lunedì 25 marzo 2013

l’Unità 25.3.13
Tensione sui renziani. Il sindaco chiama: non boicotto Pier Luigi
Dopo un’intervista di Delrio che apre all’intesa col Pdl, Fassina attacca: «Così si indebolisce il tentativo di Bersani»
La discussione nei gruppi
Oggi il confronto nella Direzione Pd Relazione di Enrico Letta conclusioni di Bersani
Renzi: «Non andrò alla direzione Pd
di Maria Zegarelli


La polemica stavolta parte su Facebook, con un post di Stefano Fassina che senza mai citarlo sembra replicare al presidente Anci, renziano doc, Graziano Del Rio che dalle pagine di un quotidiano dice che se Napolitano chiede un governo istituzionale del Presidente «Pd e Pdl non possono fare capricci». È l’ipotesi B che entra a gamba tesa in un dibattito ancora aperto sull’unica principale su cui Bersani è disposto a lavorare, quella A, quella per cui ha ricevuto un incarico dal presidente della Repubblica e nella quale un governo con il Pdl non è contemplata. Bersani, dice, si rivolgerà al Parlamento, si muoverà su un doppio binario: convergenza sulle riforme istituzionali, ma governo centrato sugli otto punti illustrati anche al Colle e dunque non con il partito del Cavaliere.
«È grave che, in ore decisive per la costruzione di un Governo adeguato alle sfide di fronte all'Italia, una parte del Pd intervenga per indebolire il tentativo del presidente incaricato Bersani prospettando una possibile maggioranza con il Pdl per un Governo del presidente» scrive Fassina che prosegue: «Qualunque compagine governativa, in qualunque forma presentata sarebbe impossibilitata dal sostegno del Pdl a realizzare il cambiamento. Non sarebbe tanto un problema del Pd, sarebbe un danno enorme per la residua credibilità delle istituzioni democratiche perché non si riuscirebbero a affrontare le emergenze politiche e economiche».
Andrea Orlando, sempre su Facebook il riferimento a Del Rio lo fa esplicitamente: «Trovo irrispettoso definire un "capriccio" la contrarietà ad un governo con il Pdl. Basta parlare con i nostri elettori per capire il perché». Clima teso, alla vigilia della riunione dei gruppi parlamentari Pd fissata per oggi alle 15 e della direzione nazionale alle 19, in diretta streaming. Il divario,  stavolta, è tra chi come Bersani, molti bersaniani e Dario Franceschini, escludono l’appoggio all’esecutvo del Pdl e chi, come i renziani e i veltroniani, lo auspicano. E durante il pomeriggio ecco una telefonata, «distesa e cordiale» tra Matteo Renzi e Bersani: «Nessun tentativo di ostacolare il segretario».
Meno disteso il botta e risposta tra le varie anime democratiche. Simona Bonafé, renziana, dice di non sapere a chi «si riferisca Fassina». Lei per prima, spiega al telefono, spera «che il tentativo di Bersani vada in porto, è evidente che speriamo tutti riesca ad avere la fiducia». Se così non fosse però «la parola torna a Napolitano e a quel punto bisogna uscire da questa situazione di stallo». Più duro Matteo Richetti: «Un partito che solo un anno fa ha detto che l’Italia viene prima di tutto, oggi dovrebbe spiegare perché piuttosto che dare un governo al Paese, preferisca altro». Le elezioni, per esempio. «Se dovessimo fare un discorso di puro interesse di parte continua Matteo Renzi avrebbe tutto l’interesse ad andare al voto a luglio, i sondaggi lo indicano come il leader favorito, ma sarebbe una follia per il Paese». Richetti, come Del Rio non è scandalizzato all’ipotesi di un governo anche con il Pdl, «ovvio nessuno dice che dovremmo trovarci con Brunetta o Berlusconi ministro...» .
Ettore Rosato, uno dei parlamentari più vicini a Franceschini, invita ad abbassare i toni della polemica: «Bisogna andare fino in fondo sul percorso avviato da Bersani che va sostenuto. Mi sembra del tutto inutile paventare ipotesi diverse da quella a cui si sta lavorando». Franceschini dà manforte al segretario togliendo dal tavolo uno dei punti su cui Berlusconi è tornato con prepotenza dal palco della manifestazione di Piazza del Popolo dello scorso sabato: «Sul Quirinale non si tratta: si rispettano quorum e procedure scritte dai padri costituenti, che per quel ruolo di garanzia spingono a cercare una larga intesa tra le forze politiche». E non si tratta neanche su alcuni degli otto punti che più sono indigesti al Cavaliere: «Non ci sarà nessun cedimento sui contenuti e sarà il Pdl conclude Franceschini in un’intervista a La Stampa a dire cosa fare rispetto a un governo che farà subito norme anticorruzione e conflitto di interessi, temi a cui non rinunceremmo in nessun modo». Secondo Beppe Fioroni «per il clima che si è deteriorato non esistono le condizioni per un governo di larghe intese. Non c`è altra strada da quella indicata da Napolitano», e cioè l’incarico a Bersani. Il quale segretario, alla fine di un’altra giornata di consultazioni, taglia corto sulle polemiche interne: «Inviterei a considerare che il Partito democratico, a differenza di altri partiti, vecchi e nuovi, fa le riunioni in streaming. Abbiamo fatto una direzione in streaming, ne faremo un'altra lunedì. Siamo un partito che discute, punto, e io rispondo solo a quelle discussioni». Discussioni che difficilmente però verrano riaperte nel corso degli incontri in programma per oggi: non è questo il momento per arrivare ad una resa dei conti interna, che pure prima o poi arrriverà, ma chissà se qualcuno si alzerà per dire che bisogna formare un governo con il Pdl.
Sarà Enrico Letta ad aprire i lavori della direzione ( Bersani chiuderà) per chiedere al parlamentino democratico di di pronunciarsi su un mandato pieno a Bersani per un governo di area Pd, con gli otto punti non negoziabili e l’apertura a tutte le forze parlamentari per le riforme costituzionali. Da Firenze, intanto, fanno sapere che molto probabilmente il sindaco non ci sarà.

Repubblica 25.3.13
Larghe intese, Pd diviso ma Renzi giura fedeltà
di Goffredo De Marchis


QUESTO Pd ai minimi storici in termini di voti, i renziani lo considerano ormai un ramo secco, una “bad company” alla quale lasciare le parole e le facce della vecchia sinistra per creare un soggetto nuovo e vincente intorno a «Matteo». Posizioni estreme? È una formula sulla quale si ragiona da settimane nell’entourage del sindaco di Firenze, è un modo per guardare al dopo Bersani, in previsione di un suo fallimento.
QUESTO è lo scontro che si consuma nella sfida tra il renziano Graziano Delrio e Stefano Fassina, seguìto alle parole consegnate dal presidente dell’Anci a Repubblica.
Un sabotaggio bello e buono nei confronti del segretario Bersani in piena corsa per strappare il mandato pieno del capo dello Stato e formare il governo, secondo il responsabile economico del Pd. La telefonata di Renzi a Bersani, alla fine di una giornata caldissima, chiude la polemica o forse la sposta solo più in là. «Nessun complotto. Io non ti danneggio», dice il rottamatore al segretario. I suoi si erano spinti troppo avanti, questo è chiaro, e il primo cittadino lo ha capito. Il suo tempo non è ancora arrivato.
Bersani vuole comunque inchiodare tutti alle proprie responsabilità nella direzione di stasera. Chiederà un mandato aperto per trattare con tutti, alla vigilia delle consultazioni con i partiti. E da molti l’uscita di Fassina non viene letta come un grande aiuto alla sua impresa. Certo, le parole di Delrio hanno fatto male. Ma anche il leader dei Giovani turchi sta giocando una partita che era quella del segretario ma non è più del presidente del Consiglio incaricato che, in qualche modo, avrà bisogno del sostegno del centrodestra. Detto questo, Bersani ricorderà i paletti che allontanano il Pd dal Pdl e dalle larghe intese che sono invece l’obiettivo di Renzi. Per avere tempo, per prepararsi, con nuove primarie, a salire sul trono del centrosinistra magari a ottobre e diventarne il candidato premier. Se questa è la posizione del sindaco, i bersaniani sono pronti a lanciare la sfida già stasera. «Sono un’esigua minoranza. Le larghe intese non esistono, né per noi né per il capo dello Stato. Non ci sono alternative al tentativo del segretario». Quindi, se Bersani si ferma, si apre un’autostrada verso il ritorno immediato alle urne. E i piani di Renzi diverrano più complicati.
Ecco perché Matteo Richetti, ex presidente del consiglio regionale dell’Emilia, vicinissimo a Renzi, immagina un vicino show down, ossia alla scissione. «Prima o poi — racconta — dovremo fare un ragionamento sul dato reale delle elezioni. Scopriremo che il Pd è praticamente finito. Se oggi facessimo una lista civica «Renzi per cambiare l’Italia» prenderebbe molti più consensi del Partito democratico. E questa è l’unica strada da percorrere». Richetti e Renzi sono amici, «ma su questo ci scontriamo quasi ogni giorno. Lui mi ripete «sono un sindaco del Pd», non vuole abbandonare
la ditta. Ma negli ultimi tempi mi sembra più consapevole».
Fassina è il pasdaran dell’ala bersaniana. Stavolta però ha parlato in nome della linea “o Bersani o voto subito” che ovviamente smentisce i presunti patti tra giovani turchi e renziani per spartirsi le quote del Pd e avviare la stagione di una nuova classe dirigente. Non esiste alcun margine per questo tipo di compromesso. Renzi non colorerà di rosso le sue strategie nel prossimo futuro. Sarà sempre costretto a rilanciare, a distinguersi dalle antiche parole d’ordine per mantenere il carattere di novità del suo profilo. Nessun patto è possibile, dunque. A meno che non ci sia una consensuale divisione dei compiti e del partito: da una parte il Pd alla sinistra, dall’altra la lista civica di Renzi. Alleati, ma distinti. Il profondo dissenso è testimoniato dalle battute che sono corse sui social e hanno diviso le tifoserie. Richetti, con poco stile, ha accusato Nico Stumpo, il responsabile organizzativo, di essere il vero sabotatore di Bersani per essersi presentato nello studio domenicale di Barbara D’Urso. Cosa voleva dire, che Stumpo è impresentabile? Il deputato renziano Ernesto Carbone ha consigliato a Fassina di prendersi una camomilla. Simona Bonafè, una delle portavoci di Renzi alle primarie, attacca il responsabile economico, ma conferma la linea del sindaco espressa pubblicamente: «Serve un’intesa col Pdl». La telefonata di ieri sera però calma le acque e permette al rottamatore di non presentarsi stasera alla direzione. Non ci sarà neanche Massimo D’Alema impegnato come presidente della Fondazione europea dei progressisti in un convegno a Parigi programmato da tempo.

La Stampa 25.3.13
Il governo del presidente agita il Pd
di Fabio Martini


Il passo volutamente flemmatico, da montagna, col quale il leader del Pd Pier Luigi Bersani sta provando a scalare la più impervia delle vette, è stato interrotto da un’improvvisa fiammata polemica, tutta interna al Pd. Apparentemente una delle tante che sovente agitano il più democratico e vivace dei partiti. Ma non è così: dietro i fumi dell’ennesima diatriba, per la prima volta ha preso corpo un oggetto sino ad oggi misterioso: il governo del Presidente.
La proposta che ha fatto scandalo l’ha avanzata il presidente dell’Anci, Graziano Delrio: in caso di fallimento di Bersani, si vada senza indugi ad un «governo di scopo», della durata di pochi mesi, sostenuto all’esterno da Pd e Pdl. Raccontano che Pier Luigi Bersani si sia molto irritato: ma come proprio in queste ore si lanciano subordinate così insidiose?
Ma non c’è soltanto l’irritazione per il fuoco amico in un frangente così delicato. Ad «armare» le repliche dure degli uomini del segretario c’è altro.
Graziano Delrio non è un personaggio qualunque. Oltre ad essere il presidente apprezzato dell’Anci, Delrio è il sindaco (cattolico) di Reggio Emilia, la più rossa delle città emiliane, è buon amico di Matteo Renzi (col quale ha concordato la mossa), è apprezzato al Quirinale. E soprattutto la sua proposta è dettagliata, disarmante, pericolosa vista da «casa Bersani». Ha detto Delrio, in una intervista di due giorni fa: «Non possiamo siglare alleanze organiche col Pdl dopo una campagna elettorale finita 15 giorni fa», «non penso ad una larga coalizione organica sul modello tedesco», «non spetta ai politici la proposta», ma «se la richiesta arriva dal Colle, si può fare un governo del Presidente di cinque, sei mesi per il bene del Paese». Chiude: «Non c’è possibilità di sottrarsi».
Ecco il punto. Delrio dice per la prima volta in modo chiaro quel che Bersani teme: come sarà possibile dire di no a Giorgio Napolitano? Il modello al quale allude Delrio sembra riproporre un precedente, non a caso citato una volta proprio da Giorgio Napolitano. Quello del governo Pella. Era il 1953, dopo la sconfitta di De Gasperi nella battaglia per la legge truffa, in Parlamento non si riusciva a coagulare una maggioranza. E il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, senza consultazioni, diede l’incarico di formare il governo a Giuseppe Pella, un democristiano di seconda linea ma di solida cultura.
Ecco perché un personaggio bonario come Bersani si è irritato assai per la sortita di Delrio. Avendo impostato le sue consultazioni con un ritmo sapientemente rallentato - oggi oltre ai sindacati, Bersani incontrerà, tra gli altri, anche la Gioventù federalista europea - il presidente incaricato ha trovato intempestiva e scorretta la proposta lanciata dal presidente dell’Anci. Bersani ha chiesto ai suoi un fuoco di sbarramento, che spazzasse la suggestione prima della direzione del Pd, convocata per questa sera. Non accadrà nulla di trascendentale nella riunione alla quale parteciperanno i notabili del partito: Bersani li ha convocati per ricevere un ulteriore viatico al suo tentativo e sotto questo aspetto avrà piena soddisfazione. Come dimostra la telefonata di amicizia fatta ieri da Matteo Renzi al segretario. Ma la sortita di Delrio, al di là della controversa tempestività, ha acceso i riflettori sull’unico scenario che, in caso di fallimento di Bersani, potrebbe impedire le elezioni anticipate: il governo del Presidente. E a questo punto la direzione del Pd di questa sera ruoterà tutta attorno ad un interrogativo: Bersani chiederà ai massimi dirigenti del partito di sfidare il Quirinale? Certo, per un obiettivo di questo tipo non servirebbe chiamare in causa direttamente il Capo dello Stato. Basterebbe dire chiaro e tondo che in caso di fallimento di Bersani, il Pd non vede altre strade, se non quella di elezioni anticipate.
Oggi, intanto proseguono le consultazioni del presidente del Consiglio incaricato. Gli incontri, alla Camera dei deputati, inizieranno con le delegazioni di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, seguite da Rete Imprese Italia e da una rappresentanza del mondo ambientalista. Nel pomeriggio sarà la volta di Don Luigi Ciotti, del Forum delle associazioni giovanili, del Consiglio nazionale degli studenti, del Consiglio Italiano del Movimento Europeo, insieme al Movimento Federalista Europeo e alla Gioventù Federalista Europea. Dei partiti, per ora, non si parla. Aspettando e confidando che qualcosa si muova. Dal fronte grillino. Dal fronte leghista. E da quello del centrodestra. Anche se Silvio Berlusconi lo ha ripetuto a tutti gli sherpa del Pd: se non ci accordiamo su un Presidente della Repubblica a me gradito, non si comincia neppure a discutere.

