giovedì 21 marzo 2013

l’Unità Lettere 21.3.13
La nuova presidente della Camera
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Mi sono emozionato fino alle lacrime (di gioia s’intende) nell’ascoltare le parole di Laura Boldrini, una donna che potrebbe avere la metà dei miei anni, parole di una donna che ha conosciuto le disgrazie di mezzo mondo e che sono delle pietre miliari per un mondo più giusto.
Giulio Fantuzzi

Laura Boldrini è stata portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. In questa veste ha rappresentato più volte la posizione della Comunità Internazionale sulle scelte proposte dal governo Berlusconi e dal ministro Maroni sui respingimenti in mare degli emigranti che arrivavano dalle coste africane. Con forza ella ribadì allora il diritto di asilo dei rifugiati politici e la necessità di offrire loro, come in Italia e in altre parti d’Europa non accade ancora, un asilo politico in condizioni di rispetto delle loro vite, della loro salute e della loro dignità di esseri umani. Facendo politica con la «p» maiuscola, dunque, nel rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione e dal diritto internazionale ed alzando risolutamente il tono delle discussioni basate sul provincialismo del ministro cattivo (a lui piacque allora definirsi così) e alla superficialità di un capo del governo interessato più alla tutela della «nipote di Mubarak» che a quella degli esseri umani che tentano di sfuggire alla persecuzione politica e alla morte. Che a sedere sullo scranno più alto del Parlamento sia una donna con questo tipo di passione e di esperienza invece che un politico di professione segnala con forza il nuovo che avanza anche da noi e dovrebbe essere in effetti motivo di orgoglio per tutti gli italiani. Anche di quelli che non l’hanno votata: per paura del nuovo (a destra) o per incapacità di valutarlo e davvero il nuovo che sta arrivando anche per merito loro (i Cinquestelle).

l’Unità 21.3.13
Bersani al Colle per il «cambiamento»
Possibile un’esplorazione di Grasso
Il leader del Pd è pronto a formare il governo e a presentarsi in Parlamento
Come esploratore c’è anche l’ipotesi di un ex presidente della Consulta
Gli otto punti programmatici preparati dal Partito democratico inviati ieri ai parlamentari di tutte le forze politiche
di Simone Collini


Serve un governo di cambiamento, non un governo quale che sia. Parte da qui il ragionamento che oggi pomeriggio Pier Luigi Bersani farà a Giorgio Napolitano. All’incontro al Quirinale il leader del Pd dirà anche che è «disponibile» a lavorare per questo obiettivo, mentre escluderà un esecutivo a maggioranza Pd-Pdl-centristi. Dopodiché lascerà che sia il Capo dello Stato a indicare il percorso migliore per raggiungere l’obiettivo. E qui si aprono vari scenari.
Nel caso in cui Napolitano gli affidasse un incarico pieno (probabilmente già domani), il segretario del Pd punterebbe a giocare la sua partita in Parlamento, con il voto di fiducia. Una strada rischiosa, perché al Senato mancano sulla carta 12 voti favorevoli (pur considerando il possibile sostegno di Scelta civica). Ma che paradossalmente sarebbe preferibile rispetto a un percorso inevitabile con un incarico «limitato» che condizioni la costituzione del governo a disponibilità espresse nel giro di consultazione dello stesso Bersani. Il leader del Pd è determinato a formare il suo governo (come possibile ministro dell’Economia si fa il nome del capo economista dell’Ocse, Pier Carlo Padoan) e considera il Parlamento il luogo della verifica, tanto più in una legislatura come questa, che parte senza una maggioranza precostituita.
Non a caso ieri, al termine della prima giornata di consultazioni al Colle, al quartier generale del Pd si è ragionato concretamente su un piano B da attuare nel caso in cui Napolitano ritenesse necessaria un’ulteriore verifica prima di affidare a Bersani un incarico pieno. Un piano B non sul «governo di cambiamento», come lo intende il vertice del Pd, ma sul modo per portarlo in Parlamento. Il piano B passa, appunto, da un incarico esplorativo, che il Capo dello Stato potrebbe affidare ad una terza personalità: il compito sarebbe quello di certificare se esistono, al momento, ipotesi di governo dotate di una maggioranza o comunque di numeri potenzialmente maggiori rispetto a Bersani.
IPOTESI ESPLORAZIONE AD ALTRI
Il nome in cima alla lista, in tal caso, sarebbe quello del presidente del Senato Pietro Grasso. E ieri sono state lette con molta attenzione le parole pronunciate da Grasso al termine del colloquio con il Capo dello Stato. Sia per quel «con il presidente Napolitano abbiamo una concorde determinazione sulla necessità assoluta di dare un governo al Paese». Sia per l’aggiunta: «Si inizieranno a percorrere tutte le iniziative per ottenere questo obiettivo». Il nome di Grasso non è però il solo a circolare in queste ore, nel caso in cui Napolitano scelga la strada dell’esplorazione. Tra le ipotesi c’è anche quella di affidare l’incarico a un presidente emerito della Corte costituzionale. Valerio Onida, per esempio, costituzionalista apprezzato dal Movimento 5 Stelle ma anche dagli esponenti di Scelta civica, vista la sua provenienza dal mondo del cattolicesimo democratico (ma c’è anche chi parla di Gustavo Zagrebelski).
A Bersani che ieri ha fatto recapitare ai parlamentari di tutte le forze politiche gli otto punti attorno a cui intende costruire il «governo di cambiamento», precisando che si tratta di proposte aperte a ulteriori contributi non sfugge che un mandato esplorativo affidato a una carica istituzionale o a una persona di alto profilo può significare per lui sia un’opportunità che un rischio. Un’opportunità, perché da questo giro potrebbe emergere alla fine che il leader Pd è comunque colui che ha le maggiori possibilità di farcela e giocarsela in Parlamento. Ma anche un rischio, perché l’esplorazione potrebbe incoronare chi l’ha condotta, o comunque una figura terza.
BERLUSCONI E LA CONCORDIA
ll rebus si scioglierà stasera, dopo che la delegazione del Pd, ultima ricevuta da Napolitano, lascerà il Quirinale. Il punto fermo, per Bersani, è che nessuna ipotesi di governo fondato su un asse con il Pdl è percorribile. Tanto che ieri, dopo l’uscita di Silvio Berlusconi sulla necessità di dar vita a un «governo di concordia Pd-Pdl», il segretario democratico parlando con i suoi si è lasciato andare a qualche gioco di parole, facendo riferimenti alla nave da crociera Concordia. «La concordia di Berlusconi ci porta al naufragio». Oppure: «Nessuna concordia è possibile con chi è andato a sbattere al Tribunale di Milano». Al di là delle battute, resta la netta contrarietà di Bersani a un esecutivo che si regga sul «modello Monti senza Monti». L’argomento è stato affrontato anche con i vertici di Scelta civica, in un incontro al Senato tra i capigruppo di Sc e quelli del Pd. I montiani hanno assicurato che non ci sarebbe alcuna preclusione da parte loro, nel caso Napolitano decidesse di dare l’incarico a Bersani. I 20 senatori di Scelta civica porterebbero a quota 146 i sì al «governo di cambiamento». Il leader del Pd è però convinto che se potrà giocare la partita in Parlamento, la possibilità di farcela c’è. Anche perché, come è emerso dalle consultazioni di ieri e dali incontri che ci sono stati nei giorni scorsi tra la delegazione del Pd e quelle del Pdl e della Lega, nessuno ha intenzione di andare a breve a nuove elezioni.

l’Unità 21.3.13
Diritti civili
Dallo ius soli al testo contro le violenze, ecco le proposte Pd


Dallo ius soli alla legge contro l’omofobia: il Pd ha presentato ieri il suo primo pacchetto di proposte in tema di diritti civili. Tra queste, una legge organica contro il femminicidio e un testo per il riconoscimento civile delle coppie omosessuali secondo il modello tedesco. Tra le proposte anche l’istituzione di un Osservatorio sulla violenza ai danni delle donne. In tema di cittadinanza, se ne prevede il riconoscimento anche a chi non sia nato in Italia ma sia cresciuto nel nostro Paese, compiendovi un ciclo di studi o di formazione professionale.

il Fatto 21.3.13
Partita a scacchi sul Colle. In pista Bersani e Grasso
Dopo il primo giro di incontri i democratici insistono con il loro candidato premier
Il procuratore è il piano B
di Fabrizio d’Esposito


Atteniamoci ai fatti, come invitano a fare fonti del Quirinale, che ieri mattina, davanti al buffet delle consultazioni, hanno liquidato con battute e risatine sprezzanti un quotidiano autorevole che “ha pubblicato cinque versioni diverse nello stesso giorno”. E i fatti, allora, dicono che nel primo giorno al Colle della Terza Repubblica delle tre minoranze, i due alleati del Pd alle elezioni, Sel di Nichi Vendola e il Psi di Riccardo Nencini, hanno fatto il nome di Pier Luigi Bersani al capo dello Stato come “candidato naturale” a Palazzo Chigi. Potrà, dunque, il segretario del Pd salire oggi da Napolitano, chiudere il giro delle consultazioni e fare un passo indietro a favore di un altro “mister X” in grado di attrarre i tanto desiderati grillini? La risposta è “no, no, no”, come assicurano fino alla noia e alla nausea dal Nazareno, ossia dalla sede nazionale del Pd a Roma. Dice un ex ministro di centrosinistra: “Il primo tentativo è di Bersani, non ci sono alternative. Poi bisogna capire come lo consuma e questa è un’altra storia”.
Il primo paletto certo è questo: oggi il segretario del Pd rivendicherà per sé l’incarico, esplorativo o meno che sia. La formula che userà con “Re Giorgio” è la seguente: “Mettere se stesso e il partito a disposizione del Paese”, forte del programma di otto punti che ieri è stato inviato a tutti i parlamentari della diciassettesima legislatura. Il fatidico primo giro, per citare la metafora più gettonata in queste ore, lo farà Bersani. E solo al secondo potrà spuntare il “mister X” che alimenta fantasie, scenari e retroscena. I nomi che circolano sono tanti ma, sempre dal partito che è arrivato primo ma non ha vinto le elezioni, riferiscono che in campo c’è solo il presidente del Senato, quel Piero Grasso che ieri ha aperto il rito delle consultazioni ed è rimasto più del dovuto con Napolitano. Il tentativo Grasso avrebbe un orizzonte ben delimitato: governo per cambiare la legge elettorale e poi alle urne “tra giugno e ottobre”, perché la definizione della data sarà materia del futuro presidente della Repubblica. Oggi, il punto di contatto tra Quirinale e Pd su questa seconda ipotesi trova un forte riscontro “nell’insofferenza che Napolitano ormai prova per Monti”, cui il capo dello Stato vuole togliere l’ordinaria gestione che ancora sbriga da premier dimissionario.
FIN QUI IL RESOCONTO autentico della convulsa giornata di ieri nel Pd bersaniano. Resta da capire quale sarà l’atteggiamento di Napolitano, che da un anno e mezzo, cioè dall’imposizione del governo Monti, viene considerato con molto sospetto dal cerchio magico del segretario democrat. Il vero dominus di questa snervante partita a scacchi è Napolitano e per qualcuno questo sarà l’ultimo e decisivo duello tra “Giorgio” e “Pier Luigi”. Lo scontro potrebbe essere molto duro. La prima mossa di sbarramento del capo dello Stato sarà quella di fare piazza pulita delle voci su “esplorazioni” e “pre-incarichi” e attenersi alla Costituzione, che “prevede solo un mandato pieno”. E dare un mandato pieno a Bersani è impresa quasi impossibile, visti i numeri. Di qui il “sentiero stretto” del mancato smacchiatore del Giaguaro di Arcore. Le subordinate dei vari piani B e C (Grasso, ma anche Onida, Saccomanni, Cancellieri) dipendono dall’esito dello scontro tra il capo dello Stato e il segretario del Pd, alla luce di quanto il giovane turco Matteo Orfini ha detto la settimana scorsa: “Non ci faremo dettare la linea da Napolitano”. E la questione della linea, al di là del tormentone su Bersani, potrebbe scavare un abisso tra i due ex compagni del Pci. Il motivo per cui ieri il candidato premier del centrosinistra ha blindato il suo programma di otto punti spedendolo a tutti i deputati e senatori è chiaro: Bersani non dirà mai sì a un governo di larghe intese che includa anche il Pdl del Cavaliere. E su questo il Pd dovrebbe mostrarsi compatto sino in fondo. Anche perché B. chiede “un patto lungo” e garanzie sull’elezione del successore di Napolitano. Condizioni improponibili, “pena il suicidio elettorale del Pd”.
Al contrario, la linea di Napolitano, prima di dare l’incarico domani mattina, è “quella di aggregare il maggior numero di forze possibili”. In questa direzione il Colle già poteva contare sulla sponda di Berlusconi, cui ha concesso un “legittimo impedimento” almeno fino a metà aprile. Ieri si è aggiunta la disponibilità di Scelta civica, il polo montiano. In pratica, il Professore non si acconcerebbe mai a fare la stampella di Bersani in funzione dei grillini. La soluzione più responsabile, per i centristi, è la riedizione della strana maggioranza in versione grande coalizione. Insomma, la partita a scacchi potrebbe delineare un asse Napolitano-Berlusconi-Monti per fronteggiare il disperato tentativo di Bersani. Grasso permettendo.

La Stampa 21.3.13
Bersani corregge la rotta e valuta il passo laterale
Il segretario potrebbe fare da “regista”
di Federico Geremicca


L’obiettivo resta chiarissimo, e non muta: un governo per il cambiamento. Di tutto il resto - a chi l’incarico, in che tempi e con quale mandato - Pier Luigi Bersani discuterà oggi al calar del sole con Giorgio Napolitano: senza rigidità o, addirittura, impuntature. «Pier Luigi, naturalmente, se la sente di gestire questa fase - annota Stefano Di Traglia, fidatissimo portavoce -. Ha inviato a tutti i parlamentari gli otto punti base del possibile programma, e questo vuol dire che vuole ed è pronto a governare. Ma adesso occorre abbassare la tensione su chi e quando avrà un mandato dal Quirinale: perchè questo è compito di Napolitano, di cui ci fidiamo pienamente».
E così, alla vigilia dell’incontro che Bersani, Zanda e Roberto Speranza avranno oggi col Capo dello Stato, il Pd sembra correggere un po’ quella che era parsa, fin qui, la linea da tenere: e cioè, incarico pieno al segretario dei democratici per tentare di formare subito un governo. L’operazione-«sfondamento» nei confronti dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle, infatti, non è riuscita. Nonostante l’elezione di Grasso e Boldrini - presidenti più che nuovi - Beppe Grillo insiste nel no alla fiducia ad un esecutivo Bersani: e dunque occorre battere altre strade. Martedì sera, il leader Pd ne ha discusso fino a notte fonda con alcuni fedelissimi (Errani e Migliavacca) oltre che con Enrico Letta e Dario Franceschini. Approdi definiti ancora non ce ne sono: ma più d’uno dei partecipanti all’incontro avrebbe consigliato a Bersani di far precedere il suo tentativo dalla ricognizione di un “esploratore” (e il nome di Piero Grasso continua ad esser il più accreditato).
Se la correzione di rotta venisse oggi confermata nel colloquio tra la Napolitano e la delegazione Pd, la novità troverebbe un positivo riscontro al Quirinale. Sul Colle, infatti, l’idea resta quella di avvio: seppur insufficiente ad assicurargli una maggioranza, il risultato elettorale ha indicato in Bersani il leader della coalizione vincente: e se dunque chiedesse per sè l’incarico per tentare di formare un governo, non vi sarebbero obiezioni. Ma il punto è: troverebbe poi una maggioranza in Parlamento? E in un quadro così, al segretario del Pd non converebbe - forse - una esplorazione preventiva, o addirittura ritagliare per se stesso il ruolo di king maker in una fase tanto complessa?
Bersani e Napolitano ne discuteranno appunto oggi: e l’incontro servirà, magari, per chiarire altre questioni sul tappeto. Una su tutte, forse: e cioè l’ipotesi che, di fronte al perdurare di una situazione di stallo, Napolitano possa passare la mano con un po’ di anticipo al suo successore. «Possibilità inesistente - spiegano fonti del Quirinale -. Il presidente ha più volte ripetuto che resterà al suo posto fino all’ultimo giorno. A meno di situazioni imprevedibili e, soprattutto, ingestibili». Come, per esempio, quella di un presidente incaricato che sciolga la riserva, vada alle Camere ma poi non ottenga la fiducia del Parlamento.
Ipotesi più di scuola che concreta: ma eventualità impossibile da escludere in una situazione ancora così confusa. Tutti i partiti, per altro, cominciano a fibrillare: Pd compreso, naturalmente, soprattutto in ragione della linea proposta da Bersani (e accolta dalla Direzione) circa l’impossibilità di unire i voti dei democratici a quelli di Berlusconi. Di fronte al perdurare del no di Grillo a qualunque alleanza, infatti, sullo sfondo comincerebbero a stagliarsi con nettezza le elezioni anticipate. Ed è questa la seconda partita che potrebbe lacerare il Pd.
Al voto quando? Alleati con chi? E con quale candidato premier? Bersani immagina di poterci riprovare, se si votasse a giugno: anche per l’impossibilità di fare nuove primarie. Ma Matteo Renzi non è d’accordo: «In un paio di settimane potremmo organizzarle», ha spiegato ai suoi. Si profila un nuovo braccio di ferro, insomma: come a dire sale su ferite ancora aperte.

Repubblica 21.3.13
Il segretario pronto a incontrare i 5Stelle “Il mio sarà l’esecutivo del cambiamento”
La proposta al Colle, ma nel partito c’è anche l’ipotesi Grasso
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Governo del cambiamento». È una proposta secca quella che Pier Luigi Bersani porterà stasera al Colle. Rivendicando non la guida per sé, ma spiegando che solo il centrosinistra, e quindi il suo candidato premier, può riuscire nell’impresa. Significa che non esistono soluzioni alternative, tantomeno maggioranze del passato come l’asse che ha retto il governo Monti con Silvio Berlusconi protagonista. «Sabato si mobilitano in piazza a Roma contro i magistrati. Un governo col Pdl? Ma di cosa stiamo parlando», dicono in queste ore a Largo del Nazareno. Per il vertice democratico la strada rimane una sola: un esecutivo con il Movimento 5stelle, con Sel, con Scelta
civica. Magari con un’astensione tecnica della Lega. Mai con il Cavaliere. Sul nome del premier, il segretario si rimetterà al capo dello Stato, com’è doveroso. Che non vuole dire aprire a un’altra ipotesi. «Si parte dal voto del 24 e 25 febbraio — dicono i suoi fedelissimi — e dal candidato di quelle elezioni. Il cambiamento può guidarlo solo Pierluigi».
Questa sono le basi su cui Bersani intende poggiare l’incarico, che dopo le prime consultazioni di Giorgio Napolitano, appare più vicino. Sul I numeri del Senato, ovvero la maggioranza che non c’è, sono il rovello del presidente della Repubblica. Lo ha ripetuto più volte ieri alle delegazioni salite al Colle. «E i voti?». Già, un problema da niente. Ieri sono venuti a mancare anche quelli di Scelta civica che preferisce un esecutivo di larghe intese. «Ma ogni giorno il quadro può cambiare», ripetono gli uomini più vicini al segretario del Pd. «E se i grillini e Monti non ci stanno, non si farà il governo del cambiamento. Ma ognuno si assumerà le proprie responsabilità». Sembrano
parole di resa, ma l’interpretazione autentica dei bersaniani è che siamo davanti a «una sfida».
Bersani la gioca senza pensare al domani, ma muovendosi a tutto campo. Sta aprendo ai suoi interlocutori su tutto: le vicepresidenze delle Camere, le presidenze di commissione, i questori dei due rami del Parlamento. Mosse disperate secondo alcuni, anche dentro il Pd. Una prova di subalternità inconcepibile e pericolosa per le istituzioni. Eppure si può avere anche un diverso punto di vista. ««Non credo stia pensando a se stesso, Pierluigi. Si sta facendo carico di nuovi equilibri. Cerca di tirare dentro le istituzioni anche chi ne è stato fuori fino a tre giorni fa — spiega Antonello Giacomelli, che pure viene dalla dolorosa rinuncia alla Camera del suo amico Franceschini — . È cambiato il mondo, il segretario ne prende atto. Bersani sta lasciando qualcosa anche per il dopo, se non dovesse farcela». Un riconoscimento pieno.
Il leader del Pd si presenta davanti al capo dello Stato con il mandato della direzione (votato all’unanimità).
Mandato che parla chiaro: dialogo con Grillo, apertura ai montiani, otto punti di programma urgenti e dettagliati, mai con Berlusconi. Dalla riunione del parlamentino democratico, sono però passati alcuni giorni e le risposte dei potenziali alleati sono tutt’altro che incoraggianti. Il segretario ha sparigliato sulle presidenze delle Camere, è riuscito ad aprire un cuneo nei 5stelle al Senato, ha dialogato fino all’ultimo con Scelta civica offrendogli la presidenza della Camera. Ma alla fine, arrivati al bivio cruciale delle consultazioni, la situazione di partenza non è mutata. Certo, anche al Senato, prima del voto su Pietro Grasso, si è navigato a vista. Poi, i grillini si sono spaccati e il Pdl è stato sconfitto. Ma la partita oggi è più complicata.
Il giorno di Bersani è arrivato. Se avrà il via libera del Colle, potrà giocarsi le sue carte nelle consultazioni da premier incaricato. Sul no al Pdl, il segretario è convinto di poter reggere evitando spaccature nel partito, anche se il segnale arrivato martedì nel voto per il capogruppo è stato ricevuto. Forte e chiaro. Una crepa nella strategia del leader. L’alternativa di Grasso per un governo istituzionale è ben presente a una larga fetta dei dirigenti Pd. Sta lì, a disposizione di Napolitano. Ci sono anche sirene per Enrico Letta, potrebbe essere a lui a guidare un secondo tentativo. Ma, raggiunto da queste voci, il vicesegretario ha fatto sapere di non aver avuto nessun abboccamento di questo tipo e che la proposta non è in campo.
Non esiste, insomma.
I bersaniani sono sicuri che il partito non dirà mai di sì a un esecutivo con il centrodestra, anche di scopo. Se si arrivasse a questo snodo, andrebbe riunita di nuovo la direzione e la conta potrebbe rivelarsi sanguinosa. Detto questo, c’è chi lavora sull’ipotesi Grasso e non crede allo show down,
cioè a elezioni immediate. Il voto che ha eletto Roberto Speranza capogruppo alla Camera dimostra che è finita la compattezza del Pd intorno all’impresa difficilissima del segretario. Ma il film può cambiare. Al Senato, sabato scorso, è già cambiato, no? Ieri Bersani ha parlato a lungo con Nichi Vendola e Riccardo Nencini, dopo i loro colloqui al Quirinale. Ha avuto la conferma che nella Sala alla Vetrata non si ragiona su piani B. Ma quello che conta sono le consultazioni di oggi e il faccia a faccia con il presidente. Il punto è agganciare Grillo. Da premier incaricato Bersani si prepara a incontrare lui e Casaleggio, come farà oggi il presidente della Repubblica. Sarà quella la «sfida» decisiva.

