mercoledì 20 marzo 2013

l’Unità 20.3.13
I tagli di Boldrini e Grasso
I presidenti incontrano i capigruppo: ridurre le spese delle Camere. E si decurtano lo stipendio del 30%
Zanda e Speranza nuovi capigruppo Pd al Senato e alla Camera
Bersani prepara la sua proposta di governo
Il segretario Pd domani al Quirinale si dirà pronto a dar vita a un esecutivo pur «senza accordi preventivi»
A pranzo con il presidente del Parlamento europeo Schulz
Oggi le consultazioni di Napolitano, venerdì l’incarico
di Simone Collini


Grasso e Boldrini accelerano: subito i tagli dei bilanci del Parlamento. Incontrano i capigruppo, avviano l’esame della possibile riduzione delle spese e annunciano che si decurteranno lo stipendio del 30%. All’esame anche una revisione dei regolamenti. Intanto Bersani prepara la sua proposta di governo con ministri di alto profilo. Oggi, con i presidenti delle Camere, Napolitano avvia le consultazioni che dovrebbero andare avanti fino a domani. Probabilmente già venerdì il Capo dello Stato potrebbe dare l’incarico al leader del Partito democratico.

Bersani salirà al Colle domani pomeriggio e al Capo dello Stato ribadirà la linea approvata all’unanimità all’ultima Direzione del Pd: il centrosinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, dunque ha la «responsabilità» di avanzare una proposta di governo per il Paese.
Il leader democratico, che ha sparigliato con la mossa vincente di Grasso e Boldrini alla presidenza delle Camere e ieri ha replicato con un’altra mossa a sorpresa proponendo come capigruppo Zanda e Speranza (provocando anche malumore in una parte dei deputati), non si produrrà in altri colpi di scena. Al Nazareno smentiscono infatti la voce iniziata a circolare nel pomeriggio, e cioè che Bersani potrebbe anche proporre al Presidente della Repubblica un nome alternativo al suo capace di intercettare il voto dei parlamentari Cinquestelle. A Napolitano, domani, il leader del Pd dirà che è pronto a dar vita a un esecutivo che pur «senza accordi preventivi» punti ad ottenere in Parlamento, su un programma qualificato, un sostegno che vada al di là dei voti del solo centrosinistra.
Al quartier generale del Pd, soprattutto dopo il successo segnato con l’elezione di Grasso a presidente del Senato, si guarda con fiducia all’appuntamento di domani al Quirinale. Si ritiene cioè che sulla base del risultato elettorale e delle prime votazioni parlamentari Napolitano possa benissimo dare a Bersani l’incarico per la formazione del nuovo governo. E non ci si preoccupa più di tanto di sapere se tale incarico sarà pieno o esplorativo (che tra l’altro, formalmente, è una tipologia non prevista dalla Costituzione e comunque per prassi riservata alle alte cariche dello Stato).
Bersani, che ieri ha pranzato con il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz (il sostegno dei progressisti europei esplicitato in campagna elettorale non è venuto meno) nel caso in cui ricevesse l’incarico (orientativamente venerdì) si prenderebbe qualche giorno per condurre le sue consultazioni. E cioè per sondare le altre forze politiche e capire se il «governo di cambiamento» a cui sta lavorando, composto da figure di alto profilo e riconosciuta esperienza, possa incassare la fiducia non solo alla Camera, dove il centrosinistra ha 345 deputati, ma anche al Senato, dove può contare sul voto favorevole di 123 senatori (114 Pd, 7 Sel e 2 Svp). I voti dei senatori di Scelta civica (20) non sarebbero sufficienti a incassare la fiducia, in caso di voto contrario da parte di centrodestra (117 senatori) e Movimento 5 Stelle (53). Per questo Bersani, prima di tornare da Napolitano e sciogliere la riserva, dovrà soprattutto capire se Pdl, Lega e Cinquestelle, al di là di quello che potranno dire domani alle consultazioni al Colle, sono veramente determinate a tenere un atteggiamento tale da impedire la nascita del suo governo.
È in particolare dal Carroccio, nelle ultime ore, che stanno arrivando segnali contraddittori, e che i vertici del Pd stanno seguendo con grande attenzione. Da un lato, la Lega ha deciso di andare alle consultazioni al Quirinale insieme al Pdl. Il che significa che non farà nulla che non sia stato preventivamente concordato con Berlusconi. Dall’altro, è lo stesso segretario Roberto Maroni ad assicurare che la Lega sarà «leale» agli alleati, aggiungendo però: «Come governatore della Lombardia sono interessato ad avere un interlocutore, un governo che mi dia risposte».
Una fiducia tecnica da parte della Lega consentirebbe a Bersani di arrivare alla fatidica soglia dei 160 sì (al netto del voto dei senatori a vita), ma al Pd non si fanno troppe illusioni circa una libertà di manovra del Carroccio a discapito del Pdl. Per questo canali di comunicazione sono stati aperti con tutti. E segnali sono stati lanciati a trecentosessanta gradi. Anche sull’elezione del prossimo Capo dello Stato.
Non a caso ieri Davide Zoggia ha messo in luce la disonibilità del Pd ad aprire il confronto sul Quirinale. «La scelta del presidente della Repubblica non può essere un calcolo aritmetico», ha detto il deputato Pd, incaricato da Bersani nei giorni scorsi insieme a Zanda e Calipari di discutere con gli altri gruppi parlamentari della partita delle presidenze delle Camere. «Anche se la coalizione Italia bene comune più Monti potrebbe indicare il presidente della Repubblica, non ritengo necessario che lo faccia dice Zoggia e ritengo anzi che anche le altre forze politiche debbano concorrere».
Aprire al confronto sul Quirinale non significa necessariamente la garanzia che le altre forze non ostacolino la nascita del nuovo governo. Non è però un segreto che la Lega non intenda andare a breve a nuove elezioni, e che i Cinquestelle avrebbero difficoltà a votare allo stesso modo di Berlusconi. Bersani dovrà impiegare i giorni a cavallo tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima per capire se ci sono possibilità di riuscita. Dopodiché dovrà valutare se tentare comunque il tutto per tutto, cioè salire nuovamente al Quirinale con una lista di ministri e andare alla prova del voto in Parlamento o passare la mano. Dice il leader Pd alla vigilia dell’avvio delle consultazioni: «La direzione ha segnalato la nostra visione politica, dopodiché il percorso dei prossimi giorni e delle prossime settimane è affidato all’opera del presidente della Repubblica, verso la quale abbiamo grandissima fiducia».

l’Unità 20.3.13
Luigi Zanda: «I tagli annunciati da Grasso e Boldrini sono un’iniziativa molto importante, che il gruppo del Pd sosterrà in ogni modo»
«Ora misure anti crisi o va a finire male»
Il Partito democratico ha il 42% di donne elette, saranno presenti anche negli organi dirigenti
di Natalia Lombardo


«È ’na rogna», scherza Luigi Zanda, nominato capogruppo Pd al Senato, dopo essere stato vice dal 2006, prima con l’Ulivo e poi con i democratici.
Nel senso che questa legislatura sarà più difficile, oltre che incerta?
«Penso che sia la più complessa del dopoguerra. Siamo a metà del processo di unificazione europea, nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, con un tasso di disoccupazione elevato, servizi pubblici in difficoltà, dalla scuola ai trasporti locali, alla sanità. E con le imprese che soffrono anche per i crediti che non riscuotono. Il tutto è aggravato da una crisi violenta del sistema politico, in cui l’unica forza politica solida è il Pd. E la storia ci dimostra che nelle grandi crisi le malattie politiche si aggravano».
Con una deriva autoritaria?
«Be’, alcune volte ci sono state degenerazioni. L’Europa per noi è una protezione democratica, però... Quindi l’importanza del lavoro parlamentare del Pd è molto elevata, e mentre alla Camera ha la maggioranza, al Senato ha una situazione più difficile».
Per questo hanno scelto lei, che segna la continuità e ha più esperienza, rispetto al rinnovamento voluto alla Camera? «Mah, ho molto apprezzato la fiducia che mi hanno data. Certo, il mio lavoro era conosciuto, avranno pensato che potrebbe essere utile».
Il Cinque Stelle vogliono essere presenti negli uffici di presidenza e fra i questori. Non è normale, con i loro voti?
«Il Pd ha subito incontrato tutti i gruppi parlamentari, compreso il M5S, e ha comunicato l’intenzione di garantire la presenza di ogni gruppo negli uffici di presidenza di Camera e Senato. È normale, ma ci vogliono i voti. Questo vuol dire che noi non ci prenderemo tutto quello che potremmo prenderci con i nostri voti». Vuole dire che il Pd è “generoso” e può lasciare spazio a altre persone, come è stato con le presidenze delle Camere? «Sono due altissime personalità, Boldrini è stata eletta nelle liste di Sel, Grasso in quelle del Pd, ma non è iscritto. Non si tratta di generosità, c’è la volontà di coinvolgere i gruppi e di valorizzare la classe dirigente migliore, che siano persone nuove o non nuove, Anna Finocchiaro per dire è una straordinaria dirigente politica». Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, ha detto che senza diretta streaming non parteciperanno all’incontro sulla composizione dell’ufficio di presidenza che lei ha chiesto. Cosa fa, accetta la diretta web?
«La diretta streaming? Ve bene, se queste sono le loro abitudini. Ma mi sembra di capire che a questa riunione i Cinque stelle non ci saranno».
Ci sarà una forte presenza delle donne negli organi parlamentari, come le hanno chiesto le senatrici Pd?
«Le donne sono state una grande priorità nelle liste del Pd, infatti sono il 42% dei parlamentari. Quindi useremo gli stessi criteri nei gruppi dirigenti del Pd di Senato e Camera, anche per i capigruppo».
Il presidenti delle Camere hanno chiesto di ridurre i costi del Parlamento e il loro stipendio del 30%. Che ne pensa? «Un’iniziativa importante, che i gruppi del Pd sosterranno in ogni modo». Quali saranno le prime proposte di legge che presenterete? Il pacchetto sui conflitti d’interesse?
«Appena il governo consentirà una piena attività del Parlamento bisognerà mettere in moto misure economiche e sociali, e affrontare la gravissima questione dei debiti della pubblica amministrazione».
Il Pdl si è vantato di aver sbloccato la questione in Europa con Tajani, è così? «Mah, Monti in Europa ci aveva lavorato molto in questi mesi. E insieme a queste misure devono partire subito delle riforme strutturali: anzitutto, legge elettorale, conflitto d’interesse e una buona legge anticorruzione». Questi lavori parlamentari potrebbero partire anche con una proroga del governo Monti, come dicono i grillini? «Per far andare avanti spedito il Parlamento serve un governo con una maggioranza indispensabile. Il governo è un attore del Parlamento, e senza maggioranza, come si fa?».
Lei è stato uno dei mediatori del Pd con i Cinque stelle, che idea si è fatto? «Abbiamo avuto un rapporto molto civile e trovato un accordo sul metodo, sia per avviare subito la vita del Parlamento, sia sul “pluralismo” nei consigli di presidenza».
Invece sulla presidenza del Senato Monti si è intestardito e non c’è stata possibilità di intesa. Un peccato?
«Non mi aspettavo proprio che Scelta Civica non votasse Grasso. È sbagliato dare valenza di parte a una persona come lui, che ha fatto tanto per il nostro Paese, non era il caso di porsi con equidistanza fra due candidati. ».
E Berlusconi, è ancora lì...
«Berlusconi? Sono vent’anni che infesta la politica italiana»

il Fatto 20.3.13
Senato. Il nuovo capogruppo Pd Zanda:
“Voterò l’ineleggibilità per Berlusconi”
"Ho detto più volte che per me Silvio Berlusconi è ineleggibile"

qui

La Stampa 20.3.13
Il bivio di Bersani Subito in campo o largo a un esploratore
Prende corpo l’ipotesi di rinviare l’incarico al segretario e mandare avanti qualcun altro per sondare i partiti
di Federico Geremicca


Non è un ripensamento. E nemmeno un passo indietro. Per ora è solo una riflessione sulla via migliore per raggiungere l’obiettivo, che resta lo stesso: un governo-Bersani che coniughi la responsabilità reclamata dalla difficile situazione del Paese con il cambiamento chiesto dagli elettori.
Pier Luigi Bersani ne ha parlato ieri a lungo con Bruno Tabacci, l’amico-alleato leader del Centro democratico. «Ma questa ipotesi - racconta Rosy Bindi - l’aveva ventilata anche alcuni giorni fa»: e l’ipotesi tutta da discutere e valutare con Giorgio Napolitano - consisterebbe nel rinviare l’incarico e la «discesa in campo» del leader Pd a dopo l’esplorazione di un presidente incaricato di registrare (e magari ammorbidire) le posizioni dei diversi partiti in campo.
Non si tratta di una decisione. O, almeno, non ancora. «Io registrerei questa ipotesi, questa possibilità - consiglia Stefano Di Traglia, portavoce del segretario - circondandola di condizionali e formule dubitative». Ma nemmeno Di Traglia smentisce il fatto che la riflessione sia in corso. Bruno Tabacci, invece, annota: «Parliamoci chiaro: ora come ora, il tentativo di Pier Luigi sembra non poter avere altro epilogo che il fallimento. E perchè dovremmo bruciare così una ipotesi di soluzione che, con approfondimenti e tempi più distesi, potrebbe invece andare in porto? ».
Ad approfondire e distendere i tempi - ad esplorare, insomma, le possibilità di dar vita ad un nuovo governo - potrebbe essere Pietro Grasso, neo presidente del Senato. Un paio di giorni per sondare umori e progetti dei diversi partiti, quindi il ritorno al Quirinale per il resoconto di quanto registrato. E a quel punto... A quel punto la storia sarebbe tutta da scrivere, e un copione preciso ancora non c’è. A seconda di quel che il presidente Grasso avrà udito dalle forze politiche e riferito a Napolitano, gli scenari - infatti potrebbero moltiplicarsi. E di fronte ad una situazione che si confermasse di stallo assoluto, non sarebbe nemmeno da escludere l’ipotesi che il Capo dello Stato decidesse di favorire un leggero anticipo nell’elezione del suo successore: permettendo dunque al nuovo presidente di indirizzare, se possibile, la crisi verso una soluzione.
Ma questo è quel che potrebbe maturare - se mai maturerà tra oggi e domani alle 18, quando la delegazione Pd sarà ricevuta da Giorgio Napolitano al Quirinale: quel che si vedeva e si ascoltava ieri, invece, era il film i cui fotogrammi continuano a scorrere, sempre uguali, fin dal martedì del dopo-voto. «Il Pd non cambia linea: andrà alle consultazioni - ha ripetuto ieri Bersani - con la proposta votata dalla Direzione» (incarico al segretario del Pd per un governo con il Movimento Cinque Stelle e mai con Berlusconi). È l’ipotesi che va per la maggiore, tanto che i bookmakers (in Italia e all’estero) quotano a 1,80 un esecutivo a guida Bersani, a 10 una riedizione del governo di Mario Monti e addirittura a 22 un ritorno di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi.
Tra oggi e domani, però, i primi nodi saranno sciolti. La situazione - va detto - resta confusa e bloccata, soprattutto dalle parti del Movimento Cinque Stelle, sui cui voti Pier Luigi Bersani non fa mistero di puntare per riuscire nella sua impresa. Ma i Cinque Stelle non paiono schiodarsi dal loro no. E ieri Claudio Messora - inviato a Roma da Grillo per curare la comunicazione dei senatori «grillini» - lo ha ripetuto, usando un’immagine che forse non sarebbe dispiaciuta allo stesso leader Pd: «Il Movimento non darà mai la fiducia ad un governo guidato da lui, Bersani: nemmeno se adotta il nostro programma - ha ammonito Messora - e nemmeno se cammina di notte sui ceci».
Camminare di notte sui ceci... Immagine che non ha lo stesso fascino criptico del «c’è chi preferisce un passerotto in mano piuttosto che il tacchino sul tetto», ma certo si inserisce nello stesso genere: parlar per metafora quando il parlar chiaro rischia di esser troppo duro. Ma nonostante i ceci e i tacchini, l’ora della chiarezza sta per scoccare. O, almeno, è quel che finalmente si spera...

