domenica 24 marzo 2013

l’Unità 24.3.13
Il ricatto di Berlusconi
Bersani: mi preoccupo per l’Italia, non per me
Il Cavaliere: governo con noi o al voto. Bersani avvia le consultazioni con le parti sociali
Leggi su incompatibilità, ineleggibilità e incandidabilità
di Simone Collini


Son troppo serio? Devo sorridere di più? No perché...». Pier Luigi Bersani chiude la prima giornata di consultazioni e ai giornalisti che lo attendono nella sala Aldo Moro di Montecitorio rifila una battuta che fa ben capire come abbia reagito alla lettura di qualche quotidiano che ha dedicato intere pagine alla sua «faccia scura», alla sua «smorfia dolente» mostrate dopo aver ricevuto da Giorgio Napolitano l’incarico a «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo» che possa garantire la formazione di un governo. «Sono serio perché ci sono dei problemi, ma io di mio sono tranquillissimo». Per questo, dice un po’ sorridendo e un po’ non riuscendo a nascondere un certo fastidio, è meglio se i media non si preoccupano della sua «psicologia» ma di altro. «Io sono solo un po’ preoccupato per il Paese». E non ha caso ha iniziato questa operazione di «verifica» incontrando nella Sala del Cavaliere di Montecitorio non le forze politiche (lo farà da martedì) ma le parti sociali, «i soggetti più sul fronte», partendo dalla «vita comune degli italiani» e annunciando: «Se ci sarà un governo guidato da me, si partirà da questa logica». Bersani parla mentre a poche centinaia di metri da Montecitorio, a Piazza del Popolo, Silvio Berlusconi dice che il suo è un «incarico precario» e che «se fallisce si torna al voto». Quando glielo riferiscono, quando gli parlano dei fischi che la piazza gli sta dedicando, il leader del Pd incassa con un’alzata di spalle. «Non mi offendo. E, quanto a precari, siamo in buona compagnia». Bersani resta insomma convinto che il suo tentativo di dar vita a un governo che abbia lo scopo di realizzare un programma qualificato, che cerchi i voti in Parlamento con l’ipotesi di maggioranza variabili, sia l’unico che abbia qualche possibilità di riuscita. «Dica Berlusconi se ci sono ipotesi meno precarie», manda a dire ribadendo nuovamente il suo no a ogni ipotesi di larghe intese con il Pdl. «Io non credo. Che ci siano delle difficoltà, una porta stretta, un passaggio difficile, io non lo nego. Lo vede chiunque. Ma se mi metto al servizio di questo passaggio non è per ambizione mia, ma perché altre cose sarebbero ancora più difficili e precarie». A cominciare proprio da un esecutivo sostenuto dai voti di Pd e Pdl. «L’Italia chiede un cambiamento. Ognuno si prenda le sue responsabilità».
IL PDL NON PARLI DI CONCORDIA
Un messaggio rivolto tanto al partito di Berlusconi quanto al Movimento 5 Stelle. «Non mi parli di concordia chi, cinque mesi prima, ha lasciato il cerino ad altri e si è messo in libertà in campagna elettorale», dice chiudendo all’ipotesi che possa nascere un governo di larghe intese. Quanto al partito di Beppe Grillo, la sfida è a dimostrare che il cambiamento si vuole davvero. «Noi non stiamo affatto inseguendo il M5S. Abbiamo percepito una richiesta di cambiamento. Se ci sono le condizioni per fare un governo, il cambiamento si vedrà anche lì. Ma perché è l’Italia che lo chiede. Se altri si sottraggono, se rendono impossibile quello che ora è possibile, si prendono la loro responsabilità».
IL DOPPIO REGISTRO E LE TRE “I”
La strategia, anche dopo la giornata di ieri contrassegnata dalla manifestazione di Piazza del Popolo, rimane dunque quella del «doppio registro», per utilizzare l’espressione dello stesso Bersani. Da un lato il programma di governo, centrato sugli otto punti presentati all’indomani delle elezioni e riguardante riforme sulla moralità pubblica e le urgenze sociali. Dall’altro, i temi istituzionali: «Qui si può trovare un equilibrio su un’assunzione di responsabilità tra le diverse forze politiche».
E a dimostrazione del fatto che non intende cercare accordi sottobanco con Berlusconi per far nascere il governo, Bersani ribadisce che nel programma che presenterà (ricalcante gli otto punti già messi sul piatto) ci saranno «norme stringenti su incompatibilità, incandidabilità e ineleggibilità». Nuove “tre i” che per il leader del Pd sono utili per «far ripartire mettendoci sul pulito, su basi nuove».
Come è possibile far nascere un governo che annuncia subito una legge sul conflitto di interessi? Bersani lascia Montecitorio sorridendo ai giornalisti che gli parlano di missione impossibile. «Non c’è nulla di impossibile», risponde mentre si incammina verso un pub, a bere una birra con i ragazzi della scorta. «Basta che non si dica che sono pessimista».

l’Unità 24.3.13
L’occasione del doppio binario
di Michele Prospero


CON L’INCARICO CONFERITO A BERSANI LE ISTITUZIONI IMBOCCANO la strada meno precaria per tentare di rispondere a una crisi di sistema che, dopo il voto, minaccia una lunga paralisi e ingovernabilità. L’assenza di maggioranze certe in un ramo del Parlamento può essere l’occasione per innescare tensioni catastrofiche. La cura della tempesta perfetta scatenata dalle urne potrebbe però anche rivelarsi una crisi di crescita, capace di favorire la maturazione di nuovi equilibri.
Gestire la crisi odierna con intelligenza politica significa anzitutto scongiurare le tendenze alla dissoluzione traumatica della legislatura e privilegiare le residuali forze esistenti per avviare un arduo percorso che assicuri la tenuta del quadro politico in una giuntura critica assai allarmante. Consentire il decollo di un governo inedito per la Seconda Repubblica, come quello affidato a Bersani, e che forse solo in aula potrà mostrare la consistenza dei suoi numeri, sarebbe una prova di raggiunta responsabilità istituzionale e di consapevolezza storica da parte dei nuovi attori del sistema politico.
Quello che tra le difficoltà sta cercando di costruire Bersani è il solo governo politico realisticamente disegnabile nell’attuale situazione parlamentare. Non è pensabile che sul suo cadavere si possano attivare altri circuiti supplementari di ricerca e promozione di maggioranze diverse da quelle politico-elettorali e che le chiavi dell’enigma siano affidate a protagonisti diversi da quelli legittimati nel gioco della rappresentanza. La via stretta, ma non del tutto ostruita, intrapresa da Bersani conduce a una parlamentarizzazione della gestione della crisi di sistema. Altre soluzioni adombrate o rischiano di apparire insensibili (se non provocatorie) rispetto al recente pronunciamento del corpo elettorale (che ha umiliato la strana maggioranza che sorreggeva il governo tecnico facendole mancare circa 10 milioni di voti) o appaiono affrettate, non fondate su solidi presupposti politici e programmatici.
Nelle insidie del momento la politica può tornare a svolgere un ruolo. Racchiude bene il senso istituzionale da imprimere alla nuova stagione politica la formula del doppio binario. Da una parte opera il governo, che sfida i tempi dell’emergenza sociale con segnali di forte innovazione e con provvedimenti urgenti sui quali sarà agevole incassare il necessario sostegno in aula. E, dall’altra, si inserisce il Parlamento, che recupera margini di autonomia funzionale smarriti nel corso del bipolarismo muscolare. Uno scambio trasparente e virtuoso è possibile. Alla responsabilità di non opporsi al varo di un esecutivo di cui non si fa parte, come segno dell’affidabilità democratica dell’intero sistema deve corrispondere la forte valorizzazione del Parlamento. Il ventennio trascorso ha fiaccato più di ogni altro proprio il ruolo, i tempi e i simboli del parlamentarismo con raffiche di voti di fiducia, di maxiemendamenti, di decreti, di deleghe. L’occasionalismo di maggioranza ha anche stravolto il senso autentico del riformismo istituzionale. E, a cominciare dal 2001 per approdare al 2005, delle riforme costituzionali di ampia gittata (nuovo titolo quinto e premierato assoluto) sono state imposte con la dura logica dei numeri, e quindi senza neppure ricercare il coinvolgimento, sempre indispensabile, delle opposizioni.
Proprio un governo che al momento sembrerebbe annunciarsi come un esecutivo di minoranza, la cui formazione non viene osteggiata però al Senato da gruppi decisi a non cavalcare un insano spirito di avventura, può essere un tassello prezioso per restituire piena funzionalità al sistema parlamentare, per aggiustare equilibri delicati nel congegno istituzionale andati inesorabilmente distrutti in questi anni di oscuramento della cultura delle regole.
Con un preciso scadenzario indicato per l’approvazione delle sue proposte essenziali nel campo economico-sociale, con una verifica temporale accurata delle realizzazioni sul terreno dei costi della politica, con un dialogo serio con tutte le forze politiche sulle manutenzioni costituzionali non più rinviabili, quello che si appresta a costruire Bersani si presenta come un governo che, sebbene scaturito da una situazione di eccezione, può contribuire al recupero di funzionalità e credibilità di un sistema altrimenti spacciato e privo di alternative robuste al salto nel buio del voto anticipato annunciato da Berlusconi.

Repubblica 24.3.13
Bersani pronto a una svolta “Non è una missione impossibile la superbicamerale per le riforme”
L’incontro con Saviano. Per il Quirinale spunta Mattarella
di Francesco Bei


IL PRIMO giorno di consultazioni Bersani ci tiene a presentarsi con un’attenzione tutta concentrata «sui problemi reali del paese». Come se davvero giovedì potesse salire al Colle e sciogliere la riserva, pronto a consegnare subito la lista dei ministri. «Partiamo dalle fatiche del paese — spiega nei suoi incontri a porte chiuse — e non da una trattativa tutta in politichese».
A dispetto di chi lo descrive cupo e rassegnato, il segretario del Pd mostra ai giornalisti tutto l’ottimismo della volontà: «Non c’è niente di impossibile, non si dica che sono pessimista». La conferenza stampa nella sala Aldo Moro di Montecitorio serve anche a rispondere a Silvio Berlusconi, che quasi in contemporanea, arringando la piazza del Pdl, l’aveva definito un premier precario «Berlusconi mi dica se ci sono ipotesi meno precarie di un necessario governo del cambiamento».
A chi si rivolge Bersani? «Chiederemo a tutti di consentire la nascita del governo, se poi il Pdl o gli altri si asterranno o non entreranno in aula — argomenta il leader democratico con i suoi interlocutori — è una questione secondaria». Quanto ai grillini, Bersani rilancia la sfida con il metodo Grasso: «Abbiamo dimostrato che noi non siamo in coda ma in testa al cambiamento...invece di insultarmi si assumano le responsabilità». I democratici con i cinquestelle le stanno provando tutte. Daniele Marantelli, il deputato che si occupa della Nazionale dei parlamentari, ha persino provato ad agganciarli con la scusa di una partita «tra di noi». E Bersani ieri ha promesso «norme stringenti su conflitto di interessi, candidabilità e ineleggibilità». Ma parlare di un ddl che valga a partire dalla prossima legislatura è cosa molto diversa dal votare l’ineleggibilità di Berlusconi alla giunta del Senato, comevorrebbero fare i grillini.
Non c’è dubbio infatti, stante il veto assoluto di Grillo e Casaleggio, che la vera partita sia quella con Pdl e Lega. Soprattutto con il Carroccio il capo dei democratici è convinto di poter aprire un dialogo “mirato”. Su alcuni punti è possibile raggiungere un’intesa senza doversi sbilanciare con l’intero centrodestra. E il premier incaricato ha intenzione di giocare queste chances spendendo anzitutto la carta della riforma costituzionale.
«Penso — ha confermato Bersani in conferenza stampa — ci possa essere uno spazio di discussione con il Pdl sui grandi temi istituzionali. Ci può essere una corresponsabilità istituzionale». L’idea è quella di dar vita a una sorta di “Super-Bicamerale”, una riedizione della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione. Nella testa del leader Pd l’organismo dovrebbe essere guidato da un esponente del centrodestra e, nel ruolo che fu di Meuccio Ruini, potrebbe essere chiamato il segretario del Pdl Angelino Alfano.
L’altro tavolo da gioco è quello del Quirinale, per portare al Colle «una persona autorevole». Bersani è pronto a una «corresponsabilità» anche nella designazione del successore di Napolitano, come richiesto da Berlusconi. Tuttavia deve essere chiaro che la disponibilità a «ragionare sul metodo» non deve nascondere l’evidenza che «il capo dello Stato avremmo i numeri per eleggerlo da soli». E nelle ultime ore il nome su cui si sta ragionando nel Pd è quello di un cattolico come Sergio Mattarella. Di centrosinistra ma di chiara estrazione moderata. Ex ministro e ora giudice costituzionale. la subordinata sarebbe quella dell’ex presidente del Senato, Franco Marini. Il Cavaliere, invece, è pronto a giocare una carta segreta. Visto che Napolitano (che sarebbe la prima scelta) continua a ripetere a tutti quelli di non essere assolutamente disponibile a una rielezione, Berlusconi tiene coperto un nome che il Pd non potrebbe rifiutare. Nelle conversazioni di questi giorni è stata infatti soppesata la candidatura di Luciano Violante, un tempo considerato dal Cavaliere «il capo del partito dei giudici», ma da anni sostenitore di un accordo politico con il centrodestra per arrivare a riforme condivise. Chi meglio di un ex magistrato, così autorevole da poter aspirare alla Corte costituzionale, potrebbe dargli garanzie su un trattamento “non punitivo” da parte dei pm? «Solo un generale — osserva un consigliere di Berlusconi che è stato testimone di questi ragionamenti — può avere la forza di convincere e fermare altri generali. Come fece De Gaulle con l’Algeria».
Con questa partita sullo sfondo, Bersani intanto continua a lavorare «come se» davvero a palazzo Chigi dovesse andarci lui. Lo spirito è quello. E ne sono stati testimoni ieri Graziano Del Rio e Alessandro Cattaneo, entrati nella sala del Cavaliere per essere consultati come rappresentanti dei comuni. Si parlava di Tares — la nuova tassa sui rifiuti introdotta da Monti e che partirà da luglio — e Bersani ha alzato gli occhi al cielo: «Quando arriveremo al governo questo è il primo regalino che troveremo». Con i suoi collaboratori il segretario sta mettendo a punto anche una rosa di personalità da inserire nei vari ministeri, nella consapevolezza che «dovrà esserci un mix di esperienza politica e rinnovamento». Quindi non saranno tutti esterni solo per compiacere i grillini. Per l’Economia si fa il nome di Fabrizio Saccomanni, numero due di Bankitalia, per la giustizia Andrea Orlando, mentre Enrico Letta potrebbe andare a un ministero nuovo di zecca, quello dello Sviluppo sostenibile, creato accorpando lo Sviluppo economico e l’Ambiente. Altri nomi in ballo sono quelli di Maria Chiara Carrozza, rettore della scuola superiore Sant’Anna, Oscar Farinetti di Eataly, il sociologo Giuseppe De Rita, il ministro Fabrizio Barca.

il Fatto 24.3.13
Ecco perché sta di nuovo vincendo Berlusconi
di Furio Colombo


Non avrei mai voluto scriverlo, ma è ciò che sta accadendo in questi giorni. Ha vinto di nuovo Berlusconi. Torna a riempire la piazza come un megastudio affollato di cittadini contenti e ansiosi di essere le sue comparse. E non perché si sia camuffato da persona per bene, magari solo una mascherata. No, ha occupato il Palazzo di Giustizia di Milano, disertato i suoi processi, comprato spazio, tempo e persone, insultato i giudici e convocato la folla in piazza per una manifestazione contro la Costituzione. Ma ha vinto. Lo dice anche Matteo Renzi, che sarebbe il meglio del futuro del Pd, il partito che si era appena dichiarato l’ultima barriera. Ecco Renzi: “Ora è difficile non parlare con Berlusconi” (Repubblica, 23 marzo ). Infatti mettetevi nei panni di Bersani.
Il Capo dello Stato ha affidato al segretario Pd un “mandato esplorativo per vedere se ci sono i numeri”. Se il confronto non sembrasse sproporzionato, una situazione del genere è già stata vissuta intorno a noi e c’è chi se la ricorda. Nel 1944, la Resistenza in Europa era allo stremo, gli alleati erano bloccati a metà Penisola e Allen Dulles, capo dell’Oss (predecessore della Cia) propone di interrompere la guerra al fascismo e al nazismo, e dedicarsi a combattere la Russia comunista. Quel piano è fallito perché il presidente americano, che certo non amava l’Unione Sovietica, ha visto il rischio enorme di conservare il prima pur di passare al dopo, e lo ha impedito. Ha rafforzato i legami col futuro nemico della Guerra fredda e con le Resistenze europee (composte per metà di comunisti militanti e per metà di ex fascisti, di monarchici, di personaggi dal passato e dal futuro non tanto chiaro), ha deciso che non tutti i pericoli sono uguali, e ha vinto.
PER MERITO di questa strategia non sono finiti i mali del mondo. Ma sono finiti il fascismo e il nazismo, i loro uomini, il loro potere, la loro visione demente del mondo. C’è un senso nel rievocare quel cumulo di rovine per spiegare il rischio che stiamo correndo? Forse sì. Le rovine ci sono, troppa gente non lavora, troppe imprese sono ferme, troppe tempeste sono in corso o sono in arrivo, isolando i cittadini e promettendo non solo la continuazione del caos ma un caos più vasto, mentre si fa più piccola e disordinata la resistenza di chi dovrebbe, a nome dei cittadini, fare fronte.
Ci sono state elezioni politiche in Italia e due terzi degli italiani hanno detto basta almeno alle cause interne del disastro (vent’anni di Berlusconi egemone e padrone assoluto del sistema delle informazioni). Lo hanno detto pur sapendo che ci sono stati cedimenti e debolezze e clamorosi errori (che possono essere giudicati anche come convenienti voltafaccia) da alcuni di coloro che adesso vengono votati per cancellare la nefanda epoca Berlusconi. Ma nello schieramento dei vincitori (mai così grande in un Paese di piccole vittorie e perenni rinvii) scoppia la sindrome Allen Dulles: i nostri veri nemici sono i sovietici. La guerra continua. Vanno scacciati tutti perché solo i puliti e gli intatti da ogni ambiguo o colpevole rapporto col passato devono governare subito. Ma non possono.
E in questa visione della situazione italiana, Berlusconi diventa piccolo e irrilevante, perché quello che conta è fermare il Pd e impedire che possa avere qualsiasi ruolo. Certo, nessuno nega, nel gruppo Allen Dulles (cioè “la guerra continua su un altro fronte”) che Berlusconi sia la mela marcia. Ma la strategia, molto dannosa ma anche scoperta in modo imbarazzante, è dare spintoni al Pd affinché cada sulla mela marcia e la afferri. In quel momento sarà evidente ciò che si era sempre detto: meglio da soli. Ma da soli non si può governare mentre (la prospettiva è paurosa) con la mela marcia sì. Ecco perché sabato ho accettato l’invito di MicroMega e sono andato, come un tempo, alla manifestazione di Roma per dire che Berlusconi è ineleggibile. E deve essere confermata, senza altre leggi, la sua ineleggibilità come concessionario di pubblica licenza che, in tutti questi anni, Berlusconi ha dato a se stesso. Ha triplicato il valore delle sue aziende per il solo fatto di essere concedente e concessionario, e ha bloccato ogni concorrenza per il solo fatto di controllare, da presidente, le Tv di Stato e da intimidire, con il suo straordinario doppio gioco, ogni altro giornalista (salvo acquisti).
L’INIZIATIVA mi è sembrata urgente: dire e ripetere dove si situa in primo luogo il pericolo per la democrazia, e dove diventa strano il gioco di spingerlo a ritornare al potere, (con il Pd) per poter avere una immagine chiara e definitiva di tutti i nemici in una grande foto di gruppo. Se accadrà sarà comunque una disgrazia. Sabato siamo scesi in piazza nel tentativo, ingenuo e inadeguato (lo stesso che abbiamo condiviso con Tabucchi, con Sylos Labini, con Flores d'Arcais, con Travaglio, con chi dirige questo giornale, con tantissimi cittadini) di spingere indietro, nel niente che è il suo spazio storico e politico, Silvio Berlusconi. Ma io credo che significasse anche una risposta simile a quello che Ferruccio Parri fece avere, tramite il cardinale di Milano, al presidente degli Stati Uniti: “Anche se voi ci abbandonate, noi continueremo la Resistenza”. Che non è il gioco di fare il possibile per mettere insieme Berlusconi e Bersani (o Berlusconi e Renzi). Ma è l'impegno di fare ciò che due terzi degli italiani hanno votato: liberare l’Italia da Berlusconi. Il resto, il “dopo Berlusconi” è un’altra storia.