Repubblica 21.3.13
E sui posti chiave via libera dal Pd ai grillini questori e vicepresidenza
Lite nei gruppi sulle quote rosa, una carica anche ai montiani
di Giovanna Casadio


ROMA — «Chi ha più buonsenso lo usi». Bersani conclude il vertice del Pd sugli ultimi tasselli del puzzle istituzionale, imponendo la linea della «massima apertura» e del dialogo. Oggi il Parlamento vota i vice presidenti, i questori, i segretari di presidenza, e il leader democratico — pur ripetendo che una cosa è la partita istituzionale, altra quella per gli accordi di governo — sa che blindarsi significherebbe bruciare ogni futura chance. Quindi, sì ai questori che i 5Stelle chiedono: Laura Castelli, 26 anni da Collegno, tecnico dei bilanci alla Regione Piemonte, per la Camera (per il Pd, sarà proposto Paolo Fontanelli); e Laura Bottici per il Senato.
E nella strategia bersaniana, i Democratici sono pronti anche a cedere una vice presidenza delle Camere ai grillini e un’altra ai montiani. Lo schema è questo, alla fine di una giornata in cui si riuniscono correnti e si formano e si disfano capannelli in Transatlantico, mentre le parlamentari conducono l’offensiva delle donne. Parte la girandola di nomi, ma soprattutto i malumori, le divisioni, la rabbia degli esclusi e le perplessità sul grillismo che soffia nel partito. La schiera democratica più numerosa è quella degli “avvelenati”, di chi fa buon viso a un gioco che giudica «impazzito». Commenti a mezza bocca. Dario Nardella, vice sindaco di Renzi approdato in Parlamento, invece è esplicito: «O si cede qualcosa perché c’è una reciprocità, oppure quale è il senso? Oltretutto il ruolo di questore è estremamente delicato, il collegio dei questori decide all’unanimità, non è che si va lì per fare Wikileaks... «. In Parlamento i grillini si aggirano con l’adesivo sul bavero della giacca: “Questori uguale controllori”. «Ecco — osserva Michele Mela — è la loro ragione sociale, come si fa a dirgli di no?». A un certo punto si sparge la voce che si potrebbe congelare l’elezione delicatissima dei questori. Le discussioni sono ancora più accese. Tra i supporter di Franceschini c’è molto malcontento: «Avranno senso di responsabilità, ‘sti grillini. Qua noi diamo, diamo via tutto... «. Bersani e il capo della segreteria, Migliavacca riuniscono ieri sera i neo capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda. C’è il risiko dei nomi. E c’è la richiesta di rispettare le “quote rosa”.
Nel momento della scelta dei nuovi capigruppo, lunedì, il segretario aveva garantito che il rapporto del 40% di presenza femminile non sarebbe stato messo in discussione. Poiché fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, le deputate democratiche convocano una lunga assemblea dalla quale scaturisce una “sotto riunione” delle “under 40”. Una vice presidenza dovrà andare a una donna, del resto Rosy Bindi è la vice presidente uscente. «Ci vuole la parità tra uomini e donne alla guida della Camera e del gruppo», twitta Stella Bianchi. I nomi sono quelli di Sesa Amici, Marina Sereni, Marianna Madia, anche se Roberto Giachetti, renziano, è in pole position. L’altra vice presidenza il Pd la darebbe alla Camera o a Luigi Di Majo (indicato dai grillini) o a Andrea Romano (Scelta civica, tendenza Montezemolo). Al Senato, lo schema delle vice presidenze prevede Gasparri (Pdl); Calderoli (Lega); un 5Stelle (Orellana) oppure Scelta civica (Lanzillotta) e il Pd fino a tarda sera si giocava la partita tra Roberta Pinotti, franceschiniana, e il dalemiano Nicola Latorre. Le donne del partito sono sul piede di guerra e assai restie a rinunciare agli spazi che si sono conquistate portando acqua al mulino del partito. Scalpitano i “giovani turchi” riuniti fino a tarda sera, che si sentono non rappresentati.

La Stampa 21.3.13
La tattica spinge verso il ricorso all’esploratore
di Marcello Sorgi


Dalla nebulosa della prima giornata di consultazioni escono molte voci che parlano di un mandato esplorativo al presidente del Senato Pietro Grasso. Un modo per approfondire le effettive intenzioni dei partiti e per calmare l’attesa di Bersani, che già domani sera vorrebbe uscire dal Colle con l’incarico in tasca. In realtà, man mano che la tattica del M5S si chiarisce, si affievoliscono le possibilità che i grillini possano cambiare atteggiamento rispetto alle ambizioni del leader Pd di guidare un governo. Si vedrà stamane, quando Grillo salirà al Quirinale, qual è la sua posizione ufficiale. Ma anche ieri i suoi capigruppo hanno confermato che la richiesta a Napolitano sarà di formare un governo 5 Stelle, ciò che il Capo dello Stato non potrà accettare.
Indicative, per capire le vere intenzioni del Movimento, sono le due decisioni prese ieri a proposito dei senatori dissidenti che hanno votato per Grasso e della decisione dei presidenti delle Camere di ridursi lo stipendio del 30%. Nel primo caso, alla fine di una lunga assemblea in cui i “traditori” hanno dovuto spiegare le ragioni della loro scelta, é prevalso l’orientamento di perdonarli, anche se per loro era stata minacciata l’espulsione. In altre parole Grillo non ha alcuna intenzione di disperdere voti che potrebbero nuovamente muoversi in libertà in un Senato in cui c’è n’è un disperato bisogno per formare una maggioranza. Nel secondo caso la reazione all’annuncio dei due presidenti a «Ballarò» è stata di dire che il 30% di taglio non basta e ci vuole almeno il 50, come faranno appunto i “cittadini” a 5 Stelle con i loro emolumenti. La reazione di Grasso e Boldrini è stata fredda. Ma la lezione è stata amara soprattutto per Bersani, che pensa di conquistare consensi in quell’area attirandoli con nomi di spicco da inserire nella lista dei ministri. Il metodo di Grillo invece è non accontentarsi mai e costringere i propri interlocutori a fare i salti mortali per renderli ridicoli. La prudenza di Napolitano rispetto a questi giochi è più che giustificata. Anche se forse toccherà all’esploratore svelarli fino in fondo.

La Stampa 21.3.13
Duello tra correnti
Democratici, raffica di candidature in “rosa” per la vicepresidenza
di Carlo Bertini


In serata il pallino della roulette sembra fermarsi su questo schema: il Pd rinuncia ad uno dei due ruoli di questore per darne uno ai grillini «gratis anche se ti sparano addosso», ma si tiene due delle quattro vicepresidenze: e i due nomi più quotati sono quelli di Marina Sereni, area Franceschini e Roberto Giachetti, renziano doc, già segretario d’aula del pd molto competente su procedure e regolamenti e quindi utile a tener testa ai grillini. Ma i giochi si chiuderanno oggi e non è detto che la partita sia così risolta, visto che anche al Senato il problema è analogo e il puzzle va composto tenendo conto delle famose quote rosa. Un problema che investe tutti i partiti, compresa Scelta Civica, che vede i senatori maschi mugugnare visto che una delle cariche di vicepresidente vede favorita la senatrice Linda Lanzillotta. Nel Pd, la bagarre tutta al femminile tocca l’apice quando a metà pomeriggio si sparge la voce che la carica di vicepresidente della Camera forse sarà solo una e non due: perché delle quattro caselle sul piatto si potrebbe concederne una ai grillini, una al Pdl e una a Scelta Civica, per tenere aperte tutte le porte possibili. A quel punto si viene a sapere che «Bersani ha deciso che sarà una donna, visto che i capigruppo sono due maschi». E non solo la componente «rosa» del partito entra in fibrillazione, ma i renziani diventano sospettosi e pronti a dare battaglia, perché il patto sembra saltare. I patti infatti prevedono che a Renzi tocchi una vicepresidenza e l’equilibrio per tenere a bada i cinquanta parlamentari in quota al sindaco di Firenze è fragile. Guarda caso, proprio nelle stesse ore, al secondo piano di Montecitorio, uno dei più quotati quarantenni non nasconde tutto il suo disappunto per come è stata gestita la vicenda del capogruppo, destinata a lasciare strascichi «perché le defezioni nel voto segreto sono state un segnale ben preciso e cioé che una fronda è già pronta contro il segretario se si dovesse tornare alle urne, con metà del partito che non vuole fargli fare un secondo giro di giostra e pronto a schierarsi per Renzi». Ecco, in questo clima di veleni e sospetti, sotto il cielo del Pd le ferite si sprecano, sia sulle decisioni più contingenti, sia su quelle di là da venire, «visto che se per caso si riuscisse a formare un governo la resa dei conti interna sarebbe solo rinviata». E in tutto ciò le donne, già riunite dalle 11 di mattina, si disperdono in mille rivoli. La Moretti, portavoce di Bersani nella campagna delle primarie, chiama a raccolta le più giovani in una saletta separata, mentre le altre vanno avanti a oltranza. E a tarda sera sul tavolo restano una selva di candidature, perché in ballo ci sono pure i ruoli di vicecapogruppo e tanti sono i nomi papabili per ruoli apicali: la «giovane turca» Velo, la Madia, Sesa Amici, dalemiana, la franceschiniana Pina Picierno, la veltroniana Caterina Pes.

l’Unità 21.3.13
Roberto Speranza: «Serve una profonda discontinuità politica
Non ci si può chiedere di avviare questo processo con i responsabili dello sfascio»
«L’Italia vuole cambiare Berlusconi è il vecchio»
«Doveroso cercare punti di contato con il M5S purché questo avvenga nel rispetto reciproco»
di Maria Zegarelli


ROMA «Chi l’avrebbe immaginato? Sono due giorni che non ho più un attimo di respiro». No che non l’avrebbe mai immaginato, quando si è candidato alla Camera, di dover fare il capogruppo di quasi 300 deputati e dopo solo due giorni dalla sua elezione salire al Quirinale per le consultazioni. Roberto Speranza, 34 anni, «un giovane di lungo corso», come l’ha definito il segretario Pier Luigi Bersani, laurea in Scienze Politiche, esperienze a Londra e Copenaghen, assessore a Potenza, e poi segretario regionale in Basilicata, oggi incontrerà Napolitano. Battesimo del fuoco, roba da far tremare i polsi a chi è approdato per la prima volta a Montecitorio meno di una settimana fa. Berlusconi vuole un governo di concordia, Monti si dice auspichi quello del Presidente. Strada sempre più stretta per Bersani?
«Noi siamo molto chiari e netti nella nostra posizione: c’è bisogno di un governo coraggioso che spinga sul tema del cambiamento, questo è l’interesse del Paese. Al punto in cui siamo occorre dar vita a un esecutivo autorevole, forte, in grado di dare risposte alle richieste arrivate dagli elettori, a partire da quegli otto punti che Bersani ha illustrato».
Il M5S a tratti lascia intendere che potrebbe non ostacolare la nascita di un governo non guidato da Bersani.
«Noi non stiamo conducendo una trattativa intorno a un tavolo con una interlocuzione classica, stiamo presentando dei temi su cui confrontarci, a partire dalla necessità di battere i pugni in Europa perché durante la crisi non può esserci solo rigore. Abbiamo proposte per la riduzione dei costi della politica, l’allentamento del Patto di stabilità che sta mettendo a rischio la sopravvivenza di tante piccole e medie imprese, politiche industriali e di green economy. Chi vuole aprire un dialogo su questo? Ognuno in questa fase è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità».
Berlusconi propone larghe intese. Il tema torna. Il Pd che fa?
«Anche in questo caso siamo molto chiari: per noi il governo deve essere di cambiamento e discontinuità. È del tutto evidente che con Berlusconi, che è stato a capo del governo dal 2008 al 2011, ed è stato il dominus della politica degli ultimi anni, il Pdl non può essere la forza con cui avviare questo cambiamento. Di cosa stiamo parlando? Su questo non abbiamo avuto zone d’ombra».
Si fa largo anche l’ipotesi del governo del Presidente.
«Lei e io stiamo parlando alla vigilia delle consultazioni del Pd. Noi diremo che siamo pronti a prenderci l’incarico di formare un governo politico, forte, in grado di dare risposte concrete alle questioni che il Paese sente come le più urgenti. In questo momento storico si incrociano la più drammatica e lunga crisi economica dal dopoguerra e la più profonda crisi democratica. La risposta più efficace è un governo politico e i punti che abbiamo presentato in questi giorni all’opinione pubblica vanno in quella direzione. La nostra guida è l’interesse dell’Italia, non quello personale o di partito. Non abbiamo mai lavorato a un’ipotesi che chiudesse, come abbiamo dimostrato con l’elezione dei presidenti delle Camere, ma non ci si può chiedere di avviare questo profondo cambiamento con chi è stato al governo per anni e ha lasciato che la crisi diventasse più acuta».
Quegli otto punti presentati da Bersani parlano soprattutto al M5S. Lei, come capogruppo, spera di aprire un varco su quel fronte?
«Io parto dal presupposto che il voto di milioni di cittadini vada rispettato, noi siamo un pezzo di rappresentanza del Paese esattamente come loro. Per questo è doveroso cercare quali sono i punti di contatto, purché questo avvenga nel rispetto e nella reciprocità, requisiti indispensabili se si pensa di voler costruire un progetto utile al Paese e ai cittadini che ci hanno dato il loro voto. Lo sforzo lo dobbiamo fare tutti fino in fondo. La nostra proposta è in campo aperto, se si vogliono ridurre i costi della politica bisogna discuterne nel luogo giusto, le Camere, e non soltanto annunciarla nelle piazze. Dobbiamo confrontarci senza pregiudizi reciproci».
Se salta il piano A di Bersani, non teme per la tenuta del Pd e del suo gruppo? «Siamo un partito che ha dimostrato più volte, nei momenti difficili, di saper scegliere con responsabilità e sono convinto che alla fine riusciremo ad attuare quello che voi definite il piano A. Non ho paura per la tenuta del partito né sono tra coloro che evocano scenari apocalittici. Siamo la più grande comunità di uomini e donne nel Paese, il nostro è l’unico progetto possibile per provare a sollevare le sorti dell’Italia».
Eppure, per quello che valgono, i sondaggi raccontano di un’ascesa continua di Grillo più che del Pd. «Preferirei non sentir parlare dei sondaggi. Il voto a Grillo nasce dall’innesto di crisi economica e democratica anche per responsabilità della politica. L’unica via è quella di rimettersi in sintonia con la società sapendo cogliere i segnali che arrivano e rispondendo con atti concreti. Noi siamo in grado di farlo, malgrado i sondaggi che, vorrei ricordare, non sempre colgono quello che accade davvero. Qui siamo di fronte a un interrogativo: chi salva il Paese? Chi ci porta fuori da questa crisi, chi si assume questa responsabilità? Il Pd è pronto».
Lei è stato eletto con il 70% dei consensi, ma più di 80 deputati non l’hanno votata. Preoccupato?
«In un gruppo formato da quasi trecento deputati mi sembra un dato fisiologico con un voto segreto. Tanto più che molti di noi ancora non si conoscono, abbiamo bisogno di ulteriori momenti di confronto».
Civati ha definito la sua elezione «rinnovamento garantito, pilotato».
«Io mi pongo di fronte a questo incarico con grande voglia di lavorare, molta umiltà e una forte consapevolezza della fase politica, delicatissima, che stiamo attraversando per la quale è richiesta a tutti noi responsabilità». Franceschini le ha detto di essere a sua disposizione per i consigli. Ne ha già avuto bisogno?
«Neanche si immagina quanto. Dario ha esperienza e in queste ore mi sta insegnando parecchi “trucchi del mestiere”, ne avrò bisogno».

l’Unità 21.3.13
Camera e Senato
La spending review è cominciata
Pietro Grasso si è dimezzato lo stipendio: da 18.600 a 9.300 euro
Laura Boldrini meno 30%: da 17.760 a 12.500
di Natalia Lombardo