Repubblica 20.3.13
La doppia partita di Pierluigi “Ho i numeri per andare alle Camere il Colle e il mio partito lo sappiano”
Il segretario studia la lista dei ministri, Saccomanni all’Economia
di Goffredo De Marchis


È ANCHE il passaggio chiave che lo divide dal presidente della Repubblica. Perché appare ormai chiaro: dalle consultazioni che cominciano oggi, non uscirà una maggioranza certificata al Senato. Il Movimento 5stelle e la Lega infatti non daranno un via libera ufficiale. Solo Scelta civica è pronta a pronunciare il suo sì davanti al capo dello Stato. A questo punto, non è difficile pronosticare un braccio di ferro tra il Colle e il centrosinistra. Per allentare la tensione, Napolitano sta già pensando a un secondo giro di consultazioni.
Sul piano formale il rapporto col Quirinale è stato ricucito negli ultimi giorni da Bersani e da altri interlocutori democratici. Ma la sostanza dei numeri non è cambiata, nemmeno dopo il colpo di scena dell’elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso. Con i senatori di Mario Monti, il Pd può contare su 146 voti (il neopresidente non vota). Ne mancano 12 per avere la maggioranza assoluta. Questo “buco”, il segretario è convinto di poterlo colmare col programma e con una lista di ministri ispirata al metodo “Grasso-Boldrini”: volti nuovi e a sorpresa. Con una sola eccezione: la casella dell’Economia è già sicura per Fabrizio Saccomani, attuale direttore generale di Bankitalia. Rappresenta la polizza di garanzia presso i mercati e la Bce.
Al centrosinistra non mancano gli esterni e le competenze, anche fra i neoeletti. Non si va lontano dalla realtà indicando come possibili ministri Carlo Petrini, inventore di Slow Food e padre fondatore del Pd; Giampaolo Galli, ex direttore generale di Confindustria e neodeputato; Massimo Mucchetti, senatore ex editorialista del Corriere; Fabrizio Barca. Accanto a loro resistono gli identikit di Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà, graditi
ai movimenti e ai 5stelle.
Profili e programma però non sono sufficienti. Il rischio della falsa partenza, ossia di un governo che si presenta in Parlamento ma non ottiene la fiducia, resta alto. Bersani si richiamerà ad alcuni precedenti. A cominciare dal primo governo Berlusconi, partito nel 1994 senza la maggioranza al Senato, maggioranza strappata grazie al voto di tre senatori a vita. «Ma c’è anche il De Gasperi VIII nel ‘53, che non ottenne la fiducia — ricorda ai suoi il leader del Pd —. E nel ‘76, Andreotti non era certo di avere l’astensione del Pci per l’esecutivo di solidarietà nazionale». Saccomani è certamente la figura giusta per confermare gli impegni internazionali e la stabilità economica in vista «della scadenza di un pacchetto enorme di titoli pubblici tra maggio e luglio», spiega Bersani. Ma ancora non basta.
In Parlamento, il premier designato si presenterebbe annunciando non un governo di legislatura, ma un esecutivo a termine, «anche di un anno. Poi si verifica se ci sono le condizioni per andare avanti». Sono argomenti che Napolitano ha già avuto modo di ascoltare nei colloqui informali, ma che non allontano lo spettro di un salto nel buio.
Per agganciare i grillini, il Pd è pronto a votare i loro candidati questori e vicepresidenti senza chiedere in cambio il sostegno ai propri candidati. Le dichiarazioni di Roberto Maroni, che pure si presenterà al Colle con Berlusconi, vengono considerate a Largo del Nazareno un’apertura, seppure timida. Su Monti, invece, si può contare da subito: i parlamentari di Scelta civica voteranno Bersani. In questo modo, il premier conta di rientrare nel gioco, dopo il pasticcio sulle presidenze delle Camere. Nel suo mirino infatti c’è sempre l’elezione del nuovo capo dello Stato, anche se al Pd considerano in ascesa le quotazioni di Grasso. Un candidato da offrire anche al Pdl, molto pentito di aver puntato su Schifani sabato, e che ha avviato il dialogo con Grillo tagliandosi l’indennità del 30 per cento.
Il sentiero stretto preoccupa anche il Partito democratico. Soprattutto quelli che puntano a un “dopo”, se Bersani fallisce. «Il timore c’è», ammette un bersaniano. Da Massimo D’Alema a Matteo Renzi, una parte del Pd considera sbagliato entrare in carica senza avere la fiducia. Un primo segnale di dissenso alla linea del segretario è stato registrato ieri durante la votazione del capogruppo alla Camera Roberto Speranza. Novanta voti dispersi su 290 sono tanti, anche se non è insolito lo “sfogatoio” nel segreto dell’urna. Chi scommette su elezioni vicine, come il sindaco di Firenze, non è convinto che il modo migliore per arrivarci sia avere Bersani a Palazzo Chigi, sconfitto nelle urne e nelle aule parlamentari. Altri, come D’Alema, continuano a non escludere il piano B, ossia un governo del Presidente con il Pdl, sapendo che il Quirinale comincia il giro di consultazioni con una sola certezza: «Il presidente farà tutto il possibile per evitare un altro scioglimento delle Camere».

Repubblica 20.3.13
Pd, ok ai capigruppo ma i deputati si spaccano
Per Speranza 200 sì su 284, i renziani non lo votano. Al Senato passa Zanda
di Giovanna Casadio


ROMA — «La mia proposta per la Camera è un giovane di lungo corso...». Bersani indica come capogruppo Roberto Speranza, 34 anni, segretario regionale del partito in Basilicata, che è stato portavoce del “suo” comitato per le primarie. Un giovane bersaniano di ferro. Dopo la richiesta di voto segreto e un’assemblea di due ore del gruppo democratico, Speranza è eletto con 200 sì, e 84 voti dispersi tra schede bianche e nulle. La carta del cambiamento - l’unico asso che in questo momento il leader del centrosinistra abbia in mano nella difficile partita politica - non è pacifica. Proprio i paladini democratici del rinnovamento - i “rottamatori” renziani - non condividono. E infatti votano “bianca”. Malumori anche tra i supporter di Dario Franceschini, il capogruppo uscente che era stato in pole position come presidente della Camera. Con un tweet a inizio giornata avverte: nessuno si sogni una mia proroga per le consultazioni al Quirinale, se la linea che si è intrapresa è quella del cambiamento allora «bisogna essere coerenti». Dello stesso tenore il tweet del capogruppo uscente del Senato Anna Finocchiaro.
Ma a palazzo Madama la cosa fila liscia, con l’elezione per acclamazione del presidente dei senatori democratici. È Luigi Zanda, personalità d’esperienza, in politica però dal 2003, ex vice della Finocchiaro, cagliaritano, 70 anni. Al Senato, la trincea del centrosinistra dove Bersani si gioca tutte le sue chance per il governo, era necessaria la massima unità del partito per il portavoce. Uno solo è stato l’astenuto, Stefano Esposito, uno dei cosiddetti “giovani turchi”, cioè il drappello di Orfini, Fassina, Orlando, Alessandra Moretti. «Sbagliato fermare il rinnovamento», twitta Esposito. Per Bersani, Zanda ha l’esperienza che occorre anche nel confronto con i 5Stelle. «Il Pd ha molte risorse programmatiche», è l’appello del neo capogruppo, che apre alla possibilità di un questore grillino, ma facendo «tutto alla luce del sole». E invita i 5Stelle ad un incontro per oggi, con tanto di diretta streaming. Ma per ora l’incontro salta.
Bersani si mostra soddisfatto: «Stiamo dimostrando che la ruota gira, e poi l’elezione di questi due capigruppo sta dimostrando quello che abbiamo in mente: l’esperienza e il rinnovamento». Però era scuro in volto il segretario democratico quando Luigi Bobba, ex presidente Acli, deputato teodem, si è alzato in piedi e ha chiesto il voto segreto: «Se ci lamentiamo con Grillo e con la sua disinvoltura con le regole della democrazia, allora dobbiamo essere rigorosi, meglio un po’ meno consensi però convinti». Gli ribatte Guglielmo Epifani: siamo un unico partito, se al Senato il metodo è stato per acclamazione... La querelle si prolunga: a Palazzo Madama il nome è indicato con una raccolta di firme, a Montecitorio no. Infine il vice segretario, Enrico Letta a norma di statuto del partito concede il voto segreto. Scalfarotto, renziano, dice con franchezza di avere votato scheda bianca. Giacomelli, franceschiniano, twitta: il Papa invita alla tenerezza, noi rispondiamo con Speranza. Ma il risiko delle correnti democratiche è ancora aperto per le vice presidenze: il renziano Giachetti è tra i favoriti. Deluso il lettiano Boccia, di cui si era parlato come capogruppo. Speranza invita a emozionarsi per la buona politica. I primi complimenti li riceve dal figlio, due anni e mezzo, che lo chiama per la festa del papà: «Bravissimo».

Repubblica 20.3.13
Civati: non mi è piaciuto il metodo di designazione, gli eletti delle primarie non sono stati coinvolti”
“Roberto è bravo, però ho scelto scheda bianca perché questo è un rinnovamento pilotato”


ROMA — Civati, lei è scettico sull’elezione del neo capogruppo del Pd, Roberto Speranza?
«Sulla persona assolutamente no, perché Roberto è una figura dialogante, giovane e di talento. Non lo discuto affatto. Però non mi è piaciuto il metodo. Dal mio punto di vista pesa che nelle indicazioni per gli incarichi parlamentari, non ci sia nessun eletto con le primarie. Se sono così importanti da qualche parte dovremo cominciare a farlo vedere. Ci sono una buona percentuale di parlamentari liberi, neofiti che vogliono essere maggiormente coinvolti».
Ha votato scheda bianca?
«Sì».
Però Speranza è un altro segnale del cambiamento voluto da Bersani?
«È un rinnovamento garantito, molto pilotato. Nell’idea della democrazia che ho io, le proposte si discutono in modo aperto e generale. Comunque, mi auguro che Speranza faccia suo questo metodo».
Il segretario del Pd ha dichiarato spesso che “farà girare la ruota”. Ma evidentemente pensa a un ricambio con persone di sua fiducia?
«Invece che Speranza dovrebbe chiamarsi “Fiducia”».
Lei ritiene non ci sia rinnovamento nel Pd?
«No, infatti la mia non è un’opposizione, ma uno sprone a lavorare in modo diverso. Il rinnovamento si è imposto, ma confrontiamoci su come lo vogliamo fare questo rinnovamento».
Perché il voto segreto? Era necessario?
«Niente affatto. D’altra parte non era in discussione l’elezione di Speranza, peraltro unico candidato. Si poteva fare una discussione e ci sarebbero stati semplicemente dei “distinguo”. Io avrei fatto quello che poi ho deciso, il mio voto palese sarebbe stato uguale».
Tuttavia 84 deputati non hanno votato Speranza. Un bel po’ di malumori?
«Ma ci sono stati 200 voti favorevoli nella convinzione che siamo in un passaggio delicato. Non accenderei polemiche: bene un capogruppo giovane e ci sta anche la manifestazione di dissenso. La preoccupazione più grande ora è per le prossime mosse che spettano al centrosinistra; è per quello che succederà dopo le consultazioni del presidente Napolitano. In questa fase così difficile credo che tutti, inclusi i renziani, saranno collaborativi con Speranza e con Bersani».
Il rinnovamento deve essere il criterio-guida anche per il Quirinale?
«Sulla candidatura per il Colle sono diventati tutti esperti nelle ultime ore. Non mi aggiungo agli esperti, ci vuole un po’ di modestia. Prima del resto c’è il passaggio per il premier, per il governo e poi si affronterà l’elezione del capo dello Stato».
Il vento grillino soffia anche nei partiti?
«Un processo è avviato. Vorrei che il Pd valorizzasse da subito tutti quelli che hanno voglia di dare un contributo nuovo, di esperienze diverse. Ho mandato una lettera aperta ai parlamentari, perché si lavori subito a proposte di legge che precisino e diano concretezza ai famosi otto punti di programma di Bersani. Va aperta una discussione anche nelle città: avere fatto le primarie equivale all’elezione in un collegio uninominale. Sui rimborsi elettorali ad esempio, c’è una proposta di Walter Tocci che punta ad abolire il rimborso automatico e sostituirlo con la contribuzione dell’uno per mille volontaria. Discutiamone».

il Fatto 20.3.13
La legge n°1 di Bersani: conflitto d’interessi e Berlusconi ineleggibile
Il capogruppo al Senato Zanda prova “l’aggancio” dei grillini
Casson frena: “Leggiamo le carte”
di Caterina Perniconi


Dovrebbe essere la legge numero uno del governo di Pier Luigi Bersani (se mai ce ne sarà uno): una legge sul conflitto d’interessi. É scritto a grandi lettere sul sito del Partito democratico, “Restituiamo la moralità a questo Paese”. La proposta dovrebbe rappresentare una falcata verso il voto sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Sigillata dalla prima dichiarazione di Luigi Zanda da capogruppo: “Ho detto più volte che Berlusconi per me è ineleggibile. Quando sarà il momento i senatori del Pd decideranno ma se io sarò in giunta voterò per l’ineleggibilità”. Una dichiarazione forte fatta da uno dei “pontieri” che ha il mandato di conquistare i voti grillini. Zanda è stato meno prudente di altri parlamentari democratici che stanno ancora valutando la loro posizione: “Immagino che il partito si schiererà a favore dell’ineleggibilità”, dice il “giovane turco” Matteo Orfini. Il magistrato Felice Casson frena, almeno sulle procedure: “Finché non si forma la giunta e non leggiamo le carte del caso è difficile pronunciarsi”, spiega. Ma una valutazione politica? “É una situazione davvero complessa, ovviamente non potremo prendere una decisione solo politica, dovremo approfondire la questione”.
DIPENDERÀ anche da chi otterrà la presidenza della giunta. Di solito spetta all’opposizione, ma chi sarà in questo caso l’opposizione? Grillo o il Pdl? Ovviamente nei due casi la gestione dei tempi e delle procedure sarà molto diverso. “Deve esserci uno studio approfondito delle carte – dice la senatrice democratica Roberta Pinotti – intanto noi abbiamo ripresentato la legge sul conflitto d’interessi, con primo firmatario Zanda, che rende le norme più stringenti ma va ancora approvata e purtroppo non è retroattiva”. Dello stesso parere il responsabile Giustizia del partito, Andrea Orlando: “Noi abbiamo bisogno di due leggi che migliorino la salute della democrazia. Una sul conflitto d’interessi, l’altra sull’incandidabilità anche per chi ha condanne in primo grado. Che poi queste incappino nelle vicende specifiche di Berlusconi non è nostra responsabilità, ma sua”. E la giunta che deve fare?
“Questo non posso dirlo io ma i componenti dopo che avranno letto le carte. Per ora è stata considerata valida la legge del 1957, non è detto che non lo sia ancora, ma cambierà il tribunale, quindi forse anche la decisione. Secondo me è comunque è insufficiente”. La nuova proposta del Pd prevede l’abolizione della legge Frattini del 2004, quella che in sostanza ha lasciato tutto com’era e ha in sé due limiti fondamentali: è circoscritta ai soli titolari di cariche di governo nello Stato e non prevede che chi riceve come socio delle concessioni pubbliche sia in conflitto d’interesse. Il caso di scuola è, naturalmente, quello di Berlusconi. L’ex premier dovrebbe essere ineleggibile ai sensi della legge 361 del 1957 in quanto titolare “in proprio” delle frequenze sulle quali trasmette Mediaset. In realtà, il diritto d’uso delle frequenze è intestato a Mediaset spa di cui Berlusconi possiede il 38% e l’unico che non potrebbe essere eletto con questa legge è il presidente, Fedele Confalonieri. Nella proposta il conflitto d’interessi viene allargato agli enti locali e alle autorità indipendenti, ma non ai singoli eletti in Parlamento. Sui quali dovrebbe intervenire invece l’ampliamento dei casi di incandidabilità per reati contro lo stato, corruzione in primis. L’appello di MicroMega, promosso da Paolo Flores d’Arcais, ha superato le 200 mila firme e chiede che la giunta delle elezioni applichi subito la legge del ’57, dichiarando così ineleggibile Berlusconi e che i processi che lo riguardano possano fare il loro corso. Ieri Luigi Zanda ha fatto un primo passo verso la decisione. Ma il percorso è ancora lungo e, come spiegano i funzionari della giunta, può durare più di un anno.

