo e, in tempi più recenti, Gennaro Sasso, Mario Martelli, Francesco Bausi. Ma, già prima di loro, Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, fu esplicito: «Savonarola è una reminiscenza del Medioevo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale… È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni». Sulla stessa linea interpretativa, Giosuè Carducci, nei discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale (1874), ritrae il «pallido viso» di Machiavelli che, «in qualche canto della piazza», assiste sorridendo «pietosamente» alle prediche del frate.
Ma perché come spartiacque abbiamo scelto proprio il 1498? Quello di cui qui parliamo è l'anno del passaggio di testimone, per così dire, tra l'infuocato Girolamo Savonarola, originario di Ferrara, e il duttile fiorentino Niccolò Machiavelli. Quattro anni prima, la discesa in Italia di Carlo VIII aveva causato a Firenze la caduta del regime mediceo (Piero de' Medici, figlio di Lorenzo, era stato accusato di aver ceduto all'imperatore le fortezze di Pietrasanta, Sarzana, Sarzanello, Ripafratta, Livorno e Pisa) e l'instaurazione della repubblica. Repubblica nella quale il frate domenicano Savonarola avrebbe avuto, tra il 1494 e il 1498, un ruolo da protagonista. Protagonista nient'affatto «medievale», come ha ben raccontato Donald Weinstein nella splendida monografia che tra qualche mese sarà pubblicata in Italia dal Mulino con il titolo Savonarola. Ascesa e caduta di un profeta del Rinascimento.
Firenze era stata sconvolta dalla vicenda del profeta che aveva dominato per quattro anni la scena politica ed era poi finito sul rogo. Savonarola si era messo in urto con il papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) e, due mesi prima che venisse mandato sulla pira (23 maggio del 1498), Machiavelli si era occupato di lui in una celebre lettera (scritta il 9 marzo 1498) al prelato della Curia romana Ricciardo Becchi, che aveva chiesto informazioni. In seguito, poche settimane dopo la morte di Savonarola, Machiavelli aveva ottenuto la carica di segretario della seconda cancelleria di Firenze, prendendo il posto di Alessandro Braccesi, ardente seguace del frate domenicano. Intrecci sui quali si sofferma con una riflessione originale Gennaro Maria Barbuto nei capitoli iniziali di un importante libro dedicato all'intera figura di Machiavelli, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno Editrice.
Come prima cosa Barbuto si compiace del fatto che, a ridosso delle celebrazioni (nel 1998) per i cinquecento anni dalla morte, studi e convegni ci abbiano offerto un'immagine nuova di Savonarola, finalmente «liberato da logori stereotipi, come quelli di un fanatico delirante o di un Rasputin di fine '400». Stereotipi che indussero a un giudizio assai negativo anche Antonio Gramsci, il quale confinò il frate «in un vaneggiamento politico generatore di astratti e inconcludenti furori politici». Nel nuovo clima (anche per merito di Weinstein) è possibile ora ricostruire i legami del domenicano «non solo con il profetismo e il millenarismo medievali, ma anche e soprattutto con la Firenze umanistica e con il repubblicanesimo di quella stessa città che non si era mai completamente estinto, nemmeno durante la signoria medicea, e avrebbe avuto una forte e varia reviviscenza dopo la cacciata di Piero de' Medici».
A dispetto della fedeltà al tomismo che lo avrebbe indotto a preferire un regime monarchico, Savonarola, nel Trattato circa il reggimento e il governo di Firenze, accentuò le riflessioni sulla figura del tiranno, considerato un monarca degenerato, noncurante del bene comune, attento solo ai suoi interessi e, come tale, «nemico di Cristo». Nella predicazione savonaroliana fu centrale il tema della renovatio spirituale e civile, in virtù della quale si prometteva a Firenze di «assurgere a centro irradiante della rinascita religiosa dell'Italia contro la insopportabile corruttela ecclesiastica». Un profondo rinnovamento, che, osserva Barbuto, «nonostante gli eccessi dei bruciamenti delle vanità (ossia gli oggetti di lusso) e delle processioni dei fanciulli del frate, i quali si scagliavano contro prostitute e noti peccatori, non può essere corrivamente letto come un mero ritorno a presunte tenebre medievali».