«Né io né Grasso apparteniamo alla casta, siamo persone normali come il 99 per cento degli italiani»: così Laura Boldrini ha risposto ieri all’ingresso di Montecitorio, di ritorno (sempre a piedi) dalle consultazioni al Quirinale. Entrambi i presidenti delle Camere si sono già autoridotti lo stipendio. Il loro piano «francescano» per la riduzione degli stipendi a deputati e senatori va avanti, e sarà sottoposto all’ufficio di presidenza di entrambi i rami del Parlamento (che sarà eletto oggi) e da questo ratificato. Nessuno dei due presidenti risponde a Beppe Grillo che, puntualmente, ha materializzato sul blog l’hashtag #fatelovoi, alzando le (perentorie) richieste: dimezzatevi lo stipendio come hanno fatto i 5 Stelle, dite se si tratta del compenso da parlamentare o dell’indennità di presidenza, infine sforbiciate voi le entrate dei parlamentari e, già che ci siete, cancellate anche i rimborsi elettorali.
Pietro Grasso lo stipendio se l’è dimezzato: in totale dai 18.600 euro netti mensili prenderà 9.300 euro netti, quindi è già arrivato alla soglia del 50% che aveva annunciato partendo dal 30%. Alcune voci, ritenute «irrinunciabili» dagli uffici parlamentari, non sono state abolite (ma diminuite anziché raddoppiate per la carica più alta). Cancellate invece altre voci: via la diaria di soggiorno, 3.500 euro, via il rimborso forfettario delle spese generali, 1650 euro e le spese per l’esercizio di mandato, 4.180. Tutte cifre nette. Grasso rinuncia anche all’appartamento a Palazzo Giustiniani e a tre autisti. In pratica, avendo già la sua scorta, rinuncia a raddoppiarla e, di fatto, avrà la metà degli uomini previsti per scortare il presidente del Senato. E ha dimezzato anche il budget per lo staff, da 1 milione e 500mila euro a 750mila annui. In generale per Palazzo Madama il presidente Grasso, che ieri ha incontrato il capogruppo M5S Vito Crimi, eliminerà i rimborsi spese a forfait: saranno possibili solo quelli con ricevute giustificabili come spese istituzionali. E per i collaboratori proporrà che siano assunti con contratti a tempo determinato.
Anche Laura Boldrini ha risposto a Grillo con i fatti: in totale riceverà un importo netto mensile di 12.500 euro, cinquemila in meno (il 30%) dei precedenti 17.760 per l’indennità parlamentare (indicata per legge) e per la diaria di soggiorno (voce «irrinunciabile»). Il taglio sarà già del 50% sul rimborso spese per l’esercizio del mandato parlamentare: 1.845 euro rispetto a 3.690; altro taglio della metà all’indennità alla carica di presidente: 1.900 anziché 3.800. Non solo, azzerate le spese accessorie di viaggio, niente rimborso delle spese telefoniche e rinuncia dell’alloggio di servizio a Montecitorio. Per lo staff e i collaboratori la cifra è scesa a 1 milione di euro lordi, da 1 milione 400mila euro. Già asciugata la «mazzetta» dei giornali: sul tavolo della neo presidente ogni mattina solo quattro quotidiani tutti stranieri, il resto è on line. E il «Laura’s style» prevede anche il pranzo nella mensa di Montecitorio anziché il ristorante, self service comunque già frequentato da Bertinotti e da Casini.
ORE DI LAVORO RADDOPPIATE
Il piano di tagli prevede anche più ore di lavoro, addio processioni di deputati e senatori con il trolley il giovedì pomeriggio in partenza per il weekend extralarge (con ritorno il martedì mattina), non più 48 ore settimanali bensì 96, il doppio, «dal lunedì al venerdì», ha detto Pietro Grasso a Ballarò, e anzi «si può fare di più», ha aggiunto. Il taglio agli stipendi dovrebbe riguardare anche i dipendenti della Camera con «retribuzioni molto alte», ha spiegato Laura Bodrini nell’intervista di Floris, ma «discussi con i sindacati».
A Montecitorio serpeggiano mugugni e preoccupazioni tra i funzionari di rango, alcuni disponibili a discuterne con i sindacati, altri vedono in pericolo diritti acquisiti. Più allarmate le segreterie, che temono il freddo di una scure sulle loro teste. Per ora si è abbattuta quella di Brunetta, capogruppo Pdl col pallino dei tornelli... chiusi per 60 collaboratori del gruppo, già messi alla porta.
Nel comunicato congiunto martedì sera erano indicate le linee guida delle sforbiciate: riduzione dal 30 fino al 50% anche per i «titolari di alte cariche interne» (presidenti di commissione, vicepresidenti etc). Via le spese di rappresentanza e mai più rimborsi forfettari: «Da che mondo è mondo sono abituato a giustificare le spese», ha detto Grasso a Ballarò.

l’Unità 21.3.13
Al Megafono gli esempi altrui non bastano mai
di Toni Jop


A GRIDARE «E LE FOIBE?» NON È ANCORA ARRIVATO, MA PROMETTE BENE: IERI GRILLO HA SPARATO CONTRO I PRESIDENTI DI CAMERA E SENATO «COLPEVOLI» DI AVER FATTO SAPERE AL PAESE CHE HANNO DECISO DI TAGLIARE I PROPRI APPANNAGGI DEL TRENTA PER CENTO. Il Megafono non ha detto: è apprezzabile. No, ha reagito come chi crede di aver fiutato puzza di bruciato, l’odore sgradevole di una manovra tutta immagine e poca sostanza. «Non è spiegato», scrive Grillo, dove opera il taglio «e questo è un particolare importante»: vuol dire che hanno preferito evitare la chiarezza e quindi stanno trotterellando disinvolti su un buco nero? Non contento, rilancia: comunque, i due presidenti devono farsi carico di provvedere a far dimezzare gli stipendi dei parlamentari e a far cancellare i rimborsi elettorali. Suggerendo, in sostanza: non credano di farla franca o di incantare con un colpo di teatro di dubbia efficacia. Bravo, così si fa quando si è all’angolo, così fa il lupo quando qualcuno lo riconosce sotto la vestaglia della nonna. Infatti, siamo ancora qui ad aspettare che le sue parole siano realtà almeno per i parlamentari grillini, e cioè che si taglino per davvero i compensi riducendo quella complessa treccia di emolumenti alla metà del totale, almeno. Non lo hanno fatto. Hanno dimezzato la voce principale, questo sì, ma tutte le voci accessorie sono rimaste dov’erano. Per questa via, a conti fatti, nelle tasche di deputati e senatori Cinque Stelle finiranno oltre undicimila euro, 3-4mila meno di quelli che alimenta i «servi», i «cadaveri putrefatti» della casta. Tutto qui? Dicono che si tratta di una soluzione tampone, che non dovrebbe durare più di due-tre mesi, in attesa di capire quale sia effettivamente la somma indispensabile per rendere accettabile la vita in trasferta dei parlamentari. Ma intanto le cose stanno così. «Restituiranno tutto», giurano, e magari sarà anche vero, ma intanto. Ecco, hanno scoperto l’«intanto», hanno abbracciato la logica dei due tempi. Ma Grillo strilla. Dovevano aprire la massima istituzione del Paese con l’apriscatole. Infatti, hanno provveduto a chiudere a chiave la loro comunicazione, affidandola a due commissari nominati dal Megafono e dal suo sceneggiatore; hanno blindato la seduta dei gruppi; hanno provveduto ad oscurare anche la penosa seduta di ieri in cui hanno imposto l’autodenuncia a chi aveva votato Grasso. E non si sono mai sognati di coinvolgere, in quelle decisioni, il loro elettorato, nemmeno quei santi dei loro militanti. Ma Grillo strilla, giudica, condanna, assolve, perdona i suoi quando comprende che se va avanti così il potere delle due badesse rischia di saltare assieme al convento. Come un Bossi qualunque.

La Stampa 21.3.13
I costi della politica, trave e pagliuzza
di Luca Ricolfi


L’ altro ieri, collegati con il programma Ballarò, i nuovi presidenti di Camera e Senato (Piero Grasso e Laura Boldrini) hanno fatto la loro prima mossa politico-mediatica. Felici e sorridenti, come due scolaretti al loro primo giorno di scuola, hanno dichiarato a milioni di telespettatori-elettori che, loro due, lo stipendio se lo autoridurranno (del 30%). Inoltre cercheranno di raddoppiare la produttività dei parlamentari, facendoli lavorare anche il lunedì e il venerdì. E infine proporranno un abbassamento degli stipendi non solo dei deputati e dei senatori, ma anche del personale di Camera e Senato, le cui retribuzioni sono «molto alte». E qui, pudicamente, hanno aggiunto che quest’ultima riduzione, coinvolgendo dei lavoratori, andrà negoziata con i sindacati.
È scontato che una mossa del genere non può che aumentare la già notevole popolarità dei due neo-eletti presidenti, di cui un po’ tutti hanno sottolineato le qualità, ma soprattutto la non appartenenza al ceto politico professionale. Saremmo tutti felici che la medesima mancanza di attaccamento ai privilegi della casta fosse manifestata un po’ da tutto il ceto politico, e non solo da chi è appena entrato a farvi parte. E tuttavia, a mio parere, la campagna per l’autoriduzione degli stipendi dei politici ha anche qualche aspetto problematico.
Non mi riferisco tanto ai contenuti delle proposte, su cui peraltro ci sarebbe da discutere (in un Paese inflazionato dalle leggi, l’idea di un Parlamento che legifera anche il lunedì e il venerdì più che un sogno è un incubo). Quel che mi lascia perplesso è la penosa gara a chi è più puro, più immacolato, meno politico, che si sta scatenando fra i politici stessi. Era già abbastanza ridicolo vedere Bersani e i suoi inseguire i grillini sul loro terreno, con la tesi secondo cui l’autoriduzione dei parlamentari del Pd a favore del partito sarebbe uguale o superiore a quella dei parlamentari grillini a favore del Movimento Cinque Stelle. Ma ho trovato semplicemente umiliante (per le istituzioni) il ping pong fra il duo Boldrini-Grasso e Grillo, con i primi che non perdono occasione per sottolineare che loro non sono casta, «come il 99% degli italiani», e il secondo che li invita a ridursi lo stipendio ancora di più (il 30% non basta, la riduzione deve essere almeno del 50%). Una conferma, se ve ne fosse bisogno, che a fare i puri si trova sempre qualcuno che si crede più puro di te.
Non mi sembra un grande inizio. Il problema dei costi della politica esiste, ma forse sarebbe meglio sottrarlo alla propaganda. Un manipolo di parlamentari che pensa di attrarre voti, suscitare consensi, o guadagnare in popolarità perché trasferisce una parte dello stipendio al suo gruppo, perché pranza al sacco, o arriva in Parlamento in bicicletta, va bene per dare un po’ di lavoro ai giornalisti e ai fotografi ma non serve a cambiare le cose. Per essere veramente utile, una riduzione dei costi della politica dovrebbe essere drastica nei redditi individuali percepiti, ma soprattutto ampia nella platea dei destinatari. Drastica negli emolumenti perché solo così si terrebbero lontani dalla politica quanti abbracciano tale carriera solo per i redditi che offre. Ampia nel numero di soggetti toccati perché solo così le risorse che si potrebbero risparmiare avrebbero un impatto macroeconomico non trascurabile (diversi miliardi di euro). Da questo punto di vista le (poche) autoriduzioni volontarie di alcuni politici in vista servono a ben poco, mentre molto servirebbero leggi che agissero anche sull’immenso arcipelago di politici locali, consulenti, faccendieri, fornitori, ditte appaltatrici, personale di servizio, ex politici in pensione. Giusto per dare un ordine di grandezza, l’apparato complessivo della politica ci costa almeno 20 volte l’ammontare totale degli stipendi dei parlamentari. I cittadini paiono vedere assai bene la pagliuzza dei costi del Parlamento, ma sembrano ben poco attenti alla trave dell’apparato politico considerato nel suo insieme.
Da questo punto di vista hanno fatto assai bene i nuovi presidenti della Camere, dopo la boutade un po’ piaciona dell’autoriduzione, ad attirare l’attenzione sui costi e sui privilegi del personale che ha la fortuna di lavorare al servizio della politica anziché di una normale impresa privata. Vedremo se i sindacati sapranno raccogliere la sfida, o ripeteranno anche questa volta il solito copione, secondo cui sono solo i dirigenti e gli alti funzionari a doversi fare carico dei problemi della Pubblica Amministrazione. Ma vedremo, soprattutto, se la politica – oltre a trovare il coraggio di ridurre i propri costi – troverà la chiarezza per indicare su quale obiettivo intende convogliare le risorse così liberate. Sapere che, come oggi accade, le (rare) rinunce dei singoli finiscono nelle casse di un partito, di un movimento o di un gruppo parlamentare ci conforta ben poco. Molto più ci conforterebbe sapere che i risparmi sono regolati da una legge, sono ingenti, e permettono all’Italia di risolvere almeno uno dei suoi innumerevoli problemi.

La Stampa 21.3.13
Vento anticasta I tagli ai dipendenti agitano le Camere
I funzionari: “Siamo una risorsa della democrazia” L’obiettivo dei presidenti è il dimezzamento dei costi
Il bilancio del Parlamento è di 1,5 miliardi di euro
Gli stipendi dei lavoratori valgono 241 milioni
di Francesca Schianchi


Quando, martedì sera da «Ballarò», la presidente della Camera Laura Boldrini ha parlato di «chiedere sacrifici anche ai dipendenti, perché qui gli stipendi sono molto alti», sul telefonino di Cristiano Ceresani hanno cominciato a fioccare sms interrogativi di colleghi. Lui, da quattro anni segretario dell’Associazione consiglieri parlamentari, 41 anni, entrato alla Camera 14 anni fa, ieri in Transatlantico si limitava a sorridere: «La presidente ha detto di voler fare tutto con la collaborazione dei sindacati. Aspettiamo sereni di incontrarla, con la massima apertura, anche noi vogliamo innovare». È così: non solo deputati e senatori, nel clima di rinnovamento anticasta ci finiscono pure loro, i dipendenti dei Palazzi.
I neo presidenti, Boldrini e Grasso, l’hanno già annunciato: si tagliano i propri stipendi del 30%, e propongono l’obiettivo di portare il risparmio dei costi della politica fino al 50%. Buoni propositi su cui però Beppe Grillo, dal suo blog, chiede chiarimenti ulteriori («quale stipendio? Si tratta di quello da parlamentare o dell’indennità aggiuntiva per i presidenti di Camera e Senato? ») e passi avanti ancora più decisi: «Chiedete il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari e la rinuncia dei rimborsi elettorali».
Questione da tempo dibattuta, quella dei costi dei Palazzi, macchine complicate con un bilancio che si aggira sul miliardo di euro per Montecitorio e circa 500 milioni per il Senato. Nel bilancio preventivo del 2012 della Camera si prevedevano circa 88 milioni per le indennità dei deputati, circa 75 per i rimborsi spese: lo stipendio mensile per ciascun eletto è composto di varie voci, oltre all’indennità (5mila euro netti circa), c’è la diaria (3500), il rimborso spese per l’esercizio del mandato (3690), più altri soldi attribuiti per viaggi e trasporti (3323 ogni tre mesi per chi abita entro 100 km da un aeroporto, 3995 per chi abita più lontano), e una quota annuale per le spese telefoniche di 3mila euro.
Ma nel bilancio ci sono anche 241 milioni previsti per il personale. Così, anche le oltre 1500 persone che lavorano a Montecitorio, avverte la presidente, dovranno fare sacrifici. Figure che sono le più varie, e che hanno stipendi iniziali anche molto diversi: un consigliere parlamentare parte da 2920 euro netti, un documentarista da 1876, un assistente parlamentare, più spesso impropriamente definito «commesso» da 1690, un operatore tecnico da 1491. Ma con ritmi di crescita negli anni che, ammette un ex questore che le cifre le conosce bene, il Pd Gabriele Albonetti, «sono più alte che nel resto della Pubblica amministrazione».
Per questo, già avevano pensato a intervenire. «Nella scorsa legislatura avevamo preparato una delibera per tagliare del 20% le curve degli stipendi, d’intesa con l’Ufficio di presidenza del Senato, che però non ha mai deliberato», spiega Albonetti. «Basterebbe che il nuovo Ufficio di presidenza di Palazzo Madama la approvasse».
A Montecitorio, per ora nessuno commenta il rischio di nuovi tagli. Sono una decina le sigle sindacali: oltre a Cgil, Cisl e Uil, ce ne sono varie di categoria. Ceresani, che guida l’associazione dei consiglieri, più o meno 190 persone con competenze giuridiche ed economiche, non vuole dichiarare nulla sul futuro, ma ci tiene a sottolineare come «segnali» siano già stati dati in passato: «Abbiamo fatto due riforme pensionistiche, abbiamo applicato il contributo di solidarietà e lo abbiamo esteso fino al 2015, bloccato gli adeguamenti retributivi sempre fino al 2015 – elenca tagliato del 10% le indennità di funzione e contenuto il personale di ruolo: da 1950 persone a 1550 circa. Molti di noi avevano vinto concorsi all’Avvocatura dello Stato, al Tar, in magistratura, e hanno rinunciato per stare qui», ricorda. Ora, potrebbero arrivare nuovi provvedimenti. Se dovranno adeguarsi ai tagli, si vedrà. Di certo, non amano sentirsi definire casta. «Non ci riteniamo un costo della politica, ma una risorsa della democrazia».

Repubblica 21.3.13
Onorevoli tra rabbia e rassegnazione “Alla fine arriveremo a paga zero”
Fioroni: agire sulle indennità. Razzi: poi mi ospitano loro
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Rieletto per miracolo, Antonio Razzi stringe i pugni come per difendere il biglietto della lotteria che si è ritrovato tra le mani: «Grillo propone di ridurci lo stipendio a 5 mila euro lordi. È impossibile, a meno che non andiamo a dormire in un sacco a pelo. Oppure possono ospitarci i grillini a casa loro...». L’uomo che salvò Silvio Berlusconi nel 2010 contesta in Transatlantico la linea del leader del M5S: «Io già vado a dormire in un albergo a una stella che ha appena appena il bagno. Mi adatto perché vengo dal mondo operaio, altrimenti non mi rimane una lira. Ma chi è stato imprenditore come fa?». La domanda rimbomba in Parlamento, tra deputati appesi al filo di consultazioni complicatissime. E innervosisce: «A un grillino ho detto: “Non è che viviamo al paesino, qui si paga anche l’aria. Prima di fare queste proposte state sei mesi a Roma, poi ne riparliamo”».
Il confine tra sacrosanta austerity e demagogia spinta è sottile. Rincorrere Grillo praticamente impossibile. Lo sa Gianfranco Rotondi, capofila di chi sembra rassegnato allo tsunami dell’antipolitica: «Possiamo anche dimezzarci lo stipendio - sorride il democristiano convertito al berlusconismo - ma sarà sempre troppo poco. Dobbiamo prima riconsacrare il Parlamento, poi parliamo della retribuzione». L’ex ministro, in verità, la prende con ironia: «Cinquemila lordi? Non ho più questo problema. Berlusconi non ha ricandidato i miei amici De Luca e Cutrufo, che versavano tremilacinquecento euro al mese alla Dc. Ora l’onere è tutto mio, sono deputato a titolo gratuito. Quando finirò di pagare vi dirò come si campa con cinquemila euro lordi al mese...».
Quando nomini Grillo, il deputato democratico Beppe Fioroni si irrigidisce. E prova a ribaltare i termini del problema, partendo dall’autoriduzione annunciata dai presidenti delle Camere: «Li invito a prendere in considerazione le indennità aggiuntive dei deputati, per vedere se è il caso di tagliarle: segretari di presidenza, commissioni, vicepresidenze». E se invece la ghigliottina calasse sui peones, senza distinzioni: «Io faccio il medico, opterei per il mio stipendio. Sempre che non cambino la legge».
Al Senato, visti i numeri, tira un’aria peggiore. Eppure il pidiellino Lucio Malan sembra sereno: «Noi sosteniamo la riduzione. Resta singolare lo sfoggio di pauperismo da chi come Grillo guadagna 5 milioni all’anno o da chi prende pensioni statali da 20 mila euro al mese». Riduzione, ma non salasso: «Bisogna capirci: se sono cinquemila lordi con una parte esentasse, va bene. Ma così sarebbero duemila netti. Con questo approccio demagogico si arriva a dire che la paga deve essere zero!». Infine fa di conto: «Con l’azzeramento totale delle retribuzioni ci sarebbe un beneficio di trenta centesimi al mese per ogni italiano...».
L’unica che non sembra temere la mannaia a cinque stelle è la giovane deputata Pd Marianna Madia: «Io sono d’accordo, ma è riduttivo parlare di una sola voce. Spero ci sia trasparenza anche sulle indennità di funzione. La nostra proposta è di equiparare l’indennità a quella dei sindaci». Non la insegue Aldo Di Biagio, eletto nelle liste di Scelta civica: «Su tutto si può ragionare, ma a breve Grillo si renderà conto di quanto sia complicato il nostro compito: l’importo non è stretto, ma almeno giusto. Sono ben altri gli stipendi nel Paese che devono essere rivisti».
Dall’alto delle sei legislature consumate tra i banchi della Camera, Pino Pisicchio non nasconde il fastidio di chi pensa di meritare la paga di fine mese: «Vivere con cinquemila lordi? Mi rifiuto di fare questo ragionamento, c’è gente che campa con molto meno. Io ribalto il ragionamento e domando: come perimetriamo le remunerazioni di chi onestamente e studiando è impegnato in forme di rappresentanza? Se si sparano numeri, c’è sempre un numero più basso da sparare».
E i grillini, cavie della drastica riduzione? Angelo Tofalo, giovane campano del movimento, attende immobile: «Ti rispondo tra un mese, quando avrò preso il primo stipendio».