Repubblica 24.3.13
Il Padre non c’è più e il Paese è impaurito
di Eugenio Scalfari


QUALCUNO s’incomincia ad accorgere che è venuta meno la figura del padre e che questa lacuna di paternità è una delle cause non marginali della perdita d’identità e della nevrosi diffusa che da molti anni affligge il nostro Paese e non soltanto. Se il padre ha dimissionato non ci saranno più neppure i figli, i fratelli, i cugini; mancano i punti di riferimento. La stessa salutare dialettica tra le generazioni viene meno e si trasforma in una lotta per il potere tra vecchi e giovani.
La gerarchia familiare aveva il compito di trasmettere l’identità, la memoria storica e il sapere orale. Ebbene, questo mondo è affondato ma poiché la natura non sopporta il vuoto, al posto del padre, della madre, dei fratelli, si è insediata la cultura del branco.
Si credeva che l’indebolimento dei vincoli parentali fosse una conquista della modernità, affrancata una volta per tutte dai legami del sangue e della tribalità; si pensava che l’individuo, liberato dai ruoli e dalle usanze ripetitive della gerarchizzazione, recuperasse la sua responsabilità, la sua libertà e la pienezza della propria realizzazione. Ma queste acquisizioni si sono verificate soltanto in piccola parte. Nella maggioranza dei casi l’individuo, abbandonato alla sua solitudine, non ha trovato altro rimedio che quello di confondersi nel branco, cioè in un soggetto anonimo e indifferenziato, sorretto soltanto da motivazioni emozionali quali l’individuazione di un branco nemico, la pratica anche esteriore di segnali distintivi, la volontà di potenza del gruppo, la scelta di un capo cui delegare tutti i poteri di decisione. Il branco è un prodotto della modernità e al tempo stesso è lo sbocco più arcaico che mai si potesse immaginare.
Esso contiene una socialità negativa e distruttiva, si basa sull’ideologia del più forte e su valori elementari di violenza, gregarismo, feticismo. Gli “ultrà” delle curve sud ne sono l’esemplificazione più frequente e più primitiva.
L’affievolimento e poi la scomparsa della figura paterna hanno molte cause.
Le più evidenti sono di natura economica, ma non sono le sole e neppure le più essenziali. Alla base di questa vera e propria rivoluzione istituzionale c’è da un lato l’emancipazione della donna, dall’altro la perdita della trascendenza, due elementi fondanti della modernità e della laicizzazione. Da questo punto di vista la scomparsa del padre sarebbe un fatto positivo e non reversibile, almeno nelle sue forme arcaiche basate sul comando e sull’autorità esercitata per diritto divino.
Ma una società non può vivere senza modelli che le consentano di rispecchiarsi e di conservare memoria di sé. Il disagio che ha pervaso la società occidentale deriva appunto dall’assenza di rispecchiamento e di memoria. La stessa decadenza delle classi dirigenti ha la sua causa nel deperimento dei modelli paterni. Non a caso venivano chiamati «padri fondatori» coloro che stabilivano le regole della convivenza sociale e politica.
Venuti meno quei modelli la società ha perso la capacità di darsi regole condivise; si parla di continuo della loro necessità, ma nessuno è più in grado di produrle poiché a nessuno viene riconosciuta un’autorità fondativa che superi gli interessi settoriali e s’imponga in nome dell’interesse generale.
Una società senza padri è dunque destinata a una continua e progressiva parcellizzazione che ne paralizza il funzionamento e rende impossibile la produzione di regole democraticamente accettate.
Gli individui non sono in grado di uscire da questa disagiata condizione che, esaltando gli interessi settoriali e gli egoismi di gruppo, si allontana sempre di più dalla auctoritas produttrice di norme generali. Il malessere cresce ed è comunemente avvertito sicché, proprio nella fase in cui la figura paterna ha ceduto il campo, risorge il bisogno di recuperare almeno alcune delle funzioni ad essa affidate; anzitutto quella di indicare le regole basilari del comportamento, di amministrare la giustizia sulla base di quelle regole, di praticare la caritas e la pietas, due attributi tipici della figura paterna e dell’autorità fondativa.
Ma soprattutto la nostalgia del padre è motivata dal bisogno di sicurezza psicologica che egli diffonde. Senza di lui il mondo diventa insicuro per i figli orfani e non preparati a surrogarlo. Questa è diventata infatti la nostra società malgrado le sue mirabili acquisizioni tecnologiche che anzi per tanti aspetti esaltano paura e tristezza: un luogo insicuro, labile, inutilmente motorio, privo di credenze ma ingombro di superstizioni.
Ovviamente non si nasce padri, lo si diventa col vivere e attraverso il vivere. Lo si diventa quando si riesce a comprendere l’Altro superando le ristrettezze nelle quali l’Io inevitabilmente ci racchiude.
I figli sono fisiologicamente i portatori dell’Io; i padri, quelli veri, superano quella costruzione difensiva e vivono per i figli costruendo le condizioni del loro futuro. È superfluo avvertire che in un tempo come il nostro, che ha vissuto nell’emancipazione della donna la sua più grande rivoluzione, la funzione paternale non è legata al sesso.
Ci sono state e sempre più ci saranno donne in grado come e più degli uomini di darsi carico dell’altrui.
In realtà la donna si è sempre data carico dell’altrui, molto più dell’uomo, ma questo avveniva nella sfera del privato. Proprio per il fatto di essere stata confinata in quella sfera da una società governata dagli uomini, il darsi carico da parte della donna difficilmente poteva uscire dall’ambito familiare. Le capacità affettive della donna costituiscono una delle risorse essenziali della carità volontaria che sta diventando uno dei fenomeni più rilevanti e più positivi della società moderna e del moderno umanesimo. Ecco perché la auctoritas paterna, con il suo corredo di giustizia, comprensione, regole condivise, carità e pietas non sarà appannaggio soltanto maschile in un mondo dove i limiti del sesso sono stati infine dissolti in una più ampia concezione della humanitas.
* * *
Il nostro Parlamento dovrà eleggere tra poco un nuovo presidente della Repubblica, la persona cioè che ha il compito di rappresentare la nazione.
Nessuno ignora quanto questa carica sia ambita per i poteri che contiene e per l’immagine che conferisce. E nessuno ignora che attorno ad essa si accenderanno contrasti e vivaci ambizioni. Il Parlamento tuttavia tenga presente che il presidente di una Repubblica dev’essere soprattutto e preliminarmente un pater patriae.
Si potrà discutere se debba provenire dalla sinistra o dalla destra, dalla cultura
cattolica o da quella laica e se debba essere uomo o donna. Ma su un punto non si deve – non si dovrebbe – discutere: il Presidente deve incarnare quella figura paterna che rassicuri la comunità e la indirizzi a superare gli egoismi del presente in nome dell’altruismo del futuro. Il laico Benedetto Croce invocò, all’inizio dei lavori della Costituente, il «Veni Creator Spiritus». Quella stessa invocazione sia tenuta a mente dai nostri parlamentari quando sceglieranno la persona che dovrà rappresentare e traghettare il Paese nel suo difficoltoso procedere nel nuovo secolo.
* * *
Il testo che avete fin qui letto non l’ho scritto ieri ma quindici anni fa, esattamente il 28 dicembre 1998 su questo giornale. Ho deciso di ripubblicarlo perché mi sembra che descriva l’attualità che stiamo vivendo in modo che meglio non avrei saputo fare.
Era allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema e stava per scadere il mandato di Oscar Luigi Scalfaro da presidente della Repubblica. Nel maggio del 1999 fu eletto Carlo Azeglio Ciampi e nel maggio del 2006 Giorgio Napolitano, entrambi per nostra fortuna dotati di quel requisito di civica paternalità che sono auspicati nel testo che precede. Mi auguro che anche la scelta ormai prossima del nuovo inquilino del Quirinale abbia analoghe caratteristiche anche se non mi sembra un compito facile.
Prima che questa scelta abbia luogo dev’essere però formato un nuovo governo dotato di una nuova maggioranza. A tal fine il presidente Napolitano ha conferito venerdì un preincarico a Pierluigi Bersani. L’impresa sembra impossibile, ma non è così.
È certamente difficilissima ma non impossibile.
Il percorso che Bersani dovrà seguire, concordato con Napolitano, si svolgerà su due piani. Il primo riguarda il programma di governo basato sugli otto punti già resi pubblici dall’incaricato; riguardano il taglio dei costi della politica, la diminuzione del numero dei parlamentari, la semplificazione degli apparati del Parlamento e soprattutto i provvedimenti necessari per la crescita economica, fermi restando gli impegni presi con l’Europa.
Il secondo riguarda le riforme istituzionali e costituzionali che, per la loro stessa natura, richiedono maggioranze più larghe.
Gli interlocutori di Bersani per realizzare la prima tappa del suo faticoso percorso sono il movimento montiano di Scelta civica ed anche – per alcuni specifici punti – il MoVimento 5 Stelle. Le modifiche istituzionali e costituzionali includono anche il Pdl e la Lega e comprendono al primo posto una nuova legge elettorale.
Vedremo entro mercoledì prossimo l’esito di questo complesso negoziato. Se sarà negativo, l’iniziativa tornerà al Quirinale che procederà ad un nuovo tentativo per la formazione d’un governo non più guidato da un uomo politico.
L’obiettivo comunque è quello di evitare elezioni a breve scadenza che sarebbero letali per la nostra economia e la nostra credibilità internazionale. Ma le cause di quanto sta avvenendo sono assai più profonde della crisi politica e perfino di quella economica. Hanno carattere sistemico ed è proprio questa la ragione che rende attuale quell’articolo di quindici anni fa che mi sono permesso di riproporre alla vostra attenzione.

l’Unità 24.3.13
I ricatti del Cavaliere per il via libera a Bersani
Il leader Pdl vuole un nome «di garanzia» al Colle e un programma «non ostile»
Per questo è disposto anche a un sostegno «indiretto»
di Fed. Fan.

Adesso Berlusconi è deciso ad «aspettare e vedere» cosa fa Bersani. La manifestazione di piazza del Popolo, preceduta da un ufficio di presidenza a Palazzo Grazioli, è stata insieme una prova di forza e l’ultima chiamata. Per quanto paradossale possa sembrare, sentito il comizio, il Cavaliere fa intendere ai suoi di non aver chiuso la porta ad una terza via tra governo «forte e solido» e urne subito.
Alle sue condizioni, ovviamente: un presidente «di garanzia» al Quirinale, che possa tenere aperto un canale di dialogo con la magistratura. E sul punto il Pdl (sempre stando alle parole del retrobottega) è davvero disponibile: sì a Marini, Severino, Cancellieri, Amato. Tutti ma non Prodi. Che dall’area di centrosinistra continua a emergere come il più papabile, forse anche come spauracchio per il centrodestra.
L’altra condizione necessaria è un programma che recepisca i punti economici e fiscali del Pdl sbianchettando quelli «ostili» come conflitto di interessi, legge anti-corruzione, falso in bilancio rafforzato. Ultimo ma non meno importante, vuole un deciso stop alla questione «lunare» dell’ineleggibilità che potrebbe approdare nella Giunta per le autorizzazioni, agitata dai grillini e abbracciata dal capogruppo Pd a Palazzo Madama Zanda.
In fondo è quello che Silvio ha detto dal palco: egregi signori del Pd, lasciate perdere i «marziani» e concentratevi su crescita e sviluppo, insomma sulle cose utili per il Paese. E per Berlusconi. Gianni Letta è al lavoro per aprire canali. In attesa di risposta definitiva dal Pd e sia pure ancora per pochissimo tempo tutte le opzioni restano sul tavolo. L’accordo «trasparente e alla luce del sole» tra partiti «responsabili», considerato però molto improbabile data la linea che ha scelto Bersani. Ma anche il sostegno indiretto. In Senato mancano una manciata di voti al Pd per ottenere la maggioranza. C’è Monti, che potrebbe suggerire nomi per la compagine di governo. C’è soprattutto il nuovo gruppo «Grandi autonomie e libertà». Dentro ci sono diversi siciliani vicini a Micciché, alcuni berlusconiani doc come Luigi Compagna, leghisti di fede maroniana come Jonny Crosio.
Dieci provvidenziali senatori. Magari dieci uomini d’oro. Che non si muoveranno, almeno in formazione compatta, senza il via libera del segretario del Carroccio. Il quale, a sua volta, ha avvertito in tutte le salse (anche per bocca di Calderoli) che loro decidono in sinergia con l’alleato Silvio. A pena di decadenza delle tre preziose giunte regionali nordiste.
E dunque si torna al punto di partenza. Letta e Schifani conducono le danze da parte pidiellina. Nel quadro di un «patto complessivo» i dieci senatori potrebbero raddoppiare. Ma l’obiettivo reale, dato che Napolitano pretende numeri certi e difficilmente si accontenterebbe di messaggi cifrati, è l’uscita dall’aula della Lega. Da via dell’Umiltà non escludono nemmeno questo gesto. Ovviamente, nel caso, concordato con loro.
Il Cavaliere però sta alla finestra con poche illusioni. All’incontro con Bersani andrà Alfano. Lui aspetta il risultato. E punta al «secondo giro di giostra»: «Il Pd non ha i numeri, deve chiederli a noi ripete Se il segretario insiste nelle rigidità finisce che passerà la mano. E a trattare con il Pdl sarà un altro». Con buona pace delle urne subito, il sogno resta il governo del presidente. «Non so se entreremmo a farne parte spiega lucido un senatore Ci conviene stare fuori. Per dare le carte e farlo cadere quando ci pare. Tanto nei sondaggi continuiamo a crescere».

l’Unità 24.3.13
Partita a scacchi con il Cavaliere (e con la Lega)
Il centrodestra punta al Quirinale, ma per il Pd ha fatto male i conti
Domani la riunione della Direzione. Il rebus dei numeri al Senato
di S. C.


Nessuna trattativa e soprattutto nessuna intesa sul prossimo Presidente della Repubblica, adesso parliamo di governo. Al quartier generale del Pd assicurano che la strategia non cambia dopo la manifestazione del Pdl di ieri, che il ricatto di Berlusconi («o si fa un governo che coinvolga le forze responsabili o si va al voto») cadrà nel vuoto e che il tentativo di mettere le mani sul Quirinale (è arrivato il turno di un moderato del centrodestra, ha detto l’ex premier) non avrà conseguenze. Insomma, se l’idea di Berlusconi è quella di concordare con il Pd uno scambio tra la disponibilità a far nascere il nuovo governo e la possibilità poi di decidere il nuovo Capo dello Stato, ha fatto male i suoi calcoli.
Bersani, che domani sera riunisce la Direzione del Pd per incassare un mandato pieno da parte del suo partito in vista degli incontri con le altre forze politiche (si comincia martedì mattina con le minoranze linguistiche) intende andare avanti con la strategia del «doppio registro». Ovvero, tenendo distinta la pratica governo, tutta in capo al centrosinistra e costruita sugli otto punti, e aprendo invece un confronto con il centrodestra sulle riforme istituzionali, magari anche dando vita a una Convenzione costituzionale (alla cui presidenza potrebbe andare Dario Franceschini).
NO AD ALLEANZE SOTTOBANCO
Nessun cedimento verrà però fatto, spiega chi ha avuto modo di parlare in queste ore con il segretario Pd, alle richieste di Berlusconi sul Quirinale. Anche perché, viene sottolineato, non solo la cronologia gioca a suo sfavore visto che la partita sul Colle si affronterà soltanto nella seconda metà di aprile, ma tentare un ricatto sul prossimo Presidente della Repubblica può trasformarsi in un boomeranga per lo stesso Pdl: il centrosinistra con i suoi 345 deputati, i suoi 123 senatori e la trentina di delegati regionali che verranno presto nominati, ha i numeri per decidere o insieme a Monti o insieme ai Cinquestelle chi sarà il prossimo inquilino Capo dello Stato. Ecco, tra l’altro, perché il Pd terrà ferma la barra sugli otto punti attorno a cui costruire il governo e non intende aprire trattative con Berlusconi sul Colle. Dice il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza, che ha incontrato Bersani per discutere i prossimi passaggi insieme al vicesegretario Enrico Letta e al capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda: «Noi non cambieremo senz’altro il nostro progetto e il nostro programma di governo. Non siamo alla stagione dei tavolini, non siamo alle alleanze nelle stanze segrete. Noi abbiamo costruito una proposta molto forte che parla alle grandi questioni degli italiani. Su questo dobbiamo confrontarci, ma col nostro profilo di governo». Ma come è possibile incassare la fiducia al Senato? Anzi, prima ancora, come può Bersani convincere Napolitano che c’è «un sostegno parlamentare certo» tale da consentire la formazione di un governo? Il leader del Pd sa che quando tornerà al Quirinale a riferire dei colloqui di questi giorni giovedì dovrà fornire un quadro che consenta a Napolitano di mandarlo alle Camere per la prova della fiducia.
DIECI GIORNI PER LA SOLUZIONE
I numeri del Senato al momento non sono tali da permetterlo. Il Pd ha 106 senatori, ma Grasso non voterà e quindi si scende a 105 sì. Bersani potrà poi contare sui 10 del misto (7 sono di Sel) e sugli 8 delle Autonomie. Il totale fa 123. Il Pdl ha 91 seggi, la Lega che ne ha 16 e il neonato gruppo Grandi autonomie e libertà che conta 10 senatori. Totale: 117. E poi c’è il M5S che ha eletto 54 senatori ma è sceso a 53 dopo che una parlamentare si è dimessa il primo giorno (non ancora sostituita). Scelta civica è composta da 21 senatori compreso Monti. Poi ci sono gli altri tre senatori a vita Colombo, Ciampi e Andreotti. In totale fa 318 e la maggioranza certa è di 159. Se il Pd ottenesse il sostegno di Scelta civica otterrebbe 144 voti.
C’è però un’ipotesi su cui si sta ragionando in queste ore, che prevede una possibile maggioranza a quota 145. Come? Calcolando la presenza, com’è stato finora, di soltanto due senatori a vita (Monti e Colombo) e prevedendo l’uscita dall’aula del gruppo Gal e della Lega. Un’ipotesi messa in campo da Calderoli, insieme alla richiesta di un Capo dello Stato «terzo, non di sinistra». E si torna al punto di partenza. Per capire come andrà a finire, una prima tappa sarà giovedì, quando Bersani andrà a riferire al Colle. Poi entro un’altra settimana, in caso Napolitano gli dia il mandato, ci sarà il voto di fiducia. Per capire come si chiuderà la partita del Quirinale bisognerà invece aspettare la seconda metà di aprile.

il Fatto 24.3.13
Piazza piena, tutti a Roma a spese di Silvio
Viaggio e pranzo pagati, gratis anche la metro
“E’ il migliore, l’unico che ci toglie le tasse”
di Caterina Perniconi


Me lo sono anche tatuato: Silvio Berlusconi, vita mia” dice un ragazzo napoletano, prossimo ai quaranta, che scende dal pullman con la bandiera di Forza Italia. Alza la felpa, scopre l’avambraccio e spunta l’auto-grafo del Caimano inciso nella pelle. Doloroso? “Tutto per lui”. É mezzogiorno, a Cinecittà arrivano i primi mezzi dal sud Italia (Puglia e Campania la fanno da padrone). Con Silvio. “Sempre! ”. Fanno le foto all’ingresso della cittadella dei film: “Qui c’è Maria De Filippi vero? ”. Proseguiranno con la metro fino a Piazza del Popolo.
Non hanno dovuto tirare fuori un euro. “Mai, paga sempre tutto il partito”. Viaggio e pranzo al sacco (panino, acqua, succo di frutta, per i più fortunati anche insalata di riso e crackers). Nemmeno una moneta per la metropolitana, Gianni Alemanno la lascia aperta a tutti. Nel pomeriggio il sindaco sarà costretto a spiegare la sua scelta: “Copre le spese il Pdl, anche per la pulizia della piazza”. Una manifestazione che a Berlusconi costa cara. Ma è necessaria, serve ad alzare la posta, a ricordare a tutti che la gente lo sostiene. “Veniamo da Bari – raccontano due militanti – siamo qui per Silvio, abbiamo bisogno di un governo, altrimenti a giugno l’Imu di Monti chi la paga? Verrano a prendersi la casa”. Parlano solo di tasse e di crisi, ogni tanto, torna il leit motiv della giustizia. “Certi magistrati andrebbero ammazzati. Berlusconi è unico, il migliore”. Qualcuno si accanisce contro il Fatto quotidiano, ma non sono molti, “avversari, per carità, ma noi la stampa non la mandiamo affanculo”. Si divertono. I ragazzi cantano “menomale che Silvio c’è”. Dopo di lui? “Va bene chiunque, basta che porti avanti le sue idee”. Ma non vi ha delusi? “Mai”. Lo mandiamo in pensione? “Se solo quei magistrati comunisti lo lasciassero in pace”. Metro, si parte. Continuano i cori. Qualcuno scende prima, “c’è il sole, facciamo un bel giro a Roma senza pagare, abbiamo colto l’occasione al volo”. I più a piazza di Spagna: “Vediamo la scalinata, quella delle sfilate, poi andiamo a manifestare”. Cercano le telecamere, gridano “Italia uno”. Sono cresciuti con Media-set. Gli anziani sono di più. In piazza suona “Oi vita mia”, è “dedicata a Silvio” dice il cantante. Come sul tatuaggio. Muoversi è difficile, c’è molta gente e spingono tutti verso il palco, vogliono i vip, cercano Berlusconi. Quando arriva cominciano a urlare “chi non salta comunista è”. I primi fischi sono per Bersani, anche se alla fine “va bene anche un governo con lui, basta che ci danno il Quirinale”. Appuntamento alle sette a Cinecittà. Si riparte, c’è chi viaggerà anche tutta la notte. Gratis.