I fiorentini si divisero tra i suoi seguaci — «frateschi» o «piagnoni» — e avversari — «bigi», «arrabbiati», «compagnacci» — che agivano in combutta con i francescani guidati dal predicatore Mariano da Genazzano. Molti ottimati, filosofi e artisti si schierarono dalla parte di Savonarola. Tra questi Piero Guicciardini (padre di Francesco, che in seguito, nelle Storie fiorentine, avrebbe giudicato il frate «uomo valentissimo»), Pico della Mirandola (che stimò il profeta ma morì nel 1494, cosicché non poté conoscere la sua azione politica nei tempi successivi alla caduta dei Medici), Marsilio Ficino e Botticelli. Di Machiavelli, Donald Weinstein mette in evidenza qualche assonanza savonaroliana come «l'intonazione profetica e millenaristica, documentata soprattutto dall'ultimo capitolo del Principe, sebbene il Segretario, diversamente da Savonarola, avesse emancipato la politica da ogni ipoteca provvidenzialistica». Nel suo Savonarola (Bur) Pierre Antonetti ha sottolineato che fu proprio Machiavelli a notare quanto il predicatore domenicano «agì in conformità con la sua etica», secondo cui «il regno di Dio in terra pretendeva talvolta che si versasse senza esitazione sangue colpevole».
Ma torniamo al giovane Machiavelli. Egli, scrive Barbuto, «non poteva non risentire degli effetti della predicazione del frate, il quale, non assumendo alcuna carica pubblica ufficiale, giustificava il suo impegno civile con l'esempio di santa Caterina da Siena; il rapporto di Machiavelli con Savonarola è una delle questioni critiche più ricorrenti e diversamente declinate; il dittico di Savonarola e Machiavelli, nel quale un ritratto era il rovescio dell'altro, è stato, nella storiografia sul Rinascimento, una sorta di genere prosopografico, una riedizione delle Vite parallele plutarchiane». Mentre «il predicatore si offriva bene a raffigurare un autunno ormai anacronistico del Medioevo in una Firenze laica e mondana, poco proclive a lasciarsi sedurre, se non per effimere parentesi, da voci profetiche in ritardo sulla storia, dall'altra parte, Machiavelli si prestava altrettanto bene a esemplificare una sensibilità cinica e refrattaria a qualsiasi valore religioso, tutta protesa alla pre-nietzscheana affermazione di una individualistica volontà di potenza». A tale proposito Barbuto ricorda la contrapposizione proposta da Luigi Russo «fra Machiavelli che raffigurava un tecnico della politica e Savonarola, patrocinatore di una vita associata tutta pervasa dall'entusiasmo profetico».
Va ricordato inoltre che è di quegli stessi anni di fine Quattrocento una traduzione di Machiavelli del De rerum natura di Lucrezio, «testo assai poco consono all'ispirazione savonaroliana». Ciò che prova la sua adesione alla «concezione di un universo non pacificato, nel quale gli elementi e gli uomini sono inclini a confliggere tra di loro», concezione che sarebbe divenuta «una delle fonti della visione machiavelliana della storia e della politica». E che si ritrova nella lettera al prelato fiorentino di cui abbiamo detto all'inizio.
Qual è il suo contenuto? Machiavelli risponde a Ricciardo Becchi, che gli aveva chiesto di descrivergli le prediche tenute dal frate in San Marco ai primi di marzo del 1498. Dieci mesi prima Alessandro VI aveva scomunicato Savonarola e adesso il Pontefice minacciava l'interdetto contro Firenze, se la città non gli avesse consegnato il domenicano (il predicatore si difendeva maledicendo il Papa e sostenendo che «la scomunica proveniva dal diavolo»). Nella lettera a Becchi, Machiavelli, nota Barbuto, descrive non senza ammirazione come «l'intenzione precipua del domenicano» fosse «quella, in una situazione di grave rischio per sé e i suoi seguaci, di rafforzare e compattare la sua parte e di demonizzare quella avversa». Molti anni prima di scrivere Il Principe, nota ancora Barbuto, Machiavelli rileva «acutamente l'accorta strategia di Savonarola, che, pur riconfermando, al fine di incoraggiare e confortare i suoi, le profezie di felicità e di dominio di Firenze, aveva proiettato il rancore dei suoi proseliti verso un eventuale tiranno (e, ai suoi occhi, era tiranno chiunque tentasse di espellerlo dalla città)». In questo modo «il frate sapientemente bilanciava nel suo popolo paure e speranze». Inoltre, Machiavelli «svelava la capacità del domenicano di modificare astutamente la sua tattica, adeguandola prontamente all'emergere di nuove contingenze politiche».