Repubblica 21.3.13
Finanziamento pubblico
Perché monta la protesta contro i costi della politica
di Sebastiano Messina


La legge fu introdotta nel 1974 in seguito allo scandalo dei petroli che aveva coinvolto le forze politiche del centrosinistra
Dopo l’abrogazione del 1993, sono stati inventati i “rimborsi” una formula ipocrita che nasconde molti più fondi di prima

Tutto cominciò con lo “scandalo petroli”. Era il 1974 e sui quotidiani del 14 febbraio la notizia del giorno era che il pretore Mario Almerighi aveva chiesto l’autorizzazione a procedere contro i segretari amministrativi dei quattro partiti di governo – Dc, Psi, Psdi e Pri – sostenendo di avere prove sufficienti a dimostrare che l’Enel e le compagnie petrolifere avevano versato al quadripartito “ingenti somme di denaro”. Tre settimane dopo, il presidente del Consiglio Mariano Rumor presentò le dimissioni (per quanto incredibile possa sembrare al giorno d’oggi, c’è stato anche in Italia un tempo in cui la scoperta di un caso di corruzione provocava la caduta del governo).
Mentre arrossivano per la vergogna di essere stati scoperti, i partiti si domandavano come avrebbero potuto rimpiazzare quell’inconfessabile sorgente di denaro. La risposta fu trovata rapidissimamente: con il finanziamento pubblico. Inattaccabile la motivazione: se vogliamo evitare la tentazione di farci corrompere, dobbiamo poter contare su un contributo alla luce del sole. La legge, stesa dal futuro segretario democristiano Flaminio Piccoli, fu approvata a tempo di record: in sedici giorni finì sulla Gazzetta Ufficiale.
Ebbe così inizio la lunga e non proprio limpida storia del finanziamento pubblico ai partiti. Con cifre, diciamolo subito, assai diverse da quelle di oggi. Nel 1976 alla Dc toccarono 5,1 miliardi di lire, e al Pci 4,6 miliardi. Briciole, se confrontate ai 57 milioni 974 mila euro (in lire: 112 miliardi 295 milioni) che il solo Partito democratico ha ricevuto nel 2011. Ma erano gli anni in cui tutti sapevano che i partiti stavano in piedi grazie ai finanziamenti sottobanco che arrivavano non solo dai petrolieri ma anche dai comunisti sovietici, e dunque ci fu davvero chi si illuse che quei soldi pubblici interrompessero il torbido fiume di denaro nero che alimentava la politica. Così il primo referendum abrogativo, nel 1978, fu bocciato: i Sì si fermarono al 44 per cento.
Poi però esplose Tangentopoli, e gli italiani non credettero più all’effetto moralizzatore di quei contributi miliardari. E nel 1993, con il secondo referendum promosso dai rasca
dicali, diedero una sberla ai partiti: l’abrogazione passò con il 90,3 per cento. Sembrava la fine della storia. E invece no. Abolito il “finanziamento pubblico”, nel 1993 i partiti si sono inventati i “rimborsi elettorali”: 1600 lire per italiano, e calcolando non i votanti e nemmeno gli elettori, ma tutti gli abitanti della penisola, inclusi i neonati.
Ed era solo la prima crepa nella diga del referendum, una crepa che tutti – esclusi i soliti radicali – hanno lavorato per allargare. Prima la beffa del 4 per mille, così imbarazzante
che non si è mai saputo quanti furono gli italiani a barrare quella casella. Poi l’aumento da 1600 a 4000 lire. Quindi, con l’euro, la conversione con raddoppio e generoso arrotondamento: da 4000 lire a 5 euro. Infine la clausola beffa che permetteva di continuare a incassare i contributi annuali per cinque anni, anche se la legislatura finiva al secondo.
C’è voluto un doppio scandalo, quello che ha investito prima il tesoriere della Margherita Luigi Lusi (sotto processo per essersi messo in tasca 25 milioni) e poi quello sulla gestione allegra dei fondi della Lega Nord che è costato la cadrega a Umberto Bossi per costringere i partiti a tagliare i rimborsi elettorali. E così il montepremi è sceso da 469 a 159 milioni.
Basterà, pensavano Bersani, Casini e Alfano. E invece no, perché altre cifre scandalose sono venute a galla, da Roma a Milano, rafforzando negli elettori la convinzione che nell’Italia degli esodati e dei nuovi poveri c’è ancora una casta che spende per i suoi vizi il denaro dei contribuenti.
Risposta canonica dei partiti: in tutta l’Europa si fa così. Certo, ma gli inglesi, per esempio, spendono molto meno (dodici volte di meno, per l’esattezza) e quei 12 milioni di euro li danno solo ai partiti d’opposizione. E in Germania, la nazione che si avvicina di più alle nostre cifre, i controlli sono rigorosissimi e chi viene scoperto a imbrogliare si fa cinque anni di carcere (se poi è il leader del partito ha chiuso con la politica, anche se si chiama Helmut Kohl).
Del resto, gli stessi rendiconti dei partiti hanno rivelato l’ipocrisia della dizione “rimborsi elettorali”, perché nel 2008 le spese reali per le campagne politiche sono risultate pari a un terzo (Pdl), un decimo (Pd) o addirittura un dodicesimo (Lega) del contributo ricevuto dallo Stato. E con gli altri soldi, cosa ci fanno? Il partito meglio organizzato, il Pd, nel 2011 ha speso quasi 13 milioni per il personale – 180 dipendenti, secondo un dossier preparato da Matteo Renzi – 25 milioni per “servizi” e “attività di propaganda”, 3,7 milioni per “altri costi operativi” (viaggi, alberghi, ristoranti eccetera) e 14 milioni per “contributi ad associazioni” (le strutture periferiche). Tutte spese che vengono pagate solo con i “rimborsi elettorali” (58 milioni) più 5 milioni e mezzo di “altre contribuzioni”, che vengono dai 1500 euro che ogni parlamentare versa ogni mese al partito. Punto e basta, perché il ricavato del tesseramento rimane in periferia.
Perciò, quando Grillo lo invita a fare come lui, rinunciando al finanziamento pubblico, Bersani sa che accettare quella sfida sarebbe, per il suo partito, una vera rivoluzione. Una rivoluzione francescana.

Repubblica 21.3.13
La democrazia aperta a tutti
di Piero Ignazi


La soluzione non sta nell’abolizione, piuttosto bisogna limitare drasticamente le somme distribuite, introdurre controlli rigorosi e vincolare le spese a obiettivi di utilità civica e sociale

A partire dagli Settanta, in tutta Europa sono stati adottate forme di finanziamento pubblico ai partiti politici. La Germania ha fatto da battistrada introducendo fin dal 1967 una legge sui partiti che definiva compiti, funzioni e modalità organizzative interne congruenti con i principi democratici, e collegava al rispetto di queste prescrizioni l’erogazione di generosi fondi statali. Con l’eccezione della Svizzera e, parzialmente, della Gran Bretagna, oggi i paesi europei finanziano, a vario titolo, i partiti politici. Come mai questo quasi unanime riconoscimento della opportunità di sostenere economicamente la vita dei partiti?
Sostanzialmente perché, ovunque e non solo in Italia, i partiti si sono profondamente trasformati. Negli anni d’oro della politica di massa – gli anni Cinquanta – i partiti reclutavano e mobilitavano ampi strati della popolazione e traevano da loro forza, legittimità e anche sostegno economico attraverso tanti piccoli contributi a cui se ne aggiungeva, eccezionalmente, qualcuno più sostanzioso. Le trasformazioni sociali e culturali dell’ultimo quarto del secolo scorso hanno ridotto la base di riferimento dei partiti e, di conseguenza, anche il flusso finanziario. Per questo i partiti si sono rivolti allo stato. Per poter mantenere in vita le loro organizzazioni avevano bisogno dell’intervento pubblico. In linea generale i partiti godono di finanziamenti sia diretti, per la loro vita ordinaria e per le attività nelle istituzioni (rimborsi elettorali e contributi ai gruppi parlamentari e consiliari di vario livello), che indiretti.
Questi ultimi comprendono la concessione gratuita di beni pubblici (dalle sedi per promuovere iniziative all’accesso ai media, dalle spese postali ai contributi per la stampa), l’erogazione di contributi “vincolati” a specifiche attività (come le fondazioni culturali tedesche attivate dalle varie forze politiche), e benefit fiscali di vario tipo.
La ragione di questa generosità “universale” sta nel riconoscimento della funzione tuttora essenziale dei partiti: essi sono considerati – e di conseguenza normati per legge in tanti paesi – come delle “agenzie pubbliche” che svolgono per conto dello stato la decisiva funzione di aggregare e articolare il consenso dei cittadini presentando candidati alle elezioni. Affinché i partiti svolgano al meglio questa funzione di interesse collettivo devono essere sostenuti, anche economicamente. Il punto dolente è come e quanto.
In Italia i rimborsi previsti della legge hanno raggiunto livelli iperbolici, generando sprechi, corruzione e, infine e giustamente, un’onda di protesta. Ma il rimedio non è l’eliminazione del finanziamento che lascerebbe in mano a pochi, ricchi donors e a potenti lobby una capacità di influenza esorbitante. La possibile soluzione, oltre ovviamente a maggiore parsimonia nei contributi pubblici, è quella del controllo delle spese e del loro vincolo a buone pratiche. Oggi i bilanci dei partiti sono più opachi di società offshore delle Cayman; non esiste un organo terzo autorevole che li esamini; non esistono sanzioni pesanti come la decadenza dalla carica se un eletto supera il tetto delle spese consentite e certificate, adottata in Francia; non esiste nessuna connessione tra contributi e modalità organizzative interne democratiche come in Germania. Il denaro non è “lo sterco del diavolo”: va utilizzato laicamente, adottando norme di stampo europeo che assicurino trasparenza e rispondenza dell’uso dei soldi ed anche della vita interna dei partiti.

Repubblica 21.3.13
Ma quei soldi sono una droga
di Marco Revelli


Non è solo un problema del nostro Paese ma queste quantità di denaro aumentano in misura esponenziale in ogni parte del mondo
Rinunciarci sarebbe una purificazione

Personalmente credo che sarebbe una buona idea, per Pier Luigi Bersani, accettare di restituire quei 45 milioni di cosiddetti “rimborsi elettorali”. E un buon esercizio mentale, per tutti noi, provare a immaginare un drastico taglio dei “costi della politica”: non solo del finanziamento pubblico, ma in generale del flusso di denaro da cui i partiti politici sono diventati dipendenti, come un tossico dipende dalla propria droga. Credo infatti che il rapporto patologico tra politica e denaro sia diventato, oggi, una questione mortale per la nostra democrazia, sintomo e insieme causa della sua crisi.
Si dirà che quelle poche centinaia di milioni di euro di “rimborsi” sono una goccia nel mare del nostro gigantesco debito pubblico. Che la loro eliminazione non risolverebbe i nostri problemi economici. Ed è vero. Ma, intanto, occorrerebbe tener conto di tutte le voci che contribuiscono a formare il budget dei partiti, aggiungendo alla punta dell’iceberg del finanziamento diretto l’enorme massa di quello indiretto: i 250 milioni annui erogati a deputati e senatori; i circa 3 miliardi investiti annualmente per i centocinquantamila appartenenti agli organi rappresentativi regionali, provinciali e comunali, e gli altri 3 miliardi destinati allo sterminato esercito dei titolari di incarichi o consulenze per le amministrazioni pubbliche, reclutati in base alle rispettive
appartenenze partitiche; oltre ai 2 miliardi spesi per i 24mila membri di nomina politica delle circa settemila società partecipate. E poi, come in ogni buona analisi economica, bisognerebbe tener conto del trend, davvero esplosivo, del fenomeno: la campagna elettorale del 2008 è costata alle casse pubbliche dieci volte di più di quella del 1996!
Intendiamoci, la tendenza è generale, riguarda tutte le democrazie occidentali (anche se in Italia, come al solito, si manifesta in forma abnorme). Kennedy e Nixon, nel 1960, avevano speso rispettivamente 9,7 e 10,1 milioni di dollari; Obama e Romney, nel 2012, ne hanno investiti 2 miliardi… In Francia il finanziamento pubblico ai partiti è cresciuto, nel corso degli anni ’90, del cinquecento per cento. Nemmeno la sobria Germania si salva: nel 1959 il finanziamento diretto era di cinque milioni di marchi, alla vigilia dell’entrata nell’euro era salito a oltre trecento milioni, e si calcola che con quello indiretto oggi si giunga a circa un miliardo e mezzo di euro.
Ovunque la quantità di denaro necessaria ai partiti politici aumenta esponenzialmente, in proporzione diretta, potremmo dire, alla loro crisi di fiducia e alla difficoltà di procurarsi, con mezzi politici, il consenso necessario a svolgere il proprio ruolo di rappresentanza. Ciò che un tempo si producevano da sé – la fedeltà dei propri militanti e dei propri elettori, l’immagine pubblica connessa ai propri valori e alla propria cultura politica –, oggi se lo devono procurare sul mercato. Detto volgarmente, se lo devono comprare, pagando una pletora di seguaci-dipendenti, e acquistando di volta in volta, con operazioni di marketing, la propria immagine di fronte a un elettorato scettico e volubile. Così come l’economia reale si è finanziarizzata, producendo quello che Luciano Gallino ha definito il finanz-capitalismo, allo stesso modo la politica si monetarizza, in una sorta di finanz-democrazia.
Per questo i termini classici del dibattito sul finanziamento pubblico non valgono più: se un tempo esso serviva per liberare la politica da vincoli di mercato, oggi esso sancisce la riduzione della politica al mercato. La sua mercatizzazione. E vanno per questo motivo ripensati.

il Fatto 21.3.13
Boom al Quirinale, prima volta di Beppe
Al Capo dello stato chiederanno un governo Cinque Stelle
Ma un nome non c’è
di Paola Zanca


“Giorgiu u sintisti u bum? ”. Se fosse lì, stamattina, Salvo Mandarà la domanda al Presidente la farebbe in siciliano. Invece, l’uomo che si è messo in aspettativa dal lavoro per fare il megafono dello Tsunami Tour, questa volta resta a casa. Davanti ai corazzieri sfilano, alle 9 e mezza, Beppe Grillo, Vito Crimi e Roberta Lombardi. Ma nelle stanze del Quirinale la diretta streaming non si fa (per la verità, nemmeno in molte della Camera: ieri, dell’ennesima riunione durata sei ore, non è andato on line nemmeno un minuto). A quanto raccontano, ci sarebbe anche poco da vedere: i Cinque Stelle salgono al Colle con lo stesso spirito con cui sono saliti sul palco delle piazze di mezza Italia. Non lo chiamerà Morfeo, come ha fatto per anni sul blog, ma al suo “presidente”, come lo chiama adesso, ripeterà la solita storia: nessuna fiducia, nessun accordo. O noi, o niente. Il governo del Movimento però è talmente improponibile che non ha nemmeno un nome. Se mai Napolitano dovesse dargli una chance, dicono, la squadra da proporre arriverebbe solo tra qualche giorno. Ma chi la voterebbe? I grillini entrati in Parlamento non si pongono il problema: “Non mi si dica che non abbiamo la maggioranza, poiché nessuno ha la maggioranza: né Pd né Pdl”; dice il senatore campano Sergio Puglia. Ieri, anche lui è stato chiamato a dichiarare il suo voto sulla presidenza di palazzo Madama davanti al tribunale dei deputati. Li hanno chiamati tutti lì, nella sala della Regina, per un sommario processo. Hanno risposto alle domande dei colleghi che, “a stragrande maggioranza”, hanno votato la fiducia agli otto dissidenti. Non senza malumori. Una deputata è uscita dalla sala visibilmente nervosa spiegando a un collega quello che stava succedendo dentro: “Sta dicendo che stava per lasciare scheda bianca ma poi non se l’è sentita” (e ha scritto il nome di Grasso, ndr) A quel punto mi sono dovuta allontanare, ho preferito uscire”. Come lei, hanno fatto un’altra quindicina di parlamentari, mentre sono poco più di dieci quelli che hanno votato per la cacciata dei traditori, gli stessi che avevano sottoscritto e proposto la mozione di sfiducia.
La seconda opportunità è stata concessa, la terza non ci sarà: qualcuno già trema all’idea che Pietro Grasso possa essere ripresentato come incaricato di formare il governo. Hanno discusso anche di questo ieri, ma senza portare ai voti nessuna posizione. Il primo giro di consultazioni si fa così, con l’improbabile governo Cinque Stelle in mano, convinti che dietro ogni “illuminato” della società civile ci sia sempre l’ombra di un partito voglioso di sedurli. L’ipotesi di fare un nome è stata discussa, ma pare che la decisione sia stata rinviata, almeno fino all’incontro di ieri sera tra il leader Cinque Stelle e i capigruppo.
IERI MATTINA, Grillo è partito da Genova, direzione Roma, con tappa a Milano, per un’intervista al quotidiano canadese Toronto Star. Fino alle 22, però, non si è visto all’hotel S. John, dietro piazza San Giovanni, lo stesso scelto dopo la tappa conclusiva del tour. Dalle porte scorrevoli è uscito solo il senatore Francesco Campanella uno di quelli che ha rivendicato il voto a Grasso con le valigie in mano, ufficialmente diretto “a cena”. Grillo dovrebbe tornare nella villa di Sant’Ilario già oggi, visto che è atteso dagli attivisti genovesi riuniti da ieri in assemblea. Non prima, secondo gli annunci, di aver accompagnato Crimi e la Lombardi dall’ambasciatore americano David Thorne, lo stesso che tre giorni fa ha elogiato il leader del Movimento davanti agli studenti di un liceo romano.
Gli eletti, intanto, continuano la battaglia per ottenere un questore. Ieri, giravano per il Transatlantico con l’adesivo: “Questore=controllore”. Oggi l’aula voterà le cariche dell’ufficio di presidenza. I democratici dovrebbero dire sì ad almeno un loro candidato.

il Fatto 21.3.13
Claudio Messora
Il voto al Cav, l’Aids, l’inchiesta. La vita precedente del blogger


Un post dal titolo “La grande balla dell'Hiv”. Era il 14 febbraio del 2012, quando Claudio Messora, responsabile della comunicazione del Movimento 5 stelle, pubblicava sul suo blog Byoblu un articolo sulla teoria secondo la quale l'Aids non è una malattia causata da un virus e non è contagiosa. Allora ci furono solo tanti clic a molti commenti in coda al pezzo. Oggi, invece, con Messora fresco di nomina nel gruppo di senatori del Movimento 5 stelle, su quell'articolo si scatena la polemica politica.
Il primo a presentare il conto di quel pezzo, tuttora disponibile in rete, è il senatore Pd, Sergio Lo Giudice. L'ex presidente di Arcigay chiede al blogger di chiarire. “Messora promuoveva la teoria secondo la quale l'Aids non sarebbe causata dal virus dell'Hiv, ma da stili di vita sregolati. Finché era un libero cittadino rimaneva un'opinione personale, ma visto che ora Messora ha assunto una carica istituzionale e che rappresenta un pezzo del Parlamento italiano, dovrebbe prendere le distanze da un certo tipo di pensiero”.
NEL POST sotto accusa, Messora dà spazio al documentario “La scienza del panico”, realizzato nel 2009 dalla spagnola Isabel Otaduy e l'italiana Patrizia Monzani. Un filmato parecchio diffuso sul web, bandiera di chi è convinto che l'Aids non sia altro che un pretesto per salvare il business de laboratori specializzati negli studi del retrovirus, e per alimentare il mercato dei farmaci. “Al di là del convincimento di ognuno, quella teoria porta un messaggio pericoloso, perché disincentiva la prevenzione, già difficile in questo Paese”, punta il dito Lo Giudice. Ma per il neo comunicatore dei grillini, la tesi sulla diffusione dell'Aids non è l'unico terreno scivoloso. Da quando è stato mandato a Roma da Grillo, la carriera del blogger viene ovviamente passata al setaccio. Emerge così che Messora è finito nel registro degli indagati per un atto d'ufficio, in seguito a una denuncia dei Pirati italiani di Marco Marsili (gli stessi che prima delle elezioni presentarono un simbolo civetta uguale a quello dei 5 stelle, mettendo a rischio la partecipazione di Grillo alle politiche). La vicenda risale a gennaio, quando Messora pubblica sulla sua pagina una mail ricevuta da sedicenti attivisti di Anonymous, con gli screenshot di conversazioni private avvenute tra alcuni attivisti dei Pirati italiani. Marsili si rivolge agli avvocati, e parte l'inchiesta. “Un fantastico giro del fumo che con tutta probabilità non porterà da nessuna parte”, si difende oggi Messora. “Ci faremo una grande risata”, dice all’Ansa. Come se non dovesse bastare il lungo curriculum, da giorni su Twitter c'è anche chi lo ricorda come un berlusconiano pentito. E cita un antico pezzo, dove lo stesso Messora ammetteva di aver votato il Cavaliere per ben due volte, salvo poi ricredersi e addirittura chiedere scusa per l’abbaglio. Il post è scomparso dalla pagina di Byoblu, ma la rete non dimentica. Messora dovrebbe saperlo bene: è anche il motto dei Cinque stelle.