Repubblica 24.3.13
Sotto il palco tra i figuranti arrivati in pullman

“Ci danno 10 euro, arrotondiamo la pensione”
di Alessandra Paolini


ROMA — Il look di Eleonora, sessant’anni o giù di lì, è quello delle trasmissioni del pomeriggio: golfini maculati, stivali sfrangiati da squaw, capelli cotonati biondo platino. È il look di una figurante, ovvero delle persone che riempiono gli studi di programmi Rai e Mediaset. E che ieri si è trovata a piazza del Popolo in uno spettacolo a suo modo speciale. Starring: Silvio Berlusconi.
Ce ne sono tanti come lei all’una davanti al teatro Brancaccio di Roma. Gente del mestiere, che si saluta con affabilità e risponde prontamente agli ordini di Armando, il capo claque. Probabilmente contattato nei giorni in cui non era chiaro che in tanti avrebbero risposto all’appello del Cavaliere. Armando, in total black e cravatta rossa lucida, invece, lavora per “Abavideo provini tv”, società che fa casting per film e pubblicità, e sceglie anche il pubblico per trasmissioni tv. Venire arruolati come fan a pagamento di Berlusconi non è difficile. Certo, non si diventa ricchi: 10 euro la paga per restare un paio d’ore davanti al palco. «Una miseria», si lascia scappare uno dei figuranti, «ma ho una pensione da schifo e devo arrotondare». Armando ha una lista con le presenze dentro una cartellina col logo del programma “Così è la vita”. Ma basta dire «un’amica mi ha detto di venire al posto suo perché sta male», che subito lui ti accoglie a braccia aperte. Prende nome e cognome e via, «Sei dei nostri». Il lavoro da fare è semplice. «Hai mai partecipato a un programma? — chiede il capo claque — No? Vabbé, non ti preoccupare, oggi stai un po’ lì in piazza in mezzo alla gente e poi te ne vai. Ma se hai voglia in futuro di partecipare a dei provini, cerca il sito e iscriviti». Lui, il “reclutatore”, da Silvio non viene: «Non ci penso nemmeno». E quando il pullman arriva, saluta il “gruppo vacanze Piemonte” con un elegantissimo «Mi raccomando, non pomiciate!».
Sul bus l’atmosfera è quella delle gite di scuola ai tempi delle medie, anche se la comitiva è un po’ agée. Una signora con i capelli rossi si mette il rossetto. «Attenzione che Berlusconi è sensibile alle donne», le fa il passeggero seduto al suo fianco. Risposta: «Vorrà dire che lo bacerò in bocca, chiaramente, dietro lauto compenso». Ilarità generale, commenti salaci. «Attenta però che quello c’ha la dentiera», grida uno dagli ultimi posti. Del resto, si sa, in fondo al pullman si siedono sempre quelli più indisciplinati. Nessuno però canta, come accade in ogni gita che si rispetti. E quando arriva la proposta «Ora tutti insieme intoniamo “E Silvio c’è”», si ride di nuovo.
Mancano dieci minuti alle tre. Il pullman, che si è unito ad altri tre bus al Circo Massimo con 150 persone a bordo raccolte a Testaccio, Tiburtina e piazza Bologna, scarica l’allegra brigata a un chilometro da piazzale Flaminio. «Ma che sono matti? C’è un sacco di strada da fare», grida una donna con le caviglie già gonfie. Qualcuno si mette ad aspettare l’autobus. «A furbi, non tornate a casa». Gli altri, accompagnati da un tutor in tuta azzurra della nazionale di calcio, conduce tutti a piazza del Popolo. Berlusconi ancora non c’è. La piazza è già gremita. E sulle note di “Azzurro” di Celentano stavolta anche le comparse cominciano a cantare.

La Stampa 24.3.13
L’affondo di Bersani su Berlusconi
Il premier incaricato: “Farò norme più stringenti sull’ineleggibilità”. Domani direzione Pd per fissare la linea
di Carlo Bertini


«No a un governo della concordia, ma solo corresponsabilità sulle riforme istituzionali», tiene a chiarire bene Pierluigi Bersani, per placare le ansie di chi dentro il suo partito teme che i confini vengano superati per beneficiare di un appoggio del nemico: indispensabile in varie forme per far partire un governo. E proprio questo è uno dei motivi che spinge il leader Pd a convocare domani la Direzione del suo partito, «per blindare il suo tentativo e tenere a bada chi, come i “giovani turchi”, vorrebbe fissare paletti sul fatto che il governo non può passare con nessun voto di esponenti di Pdl o Lega», spiega uno dei massimi dirigenti della war room bersaniana.
Il secondo motivo che induce il leader a serrare i ranghi è chiarire che dopo di lui non ci saranno altri tentativi che avranno maggior chances di riuscita. Lo dice a modo suo Bersani, «non nego che la porta sia stretta, ma se mi metto al servizio di questa possibilità non è per ambizione personale, ma perché altre cose sarebbero ancora più difficili e precarie». E su questo «paletto» ha per ora sia l’appoggio di ex Ppi come Fioroni, «Bersani ha le carte in regola per farcela», quindi il Pdl non speri in un secondo tempo; sia quello dei pasdaran «turchi» che non sarebbero disposti ad avallare neanche un governo guidato da una personalità come Fabrizio Barca - uno dei nomi più gettonati per il «dopo» - se questo dovesse significare aprire alle larghe intese.
Insomma, al primo giorno di consultazioni Bersani non fa grandi passi avanti, grazie anche al tintinnar di sciabole indotto dalle grida berlusconiane, ma usa bastone e carota, «presenterò norme stringenti su incandidabilità e ineleggibilità», avverte. Chi tiene i contatti a tutto campo è consapevole che i leghisti non farebbero mai nulla sotto la minaccia di una rottura delle giunte da parte del Pdl: quindi ci vuole quella «concordia», ma su un piano diverso che non può essere appunto quello di una nuova maggioranza di governo. La eventuale disponibilità del Pdl a non ostacolare la nascita di un esecutivo, lo dicono tutti i massimi esponenti del Pd che affiancano Bersani in questa settimana di passione, passa attraverso uno snodo cruciale, «poter entrare nella partita per l’elezione del nuovo capo dello Stato. E noi gli stiamo facendo capire che se non stanno attenti finisce che dovranno digerire il nome a loro meno gradito».
Dunque la road map del presidente incaricato si muove su un «doppio registro, riforme immediate su questioni sociali e moralità pubblica e riforme istituzionali, di cui si chiacchiera da 15 anni e su questo si può trovare un equilibrio tra le parti», spiega lui. Ma in realtà la partita si gioca su tre «cerchi concentrici», perché ad ammettere che vanno cercate larghe intese sul Colle è il suo consigliere Miguel Gotor: «Ma il primo cerchio è il governo del cambiamento, in cui un voto di fiducia non significa la nascita di una nuova maggioranza; il secondo è il tavolo delle riforme e se vogliono attivarlo, devono permettere al governo di partire, nelle forme possibili, uscire dall’aula o favorire la nascita di nuovi gruppi». E in tal senso è vista con attenzione la nascita di un gruppo al Senato di dieci autonomisti di varie anime, «Gal, grandi autonomie e libertà», nato dall’unione di esponenti di Mpa, Pdl e Lega. Che però anche nella speranza di un appoggio tutto da conquistare, non risolverebbe il problema dei numeri: perché pure con il sostegno dei 21 senatori di Scelta Civica, che il Pd mette nel conto, la maggioranza si fermerebbe a meno 15. Sui 53 senatori grillini, Bersani non fa affidamento, anzi. «Noi non stiamo inseguendoli, farò proposte di cambiamento e se altri si sottraggono rendono nulle le possibilità e ognuno si prenderà le sue responsabilità». Intanto il leader si prepara al meglio per arrivare giovedì da Napolitano con in tasca anche una squadra di governo snello, ma con nomi originali, pochi politici e molte donne. Ricorrono in queste ore sempre i nomi di Padoan, Barca, Zagrebelsky, Onida, De Rita, di Maria Chiara Carrozza e Michela Marzano, con qualche new entry, come l’ex Confindustria Giampaolo Galli. E ieri Bersani nel suo giro di confronto con le personalità della società civile, ha incontrato Roberto Saviano, garantendogli che se farà il governo «si faranno subito misure per la legalità».

Corriere 24.3.13
«No alla concordia». La scelta di Bersani
«Missione non impossibile. I 5 Stelle siano responsabili». E vede Saviano L'annuncio: norme stringenti su incandidabilità e conflitto d'interessi
di Al. T.


ROMA — «Non è una missione impossibile. E non sono pessimista». Pier Luigi Bersani comincia le consultazioni per la formazione del nuovo governo con la consapevolezza della difficoltà del compito, ma con l'ottimismo della volontà. Anche se, contemporaneamente, Silvio Berlusconi chiama il suo popolo a raduno e si dichiara pronto alle urne. Il segretario del Pd non deflette e annuncia i primi provvedimenti: ci saranno «norme stringenti sul conflitto di interessi, sull'incandidabilità, sull'ineleggibilità. Si riparte mettendoci sul pulito». E si riparte dalle «personalità della società italiana», che Bersani ha annunciato di volere incontrare. Il primo è stato Roberto Saviano. Dopo l'incontro Bersani ha garantito che ci saranno «subito misure per la legalità» e ha definito «una vergogna» che lo scrittore anticamorra debba andare in giro scortato.
Oltre a Saviano, ieri Bersani ha visto il presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni italiani, Graziano Delrio e la delegazione del Forum del Terzo settore. Oggi sarà il turno di Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Confindustria e Alleanze cooperative. E della Confapi del presidente Maurizio Casasco. Domani toccherà ai sindacati e a Rete imprese Italia. E in serata ci sarà la riunione della direzione del Pd, per fare il punto della situazione. Poi, a partire da martedì, ci saranno gli incontri con i rappresentanti delle altre forze politiche.
I primi passi del preincarico sono cauti: «Che ci sia un passaggio difficile, una porta stretta non lo nego, lo vedono tutti, ma se mi metto al servizio di questo passaggio non è per me ma perché credo che altre cose siano più difficili e precarie». Riferimento alle parole di Berlusconi, secondo il quale al segretario del Pd è stato dato «un incarico precario». Poi però ha chiarito la direzione sulla quale vuole muoversi, chiamandola «la strada di un doppio registro», «nel solco» delle indicazioni del capo dello Stato. Da una parte c'è un programma di governo, con le riforme necessarie, dall'altra un registro che riguarda i temi istituzionali, «rendendo esigibili alcune riforme di cui si parla da 15 anni senza averle fatte. Si tratta di trovare un equilibrio di responsabilità, fuori ci sono solo cose più difficili e precarie». Insieme con Enrico Letta, Dario Franceschini, Luigi Zanda e Roberto Speranza, Bersani ha discusso di come costruire una Convenzione costituzionale che impegni da Monti alla Lega fino al Pdl, e avere così da loro un atteggiamento che consenta al governo di partire.
L'equilibrio, però, è davvero fragile, visto che Bersani deve muoversi nello spazio stretto di un governo sostenuto dai voti indispensabili del centrodestra, senza dare l'impressione di accettare quello che il Movimento 5 Stelle è pronto a denunciare come «inciucio». Per questo, il segretario del Pd spiega che «potrà esserci una corresponsabilità istituzionale con il Pdl», ma non rinuncia ad attaccare: «Li incontrerò, ma non mi parli di concordia chi a pochi mesi dalle elezioni ha lasciato il cerino in mano a chi deve rimediare ai loro danni». Quanto ai 5 Stelle, chiede per l'ennesima volta «responsabilità».
Poi ci sarà da fare un governo, se le condizioni glielo permetteranno. E allora bisognerà trovare nomi che non possano essere tacciati di vecchia politica e che siano esterni ai vecchi giochi. Per questo Bersani, dopo la consueta birra artigianale, scherzava con alcuni ragazzi promettendo «altre sorprese», dopo quella dei due presidenti delle Camere.
Tra le novità, ci sarebbe la volontà da parte di Bersani di accorpare i dicasteri di Ambiente e Sviluppo economico e creare lo Sviluppo sostenibile, guidato da Giampaolo Galli, ex direttore generale di Confindustria. Come sorta di compensazione tra le parti sociali, il segretario del Pd starebbe pensando a Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil, per il Welfare.

La Stampa 24.3.13
Franceschini: “Nessuna trattativa sul Quirinale Pier Luigi vada avanti”
Il deputato del Pd: non siamo disposti a rinunciare alle norme anti-corruzione e al conflitto d’interessi
La legge elettorale va cambiata e prima di votare sceglieremo il candidato con le primarie
di Carlo Bertini


Franceschini, la prima domanda è scontata: quanto le è pesato sul piano personale non essere eletto presidente della Camera?
«Sarebbe ipocrita dire che non fa piacere sentirsi proporre di fare il presidente della Camera, ma mi hanno insegnato da piccolo che la politica viene prima di ogni aspirazione personale. Forse anche per questo sono veramente avvilito nel vedere che ci sono personalità come Grillo e Berlusconi, che vanno avanti a colpi di slogan e rigidità nel momento più difficile della nostra storia repubblicana: crisi economica e sociale grave, perdita di credibilità della classe dirigente, una legge elettorale che se si tornasse alle urne porterebbe allo stesso risultato e un presidente della Repubblica che non può sciogliere le Camere. Se non si usa il senso di responsabilità in uno scenario di questo tipo, mi chiedo quando non sia il momento di farlo».
Siete disposti a trattare con Berlusconi sul prossimo inquilino del Colle?
«Sul Quirinale non si tratta: si rispettano quorum e procedure scritte dai padri costituenti, che per quel ruolo di garanzia spingono a cercare una larga intesa tra le forze politiche».
Bersani sta arando il terreno per riuscire nell’impresa. Gli ostacoli più grandi sono esterni o interni al suo partito? C’è chi preferirebbe un «governo del presidente»?
«Il Pd di sicuro in varie occasioni del passato non ha brillato per unità ma ora non mi pare che sia questo il problema. Non c’è un dirigente, parlamentare o iscritto che non capisca che il tentativo di Bersani va sostenuto fino in fondo. Intanto non anticiperei le scelte del Presidente della Repubblica, lasciandogli fare con la solita saggezza il lavoro di sempre. Osservo che al di là di tutte le formule, sempre allo stesso nodo si arriva: una maggioranza numerica al Senato. E abbiamo detto più volte che non esistono le condizioni politiche per un governo sostenuto insieme da noi e il Pdl. E dopo il comizio di ieri non ho nemmeno bisogno di spiegarne le ragioni».
Non pagherete pegno con gli elettori se si andasse a votare dopo aver dimostrato che per far nascere un governo Bersani servirebbe la non ostilità del Pdl e i voti della Lega?
«Gli elettori sanno che il partito che ha avuto maggiori consensi deve provare a dare un governo al paese in modo trasparente e alla luce del sole. In una situazione così drammatica per le famiglie e le imprese, bisogna guardare alla sostanza e non alla tattica e alle convenienze. I riflettori ora si sono spostati improvvisamente dai grillini a Pdl e Lega, ma il nostro percorso è sempre lo stesso: se Bersani si presenterà alle Camere, lo farà con una proposta per il paese divisa in due parti: azione sociale ed economica del governo e limitate riforme costituzionali, insieme ad una nuova legge elettorale. Una proposta sulla quale vorremmo che ogni singola forza dicesse sì o no. Non ci sarà nessun cedimento sui contenuti e sarà il Pdl a dire cosa fare rispetto a un governo che farà subito norme anticorruzione e conflitto di interessi, temi a cui non rinunceremmo in nessun modo».
Se si tornasse a votare, anche lei ritiene che Renzi sia la risorsa del futuro?
«Intanto quasi tutti hanno rimosso il fatto che con questa legge elettorale se si rivotasse chi vincerà alla Camera - noi, o Grillo, o il Pdl - non avrà con ogni probabilità la maggioranza al Senato e ci ritroveremo nella stessa identica situazione. Anche per questo il buon senso dovrebbe portare almeno a correggere la legge prima delle future elezioni. Detto questo, in qualsiasi momento si tornasse a votare, la scelta del candidato la faremo con le primarie».
E in quel caso allargherete la coalizione con Monti?
«Tra la vittoria di due populismi, uno già sperimentato nella sua pericolosità, quello di Berlusconi e l’altro pieno di nubi e incognite come quello di Grillo, penso che tutte le culture democratiche, dovrebbero comunque stare insieme. Ma spero che questa scelta sia lontana nel tempo».

La Stampa 24.3.13
Il pacchetto sul tavolo del Pd
L’obiettivo: estendere la legge del ’57 per tagliare fuori il Cavaliere
A breve la giunta del Senato dovrà autorizzare l’apertura di una cassetta di sicurezza di Berlusconi
di Francesco Grignetti


Senatore Luigi Zanda potrebbe votare con i grillini per l’ineleggibilità di Berlusconi
Sarà il barometro che segna tempesta, sarà che le trattative partono sempre da prove di forza, è però plateale la risposta di Pier Luigi Bersani a Berlusconi. Quello lamenta per sette volte nel discorso di Piazza del Popolo che vogliono farlo fuori con la storia della «ineleggibilità». «Ipotesi lunare», dice il Cavaliere. E il segretario del Pd ribadisce a stretto giro: «Nel programma di governo ci saranno proposte su incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità. Nel programma che presenterò ci saranno norme stringenti su questi temi. Si riparte su pulito, basi nuove».
Il tema comincia ad agitare gli animi, insomma. Sempre ieri, la rivista Micromega ha tenuto tre manifestazioni - a Roma, Genova e Milano - per rilanciare il suo appello a un’interpretazione estensiva della legge, che faccia fuori subito Berlusconi. E ci sono anche i grillini, poi, che annunciano una battaglia nella Giunta per le elezioni e immunità parlamentari del Senato, l’organismo dove si suggellano appunto le eleggibilità, per sbattere fuori Berlusconi dal Parlamento.
Crimi è da qualche giorno che insiste: alla prima occasione utile, il Movimento 5 Stelle solleverà il problema. A quel punto, che cosa farà il Pd? Bersani ieri non ha scoperto le carte: «Quando si arriverà in Parlamento si vedrà». D’altra parte se si vuole mantenere un filo di dialogo...
Il capogruppo dei senatori democrats Luigi Zanda sostiene che potrebbe anche votare assieme ai grillini per dichiarare Berlusconi ineleggibile, sovvertendo una ventennale interpretazione delle Camere. La risposta del Pd, comunque, sembra un’altra: cambiare la vecchia legge del 1957, aggiornandola, e allargandone il raggio d’azione a chi «sostanzialmente oltre che formalmente gestisce concessioni dello Stato», con tutto il tempo che ciò comporta.
Annunciare un pacchetto di due leggi indigeste per Berlusconi (nuova ineleggibilità e nuovo conflitto di interessi, che metterebbe altri severi paletti al Cavaliere) è palesemente una mossa politica. Una porta sbattuta in faccia al Pdl e un ramoscello d’ulivo rivolto ai grillini.
Come tale, almeno, l’interpretano dalle parti del Pdl. Dice Francesco Paolo Sisto: «È chiaramente una legge “contra personam”. Vogliono la guerra».
A proposito di guerre, un’altra sfida è in arrivo. La Camera dei deputati ha restituito al tribunale di Napoli la richiesta di autorizzazione a procedere per l’apertura di una cassetta di sicurezza intestata a Berlusconi (vedi caso De Gregorio) perché il Cavaliere è ormai un eletto del Senato e va cambiato indirizzo alla richiesta.
Entro poco, quindi, la medesima Giunta per le elezioni e immunità parlamentari affronterà un ennesimo caso Berlusconi. Si è discusso molto nei giorni scorsi se e come si potrebbe arrivare al voto, ove mai lo chiedesse la magistratura, per autorizzare l’arresto di Berlusconi. Per il momento una richiesta del genere non c’è. Ma un domani? I grillini sono scatenati. Il Pd non potrebbe non tenerne conto. Il voto sulla cassetta di sicurezza sarà un semplice antipasto.