Mario Martelli, che ha rivoluzionato le interpretazioni del rapporto tra il «Segretario» e il «Profeta» e ha studiato a fondo questa lettera a Becchi, ha distinto nettamente tra la valutazione complessiva machiavelliana, «di parte», sul quadriennio 1494-98 e il suo giudizio, sostanzialmente positivo, sulle qualità politiche del predicatore domenicano. E Francesco Bausi nel suo Machiavelli (Salerno) concorda con Martelli: la «valutazione machiavelliana pesantemente negativa, non senza sfumature sarcastiche», dell'operato del frate è da ricondurre a «una valutazione tutta politica, dettata dalla situazione e dalla logica di schieramento che lo spingeva a vedere nel Savonarola il principale nemico della propria parte, l'avversario da battere per ripristinare la piena libertà repubblicana». D'altra parte, ricorda Bausi, i meriti che avrebbero innalzato Machiavelli all'ufficio di segretario furono «di natura politica», o per dir meglio «partitica». «Di fronte a un ex mediceo come il Gaddi e a un ex savonaroliano come il Baroni (benché quest'ultimo, come molti a Firenze, avesse poi clamorosamente voltato le spalle al frate)», scrive Bausi, «Machiavelli doveva essere a tutti gli effetti creatura dell'oligarchia fiorentina, quell'oligarchia che adesso, conclusosi il turbolento quadriennio del Savonarola, tornava a rialzare la testa e a prendere in mano le redini della città, decisa a restaurare un governo "di pochi"… La "tessera", insomma (potremmo dire attualizzando), aveva la meglio sul merito e sulle competenze: e così un outsider come Niccolò Machiavelli poteva assurgere alla carica di segretario della seconda cancelleria».
Che fosse un avversario del frate lo si desume anche dall'insuccesso cui era andato incontro, nel febbraio del 1498 (ossia nell'ultima fase del regime savonaroliano) un suo precedente tentativo di ottenere la carica di secondo segretario della signoria. Era dunque Machiavelli un piccolo nemico di Savonarola. Però, come uomo politico, Savonarola invece lo intrigava. E molto.
È interessante — per riandare al canone precedente — riprendere, a questo proposito, quel che scrisse Giuseppe Prezzolini nella sua Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino (Rusconi). È straordinario, notava Prezzolini, «vedere in mezzo alle passioni, agli urti, alle fantasie eccitate e al generale confusionismo dello spirito fiorentino di quel momento, un giovane, che avrebbe avuto tutte le ragioni politiche d'andar d'accordo col Savonarola, mettersi risolutamente in disparte, non credere a nulla di quello che diceva, pesarlo come forza politica e presentire che essa si sarebbe dissolta alla prova del fuoco». Con grande disprezzo, Machiavelli «deve aver considerato il profeta ch'entusiasmava i suoi fiorentini; e di quel disprezzo si sente ancora tutto il peso nel nomignolo con il quale ha poi bollato tutti coloro che, come il Savonarola, hanno eccitato gli uomini a ideali troppo alti per l'universa mediocrità, lontani dalla realtà dei loro tempi, e non decisi ad adoprare i mezzi necessari per realizzarli… I profeti disarmati».
Fin da allora, proseguiva Prezzolini, «lo spirito del Machiavelli dimostrava una sanità persino impudica in quei tempi — una sanità tanto eccezionale, da dirsi quindi una malattia —, un equilibrio siffatto da poter parere pazzia… Essa ha qualche cosa di prodigioso e quasi di spaventoso… Non va confusa con lo scetticismo e con l'ostilità politica degli avversari del Savonarola… È la saggezza alta e siderea, dalla quale scende una luce fredda e uguale… I suoi raggi sperdendosi per l'infinito, toccano, con inflessibile luce e giustizia, anche l'avvenimento che in quell'attimo commuove, anima, esaspera tutti… Ma colui che li emette è distante milioni di leghe». Quando si riflette su questa prima presentazione del Machiavelli, noi «lo vediamo già tutto intero, armato e direi nello stesso tempo disarmato dalla sua potente intelligenza e da una enorme capacità di attirare odio e incomprensione… A noi par di vederlo in fondo a una navata della chiesa di San Marco, ritto, studiando col commento del suo risolino il profilo del frate che dall'alto della cattedra andava minacciando preti e tiranni, donne allegre e dottori, e gli avversari suoi delle vendette del Cielo, volendo tirare il mondo indietro di secoli». Per poi così concludere: «Savonarola era il Medioevo, Machiavelli era il tempo moderno che nemmeno i suoi tempi potevano intendere; Savonarola aspettava tutto da Dio, Machiavelli tutto dall'uomo».
