martedì 26 marzo 2013

l’Unità 26.3.13
Bersani: governo senza Pdl
«Per cambiare serve una linea coerente»
«Niente scambi sul Quirinale» Bersani prova a fare il miracolo
I sindacati al leader del Pd: «Governo per l’emergenza»
Camusso: «Via l’Imu sotto i mille euro»
di Simone Collini


No a un governo insieme, sì a scelte condivise su presidenze delle commissioni, metodo e merito delle riforme istituzionali e anche sul profilo del prossimo Capo dello Stato. Bersani andrà a riferire domani al Quirinale e determinante, per capire se il «governo di cambiamento» possa vedere la luce, sarà l’incontro di oggi con Pdl e Lega.
Com’è stato per le consultazioni al Colle con il Capo dello Stato, Pdl e Lega andranno insieme dal premier incaricato. Una decisione che non ha colto di sorpresa Bersani. Un canale di comunicazione tra il Pd e le forze di centrodestra è stato infatti aperto da giorni. Il problema è che il confronto si è incagliato in particolare su un punto: l’elezione del successore di Giorgio Napolitano.
«Non possono venirmi a dire facciamo scambi», spiegava ieri sera Bersani incontrando i membri della Direzione del partito. Il fatto è che la strategia del «doppio binario» governo di coalizione, corresponsabilità sulle riforme istituzionali non piace al Pdl. Silvio Berlusconi (che non andrà oggi alle consultazioni) e Angelino Alfano (che guiderà la delegazione di centrodestra insieme a Roberto Maroni) hanno esplicitamente proposto al Pd il via libera a un governo a guida Bersani a patto che il prossimo Presidente della Repubblica sia espressione del centrodestra.
Una richiesta irricevibile per il Pd. Per più motivi, come ha spiegato Bersani: perché «non si possono portare le istituzioni a questo livello», perché adesso si sta affrontando la questione di dare un governo al Paese e di Quirinale «si discuterà a tempo debito» e perché fermo restando che le istituzioni sono di tutti e quindi andrà ricercata una «comune assunzione di responsabilità», il confronto deve avvenire a livello di principi, di profilo, non di nomi.
Il Pdl però non vuole saperne di questa impostazione, e a niente è servito che il Pd abbia garantito la presidenza di diverse commissioni parlamentari al centrodestra e anche ipotizzato per loro la guida del gruppo di lavoro che dovrà affrontare le riforme istituzionali (Senato delle autonomie, riduzione del numero dei parlamentari e anche legge elettorale). Berlusconi vuole chiudere un accordo sul Colle ora, benché si comincerà a votare per il successore di Napolitano soltanto nella seconda metà di aprile. E vuole il via libera a un esponente, per dirla con Alfano, «proveniente dalla nostra area».
È questa la vera partita che sta giocando il Pdl, non quella per arrivare a un governo di larghe intese con il Pd, che non ha alcuna possibilità di vedere la luce. Berlusconi lo sa, ma usa l’argomento come strumento di pressione per l’altro scacchiere. All’uscita del leader del Pdl sull’ipotetico via libera a un esecutivo Bersani se a fare il vicepremier fosse Alfano, il segretario del Pd ha risposto con una battuta secca: «Ormai siamo al dunque, bisogna che facciamo discorsi seri». Tanto più che, parlando ai deputati e senatori del Pdl, ieri Berlusconi ha annunciato che intende organizzare nelle prossime settimane altre manifestazioni come quella di sabato a Piazza del Popolo. «Non si può al mattino annunciare la guerra mondiale e al pomeriggio proporre degli abbracci», ha risposto il leader Pd ai giornalisti incontrati al termine della terza giornata di consultazioni con le parti sociali.
Una giornata, quella di ieri, ancora una volta caratterizzata dall’allarme lanciato dagli interlocutori accolti nella Sala del Cavaliere di Montecitorio e dalla convinzione di Bersani che altre strade, per quanto la sua sia stretta e in salita, non sono in realtà percorribili. «È una situazione difficilissima, di crisi acuta. Se uno facesse la somma dei bisogni impellenti ricaverebbe il governo dei miracoli. I miracoli non si fanno ma uscirne si può».
Il momento migliore, per Bersani, ieri è stato quello in cui ha incontrato Don Ciotti, che ha negato con un sorriso di poter essere ministro di un governo Bersani («Sono da 42 anni ministro della Chiesa») e ha speso parole benevole nei confronti del leader Pd: «È un uomo duro, che non molla facilmente e ce la metterà tutta a cercare una soluzione. Mi sembra che ci sa lo spirito di servizio per il bene comune del Paese e questo mi sembra molto importante».
Oggi si entra nel vivo delle consultazioni, con Bersani che inizia ad incontrare le forze politiche. Il confronto con la delegazione Pdl-Lega sarà importante perché ormai è chiaro che il governo Bersani potrà partire soltanto se Movimento 5 Stelle e centrodestra non voteranno tutti insieme contro la fiducia. I capigruppo del M5S Roberta Lombardi e Vito Crimi vedranno il premier incaricato domani, e il fatto che l’incontro verrà mandato in diretta streaming fa ben capire che non ci sono margini d’intesa con i Cinquestelle. Bersani dovrebbe rilanciare l’appello a «non impedire un governo di cambiamento» e i grillini ribadiranno che non voteranno la fiducia.
E allora, per poter prendere la fiducia al Senato, al leader Pd servirà il voto di Monti e dei 20 senatori di Scelta civica (che verrà ricevuta oggi pomeriggio dopo Pdl e Lega) e però servirà anche la garanzia di un atteggiamento di non sfiducia da una parte del centrodestra. Non a caso i calcoli adesso si stanno facendo sulla base di un’assenza al momento del voto dei 17 senatori leghisti e dei 10 del gruppo Autonomia e libertà, che farebbe scendere la maggioranza a quota 145. Centrosinistra e montiani al momento sono a 144 voti. Ne basterebbe uno in più per arrivare a meta. Il Pdl lo sa, e vuole giocare fino all’ultimo la sua partita per il Colle.

il Fatto 26.3.13
“Qui serve un miracolo” La politica riscopre la crisi
Il segretario Pd preoccupato dopo l’incontro con le parti sociali
tra Cipro, rating, recessione e vincoli europei
di Stefano Feltri