La Stampa 25.3.13
Orfini: “Archiviare Pier Luigi? Errore grave e controproducente”
“L’accordo per il Colle resti fuori dalla trattativa per il governo”
intervista di Fabio Martini


Matteo Orfini, uno dei capofila della sinistra del Pd, stronca senza appello chi ha fretta di «archiviare» Bersani prima del tempo: «Un errore grave». Due giorni fa Graziano Delrio, presidente dell’Anci e vicino a Matteo Renzi, in una intervista a “Repubblica”, aveva ipotizzato un «governo di scopo con il Pdl» della durata di pochi mesi, invitando i recalcitranti del suo partito «a non fare i capricci».
Delrio naturalmente indicava quel governo come una subordinata all’eventuale insuccesso di Bersani: secondo lei è anche una preferenza?
«Anzitutto è un errore serio. Siamo tutti impegnati a sostenere un percorso molto, molto complicato che è stato scelto dalla Direzione del Pd senza riserve e che è finalizzato a dare un governo di cambiamento, che serve all’Italia e agli italiani. E abbiamo chiesto a Bersani di essere protagonista e farsi carico della complicatissima gestione di questo tentativo».
Questo non vieta di riflettere sul futuro...
«Siamo nel pieno di quello che il Capo dello Stato ha definito il primo passo per dare un governo al Paese e dunque siamo tenuti ad un rispetto formale e sostanziale di quel mandato. Parlare d’altro è controproducente e sbagliato».
Ma la proposta sta dentro il dibattito in corso da settimane: nel merito l’idea di un governo del Presidente, una nuova maggioranza col Pdl, le pare indigeribile?
«Sì. L’idea di potere risolvere i problemi di questo Paese, immaginando di fare un governo col Pdl mi pare davvero originale: sarebbe perseverare in un errore già fatto».
Ammetterà che stavolta Berlusconi è stato lineare: o governo assieme o elezioni....
«Stiamo al merito. Alcune cose, è ovvio, vanno discusse con tutti - dalla riforma elettorale alla riduzione dei parlamentari - altre che riguardano il governo di questo Paese, la moralità pubblica e le tante riforme necessarie, per noi si possono affrontare con proposte che abbiamo messo per iscritto. E che aspettano risposte chiare».
Berlusconi, pur di rientrare in gioco, prima o poi potrebbe accettarne alcune...
«Una conversione? Mi stupirei. E comunque deve essere chiaro: sui nostri punti non possiamo trattare. Il nostro non è il menu del ristorante: non si sceglie quel che piace, si accetta in blocco! ».
Alla fine Bersani fa un governo soltanto se si trova un accordo sul Quirinale?
«Sarebbe sbagliato inserire una questione così importante nella discussione sul governo: la scelta del Capo dello Stato dobbiamo metterla al riparo, anche perché non è davvero semplice trovare un Presidente all’altezza di quello uscente. Per questo spero che resti Giorgio Napolitano».
Se tutti i tentativi dovessero fallire, non sarebbe segno di impotenza tornare alle urne?
«Certo, sarebbe molto meglio avere un governo piuttosto che tornare al voto, ma la democrazia non è un lusso».
A quel punto, dice Renzi ma non solo lui, il candidato a palazzo Chigi dovrebbero indicarlo le Primarie?
«Quella, per il Pd, è una scelta irreversibile. E credo che, se fossimo messi alle strette dai tempi, riusciremmo a farle anche in dieci giorni».

Repubblica 25.3.13
Fassina: “Oggi la direzione confermerà il no a larghe intese, chi dice il contrario boicotta il segretario”
“Con il Pdl il cambiamento è impossibile ma col Carroccio il discorso è diverso”
di Tommaso Ciriaco


Più che un avviso ai naviganti, quello di Stefano Fassina ha la forma di un ruvido avvertimento a chi prospetta un’intesa di governo con il Pdl: «Un esecutivo con il Pdl è impensabile. Chi alimenta questa prospettiva avvicina le elezioni». Ora tocca a Matteo Renzi tenere a bada le incursioni dei renziani: «E’ un problema di coerenza su una scelta fatta da tutto il partito». Ma se il partito del Cavaliere risulta indigeribile, un discorso diverso vale per la Lega: «Carroccio e Pdl non sono lo stesso partito. Il mio ragionamento riguarda Berlusconi».
Onorevole Fassina, le aperture al Pdl sembrano proprio averla fatta infuriare.
«La linea politica che Bersani ha portato avanti è chiara ed ipotizzare un governo con il Pdl la contraddice radicalmente. E’ un momento delicato».
E quindi lei scende in campo per denunciare il fuoco amico.
«Sì, perché ipotizzare un governo con il Pdl indebolisce il tentativo del segretario e rappresenta una posizione diversa da quella assunta dalla Direzione nazionale del Pd. Una scelta approvata all’unanimità».
La linea è: mai un governo con il Popolo della libertà.
«Un esecutivo con il Pdl è impensabile e non risponde a quanto detto ai cittadini. Il Pdl non può sostenere un governo di cambiamento e questa prospettiva rischia di allargare il solco tra i cittadini e le istituzioni democratiche».
Nei confronti della Lega, invece, il ragionamento è diverso?
«Berlusconi è stato ed è il leader del Pdl, lo guida. La riflessione riguarda lui, perché a nostro avviso non risponde all’esigenza di cambiamento. Pdl e Lega non sono lo stesso partito, anche se stanno nella stessa coalizione. Bersani, comunque, si rivolge a tutto il Parlamento. Lì ciascuna forza si assumerà le proprie responsabilità».
Tocca a Matteo Renzi stoppare chi discute la linea del partito?
«La mia è una riflessione politica sulla necessità di seguire quanto deciso all’unanimità in Direzione. E’ stata condivisa da tutto il Pd. Rimango fermo su questo punto, è una decisione presa tutti insieme. Altrimenti si contraddice la scelta fatta».
Un problema di fedeltà alla linea?
«Più che di fedeltà, si tratta di un problema di coerenza su una scelta fatta da tutto il Pd».
Oggi si riunisce una nuova direzione dei democratici: non si aspetta un cambio di linea rispetto al Pdl?
«Assolutamente no. Non ci sono equivoci su questo».
E se non dovesse andare in porto l’operazione di Bersani?
«Napolitano con saggezza e autorevolezza gestisce in modo ineccepibile questa fase. Noi ribadiamo che non siamo disponibili al governo con il Pdl».
Ieri il Colle ha invitato a guardare al bene dell’Italia.
«Ho letto. E ho letto anche le riflessioni fatte venerdì pomeriggio da Napolitano, quando il Presidente ha riconosciuto la “significativa difficoltà” di convergenza delle principali forze politiche. Noi comunque siamo d’accordo con Napolitano sul fatto che sia auspicabile la più ampia convergenza sulle riforme costituzionali e sulla Presidenza della Repubblica».

il Fatto 25.3.13
Ius soli
Pd e 5 Stelle alla prova dell’effetto-Boldrini


In cima alla classifica delle notizie più cliccate sul sito www.stranieriinitalia.it   c’è quella che riguarda l’elezione a presidente della Camera di Laura Boldrini. I suoi articoli sono stati una costante del “portale dei nuovi cittadini” (400 mila visitatori al mese, 16 testate collegate) e il suo arrivo alla terza carica dello Stato ha rappresentato una bella novità per chi, negli ultimi anni, è stato abituato ai proclami della Lega e, più concretamente, alle politiche migratorie basate sulla legge Bossi-Fini. La posizione della neopresidente forza le posizioni della coalizione uscita maggioritaria dalle urne, per lo meno alla Camera, ma, in virtù dell’autorevolezza della carica, può giocare un ruolo di guida negli orientamenti del nuovo Parlamento. Quei riferimenti, nel discorso di insediamento a Montecitorio, alle stragi consumatesi nel Mediterraneo e alla necessità di accogliere i rifugiati, anche se saranno mitigate dalle reazioni del centrodestra, potranno pesare.
Il punto nevralgico, però - sempre che la legislatura cominci davvero e un governo sia formato - è quello del rapporto tra le posizioni del Pd e quelle del Movimento Cinque Stelle, dando per scontato che tra Pd e centrodestra le differenze sono inconciliabili.
Pierluigi Bersani ha condotto tutta la campagna per le primarie del Pd e, in maniera molto più parziale, la campagna elettorale vera e propria, sbandierando la proposta di nuova cittadinanza del suo partito. “Chi è nato in Italia deve avere la cittadinanza italiana”, è stato il messaggio bersaniano. Negli otto punti presentati per cercare di formare un governo, la rivendicazione si colloca al settimo posto, insieme alle “norme sulle unioni civili” e alla “legge sul femminicidio”. L’impegno è molto generico - “Norme sull'acquisizione della cittadinanza per chi nasce, cresce e studia in Italia” - ma la direzine è chiara.
LA SCORSA settimana il Pd ha esplicitato la proposta, spiegando che “per i minori nati in Italia si propone uno ius soli temperato. Sarà subito italiano chi nasce in Italia da genitori stranieri, che siano a loro volta nati in Italia ovvero regolarmente residenti sul territorio della Repubblica da almeno cinque anni”. È prevista una “dichiarazione di volontà espressa dei genitori”, ma il ragazzo potrà rinunciare alla cittadinanza italiana oppure chiederla, entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. Per i minori nati all’estero, oppure nati in Italia da genitori che non hanno quei requisiti, la cittadinanza è possibile solo dopo aver tenuto “un ciclo di istruzione o di formazione professionale”.

Corriere 25.3.13
«Troppi egoismi, un'intesa ampia è ormai impossibile»
di Emanuele Macaluso


Caro direttore,
Antonio Polito sul Corriere giustamente osserva che le elezioni hanno avuto tre vincitori e, se uno dei tre (i grillini) non si allea con nessuno, o si alleano gli altri due (Pd-Pdl) o non c'è soluzione. Cioè si va alle elezioni come chiede il Cavaliere. Ma è sempre bene ricordare che il Porcellum funziona solo se c'è il bipolarismo. Con tre forze consistenti, o si cambia la legge elettorale o, sostanzialmente, si riproduce quel che c'è. Tuttavia, Polito dice che «una soluzione c'è». La individua nella «matematica parlamentare» e dice, con argomenti condivisibili, che può essere solo lo stesso Bersani a prendere l'iniziativa, indicata da Renzi, di verificare con il Pdl la possibilità di dare al Paese un governo. Anche un «governo di scopo» per fare legge elettorale, riforme costituzionali e alcuni provvedimenti per ridare fiato all'economia. Si potrebbe votare nel 2014, data delle Europee. Ma questa soluzione c'è solo sulla carta: la realtà è un'altra. Il Cavaliere non vuole un governo, ma solo, come dicono i suoi amici, un salvacondotto. Se volesse un governo avrebbe dovuto adottare una condotta politica più riservata, mettere avanti il segretario, i capigruppo, fare emergere il partito (che non c'è) e la coalizione con la Lega (sparita). Berlusconi, invece, è sulla scena come capo assoluto, guida la truppa (anche la Lega) nei colloqui con il capo dello Stato, monopolizza radio e tv, fa comizi incendiari, grida per fare capire a tutti (specie ai magistrati) che è lui che fa o non fa il governo, è lui che decide se bisogna votare subito o no, è lui che decide le sorti del Paese. E questo «lui» non può essere giudicato in tribunale. Ecco «l'accanimento politico» da contrapporre a quello «giudiziario». Ciò rende impossibile una trattativa con un soggetto che non è un partito ma una persona che opera solo per ottenere un fantomatico salvacondotto. Sul fronte opposto gli ex fan di Di Pietro e Ingroia manifestano per sollecitare il Pd a votare con Grillo l'ineleggibilità di Berlusconi. Su questo tema condivido quel che ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista. Che senso ha evocare una vecchia legge, sulla ineleggibilità, dopo 6 elezioni di Berlusconi? Fate una legge chiara e ponete il problema non dopo ma prima delle future elezioni. Ma Battista sbaglia nel dire che l'iniziativa antiberlusconiana è stata presa perché il Cavaliere «era dato per finito» e invece ha avuto successo. Il Cavaliere ha perso più di 6 milioni di voti e per la prima volta c'è un gruppo parlamentare consistente, i grillini, che sposa la linea dell'ineleggibilità. Le elezioni hanno registrato uno spostamento politico: elettori del Pd e del Pdl votando Grillo hanno ingrossato il radicalismo antiberlusconiano. E al Pd viene chiesto di fare una maggioranza larga sul tema dell'ineleggibilità di Berlusconi. Purtroppo in quel partito c'è confusione. Il capogruppo del Pd al Senato, il mio caro amico Zanda, ha detto che voterà l'ineleggibilità. E intanto, come leggo sul Corriere, Enrico Letta e il senatore Migliavacca suggeriscono ai colonnelli del Pdl lo «squagliamento» di alcuni senatori per fare passare il governo Bersani. Una follia. Se il Pdl esistesse come forza politica dovrebbe apertamente, con i gruppi parlamentari, consentire di fare un governo e verificare la possibilità di una collaborazione. E il Pd proprio questa proposta avrebbe dovuto fare apertamente con una trattativa al Pdl. La soluzione, quindi, non c'è. C'è solo buio. Berlusconi pensa solo a sé, Grillo vuol distruggere il sistema parlamentare, Bersani appare paralizzato. Ormai ogni gruppo e sottogruppo coltiva solo il proprio orticello. L'interesse generale e l'avvenire di questo Paese sono richiamati solo nei comizi. E nemmeno in quelli.

l’Unità 25.3.13
I nemici di Grillo: Grasso, Boldrini e il web
Grillo: «Chi mi critica è un infiltrato»
Il leader Cinque stelle contro chi lo critica sul suo blog: «Orde di infiltrati a pagamento»
Violento attacco ai presidenti di Camera e Senato
L’ex comico si sfoga contro i commenti al suo blog: «Merda digitale» Domani la riunione dei parlamentari per decidere sul Pd
Un senatore: «Non possiamo dire solo no, serve una proposta»
Grillo:  «Niente fiducia, ma qualcuno dei nostri possiamo perderlo»
di Andrea Carugati


Grillo contro tutti. Contro le critiche sul suo blog scritte da «orde di Trolls pagati per insultarmi». E contro i nuovi presidenti di Camera e Senato scelti in «modo non democratico» e frutto di una «moderna partitocrazia». Laura Boldrini: «Parole fuori luogo, la mia storia parla chiaro».

In attesa del confronto con Bersani, previsto per domani, Grillo si scatena sul suo blog contro i presunti intrusi, i «trolls» («orchi» nel linguaggio di Internet) e i «fake» (nomi falsi) che scrivono migliaia di commenti al giorno, poi ripresi da giornali e tg.
Cosa c’è di male nei suddetti commenti? Che sono fuori linea, non beatificano Grillo e il suo guru Casaleggio e anzi, talvolta, si permettono di criticare la linea dei 5 stelle. «Qualcuno evidentemente li paga per spammare dalla mattina alla sera», scrive il comico, sempre meno divertente. «Questi schizzi di merda digitali si possono suddividere in alcune grandi categorie», almanacca Grillo. «Quella degli “appellanti” per la governabilità per il bene del Paese, del “votaBersani”, o del “votaGrasso” (l’unico procuratore antimafia estimatore di Berlusconi)». E ancora: ci sono i «divisori», «che chiedono a Grillo di mollare Casaleggio, al M5S di mollare Grillo e a tutti gli elettori del M5S di mollare il M5S per passare al pdmenoelle». Infine gli «ex», quelli del «Grillo ti ho votato ma dopo che sei passato con il rosso con sprezzo delle istituzioni non ti voto più», oppure «Beppe, ti ho seguito dal primo Vday, ma il tuo autista, si legge in giro, è un narcotrafficante. Addio al mio voto».
«Non mancano gli “accusatori” che si attaccano alle fortune che io e Casaleggio staremmo accumulando alle spalle del M5S “Chi prende i soldi del gruppo di comunicazione? Trasparenza! Chiediamo trasparenza. Siete peggio di Berlusconi. E pensare che avevo convinto mio padre a darvi il voto, mai più”». «Da questa brodaglia i telegiornali e i talk show colgono fior da fiore, con lerci e studiati “copia e incolla” per spiegare che Grillo è un eversivo, che il Movimento 5 Stelle è spaccato», conclude l’ex comico, sempre più furioso.
Una visione un po’ paranoica di un universo magmatico come quello di un blog, dove accanto ad attivisti delusi ci possono certamente essere elettori di centrosinistra che si appellano ai 5 stelle o anche persone ostili al movimento. E tuttavia, colpisce che il paladino della democrazia online si mostri così insofferente rispetto ad un dibattito in Rete che, dopo il successo elettorale, giocoforza si è moltiplicato.
E infatti sono numerosi i visitatori del blog che replicano stupiti e anche arrabbiati all’ennesima fatwa grillina. Scrive Amelio Rossi di Milano: «Allora, Beppe. Facci capire la tua strategia. Ci vuoi portare a nuove elezioni? Vuoi il disastro del Paese? Vuoi il casino più immane? Lo vuoi capire o no che ti hanno votato perché tu possa avere la possibilità di governare e applicare i 20 punti del programma?». Paolo Di Franco: «Caro Beppe, non capisco perché te la prendi così tanto con i cosiddetti ”schizzi”, stai scoprendo che internet non è quella fonte di evangelica verità o quella "culla della democrazia" che pensavi? Bisogna stare attenti a stigmatizzare qualsiasi opinione che non corrisponde alla tua come sterco digitale».
Tra gli altri cosiddetti «Troll» (espressione tratta dalla letteratura fantasy) c’è chi si difende, esibendo le proprie credenziali, come l’iscrizione di lunga data al blog. È il caso di Attilio Scotolati che spiega: il post di Grillo «alimenta il fuoco della caccia alle streghe, cioè dei presunti “intrusi”, come se questo blog fosse riservato ai soli iscritti al movimento: non è così».
Pierluigi Martino è invece un elettore dei Cinque Stelle: «Io ti ho votato», scrive sul blog, «io ti ho pure sostenuto, ma se ti permetti di definirmi “merda digitale” solo perché credo si debba ragionare da politici, ti chiedo di venirmelo a dire in faccia». Per Guido «ci saranno anche troll, ma per stanarli basta guardare la data d’iscrizione. Io non lo sono, ma la penso come loro: se continuate con questo integralismo alle prossime elezioni al posto di aumentare diminuirete perché non vi darò più il mio voto». Domenico Guarino invita Grillo ad astenersi da «accuse che non si possono dimostrare» perché «sono solo parole al vento». «È facile dire no a tutto, ma un po’ prendiamoci le nostre responsabilità e facciamo partire la macchina prima che sia troppo tardi», aggiunge un attivista di Mazara del Vallo.
Naturalmente, questo clima di opinione è perfettamente conosciuto dai parlamentari, che si riuniranno domani (oggi già si vedono i 53 senatori) prima dell’incontro con Bersani per votare la linea da tenere. Anche se, in realtà, la decisione sembra già stata presa: no alla fiducia, come ha tuonato il Capo. Su questo, assicura un senatore grillino, «non ci sono da aspettarsi spaccature, non sarà la replica della discussione su Schifani e Grasso».
E tuttavia il dibattito ci sarà. Alcuni senatori premono per mettere ai voti una proposta alternativa di governo da presentare. Non più la generica richiesta di un incarico ai 5 stelle, ma una proposta di squadra «composta da personalità di alto profilo fuori dai partiti». Nei giorni scorsi sono circolati i nomi degli ex presidenti della Consulta Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky. Possibile che oggi ne spuntino di nuovi. «Perchè noi non vogliamo limitarci a dire no a Bersani, voglia fare la nostra parte perché l’Italia abbia un governo», spiega l’anonimo senatore.