il Fatto 20.3.13
Hack: “L’accordo tra il Pd e Grillo è puro buonsenso”


A SPINGERE per un accordo tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle, “che hanno tanti punti in comune”, è tornata ieri l’astrofisica Margherita Hack: “Se ci fosse un minimo di buonsenso - ha dichiarato a Udine, a margine della presentazione del libro Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete - Pd e grillini dovrebbero mettersi d’accordo, fare il governo e lavorare sulle cose urgenti”. “Le cose urgenti - ha precisato Hack - sono la risoluzione del conflitto di interessi, la legge elettorale, la riduzione dei costi della politica, il lavoro”. Hack ha accusato Grillo di avere scarso senso della democrazia per le bacchettate date ai suoi parlamentari che, votando Grasso, “hanno dimostrato che sanno usare il proprio cervello”. Quanto al Quirinale, Hack ha fatto i nomi di Monti e della Finocchiaro.

il Fatto 20.3.13
Antimafia e antifascismo Adesso si passi ai fatti
di Loris Mazzetti


“La storia non si ripete” è il messaggio che ci ha lasciato “l’indignato” Stéphen Hessel. Ciò che resta immutabile nel tempo è la parola e il suo significato, pietra miliare dei cambiamenti della società. Un esempio è la Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza. Parole moderne riproposte nei primi discorsi di Papa Francesco, dei presidenti Boldrini e Grasso, e trasformate in lotta alla povertà e alla disoccupazione. Durante i governi di centrodestra a queste sono state preferite altre: leggi ad personam, corruzione, sprechi, affari e bunga bunga. Parole che accompagneranno la storia politica di Berlusconi, ovvero l’ineleggibile per legge (la 361 del 1957) in quanto titolare di concessioni statali (frequenze tv).
LA RESPONSABILITÀ di aver portato un paese alla recessione è solo sua? No, è anche di chi ha preferito voltare la testa sostituendo controllo e denuncia con inciucio. Nel primo discorso dei presidenti Boldrini e Grasso due parole (dimenticate da anni all’interno del palazzo, ma non nelle piazze), sono state protagoniste: antifascismo e antimafia. L’antifascismo deve tornare a rappresentare quella barriera invalicabile tra la libertà e l’autoritarismo, il populismo, la xenofobia. In questo ultimo ventennio i rappresentanti del revisionismo hanno raccontato ai giovani che Mussolini era uno statista, che il confino era un luogo di villeggiatura e chi è morto per Salò si è sacrificato per la Patria come i partigiani caduti nella lotta di Liberazione. Si tornerà a parlare di apologia di fascismo nei confronti dei militanti di Forza Nuova, Fiamma Tricolore, CasaPound, o saranno ancora protetti se non addirittura incoraggiati? Indimenticabile l’immagine della scalinata del Campidoglio piena di camerati con il saluto romano per festeggiare l’elezione di Alemanno a sindaco di Roma. Le mafie producono un volume di affari di 170 miliardi di euro all’anno con un danno all’Erario di 75 miliardi. Il 16 marzo, la maggior parte dei tg, contrariamente agli anni scorsi, ha dato molto spazio alla manifestazione antimafia organizzata da Libera di don Ciotti a Firenze dedicata alle vittime della criminalità organizzata, novecento, i cui famigliari nel 70% dei casi non conoscono la verità. I loro nomi in questi giorni sono stati letti in molte piazze italiane per non dimenticare il loro sacrificio ma soprattutto per ricordare, come ha detto don Ciotti, che il primo luogo dove fare antimafia è il palazzo, l’istituzione. Oggi, come accadde nel 1789 alle parole devono seguire i fatti.

l’Unità 20.3.13
M5S, uno-vale-uno ma per comunicare due fanno per tutti
Primo giorno da capi per Messora e Martinelli. I deputati insistono su conflitto di interessi e riforma elettorale
di Claudia Fusani


I Cinquestelle hanno un problema: uno-vale-uno e però ce ne sono due che valgono più degli altri. Dettano la linea e non ammettono contraddittorio.
Dice il neonominato responsabile comunicazione Cinquestelle Claudio Messora, ai microfoni di Radio 24: «Che volete sono ragazzi, alle prime armi, alcuni si sono anche spaventati, sono siciliani e pensavano che sarebbe stato impossibile tornare a casa senza aver votato Grasso». Ma adesso arriva lui, il navigato blogger, «e le regole saranno rispettate perchè sono state sottoscritte» e la comunicazione «sarà ottimizzata per evitare fraintendimenti». Più o meno negli stessi minuti, ecco come la vede Giulia Sarti, deputata e candidata alla vicepresidenza della Camera, dritta in piedi davanti alle telecamere della diretta streaming piazzate in sala della Regina a Montecitorio: «Fossi stata al Senato, io sabato avrei dato retta alla parte emozionale di me, avrei violato il codice, avrei votato Grasso e l’avrei dichiarato subito. Poi sarei venuta davanti a voi e mi sarei dimessa». Il suo capo comunicazione le ha appena dato dell’ingenua, per non dire, naive, ma lei ancora non lo sa.
Nel pomeriggio parla ai microfoni di SkyTg24 un altro responsabile comunicazione, Daniele Martinelli, l’altro Casaleggio boy, blogger e giornalista, come Messora del resto: «L'euro è stata una mossa massonica di un gruppo di banchieri che ha deciso tutto per tutti e oggi ci troviamo in questa situazione. Grillo e il Movimento si propongono di promuovere un referendum per chiedere agli italiani se vorranno stare nell'euro e questo non vuol dire che il Movimento è contro l'euro». Per essere un comunicatore non è chiarissimo. Ma il problema è un altro. Nelle diretta streaming dalla Camera («cinque mila contatti, ragazzi siamo forti, ci sta lanciando anche Sky, grazie e un saluto a tutti» dice la moderatrice-cittadina-deputata) per i tre candidati alla vicepresidenza di Montecitorio la questione dell’euro non è tra le cose da fare nè tra le priorità. Che sono invece tre: «Riforma delle legge elettorale, anticorruzione perchè il testo del governo Monti è solo una vetrina, legge sul conflitto di interessi» dicono Riccardo Nuti e Giulia Sarti. Giulia Grillo, siciliana come Nuti, mette al primo posto il «reddito di cittadinanza anche se non so bene come si possa fare» poi legge elettorale e anticorruzione.
Una cosa è certa: tra dirette streaming, microfoni di radio e tv, i portavoce-parlamentari Cinquestelle sono diventati loquaci assai. E pieni di idee. E di punti di vista raccontati con estrema chiarezza anche se, forse per i tempi contingentati previsti nelle loro assemblee, non approfonditi. Sono, per fortuna, punti di vista e opinioni diverse. Per rendersene conto, bastava, ieri, ascoltare e leggere incrociando tempi e dichiarazioni che rimbalzavano via web e dalle varie trasmissioni a cui erano stati invitati Messora e Martinelli. Il punto, evidente, è che i portavoce parlamentari hanno un pensiero ricco e variegato e vivace. I comunicatori dovranno «ottimizzarlo», che significa sintesi, censura, normalizzazione. «Vigileremo hanno detto sugli ingenui».
LE PRIME PAROLE DI NUTI
Riccardo Nuti è stato indicato con 46 voti dal gruppo Cinquestelle vicepresidente della Camera. Presentandosi ha risposto alle domande dei colleghi e ha detto cose sensate. Affatto ingenue. Ad esempio: «La vera antimafia secondo me sono i cittadini supportati da magistrati che fanno il loro dovere». Una volta eletto, scende alla buvette per un caffè e ascolta i resoconti dei giornalisti circa le esternazioni dei nuovi capi comunicazione. Ci pensa un po’ su e dice: «Il mio pensiero non sarà uniformato». La giovane Giulia Grillo, siciliana e nessun vincolo di parentela, osa più di tutti: «A me le regole sono sempre state strette e dei Meet up ho sempre apprezzato la libertà». Concede che «le regole debbano essere la nostra cornice di riferimento». È chiaro che la prospettiva di avere un capo comunicatore non fa troppo piacere.
Questa è solo la cronaca di una giornata. Una delle prime. Poi andrà sicuramente meglio. A fine serata sono significativi alcuni fatti: nell’unica conferenza stampa non sono state ammesse domande dei giornalisti: alle dirette streaming non sono ammesse domande via web; in serata vengono silenziate anche quelle. E il capo comunicazione Martinelli dice: «Basta, ora non parlo più. Col pretesto di conoscermi, alcune tv mi hanno convinto a rilasciare interviste telefoniche. E mi hanno affibbiato dichiarazioni a nome del Movimento». Finché non sarà a Roma non parlerà più.

l’Unità 20.3.13
I 5 Stelle: a noi i posti «E niente domande»
La capogruppo Lombardi insiste per vice presidenze e questori, senza alcun accordo con i partiti
di Andrea Carugati


ROMA Archiviati (almeno per ora) i propositi di epurazione verso i dissidenti che hanno votato Grasso in Senato, i 5 Stelle ora puntano a conquistare alcuni ruoli chiave nelle due nuove Camere, a partire dai vicepresidenti e dai questori, quelli che controllano i conti. «Noi siamo la prima forza alla Camera, e non faremo accordi con i partiti. La responsabilità di lasciare fuori da questi incarichi chi rappresenta il 25% dei cittadini se la prenderanno loro...», ha tuonato ieri la capogruppo grillina Roberta Lombardi.
Per eleggere vicepresidenti e questori, infatti, i voti dei 5 stelle non bastano, serve il sostegno degli altri partiti. Ma loro non li vogliono chiedere. «Vogliamo i posti di responsabilità per i quali i cittadini ci hanno chiamato, li dobbiamo avere», rincara il deputato Roberto Fico, già candidato alla guida di Montecitorio. Lombardi, dal canto suo, si appella alla presidente Laura Boldrini come «figura di garanzia». E ribadisce: «Il bilancio del Parlamento ogni anno sfiora i 2 miliardi di euro, la metà del gettito Imu prima casa per il 2012. Capisco che dare a noi questo potere di controllo crei sgomento, ma i cittadini pretendono trasparenza e ci hanno mandato qui soprattutto per controllare i conti». Lombardi cita una conversazione tra Dini e Pisanu sulla volontà dei grillini di controllare «anche le caramelle» «Ecco perchè facciamo così paura, vogliamo rendicontare anche le caramelle». La conferenza stampa, però, termina dopo meno di dieci minuti. Nessuna domanda è ammessa. Finito di parlare, Lombardi e gli altri tre grillini si alzano e se ne vanno: «Grazie e arrivederci».
Per la vicepresidenza della Camera, il gruppo ha scelto a maggioranza il campano Luigi Di Maio, 26 anni, studente di Giurisprudenza e web master, vicinissimo allo stesso Fico. Per il ruolo di questore, invece, la piemontese Laura Castelli, 26enne anche lei, laureata in Economia aziendale, che si è autodefinita «mangiatrice di bilanci». Stesso meccanismo dell’auto-candidatura e del voto a maggioranza per il Senato, dove i grillini hanno indicato per la vicepresidenza Luis Alberto Orellana, già candidato di bandiera alla guida dell’Aula. Laura Bottici e Francesco Molinari sono stati invece scelti per il ruolo di questori. Il gruppo della Camera ieri ha nominato anche il vicecapogruppo: il più votato (con 46 voti) è stato il trentenne palermitano Riccardo Nuti, che ha battuto l’emiliana Giulia Sarti e Giulia Grillo, e che tra tre mesi prenderà il posto della Lombardi. Tra la capogruppo e il suo vice, tuttavia, il clima non pare dei migliori. Durante il dibattito di ieri, Nuti, già candidato sindaco a Palermo e vincitore delle parlamentarie nell’isola, ha mosso alcune critiche alla Lombardi («Ha incontrato delle difficoltà perchè manca un gruppo di comunicazione»). Al momento del voto lei gli ha preferito Giulia Sarti.
Sulle epurazioni, getta acqua sul fuoco Claudio Messora, nominato da Casaleggio responsabile della comunicazione dei senatori. «Non credo che ci saranno espulsioni perché siamo agli inizi, può capitare, sono ragazzi», spiega. «Grillo adesso li ha avvisati, non è una canna puntata, però sicuramente è un avvertimento forte. Lui è il capo politico del Movimento». Quanto alla fiducia a un governo Pd, dice Messora: «Il movimento non darà mai la fiducia a un governo guidato da lui. Nemmeno se adotta il nostro programma, perchè a quel punto il governo lo facciamo noi, e nemmeno se cammina di notte sui ceci».
Dal Senato, invece, il capogruppo Vito Crimi cerca di calmare gli animi: «Il nostro gruppo è forte e compatto», scrive su Facebook. «Ora iniziamo con la fase propositiva: ineleggibilità di Berlusconi, tagli alla casta dei partiti per riversarli a coprire i tagli fatti nel sociale, interventi per le piccole e medie imprese. Noi ci siamo... il nostro ufficio legislativo sta già lavorando...».
Lombardi, invece, al termine della prima capigruppo, polemizza: «I partiti hanno deciso che senza il nuovo governo il lavoro delle Commissioni non può partire. Eppure la presidente Boldrini ha detto che il Parlamento può iniziare a lavorare tranquillamente». Lo schema dei 5 stelle non cambia: far proseguire il lavoro del governo Monti in prorogatio e intanto concentrarsi sui lavori parlamentari. Anche il Def, documento di Economia e finanza, secondo i grillini potrebbe essere portato avanti dall’attuale ministro del Tesoro Grilli: «Lo sta già preparando...».
Domani mattina, alle consultazioni al Quirinale, andranno Crimi, Lombardi e Beppe Grillo. E Casaleggio? Mistero. Lui, intanto, se la prende con Eugenio Scalfari, che in un articolo sull’Espresso lo ha raccontato intento a giocare sul cellulare a un gioco sulla distruzione dell’universo: «Mi descrive come un deficiente che passa il tempo a giocare ai videogiochi a pranzo su un modernissimo telefonino. Devo precisare che non amo i videogiochi, non ho un modernissimo telefonino, ma un ormai antiquato iPhone 3G...».

l’Unità 20.3.13
La democrazia intermittente
di Luca Landò


Sgombriamo il campo da ogni dubbio: Roberta Lombardi non è Berlusconi. E se per questo, non è nemmeno Putin. Ma la «lecture» di ieri, che qualcuno ha erroneamente inteso come conferenza stampa, ha richiamato alla mente un’altra «lecture»: quella che Berlusconi e Putin tennero a Porto Rotondo nel 2008 e che finì con il famoso gesto del mitra che l’allora premier italiano rivolse a una giornalista colpevole di aver fatto una domanda scomoda. Roberta Lombardi non è Putin. E non è nemmeno Berlusconi. Ma organizzare una conferenza stampa e non permettere ai giornalisti di fare domande, come è accaduto ieri, appartiene più al giardino dei cactus di Villa Certosa (comprese le cascate e il finto vulcano) che al mondo del web a cui Grillo giustamente si ispira.
Un regalo dell’inesperienza? Possibile, anzi probabile. Se non fosse che la «conferenza stampa senza stampa», come direbbe il
leader Cinque Stelle, arriva dopo una serie di episodi curiosi. Come i commenti comparsi sul blog di Grillo dopo l’elezione di Grasso e cancellati nella notte. Come le riunioni «in diretta» che poi si tengono a porte chiuse, mandando online non le discussioni ma i monologhi. Come la scelta di parlare ai media del mondo tranne quelli nostrani, trovata geniale che permette a Grillo di finire sui giornali italiani senza passare dai loro giornalisti e dalle loro domande. Ammettiamolo, l’operazione di Grillo è innovativa e a tratti seducente. Perché nell’uso della rete in politica c’è davvero qualcosa di nuovo anzi d’antico: un formidabile luogo di incontro, di scambio e di comunicazione. A una condizione però: che l’uso innovativo della tecnologia non venga compiuto con gli strumenti di un triste passato. Perché la democrazia diretta può essere una bella cosa: quella intermittente certamente no.