L’argomento serve a Pier Luigi Bersani per convincere gli altri a lasciare a lui il cilicio del governo: “La situazione è drammatica, lo hanno detto tutti. Ieri il presidente di Confindustria è stato chiarissimo. Si pensa che la crisi sia alle nostre spalle e invece è tutta davanti a noi”. Falliti i messaggi dai toni grillini, quelli su casta e costi della politica, il segretario del Pd riscopre la crisi. Ma il movente non indebolisce la correttezza dell’analisi: le cose stanno peggiorando e di miracoli (che nella religione dei mercati significano interventi del dio della Bce) non se vedono.
LA GIORNATA DI IERI dimostra quanto è fragile il contesto finanziario che permette all’Italia di preoccuparsi dei partiti e non della propria sopravvivenza: dopo l’accordo su Cipro, basta una dichiarazione infelice del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem e le Borse cominciano a crollare. L’idea che il modello cipriota – scaricare su creditori e depositanti il costo della ristrutturazione delle banche in crisi – possa diventare il nuovo paradigma, ha suggerito agli investitori di vendere tutto, soprattutto i titoli del settore del credito. Come se non bastasse, la fuga dalle banche italiane è stata alimentata da voci di un possibile taglio del rating della Repubblica italiana da parte dell’agenzia di rating Moody’s (che non ha smentito, ma neppure confermato). Morale: Intesa Sanpaolo crolla del 6,21 per cento, il Banco Popolare del 5,86, Unicredit del 5,81. La ragione è ovvia: un rating più basso ridurrebbe il valore dei titoli di Stato in cui hanno investito pesantemente le banche italiane (anche per sopperire alla freddezza degli investitori esteri).
Basta un soffio, insomma, a innescare una nuova ondata di panico. Che questa volta non passerà per lo spread – perché molto debito è tornato in Italia e gli italiani non lo vendono –, ma dalla tenuta stessa del sistema bancario. Che è stretto tra calo dei margini, investimenti sbagliati e crediti in sofferenza in aumento, con la Banca d’Italia che intima di fare pulizia nei bilanci, facendo emergere la vera entità delle perdite.
Bersani ha detto che parlare con sindacati e Confindustria ha confermato che bisogna fare in fretta. Ma la lista dei problemi da risolvere è nota da tempo. La priorità di Giorgio Squinzi e degli imprenditori che rappresenta è costringere lo Stato a pagare almeno una parte dei 70 miliardi che deve alla pubblica amministrazione. Ieri il premier Mario Monti, in una relazione al Parlamento, ha chiarito che le premesse ora ci sono tutte: ad aprile l’Italia uscirà dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo e a quel punto, entrando nella “parte preventiva” del Patto di stabilità (cioè quella dei Paesi che hanno un deficit sotto il 3 per cento). E potrà così iniziare a pagare, come annunciato, 20 miliardi all’anno per due anni. Ma ci sono una serie di passaggi formali che dipendono tutti dalla politica: le Camere devono approvare le variazioni ai saldi di bilancio, cosicché il governo sia in condizione di emanare un decreto legge. Più dura lo stallo tra i partiti, più imprese chiuderanno e più aumenteranno i disoccupati. Prima la colpa poteva essere scaricata su Bruxelles, ora è tutta di Roma.
QUANTO AI SINDACATI, la Cgil pare aver archiviato i suoi monumentali progetti di interventi keynesiani per 50 miliardi di euro per accontentarsi di cose più immediatamente ottenibili. Servono interventi sul cuneo fiscale (la differenza tra quanto un lavoratore costa all’impresa e quanto ottiene in busta paga). E anche questi, sostiene Monti, ora sono fattibili grazie alle aperture europee (che permettono anche di far uscire dal conto del deficit le spese per investimento co-finanziate dalla Commissione). I disoccupati sono arrivati a 3 milioni, il Pil del 2013 in calo, pare, di un altro 1,8 per cento rischia di produrne altre decine e decine di migliaia. Alcune economie limitrofe all’Italia stanno iniziando a rallentare, Germania e Francia su tutte, mettendo a rischio anche le imprese che esportano, ultimo motore rimasto per la crescita.
“Questi incontri con le forze sociali ci portano a dire che questo Paese è nei guai e che sono destituite di fondamento tutte le leggerezze della discussione che c'è in giro”, ha ribadito Bersani nella direzione del Pd. Ci vorrebbero miracoli. Ma prima di tutto ci vorrebbe un governo.

Corriere 26.3.13
Il Pd alza i toni per ottenere un sì finora improbabile
di Massimo Franco


Pier Luigi Bersani ce la sta mettendo tutta. Consulterà i partiti fino a domani, per poi tornare da Giorgio Napolitano a riferire. Ma passi avanti non se ne vedono, anzi. Il movimento del comico Beppe Grillo è fermo sul suo «no» a tutto; ed è determinato a rendere pubblico il colloquio di domani col segretario del Pd. E la speranza del presidente del Consiglio incaricato di staccare la Lega dal Pdl è naufragata. Ieri sera il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha annunciato che oggi andrà da Bersani in delegazione insieme con il capo del Carroccio, Roberto Maroni; dunque, niente incontro separato. Rimane la sensazione finale di un tentativo frustrato da ostacoli insormontabili. Almeno finora, non sono serviti a molto gli appelli a fare presto venuti da sindacati e imprenditori.
Fra la drammaticità delle loro parole sulla crisi economica, e i veti incrociati dei partiti, rimane una distanza siderale. Il Pd non vuole nessun accordo con Silvio Berlusconi: ritiene che l'elettorato non lo capirebbe, e anzi punirebbe qualunque passo in quella direzione. Bersani considera l'apertura di una trattativa col Cavaliere un suicidio a tutto favore del movimento grillino. Ma il risultato è uno stallo che viene imputato alla rigidità della sinistra. Berlusconi lo sa bene. Per questo insiste per un governo Pd-Pdl-Scelta civica di Mario Monti, e propone Bersani premier e Alfano vice: proposta non seria, si risponde.
Ma per il presidente del Consiglio incaricato i passaggi diventano ancora più stringenti. E il suo problema non sono soltanto le alleanze e il tentativo di strappare una qualunque fiducia al Senato, dove non ha una maggioranza. Deve anche salvaguardare la compattezza di un Pd che non sembra unanime né per il modo in cui il leader ha cercato un contatto con il Movimento 5 Stelle; né per le offerte al Carroccio; né per il «no» secco al Pdl, che implicitamente lascia affiorare qualche divergenza con lo stesso capo dello Stato, Giorgio Napolitano. L'insistenza con la quale il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, ieri ha avvertito che «qualunque tentativo dopo questo è peggiore per l'Italia e per il Pd», sa di ultimatum anche rispetto ad un eventuale «governo del Presidente».
L'assenza del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, dalla Direzione del partito di ieri sera non è un bel segnale, nonostante il segretario minimizzi qualunque contrasto con il suo avversario delle primarie. D'altronde, più il suo tentativo di andare a palazzo Chigi va avanti, più si intravede una doppia difficoltà di fondo. La prima è che gli equilibri parlamentari sono oggettivamente tali da rendere complicatissima qualunque soluzione. La seconda è che, proprio perché dare stabilità all'Italia sarà difficile, i partiti, senza distinzione, già hanno un occhio alla fine della legislatura: prossima o meno che sia. E dunque, ognuno gioca a dimostrare di avere fatto il possibile per trovare una soluzione; e intanto si prepara a scaricare la responsabilità del fallimento sugli avversari.
Non è un caso se ieri Alfano ha parlato più di sondaggi elettorali che di governo. «Il Pdl è sopra il 24 per cento», ha annunciato. «E la coalizione con la Lega si colloca al 31,4% mentre il centrosinistra è sotto di 1,50 punti». Conclusione: siamo primi, sostiene, preannunciando una campagna elettorale all'attacco. La scelta berlusconiana di mobilitare le piazze va nello stesso senso. E riflette il sospetto che nel Pd bersaniano possa prevalere la tesi di chi ritiene inevitabile votare prima dell'estate, se il tentativo del segretario fallisce. Si tratta di una prospettiva che il Quirinale cerca di evitare. Napolitano teme una deriva antisistema e riflessi internazionali pesanti. Le voci di un ulteriore declassamento del debito italiano ieri sono circolate di nuovo. E fanno apparire ancora più discutibile lo sterile gioco di posizionamento dei partiti.