Del resto anche Federico Chabod negli Scritti su Machiavelli (Einaudi) aveva messo in risalto come al «segretario» quel che preme «è il problema politico onde già allora egli vede e giudica con criteri puramente politici; mentre per il domenicano il primum è il problema religioso… Savonarola è il "profeta disarmato", e quand'anche si voglia ammettere la sua buona fede e il suo fervor religioso, sta di fatto che politicamente costruiva nella sabbia». Secondo Chabod, il frate è per Machiavelli «un arrivista, diremmo noi, un furbo capopartito che si vale della religione per conseguire i suoi fini ben precisi… La predicazione savonaroliana è ridotta a mero espediente di un frate ambizioso, che vuol tenersi a galla e mantenere il suo potere morale sulla cittadinanza; tutto quello che è al centro dell'azione del domenicano — l'anelito a un profondo rinnovamento "morale" della Chiesa — e che d'altronde si esprime, contemporaneamente, in altre parti d'Italia, a opera di altri e meno noti predicatori, sfugge al Machiavelli». Interessante puntualizzazione. Tra l'altro Chabod aveva notato come in una lettera (18 maggio 1521) a Francesco Guicciardini — 23 anni dopo quella a Becchi —, Machiavelli avesse attenuato la durezza del giudizio su Savonarola.
Adesso, in ogni caso, si tende a dar maggiore valore al nesso che, al di là dell'appartenenza a opposti fronti politici, univa i due. L'idea che una comunità timorata di Dio possa cogliere «naturalmente» il «premio della gloria collettiva», ha ricordato Quentin Skinner nel suo Machiavelli (Il Mulino), era comune tra i contemporanei dell'autore del Principe. Come Machiavelli stesso osservava, «questo era stato lo scopo della predicazione di Savonarola quando aveva persuaso i fiorentini "che parlava con Dio" e che il messaggio di Dio alla città era che Egli l'avrebbe riportata all'antica grandezza se fosse tornata alla religiosità originaria… E tuttavia le convinzioni personali di Machiavelli sul valore della religione lo portarono a discostarsi, sotto due aspetti fondamentali, da questa visione ortodossa del problema».
Machiavelli, secondo Skinner, differisce dai seguaci di Savonarola proprio per i motivi per cui desidera conservare le basi religiose della vita politica: «In fondo non gli interessa la questione della verità religiosa; è interessato esclusivamente al ruolo svolto dal sentimento religioso "ad animire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei"; e giudica il valore delle diverse religioni unicamente in funzione della loro capacità di ottenere risultati utili».
Ne discende per Machiavelli una netta preferenza per l'antica religione dei Romani su quella cristiana. Perché il cristianesimo è stato interpretato in modo da minare le doti necessarie a una vita civica libera e vigorosa. Esso «ha glorificato uomini umili e contemplativi», ha «posto il sommo bene nell'umiltà, abbiezione e dispregio delle cose umane», togliendo ogni valore alla «grandezza dell'animo, fortezza del corpo», e agli altri tributi di un cittadino virtuoso. Imponendo «quest'immagine oltremondana dell'eccellenza umana, non soltanto ha mancato di promuovere la gloria civica, ma ha contribuito al declino e alla caduta di grandi Stati corrompendo la loro vita associata». Il prezzo di tutto ciò, conclude Machiavelli («con ironia degna di Gibbon», sostiene Skinner) è stato aver prodotto un «mondo debole» e averlo «dato in preda» a «uomini scelerati».
Skinner osserva anche che per Machiavelli un capo virtuoso deve sapere come comportarsi con gli invidiosi. Ma né Savonarola, né altri come lui (Pier Soderini, il gonfaloniere che nel 1512 avrebbe capitolato e riconsegnato Firenze ai Medici) seppero «vincere l'invidia» e, di conseguenza, «rovinarono». Savonarola, come ogni altro capo virtuoso, avrebbe dovuto essere circospetto e prudente e soprattutto avrebbe dovuto studiare le lezioni della storia. E così anche la Firenze dei tempi successivi (quelli della guerra contro Pisa), che, se «avesse letti e conosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata ingannata da loro». Un capo virtuoso dovrebbe essere uomo circospetto e prudente: ma i governanti di Firenze si mostrarono così ingenui di fronte al tradimento di Pisa (che si era schierata con Carlo VIII), e alla guerra che ne seguì, che condussero la repubblica alla completa rovina.