l’Unità 20.3.13
Grillo tra novità e il rischio di dispotismo
di Michele Ciliberto


MERITA RIFLETTERE PIÙ A FONDO SULLA ELEZIONE DEI PRESIDENTI DELLE CAMEREE, IN MODO specifico, sul comportamento del M5S e sulle reazioni del capo del movimento, Grillo. Riepiloghiamo, distinguendo tre tempi della rappresentazione.
1. Alcuni senatori eletti nel M5S hanno ritenuto di dover venire meno alla direttiva data del leader e dei presidenti dei gruppi e, nel caso cruciale e delicatissimo del Senato, hanno deciso di votare per Pietro Grasso per evitare l’elezione di Renato Schifani.
2. Grillo ha lanciato una sorta di fatwa contro i disobbedienti.
3. Dopo averci ripensato, e a sensi riposati, ha deciso di perdonarli, senza cambiare giudizio nel merito, anzi sostenendo che erano caduti in una trappola, commettendo un errore di ingenuità. Onesti, insomma, ma ingenui.
Cosa significa, dal punto di vista di una moderna democrazia, un comportamento di questo tipo? Cosa allude? Cosa lascia intravedere? Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare però alcune considerazioni. Sono persuaso che M5S rappresenti un elemento di notevole novità nel panorama politico attuale; affonda le radici in strati profondi della società e della storia italiana; in esso convergono autentiche istanze di rinnovamento e di riforma della società italiana; è il luogo nel quale sono entrati in contatto con la politica uomini e donne di varie generazioni, anche di «sinistra», che non avrebbero mai trovato alcuno spazio nei partiti tradizionali, chiusi in logiche corporative, e di ceto, impermeabili a forze «esterne», nonostante l’enfasi sulla funzione e il valore delle primarie. Non vedere questo sarebbe da ciechi, e partiti come il Pd stanno cominciando a imparare la lezione. Senza la pressione, oggettiva, del M5S né Boldrini né Grasso sarebbero stati eletti, qualunque sia il giudizio sulla qualità delle loro persone. Prima che un giudizio di valore, questo è un giudizio di fatto. Il sistema politico funziona come un insieme.
Sarebbe però altrettanto miope addossare agli attuali dirigenti del Pd più responsabilità di quelle che certo hanno. Quella che negli ultimi decenni è entrata in crisi è la politicizzazione di massa tipica del Novecento, con la trama di istituzioni politiche e parlamentari che a essa faceva capo. Siamo davvero in campo aperto, né è facile individuare una nuova rotta, sia a destra che a sinistra. Se non si situa M5S in questa lunga crisi non se ne capiscono le origini effettive, le ragioni del successo, la possibilità che esso ha di contribuire, nel bene e nel male, a una soluzione della lunga crisi italiana. Il fatto poi che a capo di questo movimento ci sia un leader che, in una diversa fase della sua vita, ha fatto il comico non vuol dire niente. Come ci spiegano i classici, e ci mostra la storia, talvolta «piccoli» personaggi e «piccoli» fatti danno vita a importanti rivolgimenti, come può accadere ora in Italia. Non credo sia nemmeno il caso di impressionarsi per il lessico osceno che Grillo usa: è una forma di propaganda, utilizzata per segnare una drastica differenza rispetto agli altri partiti e motivare i propri seguaci. Non siamo mammolette. Conviene invece cercare di capire cosa avviene nel movimento, cercando di mettersi da una diversa distanza.
La domanda principale da porre ora è questa: quale può essere oggi la funzione storico-politica di M5S, cosa può fare se può fare qualcosa dal punto di vista dello sviluppo della democrazia italiana, dopo la fine della politicizzazione di massa? Senza alcun dubbio, qualcosa ha già fatto, portando nel circuito della politica, e della democrazia, milioni di persone che si erano chiuse in una condizione di isolamento e di separazione, indebolendo le basi della Repubblica. Su questo non c’è dubbio. Il problema più grave riguarda però il modo in cui questo è avvenuto, e avviene; riguarda, in modo specifico, la forma e il carattere assunto dalla leadership del Movimento, ben visibile anche nella vicenda della elezione del nuovo presidente del Senato problema tanto più grave se si tiene presente la funzione, come dire, «identitaria» svolta da Grillo.
Sommariamente, esso si può esprimere in questi termini: riconosciuta la crisi e la tendenziale dissoluzione dei tradizionali partiti di massa, l’unica alternativa che si apre alla democrazia italiana è quella di una sua configurazione di carattere autoritario, paternalistico, anzi dispotico? E se così fosse, che fine farebbero le istanze di rinnovamento e di riforma che, certo, si esprimono nel Movimento? Credo sia sbagliato, e troppo semplice, contrapporre base e vertice; ma nella elezione del presidente del Senato si è cominciato a esprimere proprio lo scontro tra due istanze presenti nel Movimento: una richiesta di forte rinnovamento e una pulsione di carattere dispotico, ritenuta l’unica in grado, in questo momento, di fronteggiare e governare i processi in atto. Come direbbe il presidente Mao c’è molta confusione sotto il cielo, come si vede proprio dagli eventi di questi giorni. Grillo si è schierato contro la libertà di mandato e il voto segreto, e sostiene ora, con durezza, la necessità di un principio di rigida disciplina tipico dei partiti tradizionali. Ma, pur riconoscendo i motivi di queste sue scelte e la positività di una trasformazione del Movimento in partito, è questa la sola strada che si può percorrere?
In altri termini, per quanto dobbiamo continuare a rimanere nei recinti della democrazia dispotica o, se si preferisce, del dispotismo illuminato? Qui davvero M5S è di fronte a un bivio, a una scelta che può decidere del suo futuro. Grillo ha fatto alcune cose significative, contribuendo a ristabilire canali di comunicazione tra politica e società civile, e ha svolto questa funzione mantenendosi in un orizzonte parlamentare, evitando derive di carattere extraparlamentare. Sono suoi meriti indubitabili. Ma, nella crisi italiana, ci sono nodi durissimi difficili da sciogliere, alla cui soluzione M5S potrebbe dare un contributo importante. In Italia occorre ricostituire le basi del vivere civile e bisogna riformare in modo radicale il nostro sistema politico, assumendo la fine delle politiche di massa e dei partiti tradizionali. È un lavoro immenso da svolgere, in vari campi e con tutte le forze disponibili. Questa è la questione sul tappeto, ed è cruciale, e coinvolge tutte le forze in campo, anche il Movimento 5 Stelle. Riguarda la nostra comune identità, il nostro comune futuro.
E quando dico questo non intendo entrare nel terreno della ordinaria dialettica politica e tra partiti, né auspicare l’appoggio a un governo. Anzi, non mi nascondo nemmeno che nella storia italiana la «centralità» del Parlamento si è risolta, da Depretis in poi, in trasformismo; oppure, come è accaduto con la Prima Repubblica, nell’andreottismo: due esiti da cui bisogna tenersi lontanissimi, se si vuole uscire da questa palude. So bene tutto questo. Oggi bisogna però individuare forme, e sedi, per avviare un confronto e un colloquio sul destino della nostra nazione. E certo, anche il Parlamento può essere uno dei luoghi in cui lavorare per individuare valori condivisi, da cui far nascere una nuova Italia. Come diceva un filosofo, bisogna buttarsi in acqua per imparare a nuotare.

La Stampa 20.3.13
Messora: “Potremmo votare un esterno”
Il portavoce del M5S esclude il “sì” a Bersani premier. Ma apre una porta al centrosinistra
Vietate le domande alla conferenza stampa La Lombardi annuncia «Ci spettano incarichi»
di Andrea Malaguti


Come si prepara il destino dell’Uomo Nuovo? Come si arriva alla Gaia società immaginata dal santone a Cinque Stelle Roberto Casaleggio? Apparentemente seguendo due strade parallele, che si sfiorano e si attraggono senza toccarsi mai. Conta di più il cervello (milano-genovese) o il cuore (popolare) di questa strano mostro a due teste che sembra essere diventato il MoVimento? Mentre a Montecitorio e a Palazzo Madama gli spersonalizzati cittadini-parlamentari si affannano in riunioni senza fine per discutere di qualunque singolo respiro dei senatori traditori, ingenui o infiltrati? - e degli incarichi per le Camere, i nuovi sacerdoti del pensiero, Claudio Messora e Daniele Martinelli, declinano la linea di un gruppo con cui devono ancora prendere contatto. Scelti da meno di 24 ore come responsabili della comunicazione, e apparentemente destinati a un ruolo di cuscinetto tra il papa ligure e i suoi fedeli, si comportano come se fossero titolari di una bolla pontificia che li autorizza a scavalcare il confronto orizzontale. Con la rete e con gli eletti.
Non solo discutono apertamente di scelte politiche, ma lo fanno nelle arene classiche dell’informazioni. Intervenendo a «La Zanzara», su Radio24, Claudio Messora - un uomo il cui battito cardiaco sembra sincronizzato con quello di Casaleggio - dichiara che i Cinque Stelle non daranno mai la fiducia a Pier Luigi Bersani. «Nemmeno se cammina sui ceci. Ma su un esecutivo con persone esterne ragioneremo». Indica la strada. E per giunta la spiega. «Una volta che dai la fiducia è un casino. Perché poi toglierla è complicato». Questo diranno Grillo e i capogruppo Crimi e Lombardi al Presidente Napolitano domani alle 9.30. «Con loro potrebbe esserci anche Casaleggio», dichiara a sorpresa Crimi. Sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica che due extraparlamentari partecipano alle consultazioni.
Parla a ruota libera, Messora, senza sapere che alla Camera i cittadini-parlamentari sono ancora assorti in un delizioso dibattito che lo riguarda: è un estroverso ma equilibrato visionario o un nevrotico solitario? Lui li interpreta a loro insaputa. Loro lo studiano e vanno avanti con i lavori. In una conferenza stampa che non prevede domande - e dunque è solo un comunicato bulgaro - la capogruppo Roberta Lombardi annuncia che il MoVimento ha indicato alla Camera Luigi Di Majo per il ruolo di vicepresidente, Laura Castelli per quello di questore e Riccardo Fraccaro per quello di segretario. Spiega che il 25% ottenuto dagli elettori non solo giustifica la richiesta, ma la legittima. Si appella alla mediazione della presidente Laura Boldrini che, uscendo da Montecitorio, dice: «L’M5S non chieda niente di strano». È il suo via libera. Che sarà replicato da Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato. Esistono ancora piccoli spazi di comprensione reciproca, anche se salta il faccia a faccia previsto per oggi. Colpa della diretta streaming, che i democratici non vogliono.
In questo incrocio di mondi paralleli Daniele Martinelli si concede a SkyTg24 per sostenere che: «l’euro è stata una mossa massonica di un gruppo di banchieri che ha deciso tutto per tutti. Grillo e il MoVimento si propongono di promuovere un referendum per consultare gli italiani». Affermazione non secondaria. Massoni e referendum. Tutto assume un tono altamente drammatico. È un po’ il registro della testa del MoVimento. Il corpo, ancora una volta, si muove in un modo diverso. A Montecitorio, davanti all’aula della Regina, l’infermiere in aspettativa Andrea Cecconi, un’anima lunga di assoluto buonsenso, racconta che con gli esponenti del Pd sarà giusto e utile avere un confronto prima o poi. «Non gli daremo mai la fiducia. Ma parlare è necessario. Il modo di esprimersi di Grillo? È il suo». È anche il tuo? Allarga le braccia. «Diciamo che lo capisco». Ma in realtà intende dire: beh, lasciamo perdere.

Repubblica 20.3.13
“Con un governo fuori dal sistema potremmo anche non votare contro”
Il deputato Cecconi: prima o poi dovremo parlare con i partiti
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — «Bisognerà sedersi a un tavolo, prima o poi. Bisognerà decidersi a parlare con le altre forze politiche». Andrea Cecconi ha 28 anni ed è un deputato del Movimento 5 Stelle. Arriva da Pesaro, dove fa l’infermiere. Ha una moglie e un bimbo di tre mesi: «È troppo piccolo per portarlo a Roma, è troppo difficile trasferirci tutti qui». E non crede ai muri nei confronti della stampa: «Io sto attento a quello che dico, e controllo quel che viene fuori. Se stravolgete il mio pensiero, posso sempre non parlarvi più. Ma non rispondere a nessuno, lo trovo senza senso».
Quindi, bisogna sedersi a un tavolo con il Pd?
«Io dico che bisogna parlare con tutti. Il che non vuol dire fare scambi, non è questo il punto. Ma il dialogo non è mai stato vietato, neanche da Grillo sul blog. Non è scritto da nessuna parte che non possiamo parlare e scambiarci opinioni con gli esponenti degli altri partiti. Ed è quel che andrà fatto, prima o poi: mettersi l’uno davanti all’altro, in modo che si veda cosa vogliamo offrire noi, e cosa offrono loro».
Gli otto punti di Bersani sono già sul tavolo.
«Li trovo risibili, davvero poca cosa. Per questo serve mettersi a un tavolo e tirar fuori le cose che si possono fare sul serio. Ma non possiamo neanche dare fiducia a un governo del Pd. Sarebbe troppo difficile toglierla».
In realtà basta una mozione. Anche se contribuiste a farlo partire, in qualunque momento potreste far cadere il governo.
«E no, perché se ti metti d’accordo su un obiettivo, come ad esempio il dimezzamento dei parlamentari, poi devi fare una riforma costituzionale, deve passare due volte da Camera e Senato, e ci vuole un anno. E in quell’anno nel frattempo il governo può fare di tutto, e tu sei spinto a tener duro per portare a casa quello che hai promesso. Loro sono furbissimi. Non possiamo fidarci».
E quindi cos’è che si può fare?
«Vediamo cosa ci propone Napolitano. Servirebbe un governo con delle persone scelte con lo stesso criterio con cui si è arrivati a Laura Boldrini e Piero Grasso come presidenti delle Camere. Persone fuori dal sistema, lontane dai partiti».
Sareste pronti a votare una sorta di governo della “società civile”?
«Votarlo magari no, ma ci sono tanti modi. Si può uscire dall’aula, abbassare il numero legale. Non c’è bisogno di dare per forza la fiducia, quella è una cosa che vedo davvero difficile».
Perché non vi fidate del Pd? In che senso dice che sono furbi?
«Ci sono cresciuto in mezzo. I miei genitori sono di sinistra, ho frequentato i circoli Arci, vivo in una città che è amministrata dalla sinistra da sempre. Non mi piacciono i loro modi, la logica spartitoria con cui gestiscono il potere».
Li ha mai votati?
«No. Alle comunali ho dato il voto a una lista civica che era legata a Grillo, alle politiche finora non avevo mai votato. Non li sopporto».
Voi siete qui a lavorare da più di una settimana, ma ogni giorno arriva un tweet o un post di Grillo a dettare la linea. I capi della comunicazione appena nominati sono blogger esterni. Non lo trova frustrante?
«Grillo ha un suo ruolo e un suo stile, ma non è lui che detta la linea. Io il blog in questi giorni neanche lo guardo, non ne abbiamo il tempo. Le decisioni politiche vengono fuori dal confronto tra di noi, e sarà così anche quando ci saranno i nuovi uffici di comunicazione. Siamo noi a decidere».

il Fatto 20.3.13
Stretta di mano e silenzio tra Francesco e il dittatore
Da Biden al discusso Mugabe, la fatica di un rito: il pontefice che si presenta ai potenti del mondo
di Carlo Tecce