Repubblica 26.3.13
Pierluigi vuole la sfida in aula
di Goffredo De Marchis


PREPARARSI al secondo round al Quirinale. Senza offrire la certezza dei numeri che Giorgio Napolitano ha chiesto espressamente. Mancano ancora due giorni di consultazioni, fra l’altro quelle decisive con i partiti, ma Bersani pensa già all’appuntamento di giovedì al Colle.

HA MESSO in conto lo stallo e l’ipotesi di proporre al capo dello Stato «un avvio della legislatura» con il suo governo anche in mancanza di un paracadute sicuro. Il presidente dovrebbe quindi compiere un atto di fede. Credere, insieme con il segretario del Pd, nel miracolo.
Oggi e domani Bersani si giocherà le carte finali. Cominciando da Scelta civica perché se anche Mario Monti si sfila, non si può nemmeno tentare l’azzardo. Ieri il premier incaricato e quello uscente hanno parlato a lungo al telefono. Al Professore si chiede un appoggio pieno al governo del cambiamento, sulla base di una
forte impronta europeista. Bersani ha sottolineato l’esito del dibattito di ieri alla Camera, la paradossale sintonia di Pdl e Movimento 5stelle in una critica all’Unione. Il tutto condito da attacchi feroci a Monti. «Noi ci stiamo, ma vogliamo un esecutivo che non nasca sulla base di uscite dall’aula o voti sparsi — ha risposto il premier — . Dev’essere stabile e con una maggioranza riconoscibile». L’apertura c’è. L’appello alla responsabilità in un momento delicatissimo può fare il resto e regalare, dopo le consultazioni di oggi, il sì dei centristi. Ma anche così i voti non sono sufficienti e per questo Bersani lavora sul doppio binario delle riforme istituzionali con il centrodestra.
La prima di queste “riforme”, la più sentita da Berlusconi, è la scelta del nuovo presidente della Repubblica. La vera garanzia risiede al Colle, dura sette anni e, come si è visto nel recente passato, è centrale per i destini di ogni governo, ogni maggioranza. La trattativa è avviata, ma non registra passi in avanti. La minaccia del Partito democratico però cresce d’intensità. «Possiamo tagliare fuori il Pdl dall’elezione del presidente. Gli conviene?». I numeri, in questo caso, sono certi. Il quorum per eleggere l’inquilino del Colle, a maggioranza semplice, è 505 voti. Il centrosinistra, con i delegati regionali, dispone di 480 preferenze. «Noi — ragionano a Largo del Nazareno — abbiamo tre risultati utili a disposizione. Berlusconi uno solo». Il Pd può eleggere il capo dello Stato con una maggioranza larga che comprenda il Pdl, ed è la strada offerta al centrodestra, come ha detto ieri Enrico Letta. Ma può farlo con Monti e basta. In casi estremi, riuscirebbe ad eleggerlo da solo, magari proponendo
un nome gradito ai grillini (che sono 160) sul modello Pietro Grasso. «Questi conti — spiegano gli sherpa democratici — Berlusconi li ha fatti prima di noi». Detto questo, il Cavaliere avrebbe la possibilità di trovare l’intesa su un nome, non di avanzarne uno suo. Ma è proprio questo che sta chiedendo con insistenza al Pd attraverso i mediatori in campo. Di essere lui a indicare il presidente, di pescare dal mazzo la persona giusta, anche in una rosa di centrosinistra. Sarebbe il suggello di un vero accordo politico con i democratici.
«Con 480 voti contro, la proposta è irricevibile», risponde un leader del Pd.
Le difficoltà di Bersani con i voti al Senato e l’ipoteca di Berlusconi sul Quirinale rendono oggi la strada del premier incaricato complicatissima. Per questo ieri appariva molto più vicino il ritorno alle urne. «Non accetto sotterfugi — ragionava il Cavaliere con i suoi collaboratori —. Sono disponibile a un’intesa alla luce del sole, politica. Altrimenti, andiamo al voto e la facciamo finita». Il segretario del Pd si prepara al colloquio
con il capo dello Stato puntando su impegni garantiti anche se non ci sono numeri certi. A partire dal profilo dei ministri, che rivelerà a Napolitano. Saranno uomini e donne scelti con la massima apertura e dal curriculum impeccabile. In grado di aprire un confronto dentro tutte le forze parlamentari, dai grillini alla Lega. «Ognuno troverà qualcosa di positivo nel nostro governo», ha detto qualche giorno fa Bersani e si riferiva alla squadra. Al presidente della Repubblica presenterà anche il calendario delle riforme istituzionali (riduzione dei parlamentari, Senato delle autonomie, legge elettorale) con le scadenze per ogni provvedimento presentato. Tra i 12 e i 18 mesi, il percorso dovrebbe essere completato. Sarebbe quello anche l’orizzonte temporale dell’esecutivo.
A Largo del Nazareno scommettono che su queste basi Napolitano possa convincersi e «mandare il governo alle Camere per cercare la fiducia sulla base del programma e delle competenze». Un governo del Presidente non potrebbe fare di più e di meglio, dicono gli uomini del segretario. «Sarebbe una via ancora più stretta della mia», ripete Bersani. Oggi e domani bisogna ancora giocarsi la carta delle alleanze possibili. Perché la risposta del Quirinale in caso di numeri certificati si conosce già. Quella davanti a un’avventura più rischiosa, no.