l’Unità 25.3.13
«Il web come una tv senza confronto, che idea da sessantenne»
QuitTheDoner: il blogger trentenne, con nickname come «Ex Kebabbaro Umanista», filosofo, analizza il fenomeno del leader Cinquestelle
intervista di Rachele Gonnelli


Ha fatto studi filosofici e di comunicazione di massa, ama la scuola di Francoforte, la psicologia lacaniana, il cibo unto, ha trent’anni scarsi, accento nordico, QuitTheDoner come lavoro fa altro, ma per passione scrive lunghi articoli in cui mette ai raggi x il blog più famoso d’Italia, quello di Beppe Grillo sulle orme di Giuliano Santoro. E li pubblica sul suo diario digitale, cioè un altro blog, raggiungendo anche mezzo milione di condivisioni.
Nel suo ultimo post Grillo se la prende con troll, fake e multinick, insomma si sente vittima di stalking digitale da parte di chi lo spinge ad allearsi con Bersani.
«Sì, suddivide i messaggi in categorie e dice che ci sono dietro dei professionisti. Bello, perché sul web girano analisi che al contrario mettono in luce la serialità delle risposte, sempre con le tre o quattro argomentazioni, con poche varianti e nomi che ricorrono o sembrano creati in serie. C’è chi ipotizza che ci sia dietro la Casaleggio Associati ma personalmente non ne ho le prove. Comunque quest’attacco conferma la mia tesi: Grillo ha di internet un’idea da sessantenne italiano medio, lo usa come un canale televisivo, senza contraddittorio. Chi sta con lui è perbene, poi c’è la “kasta”, il nemico. Questa categoria che inizialmente indicava il polo Pdl-Lega si è andata dilatando man mano che quest’area diminuiva d’importanza, ha inglobato il Pd, sotto elezioni è arrivata agli alti funzionari, e ora include tutti i dipendenti pubblici, insegnanti inclusi. Chi mette in discussione i suoi proclami è un “troll” di mestiere, perché lui è il Verbo, al servizio di schemi superiori. È un Berlusconi al quadrato. Solo che Berlusconi assoldava pletore di giornalisti, Grillo invece si è fatto lui stesso media, l’uomo col megafono, un’immagine neanche nuova, vista in Sidney Lumet nel ‘76. La sua narrazione è la Verità, d’accordo o no, chi si oppone è in malafede. Questa è la potenza del suo messaggio e ne rivela la natura autoritaria».
Il suo movimento non è anti-sistema?
«È la migliore garanzia per il sistema. Del resto Goldman Sachs, Mediobanca e persino l’ambasciata Usa lo apprezzano e lo seguono con attenzione. L’ego è al centro del marketing e Casaleggio è bravo, bravissimo nel marketing. È anche pericoloso perché ha una visione del mondo totalitaria, oltre che apocalittica, e ha creato un nuovo partito-azienda come Forza Italia agli inizi».
Ma l’enfasi sulla democrazia diretta attraverso la Rete, allora?
«Il mito coltivato anche da Grillo del web come paradiso della partecipazione orizzontale è una fandonia. Nel web 2.0, che sono i social network, esistono gerarchie non manifeste, nascoste nei meccanismi della Rete. La Rete non è un luogo astratto della democrazia. Come dice Eugeny Morozov, ricercatore di Stanford, esistono algortimi che indirizzano su Google le ricerche e noi ci fidiamo dei risultati senza conoscerne il meccanismo. Esiste la piattaforma liquid feedback lanciata dal Partito pirata in Germania ma Grillo non l’ha mai messa online. La sua idea di referendum su internet non è democrazia, è un plebiscito telematico. Oltre a Casaleggio del resto non c’è nessuno che può parlare oltre a lui, avrebbero volentieri fatto a meno dei due capogruppo Crimi e Lombardi. Nei partiti classici i troll sarebbero correnti, i funzionari farebbero da filtro ma anche da mediatori. Nel MS5 c’è solo il leader e il votante». Nel video «Gaia» è l’individuo solo di fronte al mondo, come il consumatore di fronte al mercato?
«Certo. Risponde alla parcellizzazione neoliberista in cui il cittadino è solo di fronte allo Stato e a forze oscure, senza corpi intermedi. Dopo aver distrutto lo Stato sociale ora l’ultimo baluardo per la scuola di Chicago è attaccare l’istituto della democrazia».

l’Unità 25.3.13
Attento, chi di Rete ferisce...
di Toni Jop


QUI LO VOLEVAMO: AD ALZO ZERO, CONTRO TUTTO E TUTTI. LUI, SULLA CROCE, con qualche giorno d'anticipo, per la nuova sacra rappresentazione, quella che segue il bagno nello Stretto, la predica agli uccelli delle montagne siciliane, la fuga hollywoodiana a bordo della macchina che lo porta sgommando via dai grandi portoni del Quirinale. Grillo, ieri, ha preso la scaletta e si è issato sul legno del martirio; ha fatto lui, chiodi, corde e tutto il resto. Da lassù, ha iniziato a parlare, con gli occhi persi in un orizzonte che sta ben oltre le nostre spalle. Pietre contro i presidenti, da pochissimo eletti, di Camera e Senato. «Foglie di fico», urla alla platea disorientata dal voto positivo di alcuni dei suoi sui candidati proposti dalla sinistra; «persone perbene», sicuro, ma usate «per coprire personaggi che sanno benissimo di essere impresentabili». E allora? È chiaro: da persone impresentabili si sarebbe atteso nomine in grado di testimoniare quella impresentabilità, e questo lo fa impazzire di dolore. Così come gli fa perdere il senno l'ipotesi che non vada in porto il progetto, suo ben prima che di qualcun altro, di un governo che metta assieme Pd e Pdl, perché di questo ha bisogno per la sua campagna elettorale. Gli basta, non serve un altro Mps. Glielo vogliamo negare? Ma non si ferma qui. Urla al mondo che qualcosa di perfido sta accadendo nel tempio del suo Blog. Quello che gli procura ottimi incassi grazie alla frequentazione dei fedeli sempre in attesa che lui, il padrone di ogni cosa, fornisca la piattaforma web autonoma utile a sperimentare la democrazia diretta. Bene: proprio in questa riserva di caccia privata piovono, denuncia, «schizzi di merda digitali». Terribile. Secondo lui migliaia e migliaia di troll assoldati dalla sinistra quotidianamente infestano gli spazi con post falsi e bugiardi. Sta parlando di quei moltissimi che da un po' tempestano le sue pagine di disappunto, di dubbi, di giudizi negativi sulla linea che Grillo sta disegnando per il Movimento. Lui, il re dei troll. Come se ogni blog non allineato non fosse assediato da molti mesi da grillini inferociti, organizzati – pare – in commando il cui unico scopo è sventrare le aree di confronto non conformi. Grillo accusa telegiornali e talk show di riciclare questo materiale opportunamente mixato. Il cerchio si chiude, chi di web ferisce di web perisce. Qualcuno lo avvisi che può scendere dalla croce e spenga la luce.

il Fatto 25.3.13
I rischi di Beppe
I Giuda, la rete “ingrata” e la sindrome accerchiamento
di Andrea Scanzi

Un po’ tattica e un po’ provocazione, la strategia massimalista di Beppe Grillo ha – da sempre - per vaso comunicante la sindrome da accerchiamento. Il “tutti ce l’hanno con noi” caratterizza geneticamente il Movimento 5 Stelle, sia perché spesso è vero e sia perché tratteggiarsi come “soli contro tutti” rafforza l’idea della propria alterità. Diversi, “oltre” le ideologie (“Né destra né sinistra”). Duri e puri. I soli in grado di realizzare quella “apocalisse morbida” - per citare un vecchio spettacolo di Grillo - che è poi un’immagine vagamente letteraria per chiamare in altro modo la (loro) rivoluzione. Con il post di ieri, intitolato sobriamente “Schizzi di merda digitali”, Grillo ha ribadito concetti antichi. I giornalisti sono (quasi?) tutti sporchi e cattivi, pronti a spacciare ogni pulce eventuale del M5S per metastasi. Nello specifico, le metastasi sarebbero le lacerazioni interne al Movimento, ormai dilaniato da correnti interne. “Trolls” e “fake”, al soldo del Pd, tempesterebbero il blog di Grillo con migliaia di commenti giornalieri saturi di delusioni (“Non ti votiamo più”) e appelli ad accordarsi con Bersani (“Sapete solo dire no”).
GRILLO ALLUDE ancora a complotti, immaginando una flotta di internauti pagati dai rivali per screditare il M5S. Ha gioco facile nel sottolineare come i media gridino scorrettamente alla “censura” grillina senza conoscere i requisiti minimi dei blog, dove non sta scritto da nessuna parte che ogni commento vada pubblicato per forza (anzi è scritto il contrario: si chiama “policy” e sancisce le regole minime di convivenza online). La novità, casomai, è nel vedere come perfino Grillo e Casaleggio si siano resi conto che il tanto divinizzato “popolo della Rete” (che non esiste) contenga derive belluine in quantità industriale, e che ritenerlo ora democratico (quando ti dà ragione) e ora illiberale (quando ti critica) è un po’ comodo. Al netto della conclamata istintività, Grillo ha rimarcato i punti chiave di Non-Statuto e Tsunami Tour: “Tutti a casa”, “Niente fiducia”. Di nuovo, prova a serrare le fila. Da settimane, con toni quasi biblici, ripete che “10-15 mi tradiranno”. È certo che alcuni Scilipoti grillini si paleseranno a breve e che il voto a Grasso al Senato sia stata la prova generale. Domani avrà luogo la riunione per ribadire il “no” a Bersani e ogni occasione è buona per ricordare il rispetto delle regole. Grillo si sente accerchiato, dai media (ci è abituato) e da un dissenso interno (ci è meno abituato) minoritario ma presente. Se tira troppo le redini passa per dittatore, se lascia “troppa” libertà sa che il Movimento verrà distrutto dalla sua spiccata eterogeneità. Si nasce rivoluzionari e si invecchia pompieri. Non è il caso di Grillo, che però sta affrontando – non benissimo – rischi e vantaggi del pragmatismo, il grado intermedio tra iconoclastia e atarassia politica.

Corriere 25.3.13
Meglio non stuzzicare la bestia che popola i miti e la blogosfera
di Violetta Bellocchio


C'è qualcosa di molto significativo nell'espressione «orde di trolls» usata da Beppe Grillo ieri per definire come disturbatori molesti i lettori che negli ultimi mesi hanno criticato il suo blog intasando lo spazio commenti. Secondo il bestiario mitologico dell'Europa del Nord, il troll è una creatura violenta e aggressiva, con un aspetto mostruoso (statura gigantesca, nasi lunghi, bocche enormi) e un difetto fatale, la scarsa intelligenza. Il grande pubblico li ha conosciuti così, grazie alla saga del Signore degli Anelli di Tolkien, e poi quella di Harry Potter di Rowling. In altre leggende, però, i troll sono quasi uguali agli esseri umani, e non sono affatto stupidi, anzi: l'unico modo di avere salva la vita, con loro, è girare al largo, evitare il conflitto. Non stuzzicarli. Strategia facilitata dal fatto che vivono in luoghi isolati, lontani dalle città e dai villaggi.
Oggi il linguaggio di Internet usa il termine troll per identificare chiunque faccia il provocatore, a prescindere dall'argomento di discussione — che si parli di videogiochi, di sport, di politica o di serie televisive — in nome del puro piacere personale: dare fastidio è la sua ragione di vita. Può entrare in scena con una raffica di insulti a stampatello (come se urlasse), oppure può fingersi d'accordo con il padrone di casa, mentre cerca di sabotare il dibattito dall'interno. Può muoversi in gruppo, ma può benissimo agire da solo. Comunque, se ci prende gusto, diventa difficile liberarsi di lui. Ora, parlare di «orde di trolls», come ha fatto Grillo, e spiegare l'insistenza di certi attacchi dicendo che «qualcuno evidentemente li paga», significa vedere nel nemico un tipo preciso di troll: quello brutto e ignorante, facile da manipolare. Così diverso da noi. Per forza, è un mostro.

Repubblica 25.3.13
Perché Grillo dice no
L’ultima impasse dei 5Stelle la base si spezza a metà sul sostegno al governo Pd
Divisi tra sì e no, difficile un accordo Grillo-Bersani
di Ilvo Diamanti


PIERLUIGI Bersani prosegue nelle consultazioni. Per verificare, come ha chiesto il Presidente Napolitano, se vi siano le condizioni per un governo che disponga di una maggioranza effettiva. E stabile. Non è una “missione impossibile”, ha avvertito il segretario del Pd. Ma sicuramente molto improbabile. Soprattutto se Bersani mira a un’intesa fra il centrosinistra e il M5S, come ha fatto intendere fin qui.
PERCHÉ i margini, in tal senso, sono davvero stretti. O meglio: non ci sono. Beppe Grillo l’ha ribadito anche ieri. E l’altro ieri. Ma lo farà, sicuramente, anche oggi — e domani. Perché Grillo non parla — solo e tanto — agli altri. Ma anzitutto ai suoi.
Ha bisogno di tenerli uniti. Fino a quando, almeno, le consultazioni di Bersani si saranno concluse. Senza il sostegno del M5S. Se un gruppo di parlamentari del suo gruppo votasse la fiducia — com’è avvenuto in occasione dell’elezione di Piero Grasso alla carica di Presidente del Senato — non sarebbe un problema. Si tratterebbe di un “tradimento”. Allungherebbe ombre sul futuro del nuovo — eventuale — governo. E sulla maggioranza. Fondata, fin dall’avvio, sul sostegno di “transfughi”, più o meno “responsabili”.
Ma attendersi un sostegno aperto dal M5S mi sembra impossibile, più che improbabile.
Non solo da parte di Grillo. Anche del gruppo dirigente del MoVimento. Una eventuale consultazione, al proposito, non è plausibile. Né in Parlamento, fra gli eletti. Né in rete, fra gli aderenti e gli elettori. Perché, se ciò avvenisse, diverrebbe evidente quel che Grillo, per primo, sa. Cioè: che sull’argomento la base del M5S è divisa. Anzi, spezzata. Visto che il suo elettorato è equamente ripartito, in base alla provenienza politica ed elettorale (come mostrano le indagini sul tema. Da ultimo: il volume di Roberto Biorcio e Paolo Natale, “Politica a 5 Stelle”, pubblicato da Feltrinelli). Tanto più e a maggior ragione di fronte a una possibile alleanza.
Lo conferma un sondaggio dell’Osservatorio elettorale del LaPolis (Università di Urbino), condotto nei giorni scorsi. I risultati, al proposito, appaiono eloquenti. Un accordo tra Pd e M5S a sostegno di un nuovo governo, infatti, otterrebbe il favore del 55% degli elettori. E di una quota molto più elevata fra quelli di centrosinistra, ma anche di centro. In particolare: appoggerebbero l’intesa quasi 8 su 10 fra gli elettori del Pd e del centrosinistra, ma anche il 65% degli elettori di Monti. Fra gli elettori del M5S, però, si osservano orientamenti molto diversi e, nell’insieme, divergenti. I favorevoli all’accordo, infatti, si riducono al 54%. I contrari al 45%. Cioè: circa metà e metà.
Questa s-composizione dipende, come si è detto, dalla provenienza dell’elettorato. Il consenso all’intesa, infatti, sale al 63% fra gli elettori che nel 2008 avevano votato per il centrosinistra. Ma tra gli elettori provenienti dal centrodestra, quasi, si dimezza: 36%.
In altri termini, la partecipazione a un governo guidato da Bersani spaccherebbe in due l’elettorato del M5S. Ma anche la base più “fedele”. Fra coloro che si definiscono “molto vicini” al MoVimento, infatti, i favorevoli all’intesa sono esattamente la metà: 50%. Per questo Grillo, oltre a esprimere il proprio dissenso, chiama “fuori” il M5S da ogni discussione. Al governo? Da soli o non se ne parla. Perché qualsiasi altra decisione rischierebbe di produrre lacerazioni e opposizioni. All’interno e alla base. L’accordo con Bersani: susciterebbe disagio, se non rifiuto, da parte di quasi metà dei suoi elettori. Soprattutto, di quelli che provengono dal centrodestra. Tuttavia, anche una rottura esplicita con il Centrosinistra solleverebbe malessere. Perché il M5S nasce da una costola della Sinistra, ma l’altra è di Destra. E, per ora, il MoVimento non dispone di un’identità definita e precisa, che permetta agli elettori di distinguersi e di distanziarsi dagli altri. Certo, il M5S della prima fase è sorto e si è sviluppato sull’azione dei comitati e dei movimenti locali, impegnati sul tema dei “beni comuni”. Ma il successo elettorale è avvenuto intorno alle rivendicazioni sulla trasparenza e sui costi della politica. Infine: contro la Casta e le oligarchie di partito. In definitiva: contro i partiti.
Da ciò la differenza rispetto alla Lega degli anni Novanta, che ha raccolto anch’essa il malessere contro il sistema dei partiti e contro il ceto politico, ormai al collasso. Ma disponeva di un’idea — meglio, di un’ideologia — forte. La Questione Settentrionale, poi: la Padania. Inoltre, si riconosceva in un leader carismatico ed era organizzata, come un partito di massa, radicato sul territorio. Il M5S, invece, non ha radici né organizzazione sociale e territoriale. È una rete. Esposta alle “incursioni”, sul Web, dei dissidenti e dei “trolls”, come li definisce Grillo. Inoltre, Grillo non è un leader carismatico. Il grado di identificazione personale nei suoi confronti, presso gli attivisti e gli elettori, è analogo, ma non superiore, rispetto a quello degli altri partiti (come mostra il recente saggio di Bordignon e Ceccarini pubblicato sulla rivista ComPol).
Il M5S non è, dunque, un partito tradizionale e neppure “personale”. Semmai “personalizzato”. Per riprendere la metafora che ho già usato una settimana fa: è come un Autobus. Sul quale sono saliti molti passeggeri. Alcuni diretti alla Terra dei Beni Comuni e della Democrazia Diretta. Altri, i più, “fuggiti” dalle loro case (politiche). Mossi da risentimenti — più che da sentimenti — verso i partiti maggiori. Per questo il Conducente, per ora, non si può fermare. E, anzi, accelera, sempre più veloce. Perché, se si fermasse a una stazione, molti passeggeri potrebbero scendere. Senza più risalire. Così continua a correre. In attesa che le case “politiche”, vecchie e nuove, crollino definitivamente. E altri passeggeri, in fuga, salgano in corsa sull’Autobus 5 Stelle. Un’attesa che potrebbe essere breve, visto il clima politico ed economico generale. Ma, in un paesaggio ridotto in macerie: che farebbero Grillo e il suo Autobus?