l’Unità 21.3.13
I comunicatori M5S ammutoliti
I parlamentari: non ci servono
Giallo su un’indagine per ricettazione a carico di Messora
I neonominati capo-comunicazione non vogliono più parlare e insultano i giornalisti
di Claudia Fusani


Questa storia della comunicazione sta diventando un problema serio per il pianeta Cinque stelle. I neonominati capi della comunicazione grillina sono in silenzio stampa dopo appena 24 ore di incarico con motivazioni, almeno dal punto di vista lessicale, abbastanza violente che definiscono i giornalisti variamente come «spalamerda» o «pseudo-omuncoli che sputtanano tutta la categoria». Claudio Messora e Daniele Martinelli, i blogger preferiti da Casaleggio ma ignoti alla maggior parte dei cittadini-portavoce-parlamentari M5S, mostrano un pronunciato nervosismo di «ruolo», vittime forse di quel «delirio di onnipotenza» indicato come il diavolo e satana nei conciliaboli grillini, il pericolo più grave della nuova dimensione politica romana. Vittime, anche, forse, di qualche guaio giudiziario che sta assumendo le tonalità del giallo. Nel sito La Voce d’Italia si racconta di un’indagine avviata dalla procura di Monza in cui Claudio Messora, noto nel web come Byoblu, sarebbe indagato per «ricettazione, violazione, sottrazione, e rivelazione del contenuto di corrispondenza». Il blogger, continuano le rivelazioni di La Voce d’Italia, «sarebbe indagato insieme a un altro giornalista nell’ambito di un procedimento penale nei confronti di hacker legati al Movimento 5 stelle. Sarebbe anche imminente l’apertura di un fascicolo a carico di una cinquantina di attivisti grillini per minacce (anche di morte): il braccio violento del movimento, che nè Messora, nè Martinelli racconteranno mai». La procura di Monza però non conferma alcuna indagine di questo tipo. L’interessato, Messora, parla di «cazzoni ad orologeria» in riferimento ai personaggi coinvolti nella divulgazione. E alla fine sotto ci sarebbe “solo” una guerra tra blogger.
Ma insomma, indagini a parte e scongiurando scenari circa «un braccio armato grillino che si muove rigorosamente sul web», tutto questo non piace né poco né punto ai deputati e senatori Cinquestelle. A cui l’idea di avere sulla testa «commissari capi della comunicazione» con la funzione di «ottimizzare per evitare fraintendimenti» non piace affatto. «Perchè non è prevista nel contratto che abbiamo firmato, perchè la parola ottimizzare non ci piace visto che non siamo una catena di montaggio e perchè abbiamo già i nostri portavoce» dice nel pomeriggio in zona buvette a Montecitorio un onorevole grillino che stranamente parla ma chiede di essere «virgolettato come fonte vicina al Movimento».
La cronaca della giornata racconta bene di come stanno cambiando umori e posizioni. Si comincia a fine mattinata con Messora e Martinelli che attaccano a testa bassa giornalisti e stampa: «Basta, non parliamo più». Scrivono due post separati sui profili Facebook ma analoghi nella sostanza. «La macchina del fango è entrata subito in azione lamenta Messora In mancanza di una ben precisa notizia di crimine da addebitare, sono passati alla diffamazione creativa: usano titoli che poi gli stessi articoli richiamati smentiscono». Messora si rivolge ai «giornalisti onesti», invitandoli ad «iniziare una guerra di liberazione da questi pseudo-omuncoli che sputtanano tutta la categoria. Se il Movimento Cinque Stelle non parla con nessuno (e d'ora in poi neppure io) è solo colpa loro». Sfugge a Messora che invece nel frattempo, imparando a conoscersi, i Cinquestelle iniziano a fidarsi e a confrontarsi con qualche cronista. Dalla sua pagina Fb fa eco Martinelli che in poche ore offende tutta la categoria preziosissima dei portavoce «perchè sia chiaro che io non sono il Capezzone di turno». Solidarietà, ovviamente, a Daniele Capezzone, ora deputato Pdl e per cinque anni mandato in tv a sostenere la linea del giorno. Scrive Martinelli: «Sono stato nominato consulente di un gruppo parlamentare e vengo trattato da giornali e tv come un addetto stampa che fa da megafono al Movimento. Questi non hanno ancora capito che saranno i deputati del Movimento a parlare della loro attività politica. Il mio compito è solo quello di ottimizzare la loro comunicazione. La mia comunicazione, è personale. Non è quella del Movimento. Siccome le tivù e i giornali mi stanno spacciando come il Capezzone della situazione, non parlerò più con nessuno, tranne che coi deputati della Camera».
Non è chiaro cosa resterà dei due Responsabili comunicazione protagonisti di tanto caos senza neppure aver messo piede nè alla Camera nè in Senato. La definizione giusta è spin doctor? Piccoli guru crescono all’ombra di Gianroberto Casaleggio che li ha ingaggiati personalmente. Di certo i neo eletti non vogliono nè badanti nè commissari. E sfidando le disposizioni dall’alto, l’onorevole-cittadino Roberto Fico chiarisce: «Abbiamo già i nostri portavoce, sono Roberta Lombardi e Vito Crimi. Loro sono professionisti della comunicazione che hanno il compito di aiutarci a veicolare i messaggi all' esterno».
Il resto non serve.

il Fatto 21.3.13
Vita da grillino
Marziani sì, fessi no: i 5 Stelle alla (dura) prova dei benefit
di Emiliano Liuzzi


Quando nell'aprile del 1994 arrivarono i leghisti a Roma, le idee si fecero chiare da subito: pranzo al Pantheon, Freccia Alata, la sala vip dell'aeroporto. Questi – intesi come i grillini – almeno per ora faticano a capire dove si trovi Fiumicino, e comunque non avrebbero i soldi per comprare il biglietto. Guai parlare di ristoranti e sale riservate, anche perché non sono “onorevoli, ma cittadini”. Ma poi la realtà a volte supera ogni tipo di immaginazione, e l'impatto è forte, irresistibile per molti. Le stanze suscitano talvolta belle emozioni, pensare a tutti quei privilegi e usufruirne è un attimo. E' già successo, per fare un esempio, al cittadino Adriano Zaccagnini, immortalato da “Chi”, chiamato a rispondere dai giornalisti per un pranzo nel ristorante della Camera. Zaccagnini ha spiegato ai cronisti che non sapeva “che in quel ristorante di lusso la quota a carico del deputato è di 15 euro” e il resto del conto, probabilmente 80-90 euro, è a carico dei contribuenti. “Ammetto il mio errore aggiunge e sono pronto a restituire la parte eccedente del conto. In totale sono stato a mangiare lì tre volte, a 15 euro a pasto, quello che manca lo restituirò di tasca mia. Pensavo che in quel ristorante si risparmiasse”.
Zaccagnini è uno e vale uno. Anche perché la maggior parte di loro oggi non ha né il contante in tasca (buona parte di loro proviene dagli anni Duemila, lavori precari, nella migliore delle ipotesi, e liste di disoccupazione) né la malizia di presentarsi allo sportello del Banco di Napoli, a Montecitorio, a chiedere l'anticipo sullo stipendio. Il direttore della filiale bancaria più ambita (in quelle quattro stanze si sono sempre fatte amicizie utili) si strofinerebbe le mani a vederli apparire: sarebbero prestiti garantiti da un datore di lavoro che paga puntuale e fino all'ultimo centesimo. Quanto? Tanto, anche se il regolamento a 5 Stelle impone dei paletti e delle riduzioni drastiche: nella sostanza i parlamentari dovranno lasciare il 50 per cento dei 10 mila 435 euro previsti in busta paga. Dunque ne percepiranno 5.217 lordi. Ma a questi va aggiunta la diaria che si aggira attorno ai 3.500 euro al mese e resta intatta. Purché rendicontata. In sostanza, al netto, spese incluse, ogni parlamentare, guadagnerà poco meno di 5000 euro netti.
Senza contare che il traghetto è gratis, l'aereo e il treno anche, idem per l'autostrada. E a questi benefit non rinunceranno. Questo, almeno dice il regolamento in vigore. Anche se in rete c’è chi inizia a chiedersi quanto sia corretto che un parlamentare stellato raggiunga la Val di Susa il problema si presenterà già sabato per una manifestazione contro la Tav a spese del contribuente. E, per di più, con un treno ad alta velocità. Questione complessa. Loro obietteranno che pagheranno il biglietto. Ma chi può verificarlo?
Oggi, comunque, capita di vederli chiedere una sigaretta, cercare un bed & breakfast “30 euro a notte, tassa di soggiorno inclusa”. Sempre oggi può succedere che chiedano un passaggio in auto. Marziani e senza un centesimo. Ma dopo? “Continueremo così”, dicono in coro. “Cerchiamo di stringere accordi con le compagnie telefoniche per strappare un contratto low cost. Anche perché un parlamentare può godere di un rimborso telefonico di 3100 euro nette all'anno, noi contiamo di spendere 600”. Il problema è capire – e in quei corridoi tutto diventa sempre complicato – dove verrebbero ripartiti i soldi che non spendono. Perché va bene essere marziani, ma fessi no. Bisogna andare a rispolverare vecchi regolamenti che i leghisti del 1994 si guardarono bene dal consultare. Come quello che prevedeva un rimborso di taxi, forfettario e senza rendicontazione, di 3900 euro ogni tre mesi. “Grasso ci ha dato ampia disponibilità”, dice Crimi.
Roma era ladrona per i leghisti, ma anche loro ci sguazzavano bene. Tanto non era loro l'acqua della piscina. E a proposito di piscine quella a Montecitorio non c'è, ma la sauna è lì, a disposizione. Per ora i grillini manco si sono affacciati, sempre nella loro politica dell'austerity. Lasciamo passare l'estate, magari aspettiamo novembre, sempre che ci sia un governo. Poi tiriamo le somme. Zaccagnini insegna.

La Stampa 21.3.13
Debuttanti alla “capigruppo” Gaffe grilline e presidenziali
di Fabio Martini


Per qualche minuto tutti hanno fatto finta di niente, ma in attesa che avesse inizio la prima Conferenza dei capigruppo della nuova legislatura, ad un certo punto il velo di ipocrisia è caduto: Pino Pisicchio, presidente del Gruppo misto, si è rivolto verso la presidente del gruppo Cinque Stelle e le ha chiesto: «Scusi, ma il signore che è seduto vicino a lei chi è?». La Lombardi ha risposto: «È il vicecapogruppo...». Pisicchio: «Siete venuti in due?». La Lombardi: «Sì». Tutti guardano verso la presidente della Camera, Laura Boldrini. Non dice nulla, si va avanti. Eppure, non si ricordano precedenti di un gruppo parlamentare rappresentato da due esponenti alla Conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Quale sia la ragione che abbia spinto i grillini a spedire contemporaneamente presidente e vicepresidente, la conoscono soltanto loro. Forse una misura per garantire un migliore «controllo sociale». Forse ignoravano la prassi. Di sicuro la prassi è stata ignorata anche dalla neopresidente Boldrini. In compenso anche quelli del Pdl erano arrivati in due, ma conoscendo le regole, mentre il capogruppo Renato Brunetta si è seduto al lungo tavolo che da anni ospita la Conferenza, il suo vice, si è seduto in un angolo della sala della Biblioteca del Presidente. ben distinto e distante dal suo capogruppo.
Naturale apprendistato la «distrazione» della presidente? Nel corso della riunione, che si è svolta martedì 19 marzo, sono affiorati altri passaggi che raccontano bene la naturale inesperienza di alcuni dei partecipanti, alla loro «prima»: dei nove presenti al tavolo, ben cinque non hanno mai messo piede in un’aula parlamentare, la presidente della Camera, i due del Cinque Stelle, il presidente dei deputati Pd Roberto Speranza, quello di Scelta Civica Lorenzo Dellai.
La riunione è stata aperta dalla presidente della Camera che ha illustrato il suo programma di «legislatura», annunciando il suo piano di tagli alle spese eccessive della politica, compresa la burocrazia di Montecitorio. Ha caldeggiato un accordo per l’ufficio di presidenza (vicepresidenti, questori, segretari), arrivando a proporre per l’indomani un’ulteriore riunione della Conferenza dei capigruppo proprio allo scopo di risolvere la querelle, raccomandando di accelerare un accordo per la presidenza della Commissioni.
Ma nel corso degli interventi e poi nella giornata di ieri alcune delle proposte sono cadute: è stata disdetta la riunione - davvero irrituale se si fosse svolta - per dividersi le poltroncine dell’Ufficio di presidenza, è stata lasciata cadere la richieste di accelerare la scelta delle presidenze delle Commissioni, mentre sui «tagli» alla burocrazia, è stato ancora Pisicchio a riportare la discussione sui binari dell’esperienza: «Funzionari e dirigenti della Camera rappresentano il meglio della burocrazia italiana e forse sarebbe il caso di concordare con loro colloqui orientativi di diritto parlamentare».
La presidente, a quel punto, ha annuito, convenendo che anche lei se ne sentirebbe gratificata.

La Stampa 21.3.13
Bertinotti: “Istituzioni moribonde La competenza oggi è inutile”
L’ex presidente della Camera: “I Cinque stelle? Esprimono un nuovismo monco”
intervista di Mattia Feltri


Presidente Bertinotti, la moda del nuovismo è tornata, e prepotente.
«Il nuovismo è la scienza dei nullatenenti perché è una categoria così lassa che può essere maneggiata a qualsiasi fine, è applicabile sempre e ovunque. Per me è difficilmente interpretabile e scarsamente significativa, come tutti i concetti di cui non è sostenibile il contrario: si può essere contro il nuovo?».
Però oggi il desiderio di nuovo è dominante, il nuovo purchessia.
«È un desiderio assai rilevante in tempi di politica flebile o desertificata, quando le categorie forti sono sotto schiaffo. In momenti così evapora il riformismo. Emergono termini come rivoluzione, trasformazione, rivolta, che alludono a un potere che si è esaurito. Ed è lì che qualcuno si alza per dare corso a una nuova società. È successo alla fine della Prima repubblica, succede ora che finisce la Seconda».
Nuovo vuol dire giusto?
«Oggi nuovo ancora non vuol dire giusto. Ci sono momenti in cui il nuovo si qualifica per ciò da cui si distacca. Se il vecchio fa schifo, in quel momento il nuovo prende un significato che non ha, e lo prende in modo transitorio. Intanto basta essere nuovi. Il problema è che io non capisco che tipo di società si sta proponendo. Non capisco qual è il punto di rottura col passato».
Più che nel ’94?
«Molto di più. Nel ’94 il nuovismo si accoppiava a un’idea di società nascente, che io trovo orribile, ma questo conta poco. Si faceva largo una teoria economica che si è chiamata neoliberismo e quel “nuovo” caratterizzava la società verso cui si era diretti, una società che faceva riferimento alle esperienze di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e che faceva postulato della morte delle ideologie».
E adesso?
«Adesso trovo del tutto incomprensibile la domanda che si fa a Beppe Grillo, quando gli chiedono quale sia il suo programma. Non c’è sintonia fra gli interlocutori, perché Grillo non vuole riformare il sistema, vuole abbatterlo. Lui e i suoi sono come i mercanti nel tempio, prima pensano a sgombrarlo. A come riempirlo penseranno dopo».
Uno dei problemi è che ci si adegua un po’ acriticamente. In posizioni di potere, alla presidenza della Camera e del Senato, a capogruppo anche del Pd vanno persone a cui è esplicitamente richiesto di essere inesperti, novelli. Cioè non competenti.
«Non voglio assolutamente parlare di persone che stimo o non conosco. Dico in generale che in un periodo come questo l’esperienza e la competenza sono applicate a un corpo debole, cioè alle istituzioni. Mi spiego: se un politico inesperto avesse avuto a che fare col Parlamento di Alcide De Gasperi, di Palmiro Togliatti e di Ugo La Malfa, il suo problema sarebbe stato un problema serio. Ma oggi? ».
Oggi non c’è bisogno di uno come Pietro Ingrao?
«Ma Ingrao era straordinariamente competente ed era al servizio di un Parlamento in cui la competenza era imprescindibile. Sennò si era in seconda fila. Ma ormai le istituzioni sono decadute al punto che se fossero sospese non se ne accorgerebbe nessuno. In una situazione del genere la competenza minima necessaria te la fai immediatamente. Io in fondo ho sbagliato».
Ha sbagliato?
«Quando ho fatto il presidente della Camera, pensavo proprio a figure come quella di Pietro Ingrao. Non mi sono accorto di quello che mi succedeva sotto gli occhi: ho cercato di improntare la mia presidenza a criteri di conoscenza e dimestichezza, e non mi erano richieste».
Basta poco per essere adeguati al poco?
«Esattamente. Tanto decidono il governo e Bruxelles. È chiaro che per riforme importanti come quella elettorale, dei regolamenti parlamentari, dei diritti civili, che pure mi stanno straordinariamente a cuore, il Parlamento serve. Ma se un uomo intelligente e cinico come Mario Draghi dice all’Europa di non preoccuparsi che tanto innestiamo il pilota automatico, bè, qualcosa vorrà dire... ».
Dunque la moda del nuovismo tanti danni non li farà.
«Il problema è sapere se il sistema sia riformabile dall’interno, e io temo di no. Il successo del Movimento 5 Stelle deriva dal desiderio di un colpo d’ariete che butta giù tutto, e poi vediamo che cosa succede. Oggi ci sarebbe una grande necessità di barbari senza barbarie, e quando dico barbari intendo in senso letterale “quelli che vengono da fuori”».
E i grillini non sono i barbari che dice lei?
«Nooo. Non sono barbari. Manca un elemento: c’è la critica al sistema ma manca la critica alla società. Guardo con interesse ai cinque stelle, vedo che hanno una fortissima motivazione, una fortissima tensione verso il nuovo, ma è un nuovo monco, che si preclude le critiche alla causa».

l’Unità 21.3.13
Il Pdl chiede unità intanto va in piazza
Parlamentari e dirigenti pidiellini precettati per la manifestazione di sabato
Contromanifestazioni a Roma e Milano
di G. V.


ROMA Sabato 23 marzo, in contemporanea alla manifestazione del Pdl con Silvio Berlusconi in piazza del Popolo a Roma, anche la rivista Micromega chiama in piazza a Roma, Milano e Genova, a sostegno dell’appello on line che ha raccolto finora oltre 200 mila adesioni per la ineleggibilità di Berlusconi in Parlamento, in forza della legge del 1957. La manifestazione principale, che darà seguito all’appello «Berlusconi ineleggibile», promosso da Vittorio Cimiotta, Andrea Camilleri, Paolo Flores d`Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli, si svolgerà a Roma a piazza Santi Apostoli, alle ore 17.
A Milano l’appuntamento è alle ore 13,30 a largo Cairoli. A Genova, dove prenderanno la parola fra gli altri il sindaco Marco Doria, Pierfranco Pellizzetti, Marco Preve, don Paolo Farinella e Ferruccio Sansa, alle 17 di fronte alla Prefettura, in via Roma. Hanno già aderito all’iniziativa fra gli altri Marco Bellocchio, Margherita Hack, Fabrizio Gifuni, Francesca Comencini, Moni Ovadia, don Vitaliano Della Sala, Andrea Rivera, Elio Germano, don Aldo Antonelli, Roberta De Monticelli, Salvatore Borsellino, Furio Colombo, don Raffaele Garofalo, dom Giovanni Franzoni, Isabella Ferrari, Articolo 21, Libertà e Giustizia, Comitato 23 Marzo, Liberacittadinanza, MoveOn Italia, Popolo Viola, Cub Scuola Roma. «Saranno ha sottolineato Micromegamanifestazioni francescane, senza una lira, senza organizzazione, totalmente auto-organizzata e auto-finanziata dai cittadini. Si chiederà con forza l`applicazione della legge 361 del 1957 secondo cui Silvio Berlusconi è ineleggibile in Parlamento perché beneficiario di una concessione statale».
A Roma, con la conduzione e il coordinamento di Moni Ovadia un centinaio di cittadini si alterneranno sul palco per leggere gli articoli della Costituzione e alcuni testi che segnano i momenti salienti della lotta per i valori repubblicani nel nostro paese, dalla poesia di Calamandrei per il monumento alla Resistenza agli articoli di Sciascia contro la mafia o di Galante Garrone e Paolo Sylos Labini contro la corruzione e il conflitto di interessi.