Corriere 26.3.13
Quirinale, quei nove voti che mancano al Pd
di Dino Martirano


Gli equilibri per il nuovo capo dello Stato: centrosinistra costretto ad allearsi
ROMA — La mattina del 10 maggio del 2006, dopo tre fumate nere, Giorgio Napolitano ottenne 543 voti e dunque, avendo superato abbondantemente la maggioranza richiesta dal terzo scrutinio in poi — la metà più uno dei componenti del Parlamento in seduta comune — risultò eletto alla carica di presidente della Repubblica, con il centrodestra che scelse di votare scheda bianca. Questa volta però, in mancanza di un accordo con Silvio Berlusconi, al centrosinistra mancherebbero nove voti per eleggere un suo candidato. Ovviamente, se ai 495 grandi elettori di Pd e Sel si unissero i 71 centristi di Monti e Casini, scatterebbe agevolmente la maggioranza della metà più uno richiesta dopo il terzo scrutinio (495+71=566). Invece, un'eventuale alleanza tra centrodestra e Monti (268+71=339) non sarebbe risolutiva.
Sette anni dopo, con un quadro politico ancor più frammentato, gli strateghi della corsa per il Colle tornano a disegnare gli scenari possibili. Come stabilisce la Costituzione, ai primi tre scrutini è richiesta la maggioranza dei due terzi che in questa tornata presidenziale corrisponde a 671 voti mentre, a partire dalla quarta votazione, il quorum scende alla metà più uno: in mancanza di un accordo tra i partiti, 504 è, appunto, il numero magico per eleggere la più alta carica dello Stato. Il plenum, infatti, è composto da 1007 grandi elettori: 630 deputati, 315 senatori, 4 senatori a vita, 58 delegati regionali (tre per Regione, tranne la Valle d'Aosta che ne elegge uno solo).
Le forze in campo in Parlamento, dunque, vanno «tarate» con il peso che avranno gli eletti nelle venti Regioni: «Secondo una prassi consolidata — spiega Eros Brega, presidente dell'assemblea regionale umbra che coordina la Conferenza dei parlamenti regionali — vengono eletti il presidente del Consiglio regionale, il governatore in carica e un vicepresidente di solito espressione dell'opposizione». Così ogni Regione invia a Roma tre grandi elettori: su base locale, due della maggioranza e uno di opposizione. Il Friuli Venezia Giulia — dove si vota il 21 aprile — è l'unica Regione che ha già eletto i suoi grandi elettori: sono il presidente Maurizio Franz (Lega), il vicepresidente Luca Ciriani (Pdl) indicato dal governatore Renzo Tondo e il consigliere Franco Brussa (Pd).
Tutte le altre assemblee, aggiunge il direttore generale della Conferenza dei parlamenti regionali Paolo Pietrangelo, «hanno concordato di eleggere i propri delegati entro il 15 aprile», giorno in cui il presidente della Camera Laura Boldrini farà conoscere la data in cui il Parlamento è convocato in seduta comune. Così già ora si possono pesare le quote dei grandi elettori regionali: al Pd spetterebbero 24 delegati mentre a Sel ne andrebbero 3: 27 in tutto, compresi quelli della Svp che, sommati ai 468 parlamentari in carica, portano il centrosinistra a quota 495. Si parte, dunque, da questa base per tentare di raggiungere il quorum di 504, oltre il quale dal quarto scrutino si elegge il presidente della Repubblica. Mancano nove voti, appunto, e c'è chi già pensa almeno a tre senatori a vita (oltre ad Emilio Colombo ci sono anche Giulio Andreotti e Carlo Azeglio Ciampi che però, da molti mesi, non sono presenti in Aula), agli ex Pd e agli ex Fli eletti nel partito di Mario Monti (anche lui senatore a vita), alla decina di senatori grillini che grazie anche alle indicazioni di Salvatore Borsellino hanno votato per Pietro Grasso (Pd), ai 3 delegati regionali dell'Udc (due dei quali, a partire dal siciliano Giovanni Ardizzone, sono alleati del Pd al livello locale). A Pier Luigi Bersani, allora, non mancherebbero le combinazioni possibili per superare «quota 504». Invece le altre alleanze sfruttando i voti regionali sembrano impossibili anche perché il Pdl otterrebbe 21 delegati mentre 4 andrebbero alla Lega, 3 all'Udc, 2 al M5S, 1 all'Union Valdôtaine che ha un accordo con il centrodestra. Fatte le addizioni, i grandi elettori del centrodestra, aggiunti i 71 di Monti saranno 339. E sommando, con uno sforzo di fantasia, i 164 grillini si arriverebbe a 503. Vicinissimi all'obiettivo, ma questa è fantapolitica.

l’Unità 26.3.13
Dalla Direzione l’invito all’unità per la «prova del 9»
Si riunisce il parlamentino ma non vota. Assente Renzi, Bersani tranquillo: «Mi sono abituato». Discussioni rinviate. Letta: «Possiamo farcela»
di Maria Zegarelli


Una direzione lampo, relazione introduttiva di Enrico Letta, tentativo (subito fermato da Franco Marini) di Vittoria Franco per aprire una riflessione sul voto e sul percorso, conclusioni del segretario Pier Luigi Bersani. Momento delicatissimo per il Pd e per il tentativo di far nascere un governo, rinviate le discussioni, tutto accadrà dopo giovedì, dopo che Bersani salirà al Colle e si saprà se la sua è una strada difficile ma con uno sbocco in fondo al tunnel oppure una strada senza uscita. Ieri la direzione democratica ha preso atto dello stato dell’arte, di quanto faticoso sia il tentativo di creare le condizioni affinché ci siano i numeri al Senato e di quanto sia necessario restare uniti in questo momento, in queste ultime cruciali 48 ore. «Siamo alla prova del nove, ma possiamo farcela. Sappiamo che la strada è difficile ma diventa impossibile se non c’è unità del partito», dice il vicesegretario Letta incontrando il gruppo Pd alle 3 del pomeriggio. «Muoviamo dalla consapevolezza che qualunque tentativo dopo questo è un tentativo peggiore per l’Italia e per il Pd. L’interesse del Paese è avere oggi un governo stabile. Se non c'è iniziativa politica il sistema è in un cul de sac dal quale non si esce. Una soluzione dinamica è l’unica che può muovere un quadro bloccato, nuove elezioni non darebbero una soluzione», ripete a sera durante il parlamentino democratico che si riunisce e non vota la relazione, non ce n’è bisogno, non ora.
Letta e Bersani parlano alle forze parlamentari, tutte, affinché quel doppio binario governo di scopo ancorato agli otto punti con priorità al lavoro e alla crisi sociale e riforme costituzionali condivise non si trasformi in un binario morto. I vertici del partito, che stanno seguendo le consultazioni non si lasciano spaventare dalle sparate di Berlusconi ma sanno che tutto è appeso ad un filo. Tutto dipende dalle valutazioni che farà il Cavaliere sui vantaggi di un ritorno immediato alle urne. E da questa decisione dipende anche la Lega, appesa al Pdl sotto il ricatto delle giunte del Nord che potrebbero cadere come frutti ormai andati se il Carroccio prendesse decisioni in autonomia rispetto al governo Bersani.
Ma sotto la cenere il fuoco brucia nel Pd. Bruciano le parole di Graziano Del Rio, «niente capricci» per Pd e Pdl se si dovesse arrivare a un governo di larghe intese, brucia quell’intervista (in parte smentita) dell’altro renziano, Matteo Richetti, che sulle pagine di Repubblica tuona: «Prima o poi dovremo fare un ragionamento sul dato reale delle elezioni. Scopriremo che il Pd è praticamente finito. Se oggi facessimo una lista civica “Renzi per cambiare l'Italia” prenderebbe molti più consensi del partito democratico. E questa è l'unica strada da percorrere». È come, riflettono i bersaniani, aprire un argine che può travolgere tutto. Corre ai ripari il neoparlamentare, «mai parlato di scissione, nessuna strategia contro Bersani», ma è tutto inutile, la polemica divampa sul web e scorre lungo il Transatlantico. Matteo Renzi in mattinata conferma che non verrà alla direzione, «convocata in fretta», aveva altri impegni, ma comunque, ribadisce che a lui non piacciono «le terapie di gruppo». Pier Luigi Bersani getta acqua sul quel fuoco che invece si alimenta. Renzi non viene? «Mi sono abituato». Tensioni con i renziani? «È evidente ci sono personalità diverse ma la lealtà verso la missione comune è indiscutibile non dovete immaginare cose che non esistono, non c'è nessun problema». Renzi: «Confermo che i rapporti con Bersani sono ottimi. La mia serietà e lealtà sono fuori discussione».
«Questo chiacchiericcio, non solo da parte dei renziani, ma anche da parte di altri che prefigurano ipotesi B, C e D, è segno di immaturità politica», commenta Francesca Puglisi. Il senatore Sergio Lo Giudice twitta: «Le dichiarazioni di Richetti su una lista alternativa al Pd, fatte in questo momento, sono assolutamente vergognose».
Non solo i renziani, anche i veltroniani. I franceschiniani fanno scudo intorno al segretario, ma ognuno con intensità e sfumature diverse. Nessuno lo dice apertamente ma nel Pd sono tanti quelli che lavorano al piano B, il governo del Presidente, personalità di alto profilo e dentro tutti: Pdl, Lega, Pd, Lista Civica, e «poi vediamo se Grillo dice no a un governo così». La prodiana Sandra Zampa posta fu Facebook: «Penso che la vera e prioritaria lista che serve al Paese è: insieme nel Pd per salvare l'Italia».
Ecco perché Marini chiede la parola dopo Franco in direzione per dire che «bisogna continuare con una posizione di fondo che abbiamo già dato e stasera confermiamo. Non apriamo un dibattito sui contenuti. I punti sono quelli, Letta ci ha fornito altre indicazioni e la riconferma di una scelta politica fatta è assolutamente necessaria». Ecco perché Rosy Bindi interviene e definisce «saggia» la proposta dell’ex presidente del Senato.