Repubblica 25.3.13
Jacopo Fo tifa per l’accordo: “So che la Puppato prepara una piattaforma per integrare i punti di Bersani con i 5Stelle”
“C’è ancora speranza per un dialogo col Pd oppure Beppe rischia una sconfitta alle urne”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Non smette di sperare, Jacopo Fo. «Guardiamo il film senza sonoro. Togliamo le parole e osserviamo i fatti: alcuni grillini hanno votato Grasso; dopo le minacce non c’è stata alcuna espulsione; il Pd ha fatto in modo che il Movimento avesse un questore e un vicepresidente. Queste mi sembrano tracce di un accordo. I fatti danno ragione alla speranza». Il figlio di Dario Fo scrittore, attore, fondatore della libera università di Alcatraz - è un ponte tra il centrosinistra e i 5 stelle. Conosce Grillo. È convinto che la sua linea sia destinata a cambiare.
Chi vuole un accordo è un infiltrato, scrive Grillo sul blog. Non sembra in vena di aperture.
«Ma i messaggi sono altalenanti. Prima aveva chiesto al Pd di rinunciare al finanziamento pubblico, poi ha detto: “Non daremo la fiducia a un governo dei partiti, o di tecnici”, ma non ha parlato delle eccellenze. Potrebbe essere in corso una trattativa. Almeno è quello che spero. Del resto, anche il Pd non si capisce bene cosa voglia. Se stia tenendo in gioco anche la Lega, Monti, il Pdl. Le carte sono coperte».
Spera ci sia qualcosa sotto?
«Se realmente la linea estetica dominante del Movimento 5 Stelle è quella del no a tutto, è una linea suicida per loro e per il Paese. Non ce la possiamo permettere. Al di là del fatto che se si torna a votare vince Berlusconi, ci sono cose urgentissime da fare».
Che punti di contatto vede?
«So che la senatrice Puppato sta preparando una piattaforma sulla quale tutti i cittadini possano integrare i punti di Bersani e quelli del Movimento. E lo sta facendo per conto del Pd. È un passo».
Grillo sembra tifare per un governo di larghe intese, per stare all’opposizione e passare all’incasso alle prossime elezioni.
«Non è che io lo conosca intimamente, ma lo conosco. Ci sono andato a cena, lo seguo da sempre. Non mi sembra così sciocco da non capire che con un’operazione così ti giochi tutti i soldi che hai sul rosso o sul nero, rischiando di perdere tutto. Se non portano qualcosa a casa di quel che hanno promesso, i 5 stelle saranno sconfitti».
Sono disposti a intese su singoli punti.
«Non funziona così. Se io ti ho votato, ho problemi ad arrivare a fine mese, e tu arrivi lì e non concludi niente, perché dovrei ridarti il mio voto? Senza contare che ci sarà una campagna elettorale con tre mesi di spread a 600 e tutte le tv di Berlusconi che sparano contro: vincerebbe ancora lui».
Poco male per Grillo, secondo cui destra e sinistra sono uguali.
«Ma Laura Puppato, che lui ha premiato come sindaco a 5 stelle, non è uguale a Berlusconi! Grillo non può non essersi accorto che i due terzi dei parlamentari pd oggi sono fuori dall’apparato. Tutti i simpatizzanti 5 stelle che conosco dicono che si deve fare un accordo».
Sul blog coloro che chiedono un’intesa sono stati definiti «schizzi di merda digitale».
«Come dice il Papa, ci vorrebbe un po’ di tenerezza. L’Italia ha bisogno di essere curata, anche il linguaggio dovrebbe essere diverso. Un grande politico capisce che a un certo punto bisogna cambiare passo».
Cosa serve?
«Il Pd non ha fatto le mosse che poteva fare. Se avesse scelto come candidato premier un personaggio di un certo tipo, Grillo ci stava. I parlamentari attendono ancora proposte potabili. Gli strilli, le bestemmie, fanno solo parte del gioco».

il Fatto 25.3.13
Correva l’anno 1947
Settant’anni di scouting dai tempi di De Gasperi
Giorni decisivi per il governo e il futuro M5S
Napolitano lo paragonò al partito di Giannini che si divise sulla fiducia
Grillo e i suoi: “Siamo forti, dureremo”
“L’Uomo Qualunque sparì senza lasciare traccia positiva per la politica e per il Paese”
di Fabrizio d’Esposito


Morire di fiducia (parlamentare). Il boom del Movimento 5 Stelle è stato paragonato fino alla nausea a quello dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, commediografo e giornalista anziché comico come Beppe Grillo, ma dalla stessa carica oratoria infarcita di battute e insulti contro i professionisti della politica (categoria che inventò lo stesso Giannini). Nell’aprile di un anno fa, il giorno della Liberazione, fu il capo dello Stato a fare il parallelo e ad augurare a Grillo lo stesso destino del napoletano Giannini. Giorgio Napolitano difese il sistema dei partiti, “nulla può sostituirli”, e avvisò “il demagogo di turno”, cioè Grillo: “L’Uomo Qualunque sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il Paese”. Ma come sparì il primo movimento italiano dell’antipolitica? Per la contrapposizione letale tra il gruppo parlamentare e il loro leader. Lo stesso rischio che corrono oggi Grillo e il suo guru Casaleggio, peraltro né deputati o senatori. Il primo segnale c’è stato con la “sporca dozzina” di dissidenti che a Palazzo Madama ha votato Piero Grasso alla presidenza. Adesso c’è la trappola della fiducia all’eventuale governo di Pier Luigi Bersani. che include anche le presunte operazioni di scouting del Pd. L’Uomo qualunque morì così, rivoltandosi contro Giannini per la fiducia al quarto governo di Alcide De Gasperi, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1947. Alla voce “qualunquismo” del dizionario di politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino, si indica proprio nello “sfaldamento dei gruppi parlamentari” la fine dei partiti occidentali di protesta. Non solo quello di Giannini, ma anche per esempio il movimento francese di Pierre Poujade nel periodo 1953-1956.
La parabola dei qualunquisti italiani, dunque, fu brevissima. Appena un anno. Si consumò all’alba della Repubblica, nel-l’assemblea costituente eletta il 2 giugno del 1946, quando si votò anche per il referendum istituzionale sulla monarchia sabauda. L’UQ fece boom con un milione 211mila e 956 voti. Quinta forza dopo Dc, Psiup, Pci e Unione democratica nazionale. Trenta seggi, diventati 32 con il riconteggio dei resti, infine 37 con l’adesione di altri parlamentari. Se per Grillo tutto è nato da un blog, per Giannini fu propizio il settimanale che mandò in edicola nel Natale del 1944, in un Paese devastato dalla guerra, con macerie materiali e morali. Il commediografo aveva 53 anni anni e la testata era “L’Uomo Qualunque”, evoluzione della originaria “L’uomo della strada”, bocciata dalla censura di Alleati e antifascisti. Arrivò a vendere ben 850mila copie. Un successo strepitoso. Per Giannini, l’Uomo Qualunque italiano era stritolato dal potere, fascista o comunista che fosse, simboleggiato da un torchio incastrato nella “U” della testata. A segnare il destino del fondatore dell’UQ era stata soprattutto la tragedia del figlio Mario, morto in guerra. Morto per chi e per cosa, si chiese con tormento? La guerra, “benché fatta dalla Folla, non interessa la Folla. È un affare tra Capi”, ossia gli Upp, gli uomini politici professionali che vogliono il potere solo per ambizioni personali e per arricchirsi. E “La Folla”, appunto, è il titolo del libro che il commediografo pubblicò.
Le analogie con il M5S sono varie. Grillo chiama il partito di Bersani come “Pdmenoelle”, Giannini coniò il neologismo di “cameragni”, camerati più compagni. Se Grillo prima di andare alle elezioni ha bussato al Pd (respinto alle primarie del 2009) e poi sostenuto candidati dell’Italia dei valori (Luigi de Magistris in testa), Giannini fu cacciato ovunque. Anche per questo, un anno dopo l’uscita del settimanale, Giannini si trova “costretto” a dare vita alla forza politica qualunquista. Un Fronte, non un partito, così come oggi Grillo usa il termine Movimento. L’UQ si rivolge alla borghesia, alla maggioranza incazzata e silenziosa. Pur anarchico conservatore di suo, con propensione al liberalismo, il commediografo fa del qualunquismo l’anti-ideologia per eccellenza. Contro il fascismo e l’antifascismo, contro i democristiani già battezzati “demofradici”. Il qualunquismo vuole uno stato Stato ragioniere, con amministratori che ruotano (come oggi i capigruppo grillini). Una volta in Parlamento, Giannini si pone il problema di entrare nella “stanza dei bottoni”. Qui la differenza è decisiva. Se Grillo è inseguito a vuoto da Bersani, Giannini insegue invano sia i comunisti di Palmiro Togliatti sia i democristiani di De Gasperi. Quando nell’ottobre del ‘47 si pone il problema della fiducia all’esecutivo dello statista dc, l’UQ è reduce da uno straordinario risultato alle amministrative. Quasi il venti per cento nelle maggiori città italiane, a partire da Roma. Con questi numeri, alle storiche elezioni politiche del 1948 potrebbe portare un centinaio di deputati a Montecitorio. Ma il leader del Fronte rimane prigioniero del suo gruppo parlamentare, in cui prevale un’anima di destra, già fascista e di simpatie monarchiche.
Il 1947 è fondamentale per il lungo monopolio democristiano del potere. A marzo la dottrina Truman, dal nome dell’allora presidente americano, divide il mondo in due blocchi, occidentale e sovietico, e il conseguente Piano Marshall, gli aiuti degli Stati Uniti all’Italia, impongono a De Gasperi la fine dei governi di unità con il Pci. La svolta di maggio porta in Parlamento il quarto governo De Gasperi, tutti ministri democristiani tranne il liberale Einaudi all’Economia. L’UQ rifiuta una poltrona all’Agricoltura, ma vota lo stesso la fiducia. Allo stesso tempo dialoga con il Pci di Togliatti. Per questo Giannini punta a scardinare la Dc e il suo elettorato. A ottobre si prepara la caduta di De Gasperi e Giannini dovrebbe fare blocco con le sinistre. L’apertura ai comunisti già ha causato espulsioni dall’UQ, fatte con grande trasparenza, lavando i panni sporchi in pubblico. Il 2 ottobre il leader qualunquista annuncia la sfiducia ma nel gruppo parlamentare c’è la rivolta dei pretoriani, come viene chiamata. De Gasperi si salva grazie ai 30 voti dell’UQ. Giannini si astiene per “decenza”. Per lui è la fine. Un anno dopo, nel ‘48, i suoi deputati sono appena cinque. Dieci anni dopo verrà a sapere che la rivolta dei pretoriani era un complotto di Dc e Confindustria, preparato dall’armatore napoletano Achille Lauro. I grillini hanno sempre respinto il paragone con il qualunquismo, ma di fiducia si può morire. È già capitato.

il Fatto 25.3.13
La valanga si scioglie a RomaQuei movimenti nati come paladini anti-sistema


PARTITO RADICALE NEL SEGNO DI PANNELLA
Il Partito Radicale è sempre stato di orientamento liberale, liberista, libertario e antiproibizionista, con una marcata visione laica dello Stato. Nato nel 1955 e sciolto nel 1989, anno in cui ha dato vita alla Lista Bonino Pannella. Primo segretario è stato Mario Pannunzio, ma dagli anni Sessanta la leadership indiscussa è sempre stata quella di Marco Pannella.

LEGA NORD DI LOTTA, DI GOVERNO. E DI SCANDALI
La Lega nasce come antipartitica dall'unione di sei movimenti autonomisti regionali del Nord: Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemònt Autonomista, Union Ligure, Lega Emiliano Romagnola e Alleanza Toscana. Entra nel primo governo Berlusconi del 1994 e lo fa cadere. Successivamente, a fasi alterne, propone la secessione, ma intanto si radica nelle stanze romane e partecipa a tutti i governi Berlusconi. Mentre gli scandali la travolgono.

LA RETE UNA BREVE STAGIONE
Il Movimento per la Democrazia - La Rete, detto semplicemente La Rete, fu un partito politico italiano fondato il 24 gennaio 1991 da Leoluca Orlando, sindaco di Palermo fino all'agosto 1990, e da Nando Dalla Chiesa, Claudio Fava, Alfredo Galasso, Carmine Mancuso e Diego Novelli. Nasce ufficialmente nel 1991, ottiene un buon risultato nel 1992. Si scioglie e confluisce nei Democratici nel 1999.

DI PIETRO NASCITA, RINASCITA E CROLLO
Fondato a Sansepolcro il 21 marzo 1998 da Antonio Di Pietro, il partito si propone di raccogliere e dar voce a settori della società uniti dalla riproposizione della "questione morale". Prima aderisce ai democratici poi si ricostituisce come partito.

il Fatto 25.3.13
Il cantautore - assessore
Battiato: “Beppe sta esagerando Casaleggio? Come Richelieu”

“Grillo sta esagerando, in questo momento l’Italia è un paese dilaniato”, dice il cantautore siciliano che dal 2012 è anche assessore al Turismo e allo Spettacolo della giunta Crocetta in Sicilia. “In Sicilia - prosegue - ero sicuro che la coabitazione con 5 stelle avrebbe funzionato e infatti sta andando benissimo. Per quanto riguarda la formazione del governo invece non lo so. Grillo a volte sembra che stia per cedere ma poi le frasi sono sempre quelle”. Secondo Battiato, Casaleggio è come Richelieu “perchè sta dietro le quinte, è uno che manovra”.