Città del Vaticano Un’ora e mezza in piedi, a sorridere, a ringraziare, a impacchettare la miglior diplomazia, e poi Francesco s'asciuga simbolicamente il sudore facendo scorrere il dito sulla fronte: finalmente, un non detto inequivocabile. Basilica di San Pietro, l'incoronazione pubblica è finita con un messaggio per i Grandi: “Cura per l’ambiente. Il vero potere è il servizio”. La passerella di 130 delegazioni straniere, tra 33 capi di Stato, 11 di governo, 6 sovrani regnanti e 3 principi ereditari, si consuma attraverso un protocollo rigido e quasi 40 secondi di imbarazzo. Quando tocca a Robert Mugabe e sua moglie, che indossa un vistoso turbante turchese. Il dittatore zimbabwese, che non può oltrepassare i confini europei se non per le funzioni religiose, stringe la mano al pontefice argentino, che si piega leggermente in avanti e poi, assunta una posizione rigida, non risponde al monologo del presidente. MUGABE vuole sfruttare la vetrina internazionale, dentro le mura leonine, e cerca di avviare un dialogo con Francesco, ma il cerimoniale – bruciato il tempo a disposizione – lo invita a lasciare il posto per non intasare il traffico. Un pezzo di pianeta va a conoscere il papa, il gesuita venuto da lontano (a sorpresa), e si ritrova Tarcisio Bertone, il segretario di Stato, ornato con uno sguardo incantato e ammiccante: il primo ministro, che con Benedetto XVI faceva il vice-vicario di Cristo, sfodera le ultime strategie per non perdere il comando. La squadra argentina è la più numerosa e compatta, siede fieramente davanti al mondo. La presidentessa Cristina Kirchner sfoggia un cappello scuro appuntato di lato e, nonostante i rapporti in patria non fossero idilliaci, in lacrime saluta il connazionale. “L’America Latina non rinuncia a un'occasione irripetibile: mostrarsi insieme per rendere omaggio al pontefice che parla con l'accento spagnolo e fu ispirato in conclave da un cardinale brasiliano, l'ex arcivescovo di San Paolo, Claudio Hummes. Il Sud riempie l'elenco più lungo: ci sono il messicano Enrique Peña Nieto (la moglie, ex attrice di telenovela, regala una papalina a Bergoglio) ; il cileno Sebastián Piñera, che invita il pontefice nel suo paese e viene accontentato subito; l'ecuadoregno Rafael Correa, in camicia indiana; il venezuelano Diosdado Cabello.
GLI STATI UNITI hanno spedito il vicepresidente Joe Biden, che non fa mancare polemiche per aver rappresentato la Casa Bianca. La cancelliera Angela Merkel, otto anni fa, non era in carica, e dunque non venne a Roma per celebrare Joseph Ratzinger, tedesco di Baviera. Però, si emoziona lo stesso: “Essere qui oggi e partecipare come cancelliera all’insediamento del Papa è stata per me una grande gioia. Anche oggi l’omelia è stata molto diretta e indirizzata alla gente in una lingua semplice e comprensibile. Spero che questo possa avere effetti non solo sui cristiani cattolici, ma anche per il cristianesimo nel mondo, e per il ruolo delle religioni”. Le istituzioni europee sono complete: José Manuel Barroso (presidente Commissione), Herman van Rompuy (Consiglio d'Europa) e Martin Schulz (Parlamento). Le bandierine che si contano si spalmano sul mappamondo, ma come spesso accade in questi eventi, si fanno notare gli assenti: la Repubblica popolare cinese non ha inviato nessuno, c'è persino il ministro degli Esteri iraniano, e nemmeno l'Arabia Saudita s’è inserita nella lista degli ospiti annunciata dal portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. I fotografi tengono d'occhio le consorti dei governanti e le donne di governo: la Merkel è in pantaloni neri, identico colore scelto dalle mogli di Giorgio Napolitano e Mario Monti e anche da Laura Boldrini, presidente di Montecitorio, che spesso parla con il collega del Senato, Pietro Grasso. Le principesse Charlene Wittstock (Monaco) e Letizia di Spagna si fanno immortalare con sofisticati veli di pizzo nero. Vestono di bianco Paola di Liegi e Maria Teresa di Lussemburgo. Segnale che sono cattoliche di paesi cattolici nel tempio del cattolicesimo.

Repubblica 20.3.13
Massimo Cacciari, filosofo
“È un pontefice pronto a stupire ma nel campo dei temi etici non farà strappi alla dottrina”
intervista di Paolo Rodari


ROMA — «Francesco mi ricorda Carlo Maria Martini. Come l’ex arcivescovo di Milano, egli ha capito che la Chiesa prima di giudicare deve perdonare. Prima viene la misericordia, poi il giudizio».
Massimo Cacciari, filosofo, si aspettava un Papa di nome Francesco?
«Me lo auguravo. Ritenevo che la Chiesa ne avesse estremo bisogno. Perché il nome Francesco evoca, naturalmente, la possibilità che si apra una riforma interna della Chiesa e, insieme, un nuovo dialogo con i non credenti, due missioni oggi ineludibili. San Francesco d’Assisi uscì dal recinto della Chiesa e andò incontro al mondo. Sapeva bene cosa era il mondo, quali le sue pratiche, ma prima di puntare il dito perdonava. Sapeva che Dio è amore e che l’amore deve venire prima del giudizio. Certo, non tradiva la Chiesa, non tradiva ciò in cui credeva, conosceva bene chi era il nemico della Chiesa, ma cercava l’abbraccio prima di altro».
Papa Francesco farà allo stesso modo?
«Le premesse sembrano dire di sì. Sbaglia però chi pensa che andrà oltre il consentito, oltre la dottrina per intenderci. Non dimentichiamo che San Francesco, seppure potesse essere scambiato per un cataro per la sua povertà e la predicazione ai ceti subalterni, non abbracciò mai quella eresia. Così Bergoglio, come molti suoi confratelli vescovi latino americani, non farà tradimenti dottrinali. Le aperture della
teologia della liberazione, insomma, non gli appartengono. Eppure nella forma credo che tutto sarà diverso».
Quale gesto del Papa l’ha colpito di più in questa prima settimana di pontificato?
«Senza dubbio il fatto che continuamente dice di essere il “vescovo” di Roma e mai il “Papa”, il “Pontefice”. È un cambio sostanziale. Significa che egli si concepisce “primus inter pares”, una visione di sé che può avere ripercussioni enormi su tutta la cristianità».
Ieri, nella messa d’inizio pontificato, ha definito il potere come un servizio. Inizia un’epoca diversa anche nei rapporti fra Chiesa e politica?
«Sono convinto che nei confronti delle vicende politiche, specie italiane, egli manterrà una sovrana indifferenza».
Sul piatto del pontificato ci sono i non semplici rapporti fra Chiesa e contemporaneità. Sfide delicate, che spesso portano allo scontro. Come agirà Francesco?
«L’auspicio è che imiti Martini. Aveva capito che certe sfide che toccano nel profondo la vita di credenti e non credenti, pensiamo anche soltanto al tema della sessualità, non vanno affrontate una a una, di trincea in trincea. Se la Chiesa agisce così viene fatta a pezzi. Piuttosto dovrà cercare di aggirare gli ostacoli annunciando anzitutto Cristo. Nel Vangelo non ci sono massime precise di comportamento, il messaggio insomma non viene mai ridotto a misura etica».
Ratzinger, nelle meditazioni alla via crucis del 2005, parlò della «sporcizia» presente nella Chiesa. Per molti il nome Francesco evoca anzitutto la volontà di riformare la Chiesa dal carrierismo e dalle sporcizie interno. Condivide questa prospettiva?
«San Francesco non uscì mai dalla Chiesa eppure la ribaltò. Lo fece nella consapevolezza che la Chiesa tende a essere città di Dio senza riuscire a esserlo compiutamente in questo mondo. Nella Chiesa esiste il peccato e San Francesco lo sapeva bene. Così il nuovo Papa senz’altro cercherà di sradicare il male interno, ma lo farà anche qui con misericordia, consapevole che la Chiesa è santa e insieme peccatrice».

l’Unità 20.3.13
L’ira di Sonia Gandhi: «L’Italia ci ha tradito»
La leader indiana durissima sul caso marò: «Faremo di tutto perché rispettino gli impegni»
La Ue: inaccettabili le misure contro l’ambasciatore
di Umberto De Giovannangeli


L’affondo di Sonia contro il «tradimento di Roma». Sul caso marò irrompe Sonia Gandhi, l’«italiana» vedova dell’ex premier, Rajiv, diventata l’esponente politico più potente dell’India che finora aveva evitato uscite in pubblico. La presidente del Partito del Congresso, attualmente al governo, ha avvertito che «nessun Paese può prendersi la libertà di sottovalutare l’India in questo modo». «La sfida del governo italiano sulla vicenda dei due marò e il suo tradimento degli impegni presi davanti alla nostra Corte suprema sono totalmente inaccettabili», ha detto la presidente italo-indiana del partito di governo. «A nessun Paese può essere concesso, dovrebbe essere o sarà permesso di sottovalutare l’India», ha insistito o nel suo discorso, di cui la France presse ha avuto una copia. «Bisogna adottare tutte le misure per fare in modo che l’impegno assunto dal governo indiano davanti alla Corte suprema venga rispettato», ha continuato la leader del Partito del Congresso.
L’Italia ha accusato l’India di aver violato le leggi in materia di immunità diplomatica, impedendo all’ambasciatore Mancini di lasciare il Paese; ma la Gandhi, la più potente esponente politica del sub-continente indiano, che ha preso la cittadinanza indiana nel 1983, ha risposto che deve essere fatto ogni passo per garantire il rientro in India di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. «Devono essere utilizzati tutti i mezzi per assicurare che l’impegno assunto dal governo italiano di fronte alla Corte Suprema sia rispettato», ha insistito Gandhi.
Le sue parole sono significative perché il Partito del Congresso è da tempo nel mirino dell’opposizione, che lo accusa di un comportamento ambiguo proprio in virtù delle origini italiane della vedova Gandhi. La scorsa settimana un leader locale del principale partito di opposizione, il partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party, aveva accusato la Gandhi di aver manovrato per aiutare i due militari italiani, mentre un deputato comunista in Kerala aveva ipotizzato che, in loro favore, lavorassero «mani segrete dell’Italia».
DIFFICOLTÀ INTERNE
La presa di posizione di Sonia Gandhi, per quanto obbligata dagli attacchi personali dell’opposizione, indebolisce ulteriormente la possibilità di una ricomposizione della crisi diplomatica tra New Delhi e Roma.
L’Italia cerca alleati soprattutto in Europa. Le dichiarazioni pilatesche dei giorni scorsi arrivate da Bruxelles non sono piaciute alla Farnesina. Da qui l’insistenza per una presa di posizione «più netta». Che è arrivata ieri. «Le limitazioni della libertà di movimento per l’ambasciatore italiano in India vanno contro gli obblighi internazionali stabiliti dalla convenzione di Vienna», ha affermato il portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera Catherine Ashton. In un comunicato pubblicato ieri a Bruxelles, si ricorda «che la Convenzione di Vienna 1961 sulle relazioni diplomatiche, pietra angolare dell’ordine giuridico internazionale deve essere rispettata in ogni circostanza». «Qualunque limitazione della libertà di movimento dell’ambasciatore d’Italia afferma ancora la nota sarebbe contraria agli obblighi internazionali stabiliti dalla Convenzione».
Un tasto su cui l’Italia batte con insistenza e crescente inquietudine. «La decisione della Corte Suprema di precludere al nostro ambasciatore di lasciare il Paese senza il permesso della stessa Corte costituisce una evidente violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche», ha denunciato il governo italiano subito dopo decisione della Corte suprema indiana di impedire all’ambasciatore Daniele Mancini, di lasciare il Paese dopo il mancato rientro nel Paese dei due fucilieri della Marina italiana accusati di aver ucciso due pescatori.
Nella nota, il governo italiano ha spiegato che «il rientro in India dei fucilieri sarebbe stato in contrasto con le nostre norme costituzionali», ricordando l’impegno profuso nei mesi scorsi per arrivare a «una soluzione amichevole della questione, nella quale tuttora crediamo». Ma le parole di Sonia Gandhi di «amichevole» non hanno propria nulla.

l’Unità 20.3.13
Obama-Netanyahu: nemici d’istinto, amici per forza
Oggi la prima visita nello Stato ebraico da presidente Usa
Con «Bibi» il nodo degli insediamenti
di U.D.G.


Tra «Bibi» e Barack non è stato un amore (politico) a prima vista. Né alla seconda o alla terza... Tra i due, al massimo, è un matrimonio d’interessi. Lo storico viaggio di Barack Obama in Terrasanta il primo da Presidente è anche l’occasione per mettere a fuoco il rapporto personale con il neocofermato primo ministro d’Israele: Benjamin «Bibi» Netanyahu. «Ho incontrato Bibi più di qualsiasi altro leader. Abbiamo una formidabile relazione professionale: lui è molto diretto con me con le sue opinioni e io sono molto diretto con lui con le mie. Ma riusciamo a fare cose... Ci sono stati momenti in cui abbiamo avuto divergenze ma la relazione tra i due Paesi e i due popoli è così forte che le differenze politiche si riescono a superare». Così Obama ha descritto il suo rapporto con Netanyahu durante un’intervista alla tv israeliana Arutz 2 («Canale 2»).
Il New York Times ha ricordato alcuni episodi che danno conto di una «freddezza» personale che a volte è sfociata in malcelata ostilità. A marzo del 2010, Obama ha scelto di restare a casa con la famiglia invece di cenare con Netanyahu dopo che i due hanno avuto una conversazione molto tesa alla Casa Bianca sulla colonizzazione dei territori occupati dai palestinesi, che il premier israeliano si è rifiutato di fermare. A maggio del 2011, nello Studio Ovale, Netanyahu ha rimproverato Obama in pubblico per la proposta di creare uno Stato palestinese con le frontiere della Guerra dei sette giorni del 1967.
Un altro episodio che è rimasto impresso è stato il sostegno di Bibi al candidato repubblicano Mitt Romney. La stampa israeliana si chiede: vorrà Obama vendicarsi? In molti non hanno nemmeno dimenticato le polemiche sugli insediamenti e la velocità con cui è stato abbandonato a se stesso il presidente egiziano Hosni Mubarak, un fedele alleato. Per questo lo scrittore David Grossman ha detto al New York Times che gli israeliani sono «terrorizzati» e «sospettosi» e che hanno bisogno che Obama «sia un vero amico di Israele». «Ma un amico ha aggiunto è quello che ti dice la verità, non quello che vuoi sentire». Di certo, al momento, solo un israeliano su dieci secondo il quotidiano Maariv ha un atteggiamento «favorevole» nei confronti del presidente statunitense. In molti, ancora non hanno dimenticato lo «sgarbo» del 2009, quando il presidente statunitense preferì non visitare lo Stato ebraico durante il suo viaggio in Medio Oriente; difficile, poi, che abbiano dimenticato il discorso tenuto al Cairo, in Egitto, quando parlò di Palestina in termini presenti, e non futuri, chiese «un nuovo inizio con il mondo islamico» e fece intendere, come ricorda il New York Times, che Israele fonda le sue radici nel senso di colpa europeo per l’Olocausto come sostenuto dagli arabi e non nell'antichità. Obama renderà omaggio alla tomba di Theodor Herzl, il padre del sionismo, vissuto nella seconda metà dell'Ottocento; visiterà il Santuario del Libro, una sala del museo nazionale di Israele, a Gerusalemme, in cui sono esposti i Rotoli del Mar Morto, manoscritti di grande significato storico e religioso. E parlerà agli studenti israeliani, domani, riuniti al Jerusalem International Convention Center, che è stato preferito alla Knesset, il Parlamento israeliano, per il suo discorso principale. Nei tre giorni mediorientali, Obama affronterà tutti i dossier più caldi: dalla crisi siriana al nucleare iraniano, passando per la transizione egiziana, la lotta al terrorismo internazionale ed, infine, il rilancio della questione israelo-palestinese. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, le posizioni ostili, sia in campo palestinese che israeliano (i coloni oltranzisti) , sono cresciute di numero negli ultimi giorni. Alcuni video postati su Youtube ricordano polemicamente il voto contrario degli Stati Uniti alla richiesta di riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite, mentre a Betlemme, dove Obama visiterà la Chiesa della Natività, diverse persone hanno lanciato le proprie scarpe in segno di dissenso contro un gigantesco poster del presidente e hanno dato fuoco ad alcune sue foto. Gli attivisti palestinesi hanno organizzato una manifestazione di protesta, che si terrà nel corso dell’incontro con il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen).