Corriere 24.3.13
«Sull'ineleggibilità servono regole nuove Con un'adesione più ampia possibile»
La mia idea non cambia. Ma su certi temi il voto è di coscienza
intervista a Lugi Zanda di Alessandro Trocino


ROMA — «Il voto sull'ineleggibilità è un voto di coscienza». Luigi Zanda, presidente dei senatori del Pd, da tempo sostiene personalmente la linea dell'ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Linea non condivisa da tutti i colleghi di partito e che soprattutto potrebbe entrare in conflitto con la necessità di un governo sostenuto dai voti del Pdl.
Lei ribadisce la sua posizione o ha cambiato idea?
«Si figuri se mi ritiro. Sono anni che sono su queste posizioni e non le cambio certo ora».
I difensori di Berlusconi sostengono che lui non è il rappresentante legale del gruppo.
«Mi rendo conto che si tratta di norme molto vecchie e che andrebbero scritte in un modo più chiaro. Ma credo che l'interpretazione più logica sia che l'ineleggibilità riguardi chi sull'azienda oggetto di concessione ha l'influenza maggiore, cioè chi ne ha la proprietà. È ben strano che sia ineleggibile Fedele Confalonieri e non lo sia Silvio Berlusconi».
Pdl e Lega vorrebbero che voi accantonaste il tema, per dare il via libera a un esecutivo.
«Credo che la questione non vada messa così. Io penso che dovremmo tenere separate queste problematiche e guardarle con atteggiamento laico, attento agli interessi nazionali».
Sì, ma se il Pdl non le vuole separare, che si fa?
«Credo che si debba cominciare dalle cose da fare. È chiaro che in una condizione così difficile come quella del nostro Paese, il confronto deve cominciare dall'oggetto del programma, come ha detto anche Luciano Violante».
Insomma, il Pd non metterà questo tema tra le priorità?
«Occorre che ci sia un atto formale perché se ne parli. Atto formale che deve essere sollevato da chi ne ha interesse, ovvero i cittadini delle circoscrizioni scelte da Berlusconi».
A quel punto il ricorso arriva alla giunta delle elezioni. E il Pd che fa?
«Ciascun componente giudica secondo le sue convinzioni. Sono questioni delicate che si decidono per coscienza. Non è una decisione politica, perché ha a che fare con l'interpretazione delle norme».
Finora sulla questione ci sono diversi precedenti, tutti favorevoli a Berlusconi. Peseranno?
«È vero che spesso si decide sulla base dei precedenti, ma nulla è escluso e io invito a tener conto delle altre considerazioni favorevoli all'ineleggibilità. Certo, comunque occorrono nuove regole più chiare».
Da fare insieme al Pdl?
«Quando si parla di regole del gioco, bisogna sempre cercare di approvarle con la più ampia maggioranza possibile».

l’Unità 24.3.13
Ineleggibilità, pensiamo al futuro non al passato
di  Giovanni Pellegrino


HA SENSO PORRE OGGI IL PROBLEMA DELLA INELEGGIBILITÀ DI SILVIO BERLUSCONI per chiedere al Senato di non convalidarne l’elezione? Per vero se correttamente interpretata la legge tutt’ora vigente era idonea ad escluderne la eleggibilità già nel lontano 1994, quando annunciò la sua discesa in campo. Chi scrive ne fu immediatamente convinto sulla base dell’esperienza che aveva maturato presiedendo la Giunta delle immunità del Senato nella breve e convulsa legislatura ’92-’94 Sarebbe stato allora onere delle forze politiche porre con immediatezza il problema all’attenzione dell’opinione pubblica, con forza ben maggiore di quanto avvenne in una campagna elettorale, in cui il contrasto a Berlusconi si accentrò non tanto sulla sua ineleggibilità, quanto sui conflitti di interesse determinati dalle sue molteplici attività economiche; e ciò all’interno di una generale sottovalutazione della capacità dell’imprenditore milanese di ottenere un largo consenso elettorale.
Le cose, come tutti sanno, andarono invece diversamente e nella Camera dei deputati, che per la prima volta venne chiamata a pronunciarsi in sede di verifica dei poteri sulla eleggibilità di Berlusconi, il centrodestra aveva ottenuto una consistente maggioranza assoluta. Fu in questa situazione che una errata e formalistica interpretazione della legge si affermò prima nella Giunta delle elezioni e poi nell’assemblea di Montecitorio per essere posta a base della convalida della elezione di Berlusconi; a ciò aggiungendosi che in entrambe le sedi il problema fu affrontato quando il deputato Berlusconi era stato investito da Scalfaro dell’incarico di formare il governo e aveva ottenuto la fiducia da Camera e Senato. Sarebbe stato estremamente singolare che la Camera dei deputati si impegnasse in una pur possibile e corretta interpretazione della norma per dichiarare l’ineleggibilità di un suo membro, al quale come Capo del governo aveva votato a larga maggioranza la fiducia. Nel 1996 il risultato elettorale avrebbe consentito alla Giunta delle elezioni e all’assemblea di Montecitorio di pervenire ad un risultato diverso, operando una più esatta interpretazione della norma, che continuava ad essere vigente.
Prevalse ancora una volta una valutazione diversa: nel sistema bipolare che pareva destinato a rafforzarsi, Berlusconi rivestiva il ruolo istituzionale di capo di una opposizione, che nelle elezioni aveva ottenuto un numero di voti superiore a quello della maggioranza, anche se nei collegi uninominali il centrosinistra aveva ottenuto un maggior numero di deputati e senatori. La decisione di non avvalersi della forza dei numeri per eliminare dal Parlamento il capo dell’opposizione non era quindi immotivata, anche se è legittimo che ad alcuni la stessa appaia oggi non condivisibile, soprattutto con il senno di poi. Costituisce comunque un fatto storico che l’eleggibilità di Berlusconi è stata affermata dalla Camera dei deputati, non solo nel 1994, ma anche in quattro legislature successive.
Ha senso e legittimità proporre oggi sia pure con autorevoli appelli che il Senato pervenga a decisione opposta pur nella identità di situazione? Dubitarne è indubbiamente fondato, almeno per chi rammenti il valore che la prassi costituzionale ha quale fonte di diritto, a questo aggiungendosi che nella c.d. verifica dei poteri Camera e Senato svolgono funzioni di natura paragiurisdizionale, nel cui esercizio i precedenti assumono valore anche in un sistema come quello italiano non retto dal principio dello stare decisis. Né andrebbe ancora trascurato il valore dell’affidamento, che quei precedenti hanno determinato nei milioni di elettrici ed elettori di italiani, che anche quest’anno hanno votato per Berlusconi nell’ovvio presupposto che lo stesso fosse eleggibile. Sicché sono insieme istituzionali e politiche le ragioni che sconsigliano dal seguire pure autorevoli appelli, perché quasi vent’anni di storia politica e parlamentare italiana non possono essere cancellati con un tratto di penna, anche se è giusto e opportuno operarne una considerazione critica. Ma è appunto questa che spinge a seguire una delle proposte di Bersani, chiamando il Parlamento ad approvare una disciplina nuova e moderna sia dell’accesso a cariche elettive, sia dell’intera materia dei conflitti di interesse. Sarebbe non una antistorica vendetta contro un passato, che non può essere riscritto, ma una riforma idonea a porre per il futuro la nostra democrazia al riparo da anomalie di tipo berlusconiano.

Corriere 24.3.13
Il timore di manovre nel partito. Il leader vuole blindare il «dopo»
Domani vertice per escludere l'asse col Pdl, anche se lui non riuscisse
di Maria Teresa Meli


ROMA — «L'ho già detto: il sentiero è stretto, ma io sono intenzionato a percorrerlo fino in fondo». Parola di Pier Luigi Bersani, per il quale, però, andare avanti non equivale a cadere in un precipizio.
Per questa ragione il segretario del Pd decide di coprirsi le spalle e convoca la Direzione per domani. Perché vuole non solo il sostegno di tutti, ma anche l'impegno a tenere la porta sbarrata a ogni tipo di governo con il Pdl, un impegno che deve valere anche per il «dopo», nel caso in cui il leader non riesca nel suo tentativo. Insomma, Bersani vuole prevenire strane mosse all'interno del Pd. I renziani, per esempio, non fanno mistero di quello che pensano: «Sono convinto che non si possa dire di no a eventuali altre proposte di Napolitano», dice Graziano Delrio. Parole simili a quelle che Renzi affida ad alcuni deputati amici: «Non ci possono essere soluzioni a cui noi diciamo di no pregiudizialmente e poi, sinceramente, io non credo a nuove elezioni». Con parole molto diverse, ma con intenti non troppo dissimili Beppe Fioroni afferma: «Dobbiamo avviare questa legislatura, non possiamo farla saltare».
Il segretario parrebbe quindi avere più di un motivo per prevenire le possibili manovre interne. I «giovani turchi» che in questo periodo hanno avuto con il leader alti e bassi su una linea del genere si schierano al suo fianco: «Non pensassero che con Fabrizio Barca noi voteremmo sì alle larghe intese. Non esiste». Insomma, se fallisce questo tentativo si va al voto, anche se non lo si può dire esplicitamente perché in Direzione si aprirebbe un pandemonio. La strategia dell'ala sinistra del Pd e del segretario diverge solo sul dopo. Bersani pensa di candidarsi alle elezioni, i «giovani turchi» ritengono che sia giunto il tempo di un altro, anche lo stesso Renzi. Intanto però si fanno sempre più stretti gli spazi di manovra con il Pdl. Bersani ieri, ai funerali di Manganelli, ha parlato con Schifani e ha capito che Berlusconi non intende dare nessun aiutino senza una contropartita: «È inammissibile: vogliono farci passare per impresentabili che non possono andare al governo, ma che devono fargli il favore di consentirne la nascita».
Ma il prezzo che chiede Berlusconi per il Quirinale è troppo alto e il leader del Pd non può pagarlo: «Noi siamo disposti a cercare un nome per il Colle anche con loro, solo che non può essere un nome fatto da loro o del Pdl. Possiamo pensare a una proposta condivisa. Ed è giusto che il centrodestra, oltre ai grillini, abbia la presidenza di alcune commissioni: fa parte della normale dialettica istituzionale e parlamentare».
A sera, dopo le prime consultazioni, Bersani fa il punto con i suoi: «È vero che al Senato non abbiamo i numeri per la maggioranza, ma non c'è neanche un'altra maggioranza contrapposta: non ci sono altre alternative realistiche per chiudere questa crisi». E ancora: «Il nostro elettorato non capirebbe un governo di larghe intese: il voto è stato una richiesta di cambiamento e noi non possiamo rispondere con la grande coalizione alla greca e fare la fine di quel Paese. E comunque un governo è indispensabile per il Paese».
E allora? «Allora, io non chiederò a Pdl, Lega e 5 stelle di fare patti, inciuci, di votare un governo che non condividono. Chiederò loro di assumersi la responsabilità di far funzionare la dialettica governo-Parlamento e di consentire quindi l'avvio del governo. Sennò vuol dire che Pdl e grillini si assumeranno la responsabilità di nuove elezioni». Comunque, Bersani ancora prima delle consultazioni ufficiali sta sondando i suoi interlocutori politici, a cominciare da Scelta civica per capire se la contropartita che chiede è Monti al Quirinale. Quindi si puntano gli occhi sui grillini in fermento, sui leghisti e su Grandi autonomie e libertà, che ha fatto sapere di attendere da Bersani una proposta per il Sud. E una proposta del genere non si nega a nessuno.

Repubblica 24.3.13
Il leader chiede la fiducia in direzione ma nel Pd si prepara la resa dei conti
I bersaniani: dopo Pierluigi c’è il voto. I renziani: si può fare altro
di Giovanna Casadio


ROMA — Difficilmente ci sarà uno showdown, nel momento più delicato della missione di Bersani. Ma la “ditta” dei Democratici se ha qualcosa da dire al suo segretario potrà farlo domani sera, nella direzione convocata per blindare la correzione di rotta. Le divisioni sono sulla scena. Miguel Gotor, senatore, consigliere del leader incaricato, ironizza: «Noi le occasioni per rovesciare Bersani le offriamo tutte, e negli organismi democratici...». Il riflesso che la trattativa per il governo ha sul centrosinistra è uno sciame sismico che, come accade ormai da settimane, compone e scompone correnti e fronti interni.
Però domani ci sarà una novità: Bersani chiederà la fiducia convinta e totale su una linea che distingue tra governo (che non si può fare con Berlusconi) e “registro delle riforme” che si portano avanti per forza di cose con il centrodestra. Fin qui, il consenso sarà ampio. Anche la “gauche”, i Fassina, Orfini e Orlando sono disposti a seguirlo, purché «non si rinunci agli otto punti del programma». Gotor spiega: «Il “registro delle riforme” serve per consentire l’accensione del governo». Ma è sul passo successivo, che il terreno per il segretario diventa scivoloso nel suo stesso partito.
Bersani infatti vuole chiarire il punto di fondo, e cioè che quello che non verrà consentito a lui per la formazione del governo, non sarà consentito a nessun altro: il Pd non concede bis, aperture, appoggi a larghe intese capitanate da chicchessia. Dopo Bersani, se fallisse, c’è il ritorno alle urne. Ma una larga fetta del partito non è della stessa opinione. Renzi e i suoi supporter, innanzitutto. Dario Nardella, ex vice sindaco di Firenze, ora deputato, corregge subito: «Beh, su questo ci penserei. D’altra parte non si può immaginare un governo-papocchio, o si fa un governo solido come chiede il presidente Napolitano, oppure sarà necessario un governo del presidente». Dario Franceschini, l’ex capogruppo, e Enrico Letta, il vice segretario, condividono l’aut aut bersaniano: il messaggio in direzione del segretario sarà «con tutte le cautele del caso» che dopo Bersani il Pd non giocherà altre carte. Per questo c’è il canale con la Lega di Maroni da dis-ostruire. Il segretario leghista e il premier incaricato si sentiranno per telefono per fissare l’incontro previsto. «Un governo va fatto, l’Italia non può permettersi un ritorno alle urne», è perentorio Beppe Fioroni, che rappresenta
l’opinione degli ex Popolari. Quindi? «Tutte le strade vanno percorse. Fino alla fine, il tentativo va fatto da Bersani, e dobbiamo mostrare che non vogliamo fare alcun golpe sul capo dello Stato». Insomma, mano tesa sul piano istituzionale, Quirinale incluso,
al Pdl. «Non si tratta di avere paura del voto - continua Fioroni - però non possiamo lasciare che il paese diventi Cipro e allora va bene un governo anche se non dura tutta la legislatura». Fioroni è, in seconda battuta, per un governo del presidente. Come Paolo Gentiloni. Come Walter Verini, l’ex braccio destro di Veltroni, che del resto l’ha dichiarato più volte. Le elezioni, è il ragionamento, sarebbero una iattura. «Intanto tra il muro contro muro con il Pdl e il “governissimo” fa l’idea di distinguere tra il lavoro per le istituzioni e il governo fa chiarezza
», osserva Antonello Giacomelli, ex capo della segreteria di Franceschini. Marco Follini - che ha disertato polemicamente l’ultima direzione - è dell’opinione che «oggi più che mai, a maggior ragione sono fautore di un governo del presidente. È giusto che Bersani giochi le sue carte, ma non ci si può impaccare alle principale. Se non c’è la principale, compaiono le subordinate. Fa parte della saggezza dei democratici non trascurarne nessuna». Non si sa se Renzi questa volta andrà in direzione.

il Fatto 24.3.13
Il segretario tra due fuochi: Napolitano e Democratici
La strada stretta di Bersani “Se vado a casa io si vota”
Il premier incaricato ha incontrato anche Roberto Saviano
di Fabrizio d’Esposito


Sabato pomeriggio. A Montecitorio. Secondo piano, sala Aldo Moro. Non, invece, lo studio riservato al presidente del Consiglio, a livello dell’aula. Il fatidico “sentiero stretto” di Pier Luigi Bersani, comincia da qui, in una Camera vuota e un po’ triste. Primo, brevissimo giorno di consultazioni da premier preincaricato. Ironia della sorte, il colloquio d’apertura alle 15 è con Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e renziano ortodosso che aprirebbe di corsa al Pdl per un governissimo dell’inciucio. Ma Delrio ha una veste diversa, tra il sociale e l’istituzionale, in quanto presidente dell’Anci, l’associazione che riunisce i comuni italiani. Con lui c’è anche il vice Alessandro Cattaneo, primo cittadino di Pavia e giovane “formattatore” del Pdl, che quando finisce l’incontro si precipita in piazza del Popolo per la manifestazione “Tutti con Silvio”.
ANCI E POI Terzo Settore. In meno di due ore è tutto finito e Bersani si presenta ai giornalisti. La chiusura a B. è netta, per quanto riguarda una nuova grande coalizione: “No alla concordia, io sarò pure precario ma altre ipotesi sono ancora più precarie”. Il segretario del Pd non si smuove dalla strategia di “un passo alla volta” e insiste sul “doppio registro” o “binario” indicato da Giorgio Napolitano venerdì scorso. Un perimetro per il governo e l’altro per le riforme istituzionali condivise, in cui potrebbe rientrare l’elezione per il presidente della Repubblica. L’apertura, meglio il “confronto” con il Pdl rientra nel secondo e non implica, a sentire i bersaniani ortodossi, “trattative segrete per garantire salvacondotti giudiziari a Berlusconi, anche grazie a un nuovo capo dello Stato garante dell’accordo, non date retta alle veline che mette in giro Bonaiuti o alle voci di quelli che nel Pd gufano contro il tentativo di Bersani”.
AL NETTO DI PRESUNTI pontieri tra Pd e Pdl, i fedelissimi del segretario democrat ripetono che tutto sarà fatto “in estrema trasparenza”. Come se non bastasse, Bersani annuncia un ddl “stringente” su ineleggibilità e candidabilità per ripartire “in modo pulito” e vede in serata Roberto Saviano, dopo essere passato prima in una birreria del centro di Roma. Argomento: la legalità, la lotta alla corruzione, la moralizzazione della politica, il conflitto d’interessi del Cavaliere. Saviano ministro del dream team? È lui una delle “sorprese” che promette Bersani? In ogni caso il colloquio con lo scrittore di Gomorra è inserito in un’agenda di incontri con “personalità espressive della cultura” che integra il calendario delle consultazioni. Oggi secondo giro, sempre a Montecitorio, con organizzazioni agricole, la Confindustria e l’Abi, l’associazione delle banche. Domani i sindacati e martedì, con un giorno di ritardo, i partiti. Per arrivare alla fase finale con i gruppi parlamentari, Bersani dovrà però prima affrontare la direzione del suo partito. Sulla carta il Pd dovrebbe sostenere compatto il pre-incarico del suo segretario ma in molti proveranno a mettere paletti. Da un lato e dall’altro. I giovani turchi, per esempio, chiederanno garanzie “sull’allargamento” del mandato, rispetto a quello originario che prevedeva esclusivamente l’inseguimento dei grillini (ancora ieri Bersani ha invitato il M5S a essere “responsabile”). La questione investe il perimetro del governo (montiani e Lega) ed eventuali scambi con il Pdl sul tavolo delle riforme istituzionali (il secondo binario). Immaginare di sganciare la Lega da Berlusconi senza pagare un prezzo alto è molto difficile. Ed è questo il timore che agita i quarantenni, anche se con varie sfumature. Al momento, Bersani lavorerebbe quantomeno per un’uscita del Carroccio dall’aula del Senato e far abbassare il numero necessario per la fiducia. Dall’altro lato, invece, centristi vari, renziani e veltroniani che vedono nel dialogo con B. l’unica strada larga.
Bersani certamente otterrà il rinnovo del mandato (per poi salire al Quirinale tra mercoledì e giovedì) ma si trascinerà con sé il sospetto che unisce tutti gli scettici del Pd. L’ipotesi, cioè, che una volta fallito il suo tentativo dopo ci sia solo il voto, magari con una nuova sfida tra Renzi e Bersani alle primarie. Il tappo che potrebbe esplodere nel Pd è questo. Sempre che il premier preincaricato non riesca nel miracolo di far partire il suo governo. Ieri, nella sala Al-do Moro, aveva alle spalle una grande tela sulle nozze di Cana, quando Gesù trasforma l’acqua in vino. Domani comincia la Settimana Santa e Bersani proverà a trasformare l’acqua della sua minoranza in vino di maggioranza. Se ci riuscisse, sarebbe il governo di Pasqua.