La Stampa 26.3.13
Un partito a rischio implosione
di Elisabetta Gualmini


Ha ragione Enrico Letta. La soluzione del «doppio registro» per formare un governo a guida Bersani è «molto complicata da spiegare». È anche molto complicata da capire, perché - semplicemente - non sta in piedi. Ameno di un accordo, che da sotto il banco dovrà essere certificato alla luce del sole entro giovedì, su tatticismi parlamentari che ne consentano un qualche avvio, forse con l’aiuto della Lega e del Movimento delle Autonomie, possibile solo se c’è il beneplacito di Berlusconi. Un governo di minoranza sull’economia, sulle politiche sociali e la moralizzazione della politica, a cui dovrebbero non si sa come affiancarsi larghe intese per le riforme istituzionali. Delle due l’una. O i numeri parlamentari ci sono, e il patto con Berlusconi è già nelle cose, per consentire almeno una non-sfiducia, oppure l’estremo tentativo di Bersani è in realtà un modo per dire: io a Palazzo Chigi (piuttosto improbabile) oppure (quindi) elezioni subito.
Messa così, sarebbe l’atto finale di una lunga deriva. Il punto di non ritorno per un partito senza bussola da tempo. In assenza di un coup de théâtre che per ora sfugge, l’accanimento terapeutico di Bersani (su se stesso) e il tentativo di pescare voti in Parlamento mettendo un menu à la carte a disposizione di qualsiasi interlocutore sta portando dritto all’implosione dei democratici. Con l’aggravante di aver temporeggiato rievocando la liturgia degli incontri con le parti sociali, dalle più rilevanti a quelle poco sopra la soglia della riconoscibilità, le quali hanno ripetuto com’era già ovvio che il paese è alla canna del gas. Lo sappiamo con certezza almeno dal 2009, quando in un anno rispetto al 2008, il Pil si ridusse di oltre il 5%, bruciando quasi la metà della ricchezza prodotta nei precedenti 10 anni. Dopo le cose non sono andate meglio.
L’indizio di un avvitamento che sarebbe diventato mortale, per il Pd, lo si vede da tempo. È la diretta conseguenza di una strategia di totale chiusura all’interno, dell’ossessione di voler parlare soprattutto ai propri elettori tradizionali, paradossalmente compensata dal massimo dell’eclettismo nelle alleanze esterne. Senza alcun distinguo. Senza disdegnare nessuno (dai radicali all’Udc, da Monti a Grillo, da Maroni a don Ciotti, da Vendola a Montezemolo, da Di Pietro a Grasso). Purché lontani dal nocciolo duro del partito. Qualsiasi cosa fuori. Muri alzati e tolleranza zero dentro.
Dal 2010 in avanti, il Pd ha cercato di allearsi con l’Udc durante le regionali, mentre nel Lazio sosteneva Emma Bonino. Poi è arrivata la foto di Vasto, un matrimonio ufficializzato con la benedizione della Cgil. Saltando qualche passaggio, è venuto il momento del nuovo Centro montiano, alleato naturale prima delle elezioni. Per poi virare a 360 gradi e andare con il cappello in mano di fronte ai 5 stelle nel post-elezioni. Siamo ora alla ricerca, non tanto nascosta, di un accordo con i Barbari sognanti della Lega (sempre più sovraeccitati intorno al progetto della Macroregione del Nord e al conseguente abbandono al suo destino del Sud), con il benestare del Pdl (il cui aiuto tuttavia si continua pubblicamente a rifiutare). Ovviamente, ciascuna di queste «strategie» di coalizione ha comportato un nuovo «posizionamento». Dalla piena responsabilità verso i vincoli europei con Monti, al superamento della sua agenda, dalla difesa delle province ai tagli draconiani della politica.
Eppure, nonostante questa strabiliante flessibilità, Bersani si dimostra inflessibile verso l’unica formula che parrebbe ragionevole al senso comune, e forse anche all’intuito di chi vede le cose dal colle più alto.
Tanto che il breve discorso, stanco e crepuscolare, del segretario, potrebbe addirittura suonare come un freno preventivo al Presidente Napolitano, il quale molto probabilmente proporrà, per salvare il salvabile, un governo di tutti e di nessuno, a tempo determinato, con obiettivi ben precisi di riforma delle regole istituzionali. Un messaggio forse più vero ma molto diverso da quello che Bersani aveva lanciato nella Direzione del 6 marzo: «Siamo alternativi al populismo. Siamo nelle mani del Presidente della Repubblica».

Corriere 26.3.13
Una fronda nel Pd prepara il piano B
Il piano senza il leader. Un governissimo di otto-nove mesi
Nel Pd fronte ampio contro le urne
di Maria Teresa Meli


«Governo a bassa intensità politica». Con un programma limitato. Cresce la fronda all'interno del Pd e prepara il piano B, se Bersani dovesse fallire.