Repubblica 21.3.13
“In piazza contro il Cavaliere: è ineleggibile”
Flores D’Arcais: il Pd si schieri, dalla Rai silenzio sulla nostra manifestazione
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — Da una parte la manifestazione per ribadire che Silvio Berlusconi è ineleggibile. Dall’altra quella del Cavaliere, «una piazza di aggressione ai magistrati e di disprezzo della Costituzione». Paolo Flores D’Arcais, direttore di MicroMega, si prepara all’evento di sabato. Tre eventi pubblici a Roma, Milano e Genova - organizzate dalla società civile e sostenute da 225 mila firme e un unico obiettivo: «Difendere la Carta».
Partiamo dalla “vostra” piazza.
«La manifestazione di piazza Santi Apostoli è stata lanciata da MicroMega, ma è auto-organizzata. La riuscita dipende tutta dalla mobilitazione dei cittadini, da quanto riusciranno a raggiungere gli amici chiamandoli al telefono, via mail, Twitter, Facebook».
Quali gli obiettivi e lo spirito dell’evento?
«Il senso è difendere la Costituzione, anzi realizzarne i valori di giustizia e libertà, ed esigere l’applicazione della legge 361 del 1957 che rende Berlusconi ineleggibile e lo esclude dal Parlamento».
Non sarà l’unico evento di piazza: sabato manifesta anche il Cavaliere.
«La nostra sarà una manifestazione francescana, senza mezzi, totalmente auto organizzata e affidata alla passione civile dei cittadini. L’altra è una piazza di aggressione ai magistrati, di disprezzo della Costituzione repubblicana, che può però contare sulle infinite risorse materiali e mediatiche di Berlusconi. Penso che a sempre più cittadini la pretesa di impunità di Berlusconi risulti intollerabile».
Non c’è solo Santi Apostoli, manifesterete anche a Milano e Genova , la città di Grillo. Una sfida o un invito al leader M5S?
«Si tratta davvero di una manifestazione auto-organizzata: io non so chi ha organizzato quella di Genova, ho solo parlato con due amici, Pierfrancesco Pellizzetti e Ferruccio Sansa. E a Genova aderisce anche il sindaco Marco Doria».
Il M5S voterà l’ineleggibilità dell’ex premier.
«Hanno detto, indipendentemente dall’appello di MicroMega, che ovviamente chiederanno il rispetto della legge del 1957. Anzi, hanno detto che al primo punto metteranno l’ineleggibilità di Berlusconi».
E come valuta l’atteggiamento del Pd sulla questione dell’ineleggibilità?
«C’è una personalità del Pd che ha aderito e ha detto che voterà l’ineleggibilità: Luigi Zanda. Ha preso posizione prima di essere eletto capogruppo al Senato e il fatto che sia stato eletto – benché i colleghi sapessero della sua posizione – mi fa ben sperare.
Tuttavia si tratta dell’unico esponente del Pd ad aver preso posizione in modo esplicito. Perché il Pd non fa come Grillo e dice: ovviamente voteremo per l’ineleggibilità di Berlusconi?».
Forse per ragioni di opportunità: una delle ipotesi in campo è il governissimo con il Pdl di Berlusconi.
«A maggior ragione è bene avere la massima chiarezza, evitando gli equivoci, sulla svolta, necessaria e annunciata dalla scelta innovativa dei Presidenti delle due Camere. Mi auguro che la svolta prosegua con coerenza».
Ha scritto ai Presidenti delle Camere per invitare il servizio pubblico a dare notizia della manifestazione.
«Trovo scandaloso che le reti pubbliche parlino in continuazione dell’evento di Berlusconi e non dicano una parola dell’altra manifestazione. Si tratta di una discriminazione».

Repubblica 21.3.13
La carta segreta di Berlusconi “Pronti a un governo Grasso”
Nelle condizioni il salvacondotto e l’amnistia
di Carmelo Lopapa


ROMA — Disposto a tutto, pur di restare in partita, di continuare a dare le carte. Fosse pure per i prossimi mesi, ancora meglio se per uno o due anni. A patto che nel pacchetto, nel “do ut des” sia incluso il suo salvacondotto: in Parlamento, congelando qualsiasi blitz sulla ineleggibilità, e nelle aule di giustizia (nel quartier generale si inizia parla anche di amnistia).
Silvio Berlusconi varcherà questa mattina la soglia del Quirinale, con Alfano e i capigruppo Schifani e Brunetta e i capigruppo della Lega. Porteranno una carta destinata — nella loro ottica — a sparigliare gli avversari. E a offrire una sponda «solida» al presidente Napolitano. La formula è quella neoconiata del «governo di concordia nazionale». Ma siccome le formule ormai vanno riempite con nomi e cognomi, la soluzione che il Cavaliere indicherà al Colle ne comprenderà uno di levatura «istituzionale»: Pietro Grasso. «Bersani si è intestardito, vedrete che in prima battuta il presidente darà a lui l’incarico esplorativo» ha spiegato ieri il capo agli stessi capigruppo e al segretario Alfano, nel pranzo- summit avuto con loro a Palazzo Grazioli. Il Pdl però confida e già scommette in un fallimento della «esplorazione». A quel punto, prenderebbe piede l’opzione che porta appunto all’attuale seconda carica dello Stato, fresca di elezione, benché proveniente dalla vituperata magistratura e dalla chiara impronta «democratica». Nelle ultime 48 ore sembra sia stato Giuliano Ferrara, consigliere di vecchia data, a esercitare tutta la sua influenza sulla strategia del Cavaliere. La contropartita, per un sostegno a un governo di «alto livello», dovrà essere l’inevitabile coinvolgimento nelle trattative per il Quirinale. Col nuovo presidente che — nelle aspettative di Palazzo Grazioli — dovrà garantire che Berlusconi non venga tagliato fuori dai giochi, se non messo in galera. Sembra che i legali del leader siano già al lavoro, tra le altre cose, sulla percorribilità di un’amnistia, che altrettanti però ritengono di difficile adozione, non fosse altro perché richiederebbe un voto del Parlamento (a maggioranza Pd-M5s). Insomma, la parola chiave, prima ancora che concordia, per il leader-imputato Berlusconi, resta sempre la stessa: salvacondotto. Non solo. Al presidente Napolitano — che già è intervenuto due settimane fa dopo il blitz al tribunale di Milano — il leader Pdl chiederà anche «garanzie» sul minacciato intervento in giunta per le elezioni, affinché democratici e grillini «non si sognino» di cancellarlo dalla mappa politica decretandone l’ineleggibilità.
Nell’ottica “governissimo” il titolo della manifestazione di Piazza del Popolo di sabato pomeriggio potrebbe cambiare. «Con Silvio», ma non più «Contro l’oppressione burocratica, fiscale e giudiziaria», bensì «Per una nuova Italia». Sarebbe la svolta «ecumenica». Ma molto dipenderà dall’esito delle consultazioni. Tutto però resta confermato: previsti quasi 200 mila militanti da tutta Italia, 2500 pullman, 5 treni speciali, Berlusconi intenzionato a effettuare un sopralluogo già domani. Toni e linea ultimi della piazza saranno definiti dall’ufficio di presidenza fissato per la stessa mattina di sabato. Il Cavaliere è assai galvanizzato anche per l’ultimo report consegnatogli dalla sondaggista Ghisleri e che dà il centrodestra attestato al 30 e avanti ora di un punto rispetto alla sinistra, col M5s poco dietro. Ecco perché, se tutto tracolla, allora Berlusconi è già in campagna elettorale: «Stavolta il premio di maggioranza sarebbe nostro» ripete. Sarà un caso, ma alle casse del Pdl il capo avrebbe fatto pervenire in questi giorni un bonifico da 15 milioni di euro. La macchina è già in moto.
Il bastone e la carota. Nell’intervista a StudioAperto ribadisce la tesi che «per uscire dalla recessione occorrono interventi forti e precisi, e solo un governo stabile, autorevole, un governo di concordia nazionale che scaturisca da una collaborazione concreta sul da farsi tra Pd e Pdl può realizzare interventi nell’interesse del Paese». Se la prende ancora con Bersani che corteggia Grillo «in un teatrino tragico e irresponsabile» e avverte che la piazza sarà conseguenza diretta della «occupazione militare di tutte le istituzioni». In scia, tutti i dirigenti, dalla Gelmini alla Bernini, fanno appello a Bersani perché «si metta l’anima in pace». Ma lo scenario resta complesso e anche il portavoce Paolo Bonaiuti è pessimista: «Speriamo ancora che il Pd ritrovi la bussola di un governo senza i grillini, di concordia, appunto, ma sarà difficile». Di battaglia, così, sarà anche il vicepresidente scelto per il Senato: Maurizio Gasparri. Mentre alla Camera sarà confermato Maurizio Lupi.

l’Unità 21.3.13
Lazio: arriva la nuova giunta, è la più rosa d’Italia
Dieci gli assessori di Zingaretti, tutti esterni Sei sono donne. Lidia Ravera alla Cultura
di Caterina Lupi


ROMA Su dieci assessori, tutti esterni al consiglio regionale, sei sono donne. Una giunta da record, quella varata dal neogovernatore del Lazio, Nicola Zingaretti, e che tra le presenze femminili annovera una dirigente del Ministero dell’Economia come Alessandra Sartore appena nominata assessore al bilancio, patrimonio e demanio e una scrittrice e giornalista come Lidia Ravera, che sarà titolare di cultura e sport. Nel dopo Polverini, il Lazio ricomincia così. «Avevamo detto che avremmo cambiato tutto: abbiamo cominciato eleggendo tutti consiglieri nuovi, continuiamo con la scelta degli assessori», rivendica Zingaretti, mentre spiega che ai riti della vecchia politica «abbiamo preferito, grazie alla disponibilità di tutti i partiti di maggioranza, una seria ricerca sui curricula puntando su persone esterne al Consiglio di provata esperienza nei rispettivi campi».
Da Twitter arrivano subito i buoni auspici di Pier Luigi Bersani: «Auguri a Zingaretti e alla sua squadra, la giunta più rosa d’Italia. Sono sicuro che sapranno rilanciare Regione importante come il Lazio». E lo stesso fa Vendola, salutando l’arrivo di una giunta «di altissimo profilo», nata sotto le insegne di «innovazione, competenze, futuro».
In squadra con Zingaretti ci sarà Massimiliano Smeriglio, suo vicepresidente e assessore alla formazione, università, scuola e ricerca. Smeriglio è già stato assessore al Lavoro e alla formazione nella giunta Zingaretti in Provincia e poi presidente dell’XI municipio di Roma, per arrivare in seguito in Parlamento dal 2006 al 2008 -, rieletto alle ultime elezioni. Concettina Ciminiello sarà invece assessore alla Semplificazione, trasparenza e pari opportunità. Dal 2010 ricopre l’incarico di funzione dirigenziale di livello generale come direttore amministrativo della Scuola superiore dell’economia e delle finanze (Mef). A Michele Civita l’assessorato alle politiche del territorio, della mobilità e dei rifiuti. Anche lui già assessore nella giunta Zingaretti alla Provincia di Roma (prima era stato assessore ai Trasporti nella giunta Gasbarra), impegnato sul terreno dei rifiuti e dello sviluppo della raccolta differenziata.
FABIANI ALLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE
Guido Fabiani, dal 1998 rettore dell’università Roma Tre, diventa assessore alle attività produttive e allo sviluppo economico. Professore ordinario di Politica economica dal 1980, Fabiani è stato fino al ‘98 preside della facoltà di Economia «Federico Caffè» a Roma Tre. Fabio Refrigeri è il nuovo assessore alle Infrastrutture, alle politiche abitative e all’ambiente: un incarico cui approda dopo l’esperienza di sindaco di Poggio Mirteto e di responsabile, per l’Anci-Lazio, delle unioni di Comuni e dell’associazionismo comunale. Un’altra donna all’Agricoltura, caccia e pesca: si tratta di Sonia Ricci, dirigente d’azienda e imprenditrice in questo settore, con varie esperienze amministrative nel Comune di Sezze, dove è stata anche assessore alle attività produttive.
Lucia Valente è invece assessore al lavoro. Professore associato di diritto del lavoro alla Sapienza, nell’ateneo è anche membro del comitato pari opportunità. A Paola Varvazzo, già vice prefetto aggiunto e impegnata, all’interno della pubblica amministrazione, sui temi dei diritti civili, della cittadinanza e della condizione giuridica degli stranieri, vanno infine le politiche sociali. Mentre Zingaretti ha tenuto per sé le deleghe che riguardano l’Europa, il turismo, l’economia del mare e la protezione civile.
Se la scelta di assessori esterni risponde alla necessità di assicurare numeri più ampi alla maggioranza in consiglio regionale, il centrodestra contesta: così aumentano i costi della politica regionale. Ma le critiche appassiscono sotto i tanti commenti positivi che arrivano dal centrosinistra. Per Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd, questa giunta «è un ottimo segnale di rinnovamento, come testimonia la scelta di affidare la maggior parte degli assessorati a delle donne, con personalità di altissimo livello in cui vengono premiati il merito e la competenza». E tra tanti apprezzamenti, arriva pure il plauso di Cittadinanza Attiva per la scelta «nel segno dell’innovazione di metodo e di merito, sia per la maggioranza di assessorati rosa, sia per le qualità e le professionalità di tutta la squadra messa in campo».
«Ora dice Zingaretti ci aspetta un lavoro molto difficile, vista la situazione dell’amministrazione che troviamo e dell’intera Regione. Ma confido moltissimo nelle capacità delle persone che abbiamo scelto che, insieme alle qualità e competenze dei consiglieri di maggioranza, faranno ripartire davvero il Lazio».

il Fatto 21.3.13
Lazio, giunta rosa e senza politici
di Luca De Carolis


Aveva promesso ed è stato di parola, con una giunta solo di esterni. Per di più molto “rosa”, con sei donne su sei assessori. È la nuova Regione Lazio secondo Nicola Zingaretti, che ieri ha diramato i nomi della sua giunta. Una squadra di tecnici, seppure in gran parte di area. Un modello che potrebbe andar bene anche per un governo di centrosinistra bisognoso dei voti di Cinque Stelle. Di certo, un segnale politico importante, battuto dallo Zingaretti che nel Lazio ha vinto prendendo l’11% di voti in più rispetto ai partiti che lo sostenevano. Capace di drenare su di sé anche il voto disgiunto di parecchi elettori di M5s. Nella nuova giunta, costruita superando le richieste e le aspettative di molti consiglieri regionali, Zingaretti si è portato due assessori dalla Provincia di Roma: Massimiliano Smeriglio (Sel), che sarà vicepresidente regionale con delega alla Formazione, Università, Scuola e Ricerca, e Michele Civita, neo-assessore ai Rifiuti, alle Politiche del territorio e alla Mobilità. Guido Fabiani, rettore dell’Università Roma Tre e cognato di Giorgio Napolitano, sarà l’assessore alle Attività produttive e allo Sviluppo economico; Fabio Refrigeri, sindaco di Poggio Mirteto (Rieti) si occuperà di Ambiente, Infrastrutture e Politiche abitative. Poi ci sono le donne. Come Lidia Ravera, scrittrice e collaboratrice del Fatto, neo-assessore alla Cultura e allo Sport. Succede a Fabiana Santini, ex segretaria di Claudio Scajola, l’uomo della “casa pagata a mia insaputa”.
AL LAVORO, sfumata l’ipotesi del segretario dello Spi Cgil, Carla Cantone, va Lucia Valente: professore di Diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, e collaboratrice del giuslavorista Pietro Ichino, ex Pd, ora montiano. Assessore al Bilancio, Patrimonio e Demanio sarà Alessandra Sartore, dirigente del ministero dell’Economia, mentre a Paola Varvazzo, viceprefetto aggiunto di Roma, vanno le Politiche Sociali. Alla Semplificazione, Trasparenza e Pari Opportunità, Concettina Ciminiello, direttore amministrativo della Scuola superiore del Mef; all’Agricoltura, Caccia e Pesca, la pontina Sonia Ricci. E la sanità? Oggi il Consiglio dei ministri nominerà lo stesso Zingaretti nuovo commissario, al posto di Filippo Palumbo. Scelta di prassi, che metterà nelle mani del governatore il nodo principale per la neonata giunta. Stando alla previsione dell’ex commissario Enrico Bondi, nel 2013 la sanità del Lazio toccherà un rosso di 900 milioni. Una voragine che aveva imposto il commissariamento con la precedente giunta Polverini. Possibile che oggi a Zingaretti venga affiancato un sub-commissario alla Sanità, Giovanni Bisoni: presidente dell’Agenas, e uomo di raccordo tra le Regioni e il ministero della Salute. “L’avevamo detto che avremmo cambiato tutto” esulta Zingaretti. Bersani fa gli auguri via Twitter al governatore “e alla squadra più rosa d’Italia”. Per il neo-capogruppo alla Camera, il bersaniano Roberto Speranza, “bene la scelta di nominare una giunta di esterni”. La conferma che la “linea civica” è di grande attualità nel Pd. “La nuova giunta non rappresenta un passo indietrodei partiti, ma un passo in avanti della buona politica” afferma il segretario del Pd La-zio, Enrico Gabarra. Intanto Zingaretti pensa ai primi punti in agenda; riduzione delle commissioni da 20 ad otto, accorpamento delle società regionali, lotta agli sprechi. Imperativi, per una Regione con 22,8 miliardi di debiti.

Repubblica 21.3.13
Lidia Ravera, una delle sei presenze femminili (su 10) della giunta Zingaretti:

“La cultura può essere la prima industria”
intervista di Mauro Favale


“Assessore nel Lazio, finalmente tante donne”

ROMA — «Ho passato tutta la mia vita seduta su una sedia, a scrivere e osservare il mondo per capirlo. Non mi sono mai misurata con una responsabilità di questo genere. Non sono sicura di riuscirci ma ci proverò». È il simbolo della giunta più rosa d’Italia, quella nominata ieri da Nicola Zingaretti alla Regione Lazio: quattro soli uomini e sei donne, tra cui lei, giornalista e scrittrice (29 i libri pubblicati dal 1976, a partire dal successo di Porci con le ali).
Lidia Ravera ieri non ha festeggiato solo l’uscita della sua ultima opera, Piangi pure, ma anche la nomina ad assessore alla Cultura. Con lei una squadra di pochi politici (4, da Pd e Sel) e molti tecnici (seppure di “area”) pescati tra ministeri, università e istituzioni. Lei è stata l’ultima ad accettare. Ha ricevuto due giorni fa, poco prima di mezzanotte, la telefonata di Zingaretti che le proponeva l’incarico.
Come ha reagito?
«Mi sono sentita lusingata. E poi, subito dopo, spaventata. Non me l’aspettavo, sono stranita ma felice. Perché dopo anni passati a scrivere che la politica è una responsabilità che devono assumersi tutti i cittadini, magari a rotazione, sarei stata incoerente a rifiutare».
È alla sua prima esperienza politica e, come lei, diversi suoi colleghi nella giunta Zingaretti: pagherete l’inesperienza?
«Penso che più gente arriva “da fuori”, con l’umiltà di imparare e più si dirada la puzza di chiuso che c’è in certe stanze. La squadra composta da Zingaretti mi riempie di gioia perché rappresenta un’inversione di tendenza. Finalmente la risorsa dello sguardo femminile sarà sfruttata in questo Paese. Mi sembra una scelta sulla linea di quella presa alla Camera con Laura Boldrini».
Dietro queste decisioni cosa c’è? La paura dei 5 Stelle, la consapevolezza della necessità di un rinnovamento?
«Io credo che quei 160 “cittadini” in Parlamento svolgano una funzione molto importante: puntare una pistola alla tempia dei politici di buona volontà condizionandoli a fare veramente quello che hanno sempre affermato di voler fare e non hanno mai fatto».
Lei si occuperà di cultura, un settore che spesso dispone di poche risorse.
«Già, ma che, invece, i soldi li produce. Nel Lazio l’audiovisivo potrebbe diventare la prima industria. Molte famiglie hanno perso il lavoro proprio perché si sono ridotti i fondi. Ma, mi chiedo, cos’ha il nostro Paese oltre la cultura? Per la nostra storia, la cultura dovrebbe diventare la prima voce di qualsiasi bilancio».