Repubblica 20.3.13
Cina
I cacciatori d’amore per i nuovi milionari
Impegnati a far carriera come sono, i ricchi imprenditori si vedono costretti a “esternalizzare” anche i sentimenti
Nasce così una professione inedita: trovare il partner ideale ai più facoltosi. In palio cifre astronomiche


PECHINO I cinesi scoprono che per diventare ricchi rimangono soli. Nasce così una nuova e ambita professione: il cacciatore di amore. Il compito è delicato: trovare un partner ai nuovi milionari, figli unici costretti ad esternalizzare anche i sentimenti. Non è facile. I “piccoli imperatori” sono capricciosi e pretendono la perfezione. Non badano a spese: fino a 1,5 milioni di dollari per la moglie, o il marito, ideali. Al cacciatore che riesce a stanare la preda, in un luogo qualsiasi della sconfinata Cina, va un premio che è come lo stipendio di dieci anni. Si capisce che il nuovo mercato sia fiorente, nella nazione seconda solo agli Usa, per miliardari.
La signora Yang è una cacciatrice sulla piazza di Pechino. Batte centri commerciali di
lusso, grandi alberghi, golf club e campus universitari. Si muove con un pugno di aiutanti della “Diamond Love and Marriage”, l’agenzia della nomenclatura. Quando avvista qualcuno di giusto, non perde tempo e chiede con semplicità se sia alla ricerca di un amore. La percentuale di successo è impressionante. Ogni cento passanti, ottanta sono pronti all’incontro della vita con chiunque. Il problema sono i committenti: accettano di scorrere solo profili di soggetti da film. Per le donne è richiesta pelle da porcellana, viso a uovo, gambe da modella, non più di 25 anni e una laurea nel cassetto. Se il ricercato è un marito, basta una presenza digeribile e spesso neppure quella. Occorre però almeno un appartamento, una berlina e uno stipendio da vacanze all’estero.
I cacciatori d’amore cinesi non lavorano solo per milionari che a domicilio si fanno consegnare anche la moglie. La Cina è sconvolta dalla più devastante migrazione interna della storia. Urbanizzazione: mezzo miliardo di individui sono in movimento, lasciano le campagne e si concentrano nelle metropoli. I sociologi danno l’allarme: è una massa sradicata, pronta ad esplodere. Nessuno conosce nessuno. Migliaia di agenzie low-cost offrono così cacciatori d’amore anche chi si accontenta di tipi normali. A Pechino le ricerche si consumano nei parchi, al mercato, o dietro il Tempio del Cielo. Le pretese calano: età, altezza, salute, titolo di studio, segno zodiacale, stipendio. Il prezzo crolla a 3mila dollari e non occorre fotografia.
L’Accademia delle scienze ha rivelato che nelle città l’85% delle persone è uscito con una sola persona: il futuro coniuge. I ricchi esigono star dello spettacolo o campioni dello sport. I poveri perdono i parenti che nei villaggi combinavano gli incontri tra «porte della stessa larghezza». Trovare qualcuno da sposare è diventato il problema
nazionale del Paese più popoloso del pianeta. Le femmine, a 28 anni, sono già “avanzi”. I maschi, “rami secchi”. Sotto i 30 anni, il 78% è costretto in una delle due categorie. Milionari soli o miserabili isolati. I cacciatori d’amore sono dunque costretti a spingersi sempre più lontano, nelle regioni dell’interno, dove un partner assicura la vecchiaia. Qui una Cenerentola da spedire a Shanghai si pesca con poco e i contadini sono quasi tutti in attesa. L’arrivo di un mediatore di cuori è ricordato come il passaggio di una cometa. Per il neo-leader Xi Jinping la Cina deve sognare, ma la tivù di Stato ammette che «i cinesi non si parlano più». La signora Yang, campionessa di caccia per la «seconda generazione di chi ce l’ha fatta», ha 26 anni ed è nubile. «Ma ormai — dice — per me ho perso la speranza».

La Stampa 20.3.13
Se il lettore capisce il testo più dell’autore
Da Kafka a Faulkner, le due forze contrastanti che si compongono nella creazione letteraria
di Abraham Yehoshua


Abraham Yehoshua, 76 anni. Il suo ultimo romanzo si intitola La scena perduta: uscito nel 2011, è tradotto per Einaudi. A lato un’illustrazione per La metamorfosi di Kafka

Ritengo che in ogni opera letteraria, e forse anche in ogni creazione artistica, siano presenti due forze contrastanti che agiscono in direzioni diverse, ma che un loro giusto equilibrio sia ciò che dà a un’opera il suo valore particolare. Da un lato troviamo l’immaginazione sfrenata, la scintilla creativa, la capacità inventiva, le intuizioni e le idee innovative - sia in termini di contenuti sia di forme letterarie, linguistiche o strutturali. Tutti quegli elementi che conferiscono a un’opera la sua originalità, unicità e il diritto di pretendere l’attenzione dei lettori. Dall’altro troviamo una forza costruttiva e organizzativa che impone a un’opera una struttura e un ordine logico, così da creare un senso di credibilità nei lettori e permettere che non solo si stupiscano dei suoi nuovi e fantasiosi contenuti, ma che li assimilino, provando un senso di identificazione.
Per chiarire le mie intenzioni vorrei portare ad esempio il racconto di Franz Kafka La metamorfosi, considerato a tutt’oggi uno dei classici più importanti del XX secolo e al quale sono state date centinaia di interpretazioni. Ecco l’incipit del racconto: «Gregorio Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza e, sollevando un po’ la testa, vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi».
L’idea iniziale, la scintilla creativa di questo racconto, in cui un uomo si sveglia una mattina e scopre di essersi trasformato in un grosso insetto, è audace, folle e ricca di significati (simbolici, sociali e altro ancora). Ma questa idea surreale avrebbe potuto condurre il racconto in tutt’altra direzione, creare situazioni insolite o ogni sorta di trovate strane e divertenti. Non poche opere letterarie e cinematografiche sono infatti andate un po’ troppo oltre sulla spinta di una immaginazione fervida e audace. Ma nella Metamorfosi, come in altri racconti di Kafka, la forza del reale e della razionalità non ha permesso alla fantasia di sbizzarrirsi. Kafka ha costruito in maniera credibile e logica una serie di eventi che si dipanano come conseguenza del bizzarro avvio del racconto (eventi già intuibili nella descrizione dettagliata e fedele dell’aspetto esteriore dell’insetto dopo la prima, sconvolgente, frase).
Proprio a causa della severità della forza costruttiva e organizzativa del racconto, che vuole imporre una struttura logica e garantire un necessario sostegno a un incipit irrazionale, si crea in esso quel giusto equilibrio che lo ha reso un classico della letteratura moderna.
Il tentativo di un’immaginazione fervida e audace di sorprendere il lettore, di sfidarlo, di trascinarlo in situazioni folli, di ricorrere alla casualità come forza trainante della trama, potrebbe infatti riservare brutte sorprese. Il lettore potrebbe divertirsi qua e là ma anche perdere fiducia nelle serietà dell’opera e soprattutto, nella maggior parte dei casi, faticare ad assimilarla e ad accettarla come conviene ai classici. Anche l’idea fantastica e assurda di Faulkner nel racconto Una rosa per Emily, in cui una donna anziana che ha segretamente ucciso il suo amante in un lontano passato e continua per molti anni a giacere accanto al cadavere in decomposizione, non avrebbe potuto avere un effetto tanto efficace sui lettori se la scoperta del cadavere dell’uomo, alla fine del racconto, non fosse stata preceduta da una prosa limpida, logica, descrittiva e psicologicamente credibile.
Nel mio ultimo romanzo La scena perduta ho cercato di affrontare e di dare espressione alle due forze presenti in un’opera letteraria mediante due diversi personaggi. Per raggiungere questo scopo sono ricorso all’arte cinematografica in quanto spesso è nella dinamica di un rapporto tra uno sceneggiatore e un regista che si riscontra un dialogo tra queste due forze. Nel mio romanzo la tensione tra i due protagonisti sfocia in un vero e proprio scontro che porta a una rottura e genera risentimento. Lo sceneggiatore è un giovane sefardita di bassa estrazione sociale, dotato di grande talento creativo e con idee coraggiose, sia a livello psicologico sia sociale. Per realizzarle, però, ha bisogno di un regista, di un uomo maturo con un solido background, capace di costruire e strutturare un’opera cinematografica così da garantirle credibilità, requisito che nei film è spesso molto più importante che in letteratura. Il rapporto tra questi due personaggi è al centro del romanzo, il quale descrive il processo di realizzazione di alcuni dei loro film.
Oltre al complesso rapporto tra queste due forze creative, il romanzo tratta di un altro importante argomento inerente alla comprensione di un’opera letteraria e artistica: i due artisti, lo sceneggiatore e il regista, si rendono conto di non poter essere gli esegeti delle proprie opere. In questo mio romanzo ho dunque rinsaldato la mia convinzione (sviluppatasi nel corso di lunghi anni) che un autore non è che uno degli esegeti del proprio lavoro e spesso nemmeno il più autorevole e profondo. Proprio perché un’opera racchiude una sostanziale duplicità (l’idea che l’ha generata e l’elaborazione di tale idea) talvolta il suo significato sfugge alla coscienza dell’autore, mentre un lettore attento, estraneo a essa, può forse comprenderne meglio le sfumature.

Repubblica 20.3.13
La scomparsa di Edipo
Se negli anni della crisi i figli smettono di combattere il padre
Con “Il complesso di Telemaco” Massimo Recalcati ribalta il paradigma di Freud
di Luciana Sica


Si sente solo, è smarrito, eppure Telemaco non è travolto dalla sfiducia. Non ha mai conosciuto suo padre, ma forse un giorno potrà riconoscerlo. In una condizione malinconica, con lo sguardo rivolto sul mare aspetta che da quell’immenso orizzonte di acqua e di cielo, torni “qualcosa”. Non un fulgido eroe senza zone d’ombra, ma un padre che sa indignarsi per le dissolutezze dei Proci e difendere i suoi affetti, un uomo anche imperfetto che però non ignora come la possibilità dell’amore sia data solo in presenza del rispetto, dell’impegno, del senso di responsabilità.
Telemaco è il nuovo figlio che si affaccia sulla scena culturale grazie a Massimo Recalcati, un analista tutt’altro che estraneo alla dimensione politica, capace di riflettere sui movimenti inconsci dell’esperienza umana ma anche di uscire dai recinti del suo sapere lacaniano, efficacemente utilizzato anche come una teoria critica della società. Con Il complesso di Telemaco( sottotitolo: “Genitori e figli dopo il tramonto del padre”, Feltrinelli, in libreria da oggi), Recalcati aggiunge un brillante tassello alla riflessione sul tema centrale della paternità, sulla sua “evaporazione”, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta.
È un libro strettamente legato a Cosa resta del padre? — titolo di gran successo ristampato più volte da Cortina. Telemaco è infatti il “giusto erede” di un genitore vulnerabile che non si propone come un modello esemplare o universale, ma può rappresentare «una testimonianza etica, singolare, irripetibile» sulla possibilità di stare al mondo con qualche passione, sulla capacità di restituire fiducia nell’avvenire. E seppure la verità che trasmette si sia indebolita, non c’è nessuna nostalgia per il pater familias, il tiranno che una volta assicurava l’ordine più repressivo, «incarnazione normativa della potenza trascendente di Dio».
L’icona un po’ struggente di Telemaco, che non trasgredisce la Legge ma anzi la invoca, che non si crogiola nel nichilismo ma chiede al mondo adulto la restituzione di un senso alla vita, allontana dall’immaginario la figura di Edipo, del figlio inconsapevole e colpevole. Su quel mito sofocleo, Freud ha costruito l’impianto della psicoanalisi — per dire l’interdizione paterna al desiderio della “Cosa” materna. Ma se i padri non proibiscono l’incesto e anzi lo promuovono, annullando la differenza tra le generazioni, anche Edipo “evapora”, diventa una figura incapace di descrivere l’impoverimento dei legami familiari e sociali. Non basta più la sua colpa cieca per decifrare l’enigma delle identità giovanili, tanto meno l’egocentrismo di Narciso, con quel suo specchio che si rivela suicidario. Serve uno sguardo diverso sulla crisi profonda che attraversa l’Occidente e il rapporto tra le generazioni. Ci vogliono occhi ben aperti, come quelli di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, di un uomo capace di coltivare una dimensione etica della vita e di una donna che — a dispetto del corpo intaccato dagli anni — può contare su una figura maschile non titanica, ma profondamente umanizzata.
«Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra», così scriveva Recalcati in un articolo di un paio di anni fa, uscito su queste pagine con il titolo In nome del figlio. Il libro riprende e allarga quella riflessione senza eccedere in tecnicismi scolastici, senza collezionare citazioni roboanti, ma ricorrendo anche alle suggestioni del cinema: Habemus Papam e Palombella rossa di Nanni Moretti, per dire la difficoltà di sostenere il peso simbolico della funzione pubblica, l’afasia e la dimenticanza degli Ideali; l’inferno del Salò di Pasolini per alludere all’orrore distruttivo del godimento privo di desiderio, al degrado del corpo senza Eros. Nel capitolo più originale, ecco i quattro grandi interpreti del disagio giovanile. Il protagonista del teatro freudiano, paradigma dello scontro tra il vecchio e il nuovo, fa da inevitabile punto di partenza: «Il figlio Edipo sperimenta il padre come ostacolo alla realizzazione del suo soddisfacimento. In questo senso la sua figura ha ispirato le grandi contestazioni del 1968 e del 1977». Il figlio-Anti-Edipo (Deleuze e Guattari), “sottofigura del primo”, ha tenuto banco negli anni Settanta con la vocazione dell’orfano, deciso a liberarsi del padre piuttosto che a combatterlo. Ma nel tempo successivo del riflusso, quando trionfa «una falsa orizzontalità », il figlio-Narciso piega l’ordine familiare alla legge arbitraria dei suoi capricci, si specchia negli oggetti che consuma, con il penoso risultato di svuotarsi di ogni slancio vitale. È in questi anni, con la grande crisi non solo economica del mondo occidentale, che entra sulla scena Telemaco: è lui — un personaggio dell’Odissea — che «ci mostra come si può essere figli senza rinunciare al proprio desiderio».
«Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero»: Recalcati evoca il celebre detto di Goethe (citato da Freud) per affermare quanto sia cruciale «il movimento di ripresa del passato», il confronto con le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino. Ma alla fine di un libro così pieno di pathos, nell’epilogo l’autore fa un passo ulteriore, si mette in gioco, racconta di sé, delle intemperanze adolescenziali e dei suoi genitori: di un padre dall’italiano incerto chino nella cura delle sue piante malate, di una madre che non è andata a scuola e lo incoraggia a studiare. «Da bambino avevo due eroi: Gesù e Telemaco. Era il mio modo di meditare sul legame con mio padre e sulla sua assenza... »: poco più di quattro pagine che emozionano, lasciano un senso di stupore. E restituiscono in pieno quel fondamento cristiano di Massimo Recalcati.