ROMA — Ha già un nome: «Governo a bassa intensità politica». E un programma preciso e delimitato: riforma elettorale, riforma del finanziamento pubblico dei partiti, riduzione dell'Imu per determinate fasce di cittadini e (ovviamente) approvazione della legge di stabilità.
Questo governo dovrebbe prendere il via nel caso in cui il tentativo di Pier Luigi Bersani dovesse fallire. Scenario, questo, niente affatto improbabile, viste le difficoltà che sta incontrando il segretario del Partito democratico. L'unica carta che potrebbe consentire al leader del Pd di mettere in piedi un suo esecutivo è quella di un accordo segreto stipulato con un gruppo di grillini che fanno capo all'associazione «agenda rossa» di Salvatore Borsellino (che peraltro hanno già votato per Pietro Grasso in dissenso dal Movimento 5 Stelle) e con quelli che sono vicini a Libertà e giustizia di Gustavo Zagrebelsky. Ma se il segretario del Pd non ha questa carta in mano il suo tentativo pare proprio destinato a fallire, anche se ieri girava voce che giovedì Bersani potrebbe chiedere a Giorgio Napolitano un supplemento di indagine.
Nel Partito democratico, comunque, non si parla d'altro che di questo governo che dovrebbe vedere la luce in aprile. E dovrebbe durare otto-nove mesi, non di più. Giusto il tempo che serve per mandare in porto i punti programmatici. Lo voterebbero Pd, Pdl, Scelta civica e chiunque altro sia interessato a questo ennesimo tentativo di far uscire dalle secche la politica italiana. Certo, adesso pubblicamente tutti a largo del Nazareno (e anche a Palazzo Vecchio) sostengono Bersani e il suo sforzo. Com'è giusto che sia, visto che il segretario sta cercando di dare vita a un governo a guida Pd. Ma poi molti pensano che non sia opportuno tornare alle elezioni in fretta e furia.
Del resto, è il ragionamento che viene fatto nei conversari privati di questi giorni, sarebbe difficile per tutti dire di no a un governo del genere di fronte a quel programma. Un programma che, peraltro, contiene delle proposte su cui il Pd si è sempre detto d'accordo. Anzi, che sono le stesse del Partito democratico. È chiaro che ci sarà una discussione interna molto aspra, che ci si dividerà e si litigherà, ma alla fine bisognerà pur dare una risposta. Ed è difficile che possa essere negativa. Com'è difficile per il Pd spiegare che non vuole riformare la legge elettorale, il finanziamento pubblico dei partiti e non vuole ridurre l'Imu dai mille euro in giù perché anche il Pdl sarebbe disposto a votare quel programma.
Del resto si sa già che personaggi influenti come Walter Veltroni sono favorevoli a un cosiddetto governo del Presidente. E Matteo Renzi ha sempre detto: «Se il capo dello Stato ci proponesse un governo istituzionale che faccia poche cose utili come potrebbe il Pd dirgli di no?». Anche gli ex Ppi come Enrico Letta, Dario Franceschini e Beppe Fioroni non sono favorevoli a un ritorno alle urne. Insomma, in realtà, dentro il Pd c'è un fronte ampio e trasversale a favore di un'ipotesi del genere.
Una road map così concepita consentirebbe a Renzi di candidarsi alle primarie nel tardo autunno e di riuscire a non bruciarsi perché i tempi delle elezioni si allungano troppo. Il sindaco di Firenze dovrebbe comunque avere un competitore perché non è sua intenzione, come ha ripetuto più volte, «farsi cooptare» dai maggiorenti del Pd: «Non ci penso proprio». E il competitore non potrebbe essere più Bersani dal momento che, un minuto dopo il fallimento del suo tentativo, dentro il partito si aprirebbe il processo al segretario che nessuno ha mai innescato perché c'era l'incarico in ballo.
Mentre dietro le sue spalle si svolgono tutti questi movimenti (di cui comunque Bersani è consapevole) il leader del Pd prosegue il suo sforzo con grande determinazione. Quale sia il discorso che il segretario ha fatto alle delegazioni incontrate finora lo ha sintetizzato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi in una lettera ai vertici locali dell'associazione: «Il percorso di formazione del governo, ipotizzato dall'onorevole Bersani, vede il coinvolgimento dei tre principali partiti a partire dalle riforme istituzionali, su cui è possibile trovare una convergenza che consenta l'avvio dell'attività di governo. L'onorevole Bersani ha parlato espressamente di "porta di ingresso" per l'attività del governo. Trovata una convergenza sui temi istituzionali, si dovrebbe passare ai temi dell'agenda, ovvero quelli che toccano più da vicino l'economia". Ma l'«agenda Bersani» rischia di rimanere vuota.

La Stampa 26.3.13
La solitudine del leader e i tanti malumori sopiti
Partite diverse nel Pd, nessuna (per ora) dichiarata
di Federico Geremicca


Venerdì 22 marzo magari era tardi, Bersani ebbe l’incarico al calar del sole e forse qualcuno non ebbe tempo o era impegnato in riunioni chissà dove. I convitati Massimo D’Alema ieri era a Parigi, Walter Veltroni a casa con problemi di salute Dai big non sono arrivati segnali di particolare incoraggiamento a Bersani
Ma poi vennero il sabato e la domenica: e tutto, però, continuò a tacere. Silenziosa Rosy Bindi, silenzioso Massimo D’Alema, zitti altri leader del peso di Walter Veltroni e Franco Marini. A volte, la solitudine di un leader la si può far trasparire anche così: evitando qualunque commento, e perfino un semplice augurio - un in bocca al lupo - al segretario che parte in guerra per la sua missione impossibile.
Anche la Direzione di ieri - che pareva esser diventata la sede madre di ogni decisione, il luogo in cui il Pd avrebbe dovuto dire «o Bersani o morte», ha trasmesso la stessa sensazione: un solo intervento, meno di un’ora in tutto (comprese introduzione e replica), assenze numerose e alcune eccellenti, Renzi (a fare il sindaco), D’Alema (a Parigi per impegni), Veltroni (ancora con qualche problema di salute) e si potrebbe continuare. Qualcuno si attendeva battaglia intorno alla domanda delle domande: ma se Bersani fallisse, che si fa? La battaglia non c’è stata: tutto rinviato alla prima occasione utile...
Non è un mistero, infatti, la circostanza che nel Pd le acque siano agitate e molti non abbiano condiviso granché la linea proposta da Bersani subito dopo il voto: e cioè, un governo per il cambiamento, che vuol dire mai più con Berlusconi, a meno che nella partita non ci siano anche i voti di Beppe Grillo. E ancor di meno hanno condiviso l’approdo che il segretario vorrebbe per tale linea: se io fallisco si torna al voto. Qualcuno (D’Alema) non ha condiviso per ragioni politiche, considerando un errore dire pregiudizialmente no ad un confronto con il Pdl. Altri non hanno condiviso - ma hanno taciuto - per ragioni che vedono sommate perplessità politiche e delusioni e rancori difficili da digerire.
Non c’è da scandalizzarsene, visto che la strategia che ha portato Bersani fino all’incarico di formare un governo, ha lasciato morti e feriti nel quartier generale del Pd. C’erano state - all’inizio - «rinunce elettorali» (Veltroni, D’Alema, Turco...) faticose da metabolizzare; poi la vicenda dei nuovi presidenti di Camera e Senato (con la grande delusione subita da Dario Franceschini e Anna Finocchiaro), infine l’elezione dei nuovi capigruppo, con la scelta a sorpresa di Zanda e Speranza, che ha infoltito la schiera di chi oggi ce l’ha con Bersani. Ma poiché - come Enrico Letta ha annotato aprendo la Direzione - «il tentativo di Bersani senza unità del Pd è impossibile», nemmeno ieri malesseri e dissensi sono venuti allo scoperto. E in fondo, solo di questo si tratta: di farli emergere. Perché che esistano, Bersani lo sa: meglio ancora, lo considera scontato. Del resto, far «girare la ruota» - come il segretario ripete - è operazione spesso dolorosa. E talvolta perfino rischiosa.
E così, il Pd osserva Bersani alle prese con la sua missione impossibile e lo fa con una passione e una partecipazione impalpabili. Cosa spera la maggioranza del partito? Difficile dirlo, in considerazione delle tante partite aperte tra i democratici (dal Quirinale fino alla possibilità di elezioni a giugno). E in fondo, la forza del segretario oggi sta soprattutto qui: nelle debolezze e nelle divisioni di chi - più o meno scopertamente - lo avversa. C’è chi vorrebbe che il governo nascesse (i bersaniani) ma magari per durare pochi mesi (è quel che sperano i «giovani turchi» ed i renziani) ; c’è chi vorrebbe che il governo non nascesse affatto e se ne varasse uno «del Presidente» (i veltroniani, i dalemiani e gran parte di quella che fu la maggioranza che elesse Bersani e lo ha poi sostenuto alle primarie), e c’è - infine - chi direbbe sì a qualunque ipotesi che tenga Renzi lontano (ma fino a quando?) dal quartier generale...
Una pentola a pressione, insomma, nella quale alle delusioni da «ruota che gira» si vanno sommando preoccupazioni politiche e timori personali. Ma è già noto a tutti il passaggio nel quale il coperchio della pentola potrebbe saltare: l’eventuale naufragio del tentativo Bersani. A quel punto, il Pd si ritroverà di fronte a un bivio micidiale: seguire Napolitano nel probabile tentativo di dare comunque un governo al Paese o stare sulla linea del segretario (dopo di me, solo il voto). Difficile dire come finirà: ma secondo alcuni, in nome della chiarezza, sarebbe già molto farlo cominciare...