Repubblica 21.3.13
La sinistra in ritardo
di Guido Crainz


POTEVA finire perfino peggio, la “seconda Repubblica”, se solo ricordiamo come era cominciata: annunciata nel 1994 da un’irruzione in Parlamento di discutibili “uomini nuovi” (o mal riciclati, in più di un caso). Sbarcati non da un “altrove” ma dal corpo stesso del Paese così come si era modellato e deformato negli anni Ottanta, sull'urto delle illusioni, dell'eversione delle regole, delle arroganze e dei rancori di quel decennio. All’indomani di quelle elezioni il leghista Speroni – di lì a poco ministro per le riforme istituzionali – proponeva di cambiare nome all’Italia (Unione italiana, suggeriva).
Mirko Tremaglia chiedeva la rottura del Trattato di Osimo e la revisione del nostro confine orientale (mentre infuriavano le guerre nella ex Jugoslavia), Gustavo Selva e Francesco Storace annunciavano epurazioni alla Rai e altrove, Umberto Bossi dichiarava guerra «ai sieropositivi della partitocrazia», Giancarlo Fini proclamava Mussolini «il più grande statista del secolo» e Irene Pivetti – presidente vandeana della Camera – aggiungeva che il Duce aveva fatto delle «cose molto positive per le donne e per la famiglia»(che cosa è, al confronto, l’abissale ignoranza sul fascismo della capogruppo grillina alla Camera?). Per non parlare della pretesa di Cesare Previti di insediarsi al ministero della Giustizia o della vocazione proprietaria ed estranea alla democrazia dell’uomo di Arcore. Non era infondato il pesantissimo monito che il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, doveva inviare a Berlusconi alla vigilia del suo primo governo (dopo avergli imposto lo spostamento di Previti ad altro ministero): lo chiamava al rispetto della Costituzione e dell’Italia “una e indivisibile”, oltre che delle “alleanze internazionali” e della “politica di pace”. La rappresentanza del centrodestra non migliorò poi in corso d'opera, alimentata dalle convergenti coorti di indagati e di avvocati del premier, e puntellata da impresentabili transfughi. E oggi, pur travolto dai suoi crolli e fortemente ridimensionato, il berluscoleghismo può condizionare ancora il futuro del Paese.
C’è quasi da rallegrarsi, insomma, per quel che si è visto alla riapertura delle Camere, con l’inattesa e benefica luce di due presidenti di alto profilo (qualcuno ha stizzosamente parlato di “vittoria della non politica”: come se i diritti umani e la giustizia non siano elementi costitutivi e fondanti della migliore politica). In realtà interrogarsi sui contorni e le origini di questa legislatura a rischio significa interrogarsi anche su quel che la “seconda Repubblica” è stata. Cosa è maturato nel Paese in questi anni? Solo miasmi, solo il dilagare di corruzioni e abusi quotidiani, ben al di là della politica, o anche ansie nuove di democrazia cui i partiti non hanno saputo rispondere? Quali deformazioni profonde si sono consolidate nel modo di essere degli italiani e hanno reso possibile a un centrodestra così indecente di sopravvivere, almeno in parte, a se stesso? In che misura la fondatissima protesta contro la politica esistente si è mescolata anche a vecchi e nuovi umori dell’antipolitica? E perché questo è avvenuto? Non ha forse precedenti la vicenda di un partito d’opposizione che perde milioni di voti nonostante il crollo ancor più drastico del partito di maggioranza. Sullo sfondo vi sono le stesse ragioni per cui la stagione di Berlusconi è durata così a lungo: l’incapacità della sinistra di opporre allo sfasciarsi della “prima Repubblica” proposte convincenti e riformatrici di buona politica. Difficile stupirsi se la protesta si è abbattuta sia sulla vecchia maggioranza che sulla vecchia opposizione. Gridando «arrendetevi, siete circondati» Grillo ha certo ripetuto lo slogan di un assedio al Parlamento condotto vent'anni fa da un gruppo di giovani del Msi, guidati dal meno giovane Teodoro Buontempo detto “er Pecora” (a quell’assalto partecipava anche Franco Fiorito, il futuro “Batman di Anagni”). Eppure le piazze “a cinque stelle” che abbiamo visto – da quella di Mantova, tormentata dalla neve ma gremitissima, a quelle di Torino e Milano sino a San Giovanni a Roma – parlavano indubbiamente altri linguaggi. Perlomeno: anche altri linguaggi. Non dimentichiamoci troppo presto di quelle piazze, erano al tempo stesso una sconfitta e una vittoria della nostra democrazia. Una sconfitta di quel che essa è diventata, una condanna senza appello della sua incapacità di rinnovarsi pur dopo il trauma di Tangentopoli. Ma una vittoria, anche, per l'emergere di urgenze di rinnovamento che non hanno potuto trovare altri sbocchi. Parlano da sole del resto le tappe della resistibile ascesa di Beppe Grillo, a partire dal 2007 del primo V-day: l’anno in cui affondano le speranze riposte nel secondo governo Prodi ed emergono al tempo stesso gli umori che decretano lo straordinario successo di un libro-denuncia come
La casta.
Sino al 2012, che vede declinare l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici”. E vede crescere la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al Paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali.
Insomma, non vi è molto da stupirsi se una “seconda Repubblica” iniziata in quel modo, e con un centrosinistra incapace di rinnovarsi, è finita così. Un centrosinistra incapace di rinnovarsi: ancora una volta il vero nodo è questo. Per colpa anche della sua lunga cecità la situazione appare oggi quasi senza uscita: per questo l’unica via possibile è la radicalità della proposta da avanzare. Una radicalità senza precedenti, nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo che dovrebbe realizzarli: sapendo bene che la partita sarebbe ora ben diversa se questi elementi fossero stati presenti e centrali nella campagna elettorale, come moltissimi avevano chiesto anche su queste pagine. Una radicalità, infine, nella rifondazione del Pd. Una rifondazione che certo non potrà partire dal vecchio apparato o da ricambi interni ad esso e alle sue logiche: anzi, il suo abbraccio rischia di essere fatale per chiunque. Successe così, al di là di personali limiti ed errori, anche al “nuovo corso” del 1989 di Achille Occhetto: sostanzialmente gestito con gli apparati e con i metodi tradizionali, e per ciò stesso svuotato delle sue potenzialità.
Un'altra lezione di cui tenere conto.

Repubblica 21.3.13
Cipro e la nuova Europa
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Martedì il Parlamento di Cipro ha bocciato il piano concordato con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale, che chiedeva un prelievo forzoso sui depositi bancari in cambio del salvataggio da 10 miliardi di euro. La crisi di Cipro rappresenta la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso dimostrando ancora una volta l’incapacità dell’Unione Monetaria Europea di risolvere pacificamente e rapidamente un problema molto circoscritto.
Ormai è chiaro a tutti che siamo precipitati in una trappola infernale con grossi rischi per la tenuta dei sistemi democratici. E se è vero che l’uscita dell’Italia dall’euro farebbe scoppiare una crisi finanziaria di proporzioni planetarie è altrettanto vero che non è più possibile continuare questo gioco al massacro.
L’austerità imposta dalla Germania si è dimostrata un autentico fallimento: le politiche di risanamento delle finanze pubbliche basate su aumenti delle tasse e tagli alla spesa sociale hanno accentuato la recessione dell’economia innescando un circolo vizioso di cui non si vede la fine. La tecnocrazia di Bruxelles e la stessa Banca Centrale Europea devono capire una volta per tutte che il risanamento delle finanze statali potrà essere ottenuto solo se nel Vecchio Continente sarà promosso un nuovo ciclo di crescita dell’economia e dell’occupazione.
L’attuale strategia europea si fonda sul pregiudizio secondo cui i debitori sarebbero viziosi e i creditori virtuosi. Nell’antichità i rapporti tra debitori e creditori venivano regolati in modo autoritario e violento con la conseguenza di paralizzare l’attività economica. Anche oggi la punizione dei paesi debitori si è rivelata una strategia fallimentare per la ripresa dell’economia europea.
Rischiamo di regredire verso quella situazione precapitalistica in cui il debitore insolvente subiva torture e vessazioni. La responsabilità del debito deve essere ripartita in modo paritario tra debitori e creditori. Il debito infatti non è stato imposto ai creditori. Anzi, questi ultimi hanno spesso alimentato l’indebitamento per lucrare sui prestiti. John Maynard Keynes aveva proposto a Bretton Woods che ci fosse pari responsabilità tra debitori e creditori.
L’Europa deve cambiare passo per essere in grado di far fronte agli attacchi della speculazione internazionale e per evitare di alimentare una concorrenza distruttiva al suo interno. Questo fenomeno sta esasperando le divergenze tra paesi deboli e paesi forti in quanto i primi sono penalizzati ulteriormente dai deflussi di capitali che desertificano le loro economie mentre i secondi si avvantaggiano, potendo finanziare il debito pubblico, le imprese e le famiglie a tassi di interesse incredibilmente bassi.
Per questi motivi è quanto mai necessario un forte intervento pubblico che deve fondarsi su una coesione politica sovranazionale. Ci sono diverse linee di azione sul piano economico come l’esigenza di avere una Banca Centrale che sia prestatore di ultima istanza, la necessità di mettere in comune i debiti dei paesi appartenenti all’euro, l’opportunità di lanciare gli eurobond per finanziare un grande progetto di sviluppo continentale. Occorre integrare la Banca Centrale Europea con dipartimenti delle finanze, della giustizia, della difesa e degli esteri. L’esempio da seguire è quello della Federazione Americana di Alexander Hamilton che fu costituita alla fine del 1700.
Accade talvolta che per andare avanti nel futuro sia necessario ricorrere alle “innovazioni del passato”.

l’Unità 21.3.13
Saeb Erekat
Capo negoziatore palestinese, consigliere politico del presidente Mahmoud Abbas
«Al presidente Usa diciamo: fermi gli insediamenti»
«Ascolti il grido di dolore dei palestinesi»
di U.D.G.


«Nessuno si illude che un viaggio, per quanto importante, possa di per sé determinare una svolta. Ma il presidente Obama sa bene che in Medio Oriente il tempo non lavora per la pace, e dunque occorrono atti concreti che ridiano corpo alla speranza. Questo è ciò che i palestinesi chiedono a Barack Obama». A parlare è uno dei più autorevoli esponenti della leadership palestinese: Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese. «Da Obama dice Erekat a l’Unità ci attendiamo una presa di posizione molto netta sulla colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi. Pace e insediamenti sono inconciliabili».
La visita di Obama, la prima da presidente, in Israele e nei Territori non sembra aver conquistato i palestinesi.
«Non poteva essere altrimenti. Obama aveva generato grandi aspettative non solo nei palestinesi ma nell’intero mondo arabo quando parlò, all’inizio del suo primo mandato presidenziale, di un “Nuovo Inizio” nei rapporti tra gli Usa e l’Islam, e quando si espresse a favore di una pace tra israeliani e palestinesi fondata sul principio “due popoli, due Stati”, in sintonia con quanto sostenuto a più riprese, e anche nei suoi incontri alla Casa Bianca come dalla tribuna delle Nazioni Unite, dal presidente Abbas...».
E allora, qual è il problema?
«Il problema è che alle parole, coraggiose, impegnative, non sono seguiti i fatti, e qualunque statista è dai fatti che viene giudicato».
Il negoziato diretto, perorato da Obama, è una strada impraticabile?
«La linea negoziale è una scelta strategica dell’attuale dirigenza palestinese. Voglio essere ancora più chiaro: nessuno più dei palestinesi può ricevere dei vantaggi dal successo del processo di pace, e nessuno perde di più dal fallimento. Siamo consapevoli che la pace è un incontro a metà strada tra le rispettive ambizioni e richieste. Ma Israele rifiuta di fare i passi necessari, continuando a praticare una politica fatta di atti unilaterali».
A cosa si riferisce in particolare?
«Alla colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Netanyahu ha continuato a parlare di dialogo, annunciando addirittura “aperture storiche”. Ma la realtà dice ben altro: c’è stata una intensificazione della costruzione degli insediamenti: il 17% in più nel 2012, più di tutti gli anni precedenti a partire dal 1967».
Nell’incontro di domani con il presidente Abbas, Obama, stando a fonti diplomatiche Usa, ribadirà il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese.
«Al presidente Obama consegneremo le mappe della Cisgiordania, e uno studio sulla crescita degli insediamenti e della terra palestinese acquisita unilateralmente da Israele con la costruzione del Muro. Su quale territorio dovrebbe nascere, e quando, lo Stato di Palestina? Quale la sovranità sul suo territorio nazionale? E lo status di Gerusalemme? Non sono interrogativi strumentali, ma segnalano la necessità di non limitarsi più a parlare di “Stato” ma entrare nel merito. Mi lasci aggiungere che chiedere lo stop degli insediamenti, non è una pregiudiziale dei palestinesi a riaprire il negoziato con Israele, ma è qualcosa che attiene al rispetto da parte israeliana di accordi già sottoscritti, in linea con quella Road Map che oltre a Onu, Ue e Russia, ha negli Stati Uniti i suoi estensori».
Israele ha da pochi giorni un nuovo governo, che ha come elemento di novità la presenza del partito centrista di Yair Lapid e un ministro, Tzipi Livni, con delega al negoziato con i palestinesi.
«Per quanto ci riguarda, non avremmo problemi a parlare con Lapid o con la signora Livni. Ma se vogliamo dare una prospettiva seria al negoziato, il governo israeliano dovrebbe accettare la soluzione a due Stati basata sui confini del 1967 e rispettare i propri impegni, tra cui il blocco della costruzioni negli insediamenti».

Repubblica 21.3.13
“Barack ci snobba, che delusione” esplode la rabbia dei palestinesi
In un clima ostile, oggi l’incontro a Ramallah con Abu Mazen
di Fabio Scuto


RAMALLAH — Forse le bandiere americane lungo il percorso verranno messe solo stamattina all’ultimo minuto, quando Barack Obama con il suo corteo presidenziale arriverà alla Muqata per incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. Rimossi dalle strade i manifesti con la faccia del presidente americano cancellata con una X rossa. Discretamente la “Sicurezza preventiva”, i servizi segreti dell’Anp, e migliaia di poliziotti in divisa, assicureranno che le due ore della visita presidenziale scorrano tranquille. Perché la piazza è in fermento, il disincanto e il pessimismo di Abu Mazen si riflettono nelle strade della “capitale provvisoria” palestinese diventando delusione, rabbia e la protesta è pronta per esplodere.
I vertici palestinesi hanno evitato critiche al viaggio di Obama, ma in Cisgiordania appare chiaro che Israele è il vero centro della visita del presidente americano e il governo israeliano impegnato a sottolineare la dimensione storica delle sue relazioni con gli Usa. Finora, notano alla Muqata, in tutte le dichiarazioni Obama non ha mai nominato i palestinesi per nome, ma si limitato a definirli i “vicini” di Israele.
Non ha peli sulla lingua Mustafa Barghouti, medico e leader della non violenza palestinese. Si lamenta «della disparità di trattamento» riservata ai palestinesi, notando che Obama visiterà in Israele la tomba del padre del sionismo Theodor Herzl e quella di Yizhak Rabin, ma non quella di Yasser Arafat a Ramallah, che pure con Rabin condivise un Nobel per la Pace nel 1994. «In accordo o in disaccordo con lui, il presidente Arafat è un simbolo per i palestinesi», dice l’ex ministro della Sanità. Mentre l’Air Force One in mattinata atterrava a Tel Aviv un gruppo di 200 attivisti palestinesi ha montato una dozzina tende e innalzato una bandiera palestinese gigante su una altura di fronte alla ormai famosa collina “E 1”, alle spalle di Gerusalemme, dove il governo Netanyahu intende costruire un insediamento colonico tagliando così ogni possibilità di comunicazione fra nord e sud della Cisgiordania, impedendo al futuro stato della Palestina di avere una contiguità territoriale. La polizia israeliana ha ordinato ai manifestanti di liberare l’area, subito dichiarata “zona militare”, ma per ora non ha cercato di abbattere il campo. Altre proteste a Betlemme, a Hebron — dove alcuni attivisti israeliani sono stati fermati — e a Gaza dove bandiere e poster del presidente Usa sono state bruciate.
«Peccato, che Obama sarà in Palestina per poco più di un paio d’ore», dice Nabil Shaat, ex premier e negoziatore palestinese, parlando dell’incontro di oggi e alla visita alla Natività a Betlemme prevista per venerdì. «La segregazione razziale, compreso il trasporto pubblico, è stato un periodo oscuro della storia americana: e questo sta accadendo oggi in Palestina», dice Shaat riferendosi ai bus “obbligatori” per i pendolari palestinesi che hanno il permesso di lavoro in Israele, «Obama, certamente sensibile sulla materia, è invitato a prendere nota del fatto». Il messaggio che daremo al presidente è chiaro, dice Shaat: «Non abbiamo bisogno di altri 20 anni di negoziati: abbiamo bisogno di decisioni coraggiose e ferme prima che sia troppo più tardi. Ci aspettiamo di più di un appello per la ripresa del processo di pace, ci aspettiamo azioni concrete sul terreno, che pongano fine all’occupazione israeliana dopo 46
anni».

La Stampa 21.3.13
Super-progetti cinesi nelle ferrovie Ma alla fine chi paga?
di John Foley


Lo spaventoso sviluppo delle ferrovie cinesi fa molto bene all’economia. Ma seppellire questo progresso sotto 420 miliardi di dollari di debito è molto meno positivo. Tuttavia, la notizia arrivata il 10 marzo dello smantellamento, da lungo atteso, del Ministero delle ferrovie cinese e della prossima creazione di una nuova compagnia ferroviaria è un ottimo punto di partenza.
Il grande progetto di ampliamento della rete ferroviaria, che prevede di raddoppiare i 120.000 chilometri di rotaie già posate entro il 2015, avrà probabilmente un costo che si aggirerà attorno ai 100 miliardi di dollari all’anno. Sicuramente, il gioco vale la candela. Infatti, se non altro in termini di comodità, prestigio ed abbattimento delle emissioni le ferrovie rappresentano il lasciapassare verso una migliore urbanizzazione. Recentemente, la World Bank ha calcolato che i benefici che un centro urbano può trarre da un miglioramento delle infrastrutture di trasporto, come ad esempio l’inaugurazione di una linea ferroviaria ad alta velocità, sono almeno pari a quelli che questi interventi offrono in termini di tempo ai passeggeri e di riduzione dei costi operativi.
Ciononostante, dal punto di vista finanziario, l’intera operazione si è rivelata una vera follia. Il progetto dipende infatti dai prestiti delle banche pubbliche cinesi e dall’emissione di bond - i quali, a loro volta, sono acquistati principalmente dalle banche. Il debito risultante, con un tasso d’interesse del 6%, significherebbe un pagamento annuale di 25 miliardi di dollari di interessi passivi. I passeggeri non sono abbastanza ricchi da coprire costi del genere.
Ma non è ancora troppo tardi per cambiare rotta; il primo passo è ammettere che il governo dovrà farsi carico di una fetta delle spese. Anche i migliori sistemi ferroviari, come quelli della Svezia e del Giappone, sono dipesi da finanziamenti pubblici e salvataggi. Forse si dovrà trasformare una fetta dei prestiti necessari per realizzare le ferrovie in debito sovrano, in modo da sollevare la neonata China Rail Corp dall’onere di dover restituire questi fondi.