Repubblica 20.3.13
L’1% di uguali più uguali degli altri
Le conseguenze sociali ed economiche dell’iniquità
di Joseph E. Stiglitz


I mercati, anche quando sono stabili, producono spesso forti disuguaglianze, percepite come inique. La crisi finanziaria ha scatenato una nuova percezione: il sistema economico è non solo inefficiente e instabile, ma anche profondamente iniquo. È stato giustamente percepito come gravemente “ingiusto” il fatto che molti operatori del settore finanziario (“i banchieri”) si siano appropriati di bonus stratosferici, mentre coloro che hanno sofferto per la crisi causata (anche) da questi banchieri si sono ritrovati senza un posto di lavoro; o che i governi abbiano “salvato” le banche, ma che siano stati riluttanti a estendere le reti di protezione ai disoccupati o ai nuovi homeless.
Sebbene la liberalizzazione dei mercati abbia portato a una più elevata produzione aggregata, larghi strati della popolazione hanno peggiorato la propria condizione. Considerate per un momento ciò che un’economia mondiale interamente globalizzata (con i capitali e la conoscenza che circolano liberamente) comporterebbe: tutti i lavoratori con le medesime abilità, dovrebbero ricevere lo stesso salario in qualunque posto del mondo. I lavoratori americani non specializzati dovrebbero ottenere lo stesso salario che un lavoratore non specializzato otterrebbe in Cina. Ciò significherebbe che i salari dei lavoratori americani cadrebbero precipitosamente. Il salario prevalente sarebbe una media tra quello americano e quello del resto del mondo, con un notevole livellamento verso il salario più basso prevalente altrove. Non sorprende il fatto che i sostenitori della completa liberalizzazione, credendo in genere al buon funzionamento dei mercati, non pubblicizzino questo risultato.
I critici delle politiche redistributive a volte suggeriscono che il costo della redistribuzione stessa è troppo alto. I disincentivi, sostengono, sono troppo alti, e i guadagni per i poveri e la classe media sarebbero più che compensati dalle perdite sopportate dai ricchi. Si sente spesso affermare dai fondamentalisti del mercato che potremmo avere una maggiore uguaglianza distributiva, a prezzo di una crescita più lenta e un inferiore pil pro capite. La realtà è esattamente l’opposto: abbiamo un sistema che si sta operando per spostare i soldi dalla popolazione che ha redditi bassi e medi ai ricchi, ma il sistema è così inefficiente che i guadagni per la classe agiata sono molto inferiori alle perdite per le classi medie e basse.
C’è una seconda via attraverso cui le politiche economiche guidate «dall’1 per cento» possono produrre instabilità: la deregolamentazione. La deregolamentazione è un elemento centrale dell’instabilità che molti Paesi hanno sperimentato. Dare carta bianca alle grandi corporation, in particolare nel settore finanziario, è stato nell’interesse miope delle classi più ricche; costoro hanno usato il loro peso politico e il loro potere di influenzare le idee per sostenere la deregolamentazione, dapprima nei settori delle compagnie aeree e di altri servizi di trasporto, poi nel settore delle telecomunicazioni e in ultimo nei mercati finanziari.
Gli apologeti della disuguaglianza sostengono al contrario che dare più soldi ai più ricchi sarà a vantaggio di tutti, perché porterebbe a una maggiore crescita. Si tratta di un’idea chiamata trickle-down economics (economia dell’effetto a cascata). Essa ha un lungo pedigree e da tempo è stata screditata.
Come l’evidenza empirica dimostra, una maggiore disuguaglianza non ha portato a una più alta crescita, e la maggior parte degli americani ha visto i propri redditi affondare o ristagnare. Quello che l’America sta vivendo in questi ultimi anni è l’opposto dell’economia dell’effetto a cascata: le ricchezze accumulate dai più ricchi sono state ottenute a scapito di quelle ricevute dai meno abbienti.
Le 358 persone più ricche al mondo hanno una ricchezza pari a quella del 45 per cento più povero della popolazione mondiale. Se consideriamo i dati riferiti ai tre individui più ricchi al mondo otteniamo una ricchezza che corrisponde a quella dei “Paesi meno sviluppati” messi insieme, circa 600 milioni di persone. Più in generale, l’1 per cento più ricco degli individui detiene circa il 40 per cento della ricchezza mondiale; il 50 per cento più povero della popolazione mondiale detiene solo l’1 per cento della ricchezza complessiva.
La grande recessione non ha creato la disuguaglianza, ma di certo l’ha aggravata. Con le opportune politiche possiamo migliorare la situazione. La domanda è: possiamo farlo? Sì, a patto che il 99 per cento della popolazione si accorga di essere stato ingannato dall’1 per cento: che ciò che è nell’interesse dell’1 per cento non è nel loro interesse. L’1 per cento ha lavorato sodo per convincere il resto della società che un mondo alternativo non è possibile.
Traduzione Mauro Gallegati

SULL’ALMANACCO Economia di Micromega in uscita domani comparirà il testo del premio Nobel Joseph Stiglitz scritto in collaborazione con Mauro Gallegati, consulente economico di Beppe Grillo, di cui anticipiamo una parte Il fascicolo, curato da Emilio Carnevali e Roberto Petrini, contiene tra gli altri interventi di Federico Rampini, Alessandro Roncaglia, Maurizio Franzini

l’Unità 20.3.13
Aldo Grasso? Ridateci Alberoni
di Bruno Gravagnuolo


DOVE TRONEGGIAVA ALBERONI IMPERVERSA ALDO GRASSO. Infatti sul «Corsera» il critico televisivo ha rimpiazzato il sociologo dell’amore, che almeno ci deliziava con superbe figure dello spirito, quali «chi la fa l’aspetti», «impara l’arte e mettila da parte», etc. Grasso invece vola troppo alto. E la sua critica frantuma idoli possenti come veline, quizzoni, grandi fratelli, talent show. Bravo. Lunedì però si è imbattuto in qualcosa di più complicato: i «giovani turchi» (definizione giornalistica). Parte del gruppo dirigente Pd. Che ha svolto un ruolo chiave nella spinta a candidare i nuovi presidenti delle Camere, e si batte per un rinnovamento generazionale radicato a sinistra, non demagogico e nuovista.
Grasso, accecato da odio, si contorce ed esplode. Con un pezzo pieno di spropositi e insulti. Prima dice che i giovani turchi di Ataturk nel 900 furono «un sogno infranto» (un ruolo l’ebbero, ma che c’entra?). Poi si indigna contro il pamphlet di Francesco Cundari, sbagliandone il titolo (è Manuale del giovane turco, Editori Riunti, non Manuale dei giovani turchi..), e contro una recensione di Chiara Geloni. Scambiando un testo simpatetico ma ironico per un breviario tipo giovani marmotte, e una recensione altrettanto ironica per un peana. Infine, con Orlando e Fassina, aggredisce Matteo Orfini, imputandogli di aver sfidato Renzi a mutare profilo, per venir sostenuto.
«Chi ci capisce è bravo», annota Grasso. Che però non capisce perché non legge né di storia né di politica, cita di seconda mano, e appioppa a tutti accuse di Grande Fratello. Che ben si attagliano a lui, semiologo dei luoghi comuni in salsa antipolitica. Ridateci Alberoni!

La Stampa 20.3.13
Non ci sono cifre certe ma si parla di 3000 casi di persone in stato vegetativo in Italia
Il dramma delle esistenze sospese
Si sopravvive di più, ma quando si spegne davvero la coscienza?
di Marco Neirotti


Le braccia distese sul lenzuolo, la nuca adagiata sul cuscino, occhi immobili, sul volto le carezze dei parenti. In risposta la fissità del silenzio. Che succede sotto quei capelli? Un sonno per sempre o una muta e consapevole prigionia, impotente a rispondere agli stimoli? È il mistero dello «stato vegetativo».
Non ci sono cifre certe, i convegni muovono l’onda fra 3.000 e 3.500 casi in Italia. Circa 300 mila persone ogni anno entrano in coma, più di un terzo tornano indenni, altri con danni senza appello, qualcuno transitando nel mare fermo dei corpi vivi, capaci di battito cardiaco e respiro spontanei ma senza dialogo con il mondo.
Il coma. Incomincia tutto da questo buio improvviso, dopo incidenti, malattie, intossicazioni che possono compromettere corteccia cerebrale e talamo ma anche il tronco encefalico. Entriamo sotto le luci artificiali delle Terapie intensive, fra tubi e macchinari dai suoni ritmici o d’allarme. Un tempo si cedeva rapidi alla morte, poi la ventilazione forzata ha alzato la sopravvivenza. Il professor Marcello Massimini, neurofisiologo all’Università di Milano: «Da quella invenzione del danese Bjorn Ibsen, che nel 1952 fronteggiò un’epidemia di poliomielite con studenti che manualmente insufflavano aria nei polmoni dei pazienti, si è spostato un confine che per millenni era stato considerato immodificabile: quello della morte, che si è spostata dal cuore al cervello. Mentre altri confini si sono confusi: quelli della coscienza».
La morte cerebrale e gli espianti d’organo: «La diagnosi di morte cerebrale è molto più sicura di quella di morte cardiaca. Di fatto gli esami indicano una sorta di decapitazione seppur senza tracce visibili». Ma quando non c’è quella devastazione, i pazienti dopo qualche settimana possono riaprire gli occhi. Alcuni riprendono immediatamente la capacità di comunicare a gesti e parole la propria coscienza. Ma altri possono rimanere in uno stato di non responsività. In questi casi può essere molto difficile vedere la coscienza dall’esterno. Un classico esempio sono i pazienti locked-in: completamente coscienti ma completamente paralizzati. Fort u n a t a m e n t e questi soggetti possono riprendere a comunicare con gli occhi. Molti ricorderanno il libro «Lo scafandro e la farfalla» (Ponte alle Grazie) «scritto» da Jean-Dominique Bauby esprimendo il mondo interiore con il battito delle ciglia.
Ancora più difficili da diagnosticare » sono i malati in stato di «coscienza minima». Spiega Massimini: «Non sono in alcun modo in grado di comunicare, però manifestano, anche solo occasionalmente, segni di attività motoria non automatica». Un esempio: «Colui che, in una condizione di non responsività, di tanto in tanto fissa e segue con lo sguardo parenti e medici. Non possiamo sapere cosa prova ma sappiamo che può recuperare anche dopo molti anni, soprattutto se sottoposto a protocolli di riabilitazione intensiva. Da qui l’importanza di una diagnosi approfondita». Dalla totale immobilità invoca aiuto il protagonista del terribile e delicato romanzo di Maurizio Assalto «Se verrà domani» (Cairo): gli preparano una dolce fine mentre lui tutto percepisce.
Cambiamo di nuovo stanza. Quella del mistero ancora da illuminare: stato vegetativo, la completa mancanza di segni di coscienza in un soggetto che ha gli occhi aperti. Siamo certi che la coscienza sia davvero assente in tutti questi pazienti? «L’errore diagnostico tra stato vegetativo e minima coscienza rappresenta un grave problema clinico ed etico posto dalla neurologia contemporanea».
Come valutiamo la presenza di coscienza? «Tipicamente chiediamo al paziente di aprire la bocca, stringere il pugno e così via. Non avviene nulla? L’assenza di prova non è necessariamente prova di assenza: perché il paziente potrebbe essere cosciente ma paralizzato oppure semplicemente incapace di comprendere i comandi», dice il neurofisiologo: «E’ dunque necessario sviluppare metodiche più sensibili per riconoscere i segni della coscienza, al di là della capacità di un soggetto di interagire con l ’ ambiente. Dobbiamo sviluppare nuovi strumenti di misura per vedere la luce della coscienza direttamente nel cervello. Un compito non facile, ma non impossibile. Queste famiglie ci impongono il dovere etico di raffinare la diagnosi. Non si aspettano miracoli, si aspettano che ci dedichiamo a leggere sempre meglio realtà nascoste».

La Stampa 20.3.13
La macchina che aiuta a “leggere” il cervello
di M. Acc.


Il coma vegetativo è una «scatola nera» nella quale non si riesce a leggere nulla, senza un’attrezzatura dedicata. Per vedere oltre l’incomunicabilità dei malati, la Città della Salute e della Scienza di Torino avrà presto a disposizione un’apparecchiatura per il monitoraggio neurofisiologico del coma e dei disturbi della coscienza. Uno strumento d’avanguardia che - a un anno di distanza dalla tragedia di Alberto Musy - la Fondazione «Specchio dei tempi» contribuirà ad acquistare e consegnerà nelle prossime settimane all’ospedale di corso Bramante.
«Uno strumento fondamentale non solo per poter valutare le possibilità di recupero da segnali normalmente impercettibili, ma anche per orientare le terapie», spiegano il professor Leonardo Lopiano, primario neurologo alle Molinette di Torino, e il professor Mario Illengo, responsabile della Neurorianimazione dove Musy è stato a lungo ricoverato. Insieme all’apparecchio, la generosità dei lettori di «La Stampa» e di «Specchio dei tempi» sosterrà anche una borsa di studio triennale per un tecnico in neurofisiopatologia. E grazie a questa importante donazione sarà possibile avviare uno studio mirato che verrà coordinato dalla dottoressa Elisa Montalenti, neurologa.
Il macchinario per il monitoraggio del coma, facilmente trasportabile, sarà utilizzato in tutti gli ospedali che fanno parte della Città della Salute. È stata la stessa moglie di Alberto Musy a chiedere a «Specchio dei tempi» - alla luce della propria esperienza - di contribuire a dare una speranza a migliaia di persone sospese in un sonno profondo. E per questo Angelica D’Auvare ha creato con i medici della Città della Salute che saranno parte attiva del progetto un comitato medico-scientifico.
Si può ancora contribuire all’acquisto dell’apparecchiatura con donazioni a «Specchio dei tempi» (www.specchiodeitempi.org), indicando nella causale «Fondo 500, per aiutare chi è in coma».

La Stampa 20.3.13
Felicità
Oggi sono contento di non avere un conto a Cipro. E domani? La cronaca mi aiuterà...
Il segreto sta tutto nell’assenza
di Bruno Gambarotta


Tema: «Cos’è per te la vera felicità?» Svolgimento: per me la felicità è essere sollevati da un dovere. Mi spiego: se in questo istante entrasse in aula il bidello per annunciare che la nostra professoressa che ci ha assegnato questo bellissimo tema, entrando nella scuola ha battuto una craniata – anche piccola – nello stipite della porta, ha dovuto ricorrere al pronto soccorso e non può più correggere i nostri elaborati, io, dopo aver espresso un doveroso rammarico per l’accaduto, proverei una sommessa ma intensa felicità. Ma così non è e dunque procediamo. La felicità non consiste nella conquista di un traguardo, nel raggiungimento di una meta, di questo sono più che sicuro. Un tempo le nostre guide spirituali erano gli stilisti, ora lo sono i cuochi e non è un progresso da poco. Prendiamo perciò il caso di uno chef a cui la guida Michelin abbia assegnato le tre stelle; sul momento sarà anche felice, ma il giorno dopo comincerà a essere angustiato dalla preoccupazione di riuscire a mantenere la qualifica anche per il prossimo anno, tormentato dalla visione del sorrisetto malizioso dei colleghi quando da tre stelle scenderà a due. In questo ha ragione Freud che ne «Il disagio della civiltà» sostiene che la felicità può esistere solo come fenomeno episodico. Il medesimo ragionamento vale per il possesso; sei riuscito a comprare l’auto dei tuoi sogni, pensi di aver raggiunto il culmine della felicità, mentre esci dal concessionario grandina e blocchi di ghiaccio ammaccano la carrozzeria, si risveglia il vulcano, ceneri e lapilli ricoprono l’auto, non riesci a evitare una voragine che si apre nell’asfalto, superi di un chilometro il limite di velocità, ti tolgono la patente. Osi ancora sostenere di essere felice? È uno sforzo vano chiedere soccorso agli antichi; negli «Adagia» di Erasmo da Rotterdam ho trovato «Felice chi non è debitore». A quanto ammonta il nostro debito pubblico? 2025 miliardi mi pare, cioè 39 mila euro per ciascuno di noi italiani. Caro Erasmo, ripassi tra qualche anno. Torniamo al punto, la vera felicità consiste nell’assenza. Almeno per me. Sei in vacanza in montagna, ti alzi prima dell’alba perché ti attendono otto ore di mulattiera per arrivare al rifugio, ti accosti alla finestra, scopri che sta diluviando e te ne torni sotto le coperte. Non è felicità, questa? E quando la sera salta la luce, si è costretti a stare fermi, obbligati a non assolvere ai tanti doveri che ci attendevano? La vera felicità consiste pure negli atti mancati e in questo ambito la cronaca ci offre ogni giorno l’occasione per assaporare dosi omeopatiche di felicità. Per esempio, oggi sono felice perché non ho mai aperto un conto corrente in una banca di Cipro. Domani sono sicuro di trovare un altro motivo per essere felice, non sarà un’impresa difficile, con tutte le cose brutte che si leggono sui giornali...

La Stampa 20.3.13
Istanbul,  omaggio agli archeologi italiani


Il Museo archeologico di Istanbul, all’interno del Topkapi, rende omaggio per un mese agli archeologi italiani che hanno operato e operano in Turchia con una mostra fotografica inaugurata dall’ambasciatore Giampaolo Scarante. Dieci scavi italiani sono attivi in Turchia su siti preistorici, ittiti, classici o bizantini. Gli archeologi italiani sono oggi al primo posto in Turchia, davanti a tedeschi, americani, giapponesi e francesi.