Corriere 26.3.13
Sfida interna. I renziani non ostacolano il segretario, ma tra i democratici è tregua armata
E ai partiti chiede: non ostacolateci
di Monica Guerzoni


«Possibile un'intesa con Monti». Letta: peggiore ogni tentativo dopo questo
ROMA — «Siamo alla prova del nove, il tentativo di Bersani è difficile, ma possibile... Quel che è certo è che senza l'unità del Pd la missione del segretario diventa impossibile». Per conto del leader Enrico Letta chiede ai democratici una tregua, per quanto armata. Uno sforzo di «compattezza e determinazione» per scongiurare il deragliamento di Pier Luigi Bersani, impegnato nella già ardua sfida di trovare i voti per il suo «governo dei miracoli».
E così, pur lacerata sulla linea, la direzione del Pd non scaglia ulteriori intralci sul «doppio binario» lungo il quale Bersani si sta muovendo. Matteo Renzi rimane a Firenze e i fedelissimi del sindaco non tradiscono l'impegno a non boicottare il presidente incaricato. «Non ho mai parlato di scissione», smentisce l'idea di una lista renziana Matteo Richetti. La riunione del «parlamentino», convocata per le sette di sera e trasmessa in diretta streaming (assenti annunciati Veltroni e D'Alema) fila via indolore in 45 minuti, come d'altronde le assemblee dei gruppi parlamentari. Niente contraddittorio: Letta apre e Bersani chiude con un «paio di battute» appena. Ribadisce la sua «buona volontà» al servizio del Paese, riconosce i «limiti anche politici» del mandato che Napolitano gli ha affidato e promette che non metterà «le dita negli occhi a nessuno». Ma non gli si chieda di «abbracciarsi in un governissimo», perché Bersani non è disponibile. Lui vuole guidare un governo vero, che porti avanti «un percorso certo di riforme» e tolga l'Italia dai guai: «Non chiediamo a nessuno l'impossibile».
Quel che Bersani chiede ai partiti è invece una sorta di patto di desistenza che gli consenta di incassare il via libera del Colle e poi il voto di fiducia al Senato: «Con Scelta Civica un'intesa è possibile, chiediamo alle altre forze di non impedire questa soluzione, a Pdl e Lega di arrivare a una assunzione di responsabilità...». E l'appello a non ostacolare il suo tentativo è rivolto, ovviamente, anche al M5S: «Vogliono essere una comunità segregata o una forza responsabile?».
Bersani continua a muoversi su un doppio binario, da una parte il governo e dall'altra la costituente per le riforme. Dove, ribadisce Letta, sono invitate a sedersi tutte le forze politiche, senza pregiudizio alcuno. La parola chiave è «legittimazione», un riconoscimento politico che il segretario e il suo vice offrono anche al centrodestra di Berlusconi. Sperando di ottenere in cambio, come mimino, quell'appoggio indiretto di cui parla Anna Finocchiaro. «Per cambiare la Costituzione il dialogo con gli altri è necessario, con tutti gli altri — scandisce Letta —. Chiediamo corresponsabilità e legittimazione reciproca».
Nelle consultazioni di oggi con Alfano e Maroni, Bersani invocherà l'appoggio al suo governo in cambio di un dialogo sulle riforme «in tempi certi» e anche sull'elezione del nuovo capo dello Stato offrirà un «coinvolgimento molto largo». La promessa cioè che il successore di Napolitano non sarà una figura di parte, ma di garanzia. Intanto renziani e veltroniani ragionano di un governo del presidente, sostenuto da un'alleanza larga che includa Monti, Berlusconi e Maroni. E Bersani, consapevole del fuoco che cova sotto la cenere del Pd, rinuncia a minacciare elezioni anticipate. «Non sono la soluzione», frena Letta. E però il vicesegretario avverte i fautori del flirt con il Pdl: «Qualunque tentativo dopo questo è un tentativo peggiore per l'Italia».
Sottotraccia il Pd resta spaccato. Lo stato d'animo di molti è «non disturbare il manovratore», che gli oppositori interni ritengono destinato a «schiantarsi presto». Nell'entourage del segretario, invece, si respira un cauto ottimismo. I fedelissimi di Bersani si sono convinti che Berlusconi stia «dando una mano al Pd» e che, giovedì, il presidente incaricato salirà al Quirinale con delle novità positive da illustrare al capo dello Stato. Al momento i numeri certi che Napolitano gli ha chiesto non ci sono, eppure Bersani confida di scovarli. Quanti? Dove? Nessuno lo sa, ma Letta parla di «tecniche parlamentari creative» e nel Pd si arriva a scommettere che Berlusconi lascerà liberi una quindicina di senatori... Nei capannelli di Montecitorio si torna a parlare di «inciucio» e Bersani assicura di muoversi alla luce del sole, in assoluta trasparenza. «Non compreremo senatori — giura la vicepresidente della Camera, Marina Sereni —. Nessun patto segreto, con nessuno».

Repubblica 26.3.13
Pd, tregua tra Renzi e il segretario
Il sindaco: spero che Pierluigi ce la faccia. Dal leader nuovo appello al M5S
di Giovanna Casadio


ROMA — «Sappiamo che la strada per il governo è difficile ma diventa impossibile se non c’è l’unità del partito, questa è la nostra prova del nove». Enrico Letta lo ripete tre volte: nelle due assemblee dei gruppi parlamentari e nella direzione del Pd. Del resto, il “parlamentino” democratico è stato convocato apposta per blindare Bersani e le 72 ore di arrampicata in solitaria, in cui proverà a convincere le forze politiche che un governo è necessario, e va fatto nascere senza veti incrociati.
Quindi dura meno di un’ora, la mancata resa dei conti nel Pd.
Non è il momento. Tacciono i renziani, e in direzione non c’è neppure Matteo Renzi che dichiara come tra lui e il segretario ci siano «rapporti ottimi», e anzi gli ha augurato un «in bocca al lupo » e spera «per il bene dell’Italia, che ce la faccia». Stessa cordialità da parte di Bersani: «Con Matteo andiamo d’accordo. È assente? Ci sono abituato». Il premier incaricato conclude la direzione-lampo confermando la linea della doppia strategia: un governo per il cambiamento e una convenzione per le riforme aperta a intese larghe fino a Pdl e Lega. Tutti sanno che trattative sono in corso a 360 gradi, e ufficiali di collegamento sono al lavoro in particolare con i
lumbàrd.
Un ultimo appello ai 5Stelle: «Al M5S chiediamo se vogliono essere una comunità segregata oppure una forza al servizio del paese». A proposito di Pdl e Lega, Bersani pressa: «Escano da ambiti che sono un cascame della campagna elettorale». Insomma a ciascuna forza politica, e «senza mettere le dita negli occhi a nessuno», chiede di abbandonare le posizioni propagandistiche. Una sola iscritta a parlare, Vittoria Franco. Poi è Franco Marini a chiedere di tagliare corto. Bersani ha bisogno di essere appoggiato, mica sabotato. Lo ripetono gli stessi renziani.
Matteo Richetti, braccio destro del sindaco “rottamatore”, che aveva raccontato di una lista renziana più forte del Pd di Bersani, nega di avere mai immaginato scissioni. Nell’assemblea dei deputati, nell’auletta di Montecitorio, quando si parla dell’unità del partito come pre-requisito della partita politica, applaude anche lui. Lo notano i “giovani turchi” e i bersaniani di ferro. Per i quali non c’è una carta di riserva: o Bersani o voto. Lo stesso Enrico Letta, il vice segretario che sta accompagnando il premier incaricato nelle consultazioni, chiarisce: «Qualunque tentativo di governo diverso da quello che sta facendo Bersani sarebbe peggiore per il paese e per il Pd». È la blindatura su cui le divisioni democratiche sono profonde e le polemiche infuriano, ma sui media non negli organismi di partito. Sono molti i Democratici convinti che dopo Bersani si possa andare a un “governo del presidente” con una maggioranza di unità nazionale che il Pd dovrebbe sostenere.
Polemiche tutte su Twitter. Andrea Orlando giura che il Pd «mai con il Pdl». Antonello Giacomelli si toglie un sassolino: «Giusto! Invece la Lega è meglio?». La prodiana
Sandra Zampa al renziano Richetti: «Lasciamo fare il governo a Bersani e tuteliamo Renzi». Davide Zoggia, che l’altro giorno ha riunito i bersaniani, corregge chi pensa a aperture al Pdl: «Solo sulle riforme, e il Quirinale non c’entra». Ovviamente, non se ne parla nella diretta streaming della Direzione. Però nei capannelli, sì: il “nodo” su chi sarà il successore di Napolitano è il crocevia. Bersani ha replicato in direzione: «Sul Colle non ci sono trattative», invitando a non mischiare pere e mele, governo e massima carica istituzionale. Infine, i gruppi Pd tagliano le indennità ai vertici: meno 1000 euro. Modifica dello statuto proposta da Fioroni.