Repubblica 25.3.13
La buona politica della Costituzione
di Salvatore Settis


NON sfugga un confronto, questo: nell’Agenda Monti, programma elettorale di un presidente del Consiglio in carica, la parola “Costituzione” non c’è mai. Viceversa, nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Laura Boldrini ha insistito sui «valori della Costituzione repubblicana» e sulla dignità delle istituzioni della Repubblica, ricordando con parole vibranti che «in quest’aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo».
Morire di fiducia (parlamentare). Il boom del Movimento 5 Stelle è stato paragonato fino alla nausea a quello dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, commediografo e giornalista anziché comico come Beppe Grillo, ma dalla stessa carica oratoria infarcita di battute e insulti contro i professionisti della politica (categoria che inventò lo stesso Giannini). Nell’aprile di un anno fa, il giorno della Liberazione, fu il capo dello Stato a fare il parallelo e ad augurare a Grillo lo stesso destino del napoletano Giannini. Giorgio Napolitano difese il sistema dei partiti, “nulla può sostituirli”, e avvisò “il demagogo di turno”, cioè Grillo: “L’Uomo Qualunque sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il Paese”. Ma come sparì il primo movimento italiano dell’antipolitica? Per la contrapposizione letale tra il gruppo parlamentare e il loro leader. Lo stesso rischio che corrono oggi Grillo e il suo guru Casaleggio, peraltro né deputati o senatori. Il primo segnale c’è stato con la “sporca dozzina” di dissidenti che a Palazzo Madama ha votato Piero Grasso alla presidenza. Adesso c’è la trappola della fiducia all’eventuale governo di Pier Luigi Bersani. che include anche le presunte operazioni di scouting del Pd. L’Uomo qualunque morì così, rivoltandosi contro Giannini per la fiducia al quarto governo di Alcide De Gasperi, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1947. Alla voce “qualunquismo” del dizionario di politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino, si indica proprio nello “sfaldamento dei gruppi parlamentari” la fine dei partiti occidentali di protesta. Non solo quello di Giannini, ma anche per esempio il movimento francese di Pierre Poujade nel periodo 1953-1956.
La parabola dei qualunquisti italiani, dunque, fu brevissima. Appena un anno. Si consumò all’alba della Repubblica, nel-l’assemblea costituente eletta il 2 giugno del 1946, quando si votò anche per il referendum istituzionale sulla monarchia sabauda. L’UQ fece boom con un milione 211mila e 956 voti. Quinta forza dopo Dc, Psiup, Pci e Unione democratica nazionale. Trenta seggi, diventati 32 con il riconteggio dei resti, infine 37 con l’adesione di altri parlamentari. Se per Grillo tutto è nato da un blog, per Giannini fu propizio il settimanale che mandò in edicola nel Natale del 1944, in un Paese devastato dalla guerra, con macerie materiali e morali. Il commediografo aveva 53 anni anni e la testata era “L’Uomo Qualunque”, evoluzione della originaria “L’uomo della strada”, bocciata dalla censura di Alleati e antifascisti. Arrivò a vendere ben 850mila copie. Un successo strepitoso. Per Giannini, l’Uomo Qualunque italiano era stritolato dal potere, fascista o comunista che fosse, simboleggiato da un torchio incastrato nella “U” della testata. A segnare il destino del fondatore dell’UQ era stata soprattutto la tragedia del figlio Mario, morto in guerra. Morto per chi e per cosa, si chiese con tormento? La guerra, “benché fatta dalla Folla, non interessa la Folla. È un affare tra Capi”, ossia gli Upp, gli uomini politici professionali che vogliono il potere solo per ambizioni personali e per arricchirsi. E “La Folla”, appunto, è il titolo del libro che il commediografo pubblicò.
Le analogie con il M5S sono varie. Grillo chiama il partito di Bersani come “Pdmenoelle”, Giannini coniò il neologismo di “cameragni”, camerati più compagni. Se Grillo prima di andare alle elezioni ha bussato al Pd (respinto alle primarie del 2009) e poi sostenuto candidati dell’Italia dei valori (Luigi de Magistris in testa), Giannini fu cacciato ovunque. Anche per questo, un anno dopo l’uscita del settimanale, Giannini si trova “costretto” a dare vita alla forza politica qualunquista. Un Fronte, non un partito, così come oggi Grillo usa il termine Movimento. L’UQ si rivolge alla borghesia, alla maggioranza incazzata e silenziosa. Pur anarchico conservatore di suo, con propensione al liberalismo, il commediografo fa del qualunquismo l’anti-ideologia per eccellenza. Contro il fascismo e l’antifascismo, contro i democristiani già battezzati “demofradici”. Il qualunquismo vuole uno stato Stato ragioniere, con amministratori che ruotano (come oggi i capigruppo grillini). Una volta in Parlamento, Giannini si pone il problema di entrare nella “stanza dei bottoni”. Qui la differenza è decisiva. Se Grillo è inseguito a vuoto da Bersani, Giannini insegue invano sia i comunisti di Palmiro Togliatti sia i democristiani di De Gasperi. Quando nell’ottobre del ‘47 si pone il problema della fiducia all’esecutivo dello statista dc, l’UQ è reduce da uno straordinario risultato alle amministrative. Quasi il venti per cento nelle maggiori città italiane, a partire da Roma. Con questi numeri, alle storiche elezioni politiche del 1948 potrebbe portare un centinaio di deputati a Montecitorio. Ma il leader del Fronte rimane prigioniero del suo gruppo parlamentare, in cui prevale un’anima di destra, già fascista e di simpatie monarchiche.
Il 1947 è fondamentale per il lungo monopolio democristiano del potere. A marzo la dottrina Truman, dal nome dell’allora presidente americano, divide il mondo in due blocchi, occidentale e sovietico, e il conseguente Piano Marshall, gli aiuti degli Stati Uniti all’Italia, impongono a De Gasperi la fine dei governi di unità con il Pci. La svolta di maggio porta in Parlamento il quarto governo De Gasperi, tutti ministri democristiani tranne il liberale Einaudi all’Economia. L’UQ rifiuta una poltrona all’Agricoltura, ma vota lo stesso la fiducia. Allo stesso tempo dialoga con il Pci di Togliatti. Per questo Giannini punta a scardinare la Dc e il suo elettorato. A ottobre si prepara la caduta di De Gasperi e Giannini dovrebbe fare blocco con le sinistre. L’apertura ai comunisti già ha causato espulsioni dall’UQ, fatte con grande trasparenza, lavando i panni sporchi in pubblico. Il 2 ottobre il leader qualunquista annuncia la sfiducia ma nel gruppo parlamentare c’è la rivolta dei pretoriani, come viene chiamata. De Gasperi si salva grazie ai 30 voti dell’UQ. Giannini si astiene per “decenza”. Per lui è la fine. Un anno dopo, nel ‘48, i suoi deputati sono appena cinque. Dieci anni dopo verrà a sapere che la rivolta dei pretoriani era un complotto di Dc e Confindustria, preparato dall’armatore napoletano Achille Lauro. I grillini hanno sempre respinto il paragone con il qualunquismo, ma di fiducia si può morire. È già capitato.
Sarebbe un delitto farsi sfuggire un’occasione che non si ripeterà: questo il senso dei due appelli, quello promosso da Barbara Spinelli e quello lanciato da Michele Serra, che in pochi giorni hanno superato le 200.000 firme (li ho firmati anch’io). Questo, e non la cieca fiducia in questo o in quel partito, non l’ubbidienza a ordini di scuderia. Non l’arroganza di intellettuali che si sentono maestri, ma la voce di cittadini che fuori da ogni coro esprimono una preoccupazione e una speranza. Perciò chi si è rallegrato che all’elezione del presidente del Senato abbiano contribuito voti del Movimento Cinque Stelle dovrà rallegrarsi altrettanto se, in altre circostanze, parlamentari del Pd violeranno la disciplina di partito per votare giusti provvedimenti proposti da quel Movimento. Dopo una campagna elettorale condotta sbandierando nomi, alleanze, schieramenti assai più che progetti e contenuti, è ora di rovesciare il tavolo dei giochi. Identificare contenuti, indicare traguardi, cercare consensi nel Paese e (dunque) nel Parlamento. Passare dalle chiacchiere ai fatti, cambiare subito il Paese sapendo quel che si vuole e quel che si fa.
Perciò l’art. 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato» è oggi più che mai prezioso. Beppe Grillo non vorrà certo copiare Berlusconi attaccando la Costituzione ogni volta che non gli fa comodo. Senatori e deputati sanno bene, giacché lo sanno tutti i cittadini, quale è il paradosso che stiamo vivendo: il loro (anzi il nostro) è un Parlamento di nominati, non di eletti, eppure segna il più profondo rinnovamento che mai si sia visto in Italia, il più massiccio approdo in quelle aule di non-professionisti della politica. Essi possono essere tentati da una rigida disciplina di partito in cui qualcun altro pensi per loro, ma dovrebbero mirare assai più in alto. Pieno rispetto della legalità costituzionale (incluso l’art. 67) e piena libertà di coscienza sono i presupposti necessari per ridisegnare la mappa delle priorità politiche di questo Paese. Nessun prezzo è troppo alto, se il fine è il bene comune.
Gravi problemi incombono: la debolezza dello Stato centrale, in questo momento di ardue scadenze istituzionali, favorirà la marcia verso la formazione de facto di una “macroregione del Nord” capeggiata da Maroni, ridando fiato alla Lega in crisi e al suo mai sopito secessionismo, a spese dell’unità nazionale (art. 5 Cost.). Regioni svantaggiate e “generazioni perdute” verranno sacrificate senza pietà, immolandole non si sa più se alle ragioni “globali” dei mercati o a miopi alleanze (o nonalleanze) politiche. Cadranno nel nulla obiettivi oggi a portata di mano: «più giustizia sociale, più etica» (Grasso), «strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato» (Boldrini). Per non dire di una legge elettorale non iniqua, della riduzione dei costi della politica, di un forte argine, pur così tardivo, al conflitto di interessi, di un vero argine alla  orruzione.
Per l’Italia e per l’Europa, questo e non il prossimo Parlamento deve fare il massimo sforzo per diventare «la casa della buona politica» (Boldrini) vincendo le logiche di un partitismo di maniera che gli elettori hanno bocciato, e facendo dell’inesperienza dei neo-eletti un punto di forza, lo strumento di un nuovo sguardo sulle istituzioni e sui problemi del Paese. Dovrebbero esser scritte a caratteri cubitali, all’ingresso della Camera e del Senato (e domani a Palazzo Chigi e al Quirinale) le parole di Teresa Mattei (la più giovane dei membri della Costituente, morta a 92 anni qualche giorno fa) nella sua ultima intervista: «Questa è la cosa bella dell’animo democratico: pensare da bambino per ridisegnare le cose».

Repubblica 25.3.13
La democrazia degli ingenui
di Nadia Urbinati


Le storie di democrazia in azione sono un documento di generosità e di desiderio di giustizia. Possono però essere anche storie di malgestita radicalità che non riesce o non vuole fare ciò che ha promesso. Storie di speranze di rinnovamento che marciscono nel volgere di poco tempo. Per commentare quella che viviamo noi oggi, Barbara Spinelli si è servita su questo giornale dello scritto di José Saramago, il racconto della “catastrofe” di una democrazia sopraffatta dalla sua stessa grandezza di proposte e di ideali. In un’ impasse, tra Scilla e Cariddi: tra la speranza della grande innovazione e la macchinazione di un grande flop. Da un lato il genuino e semplice volere popolare di cambiamento; dall’altro il gioco del potere. La generosità della democrazia lascia in ombra coloro che progettano il momento giusto per calare la carta del bluff. Numerose storie di democrazia in azione si sono dipanate secondo questa trama triste.
A metà marzo del 1871, mentre si svolgevano in tranquillità le elezioni e la città di Parigi era sguarnita di forze dell’ordine, e tutto prometteva che la partita politica venisse giocata alla luce del sole, nell’ombra stavano accadendo le cose che avrebbero determinato il futuro della repubblica comunarda. Il governo di Thiers, che meditava la riconquista del potere, cercava e trovava il consenso di Bismarck, il leader tedesco
che aveva interesse a mettere subito fine alla guerra contro la Francia perché temeva il contagio democratico oltre il Reno. Gli scenari erano preoccupanti. Da un lato la democrazia ingenua che moltiplicava i luoghi e i temi di discussione, rifuggiva dal coordinamento, praticava la comunicazione su ogni punto all’ordine del giorno, fino allo spasimo. Dall’altro gli uomini di potere, abituati a usare i mezzi del consenso e a mobilitare fedeli seguaci, di mettere in atto strategie astute, intravedendo spiragli di luce ai loro piani di rivincita. In questa impasse si consumò la riconquista di Parigi che mise fine alla democrazia ingenua: nel maggio del 1871 avvenne la firma del trattato di pace franco-tedesco che diede il via libera all’occupazione della città da parte dell’esercito, antefatto di quello che sarebbe stato un massacro. Quella che doveva essere una repubblica democratica fu in poche ore una caccia all’uomo, una sommaria restaurazione.
Una storia a caso questa della fine tragica della Comune di Parigi – diversissima in tutto eppure così istruttiva per l’Italia di questi giorni, un paese che visto da fuori suscita ammirazione e grande attenzione, per aver saputo esprimere la propria volontà elettorale in maniera così radicalmente libera e che tuttavia si mostra smarrito, vittima della sua stessa spavalda promessa di cambiamenti importanti. Vittima del partecipazionismo senza decisione. Dopo le elezioni, Francesco Merlo ha scritto su questo giornale che nonostante il fragore delle parole e la carriolata di voti che con il M5S hanno portato persone ordinarie e nuovissime in Parlamento, l’impressione è che tutto questo cambiamento non serva che a far tornare tutto come prima, a legittimare il nuovo vecchio.
Il rischio è che la democrazia appaia un agire senza costrutto, una perdita di tempo che alla società costa sempre più caro. Pessimo servizio dei democratici alla democrazia. La responsabilità degli eletti è enorme perché chi rende impossibile la formazione di un governo rende la democrazia una parola vuota e le fa un pessimo servizio. La sacrosanta volontà che le elezioni hanno concretizzato viene disattesa, perfino sbeffeggiata, da questo esercito di eletti che, giunti promettendo la luna, non sanno arrendersi al fatto politico basilare che ogni decisione rompe l’unanimismo e richiede mediazione (a questo serve la regola di maggioranza). Essere eletti non significa fare un atto di testimonianza delle proprie idee. Significa e serve a fare succedere cose, a decidere. Il rischio di questa democrazia degli ingenui è che spalanchi le porte come altre volte in passato alla democrazia dei furbi, che ottenga l’opposto di ciò che vuole e ha promesso.

La Stampa 25.3.13
Truffa e bancarotta. Inchiesta sui conti della diocesi di Terni
Operazioni sospette dietro il buco da 20 milioni L’ex vescovo Paglia si difende: “Colpa della crisi”
di Guido Ruotolo


Non è solo uno scandalo della Curia di Terni. Un buco nelle casse della diocesi tra i 18 e i 20 milioni di euro accumulati sotto la gestione del vescovo Vincenzo Paglia, che ha portato il Vaticano a intervenire immediatamente commissariando la Diocesi di TerniNarni-Amelia con l’amministratore apostolico monsignor Ernesto Vecchi.
Quello che finora è stato uno scandalo, in realtà è un’inchiesta della Procura di Terni, affidata al pm Elisabetta Massini. L’ipotesi di reato per la quale si procede è quella di truffa e bancarotta. Secondo le indiscrezioni sarebbero diversi gli indagati, tra cui titolari di società immobiliari e periti.
Naturalmente monsignor Paglia getta acqua sul fuoco: «Non ho ricevuto alcuna comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria». Ma il fascicolo si sta arricchendo con i risultati degli accertamenti della Squadra Mobile della Questura di Terni, su tutte le operazioni immobiliari riconducibili a società e proprietà della Curia ternana.
«L’ammanco era ben monitorato - precisa monsignor Paglia - e se non ci fosse stata la crisi economica il debito sarebbe irrisorio. Molte parrocchie non sono state in grado di saldare i debiti dei lavori di ristrutturazione di immobili, altri che volevamo vendere per la crisi erano svalutati e noi abbiamo deciso di tenerli. Che sia in sofferenza il bilancio è vero, ma è quello che accade nel 99% del Paese». Monsignor Paglia tiene a precisare che le operazioni immobiliari della Diocesi ternana non hanno punti di contatto con quelle della Comunità di Sant’Egidio.
Quello che sta emergendo è un vorticoso giro di società immobiliari riconducibili a imprenditori, a personaggi che gravitano attorno alla Curia che con diverse operazioni di compravendita lucrano a discapito delle casse della Diocesi. Insomma, farebbero la cresta.
Una di queste operazioni è la compravendita del Castello di San Girolamo di proprietà del Comune di Narni. Siamo alla fine del 2010 e il valore stimato per l’acquisto è di 1 milione e 760 mila euro. Il sogno è quello di costruire un albergo di lusso con piscina e una cinquantina di camere da letto. Ad acquistarla dovrebbe essere l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero. Ricorda monsignor Paglia: «Nel castello è ancora presente una chiesa consacrata, dove viene officiata messa».
L’Istituto diocesano è la capofila di una serie di imprese interessate all’operazione: Edilizia Marconi di Todi; B&P; Società Iniziative Immobiliari di Terni. L’obiettivo è quello di costituire «Il Castello di Narnia». Un contenitore nel quale poi confluiranno altre società come la Isam Immobiliare, l’Umbria Gestioni Immobiliari, l’Immobiliare Vincioni di Terni.
In queste società compaiono nomi di imprenditori coinvolti in altre operazioni immobiliari con altre società nelle quali c’è sempre una cointeressenza della Curia di Terni. Tra questi, per esempio, c’è Luca Galletta e Paolo Zappelli.
Siamo ormai arrivati alla fine del maggio del 2011. Il Comune vende il castello. Dà un anticipo di 100 mila euro la Società Iniziative Immobiliari. A gennaio del 2012, versa la seconda rata di 600 mila euro. Un milione e 66 mila euro vengono sborsati dall’Istituto diocesano per il sostentamento del clero. Istituto che si rende disponibile a rilevare le quote della Società Iniziative Immobiliari e a entrare nel l’affare con un clausola di recesso.
A novembre, l’Istituto diocesano si sfila dall’affare e restituisce le sue quote alla Società Iniziative Immobiliari che restituisce il milione e passa di euro. Anzi non mette un euro di suo perché quel milione e passa gli arriva dalla Diocesi di Terni e dall’Ente Seminario Vescovile di Narni. C’è qualcosa che non quadra. Ne sono convinti inquirenti e investigatori.