Anche Augustin Renaudet ha messo in risalto come Machiavelli, che pure da giovane «aveva certamente dubitato di fra' Girolamo e aveva sospettato in lui l'artificio e l'impostura» fino a esplicitare che, a suo avviso, si adattava alle circostanze «per colorare le sue menzogne», più tardi — nella lettera a Guicciardini che, come abbiamo visto, aveva attirato l'attenzione di Chabod e di molti altri — lo avrebbe definito «versuto», cioè furbo e abile. Nel Principe, partendo dal celebre assioma secondo cui «tutti e' profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno», scelse come esempio dei profeti disarmati, ha notato Pierre Antonetti, proprio Savonarola, che «ruinò ne' sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli; e lui non aveva modo a tener fermi quelli che avevano creduto né a far credere e' discredenti». Dallo stesso testo però si desume, come ha scritto Renaudet, che «Machiavelli rifiutò il suo consenso alla riforma civile tentata dal grande domenicano» anche se lodò «il sapere, la prudenza e la virtù» di quel predicatore.
L'idea che una comunità timorata di Dio possa cogliere naturalmente il premio della gloria collettiva, ha ricordato Quentin Skinner, era comune tra i contemporanei di Machiavelli. Come egli stesso osservò, questo era stato lo scopo della predicazione di Savonarola a Firenze dal 1490 in poi, quando il frate aveva persuaso i fiorentini che, appunto, «parlava con Dio», e che il messaggio di Dio alla città era che lui, fra' Girolamo, l'avrebbe riportata all'antica grandezza se avesse saputo tornare alla religiosità originaria. Perciò con una punta di cinismo giunge alla conclusione che i leader di ogni comunità devono «favorire e accrescere» tutte le cose «che nascano in favore» della religione, ma hanno altresì il dovere di comportarsi «come se le giudicassero false».
Da tutto ciò, conclude Barbuto, si desume «un atteggiamento di Machiavelli non certamente simpatetico nei confronti di Savonarola e meramente improntato a criteri politici». E però il giudizio machiavelliano «si appunta su una valutazione disincantata, che non tralascia di apprezzare le qualità politiche e retoriche del frate». A questo livello della maturazione intellettuale di un giovane fiorentino in procinto di essere ammesso nei ranghi della repubblica, «la questione savonaroliana non provoca ancora la riflessione sulla profezia e sulle implicazioni religiose nella vita politica che troveremo nel Principe e nei Discorsi». C'è già un'anticipazione del Machiavelli per cui «la politica era conflitto, altrimenti era ineffettuale e destinata al fallimento». Ma «la politica era anche unità, altrimenti degenerava nella lotta faziosa e autodistruttiva».
In effetti, chiosa Barbuto, «anche per Machiavelli, e non potrebbe essere diversamente pena la ineffettualità di ogni proposta politica, il conflitto non poteva prescindere da un ordine; l'unità della politica era immanente al conflitto; la politica era tensione fra unità, quindi ordine, e conflitto… Per Machiavelli, non era possibile redenzione insita nella storia e nemmeno, contrariamente a quanto immaginavano gli utopisti, da More a Campanella, era possibile la realizzazione di un Eden, "artefatto", "tecnico", disciplinato e senza più scissioni». Qualcosa di tutto ciò si intravede già nelle sue riflessioni su Savonarola. A saper leggere con attenzione, si scoprono molte anticipazioni di quel che scriverà anni dopo. Pensare che il Cinquecento era ancora di là da venire. E che, all'epoca, Machiavelli aveva appena 29 anni.

Repubblica 19.3.13
Finisce in pareggio la partita su dio
“Il caso o la speranza?”: un dialogo tra Flores d’Arcais e Mancuso
di Marino Niola


Siamo figli del caso o di un disegno divino? La vita è nata da un accidente della materia o da una volontà superiore? Insomma Dio c’è o ce lo siamo inventato? È la questione delle questioni. Che nel corso dei secoli ha visto schierati su fronti opposti i migliori spiriti dell’Occidente. E adesso su questo delicato terreno tornano a sfidarsi due studiosi di grosso calibro. Come il filosofo ateo Paolo Flores d’Arcais e il teologo credente Vito Mancuso in un bel libro appena uscito da Garzanti e intitolato Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia.