l’Unità 24.3.13
Camusso: «Segnale importante»
La leader Cgil: «Rispetto al governo tecnico è cambiato il metodo di convocazione. A Bersani chiederemo di occuparsi di economia reale»
di Marco Ventimiglia


Domani c’è un appuntamento di particolare importanza per Susanna Camusso. Non solo perché di fronte si troverà il presidente del Consiglio incaricato, ma anche e soprattutto perché ciò avviene durante la peggior crisi economica dell’Italia repubblicana. «Che cosa chiederò a Pier Luigi Bersani? Di occuparsi dell’economia reale e delle condizioni del lavoro». Parla, il segretario della Cgil, da Cernobbio dove è ospite del Forum della Confcommercio. Ironia della sorte, è chiamata a dire la sua in un dibattito sullo scenario economico internazionale proprio in giorni nei quali gli affari domestici dominano ogni cosa. Tocca dunque anche a lei esprimersi sulla cronaca politica. «Mi pare un quesito che va sottoposto alle forze politiche, non a noi», replica a chi gli domanda se è fiduciosa sul buon esito dell’incarico affidato a Bersani. E di fronte a chi insiste con la richiesta di una previsione, taglia corto: «Il tema è troppo serio per affidarsi alla sfera di cristallo».
Certo, si può dire che qualcosa nei rapporti con la politica è già cambiato. «Di sicuro spiega Camusso apprezzo il metodo diverso di convocazione rispetto al governo tecnico, che ha messo 200 persone nella stessa stanza dando a ciascuno 20 secondi per parlare. Del resto credo ci sia bisogno della massima responsabilità di fronte a un Paese che sta tracollando. Disoccupazione alle stelle, imprese che falliscono, assenza di investimenti..., i numeri parlano chiaro, ma a volte ci portano a trascurare la realtà delle persone». Una drammatica quotidianità che la leader della Cgil richiama raccontando una situazione estrema nel suo stesso sindacato. «Per molti dei nostri funzionari che prestano assistenza ai cittadini la pressione sta diventando insostenibile. Passano intere giornate di fronte a persone disperate, rimaste prive di lavoro, senza soldi per pagare il mutuo o per mandare avanti la famiglia. E dinanzi alle richieste di un qualche aiuto non sanno più cosa rispondere vista la frequente assenza dell’altro interlocutore essenziale, lo Stato. Non tutti reggono questo stress prolungato e allora abbiamo deciso di dar loro assistenza psicologica, cominciando da coloro che lavorano presso i nostri sportelli di Torino».
Subito un governo, dunque? Sì, ma non a qualsiasi condizione. «Un esecutivo tanto per farlo dice il segretario in questo momento drammatico non serve davvero a nulla. Occorre invece un governo di cambiamento dopo 5 anni di conduzione profondamente negativa del Paese con delle grandi responsabilità. Prima l’esecutivo Berlusconi ha negato la crisi raccontandoci che noi
stavamo bene mentre il mondo andava a rotoli, con l’Italia che ha perso qualcosa come sette punti di Pil. Poi abbiamo avuto un governo tecnico che ha pensato bastasse parlare del futuro e non occuparsi dei drammi del momento. Il tutto legando l’andamento del Paese a fattori esterni, e non operando quindi le scelte necessarie». Una lunga stagione che è stata invece caratterizzata «da una totale frenesia contro il lavoro pubblico. Peccato che chi puntava il dito si è ben guardato dal mettere in atto una legislazione che consentisse alla Pubblica Amministrazione di rinnovarsi».
Quanto al primo provvedimento auspicabile da parte di Palazzo Chigi, «mi verrebbe da dire lo sblocco dei pagamenti per la cassa in deroga, ma in realtà potrebbe farlo subito il governo Monti nel disbrigo degli affari correnti. E allora la risposta è semplice ma importante: un provvedimento sugli investimenti, l’unico modo per rimettere davvero in moto l’economia. Ricordiamoci che l’intervento pubblico non è un dramma, è fondamentale per l’economia. Se poi lo si fa per l’equità sociale, è ancora più importante. Proprio nell’indagine mostrata qui da Confcommercio viene scritto quel che già sapevamo: non è vero che gli italiani lavorano poco, il problema è quello della loro scarsa produttività ed è inevitabile in un Paese che non fa investimenti da molto tempo».
Nella stessa indagine è contenuta la fosca previsione del raggiungimento dei quattro milioni di poveri nell’anno in corso. Susanna Camusso non è affatto stupita, anzi: «Temo che possa trattarsi di una stima per difetto. Proprio per questo continuiamo a dire che ci sono alcune emergenze che vanno risolte immediatamente. Parlo degli ammortizzatori in deroga, dei pagamenti dei crediti alle imprese. Perché o si ferma il rapido frantumarsi dell’economia oppure tutto si complica ulteriormente».

La Stampa 24.3.13
“Più investimenti e tagli alla politica”
Camusso (Cgil): “Pensioni e stipendi d’oro andrebbero pagati con i Btp”

Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil vuole un governo di cambiamento che sia in grado di rimettere in moto l’economia e far ripartire il lavoro

somma di condizioni reali delle persone che dovrebbero indurre a costruire un equilibrio tra la necessità di rivedere gli assetti istituzionali e i costi della politica - temi veri ma che da soli non affrontano un Paese in difficoltà profonda - e le risposte che la gente si attende. È quanto proveremo a dire domani: c’è un’emergenza e le emergenze si affrontano costruendo una prospettiva». Di certo spera che quello di Monti sia stato «il primo tentativo e spero l’ultimo di fare un esecutivo in ragione dell’emergenza». Ora occorre una svolta «perché siamo arrivati alla situazione attuale dopo cinque anni di politiche sbagliate». I tagli orizzontali alla spesa pubblica, dice per esempio, hanno ridotto l’attività di front-office degli uffici pubblici. Anche per questo «vengono da noi, agli uffici del sindacato dedicati ai servizi, come i patronati, dove cresce enormemente la pressione di chi chiede aiuto, pone domande a cui, purtroppo, spesso non abbiamo più risposte». Tanto che «a cominciare da Torino, abbiamo avviato un servizio di supporto psicologico proprio per i nostri addetti che vivono il dramma altrui con senso di impotenza e un crescente carico di sofferenza. Questo dà l’idea del dramma sociale in corso». Del resto, racconta, «pensate cosa vuol dire quando migliaia di lavoratori che teoricamente sono in cassa integrazione in deroga ma non vedono un euro nel migliore dei casi da metà dicembre vengono a dirti che sono allo stremo e tu sei costretto a inseguire circolari...». Al proposito, dal governo, «e può farlo anche quello in carica per gli affari correnti, vorrei subito lo sblocco dei pagamenti per gli ammortizzatori in deroga». Ma serve altro per il cambiamento. E per questo, «occorrono gli investimenti. Le risorse? Ci sono quelle che le amministrazioni avrebbero con lo sblocco del patto di stabilità. Lo Stato paghi i crediti alle imprese, per cui c’è il sì dell’Europa. Occorre far partire gli investimenti già deliberati, tradurre in cantieri la riorganizzazione dei fondi strutturali fatta dal ministro Barca». E ancora: «Perché non si comincia a dire che pensioni e stipendi d’oro andrebbero pagati con titoli di Stato dirottando altrove il denaro?». Perché alla fine «è chiaro che non si azzera la disoccupazione in qualche mese, ma sono cinque anni che non c’è un segnale di inversione dato alle persone». Rispetto a Monti, Bersani parte col piede giusto, almeno nelle consultazioni. «Apprezzo un metodo diverso. Questa volta, invece di mettere 200 persone nella stessa stanza e dar loro venti secondi ciascuna, vedo la giusta attenzione alle parti sociali». Insomma «un buon segno. C’è un riconoscimento che durante la stagione del governo tecnico non c’è stato. E forse una parte dei nostri guai derivano anche da quello».

l’Unità 24.3.13
Una misura contro la povertà
In cinque anni l’Italia ha prodotto 615 nuovi poveri al giorno
Ora è necessario il reddito di cittadinanza
di Nicola Cacace


LA POVERTÀ CRESCE A RITMO ACCELERATO, ERANO 2,3 MILIONI NEL 2006, SONO 3,5 MILIONI NEL 2011. IN CINQUE ANNI L’ITALIA HA PRODOTTO 615 NUOVI POVERI AL GIORNO. E PARLIAMO DI VERI POVERI, veri morti di fame come si dice in volgare, cittadini verso cui un reddito minimo di cittadinanza sarebbe dovuto in ogni Paese civile. In Europa questa soglia di povertà è aiutata dalla solidarietà nazionale in tutti i paesi con poche eccezio- ni, tra cui ci siamo noi.
Il tema del reddito di cittadinanza, recentemente venuto alla luce in alcuni programmi politici, tra cui quelli del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle, è un tema reale alla luce della dimensione crescente della povertà ed è anche di possibile soluzione a patto di diradare le nebbie dell’ignoranza che sono fitte. Il reddito di cittadinanza, più correttamente reddito minimo di cittadinanza, è strettamente legato alla povertà. Quale povertà, assoluta o relativa? La povertà assoluta è quella di famiglie al disotto dell’indice di sopravvivenza o «ius existentiae» che fissa, tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, «la garanzia di una esistenza dignitosa» per tutti, dove l’Italia resta, purtroppo un fanalino di coda (in compagnia di Grecia ed Ungheria). La povertà assoluta, secondo la definizione media dell’Istat (che giustamente fa differenzia tra redditi di povertà di Nord, Centro e Mezzogiorno), fa riferimento alla famiglia di due persone che vive con meno di 800 euro al mese e riguarda (2011) il 5,2% delle famiglie pari a 1,3 milioni di famiglie e 3,5 milioni di cittadini. La povertà relativa, anch’essa crescente, abbraccia un quadro molto più grande, l’11% delle famiglie pari a 8 milioni di cittadini, la cui condizione è calcolata in base ad un «indice sintetico di deprivazione». Come accade ogni volta che ci si trova di fronte a problemi complessi il primo passo è quello della conoscenza e partendo da essa, va detto subito che quello di cui si può discutere con ragionevolezza è il «reddito minimo di cittadinanza», riferito, per ora, in tempi di tagli alla spesa pubblica, alla povertà assoluta di famiglie, numerose o single che siano.
Ebbene, considerando 1,3 milioni di famiglie povere, un contributo medio di 500 euro a famiglia di due componenti, costerebbe 6.000 euro a famiglia/anno per un totale di 7, 8 miliardi euro, che non è poco ma neanche una spesa impossibile, in un Paese la cui ricchezza privata è superiore a quella dei cittadini tedeschi e francesi. Siamo uno strano Paese. Ogni volta che da Bruxelles ci rimproverano per la dimensione del nostro debito pubblico, più di 2.000 miliardi 120% del Pil, i nostri politici, lo faceva Berlusconi ma lo ha fatto anche Monti, ricordano agli eurocrati che, però, la nostra ricchezza privata, immobiliare e finanziaria, è così grande da compensare il passivo dello Stato. Insomma, come diceva un vecchio politico «il convento è povero ma i frati sono ricchi». Però si dà il caso che nessuno ha sinora chiamato a contributi di solidarietà «la ricchezza privata» soprattutto quella dei più ricchi. Perché è vero che «gli italiani sono ricchi» ma non tutti. Essendo la ricchezza fortemente concentrata, il 10% dei super ricchi ne possiede il 45% e metà della popolazione il 90%, con l’altra metà tra gli europei più poveri. Questa è la realtà e quando si assiste sgomenti alla povertà montante, non si può non chiamare a contribuire alla soluzione del problema i privilegiati della ricchezza montante.

l’Unità 24.3.13
Non è un Paese per persone normali
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Sono stata rapita or ora dalla streaming di Grillo e dei suoi amici, e sono veramente atterrita. Vorrei piangere, vorrei scappare molto lontano, vorrei non sentirmi italiana, vorrei non aver mai scoperto tutto questo. Vorrei stringere la mano a Bersani,  a Grasso e alla Boldrini e a tutti quelli che nel Pd si stanno scervellando in queste ore per cercare di rendere più vivibile il Paese. Ma resto in silenzio, guardo consumarsi il martirio in Tv, in streaming.
SIMONETTA VERLA

Quello che più di tutto è costato a Bersani, in campagna elettorale, è stato il suo presentarsi come una persona e come un politico «normale», come una persona saggia per cui l'unico rinnovamento possibile si sviluppa nella continuità: correggendo gli errori e valorizzando quello di buono che si è fatto in precedenza. Quella che più gli nuoce in questa fase è la chiarezza senza retropensieri del programma, la tendenza ad anteporre le cose da fare alle trame, elettorale o strategiche, lo sguardo rivolto al bene comune invece che alla convenienza personale. Armi spuntate, apparentemente, contro avversari assai più cinici e manovrieri di lui. Ad un potere «assoluto» pensano Grillo ed i suoi, infatti, fantasticando elezioni in cui tutti saranno costretti ad «arrendersi» alla forza di un movimento «che esige ma non tratta» mentre ad un'amnistia o a un salvacondotto per sé pensa Berlusconi. Rimasto solo a difendere l'idea per cui il fine non giustifica i mezzi, Bersani probabilmente non ce la farà. Quello che piace di più a tanti (troppi) giornali ed elettori è il protagonismo del leader da palcoscenico. Cui lui, per fortuna, non è disponibile.

Repubblica 24.3.13
Da Star Trek a Bertoldo, così Grillo parla all’immaginario popolare
di Michele Smargiassi


«LA RESISTENZA è inutile. La vostra vita, come è stata finora, è finita. Da questo momento siete al nostro servizio. Arrendetevi!». Beppe Grillo? No,
Star Trek.
Parlano così, nella saga fantascientifica, i Borg, cyber-umanoidi alla conquista dell’Universo. Ma anche Grillo ha parlato così per tutta la campagna elettorale, e non è una buffa coincidenza. Non c’è nulla di meno casuale del linguaggio del capo, nella storia di successo del MoVimento 5Stelle. Pensare che sia folclore, o inerzia lessicale dell’attore satirico, è un’ingenuità, la stessa che sottovalutò Bossi e il suo gutturale lessico celodurista. In politica il linguaggio serve a circoscrivere e a proscrivere, a includere e a escludere: in fondo un partito è un campo semantico.
Certo, essere stato un comico è un vantaggio competitivo. «Col linguaggio della satira si possono comunicare contenuti altrimenti indicibili», osserva Roberto Biorcio in uno dei saggi dell’ultimo numero di Comunicazione Politica, rivista de Il Mulino, a cura di Ilvo Diamanti e Paolo Natale, tutto dedicato al caso M5S. Dietro la maschera del Tiresia beffeggiante, Grillo ha imperversato in territori sui quali nessun concorrente (neppure lo showman Berlusconi, che ne patisce palese invidia) poteva seguirlo, pena il ridicolo. La sua doppia casacca, di condottiero che tratta argomenti spesso seri e pensosi e di Bertoldo con la licenza del giullare, lo ha protetto come una corazza. Chi sparava sul politico, trovava il comico, e viceversa. Impossibile infilzarlo.
Così Grillo ha potuto scherzare senza scottarsi coi fuochi più incandescenti. Si è concesso di scimmiottare simboli impresentabili, dal gergo delle Br (sul suo blog esce periodicamente il «comunicato politico numero... ») al frasario del Duce (sui palchi grida, impettito: «Ita/liàni! »), sempre demoliti e sterilizzati da una risata, ma intanto ripescati dalla memoria collettiva. L’arsenale retorico di Grillo è sapiente, attinge senza darlo a vedere a tutti i cataloghi, alti e bassi, pop e colti, letteratura e fumetto, affonda le radici nel profondo dell’immaginario popolare e antropologico. Vista la traversata a nuoto dello Stretto di Messina, tutti hanno pensato alla nuotata di Mao: ma dal sottofondo ancestrale dei siciliani forse è riapparso il mito di Colapesce, l’anfibio cercatore di tesori che immergendosi vide che la Trinacria poggiava su colonne corrose...
Così, l’uso pervicace dei nomignoli e delle storpiature offensive dei cognomi degli avversari (Rigor Montis, Gargamella, Psiconano...) è stato avvicinato alle beffe squadriste contro gli antifascisti, ma ne condivide solo la radice più lontana: l’abolitio nominis, nell’antica Roma, precedeva la damnatio memoriae nella procedura di esilio dei reprobi. Anche il turpiloquio, osserva Giovanna Cosenza in un altro saggio, è più di una banale arma contundente, è forma funzionale a un’operazione concettuale sofisticata: «la riduzione del politico alle miserie umane», la sua squalifica per indegnità dal campo del buono e del giusto. La veemenza è una scelta di elocutio: funge da sigillo di autenticità sul messaggio, dice ancora Cosenza, fa pensare: «be’, con l’energia che ci mette, saprà quel che dice».
Né ingenuo né spontaneo, dunque, il linguaggio di Grillo. Anche ora che pare aver dismesso le incandescenze da comizio, resta una macchina perfettamente adeguata allo scopo: tener lontano dai suoi, con una profilassi verbale, il contagio dei «seduttori» della politica, e creare un’identità di gruppo impermeabile all’esterno. Non è un gergo identitario di movimento, non è il “cioè-cazzo-compagni” degli anni Settanta. I grillini non parlano come Grillo, non ne hanno bisogno. Quando per sbaglio ci provano, com’è capitato al capogruppo Crimi per la battuta sulla sonnolenza di Napolitano, fanno un pasticcio e devono chiedere scusa. Il capo, mai. L’impertinenza calcolata (e condonata) del “megafono” è il parafulmine che attira e scarica a terra gli strali degli avversari, proteggendo il gruppo: Grillo, leader “irresponsabile” in senso tecnico (non ha cariche,
non è in Parlamento) può sopportarli senza farsi male. Come Ulisse (così è apparso in auto-caricatura nel suo blog), Grillo solo può ascoltare le sirene; i suoi «ragazzi» in Parlamento no, loro devono avere orecchie (e anche bocche) tappate dalla cera.
Si può definire il linguaggio della presenza/assenza, ovvero dell’incombenza. Grillo non ha veri interlocutori, nel blog lancia gli argomenti ma non interviene personalmente nelle discussioni. Eppure tutti lo chiamano Beppe, come avessero un canale speciale di contatto con lui. Sorprenderà allora qualcuno scoprire, come ci informano Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini, che i simpatizzanti del non-partito sedicente senza capi si sentano vicini al loro leader (44%) molto più di quelli degli altri partiti (38%)? O che (c’informa Sara Bentivegna) in quasi metà dei tweet che il grillini si scambiano compaia il cognome del leader? O ancora, che il 42% dei militanti sia convinto che senza Grillo il M5S non potrebbe sopravvivere?