La Stampa 21.3.13
La regina degli scacchi nata nello slum
Le avversarie stupite: «Non ha basi teoriche ma è davvero geniale»
di Adolivio Capece


Dall’Uganda ai Mondiali Bill Gates vuole sfidarla
La sua vita in un film

«Quando Phiona verrà negli Stati Uniti, sarò lieto di invitarla per una partita a scacchi». Anche se non c’è ancora una data precisa, la dichiarazione di Bill Gates ha colto di sorpresa chi non sapeva che il celeberrimo fondatore di Microsoft sapesse giocare e ha ulteriormente aumentato la fama di Phiona Mutesi, la giovane campionessa di scacchi ugandese balzata agli onori della cronaca dopo che la sua storia è stata raccontata in un libro, «La regina di Katwe», dal giornalista Tim Crothers e dopo che la Disney ha annunciato di aver comprato i diritti per farne un film.
Seconda giocatrice di scacchi del suo Paese, l’Uganda, in base alla graduatoria a punti della Federazione scacchistica mondiale, e numero 62 tra le donne del continente africano, Phiona risulta nata nel 1993, ma alcuni dicono abbia meno dei vent’anni che le vengono attribuiti. In realtà nessuno sa con esattezza quando questa ragazza sia nata appunto a Katwe, una baraccopoli alle porte della capitale Kampala.
Non è la prima volta che articoli e libri parlano di geni degli scacchi, forse è la prima volta che la storia sembra una favola. Phiona, novella Cenerentola, si è trovata d’improvviso catapultata dal caldo africano al freddo della Siberia per partecipare con la nazionale del suo Paese al campionato del mondo a squadre di scacchi, ovvero le Olimpiadi degli scacchi, dizione mantenuta per ricordare che una novantina di anni fa l’evento faceva parte ufficialmente dei Giochi Olimpici.
Il viaggio in aereo è stato per Phiona come un viaggio in una carrozza dorata, all’arrivo è rimasta a bocca aperta di fronte all’albergo di 15 piani: era la prima volta che vedeva un edificio così alto. Molti ricordano che non voleva assolutamente entrare in quella specie di scatolone semovente che tutti chiamavano ascensore, le faceva paura. Ha perso anche una scarpetta, anzi tutte e due: le ha tolte mentre giocava, nonostante il freddo, ma lei – gazzella africana – alle scarpe proprio non era abituata. Le prime quattro partite le ha perse, cadendo in banali trucchetti riportati su tutti i manuali per imparare; ma il suo gioco ha colpito le sue prime avversarie, campionesse di Svizzera e Scozia, che l’hanno segnalata ad Alexandra Kosteniuk, campionessa del mondo e molto attenta allo sviluppo degli scacchi al femminile. «Si vede che Phiona non ha le basi, le hanno detto, ma è davvero geniale».
Così Alexandra le ha regalato un libro, il primo libro di scacchi per la giovane ugandese, e lei è stata sveglia tutta la notte a studiarlo. E il giorno dopo ha vinto la sua prima partita contribuendo al successo della squadra contro l’Etiopia.
L’anno scorso la nuova esperienza ancora alle Olimpiadi, questa volta in Turchia. E questa volta ha fatto meglio: tre vittorie, tre pareggi, tre sconfitte. Attualmente la statistica ufficiale dice che ha giocato 42 incontri di torneo: 26 le vittorie, sei le partite finite in parità, dieci quelle perse, quasi tutte con i pezzi neri: qui deve ancora perfezionarsi.
Adesso Phiona aspetta di incontrare Bill Gates, che imparò a giocare a 17 anni, nel 1972, come del resto quasi tutti allora nel mondo, sull’onda dell’entusiasmo suscitato da Bobby Fischer e dalla sfida mondiale con Boris Spassky. Se e quando la partita verrà giocata ancora non si sa. Si sa invece che Bill avrebbe voluto diventare un campione di scacchi: lo ha scritto lui stesso, nell’autobiografia «Bill Gates Speaks» del 1997.
Perché non abbia continuato a giocare e non abbia provato a diventare un campione Bill Gates non lo dice, ma la spiegazione la troviamo forse in una dichiarazione di un suo amicoconcorrente, Larry Ellison, patron della Oracle: «Da ragazzo ho fatto dei tornei di scacchi, ma le sconfitte erano assai più delle vittorie. Così ho smesso. A me non piace perdere».

l’Unità 21.3.13
Von Trotta: la mia Hannah
«Oggi con la crisi si riscopre l’attualità di Arendt»
La regista tedesca: «Eichmann secondo la filosofa non è un mostro che ha compiuto un genocidio ma semplicemente un uomo che ha smesso di pensare in maniera autonoma»
intervista di Gabriella Gallozzi


«PER DECENNI TUTTI HANNO SEGUITO UN’UNICA FEDE: QUELLA NEL MERCATO, NEL DENARO, NELLA FINANZA. ORA CON LA CRISI e quello che sta accadendo in Grecia, per esempio, finalmente la gente si è accorta che non si può più sposare una sola ideologia, ma bisogna tornare a pensare con la propria testa. Ecco, per questo oggi più che mai Hannah Arendt è una figura da riscoprire». Margarethe von Trotta spiega così la spinta che l’ha portata a realizzare il film sulla grande pensatrice tedesca che, dopo la Berlinale, è approdato a Bari, al Bif& st in anteprima italiana e poi arrivare in sala in autunno per la Ripley’s Film. Ieri, infatti, è stato il suo giorno: una lunga lezione di cinema al Petruzzelli, la proiezione di Hannah Arendt e un «ripasso» del nazismo attraverso il racconto della meno nota «resistenza» delle donne ebree, col suo Rosenstrasse, del 2003. Anche questo un film sofferto, che ha impiegato decenni prima di riuscire a realizzare. Così come è accaduto per Hannah Arendt che aveva in testa addirittura dagli anni Ottanta, come racconta lei stessa.
Perché ha scelto di concentrare la storia al momento dell’incontro della Arendt con Eichmann durante il processo al criminale nazista?
«Era il modo più diretto per far capire l’impatto storico ed emotivo di questo incontro esplosivo. È lì davanti al criminale nazista processato da Israele che la Arendt formula per la prima volta il concetto di “banalità del male”. Quell’uomo, responsabile dello sterminio di milioni di ebrei, per lei non è un mostro ma, semplicemente un uomo che ha smesso di pensare in maniera autonoma. Obbediente agli ordini e basta. Ed è proprio questo mix di fatale obbedienza e assenza di pensiero che gli ha permesso di trasportare milioni di persone verso le camere a gas. Per questo, nonostante lei stessa fosse ebrea, venne criticata aspramente e attaccata come se fosse stata una nemica del popolo ebraico».
Nel film c’è anche un altro punto incandescente. Il duro giudizio della filosofa sulle responsabilità degli stessi leader ebraici nello sterminio...
«Certo perché è uno dei cardini della sua riflessione, uno dei motivi dello scandalo che provocò quel suo reportage sul processo Eichmann. Tanto che il film in un primo momento doveva intitolarsi La controversia. Anche i leader ebraici erano tedeschi, erano nati in Germania. Se avessero avuto un po’ più di grillismo invece di seguire un’unica linea forse non tutto sarebbe andato com’è andato. Del resto tra il non fare nulla e fare qualcosa nonostante l’oggettiva immensità del pericolo, c’è una via di mezzo. La stessa Arendt, come tanti altri ebrei, avrebbe potuto diventare una vittima del nazionalsocialismo, ma rendendosi conto del pericolo abbandonò la Germania». È un tema «scivoloso» visti i tempi e le recrudescenze naziste. Tra i suoi produttori ce n’è anche uno israeliano. Ci sono state difficoltà?
«In realtà, sì. Lui in particolare non avrebbe voluto si affrontasse questo argomento. Io però faccio la regista, non la storica e volevo fare un film su Hannah Arendt, sulla pensatrice e sulla donna, nella sua complessità. Sono tutti argomenti controversi. Fino agli anni 60a, per esempio, i giovani in Israele pensavano che gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto fossero dei poco di buono. Per questo Ben Gurion volle fare il processo ad Eichmann proprio a Gerusalemme».
Quanto è noto in Germania il pensiero di Arendt?
«Beh, a dire il vero la conosce una cerchia ristretta di persone. Direi una élite. Persino il mio produttore di sempre che è un quarantenne quando gli ho detto che volevo fare un film su Hannah Arendt mi ha detto: “Su chi????” Non la conosceva per niente».
Ma il film in Germania è andato molto bene...
«Sì, è vero. E la prima a stupirmi sono io. Nell’83 volevo fare un film su Rosa Luxemburg uscito nell’86 perché ero convinta che fosse la pensatrice più importante del secolo scorso. Mi rendo conto, ora, invece che Hannah Arendt è ancora più importante. Tanto che solo oggi la profondità del suo pensiero è affrontata e capita correttamente. Con la crisi che sta colpendo tutti, finalmente le persone si sono rese conto che bisogna tornare a pensare, autonomamente, senza più aderire a fedi preconcette. In questo senso la Arendt è un esempio luminoso di chi rimane fedele alla sua visione del mondo».

Repubblica 21.3.13
Von Trotta: porto sullo schermo il rigore morale di Hannah Arendt
intervista di Maria Pia Fusco


BARI «Ho cominciato a lavorare su Hannah Arendt dieci anni fa, con la scrittrice americana Pam Katz. Pensavamo alla storia d’amore con Martin Heidegger, e sarebbe stato più facile. Ma non ero convinta: mi sembrava di sminuirne importanza e peso del pensiero. Poi ho concentrato il racconto nel periodo in cui lei seguì per il New Yorker il processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme. Il legame con Heidegger è evocato in alcuni flashback sugli anni Venti e poi nel dopoguerra. Anche se aveva aderito al nazismo, Hannah non troncò mai del tutto con lui». Così Margarethe von Trotta su Hannah Arendt (in sala in autunno), che, insieme alla magnifica interprete Barbara Sukowa, ha presentato in anteprima al festival di Bari. Che cosa l’ha colpita di più della Arendt? «L’onestà intellettuale, il rigore morale, il coraggio di difendere le sue idee. Io voglio capire era il suo motto, una volontà che pagò con la violenza delle critiche dopo l’uscita degli articoli e di La banalità del male.
Una parte della cultura ebraica la accusava di tradire la memoria dell’Olocausto, non accettava la verità di Hannah su Eichmann descritto come un piccolo burocrate sottomesso, che nell’“eseguire gli ordini” rinunciava alla ragione e al pensiero. Un criminale, non un mostro».
Fu anche accusata di considerare collaborazionisti alcuni vertici ebrei...
«Non ha mai usato queste parole. A Gerusalemme aveva ascoltato le testimonianze di alcuni rabbini tedeschi che si erano piegati alle deportazioni senza reagire. Lei non accettava la rassegnazione, pensava che se invece di restare passivi avessero almeno tentato di fare qualcosa, forse i morti non sarebbero stati sei milioni».
C’è una differenza tra la Arendt pubblica, dura e intransigente, e la donna privata, moglie affettuosa e tenera?
«Per Hannah l’amore doveva essere protetto dalla realtà esterna, come se due che si amano costituissero un mondo a parte. Ma veniva definita “genio dell’amicizia”, era circondata dall’affetto di tanti amici. A parte Heidegger, il grande amore della sua vita fu il marito Heinrich Blucher, berlinese, seguace di Rosa Luxemburg, comunista».
Quanto c’è di finzione nel film?
«I dialoghi e le situazioni li abbiamo ricostruiti dalla biografia scritta da una allieva, dagli scritti, dai documenti. L’interrogatorio ad Eichmann fu ripreso dagli americani che installarono quattro schermi da cui Hannah seguì il processo, senza rinunciare alla sua abitudine di fumatrice accanita».

Repubblica 21.3.13
Cercando Utopia
Dialogo filosofico sui migliori dei mondi possibili
Maurizio Ferraris e Salvatore Veca discutono di politica, crisi e fallimenti tra ciò che è e ciò che potrebbe essere


Da oggi al 24 marzo si svolge a Monte Verità (Ascona, Ticino) «Utopie e magnifiche Ossessioni», quattro giorni di incontri, conversazioni, teatro, musica e letture con la direzione artistica di Irene Bignardi, Paolo Mauri e Joachim Sartorius. Partecipano Hans Magnus Enzensberger, Claudio Magris, Mathias Énard, Vladimir Sorokin. Patrizia Cavalli canterà i suoi versi accompagnata dalla musicista Diana Tejera. L’architetto Diébédo Francis Kéré discuterà con Mario Botta. Tutti sollecitati dalla domanda di Peter Sloterdijk: «Perché le utopie falliscono?». Il filosofo Salvatore Veca interverrà con «Il senso della possibilità. Frammenti di un discorso utopico», da cui prende avvio questo dialogo con Maurizio Ferraris.
FERRARIS:
Spesso si contrappone la realtà alla possibilità e si vede nella realtà qualcosa di intrinsecamente negativo, capace soltanto di resistere e di opporsi. Ora, indubbiamente, il reale ha questa caratteristica. Al tempo stesso, però, è la fonte del possibile, perché è proprio a partire da quello che c’è che si aprono le possibilità. In fondo, quello che dico è già tutto scritto nell’Estetica di Baumgarten, un leibniziano, dunque un filosofo molto affezionato alla possibilità. Che raccomanda agli scrittori a corto di argomenti di consultare un “manuale ontologico”, cioè un libro che conteneva una classificazione di oggetti. Dentro a quegli oggetti si nascondevano delle storie. Dentro alla realtà, a quello che c’è, è per così dire “incassata” la possibilità, quello che può esserci. È proprio perché ognuno di noi è quello che è, con la sua storia e la sua natura, che gli si aprono certe possibilità invece che certe altre.
VECA:
Nei miei Frammenti di un discorso utopico chiedo a Robert Musil una risposta alla faccenda complicata della contrapposizione o della semplice distinzione fra realtà e possibilità. Nelle prime pagine del suo L’uomo senza qualità, Musil ci ricorda che il vecchio professore, il papà di Ulrich, sapeva benissimo che gli stipiti delle porte sono duri e che sbattergli contro la testa faceva sicuramente male. Questo è all’origine del postulato del senso della realtà. Ma, aggiunge Musil, se c’è qualcosa come il senso della realtà, deve anche esserci da qualche parte qualcosa come il senso della possibilità. L’inemendabilità del reale, nel senso in cui tu la sostieni, non è incompatibile con il senso della possibilità. E il vecchio Baumgarten era un devoto del grande Leibniz, secondo cui i mondi possibili sono in ogni caso debitori e tributari nei confronti del mondo reale, in cui ci accade di vivere. Nei Frammenti ho chiesto naturalmente una mano a Leibniz, che mi ha suggerito di riflettere su un superbo pezzo della sua appendice a Sull’origine radicale delle cose.
FERRARIS:
Bismarck ha definito la politica “l’arte del possibile”, con quella che è dopotutto — e non senza una qualche ironia — una variante di “l’immaginazione al potere”. Entrambi gli slogan, però, peccano in qualche modo per difetto. Perché non solo la politica, ma ogni momento della nostra vita sembra attraversato dalla possibilità e dall’immaginazione che ce la rappresenta. Il rimorso, il rimpianto, la speranza e la paura sono stati d’animo che nascono proprio dalla consapevolezza del possibile, di cose che sono andate in un modo quando avrebbero potuto andare in un altro modo, di cose che potrebbero accadere e la cui semplice possibilità produce degli effetti, da una notte rovinata dalle preoccupazioni alle speculazioni in borsa. Insomma, una caratteristica essenziale della vita reale è la consapevolezza che ciò che accade in un modo avrebbe potuto accadere altrimenti, e che quello che abbiamo fatto avrebbe essere potuto venir fatto in un altro modo (generalmente, migliore. A meno che si faccia avanti la consolazione, che di nuovo corre sul filo del possibile, del “poteva andar peggio”).
VECA:
Non c’è dubbio che ogni momento della nostra vita sia attraversato, come tu dici, dalla possibilità e dall’immaginazione che la rappresenta. Ma sarei più prudente e parsimonioso, in proposito. Vi sono circostanze in cui le nostre vite sono inchiodate dal senso della realtà, trasformato e congelato nel senso della necessità. L’arte del possibile di Bismarck può sistematicamente slittare nella massima della signora Thatcher, secondo cui “non c’è alternativa” e l’immaginazione al potere può sbattere la testa contro gli stipiti duri del vecchio professore di Musil. Di questi tempi, non vorrei buttarla in politica, in ogni caso. Perché anche nelle nostre ordinarie questioni di vita può darsi il caso che il senso della possibilità e le nostre risposte in termini di rammarico, speranza, paura o rimpianto evaporino e lascino il campo alla percezione opaca della necessità. A volte, molto più spesso di quanto sarebbe desiderabile, della falsa necessità. In queste circostanze l’alone delle possibilità si contrae. L’ombra del futuro sul presente si accorcia. Come sembra accadere nella crisi sistemica e strutturale in cui siamo intrappolati. Nei miei Frammenti suggerisco che tutto ciò è semplicemente evitabile. Anche se difficile. A volte, molto difficile.
FERRARIS:
A un certo punto Borges parla di una «Russia amabile e fastosa, calpestata dai palafrenieri e dagli utopisti». Con questo manifesta il suo ben noto conservatorismo. Borges però è stato, al tempo stesso, uno dei più grandi scrittori della possibilità: pensa a novelle come Il giardino dei sentieri che si biforcano. A prescindere dalla valutazione storica, perché la «Russia amabile e fastosa» era un mondo arretrato e radicalmente ingiusto, Borges ci suggerisce di separare il senso del possibile da un uso generico e spesso nefasto dell’utopia come fuga dalla realtà.
VECA:
La grande tradizione del pensiero utopico è ricca di flop micidiali. Buona parte delle utopie, che disegnano modi di convivenza, istituzioni e pratiche sociali, consegnano tranquillamente il senso della possibilità al ferreo destino della necessità. Le utopie di mondi sociali possibili sono immunizzate rispetto al tempo e, soprattutto, alla libertà delle persone. I rituali di Fourier esemplificano regimi disciplinari. Qui sono d’accordo con te, quando dici che il senso del possibile dovrebbe essere separato da un uso generico e spesso nefasto dell’utopia come fuga dalla realtà. Per questo mi avvalgo dell’idea di John Rawls, il grande teorico della giustizia sociale, di utopia realistica. Un modo di esplorare possibilità alternative, entro lo spazio che il mondo ci concede. Il realismo definisce i vincoli entro cui sono per noi accessibili mondi possibili, più degni di lode o solo meno degni di biasimo. È difficile tuttavia non chiedersi: un mondo senza utopie non sarebbe per noi un mondo più povero? Non avvertiremmo un senso di perdita e dissipazione? Qui, forse, ci può aiutare il grande Max Weber: «È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
FERRARIS:
C’è una storia ebraica che raccontava Derrida. Cristo, il Messia, è giunto, gira per Roma vestito da mendicante. A un certo punto uno lo riconosce e gli chiede «Quando verrai?». Che sembra la quintessenza del messianismo: il Messia è per sua natura qualcuno che deve essere atteso e quando si presenta non è il vero messia. Questo sembra essere anche il destino delle utopie, che per definizione non possono realizzarsi, perché se si realizzano cessano di essere utopie. Al tempo stesso, si capisce il senso e la centralità del messianismo nell’esperienza umana, come speranza, che definisce l’elemento, per così dire, intrinsecamente utopico della vita (in definitiva, la depressione potrebbe essere definita come un drastico azzeramento dell’utopia).
VECA:
La storia ebraica di Derrida sul Messia mi fa venire in mente un’altra storia ebraica, quella di Walter Benjamin. Quando ci dice che agli ebrei era vietato investigare il futuro. Perché la Torah e l’interpretazione li istruiscono nei vocabolari della memoria. Ma non per questo, sostiene Benjamin, il futuro è diventato per gli ebrei un tempo vuoto e omogeneo. Perché ogni secondo, in esso, è la piccola porta da cui poteva entrare il Messia. Tutto ciò ha a che vedere con il senso della possibilità quando lo mettiamo a fuoco, come tu suggerisci, nell’esperienza umana. Nelle vite che ci accade di vivere. Nei Frammenti propongo una riflessione sulle nostre vite come un repertorio o un palinsesto di possibilità. Lo faccio chiedendo aiuto a Hermann Hesse e alla vicenda del suo Siddhartha. Il repertorio delle possibilità getta luce, in questo caso, sulla nostra possibilità di reinventarci, di perderci, di inciampare, di errare e di ritrovarci nel tempo. Nelle nostre vite congetturali, fra contingenza, scelta e stipiti duri del vecchio professore. Ho l’impressione che qui si possa riconoscere, almeno per un tratto sfuggente ed elusivo, qualcosa come la nostra dignità. In un senso sorprendentemente illuministico. Sento che Diderot, a occhio, sarebbe d’accordo.

La Stampa 21.3.13
«Caravaggio ucciso dai Cavalieri di Malta»

Caravaggio vittima di una congiura, assassinato da emissari dei Cavalieri di Malta a Palo, oggi Ladispoli. È la conclusione dello storico dell’arte Vincenzo Pacelli, tra i maggiori esperti dell’artista, che ha indagato a lungo nei documenti dell’Archivio di Stato e dell’Archivio Vaticano e ora riassume i suoi risultati in Michelangelo Merisi detto Caravaggio tra arte e scienza (ed. Paparo). «Molto probabilmente, dopo esser stato ucciso in una delle prigioni, Caravaggio fu gettato in mare per impedire che venisse ritrovato il cadavere e si potesse così risalire alla causa del decesso».