Il risultato è un avvincente duello fra due intelligenze scintillanti. Che si battono senza esclusione di colpi. Come nelle dispute filosofiche medievali quando a scendere in campo erano i campioni del pensiero. Gli acuminati maestri della Scolastica. I Guglielmo d’Ockham contro i Tommaso d’Aquino. E Flores d’Arcais e Mancuso somigliano maledettamente a un dottor sottile e a un dottore angelico in versione contemporanea. Il primo sostiene le ragioni di un ateismo fondato sulla constatazione che l’esistenza di Dio non è provata né provabile. E d’altra parte ciò che la scienza ci dice sull’uomo e sulla vita basta e avanza. Non c’è bisogno di aggiungere né di togliere nulla al nostro sapere.
Entia non sunt multiplicanda come diceva Ockham, non sono necessari nuovi elementi per dimostrare che homo sapiens non è che il prodotto della bizzarria della sua neocorteccia. E dunque se siamo qui a parlare di questo libro è un puro caso.
Mancuso sostiene invece che la fede non è l’opposto della ragione ma una sua particolare declinazione. Perché credere in Dio significa «pensare con il cuore» per cercare di dare una risposta anche a quelle domande cui la razionalità scientifica non può rispondere. Né ora né mai. Perché la fede non si limita, come fa la scienza, a dire di cosa siamo fatti e come funziona la macchina-uomo. Ma cerca «il senso globale dell’esistenza parteggiando per il bene e la giustizia». In questo Mancuso è lontanissimo da ogni forma di dogmatismo teologico. La sua idea di credenza non è né irrazionale né antirazionale. Non ha nulla di oscurantista. Anzi cerca proprio nei grandi tornanti del pensiero scientifico gli appoggi del suo itinerarium mentis in deum.
Arrivando ad affermare, con un certo gusto del paradosso, «se non ci fosse stato Darwin sarei stato ateo». E sulla scia di un fisico come Paul Davies, vede nell’evoluzione della specie e nelle leggi della natura un orientamento a favore della vita e una spinta verso l’armonia. Una sorta di materialismo provvidenziale. Mentre per Flores siamo figli di una catena di mutazioni casuali nelle quali è inutile cercare di trovare un senso, fisico o metafisico che sia.
Ma la religione è o non è l’oppio dei popoli? Paradossalmente su questo i due contendenti sembrano convergere. Ma ciascuno per la sua strada. Per il laicista Flores la religione è intrinsecamente legata all’ignoranza, o meglio a un difetto di
conoscenza. Mentre per un credente ben temperato come Mancuso l’oppio si nasconde nell’uso politico del sacro che lo trasforma in instrumentum regni, in un dispositivo di controllo delle masse. La fede laica di Flores e la religione scientista di Mancuso in certi momenti sembrano addirittura scambiarsi i ruoli. Ciascuno difende la sua tesi con argomenti tipici dell’altra parte. Perché in realtà nessuna delle due posizioni è mai ovvia e protocollare. Ed entrambi sono nemici della credenza cieca, quella che confina con la superstizione. Per cui spesso la pallina del match point oscilla a lungo sulla rete prima di cadere in una metà o nell’altra del campo.
Ma alla fine la differenza c’è e si vede. Perfino quando i due dialoganti ragionano su un evento giurassico come quello del meteorite caduto sullo Yucatan che circa sessantacinque milioni di anni fa avrebbe cambiato il corso della nostra storia provocando l’estinzione dei dinosauri e la vittoria a tavolino di homo sapiens. Un aiutino provvidenziale, effetto di una balistica celeste? O ancora e sempre una coincidenza fortuita? Per Flores è vera la seconda. Mentre per Mancuso, anche se l’uomo non fosse sopravvissuto, ci sarebbe stato comunque un saurus sapiens sapiens. Perché la scimmia nuda può essere un caso, ma non lo è la tensione dell’essere verso la comprensione di sé. Insomma l’uomo è il pianale contingente di un telos necessario che avrebbe potuto installarsi su altri piedistalli. Nessuno dei due riesce a vincere né a convincere l’altro. Se è vero che Dio esiste solo per chi lo fa esistere, è altrettanto vero che non esiste solo per chi non lo fa esistere. Così la sfida si conclude in un nulla di fatto. Che come diceva Gianni Brera è il risultato di una partita perfetta. Quel che si dice un pareggio esaltante.

Il caso o la speranza? di Paolo Flores d’Arcais e Vito Mancuso (Garzanti pagg. 160 euro 14) Si presenta a Bologna, alle 17.30 di oggi, alla Biblioteca dell’Archiginnasio