da Repubblica di oggi:

“Grillo mi piace tantissimo, dice tantissime cose che condivido, vuole cambiare cose incrostate da secoli come la burocrazia”. Lo ha detto l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri a “La Zanzara”, su Radio24
Per il sindaco M5S di Parma, Federico Pizzarotti, Kabul si trova «in Iraq». A smascherare l’impreparazione in geografia è stata Sabrina Nobile delle “Iene”, davanti al Parlamento

Repubblica 24.3.13
Le prime crepe nel fronte grillino “Non siamo qui solo per dire no dobbiamo dialogare anche con il Pd”
Un gruppo di parlamentari porrà il tema martedì in assemblea
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Succederà già martedì, quando saranno di nuovo tutti a Roma. Alla Camera e al Senato, i parlamentari del Movimento 5 stelle si riuniranno per parlare dei prossimi passi. Tra questi, le “consultazioni” con il premier incaricato Pier Luigi Bersani. È a quel punto, che se le cose non dovessero andare in un altro senso e cioè verso un accordo Pd-Pdl alcuni di loro si alzeranno in piedi e diranno: «Parliamone».
Non è così granitica, la pattuglia grillina in Parlamento. Non è così convinta che la linea del «no a tutto» porti a qualcosa di buono. «Se è solo per dire no - si sfoga un senatore - non vale neanche la pena venir qui. Basta registrare un messaggio in segreteria». Li agita stare con le mani in mano. Li muove la paura che sia tutto inutile, che si sia arrivati fin qui e “pouf”, tutto rischi di svanire senza aver portato a casa nulla di buono. Non sono molti, ma il loro ragionamento comincia a fare breccia. Così come su Internet cominciano a girare gli articoli di chi chiede di fare un passo avanti, verso un governo e verso il Pd. Gli attivisti li linkano. Scrivono: «Quel che è giusto è giusto». Inondano il blog di frasi come quella di Michele S: «Sarei favorevole all’idea di Bersani tenuto per le p... piuttosto che altri 5 anni di nulla».
«Ho votato Grasso», confida il senatore “dissidente”. «Non sono siciliano né campano, non è questo il punto. Penso che dobbiamo fare lo sforzo di aprirci. Non si può
andare al Colle con i punti del programma. Le regole della Costituzione non sono quelle del Movimento: dovevamo portare un nome. Lo stesso con Bersani. Dovremmo dirgli: “Il governo lo fai con questi qui”». Il ragionamento è semplice: «Andiamo in giro a vantarci dei risultati in Sicilia, ma se per fare partire la giunta Crocetta fosse servito un voto di fiducia, non avremmo combinato nulla». Uscire dall’aula, trovare il modo di far partire un governo con cui trattare alcuni punti, è su questo che il gruppo sarà chiamato a riflettere. Voterete? «Votiamo anche per sederci, spero proprio che si voglia discuterne. Non ha senso tornare a elezioni, buttare 400 milioni di euro senza dare nessuna risposta». Quanti siete? «Al Senato credo di più, rispetto alla Camera c’è una differenza su base anagrafica». Tradotto: ci sono persone più mature e meno spaventate dalla rigidità della linea Grillo-Casaleggio.
E però, anche tra i deputati qualcosa si muove. Racconta uno di loro: «Spero proprio si possa riuscire a parlarne. È vero che un’eventuale fiducia potrebbe essere interpretata come una violazione del patto con gli elettori, ma un accordo su punti programmatici chiari forse no. L’urgenza ora è fare gli interessi degli italiani. Il Movimento deve compiere scelte mature, e in fretta. Potremmo mettere il Pd in un angolo, con un’intesa su più punti, con un calendario preciso. Se non li rispettano, li facciamo cadere. Ma non avremmo perso il nostro appuntamento con la storia».
Pare di leggere il blog. Tra i commenti di ieri, c’è Marco Pizzale: «Berlusconi vuole andare alle elezioni, sarebbe il caso di non imitarlo, conviene più che altro un governo stile Crocetta». O Enea Lirici: «L’unico modo per tenere il Movimento unito e coerente con i valori che abbiamo difeso fino a oggi è il sostegno esterno momentaneo e condizionato al governo pd. Ogni altra scelta è uno sbilanciamento a favore di Berlusconi». Sabrina di Pisa: «Questo movimento ha la forza per poter innescare un cambiamento, basterebbe un po’ di coraggio». E Vincenzo Adamo: «La manifestazione no Tav è riuscita, ma è più che riuscita anche quella a piazza del Popolo. Mi chiedo se è conveniente permettere che con l’inciucio Pd-Pdl Berlusconi torni in auge». I portatori di dubbi sono tanti. Aumentano ogni giorno. Grillo potrebbe decidere di ascoltarli, o fare come ha fatto a Roma dopo le consultazioni al Quirinale: sgommare via con gli occhiali scuri, tifando per le macerie.

Corriere 24.3.13
Scalette d'aereo e sorrisi: la prima «first lady» cinese
Bella e famosa, la moglie di Xi Jinping apre una nuova era politica e culturale
di Guido Santevecchi


PECHINO — Non c'era la classica immagine posata della stretta di mano tra leader ieri sulle prime pagine dei giornali di Pechino. Il presidente russo Putin è finito nelle pagine interne, oscurato dal fascino della signora Peng Liyuan, comparsa sulla scaletta del jet dell'Air China che l'ha portata a Mosca al fianco del marito, il presidente Xi Jinping.
Erano decenni che la Cina non aveva una first lady visibile. L'ultima era stata la moglie di Mao, la perfida Jang Qing, finita sotto processo con la Banda dei Quattro per gli orrori della Rivoluzione culturale.
Ora i cinesi possono emozionarsi per una bella signora di 50 anni che sa tenere la scena, perché Peng Liyuan è una soprano ed era famosa da prima che il signor Xi scalasse la piramide del potere nella Repubblica popolare.
Così, nonostante la visita di Stato in Russia avesse una notevole importanza geopolitica, i cronisti cinesi al seguito non hanno resistito alla tentazione di descrivere la signora: «La coppia indossava soprabiti scuri illuminati dalla sciarpa azzurra di Peng», ha scritto al secondo capoverso l'inviato del China Daily a Mosca. L'agenzia Xinhua, voce ufficiale dello Stato, ha titolato: «L'America ha Michelle, noi abbiamo Peng».
Peng Liyuan ha addirittura stretto il braccio di Xi, mentre scendeva la scaletta dell'aereo con la classe di una star abituata al palcoscenico. Un gesto che non fa (non faceva) parte del rituale della politica cinese, austera e maschilista.
Subito dopo aver visto la scena in diretta tv il popolo della Rete è entrato in fibrillazione: complimenti commossi per la lezione di grazia ed eleganza. Ma poi minuti di panico quando ha cominciato a circolare la voce che la borsetta blu di Peng fosse di Tod's. Possibile che la signora avesse scelto un prodotto di lusso straniero da sfoggiare accanto al marito che pure ripete instancabile che «i funzionari statali debbono tornare alla frugalità»?
Sono stati consultati stilisti locali e si è accertato che invece è tutto made in China: creato da «Exception of Guangzhou», una griffe a costo accessibile. Tanto che su Taobao, l'e-bay cinese, è subito comparsa l'offerta del soprabito della presidente: costo 499 yuan (60 euro).
Molto elogiata dunque la classe e la sobrietà dell'abbigliamento. E non era scontato che Peng sapesse vestirsi con gusto non pacchiano: come soprano è abituata a costumi di scena colorati e vistosi. E siccome è anche generale dell'esercito (divisione artistica), fuori dai teatri ha sempre vestito l'uniforme verde oliva.
Con grande dolore dei suoi milioni e milioni di fan Peng ha smesso di esibirsi in pubblico dal 2008, per non oscurare il marito. Ma ieri la soprano-generale-first lady ha cantato per gli ospiti russi la prima strofa di «Fiorisce il viburno», una canzone sovietica scritta per un film degli anni Quaranta sui «Cosacchi del Kuban». E già si levano appelli perché Peng torni anche nei teatri cinesi.
Naturalmente la scoperta del ruolo di first lady all'occidentale non è casuale. Gli strateghi della comunicazione di Pechino segnalano al mondo che il presidente è pronto a trattare da leader globale, senza temere il confronto con Obama (e Michelle). E pensare che quando Peng conobbe Xi, nel 1986, la prima impressione fu: «Ho incontrato un tipo rustico e vecchio» (lui ha dieci anni di più). Poi ci ripensò: «Xi non è sofisticato, ma è molto intelligente».

l’Unità 24.3.13
Le foto di Planck
Nuove scoperte sull’universo bambino fornite dalle immagini del telescopio
Grazie allo speciale macchinario messo in orbita nel 2009 che misura la radiazione cosmica di fondo sono stati ottenuti risultati sorprendenti:
il cosmo è più vecchio di quanto calcolato, la materia oscura è al 26,8 % e l’emisfero nord è diverso dall’emisfero sud
di Pietro Greco


È UN’IMMAGINE AD ALTA DEFINIZIONE DELL’UNIVERSO BAMBINO, QUELLA CHE NEI GIORNI SCORSI CI HA PROPOSTO PLANCK, lo speciale telescopio da 700 milioni di euro messo in orbita nel 2009 dall’Agenzia spaziale europea (Esa). Una fotografia per molti versi attesa e per altri sorprendente, ricostruita nei primi quindici mesi e mezzo di lavoro del telescopio montato su satellite, che coglie i dettagli più minuti del cosmo appena uscito dalla sua fase oscura e diventato finalmente visibile, 380.000 anni dopo il Big Bang.
Ma la nuova immagine ad alta definizione dell’universo bambino non costituisce solo una performance tecnologica di Planck, il telescopio che misura la radiazione cosmica di fondo. Propone anche importanti risultati scientifici. I principali sono quattro.
In primo luogo, fornisce una data più precisa della nascita del nostro universo. Secondo Planck il Big Bang è avvenuto esattamente 13,82 miliardi di anni fa. Il cosmo è dunque più vecchio di 50 milioni di anni rispetto a quanto calcolato in precedenza sulla base dei dati meno precisi del Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (Wmap), un telescopio analogo lanciato nello spazio dalla NASA nel 2001.
In secondo luogo, le misure di Planck confermano in pieno il Modello Standard della Cosmologia, inflazione inclusa. Un risultato atteso, ma non del tutto scontato.
Il terzo risultato importante è che Planck ci fornisce una misura esatta di ciò che pesa nel nostro universo. Confermando un dato sconcertante: la natura del 95,2% dell’universo ci è oscura. Ma ridistribuendo un po’ i carichi. Fino all’altro ieri pensavamo che il 72% dell’universo fosse energia oscura (energia di cui non conosciamo, appunto, la natura). Planck calcola che, invece, l’energia oscura costituisca il 68,3% del cosmo. Le misure del telescopio europeo danno più peso alla materia oscura (materia di cui non conosciamo la natura, ma diversa da quella che noi osserviamo nella nostra vita quotidiana), che dal 22,7% delle precedenti stime sale al 26,8%. Resta inferiore al 5% (è il 4,8% per la precisione) il peso relativo della materia ordinaria, quella di cui siamo fatti noi, i pianeti, le stelle e le galassie. L’unica di cui conosciamo la natura. Planck, dunque, ci fornisce una conferma della nostra ignoranza e ripropone la domanda: di cosa è fatto quel 95,2% dell’universo la cui natura ci è oscura e di cui sappiamo solamente che esiste?
Quarto risultato. Il meno atteso. Planck ha realizzato una mappa del cosmo che ha la forma di un’ovale e ha, dunque, due emisferi. Ebbene in questa mappa ci sono due tipi di asimmetrie non attesi. L’emisfero nord è significativamente diverso dall’emisfero sud: il risultato era già stato ottenuto da Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (Wmap), ma gli analisti lo avevano attribuito a un errore connesso alla scarsa definizione delle misure del telescopio americano. La foto ad alta definizione realizzata da Planck dimostra che non di errore si tratta, ma della realtà. Inoltre Planck ha trovato nell’universo bambino, dei «cold spots», macchie più fredde della media e molto estese. Le due asimmetrie abbastanza clamorose, perché sono difficili da spiegare sulla base delle conoscenze cosmologiche. E secondo alcuni evocano «nuova fisica».
Vediamo perché.
Il Modello Standard della Cosmologia dice che l’universo è nato con un Big Bang, una grande esplosione di un punticino piccolissimo, caldissimo e densissimo avvenuta esattamente (ora lo possiamo dire) 13,82 miliardi di anni fa. Come un palloncino l’universo neonato ha iniziato a espandersi. E come impongono le leggi della termodinamica a raffreddarsi. Quel palloncino era omogeneo e isotropo, uguale a se stesso in ogni sua parte. A meno di piccole fluttuazioni quantistiche. Un po’ più caldo qui, un po’ più freddo lì. Un po’ più denso qui, un po’ meno denso lì. Queste fluttuazioni sarebbero state rapidamente riassorbite dal torrido grumo se, poco dopo essere nato, l’universo non fosse andato incontro a un processo chiamato «inflazione»: un rapidissimo aumento di volume che ha congelato le fluttuazioni casuali iniziali. Quei punti più freddi e quei punti più densi sono diventati, centinaia di milioni di anni dopo, i nuclei di condensazione delle stelle e delle galassie.
Ma torniamo all’era dell’inflazione, iniziata più o meno dieci-trentacinque secondi dopo la nascita dell’Universo e durato appena dieci-trenta secondi, ma capace di aumentare la distanza tra due qualsiasi punti dell’universo di oltre 1030 volte. Sono numeri la cui reale dimensione sfugge alla capacità di immaginazione. Ma diciamo che il nostro universo visibile con il processo dell’inflazione è passato da dimensioni infinitesime (una sfera con un raggio pari alla lunghezza di Planck, circa 10-33 centimetri) alle dimensioni di un’arancia. Poi il cosmo ha passato da una crescita esponenziale a una crescita lineare. E mentre cresceva, come termodinamica impone, si raffreddava.
Durante il raffreddamento sono successe tante di quelle cose che è impossibile racchiuderle in una pagina. Diciamo solo che molte di queste transizioni di fase sono state ricostruite in laboratorio. Da ultimo la ricostruzione ha portato alla scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra.
Tuttavia per 380.000 anni l’universo è rimasto una sfera oscura. Perché i fotoni luminosi non riuscivano a muovere un passo che venivano immediatamente reclutati in un qualche processo. Se ci fosse stato un esterno e qualcuno in quell’esterno avesse osservato il nostro universo, non avrebbe visto nulla, ma percepito una grande attrazione gravitazionale e un insopportabile calore.
Quando, infine, 380.000 anni dopo il Big Bang la temperatura è scesa a pochi migliaia di gradi e si sono così potuti formare i primi atomi di idrogeno e i primi nuclei, la gran parte dei fotoni luminosi è stata libera di scarrozzare nell’universo. Sono quei primi fotoni liberi che ha fotografato Planck.
Da quel momento (13,82 miliardi di anni fa) l’universo ha continuato a espandersi e la radiazione a raffreddarsi, passando da una temperatura di circa 2.700 gradi a una temperatura di 2,7 gradi (Kelvin). La temperatura di una radiazione la radiazione cosmica di fondo che ha la frequenza delle microonde, che permea di sé l’intero universo e che è stata misurata dal telescopio Planck.
Planck ha verificato che questa radiazione è diffusa in maniera abbastanza omogenea. Come prevede il Modello Standard. Ma ha anche verificato profonde asimmetrie, non spiegabili sulla base del solo Modello Standard. Raggiungendo, forse, il suo massimo risultato: proporre nuove domande.

l’Unità 24.3.13

Massimo Cacciari, a proposito di potere. Riflessioni e paradossi
Nel suo saggio i passi più significativi della tradizione teologica ci aiutano
a comprendere meglio
di Giuseppe Cantarano


CHE COS’È IL POTERE? QUAL È LA SUA NATURA? E perché Tutti noi siamo – volentes o nolentes – inclini non solo a esercitarlo, ma a obbedirvi? Non ci sottomettiamo, forse – più o meno volentieri al potere politico? Non obbediamo, forse – più o meno volentieri – alle sue leggi? E ancora: a cosa serve il potere? Qual è la sua funzione? È immaginabile una auctoritas politica del tutto separata e distinta dalla potestas teologica? Non è forse vero – come ha affermato Carl Schmitt – che le categorie politiche si limitano a secolarizzare, a laicizzare un originario impianto teologico? Sono un po’ questi i radicali interrogativi sollevati dall’ultimo bel libro di Massimo Cacciari (Il potere che frena, Adelphi, pp. 211, euro 13,00).
Che vi sia un potere, che vi sia una Legge è un miracolo. E che vi sia chi si ribella, non è che trita banalità, scriveva il grande compositore austriaco Arnold Schönberg. Molto caro, del resto, a Massimo Cacciari. Ed è sull’esistenza di questo «miracolo» che il filosofo veneziano riflette nel suo libro. Misurandosi con quel celebre passo attribuito a san Paolo, compreso nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Un passo controverso. Di difficile, ardua interpretazione. È qui che balena forse per la prima volta nella storia dell’Occidente – l’oscura tematizzazione di quel «miracolo». Di quell’irresolubile enigma che è il potere. Che è la Legge. Come poi ci racconterà Kafka.
Nel primo grande documento cristiano sulla politica, che è la Lettera ai Romani, san Paolo raccomanda obbedienza al potere politico. Poiché ogni potere politico ha ricevuto da Dio il mandato di proteggere il bene. E di arginare il male: «Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio» (13, 1-2).
Del potere politico non possiamo fare a meno, ci dice san Paolo. Non fosse altro perché il potere politico – l’Impero romano, nel caso specifico rappresenta un «freno» nei confronti di una società tendenzialmente caotica, disordinata, anarchica. Il potere, pertanto, sembrerebbe avere un timbro esclusivamente positivo. La sua funzione sembrerebbe volta esclusivamente al bene. Giacché è quella di contenere, di arginare, di frenare il dilagare del male nella società. E tuttavia, le cose non stanno così, ci dice Cacciari.
Infatti, del potere come «freno» (katechon, in greco) si fa cenno anche nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Su cui Cacciari esercita un’acutissima e penetrante esegesi. Laddove è scritto: «E ora conoscete ciò che trattiene (to katechon) la sua apocalisse, che avverrà a suo tempo. Già, infatti, il mistero dell’iniquità è in atto; ma chi trattiene (ho katechon) trattenga, precisamente fino a quando non venga tolto di mezzo” (2, 6-7). Rispetto all’univocità della Lettera ai Romani, qui il potere assume invece un volto «diabolico», diciamo così. Nel senso letterale del termine: ingannevole, ambivalente, enigmatico. E a suo modo, tragico. Poiché viene concepito come una forza – non è chiaro se espressione di un soggetto o di una cosa – che per trattenere, per frenare il trionfo del male è costretta, contemporaneamente, a ritardare la definitiva vittoria del bene. A ritardare, pertanto, anche l’annientamento dello Spirito dell’empietà. Dunque del male. Fino a quando anche questo freno che trattiene sarà «tolto di mezzo», spazzato via, prima della parusia del Signore.
Come contenere in uno – si chiede Cacciari – queste due paradossali, tragiche dimensioni? Paradossali, tragiche dimensioni di ogni sovranità politica. Ogni potere – scrive Cacciari – «è chiamato a esprimersi come mediazione. Il mediatore dispone dell’effettuale comando, ma non risolve in sé immediatamente ogni auctoritas, non ne è autarchicamente fonte e sede. Il potere rappresenta – e viene così ad assumere sempre dal rappresentato la propria autorità». Insomma, nessuna potenza teologica detiene l’assoluta potestas su questa terra. E credersi idolatricamente eterna. Così come nessuna potenza politica detiene l’assoluta auctoritas. Senza la quale, tuttavia, il sovrano si ridurrebbe a semplice funzionario di un apparato burocratico-amministrativo. Che difficilmente riuscirebbe a legittimare le sue decisioni.