Corriere 25.3.13
I pm di Terni indagano sui bilanci della Curia L'accusa è bancarotta
Vendite di immobili. Don Paglia: tutto regolare
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Operazioni immobiliari spericolate che avrebbero svuotato le casse. Compravendite di palazzi, anche di pregio, gestite da società ricollegabili a persone che lavorano presso gli uffici ecclesiastici.
Le verifiche sul «buco» nei bilanci della Curia di Terni arrivano a una svolta. La magistratura adesso ipotizza i reati di truffa e bancarotta. L'inchiesta ruota intorno a una serie di affari conclusi quando vescovo era monsignor Vincenzo Paglia, attuale presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. E si affianca agli accertamenti avviati dal suo successore, monsignor Ernesto Vecchi, arrivato in Umbria a metà febbraio e incaricato dalla Santa Sede anche di scoprire che fine abbiano fatto 18 milioni di euro che mancano dai bilanci non escludendo che l'ammanco possa essere addirittura superiore ai venti milioni di euro. Una vicenda scottante che, secondo alcuni, potrebbe essere stata inserita nel dossier segreto gestito da papa Benedetto XVI prima delle dimissioni. L'ormai famosa relatio affidata adesso al pontefice Francesco.
L'attenzione degli inquirenti è focalizzata sulle acquisizioni di alcune strutture di proprietà della Chiesa, ma anche di amministrazioni locali, effettuate a prezzi stracciati da aziende riconducibili ad uomini che per anni hanno collaborato con monsignor Paglia. E poi ristrutturate utilizzando i soldi destinati alle attività religiose. Il pubblico ministero Elisabetta Massini ha delegato le indagini alla squadra mobile di Terni. L'ultimo atto compiuto dagli investigatori diretti da Francesco Petitti è l'acquisizione presso gli uffici del Comune di Narni dei documenti relativi alla vendita del castello di San Girolamo.
A darne notizia, venerdì scorso, è stato il sito online Umbria24, che da tempo si occupa di quanto sta accadendo nella Diocesi. È uno dei capitoli più significativi dell'inchiesta perché mostra, secondo l'accusa, quale fossero le modalità per concludere le operazioni. Il castello è stato ceduto dal Comune tra maggio del 2011 e gennaio 2012, per un milione e 760 mila euro. La quota è stata così divisa tra la «Sim, Società iniziative immobiliari» (700 mila euro), la Diocesi di Terni, Narni e Amelia (900 mila euro) e l'Ente seminario vescovile di Narni (160 mila euro). Il progetto iniziale prevedeva che fosse trasformato in un albergo, ma finora del progetto per la ristrutturazione non è stata trovata traccia. E dunque si sta cercando di scoprire a che cosa sia servito questo investimento, tenendo conto che la «Sim» è di proprietà di due persone ritenute molto vicine a monsignor Paglia come Luca Galletti e Paolo Zappelli: il primo è stato fino al 2012 presidente dell'Istituto diocesano per il sostentamento del clero di Terni e ora è il direttore tecnico della Curia, mentre l'altro ha ricoperto l'incarico di economo e attualmente è il direttore dell'ufficio amministrativo. Ma soprattutto come mai si sia deciso di inserire negli accordi una clausola di recesso per i due istituti religiosi che scade alla fine dell'anno. Il sospetto è che la partecipazione delle istituzioni cattoliche sia soltanto una «copertura» e che in realtà la gestione immobiliare dovesse poi rimanere in esclusiva alla società.
I magistrati guardano a Narni, ma controllano anche altri affari come quello relativo all'affitto della struttura che ospita il Grand Hotel Terme Salus di Viterbo oppure l'acquisto dell'edificio delle scuole Orsoline di Terni. Tra gli indagati ci sarebbero i titolari di alcune società e gli esperti che avrebbero compiuto le valutazioni degli immobili, oltre ai commercialisti che si sarebbero occupati della stipula degli accordi. Ma le verifiche sono ad uno stadio iniziale e altri nomi potrebbero presto finire nel registro della Procura.
Monsignor Paglia nega di aver ricevuto un avviso e assicura che «tutto si è svolto in maniera regolare». Poi spiega «come si è arrivati a una sofferenza economica che mi era ben nota. C'era un problema già nell'amministrazione precedente e poi abbiamo intrapreso la costruzione di vari complessi parrocchiali. Il denaro utilizzato per la ristrutturazione di immobili o di chiese che doveva rientrare dalle casse parrocchiali non è arrivato e ciò ha aggravato il debito, sul quale già pesavano anche alcune acquisizioni di immobili per uso diocesano. Era stato fatto un ripiano attraverso la vendita di alcuni immobili non più utilizzati, la crisi ha reso tutto più difficile. Abbiamo preferito non svendere gli immobili, ma questo ha fatto sì che le esposizioni bancarie pesassero in maniera pesantissima».
L'alto prelato assicura che «tutto è stato fatto in accordo con i consigli di amministrazione e con l'Istituto per il sostentamento del clero» ed esclude in maniera categorica affari immobiliari con la comunità di sant'Egidio della quale è consigliere spirituale: «Ho sempre tenuto molto netta la separazione tra il mio incarico di vescovo e quello per sant'Egidio, tanto che ho deciso di lasciarlo proprio per evitare commistioni o speculazioni».

l’Unità 25.3.13
Marò, soldati o contractor?
L’Italia è l’unico Paese europeo che manda militari sulle navi mercantili
Tutto inizia con il governo Berlusconi che decide di affittare i nostri militari a privati per 500 euro al giorno
Ma senza alcuna garanzia sulla catena di comando
di Umberto De Giovannangeli


Prima del 2011 nessuna nave italiana poteva usufruire della presenza di militare a bordo. Tutto cambia quando il governo Berlusconi decide di affittare a privati la protezione dei nostri soldati a 500 euro al giorno. Ma senza garanzie sulla catena di comando.

Militari e contractors. Cosa insegna l’«affair-marò». Ovvero: il vulnus iniziale di una storia che, al momento, non può dirsi certo a lieto fine. È stata la compagnia armatrice della «Enrica Lexie» ad accogliere la richiesta indiana di dirigere la nave nel porto di Kochi. «Non avevo titolo né l’autorità per modificare la decisione del comandante». Ad affermarlo, agli albori di questa complessa vicenda, è il ministro degli Esteri Giulio Terzi intervenendo al Senato.
L’Italia, ovvero l’unico Paese europeo che ha imbarcato militari sui mercantili. Fino al 2010 nessuna nave battente bandiera italiana poteva usufruire di task force armate a bordo. La legislazione è cambiata con il decreto legge 107 del luglio 2011, definitivamente approvato con la legge 130 del 2 agosto dello stesso anno. Il Dl è diventato operativo solo in seguito alla firma di un protocollo d’intesa tra il ministero della Difesa, allora guidato da Ignazio La Russa, e Confitarma, la Confederazione italiana armatori, ovvero la principale associazione di categoria dell’industria italiana della navigazione che raggruppa le imprese e gruppi armatoriali italiani presenti nel settore del trasporto merci e passeggeri, delle crociere e dei servizi ausiliari del traffico. Questi team iper-specializzati a bordo delle nostre imbarcazioni sono i cosiddetti Nuclei operativi di protezione (Nmp), tutti composti da membri del Reggimento San Marco, l’unità di fanteria in forza alla Marina militare italiana. Gli armatori, per usufruirne, sono tenuti a pagare circa 500 euro al giorno per ciascun soldato, cioè 3mila euro per ogni nucleo, per un periodo di impiego operativo di 10-15 giorni.
L’ANOMALIA
In molti altri Paesi dell’Unione europea, tuttavia, a bordo delle imbarcazioni vigila personale di sicurezza privato e non militari addestrati specificatamente per svolgere compiti di sicurezza in mare. In Germania ad esempio la richiesta di team militari per la sicurezza a bordo di navi non è mai stata approvata. Ma l’adozione di personale di vigilanza da parte dei mercantili non è vietata né dalle leggi generali, né dal codice penale. Ogni armatore può quindi decidere autonomamente, salvo l’utilizzo di armi da fuoco automatiche, bandite da Berlino. In Spagna la disciplina è pressoché analoga, regolata dal decreto reale 1628/2009 sulla sicurezza privata e le armi. I servizi però possono essere forniti solo da società spagnole, registrate presso il ministero degli Interni e con particolari autorizzazioni. Nel Regno Unito, infine, non sono previste restrizioni o regolamenti in materia di sicurezza a bordo delle navi. L’orientamento legale del governo britannico indica che il carico di armi sulle navi inglesi sia sottoposto alle regole della legislazione interna.
«È l’idea alla base del decreto missioni nel giugno 2011, che prevedeva la possibilità che navi mercantili italiane reclutassero militari italiani con funzioni di sicurezza privata antipirateria, che si è rivelata ingenua, un po’ velleitaria, sicuramente sbagliata». A sostenerlo è Lorenzo Forcieri, ex sottosegretario alla difesa nell’ultimo governo Prodi. Secondo Forcieri, «non è possibile garantire la sicurezza dei traffici marittimi imbarcando militari in servizio sui mercantili italiani», perché «in questo modo essi devono assoggettarsi alle decisioni di un comandante civile, si ritrovano equiparati al rango di “contractors” e, di fatto, costretti a dipendere da una catena di comando inadatta ad affrontare la complessità degli scenari giuridici e politici internazionali». «La presenza di militari sui mercantili si è rivelata sbagliata e pericolosa per loro e per l’Italia conclude Forcieri perché è una soluzione ibrida ed ambigua che ha esposto il Paese alle conseguenze di una grave crisi diplomatica».
Ricapitolando: militari italiani, impegnati per conto del proprio Paese in una missione internazionale, si trovano a prestare servizio a bordo di una imbarcazione di proprietà di un armatore che paga il ministero della Difesa per il «servizio» prestato. In altri termini: i militari finiscono per essere equiparati di fatto a contractors privati!
«Quando si è scritta la legge rimarca il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato nel Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel Kosovo si è parlato di responsabilità dei team solo nel caso di un attacco pirata. Ma c’è un’ambiguità profonda. Il comandante della nave svolge i compiti anche di polizia giudiziaria sia in acque internazionali che in acque territoriali di altri Paesi o dell’Italia. Quindi si possono creare dei conflitti come credo sia avvenuto anche in questo caso, prendendo la decisione di attraccare al porto di Kochi in India». Conclusione: Il governo Berlusconi, nel 2011, s’ingegnò di eliminare il divieto di scorte militari armate sulle navi civili per affittare i nostri militari a 500 euro al giorno. Oggi ci sono altri 58 marò imbarcati su navi cargo: dobbiamo aspettare il prossimo incidente per rivedere la legge?

Corriere 25.3.13
Il caso dei Marò in India
Per favore raccontateci tutto
risponde Sergio Romano


Dire che il caso dei due fucilieri di Marina lasci sconcertati è dire poco. Davvero il governo pensa di poter essere credibile dopo che, a distanza di pochi giorni, ha sconfessato se stesso, scadendo in una farsa, con la giustificazione della «garanzia» che non c'è rischio di pena di morte? Tra l'altro, non si può certo dire che l'atteggiamento delle autorità indiane, finora, sia stato così rassicurante. La verità è che già dall'inizio sono emersi errori madornali nel gestire la vicenda, che invece sono stati trascurati anche dalla stampa. In primo luogo, non si comprende perché il capitano del mercantile, ignorando le leggi tra gli Stati, abbia deciso di fare rotta per il porto indiano quando la nave si trovava in acque internazionali al momento del fatto. Davvero singolare! Sembra poi che i vertici della Marina non abbiano saputo o voluto manifestare con decisione la propria contrarietà a tale assurda scelta. Inoltre, perché i due fucilieri si sono lasciati convincere A scendere a terra? Chi li ha convinti? Intanto, sono queste, credo, le domande da cui bisognerebbe partire, prima di fare discorsi alati.
Renato Lorena

Caro Lorena,
Esistono altri quesiti sui quali non è stata fatta chiarezza. È ora che il governo italiano vada al di là delle dichiarazioni del ministro degli Esteri in Parlamento e pubblichi su questa vicenda un «Libro bianco», vale a dire una raccolta di documenti da cui risulti con maggiore chiarezza quali siano i termini della questione. Ecco alcuni dei punti su cui vorremmo essere meglio informati.
Il luogo dell'incidente. Dov'era esattamente la nave italiana quando i due sottufficiali di Marina hanno sparato? Dov'era il peschereccio indiano? Se un omicidio si consuma là dove è la vittima (come ha scritto recentemente Roberto Toscano su La Stampa), non è indifferente sapere dove fosse il peschereccio. Né l'una né l'altra imbarcazione erano probabilmente nelle acque territoriali indiane. Ma esiste anche una zona economica esclusiva che si estende per duecento miglia oltre la costa. Vorremmo sapere quali sono, all'interno di questa zona, i diritti e le prerogative dello Stato che ne è responsabile.
Mancato ritorno dei sottufficiali in India dopo la seconda licenza. È stato detto che la decisione dei due ministeri maggiormente interessati (Esteri e Difesa: il governo, a quanto pare, è stato informato molto sommariamente) sia dovuta al timore di una condanna a morte. Vorremmo sapere perché il problema non fosse stato preso in considerazione precedentemente. Se la questione è emersa mentre i sottufficiali erano in Italia, il governo avrebbe potuto limitarsi ad annunciare che li avrebbe trattenuti soltanto per il tempo necessario a un chiarimento.
Cattura dei sottufficiali. È stato detto che sono stati arrestati con un sotterfugio e che il comandante della nave non sarebbe dovuto entrare in un porto indiano. Ma il «Libro bianco» dovrebbe dirci come sia stato affrontato e risolto il problema del doppio comando nelle navi mercantili protette da un distaccamento armato. Chi ha il diritto di decidere la rotta della nave nei casi in cui la scelta può pregiudicare la sorte dei militari?
Responsabilità legali dell'ambasciatore italiano. Secondo la convenzione di Vienna del 1961, gli agenti diplomatici sono immuni da azioni giudiziarie, ma non nel caso in cui siano «attori». È possibile che il documento firmato dall'ambasciatore Mancini (una certificazione giurata) sia considerato dalla Corte suprema indiana un coinvolgimento e che la sua presenza in aula fosse per questa ragione ritenuta indispensabile? Possiamo conoscerne il testo?