Corriere on line 18.3.13
Comunicato sindacale
Sciopero di 2 giorni dei giornalisti del Corriere
Mercoledì e giovedì il giornale non sarà in edicola. Martedì e mercoledì il sito non sarà aggiornato

qui

il Fatto 20.3.13
Corriere, un dramma da miseria e (ex) nobiltà
I giornalisti e Della Valle sfidano gli azionisti che vorrebbero far pagare ad alktri i loro errori
di Giorgio Meletti


Nei cosiddetti salotti buoni milanesi, vuoi per l’atmosfera ovattata, vuoi perché con l’età l’udito cala, la notizia che a Roma sta cambiando tutto è come se non fosse mai arrivata. E così al Corriere della Sera si sta perpetuando un clima da furbetti della Seconda Repubblica, una riedizione in salsa meneghina di “Miseria e nobiltà”.
Oggi e domani il quotidiano di via Solferino non sarà in edicola per uno sciopero dei giornalisti. Protestano contro il piano di ristrutturazione dell’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, il quale, nonostante una carriera quasi tutta alla Microsoft, ha ideone premoderne come quella di licenziare centinaia di persone per ridare salute ai conti dell’azienda. E naturalmente a spese dello Stato, il che non guasta mai quando devi rendere conto delle tue strategie e un drappello di azionisti tanto blasonati e sussiegosi (con nomi come Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo e cognomi come Agnelli, Pesenti, Tronchetti), quanto squattrinati e avidi. I numeri dicono tutto. La Rcs Mediagroup ha quasi un miliardo di debiti perché nel 2007 si indebitò per un miliardo per comprare in Spagna la società Recoletos, che in realtà valeva molto meno. Nel 2012 una ulteriore svalutazione di oltre 300 milioni della stessa Recoletos ha contribuito a far chiudere i conti Rcs con un rosso previsto in 400 milioni di euro (dal cda del prossimo 27 marzo la sentenza definitiva). Poi ci sono i periodici che perdono e il settore libri che perde. Il Corriere della Sera va ancora bene e chiude anche il 2012, con fatica, in utile.
Quando una società butta via un miliardo per comprare una società che non lo vale, logica vuole che gli azionisti facciano un bel sospirone e la ricapitalizzino. Il problema è che gli azionisti del Corriere vogliono comandare, per esempio litigando sul nome del prossimo direttore da mettere al posto di Ferruccio de Bortoli, ma non pagare. Cioè vogliono i diritti dell’azionista ma non i doveri. E poi i tempi sono grami, e per molti di loro, nobiltà decaduta del capitalismo, tirare fuori la loro quota di un miliardo è troppo doloroso, a volte addirittura impensabile. Mediobanca, primo azionista Rcs con il 14 per cento, in questo momento non ha 140 milioni da buttare su una società che produce molto potere e vanità, ma pochi utili. Carlo Pesenti, nobilec ementiere di Bergamo, non ha sottomano quegli 80 milioni da sottoscrivere per la sua quota. E pensate che per la accomandita Giovanni Agnelli di John Elkann e parenti sia così facile cacciare i 100 milioni corrispondenti al 10 per cento di Rcs posseduto?
Così anche l’aumento di capitale “ridotto” (solo 400 milioni) non è detto che venga varato, perché per molti dei padroni del Corriere è ancora troppo. Molto più semplice dire a Jovane di raddrizzare Rcs con i mitici tagli. E lui annuncia che manderà a casa 110 dei 360 giornalisti del Corriere, lasciando intendere che per lui, e quindi per i lettori, non cambia niente se un terzo della redazione, la parte più esperta, va a casa. Tutto per risparmiare 15-16 milioni all’anno con i prepensionamenti, grazie agli “scivoli”, pagati dallo Stato per altrettanti 15 milioni. E dunque nel tempio del libero mercato si apparecchia tutto questo psicodramma per dichiarare lo “stato di crisi” e arraffare quella quindicina di milioni dalle tasche del contribuente. Il cosiddetto Gotha del capitalismo italiano, anziché riconoscere sportivamente di aver sbagliato con Recoletos e ridare a Rcs il miliardo bruciato in Spagna, secondo tradizione si sta già organizzando per farsi dare un po’ di soldi pubblici e poi far pagare il resto ai dipendenti del gruppo editoriale, creando di colpo 800 nuovi disoccupati.
L’intervista data ieri a Repubblica da Diego Della Valle, azionista di Rcs con l’8,7 per cento, ma tenuto fuori dal patto di sindacato, cioè dalla coalizione di soci che comanda, segnala che sullo sfondo del drammatico passaggio del Corriere si sta preparando una resa dei conti spietata all’interno del sunnominato Gotha. Il proprietario della Tod’s lancia un segnale preciso sullo stato dei rapporti. In primo luogo rivendicando che lui ha capito il passaggio d’epoca, tradotto nella formula “le azioni si contano e non si pesano”, che ribalta le regola aurea su cui il fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia ha fondato il potere delle famiglie, squattrinate e avide. In secondo luogo confermando di essere in guerra contro il presidente di Intesa San-paolo Giovanni Bazoli, avviato, a 80 anni, a un nuovo mandato al vertice della prima banca italiana; e contro John Elkann, presidente della Fiat. Il più giovane e il più vecchio sono eletti a simboli di un’oligarchia che “non ha fatto meno danni al Paese della politica” e che pensa solo a garantirsi “il potere personale e la poltrona”. In terzo luogo Della Valle fa capire che l’asse con il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, è di nuovo saldissimo. Come ai tempi in cui i due fecero fuori Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali. Sarà una primavera caldissima anche per il potere economico.

L’Ingegnere continuerà a occuparsi di editoria come presidente del Gruppo L’Espresso
Repubblica 20.3.13
De Benedetti passa il testimone ai figli trasferito il controllo della Cdb Sapa
Rodolfo sarà presidente esecutivo di Cir e Mondardini ad


MILANO — Carlo De Benedetti esce dall’accomandita di famiglia e trasferisce il controllo del gruppo Cir-Cofide ai figli. Come annunciato lo scorso 29 ottobre 2012 ieri è stato perfezionato il trasferimento a titolo gratuito del controllo della Carlo De Benedetti & Figli Sapa, azionista di maggioranza di Cofide, dal fondatore Carlo De Benedetti ai tre figli Rodolfo, Marco ed Edoardo. Il trasferimento è avvenuto con la modalità del cosiddetto “patto di famiglia”. I tre eredi, che ora detengono la totalità del capitale della Carlo De Benedetti & Figli Sapa, hanno deciso di mantenere l’attuale denominazione della società e di alternarsi alla presidenza con mandati triennali. Il trasferimento delle azioni sancisce dunque quel passaggio generazionale di cui l’Ingegnere si è fatto promotore per dare continuità alla tradizione imprenditoriale di famiglia, iniziata con il padre Rodolfo e la sua Tubi Metallici Flessibili.
Un’azienda che fu interamente ricostruita dopo la guerra e nella quale Carlo vi entrò nel 1959 come responsabile vendite. «Da mio padre ho imparato il culto dell’impresa. Io ho spinto assai più in là le attività di famiglia. Ora tocca ai miei figli», ha detto De Benedetti in un’intervista al Sole 24 Ore lo scorso ottobre.
E i figli sono pronti a raccogliere il testimone. Rodolfo, primogenito di Carlo e amministratore delegato di Cir da 18 anni, assumerà la carica di presidente esecutivo sia di Cir sia di Cofide con le assemblee del prossimo 29 aprile. Al suo fianco arriverà Monica Mondardini che assumerà la carica di amministratore delegato di Cir mantenendo la stessa posizione al Gruppo L’Espresso. «Ha fatto un lavoro straordinario, io e mio padre ne abbiamo apprezzato la competenza professionale e le doti umane — aveva dichiarato Rodolfo in un’intervista a Repubblica —. Il suo impegno a 360 gradi costituirà un arricchimento per la Cir ma anche per L’Espresso». Gli altri due figli di Carlo, Marco (oggi a capo del fondo Carlyle in Europa) ed Edoardo (medico in Svizzera) non hanno incarichi operativi nel gruppo Cir-Cofide ma saranno azionisti che si avvicenderanno alla presidenza della Sapa con mandati triennali in modo da assicurare una assoluta pariteticità di ruoli all’interno della holding. Il passaggio di consegne dal padre ai figli, comunque, non comporterà cambi di strategia per quanto riguarda le attività del gruppo Cir-Cofide presente in quattro settori di business: editoria con il Gruppo L’Espresso, componentistica auto con Sogefi, energia attraverso Sorgenia e sanità con la Kos.
L’Ingegnere, che continuerà a occuparsi di editoria come presidente del Gruppo L’Espresso, ieri intervenendo a una conferenza ha fatto una previsione sul governo che verrà: «Penso che se ci sarà un governo sarà di breve durata, perché dopo il cambiamento della legge elettorale si tornerà a votare. Io penso così, anche se mi auguro che Bersani ce la faccia, perché mi sembra che sia anche il più legittimato dal punto di vista del numero dei seggi che ha in Parlamento».

l’Unità 20.3.13
Comunicato dell’assemblea dei giornalisti. L’amministratore delegato. Il direttore


COMUNICATO DELL’ASSEMBLEA DEI GIORNALISTI,
In vista della prossima assemblea degli azionisti della Nie, società editrice de l’Unità, e dell’incontro in sede Fnsi che l’azienda avrà con i rappresentanti sindacali, l’assemblea delle redattrici e dei redattori del quotidiano intende richiamare ciascuno ai propri doveri. Da oltre un anno chiediamo all’amministratore delegato Fabrizio Meli la presentazione di un piano industriale con prospettive di rilancio di medio-lungo periodo.
Auspichiamo che il prossimo appuntamento sia l’occasione per presentare un progetto con adeguate strategie di sviluppo. Da tempo abbiamo chiesto al direttore Claudio Sardo un confronto sul prodotto, con l’obiettivo di invertire la flessione di copie del giornale che purtroppo non ha mostrato segni di recupero neanche durante la campagna elettorale. Anche su quel fronte non
abbiamo avuto risposte.
Ora ci rivolgiamo direttamente agli azionisti,
per chiedere le risorse necessarie a rilanciare il prodotto e le sue prospettive. Sappiamo tutti che una testata (per di più storica) è un bene prezioso da preservare, anche con adeguate strategie pubbliche per un settore in profonda crisi. Ma non c’è futuro senza innovazione: è quella la sfida che chiediamo e che finora non abbiamo ottenuto, malgrado i sacrifici economici che i giornalisti da anni affrontano con solidarietà e senso di attaccamento alla testata. Oggi ci preoccupa l’assenza di impegno e di coraggio.
Con i soli tagli si muore. E questo non possiamo permetterlo, per rispetto della nostra storia e dei nostri lettori.

L’AMMINISTRATORE DELEGATO
Come i giornalisti (e i soci e gli istituti finanziari) sanno, sin dal 2010 l’Azienda dispone di un piano industriale incentrato oltre che sul recupero della reddività proprio sullo sviluppo tecnologico. Infatti, l’evoluzione del sistema Unità, del giornale cartaceo e di quello multipiattaforma, è sotto gli occhi di tutti. Certo, non tutti i passi sono stati compiuti anche perché una parte sostanziale di tale piano è condizionata da un accordo integrativo chiesto dal Cdr e che oggi l’Azienda non è in grado di firmare.
Fabrizio Meli

IL DIRETTORE
Nell’ultimo incontro con il Cdr ho esposto le linee di un piano per realizzare la redazione integrata carta-web. Il Cdr ha chiesto di rinviarlo, considerando prioritaria la discussione con l’azienda sul piano industriale e finanziario. Continuo a ritenere la redazione integrata una sfida necessaria, oltre che una condizione obiettiva di quel confronto sul prodotto che il Cdr auspica.
Confido che ci sia lo spazio per una condivisione. Anche perché dal mercato sono arrivati negli ultimi mesi segnali di attenzione e di interesse verso l’Unità, a cui dobbiamo rispondere con qualità, innovazione e, appunto, integrazione carta-web.

l’Unità 20.3.13
Parte «istella» motore di ricerca made in Italy
Un enorme spazio libero dove ricercare e condividere saperi nel progetto lanciato da Tiscali
di Cesare Buquicchio


Si scrive «istella» (www.istella.it) si legge web di qualità. È on line il nuovo motore di ricerca sviluppato da Tiscali e presentato a Roma da Renato Soru. Un progetto recente ma con un antefatto antico e che merita di essere raccontato. È da poco passato l’anno 2000 e l’Italia con Tiscali, e non solo, rappresenta un punto nodale per lo sviluppo delle tecnologie legate al web. In particolare c’è un motore di ricerca creato da un gruppo di ricercatori a Pisa per l’azienda sarda che è all’avanguardia e si è diffuso già in vari Paesi europei. Ma la «bolla» finanziaria del web sta già esplodendo e così quando arrivano gli emissari di un certo Google, astro nascente del settore search, e offrono a Soru 10 milioni di dollari per spegnere il suo motore di ricerca lui accetta.
DAI MIGLIORI ARCHIVI
Sono passati anni e Google ora è un colosso inavvicinabile che solo in Italia fattura 2 miliardi di euro e raccoglie pubblicità quasi quanto Mediaset. Ma è un gigante che punta più sulla quantità che sulla qualità, nelle sue ricerche propone più facilmente la popolarità della pizzeria Dante Alighieri che le pagine dedicate all’autore della Divina Commedia. È una macchina sofisticata che memorizza usi e comportamenti di ognuno di noi per veicolare in modo suadente pubblicità e offerte più o meno mascherate nei risultati delle nostre ricerche.
Il nuovo «istella» riprende il cammino interrotto, ma vuole essere un’altra cosa rispetto al motore di ricerca di Mountain View. Un enorme spazio libero dove ricercare e condividere sapere. Si inizia dalla enciclopedia Treccani, scelta come sede del lancio di «istella», che viene indicizzata sempre tra i primi risultati delle ricerche, si prosegue con le mappe del Touring Club, con gli archivi pubblici, quelli dei grandi giornali, di musei ed enti di ricerca scientifica. Certo, si passa anche a scandagliare il web ma poi si arriva in un luogo dove nessuno era mai arrivato: nella propria memoria. Uno degli aspetti più innovativi, infatti, è la possibilità data ad ogni utente registrato di condividere con e nel nuovo motore di ricerca, le sue storie, i suoi testi, le sue foto, quelle della propria città o associazione. «Ogni uomo è un’enciclopedia» scriveva Calvino in quello che è stato scelto come motto di «istella». E il modello dell’enciclopedia è quello scelto nell’architettura del nuovo motore di ricerca: dunque ricerche oggettive, a differenza di Google, che mettono di fronte ogni utente agli stessi risultati, ricerche che prediligono fonti autorevoli e qualitativamente verificate, per un’esperienza web che possa andare anche in verticale e non fermarsi alla superficie delle informazioni. Ma «istella» vuol dire anche ricerche italiane, sull’Italia, in italiano e non solo. L’idea di un motore di ricerca italiano punta a modelli già consolidati in Russia o Repubblica Ceca, dove accanto all’ombra del colosso Google, prosperano attività di search nazionali usate per motivi linguistici o culturali. «Perché le informazioni sul Colosseo o su Leonardo Da Vinci devo farmele dare da un americano...» chiosa Soru.
Il nome «istella» è il sardo per stella e il logo richiama le stelle marine dei meravigliosi fondali sardi. Le finalità dell’avventura non sono solo culturali. È una sfida commerciale che punta su accessi, pubblicità, commercializzazione delle parole chiave, servizi alle aziende, analisi degli open data. Il primo passo di Tiscali per lanciare «istella» sarà di farlo diventare il motore di ricerca del suo portale e far transitare così nella stringa di ricerca buona parte di quei 14 milioni di utenti che visitano il sito della compagnia ogni mese.

l’Unità 20.3.13, con richiamo in prima pagina
Marco Bellocchio
E ora mi diverto così
Parla il regista che ci riprova con una vecchia passione: il teatro
intervista di Francesca De Sanctis

qui