Il potere che frena Massimo Cacciari pp. 211 euro 13,00 Adelphi

Corriere 24.3.13
Il circuito del cervello che non dorme mai spiega la depressione
Mentre riposiamo progetta il futuro
di Edoardo Boncinelli


Sembra proprio che ci sia un cervello nel cervello, una regione cerebrale che si dà un gran daffare quando il cervello non fa niente di specifico. Comprende aree della corteccia prefrontale, quella più anteriore, con la quale pensiamo e immaginiamo, e aree della corteccia parietale, cioè laterale, posteriore. Tutta questa parte del cervello non ha un nome specifico ma la possiamo chiamare circuito di default (Cd), appunto perché si attiva per default, ovvero in mancanza d'altro. Quello che sembra adesso, ma la cautela è d'obbligo, è che questo particolare circuito sia implicato in una vasta gamma di difetti cerebrali, dalla depressione alla schizofrenia, dai deficit di attenzione all'Alzheimer e perfino all'autismo.
Distinguiamo i fatti dalle aspettative, anche fondate. Pur rappresentando il 2 per cento del peso del corpo, il cervello consuma il 20 per cento del bilancio energetico complessivo, anche se non fa niente di specifico. Perché? Bene non lo sappiamo, ma qualche anno fa si scoprì appunto che alcune regioni del cervello sono attive sempre e comunque. Anzi, sono più attive quando il cervello non fa niente e si calmano quando il cervello fa qualcosa di specifico. Ciò potrebbe spiegare il perché dell'alto consumo di energia, ma è terribilmente interessane anche in sé.
Che cosa fa infatti questa vasta regione che abbiamo chiamato Cd? Non lo sappiamo, ma ci incuriosisce molto e può darsi che costituisca anche la scoperta del secolo. Intanto, come ce ne siamo accorti? Ovviamente misurando e aiutati da un po' di fortuna, che non guasta mai. Cercando di ridurre l'attività del cervello che costituisce un fastidioso «rumore di fondo» nelle misure con la risonanza magnetica, alcuni ricercatori si accorsero di due cose. In primo luogo, questa attività non si riusciva facilmente a ridurre; e in secondo luogo era costituita di onde cerebrali lentissime e sincronizzate, il tutto localizzato nelle regioni che abbiamo già indicato e che non sono affatto piccole.
Anche se noi non facciamo niente di specifico, insomma, buona parte del nostro cervello resta in attività e lo fa tanto più quanto più il resto del cervello resta inattivo. Quando una parte si attiva, invece, le onde cerebrali proprie del Cd si affievoliscono. Poiché non è pensabile che tutto ciò non serva a niente, ci si è chiesti qual è il loro ruolo: un'ipotesi particolarmente interessante è quella secondo la quale il cervello… pensa al futuro, cioè fa piani per ciò che sarà o, meglio, per ciò che potrà essere. Un'ipotesi del genere potrebbe spiegare perché questa regione è coinvolta in certi disturbi come la schizofrenia o l'autismo: in questi casi non c'è sufficiente attività di previsione e quindi di programmazione. Interessante certo, ma molto speculativo. Potrebbe essere, d'altra parte, che l'attività del circuito di default sia connessa con la coscienza, cioè con la sensazione di esserci anche in assenza di specifici contenuti cerebrali. Se così fosse si potrebbero spiegare altri fatti patologici nel caso di un'attivazione o di uno spegnimento, anche parziale di tale circuito.
Come si vede, sappiamo poco, ma la letteratura sull'argomento sta crescendo esponenzialmente, un segno questo del fatto che la comunità scientifica percepisce tutto ciò come estremamente interessante. C'è chi ha fatto l'ipotesi che un'iperattività del Cd possa essere un segno di una imminente malattia di Alzheimer. Io non mi scomporrei, ma starei certamente alla finestra. Penso di essere facile profeta nel dire che quello che questo circuito ha da dirci è ancora più interessante di tutte le ipotesi attuali. Scommettiamo?

Corriere 24.3.13
L'epica oltre l'egemonia di Omero
Gli eroi dei poemi hanno avuto molte avventure (non tutte andate perse)
di Giorgio Montefoschi


Dopo l'Iliade e l'Odissea, e dopo la scomparsa di quella generazione di re ed eroi molto spesso imparentata con gli dèi, c'era ancora molto da narrare. Rimanevano fuori dal racconto omerico — epperò vivi nella memoria dei greci, cantati negli agoni rapsodici, raffigurati nella pittura murale e nei vasi — episodi mitici famosissimi riguardanti la fine di Troia e il ritorno in patria degli achei. Furono così composti, fra la fine dell'VIII e la fine del VI secolo a.C. diversi poemi — un vero e proprio ciclo — sull'argomento: i Canti di Cipro, l'Etiopide, la Piccola Iliade, La presa di Ilio, I ritorni. Erano notissimi, e i poeti tragici — Eschilo, Sofocle e Euripide — per le trame delle loro tragedie ne fecero uso. Ma col passare del tempo, a causa soprattutto della critica letteraria che li considerava opere di basso livello, scomparvero dalle biblioteche e andarono definitivamente perduti.
A colmare la lacuna, in pieno alessandrinismo, fra la fine del II e l'inizio del III secolo d.C., pensò, con Il seguito dell'Iliade (che oggi Bompiani propone nella collana di Giovanni Reale e Elisabetta Sgarbi) il poeta Quinto di Smirne: quattordici canti, per un totale di circa diecimila versi, nei quali, oltre ai modelli omerici inevitabili e ai poemi del ciclo, sono presenti i Tragici, Apollonio Rodio e Virgilio; ma anche Callimaco e Teocrito; e l'immensa letteratura ellenistica, nutrita dalla nostalgia e dallo smarrimento, dall'amore melanconico per la bellezza e dalla riflessione morale. È una lettura, per l'insieme di questi echi e di questi motivi, davvero stupefacente. Il lettore che si affida ai suoi versi ritrova certamente Omero. Ma, soprattutto, ha la sensazione di trovarsi come davanti a un bassorilievo: un lunghissimo bassorilievo che raccoglie e scansiona una moltitudine di corpi e di gesti, una infinità di fatti umani e divini — col cielo, la terra, il mare — fermati per sempre nel marmo.
Il poema comincia con Pentesilea, la regina delle Amazzoni, che viene in soccorso dei troiani. È una furia: i greci muoiono come capre belanti sotto le mascelle di una terribile pantera. Deve intervenire Achille che ancora sta piangendo Patroclo. Dopo averla insultata («Sei una folle» le dice), la colpisce con la lancia sotto il seno destro. Poi, quando è morta, le toglie l'elmo ed è stupefatto dalla sua bellezza, che è simile a quella di una dea immortale. Quindi c'è una pausa, per onorare i defunti. E, dall'Etiopia, sempre in soccorso dei troiani, arriva Memnone, figlio dell'Aurora, che subito uccide Antiloco, figlio di Nestore, che si dispera (perché «per i mortali non c'è dolore peggiore / di quando i figli periscono al cospetto del padre») e invoca vendetta. Ma Memnone si difende come un cinghiale dai cacciatori in un anfratto, e di nuovo deve intervenire Achille. Prima del duello, due Chere, le dèe della vita e della morte, una nera e una lucente, volteggiano attorno agli eroi. Memnone muore. La madre geme sconvolta, non vuole più illuminare la terra e la terra si oscura. Così è Zeus a doverla obbligare a tornare nel mondo.
Sorge l'alba, infatti; si svolgono i funerali di Antiloco, e riprende la battaglia. Le Chere volano attorno al capo di Achille, adesso. Lui non lo sa, sfiderebbe persino gli immortali. Ed è un immortale a ferirlo con una freccia: Apollo, che sempre difende i troiani. Achille precipita fra i cadaveri, vorrebbe continuare a combattere, ma la vita se ne va. Ed ecco che appare Paride che incita i compagni a impadronirsi del suo corpo. La contesa è feroce. A difendere Achille pensa soprattutto Aiace. I troiani, come vili avvoltoi spaventati dall'aquila, fuggono, e il corpo del più valoroso fra i greci è portato alle navi. Qui, il pianto è infinito: risuona come le onde del mare sospinte da un grande vento.
Mentre si prepara il rogo, Atena stilla dall'alto ambrosia che fa sembrare l'eroe un vivo: addirittura col sopracciglio aggrottato per la morte di Patroclo. E di nuovo tutti piangono: il vecchio tutore Fenice, la disperata Briseide e Teti, la madre, che bacia il figlio sulla bocca. Smetti di piangere — le dice Calliope — anche mio figlio Orfeo è morto, il Fato non si cura neppure dei figli degli dèi. Dopodiché le fiamme salgono, il corpo si riduce a bianche ossa, a nulla, e di fronte a quel nulla piangono anche i cavalli divini di Achille. Loro avevano già pianto la morte di Patroclo, battendo il suolo con gli zoccoli; ora piangono Achille. «Che avevate a che fare in quelle tristi valli / terrestri, fra mortali infelici, trastullo della sorte?» scrisse Costantino Kavafis. «Ma le bestie di nobile natura / piangevano di morte la perenne sventura».
Cominciano i giochi funebri. Poi Teti mette in palio le armi di Achille. Se le contendono Aiace e Odisseo: le avrà chi, secondo i prigionieri troiani, si è maggiormente distinto nella difesa del suo cadavere. I troiani votano Odisseo, Aiace impazzisce dall'ira, fa strage di pecore scambiandole per i greci, rinsavisce e, non reggendo al disonore, si uccide. Poi riprende la battaglia: da una parte mietono vittime Aiace Oileo, Diomede e i due Atride; dall'altra, Euripilo e Enea. I troiani, intanto, sono in grande difficoltà ai bastioni di difesa delle navi. Bisogna far venire dall'isola di Sciro Neottolemo, il figlio di Achille. Partono in missione Odisseo e Diomede. Arrivano a Sciro, promettono a Neottolemo le armi del padre e in sposa la figlia di Menelao. Neottolemo accetta. Sua madre, Deidamia, è disperata; vorrebbe trattenerlo. Invece, la nave parte. Lei guarda il mare finché le vele scompaiono e la nave arriva a Troia.
Gli occhi di Neottolemo, ansioso di emulare le gesta paterne, scintillano come quelli di un leone sfrontato. I troiani, vedendolo rivestito di quelle armi, si rinchiudono terrorizzati nelle mura della città: «Come quando i pastori nei recinti attendono / la scura bufera, allorché arriva il tempo dell'inverno...». È una carneficina. Alla quale gli dèi non assistono inermi: Ares, Afrodite e Apollo contro Era e Giunone. Zeus, di volta in volta, manda nubi e nebbie e fulmini che oscurano la vista e salvano chi sta per soccombere. Il fiume Xanto è rosso di sangue. Sulla spiaggia, i cadaveri giacciono come tavole e legni spezzati di una nave smontata. Le donne e i vecchi troiani guardano dall'alto delle mura e tremano. Sopraggiunge, in soccorso dei greci, Filottete, richiamato dall'isola nella quale era stato abbandonato. Gli uomini cadono al suolo come le spighe recise in agosto. Il fragore della pugna è simile a quello dei venti di primavera fra gli alberi, al crepitio del fuoco nella macchia, al mare in tempesta.
E viene il momento di Paride. Filottete lo colpisce all'inguine. Paride è moribondo. Tuttavia non va da Elena, ma da Enone, la moglie che ha abbandonato e dimora sul monte Ida, perché nel suo destino è scritto che potrebbe sfuggire la morte «qualora ella volesse». Enone non vuole. Lui la implora: «Non lasciarmi morire». Lei, sprezzante, gli dice: «Rivolgiti a Elena». E aggiunge: «Oh, se io avessi nel cuore l'immensa forza di una belva, / per sbranare le tue carni e poi tracannare il tuo sangue, / per tutto il male che mi hai fatto...». Paride muore. Viene innalzato il rogo: sul monte. Ma Enone non regge al dolore: «La luce del giorno non ha più attrattiva». Dopodiché, come una pazza, si getta sul rogo e muore col marito che l'ha tradita. Le Ninfe sono attonite. Sono attoniti anche i pastori.
Ormai, la fine di Troia è vicina. Siamo all'inganno del Cavallo, che tutti conoscono. I troiani cadono nell'inganno, nonostante gli avvertimenti di Laocoonte che verrà strozzato insieme ai figli dai serpenti marini, e di Cassandra («Siamo arrivati nella tenebra!» grida); trasportano il cavallo in città e si ubriacano di vino. Poi escono dal cavallo, e si scatena l'orrore. La città brucia in un gigantesco rogo le cui fiamme si vedono fino all'isola di Samotracia. Dal mare, i naviganti capiscono che il destino di Troia è compiuto.

Corriere 24.3.13
L'immortalità divide la scienza
J. M. Fischer spiega le sue ricerche sulla vita eterna. Studiosi perplessi
di Ennio Caretto


Da alcuni mesi, un'équipe diretta da John Martin Fischer, professore di Filosofia dell'Università della California della città di Riverside presso Los Angeles, conduce una ricerca sull'immortalità finanziata da una borsa di studio di cinque milioni di dollari. In un recente incontro con i media americani, il filosofo ha spiegato la sua «missione», improntata «a seri criteri scientifici, nel rispetto delle tradizioni religiose, per accertare se esistano forme di vita eterna, se esista cioè una realtà ulteriore, soprasensibile, che ci trascenda».
Non è l'unico progetto del genere in America dall'inizio del Terzo millennio. Nel luglio scorso a San Francisco, dunque pochi giorni prima dell'annuncio di Fischer, un giovane imprenditore russo, Dmitri Itskov, rivelò che trenta scienziati stavano lavorando al trapianto del cervello umano su un robot, «primo passo verso l'immortalità», impresa realizzabile — garantì — entro il 2045. Ma mentre il suo progetto, battezzato «Avatar» dal celebre film di Cameron, per il quale Itskov stava spulciando la rivista «Forbes» a caccia dei finanziamenti dei miliardari americani, sapeva di fantascienza e suscitò più che altro scetticismo, il «Progetto immortalità» di Fischer ha generato notevole interesse — e altrettanta perplessità — per l'autorevolezza del filosofo e per il prestigio della John Templeton Foundation che lo finanzia.
Quello tra il filosofo e la fondazione è un insolito connubio. La John Templeton Foundation, intitolata al miliardario deceduto nel 2008 all'età di 95 anni, un filantropo presbiteriano, promuove la spiritualità e ha condotto ricerche sull'evoluzione, la scienza, la personalità, la vita su altri pianeti. Il sessantenne Fischer è di famiglia ebrea ed è ateo — non perdonò mai l'uccisione del nonno durante la Shoah — e i suoi libri più famosi sono un programma già nel titolo: The Metaphysics of Death («La metafisica della morte») e Our Stories: Essays on Life, Death and Free Will («Saggi sulla vita, la morte e la libera volontà»). Ma proprio queste differenze fanno pensare che il «Progetto immortalità» possa essere attendibile. Il filosofo — che ha assegnato ai suoi principali collaboratori (neurologi e teologi, psichiatri e biologi) 250 mila dollari a testa per la ricerca — ha ammesso candidamente di non nutrire grandi aspettative: «È possibile soltanto una maggiore comprensione di interrogativi che da millenni dominano le culture».
A spingere la John Templeton Foundation all'iniziativa è stata con ogni probabilità anche l'attenzione destata in America dai sempre più numerosi libri sulle esperienze ai confini della morte. Nel più recente — Milioni di farfalle (in Italia appena pubblicato da Mondadori) — l'autore, Eben Alexander, ha raccontato di essere caduto in coma e di avere intravisto il Paradiso. Un collega — e non uno qualunque — Oliver Sacks, lo ha contestato sulla rivista «Atlantic», scrivendo che queste sono allucinazioni che «possono avere un significato spirituale ma che non provano l'esistenza di esseri o di mondi metafisici; provano solo la capacità del cervello di crearli». Ma come quelli precedenti, e come lo studio di dieci anni su 244 pazienti pubblicato dal cardiologo olandese Pim Van Lommel nel 2001 sulla rivista «Lancet», il libro di Alexander ha acuito l'ansia di scoprire se l'immortalità metafisica esista davvero e se quella fisica sia raggiungibile. Lo stesso Fischer ha citato nell'incontro con i media Ricordi, sogni, riflessioni (Bur), il libro in cui il pioniere della psicoanalisi Carl Gustav Jung descrisse la propria esperienza di pre-morte.
È un ritorno di spiritualità alle cui radici, secondo Fischer, c'è lo scontento crescente per l'omologazione degli attuali stili di vita, il consumismo (che resiste come modello nonostante la crisi), la globalizzazione, la ricchezza, la libertà delle idee ma non la libertà dalla povertà e dalla fame. Come in ogni epoca di crisi, osserva il filosofo, oggi l'umanità avverte più del consueto il bisogno della fede e della speranza. Quello dell'immortalità «non è un sogno scaturito dalla paura della morte, piuttosto il desiderio di superare i confini imposti dalla natura».
Il «Progetto immortalità» è tuttavia anche una risposta, tipicamente americana a dire il vero, a un dibattito che recenti conquiste scientifiche — dal ringiovanimento del corpo alla clonazione fino alla cibernetica — hanno reso incandescente. Il biologo Aubrey de Grey ritiene che la vecchiaia verrà debellata dalla medicina e Ray Kurzweil, un pioniere dell'intelligenza artificiale, sostiene che il cervello umano sarà trapiantato su un medium non organico. Opinioni che due delle menti più brillanti della Francia — Jean Baudrillard, il filosofo scomparso nel 2007 citato dagli scienziati americani che hanno criticato il progetto, e il virologo Luc Montagnier — contestano vigorosamente. Ne L'illusione della mortalità (Armando Editore) Baudrillard ammoniva che per l'umanità la clonazione è un'involuzione — non un'evoluzione — perché, troncando la selezione naturale pone fine alle specie viventi, compresa quella umana: «Sogniamo ciecamente di superare la morte sebbene da sempre l'immortalità abbia rappresentato la peggiore delle condanne, il destino più terrificante... porterà all'avvento non del superuomo ma del subumano».
Montagnier ora rilancia: «Il clone non avrebbe il vissuto né la personalità dell'individuo clonato». Precisa altresì che «si potranno guadagnare vent'anni lottando contro il decadimento senile, ma non molto di più». E parlando del trapianto del cervello e dell'uso delle staminali, solleva un problema etico, come già fece Giovanni Paolo II: «Chi dice che ogni ricerca, per il solo fatto che può essere svolta, deve essere svolta, cade nel bioterrorismo. Il ricercatore deve interrogarsi sulle conseguenze». Anche per Montagnier l'immortalità intesa in questo senso è un'illusione. Un'illusione tra il sacro e il profano perseguita sin dagli albori dell'umanità, come testimoniano la storia e la letteratura, dall'epopea di Gilgamesh duemila anni prima di Cristo al Faust di Goethe nell'Ottocento; e poi i miti come quello del Graal, la coppa che garantisce l'immortalità a chi beve; e poi le leggende come quella di Dracula. È dal tempo degli alchimisti che la scienza cerca invano di sottrarre l'uomo allo stato di natura e di condurlo a uno stato di grazia.
Concentrandosi sull'aldilà, Fischer ora tende a ridimensionare il dibattito scientifico e a riproporre il dibattito religioso sull'immortalità dell'anima aperto in Occidente da Platone e ripreso da Tommaso d'Aquino, un concetto, rileva lo stesso Fischer, che condiziona il comportamento dell'uomo.
Che ottenga o no risultati, il «Progetto immortalità» — un viaggio, come tutte le esplorazioni, ai confini della conoscenza — sembra dunque soprattutto un invito a riflettere sul quesito fondamentale della vita, un invito non dissimile da quello appena rivolto al mondo da papa Francesco.