La Stampa 25.3.13
Francia di nuovo in marcia contro i matrimoni gay
Un milione in piazza, la polizia spara lacrimogeni
di Paolo Levi


Una marea umana per dire «no» al progetto di legge sulle nozze gay, una delle grandi promesse elettorali del presidente francese François Hollande: per la seconda volta quest’anno, dopo la manifestazione di gennaio, centinaia di migliaia di persone hanno invaso il centro di Parigi per ribadire che il matrimonio può essere soltanto tra un uomo e una donna. A fine pomeriggio, gli organizzatori parlavano di «almeno 1,4 milioni di partecipanti», mentre secondo una prima stima della questura a scendere in piazza sono stati 300.000.
È dunque guerra di cifre. «Sta diventando ridicolo e grottesco, così non può andare avanti», ha attaccato Frigide Barjot, promotrice della «Manif pour tous», in contrapposizione con il «Mariage pour tous», voluto dal governo socialista. Per lei, c’è «una chiara volontà di non dire la verità» sul numero dei partecipanti. I dati definitivi della questura verranno forniti all’inizio della settimana, dopo un’attenta analisi delle registrazioni video. Intanto, gli organizzatori sembrano proprio non voler mollare: «una nuova manifestazione si terrà in tempi brevi», hanno fatto sapere, chiedendo di essere ricevuti nuovamente da Hollande.
Durante il corteo, che è partito dal quartiere della Défense ed è arrivato all’Arco di Trionfo, ci sono stati anche momenti di tensione: la polizia ha sparato lacrimogeni contro un centinaio di dimostranti che tentavano di raggiungere gli Champs Elysées, considerati off limits dalle forze dell’ordine, che hanno negato il permesso di manifestare sulla celebre Avenue.
Il mese scorso, l’Assemblea nazionale ha detto sì al matrimonio omosessuale: dopo una maratona di 10 giorni (e quasi 110 ore di dibattiti), oltre 5.000 emendamenti discussi e cortei pro e contro nelle strade, i deputati hanno approvato la legge che autorizzerà le coppie dello stesso sesso a unirsi in matrimonio. La vittoria del sì è stata netta, con 329 voti a favore, cento di più dei voti contrari, 229. Dieci gli astenuti.
Non è detto invece che passerà così ampiamente al vaglio del Senato, dove il dibattito comincerà il 2 aprile, ma dove la maggioranza di sinistra è più risicata. Non è dunque escluso che il testo subisca qualche modifica e sia costretto a tornare in Assemblea.

La Stampa 25.3.13
Israele e Obama, dopo le parole servono i fatti
di Abraham B. Yehoshua


Per due giorni io e mia moglie abbiamo mantenuto un po’ le distanze a causa del presidente americano Barack Obama. E non solo perché lei ha seguito con entusiasmo sui media ora per ora la visita del presidente in Israele e nell’Autorità palestinese ma anche in seguito a divergenze di opinione sul valore di questa visita per il futuro del processo di pace con i palestinesi.
Nel 2008, cinque anni fa, quando Obama era il candidato democratico alla presidenza, ha visitato Israele, come d’altro canto ha fatto il suo rivale repubblicano, George McCain.
Entrambi (ognuno per conto proprio) hanno visitato la città di Sderot, costantemente bersagliata dei razzi lanciati da Gaza.
Ed entrambi sono stati nella stessa casa, colpita direttamente da un razzo, e hanno conversato con la stessa famiglia. Qualche tempo dopo un giornalista ha chiesto a una bambina di 12 anni, membro della famiglia, che impressione le avessero fatto i due uomini. «George McCain è una persona gentile» ha risposto la piccola, «si è interessato alla nostra situazione e ha ascoltato le nostre lamentele. Ma Barack Obama è qualcosa di diverso, è un vero uomo».
Ritengo che con questa strana e concisa definizione «un vero uomo» quella bambina abbia colto l’essenza interiore di Barack Obama. Un’essenza che lui irradia, conquistando gli animi e infondendo fiducia non a livello politico ma umano. Non è quell’autorevolezza carismatica che cerchiamo solitamente nei leader ma è un’umanità spontanea, generosa, senza pose, che si integra in maniera rara col prestigioso incarico di Presidente degli Stati Uniti.
Il perfetto coinvolgimento emotivo tra Stati Uniti d’America e Israele è unico nel suo genere ed elude qualunque definizione politica accettabile. È un’intimità quasi familiare che implica apertura, amore, promesse, delusioni, risentimenti e speranze, proprio come in ogni famiglia. Questa intimità si fa sempre più forte, indipendentemente da chi sia il Presidente americano e quale sia il governo d’Israele. Non era così nei primi anni dello Stato. Ricordo quanto fosse difficile al fondatore di Israele e suo leader più stimato fino a oggi, David Ben Gurion, ottenere un incontro, anche informale, con il Presidente degli Stati Uniti.
Ma dopo la guerra dei Sei Giorni e la sorprendente e travolgente vittoria sugli eserciti di Giordania, Egitto e Siria, Israele è diventato il beniamino degli Stati Uniti al punto che c’è chi sostiene che sia il suo cinquantunesimo Stato, anche perché nessuno di quelli che li compongono ha ricevuto un così sostanzioso sostegno finanziario e un tale trattamento di riguardo.
Il piccolo Israele è divenuto una specie di bambino prodigio per gli Stati Uniti, o di antenato mitico che assicura alla giovane nazione americana radici storiche e religiose antiche di migliaia di anni. L’ammirazione per le conquiste tecnologiche e culturali di Israele si mescola al senso di colpa degli Stati Uniti, e soprattutto dei suoi cittadini ebrei, per non aver fatto abbastanza per salvare il popolo ebraico dalla Shoah. E, naturalmente, più Israele è ammirato dagli americani, più pretende il loro incondizionato sostegno. Anche la cordiale visita di Obama è stata organizzata per placare l’ira suscitata dalla giusta e modesta richiesta durante il suo primo mandato di fermare l’espansione degli insediamenti, che rappresentano l’ostacolo più serio e difficile a una pace basata sul principio di due Stati per due popoli.
Quante parole gentili di ammirazione e di riconciliazione ha dovuto elargire il Presidente della nazione più potente del mondo nei confronti di Israele durante questa visita per inserire nei suoi discorsi qualche cauta critica sugli insediamenti, che agli occhi della politica americana sono sempre stati un ostacolo alla pace. Con quanta facilità gli Stati Uniti hanno agito con forza ingiusta e brutale in tutto il mondo (in Vietnam, per esempio, o, di recente, in Iraq) e con quale tono sottomesso e contrito si rivolgono a Israele, che dipende completamente da loro, per chiedergli di fermare gli insediamenti.
Finora Barack Obama non fa eccezione nella serie di Presidenti americani che hanno capito quale danno rappresentano gli insediamenti a una soluzione del conflitto tra palestinesi e israeliani ma non hanno fatto nulla per impedirli. Presidenti americani che hanno visto Israele investire un sacco di soldi in centri abitati nel Sinai e a Gaza e investirne altri per smantellarli e risarcire i residenti, e che non hanno potuto impedire la costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Perciò, per quanto anch’io sia rimasto colpito dal particolare calore della visita di Obama, non posso dimenticare i Presidenti precedenti, Clinton e Bush, che hanno fatto promesse calorose e incoraggianti per il processo di pace durante le loro visite, o le decine di ministri degli Esteri americani e di inviati speciali che hanno cercato di dare una spinta al processo di pace senza ottenere niente.
Sembra che fino a quando gli Stati Uniti non abbandoneranno il loro atteggiamento sentimentale nei confronti di Israele non saranno in grado di agire con l’autorità di una superpotenza per far ripartire il processo di pace.
I discorsi di Obama sono un’opera d’arte, pieni di ispirazione e di saggezza, ma ciò che conta non sono le parole bensì i fatti. È arrivato il momento di smettere di guardare Israele in un’ottica romantica e leggendaria e di sostenerlo in base a criteri politici reali. E questo affinché lo Stato sorto sulle rovine della Shoah trovi il suo giusto posto nella regione e non sia costretto ad affrontare ancora una volta la minaccia di uno sterminio.

La Stampa 25.3.13
Il pop più forte dell’odio. Un’araba conquista Israele
La vincitrice di “The Voice” mette d’accordo due popoli divisi
di Francesca Paci


La miss Yitish Aynaw la Miss Israele 2013 di origine etiope ha anche incontrato il presidente Obama durante la sua visita in Israele

«Fate l’hummus, non la guerra» suggerisce a israeliani e palestinesi (ma anche ai libanesi) il documentario del regista australiano Trevor Graham. Una provocazione rivolta ai politici più che ai ghiottoni avversi. Perché alla radice delle rivendicazioni sulla paternità dell’appetitosa crema di ceci mediorientale che nel 2008 portarono ai ferri corti i ristoratori di Beirut spalleggiati da Ramallah e quelli di Tel Aviv, c’è, tangibile quanto il conflitto dei conflitti, un gusto, una cultura popolare e perfino un’estetica che al di là dei check point accomuna due popoli così lontani e così vicini.
Basta guardare l’esito del talentshow «The voice», che sabato ha incoronato l’aspirante cantante araba Lina Makhloul preferendola alle concorrenti israeliane di fronte ai 16 mila ospiti del Palazzetto dello sport di Tel Aviv e a un paio di milioni di telespettatori, per capire come a volte il genere pop possa più di mezzo secolo di geopolitica applicata. Può darsi che la dotata commessa nata a Akko un anno dopo Oslo preferisca una o l’altra delle due narrative contrapposte su cui la terra santa si dissangua dal ’48, ma mescolando Leonard Cohen, Whitney Houston e la celeberrima libanese Fayruz ha dato scacco matto ai teorici dell’incomunicabilità.
Certo, i muri sono solidi e impastati di storia militare, pregiudizi reciproci, mappe inconciliabili e propaganda senza confini come nel caso del cartoon con il Mickey Mouse palestinese votato all’odio contro gli ebrei. Ma poi capita che ai Mondiali del 2006 gli arci-nemici si ritrovino a gridare in coro forza azzurri (i palestinesi tifano Italia da sempre e sei anni fa, secondo Maariv, almeno il 50% degli israeliani sosteneva il team Lippi).
«Israeliani e palestinesi non si combattono l’un l’altro ma combattono la paura» sostiene l’analista Ariel Katz, autrice di studi su quanto unisce i due popoli. Il dolore, ovviamente, come racconta l’associazione Parents Circle, un forum di genitori israeliani e palestinesi che hanno perso un figlio nel conflitto e promuovono il dialogo. La collaborazione economica, più intensa di quanto si voglia far credere. Poi c’è il «soft power», il potere dolce della cultura caro al politologo Joseph Nye che «contagia», anche loro malgrado, i vicini di casa.
Così, pochi in terra santa si stupirono quando i ribelli libici adottarono la canzone «Zenga Zenga», in cui il musicista israeliano Noy Alooshe irrideva Gheddafi. D’altra parte qualche anno prima era stato il figlio del colonnello Saif al Islam a sdoganare se non politicamente almeno esteticamente «i sionisti» fidanzandosi con l’attrice Orly Weinerman. Oggi sono gli avversari del regime siriano ad aver pescato «Zini» nel repertorio del menestrello ebreo-algerino Amir Benayoun e, sebbene Damasco vi denuncia lo zampino del Mossad, l’intonano a pieni polmoni battendosi contro le truppe di Assad.
L’«hard power», il potere forte delle armi, è molto rispettato in Medioriente. In pubblico, soprattutto. Su Facebook, invece, ha fatto scuola la pagina «Israel Loves Iran»: il gruppo «Israel Loves Palestine» conta già 9.400 membri e quello «Palestine Loves Israel» ne ha 11.800, condividono la voglia di abbuffarsi del proprio hummus in pace.

Corriere 25.3.13
Il gioco pericoloso cinese: affondare una portaerei americana
di Guido Santevecchi


L'Esercito di liberazione popolare è orgoglioso: in un'esercitazione a fuoco ha provato la precisione del suo missile balistico Dong Feng 21-D. Il test si è svolto nel deserto del Gobi: il bersaglio era una piattaforma sulla sabbia, lunga 200 metri e larga un'ottantina, più o meno la forma di una portaerei. Il risultato è stato un grosso cratere proprio nel mezzo della sagoma. Siccome gli unici ad avere portaerei a distanza utile per il missile cinese sono gli americani con la loro Settima flotta che incrocia nel Pacifico, si può dire che il Dong Feng (che significa Vento dell'Est) è studiato per affondare una portaerei Usa. L'ordigno nelle classificazioni militari è definito un «carrier killer», ammazza-portaerei, e ha una portata di duemila chilometri, tanto per far capire alla Flotta Usa che è meglio navigare bene al largo dall'orizzonte cinese.
Secondo Pechino il Vento dell'Est ha scopi difensivi. «Può essere usato come un bastone per colpire il cane che entra nel nostro cortile, ma mai per attaccare la casa da dove viene il cane», ha scritto la stampa cinese.
Ma dall'Esercito di liberazione popolare, impegnato in un pericoloso gioco di guerra con i giapponesi per le isole Senkaku/Diaoyu, arrivano parole d'ordine poco rassicuranti: «Basta con il romantico pacifismo». Anche il presidente Xi Jinping ha chiesto a soldati e ufficiali di «tenersi sempre pronti a combattere e vincere». E nell'incontro di Mosca con Vladimir Putin si è parlato di cooperazione militare.
Sarà vero che Pechino ha scoperto l'importanza del soft power e sta aprendo centinaia di Istituti Confucio per esportare la sua cultura nel mondo, ma resta molto affezionata ai suoi 2,3 milioni di soldati per i quali spenderà quest'anno ufficialmente più di 100 miliardi di euro, con un incremento del 10,7% rispetto al 2012.
C'è una Cina Dottor Jekyll, seconda potenza economica del mondo che parla di socialismo di mercato e soft power. E c'è una Cina Mr. Hyde, attratta dal nazionalismo e dalla forza militare, che si esercita ad affondare portaerei e lancia slogan bellicosi.

Corriere 25.3.13
Le ultime ore di Goethe «Più niente!» Sipario
La messa in scena beffarda e nichilista di Bernhard
di Pietro Citati