Repubblica 24.3.13
Tutte le piste che portano all’enigma di Majorana
di Piergiorgio Odifreddi


Il 25 marzo 1938, settantacinque anni fa, il fisico Ettore Majorana si imbarcò a Napoli su un piroscafo per Palermo. Aveva appena scritto a un collega una lettera di addio, in cui diceva di aver preso «una decisione inevitabile», domandava perdono per «l’improvvisa scomparsa», e si augurava di essere ricordato. Ai famigliari, invece, aveva chiesto di «non portare il lutto per più di tre giorni». Il giorno dopo scrisse un’altra lettera al collega, informandolo che sarebbe tornato il giorno dopo, perché «il mare l’aveva rifiutato». Ed effettivamente sembra che si sia imbarcato sul
piroscafo per Napoli, ma da quel momento si persero le sue tracce. La scomparsa di uno dei più brillanti fisici del momento divenne un tormentone, che continua tuttora: ancora nel 2008 se n’è parlato a Chi l’ha visto.
Poiché il suo corpo non fu mai ritrovato, le ipotesi sulla sua scomparsa si sono affastellate. Qualcuno pensa che sia emigrato in Germania, per il cui regime aveva simpatie, e nella quale aveva studiato per qualche tempo con Heisenberg. In fondo, un suicida non parte con il passaporto e una grossa somma di denaro, come aveva fatto lui. E dopo la guerra ci fu chi affermò di averlo avvistato in Argentina, noto rifugio di ex nazisti. Altri, come Leonardo Sciascia nel suo libretto La scomparsa di Majorana,
credono invece che si sia ritirato in un convento, per fuggire da una vita alla quale era, evidentemente, disadattato. La famiglia chiese notizie persino a Pio XII, senza ottenere risposta. Ma è proprio la mancanza di sicurezze ad aver alimentato la curiosità e la leggenda su questo genio precoce e solitario, che oggi ricordiamo nell’anniversario della sua scomparsa.

Repubblica 24.3.13
Alla scoperta dell’Inquisizione garantista
di Adriano Prosperi

Il titolo della raccolta di saggi di John Tedeschi (Intellettuali in esilio. Dall’Inquisizione Romana al fascismo, Edizioni di Storia e Letteratura) scelto dai curatori Giorgio Caravale e Stefania Pastore per indicare il “filo rosso” di questi studi fa pensare a quel legame tra fascismo e Controriforma celebrato da intellettuali del regime che suscitò la reazione di Benedetto Croce. Ma qui la continuità del filo ha un significato diverso, come vedremo. Intanto va detto che l’esilio per Tedeschi fu esperienza personale prima di diventare oggetto di studio. L’Italia sparì dal suo orizzonte di ragazzo nell’autunno del 1938, quando partì con la famiglia da Genova per gli Stati Uniti sul piroscafo “Vulcania”: la stessa nave che portò in America Paul Oskar Kristeller, anch’egli esule perché ebreo. Nell’ultimo capitolo di questo libro Tedeschi ricostruisce gli anni italiani di Kristeller (1933-1939) e mostra con quanta assiduità la polizia italiana spiò e annotò giorno per giorno i movimenti di quel pacifico professore tedesco: la stessa efficienza e burocratica stolidità del questurino che nell’autunno del 1967 a Perugia durante un convegno di studi storici voleva arrestare “Guido di Cesare Tedeschi” per il reato di renitenza alla leva. Guido era diventato John e il suo servizio militare l’aveva reso al paese che aveva salvato lui e la sua famiglia dalla fine di tanti altri parenti e amici dell’ebraismo ferrarese. La vendetta dei perseguitati, quella di Kristeller come quella di Tedeschi, è stata così generosa da apparire la più raffinata delle crudeltà: tutta l’opera loro, al pari di quella degli esuli del ’500, ha fatto conoscere nel mondo l’Italia e il suo più alto patrimonio intellettuale.
Gli studi di John Tedeschi hanno portato sugli esuli a causa di religione la luce di pazienti e accurate ricerche: la corposa sezione a loro dedicata nella seconda parte del volume ne offre una bella testimonianza. La prima riguarda la storia dell’Inquisizione cattolica. Ora, che un membro della minoranza ebraica italiana abbia investito tanta parte di una vita di studi all’Inquisizione del ’500 è un caso a sé che merita speciale interesse. Non si potrebbe immaginare una miglior occasione per esercitare sul tribunale del passato la vendetta di una condanna senza appello del tribunale della storia. Tanto più che esisteva una generale tendenza a concepire la storia dell’Inquisizione ecclesiastica come una “Leggenda Nera” fatta di torture e di roghi. Ma quello che ha fatto John Tedeschi è stato tutt’altro. I saggi del volume, raccogliendo il bilancio di una imponente messe di studi, mostrano fino a qual punto il lavoro storiografico dell’autore abbia innovato lo stato delle conoscenze. Oggi l’immagine dell’Inquisizione non è più quella della Leggenda nera. La nuova prospettiva da lui aperta e solidamente argomentata riconosce alle regole della Suprema Congregazione del Sant’Uffizio una correttezza di garanzie formali per gli imputati superiore a quella offerta allora nelle altre parti del mondo occidentale. Quanto agli esuli italiani, quello che Tedeschi ha ricostruito è il contributo di eretici e ribelli alla promozione e diffusione della cultura italiana nei paesi di rifugio. Mentre sull’Italia calava la cortina della censura, le opere di Dante, Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini, Pomponazzi e tanti altri – scrive Tedeschi – «videro la luce grazie ai loro compatrioti all’estero».
La terza parte è dedicata allo storico degli eretici, Delio Cantimori, e alla rete internazionale che negli anni Trenta unì il suo nome a quello di Kristeller, Elisabeth Feist Hirsch e Roland Bainton. In continuità coi loro nomi prende così forma e sostanza il “filo rosso” intellettuale dell’opera di John Tedeschi. Ma la sua scelta nasce o no dall’esperienza dell’esilio perché ebreo? John Tedeschi dice che una molla del genere non la riconosce: se c’è, essa se ne sta «buried deep within me». Ma la domanda resta. Intanto per noi italiani l’omaggio più che meritato offerto a John Tedeschi è anche un’occasione per chiederci se nel declino presente della scuola e della ricerca e nell’esodo di intere generazioni di giovani studiosi non si debba riconoscere non un “filo rosso” ma il ritornante filo nero della peggiore storia italiana.

Repubblica 24.3.13
L’ultima fidanzata di Franz Kafka
di Tiziana Lo Porto


Di Dora Diamant alcuni sanno che fu l’ultima fidanzata di Franz Kafka. I due si conobbero nell’estate del 1923 in una stazione balneare sul Baltico. Kafka era lì a curarsi la tubercolosi, Dora lavorava come volontaria in una colonia per bambini. Lui quarant’anni, lei venticinque. Si videro, si piacquero, passarono tre settimane senza separarsi mai, si amarono moltissimo, progettarono futuri, praticarono il presente. L’anno dopo Kafka morì. La loro storia viene raccontata oggi in un intenso e appassionante volume firmato dallo scrittore tedesco Michael Kumpfmüller. E anche se tutto ciò che Kumpfmüller racconta è accaduto realmente, episodi e personaggi sembrano appartenere alla dimensione del romanzo. Da una frase dei diari di Franz Kafka il bel titolo del libro, La meraviglia della vita (tradotto in Italia da Neri Pozza). Dice così: «Si può ritenere che la meraviglia della vita sia sempre a disposizione di ognuno di noi in tutta la sua pienezza, anche se essa rimane nascosta, profonda, invisibile, decisamente lontana. Tuttavia c’è, e non è ostile né ribelle».

LA MERAVIGLIA DELLA VITA di Michael Kumpfmüller Neri Pozza, trad. di Chiara Ujka, pagg. 240, euro 16,50

Repubblica 24.3.13
Fichte e l’intellettuale che si sporca le mani
di Francesca Bolino


«Qual è il ruolo del dotto? Tramite quali mezzi l’uomo di cultura può concretizzare la sua sublime missione?». Così Fichte apre la prima delle cinque lezioni pubbliche che tenne all’università di Jena nel 1794 – lezioni che rappresentano una narrazione del ruolo dell’intellettuale non solo acuta ma tuttora attualissima «L’intellettuale è tale solo nella misura in cui lo si contrapponga ai restanti uomini», scriveva il filosofo tedesco. Dunque bisogna capire chi è l’uomo, qual è la sua destinazione.
Ebbene. L’uomo pensa e agisce in prima persona nella società.
Lavora per la società. È dentro il mondo, non sopra il mondo.
Allora l’intellettuale fichtiano diventa l’uomo che mette le mani nella vita: non è il dotto della torre d’avorio. È un uomo capace di giudicare la realtà a partire dagli ideali. Un uomo che agisce pur consapevole dell’imperfezione presente e della perfezione futura.
Dobbiamo “fichteggiare” meglio di Fichte – ovvero «ringiovanire il mondo», diceva Novalis. Come non condividere e sperare?

MISSIONE DEL DOTTO di J. Gottlieb Fichte Bompiani, a cura di Diego Fusaro, pagg. 477, euro 20

Repubblica 24.3.13
La “Resurrezione di Lazzaro” è di Giotto ma potrebbe portare la firma di Dante
di Melania Mazzucco


Tra i personaggi del Vangelo, prediligo Lazzaro. La sua resurrezione viene narrata solo da Giovanni. Giovane di ricca famiglia — alquanto diverso dai pescatori e dagli artigiani di cui si circonda il Maestro — è nel sepolcro già da quattro giorni quando, invocato dalle sorelle Marta e Maddalena, Gesù arriva a Betania. Ha già resuscitato il figlio della vedova di Nain e la figlia di Giairo, ma in privato. Ora richiama Lazzaro alla vita: basta la sua voce. E’ un miracolo del Verbo. Si tratta del miracolo più clamoroso di Gesù: è anche l’ultimo. Benché abbia ispirato innumerevoli pittori — e la versione di Caravaggio è più sconvolgente — quella di Giotto ha qualcosa di definitivo. Essa ci abita. Giotto è all’origine del nostro immaginario.
L’affresco si trova nella cappella degli Scrovegni, a Padova. Il committente è Enrico, impopolare in città ma ricchissimo; l’impresa decorativa deve celebrare il riscatto dell’umanità ed essere realizzata rapidamente (neanche due anni). La semplicità della composizione, l’economia dei segni e dei simboli, la chiarezza delle immagini, l’armonia dei colori, la potenza narrativa, la carica emozionale che deriva dalla verosimiglianza e dall’umanizzazione delle storie sacre fecero, e fanno ancora, un effetto indelebile.
Giotto è semplice, universale e immediato, come il Vangelo; terragno, risentito e mistico come il suo coetaneo Dante. Parla agli illetterati e ai dotti, ai fedeli e ai miscredenti. Ma anche ai pittori, che per secoli impareranno qui il segreto della decorazione muraria — come valorizzare la parete senza negarla, come sviluppare lo spazio senza dare profondità, come individualizzare i personaggi, svolgere la narrazione in modo da intensificare il dramma, scegliere il momento culminante dell’azione, eliminare il superfluo, indurre emozioni tramite le forme e i colori.
La Resurrezione di Lazzaro si trova nel secondo registro della parete sinistra della cappella, preceduto dalle Nozze di Cana.
E’ solo un episodio nella storia più vasta della vita di Maria e di Gesù, che Giotto illustra su tre livelli sovrapposti, istituendo fra le scene una rete complessa di echi e risonanze. Tuttavia ogni episodio è anche un capitolo a sé stante, e come tale può essere letto. La metafora è abusata ma necessaria: Giotto volle che sulle pareti delamicizia, la cappella le pitture si leggessero in orizzontale, da sinistra a destra, come un libro appunto. Non solo nel loro insieme, ma anche le singole immagini. Anche la Resurrezione va letta perciò nello stesso modo.
Sulla sinistra Giotto colloca il gruppo degli apostoli con l’aureola, dai quali spicca Gesù — lievemente rialzato rispetto agli altri, la mano levata che si staglia contro il cielo azzurro. Le espressioni dei volti comunicano stupore e attesa. Gesù ha appena gridato: “Lazzaro, vieni fuori”. Prostrate ai suoi piedi, ancora nell’atto di scongiurarlo di riportare Lazzaro alla vita, le sorelle del morto — Marta, vestita di chiaro, in primo piano; dietro di lei, in rosso, Maddalena — sono ignare di quanto accade alle loro spalle, dove un secondo gruppo è agitato da un movimento convulso di sconcerto e meraviglia.
Sul lato destro, speculare alla figura di Gesù, c’è Lazzaro, avvolto in bianche bende, come una mummia. San Pietro gli sta svolgendo le fasce; un apostolo si tura naso e bocca con un lembo dell’abito per non respirare il tanfo di putrefazione che si leva da lui. E così fa alle sue spalle il giudeo barbuto che si scherma con l’abito azzurro. L’affresco è muto e inodore, eppure Giotto attiva tutti i nostri sensi, e ci fa percepire i bisbigli, le parole, la puzza. Il paesaggio è ridotto a una rupe nuda e tre alberi verdi. In basso, a destra, due garzoni trascinano la lastra di marmo della tomba, riprodotta con virtuosismo in tutte le sue venature. L’inclinazione della lastra induce chi guarda a proseguire la lettura, e a passare al capitolo successivo (L’ingresso a Gerusalemme).
Io invece sono ipnotizzata da Lazzaro, che Giotto dipinge con lo stesso crudo realismo con cui Dante descrive nell’Inferno le pene dei dannati (anche quelle del padre del committente di Giotto, Reginaldo Scrovegni, seduto sulla sabbia rovente nel VII cerchio destinato agli usurai e tormentato da una pioggia di fuoco). Cadaverico, ancora rigido, le labbra nere socchiuse, gli occhi revulsi, Lazzaro non si rende conto di essere vivo. Tutti vorrebbero ascoltare le sue parole: cosa c’è, dall’altra parte? Ma il Vangelo tace, e dunque anche il pittore.
Giotto è fedele alla lettera del Vangelo (anche se apocrifo): per volontà del committente, del “suggeritore” (il teologo che forse stese il piano iconografico), o sua. Si permise una sola variante. Apprendendo la notizia della morte di Lazzaro, Gesù piange. Ora nei Vangeli Gesù compie molte azioni: cavalca un asino, traccia segni in terra, tiene discorsi. Ma piange solo due volte: per la sorte di Gerusalemme, e qui. Giovanni lo spiega molto umanamente: Lazzaro era suo amico. Ecco, l’idea che Cristo resusciti il suo amico, e non un morto qualunque, mi è sempre sembrata incredibilmente eversiva. Per lui compie infatti un miracolo davvero rischioso. In pubblico. Non può ordinare di tacere l’accaduto, come nelle altre resurrezioni: la folla propaga la notizia. Ora tutti sanno di cosa è capace l’uomo che presume di essere il figlio di Dio. Si è svelato. Verrà ucciso infatti poco dopo. La resurrezione di Lazzaro è anche il prologo della morte di Gesù: la vita ridata al mortale da Dio chiama la morte data dagli uomini a Dio.
Ma non brilla quella lacrima sulla guancia di Gesù. I suoi occhi, sottolineati da un contorno scuro, sono asciutti. Se non l’ha cancellata il tempo, l’ha omessa Giotto. Per quanto ne so, ha dipinto una sola lacrima nella Cappella degli Scrovegni: nella Strage degli innocenti, sulla guancia di una madre. Forse pensava che una donna può piangere la morte di un figlio, ma un dio non può piangere quella di un amico.

Giotto: Resurrezione di Lazzaro (1303-05), Padova Cappella degli Scrovegni

Repubblica 24.3.13
Fondazione Veronesi. Dieci anni per la scienza giusta
È in prima linea per sostenere i giovani scienziati, per la divulgazione e la corretta informazione. Senza dimenticare la pace e i diritti
L’organizzazione voluta dall’oncologo festeggia l’anniversario con buone notizie sulla lotta al male del secolo. E sulla natura non violenta dell’uomo
di Francesca Alliata Bronner


È bastato un decennio per gettare le basi di un nuovo modello di sviluppo della scienza, investendo nei giovani, nella divulgazione e nell’educazione. Per dare alla scienza un ruolo più completo nella società, un ruolo che comprenda anche la tutela dell’uomo e una forte spinta civilizzatrice. Era il 25 maggio del 2003 quando Umberto Veronesi, direttore dell’Istituto oncologico europeo e simbolo nazionale della lotta al cancro, dava vita alla Fondazione che porta il suo nome. Sono stati dieci anni di intenso lavoro e confortanti successi, in cui i finanziamenti erogati per progetti e borse di ricerca sono passati dai 150mila euro del 2003 agli attuali 4 milioni 879mila, senza mai perdere di vista l’obiettivo principale: sconfiggere il male del secolo investendo non solo nella cura dei tumori, ma anche nella loro prevenzione e diagnosi precoce. Oggi, a quasi 88 anni, Umberto Veronesi può dunque essere soddisfatto dell’attività della Fondazione e dichiararsi ottimista riguardo al futuro della ricerca.
Professore, a che punto siamo nella battaglia contro il cancro?
«Quando ho scelto di essere oncologo, cinquant’anni fa, ero convinto che avrei chiuso gli occhi sapendo che il cancro era sconfitto. Ma così non sarà. Anche se quel giorno non è lontano».
Quanto lontano?
«Mi sento di dire che è vicino, anche se voglio essere prudente. Ma sulla base dei progressi degli ultimi 15 anni ritengo che in un prossimo decennio o poco più scopriremo tutte le cause biologiche e ambientali dei tumori. Li controlleremo e raggiungeremo livelli di guaribilità elevati come la medicina ha fatto per altre epidemie. Ma nel presente è importante anche riuscire a dimostrare che avere un tumore non è una condanna, che è una malattia, se pur difficile, che si può curare. La prevenzione, l’informazione a questo sono scopo indispensabili. Sapere è un nostro diritto fondamentale».
La difesa dei diritti è uno degli obiettivi più importanti della Fondazione, perché scienza ed etica camminano a fianco...
«L’etica è uno strumento che ogni buon ricercatore dovrebbe usare quotidianamente. Promuovere la scienza significa proteggere l’esercizio di un diritto umano fondamentale, la libertà di perseguire la conoscenza e il progresso, ma anche favorire lo sviluppo di condizioni di vita migliori per tutti. È tutta qui la questione: l’etica deve accompagnare il percorso di ricerca piuttosto che precederlo o seguirlo. Scienza significa conoscenza. E quindi contribuisce alla civilizzazione dell’uomo e al suo benessere. Al contrario, l’ignoranza non dà diritti».
Per esempio?
«Il diritto di sapere, come accennavo prima, il diritto alla genitorialità anche per le coppie sterili o portatrici di malattie genetiche, il diritto alla pace come primo fra i diritti umani. Serve informazione, cultura per arrivare a certi traguardi».
Per questo nel 2009 ha dato vita a Science for peace, movimento all’interno della Fondazione?
«Con Science for peace siamo usciti dal laboratorio, da una certa torre d’avorio, per portare la scienza nella vita di tutti i giorni. Dal 2009 abbiamo coinvolto mille scuole, 10mila studenti, Nobel e speaker mondiali, avanzando proposte concrete come l’abbandono della violenza e i suoi strumenti, ma anche la necessità di cambiare il sistema giudiziario, abolendo l’ergastolo, la più atroce delle pene perché ti ammazza lasciandoti vivo. Puntando a una giustizia rieducativa, al recupero di una persona che neurologicamente cambia, si rinnova, come ha dimostrato la scienza».
Ma se un uomo ha ucciso barbaramente qualcuno, non è giusto che paghi? Non è diritto della vittima ottenere giustizia?
«Certo. Ma portando a qualcosa di buono: una giustizia vendicativa non riduce la criminalità. L’ergastolo è una pena antiscientifica e anticostituzionale. Science for peace, a questo riguardo, sostiene due verità importanti, confermate da recenti studi in neurologia e genetica: il nostro cervello si rinnova continuamente perché è dotato di cellule staminali proprie in grado di generarne di nuove. Quello che abbiamo in testa a vent’anni è diverso da ciò che pensiamo a quaranta, e quindi la persona che abbiamo messo in carcere oggi non sarà la stessa in futuro. Dunque deve e può esistere per ogni uomo la chance di cambiare con una strategia di rieducazione mirata. In secondo luogo studiando il Dna abbiamo scoperto che l’essere umano per natura non è per niente aggressivo. I nostri geni dimostrano che biologicamente e antropologicamente siamo predisposti alla solidarietà, alla fratellanza e non alla violenza: aggredire, ferire, uccidere non è un bisogno primario dell’uomo, ma la risposta a cause esterne».
Anche per questo da oltre 40 anni ha eliminato la carne dalla sua dieta ?
«È così, la mia scelta vegetariana si basa su un’etica individuale che privilegia la non violenza, il rispetto per ogni forma vivente e per l’ambiente»