Appena apriamo il nostro album di ritratti ad olio, di disegni e di silhouettes, rivediamo Goethe ottantenne nella «sala gialla» della sua grande casa al Frauenplan, circondato da un gruppo di amici. Ad un tratto una maschera di noia appesantisce i suoi lineamenti. Vede intorno a sé sempre le stesse persone: il figlio, la nuora, i nipoti, il cancelliere von Müller, Eckermann, Meyer, Kraüter e non riesce a sopportare la loro devozione affettuosa. Nessuno lo contraddice: nessuno lo diverte. Ma lui non può vivere senza distrazioni ed eccitazioni: ha bisogno di passare da un interesse all'altro con la rapidità con cui si cambia un vestito; deve muoversi in una società vivace ed allegra, mentre lì, a Weimar, lo attende un lungo, insopportabile inverno... Così immagina di aprire la sua casa ogni giorno, all'ora del tè: «Ognuno verrebbe e resterebbe a suo piacere, e potrebbe portare con sé degli ospiti, quelli che preferisce. I saloni sarebbero sempre aperti e illuminati dopo le sette, e ci sarebbe del tè e tutto quello che ci vuole in abbondanza. Potremmo fare della musica, giocare, leggere ad alta voce, chiacchierare, secondo l'inclinazione e l'opportunità. Quanto a me, apparirei e scomparirei, come lo spirito mi suggerirebbe. E se qualche volta non comparissi affatto, questo non dovrebbe disturbare nessuno...».
Quando le porte della casa di Goethe si aprono, e gli amici si raccolgono lietamente a giocare, a leggere e a prendere il tè, altri umori regnano sopra la casa del Frauenplan. Una porta laterale della sala gialla si apre silenziosamente; e agli ospiti appare un vecchio signore incipriato e vestito di nero, che porta tutte le sue decorazioni sul petto e si muove rigidamente, come se dovesse celare un impaccio o fingere una maestà che non possiede. Il vecchio signore brontola, pronuncia tra sé qualche parola incomprensibile: regala ai suoi sudditi dei consigli di galateo; e ai suoi amici sembra che «un vento gelato e tagliente soffi sopra i nevai».
Questo vento gelido e tagliente sembra guidato da una volontà maligna, che vuole colpire, offendere e restaurare sopra il mondo il soffio del Nulla. Il vecchio incipriato abbandona le usanze da cortigiano, e assume i modi grandiosi e triviali di Mefistofele. I suoi occhi si incupiscono, la voce diventa acre, le parole scherniscono gli uomini, «questa genia assurda, bassamente e metodicamente assurda»: contraddicono, irridono, vituperano le cose più sacre. Poiché Mefistofele è il principe di tutti i conservatori, anche Goethe recita la parte del conservatore arrabbiato. Mentre i giovani studenti liberali si agitano nelle università tedesche, egli critica la libertà di stampa, si scaglia contro la legge che autorizza il matrimonio tra gli ebrei ed i cristiani; prende la parte dei turchi contro i greci, dell'ordine costituito contro chiunque, in Germania, in Spagna o in Italia, cerchi di rovesciarlo.
* * *
Nel 1982, centocinquant'anni dopo la morte di Goethe, Thomas Bernhard ebbe una idea divertentissima. Non aveva mai adorato Goethe; ed immaginò di volare segretamente a Weimar, assumendo la parte di un segretario o di un cliente sconosciuto. Voleva assistere agli ultimi tempi della sua vita. Portò con sé i suoi occhi beffardi e parodici; e il suo impagabile stile — con le parole che si ripetevano, il periodo-salsiccia o il periodo-lasagna, l'ilarità incontenibile, che trasformò Goethe, il suo mondo e se stesso in una farsa senza misura (Goethe muore, Adelphi).
Molte cose Bernhard riprodusse con fedeltà: altre inventò e parodiò con una sfacciata buffoneria. Il suo Goethe era un nichilista: preso da un accesso di basso pessimismo insultava tutti, il suo principe Ernesto Augusto, la un tempo amatissima Charlotte von Stein, Kleist, Hölderlin, Schiller, la giovane Ulrike von Levetzow, alla quale aveva dedicato versi meravigliosi, e sopratutto se stesso, un vero lestofante, che aveva ingannato i suoi cari tedeschi, annientando per due secoli la vita intellettuale della Germania. Diffamava, brontolava, scherniva i suoi segretari e clienti, in perenne litigio tra loro.
Sappiamo che, durante la vita, Goethe aveva risposto con prodigiosa precisione, come una specie di burocrate di se stesso, alle lettere che riceveva. Seduto al tavolino, prendeva i fogli di carta, lasciando da ogni parte un margine largo ed elegante; e cominciava a scrivere, intingendo delicatamente la penna nel calamaio, che non doveva essere mai troppo colmo.
Quante precauzioni doveva osservare! Le facciate delle lettere dovevano contenere lo stesso numero di righe: nessuna goccia di inchiostro poteva macchiare o adombrare il candore della carta; la lettera veniva lasciata asciugare per qualche minuto davanti alla stufa. Ma Thomas Bernhard, il nuovo segretario immaginario, ci assicura del contrario. Goethe non rispondeva mai o quasi mai a nessuna lettera: una volta scrisse a Edith Lafontaine, che gli aveva mandato alcune poesie per un giudizio, suggerendole di rivolgersi a Voltaire, il quale lo sostituiva nel ruolo di consulente letterario. Per il resto, le insulse segretarie catalogavano la insulsa corrispondenza; e poi Kraüter, Riemer ed Eckermann gettavano le centinaia di lettere giornaliere in enormi stufe, che riscaldavano la casa. Così il vecchio avaro risparmiava il prezzo della legna da ardere.
All'improvviso Goethe fu assalito -— Thomas Bernhard ci assicura con la consueta buffoneria — dalla passione per Ludwig Wittgenstein (che nacque nel 1889) e per il suo Tractatus logico-philosophicus. Lo ammirava moltissimo: certo si era accorto che molti dei suoi lampi, delle sue sentenze e dei suoi scorci si erano incarnati nella prosa del Tractatus. Ma Wittgenstein era andato molto più lontano di lui — insisteva Goethe; e lo eclissava. Il Tractatus era più bello e importante del Faust II, che aveva concluso da poco. «Sapere che la persona a lui più vicina era ad Oxford, anzi a Cambridge, e che a separarli c'era soltanto la Manica significava, per lui, Goethe, una gioia immensa».
Allora decise di invitare Wittgenstein a Weimar: non al vecchio albergo Elephant, dove scendevano tutti gli amici, ma proprio a casa sua, al Frauenplan, dove gli avrebbe fatto preparare due camere bellissime. Eckermann cercò di opporsi all'invito, ma lui lo insultò e lo cacciò, restando insensibile alle preghiere di tutte le donne e cameriere di casa, e al loro cicaleccio. Ordinò al segretario Kraüter di partire per Oxford o per Cambridge, coperto di un'enorme pelliccia, e di accompagnare Wittgenstein fino a Weimar.
Quando Kraüter fu in Inghilterra, a Oxford o a Cambridge, Wittgenstein morì improvvisamente di cancro. Così dobbiamo rinunciare al dialogo tra i due: dialogo che certo ci avrebbe riservato delle sorprese straordinarie. Goethe e Wittgenstein avrebbero parlato della tautologia, della contraddizione del dubitabile e del non dubitabile; e tutte queste parole sarebbero cadute nella prosa-salsiccia e nella prosa-lasagna di Bernhard, ripetute e variate fino all'ossessione.
Il 22 marzo 1832 — il giorno in cui Wittgenstein era atteso a Weimar — Goethe morì a mezzogiorno. Secondo la leggenda, pronunciò le più famose tra le sue parole: Mehr Licht! Più luce! Non sappiamo cosa significassero: forse non avevano nessun significato metafisico; ma erano soltanto un lieve cenno rivolto a un servo, perché spalancasse le finestre, mentre i suoi occhi si oscuravano, offuscati dalla prossima morte.
Secondo Thomas Bernhard, Goethe avrebbe detto invece Mehr nicht! Più niente! Bernhard giocava: ma queste erano certo le parole adatte a chi, negli ultimi anni, aveva ripetuto con la voce stridula di Mefistofele i mirabili versi:
«Passato! Una parola stupida.
Perché passato?
Passato è puro nulla, assolutamente lo stesso.
"È passato!". Che cosa vuol dire?
È come se non fosse mai stato,
eppure si agita in cerchio, come se esistesse».
* * *
Goethe morì seduto in una poltrona accanto al suo letto. Delirava: «Vedete quella bella testa di donna — con i capelli neri». Non poteva parlare, e così muoveva sulla coperta che gli nascondeva le ginocchia le sue grosse mani, che assomigliavano più a quelle di un contadino o di un artigiano che a quelle di un aristocratico. Disegnava nell'aria. Poi sentì le braccia diventare pesanti, e si mise a scrivere colle dita sulla coperta. Ogni tanto, faceva dei grossi e precisissimi segni di punteggiatura: virgola, punto, punto e virgola, punto esclamativo. Alla fine, disperse nell'aria una grande lettera, una W — la prima lettera del suo nome.
La sera del 6 novembre 1910, nella piccola stazione di Astapovo, dove Tolstoj era disperatamente fuggito, accadde qualcosa di simile. Il giorno prima della morte, Tolstoj era disteso nel letto del capostazione. La figlia Alessandra gli lavava il viso con ovatta ed acqua tiepida. Tolstoj sorrideva, socchiudeva gli occhi, aveva il visto tenero e tranquillo. Quando la figlia ebbe finito di lavargli una parte del viso, voltò l'altra parte e disse dolcemente: «Adesso l'altra, e non dimenticare di lavarmi le orecchie». Cominciò a delirare: credette di scorgere nella stanza una persona che non l'aveva salutato, scambiò un'amica di Aleksandra per Maša, la figlia morta, e col braccio magro e muscoloso prese per mano Tat'jana e non la lasciò andare.
Chiese che scrivesse sul diario i suoi pensieri, ma dettava soltanto delle parole incomprensibili. Poi volle che gli leggesse quello che aveva dettato. Non c'era nulla da leggere: ma lui insisteva disperatamente: «Leggimi quello che ho dettato. Perché taci? Cosa ho dettato?». Poi desistette; e passava inquietamente le mani sulla coperta, la sfiorava con le dita, avanti e indietro, avanti e indietro, senza fine, come se volesse incidere quello che nessuno capiva.
A un tratto disse: «Non posso addormentarmi, compongo sempre. Scrivo, e tutto si incatena armoniosamente».

Corriere 25.3.13
Elogio della noia (che rende creativi)
quei Pomeriggi di Noia che ci hanno Resi Creativi
Non è uno stato da combattere ma linfa per la fantasia
di Emanuele Trevi


Teresa Belton, studiosa inglese di problemi dell'infanzia, sostiene a sorpresa che la noia potrebbe essere la linfa dei processi creativi. Ma forse c'è di più: se non ci annoiassimo, cosa mai avrebbe il tempo di diventare davvero importante per noi?
Lasciate che i bambini conoscano la noia! È questo, in sostanza, l'appello lanciato da Teresa Belton, scienziata inglese esperta di problemi dell'infanzia e dell'apprendimento. Preziosa ed impalpabile sostanza della vita, la noia potrebbe essere considerata come la matrice di un'attività fantastica indipendente, la linfa segreta dei processi creativi. Teresa Belton se ne è convinta sollecitando i ricordi di infanzia di artisti e scrittori. Tutti cresciuti, ovviamente, in un tempo in cui i genitori non erano ancora così ossessionati dal folle proposito di animare in tutte le maniere le vite dei loro figli.
Per condizione anagrafica, capisco senza difficoltà questa prospettiva. I nostri genitori non ci amavano meno di quelli di oggi. Ma essendosi molto annoiati durante le loro infanzie, non vedevano nulla di male nel fatto che condividessimo la stessa sorte. Le cose erano andate così, in fin dei conti, fin da quando al mondo c'erano stati dei bambini. E non solo i genitori, ma tutti gli altri adulti che avessero una qualche responsabilità nella nostra vita (baby sitter, maestri e maestre, istruttori sportivi, parenti...) la pensavano allo stesso modo. Godevamo così di un accesso illimitato alle sterminate miniere della noia, sperimentate lungamente in una gamma praticamente infinita di variabili. La noia scolastica, la noia pomeridiana, la noia dei viaggi in macchina... E quella potentissima, quasi metafisica noia domenicale, che forse è l'incubatrice di tutti i destini individuali, di tutti i caratteri.
Le preoccupazioni della dottoressa Belton sono dunque tutt'altro che infondate. La privazione della noia potrebbe equivalere a un grave impoverimento antropologico. Mi convince di meno, però, l'idea di prendere le parti della noia facendone il presupposto non solo dell'immaginazione, ma anche di una concreta predisposizione alla creatività. Per natura, sono troppo incline alle sottili gioie della noia per non considerarla come un valore assoluto. Poco mi importa se il bambino che si è annoiato da grande riuscirà a scrivere un romanzo o a dirigere una sinfonia. Buon per lui: ma la noia è qualcosa che vale di per sé, non può assolutamente essere confinata a un ruolo ancillare, preparatorio. Dirò di più: è una forma d'arte degna di stare accanto alla musica, o alla letteratura. Esige, di conseguenza, un talento da allenare e sviluppare. Ma a differenza di altre forme d'arte la noia non punta a un'espressione, bensì a una relazione.
La situazione di partenza è sempre la stessa: da una parte ci siamo noi, e dall'altra c'è tutto quello che, per comodità, definiamo «il mondo». Se potessimo solo osservare il mondo come uno spettacolo, un puro intrattenimento, non avremmo nessun problema. Vivremmo nella condizione angelica di eterni spettatori. Il nostro problema è che, fin dai primi mesi di vita, noi siamo costretti a stabilire rapporti più complessi e duraturi con ciò che ci circonda. In minima ma decisiva parte, ciò che è all'esterno deve transitare all'interno, assimilato dalla memoria, dalle emozioni, dai desideri. Ed è qui che la noia interviene in nostro aiuto. Accompagnata dalle sue più fide compagne, la pigrizia e l'ansia, ci insegna a scegliere, nell'oceano degli oggetti e dei fenomeni, quelli che davvero possiedono un significato per noi. E non importa che questo significato per gli altri sia assurdo. Ciò che davvero conta è quello che siamo riusciti, ognuno a suo modo, ad amare e comprendere. Ma se non ci annoiassimo, cosa mai avrebbe il tempo di diventare davvero importante per noi? Solo la lentezza e la mancanza di distrazioni acuiscono la sensibilità, aumentano il grado e l'intensità dell'attenzione. Rendiamo dunque i dovuti onori alla noia, questa buona fata che ci costringe, sbadigliando, a scegliere ciò che è veramente utile per noi: l'unica ricchezza che nessuno ci potrà mai rubare.

Repubblica 25.3.13
Vite che non sono le nostre
Così gli psicologi spiegano perché ci ostiniamo a pensare a ciò che non è statro
Le occasioni perse che continuano ad ossessionarci
di Gabriele Romagnoli


“La sposa americana” la chiami, anche se non l’hai vista mai più. Perché consideri quei sette giorni il vero, perfetto, assoluto matrimonio della tua vita. Alle sliding doors, a tutte le direzioni che non hai preso. Che credi di non aver preso, perché le vite che non hai vissuto hanno vissuto te. Ti hanno occupato, consumato. Sono state il tuo sogno ricorrente, la tua fantasia, qualche volta il rifugio. Una frustrazione o un balsamo. Dipende da dove ti ha portato la vita che chiamano reale e da quanta saggezza riesci a metterci. Perché, nella peggiore delle ipotesi, potresti farti rodere dall’invidia per quella persona che non sei stato, dall’odio per quell’altra che vive in te, ma soltanto lì. E scaricare questo peso su chi ti sta accanto. O, alla fine, su te stesso.
Adam Phillips è uno psicologo inglese elevato dai suoi libri al ruolo di psicostar internazionale. È un abile divulgatore e un affabile conversatore. Il suo metodo consiste nel cogliere un barlume di senso acquattato nell’oscurità, enunciarlo e poi, una volta che ti ha colpito con quell’evidenza, allegare pagine di brevi saggi su argomenti limitrofi. Il prologo è il libro, ma il prologo in effetti vale un libro. Accade anche con questo Missing Out (Hamish Hamilton, 20 sterline), non ancora tradotto in Italia, ma già apprezzato nei Paesi anglofoni. Phillips si occupa delle vite non vissute e ci segnala questa considerazione: superata la sliding door delle scelte o degli accadimenti, con noi sulla strada prescelta viaggia l’ombra di quel che crediamo di non essere stati. Il fatto che questa idea irrealizzata sopravviva può essere accertato facilmente. Chiudete gli occhi e pensateci: non accompagnate un pezzo degli Stones immaginando il musicista che non siete? Non fantasticate a ogni happy hour sulla vita del single che non siete più da anni? O viceversa, se lo siete, mentre vi aggrappate al bancone non v’immaginate la presunta delizia di riabbracciare moglie e figlia al rientro? Se è così, e probabilmente è così, ha ragione Adam Phillips: state vivendo anche le vite di scorta. Vite che sono la vostra, anche se non ve ne rendete conto.
Un'altra psicostar, James Hillman, ebbe anni fa un successo planetario con un libro intitolato Il codice dell’anima. Vi si sosteneva la teoria che ciascuno ha dentro di sé un “daimon”, una vocazione, pressol’amante unica (Michael Jordan, atleta formidabile, eccelleva nel basket, ma fallì nel baseball). Può cercarla in sé e non trovarla mai. Può scoprirla per caso. Hillman racconta di una piccola bambina di colore salita su un palco di Harlem per un saggio di fine anno e annunciata come danzatrice che tirò la giacca del presentatore e disse a sorpresa: «Canto, invece». Era Ella Fitzgerald, improvvisamente consapevole di sé.
I testi di Phillips e Hillman sono complementari. Inseguiamo il “daimon”, lo evochiamo, ma spesso non riusciamo a incarnarlo. Allora permane in noi come ombra, illusione, frustrazione. Perché le vite che non sono la nostra ma che tuttavia viviamo non sono certo i pericoli scampati, i fallimenti evitati, i delitti non castigati. Quelli ce li lasciamo alle spalle con una scrollata, un po’ come l’oculista di Crimini e misfatti, uno dei più bei film di Woody Allen. Commissiona l’omicidio, non viene scoperto e si accorge con stupore che la sua vita va avanti, ripensa sempre meno a quel che ha fatto, non si immagina indagato, accusato, carcerato. Sono le mancate soddisfazioni a radicarsi dentro i nostri sogni. Che farne? La soluzione più semplice è continuare a inseguirle. Capita, seppur rare volte, che le porte girevoli, ruotando su se stesse, ripropongano a distanza di tempo l’uscita perduta. Un magistrato come Giancarlo De Cataldo o un dentista come Ala Al Aswany diventano scrittori di successo. Il capostazione Gianmaria Testa sfonda (in Francia) come cantautore. Un comico crea un movimento politico e vince le elezioni. Fiorentino Ariza ritrova Firmina Daza. Carlo, Camilla. Le vite di scorta si sostituiscono a quelle originali, il motore canta, sì viaggiare. Facile. Bello. E se non accade? Uno dei guasti più diffusi è la consegna del problema all’erede. Uomini e donne che hanno desiderato per sé un camice o qualche altra divisa iscrivono figli svagati a Medicina, li funestano con lezioni di pianoforte, li misurano per capire quando potranno finalmente essere futuri campioni di pallacanestro. Mai, probabilmente. Perché magari avranno le qualità che mancavano ai genitori ma non ne avranno (soprattutto se sobillati) la volontà. Ogni vita è unica, anche nel non vissuto. E proprio perché unica non può consentirsi di fronte al bivio, di qua o di là, la risposta: in entrambe le direzioni. La non scelta porta alla tragedia. Uno dei terroristi dell’11 settembre era sposato con una donna turca in Germania. La notte prima di morire ha fatto testamento e una lunga telefonata a lei piena di progetti dei quali appariva ed era convinto. È andato a schiantarsi pensando a come organizzare il ricevimento di famiglia a Beirut. Il caporal maggiore Salvatore Parolisi, omicida o no che sia, prenotò due soggiorni per le vacanze pasquali, uno con la moglie e l’altro con l’amante, come se potesse ubiquamente fruirne, avendo due vite.
Non accettare l’esistenza come irrimediabile può determinare un danno. Vivere è giocare alla roulette. Si fanno scelte continue et rien ne va plus. Il colore su cui la pallina si ferma determina la vincita, poi c’è un altro turno e, come invita il croupier, ognuno rifà il suo gioco. Chi si ferma a riesaminare, rimpiangere, rivivere il giro di ruota precedente perde possibilità. Perde e basta. Succede a tanti, un po’ a tutti. Ecco perché i casinò prosperano e il destino è considerato crudele mentre è, nient’altro.