Repubblica 26.3.13
Da Fassina a Orfini, dalla Moretti a Orlando: ecco la generazione emergente dei democrat
Quarantenni, rinnovatori ma divisi sul futuro la carica dei “giovani turchi” anti-Silvio


ROMA — Diffidati dalla comunità armena - in nome del rispetto delle vittime del genocidio - e dalla presidente dell’Associazione Italia-Armenia (la collega di partito Sandra Zampa), i “giovani turchi” del Pd non sanno al momento come ribattezzarsi. Tra le ipotesi: la “gauche” democratica; i “rinnovatori”; quelli di “Rifare l’Italia”; i T/ q, ovvero i Trenta/quarantenni (e qui si sono lamentati un gruppo di scrittori omonimi). Avvertono: «O Bersani o voto». Nessuna subordinata, né piano B, e soprattutto nessun accordo con il Pdl né presente né futuro. Lo ribadiscono in ogni occasione. Matteo Orfini, Andrea Orlando, Stefano Fassina sono le figure-traino, ma da un anno a questa parte, da quando cioè sono nati come corrente filo Bersani (e contro la nomenklatura) con Francesco Verducci, la vicentina Alessandra Moretti, il torinese Stefano Esposito, la toscana Silvia Velo, si sono persi un po’ di pezzi. E ormai è in atto una mini- diaspora. Ci sono infatti quelli che pensano già al “dopo Bersani” (Orfini) e quelli che non ne vogliono sentire parlare (Moretti). Ma hanno acquistato sempre maggiore peso politico, in virtù
del ricambio generazionale.
Il nome, affibbiatogli dai media, ma a loro molto gradito, doveva essere quello del movimento politico d’inizio Novecento nell’impero ottomano e ricordare il travaglio di rinnovamento che portò Kemal Ataturk al potere. Non i primi né gli ultimi a evocare quei giovani turchi: anche la nouvelle vague cinematografica di Truffaut, Godard, Chabrol si chiamò a un certo punto «les jeunes turcs». Orfini dice che, se Bersani
fallisse, si va al voto ma con un candidato premier nuovo: «Non si può avere due volte una chance come quella della premiership, non può essere Bersani ». Orlando nega si possa parlare del “dopo” nel momento di massimo sforzo del segretario. Orfini è l’unico dalemiano della squadra, 39 anni, casa al Tufello, 3.300 euro di stipendio del partito come responsabile del Dipartimento Cultura fino all’altroieri. Oggi i “giovani turchi”sono tutti parlamentari.
Stefano Fassina nasce bersaniano, economista: a testa bassa ha attaccato Monti nei tredici mesi di governo del Professore. Ha smantellato punto per punto l’Agenda montiana. È stato la testa d’ariete della battaglia contro il sindaco “rottamatore” Renzi, che definì “il portaborse di Lapo Pistelli”. Se n’è uscito avvertendo che non bisogna sabotare Bersani. Su Twitter Antonello Giacomelli, ex capo della segreteria di Franceschini, gli ha risposto: «Ma cos’è un’autocritica?».
Sono stati comunque loro a suggerire a Bersani i nomi di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alle presidenze delle Camere. Lo rivendicano. In una riunione volante nell’aula di Montecitorio, durante una pausa dei lavori, reclutando anche Daniele Marantelli, hanno parlato con Bersani della strategia del cambiamento. Teorizzano un confronto possibile con la Lega (e non con il Pdl). Lo ha detto Fassina. Anche qui, scatenando un putiferio di tweet.
Hanno comunque giurato, come tutti nel Pd, che nelle 72 ore dell’arrampicata di Bersani in queste consultazioni, saranno prudenti. «Fiducia fino all’ultimo al segretario - vanno ripetendo -. Poi però, ci chiariamo: e c’è soltanto il ritorno alle urne».
(g.c.)

Repubblica 26.3.13
La crisi di nervi che scuote il Pd
di Piero Ignazi


PER la prima volta nella storia repubblicana un partito di sinistra ha vinto le elezioni politiche o almeno è arrivato primo in termini di voti (i grillini imparino a contare e abbandonino la loro infantile arroganza) e detiene la maggioranza assoluta dei seggi nella camera più rappresentativa.

La destra berlusconiana non ha ragioni per lamentarsi di questa distorsione della rappresentanza: il porcellum con il premio di maggioranza lo ha voluto lei. Inutile che si metta a strillare che non è giusto che chi arriva primo si prenda tutto, ci doveva pensare prima quando ha confezionato quella legge elettorale a suo uso e consumo. Il Pd è quindi il primo partito, quello che ha in mano quasi tutte le carte. Il Pdl, al contrario, è precipitato al terzo posto perdendo circa la metà dei suoi voti e raccogliendo un risultato abissalmente lontano da quanto Forza Italia e Alleanza Nazionale insieme ottenevano. La destra italiana, Lega compresa, non è mai stata così debole. Anzi, al di sotto di questa quota difficilmente potrà scendere. Eppure si comporta da vincitrice. E con questo si conferma la fantastica dote illusionistica del suo leader , capace di trasformare una cocente sconfitta in una simil- vittoria. Berlusconi riesce a farlo perché trova compiacenti cantori in quella opinione pubblica che fino a qualche mese lo dipingeva quasi con disprezzo– si parlava addirittura, con atteggiamento maramaldeggiante, di “declino fisico” – mentre ora, spaventati del ritorno del Caimano si affrettano a cantare le lodi, salvo qualche piccola tirata di orecchie per un nonnulla come l’assalto al Palazzo di Giustizia di Milano.
Ernesto Galli della Loggia nella sua recente requisitoria contro la classe dirigente nazionale avrebbe dovuto aggiungere anche la propensione al salto nel carro dei vincitori: una specialità in cui non temiamo confronti, purtroppo. Ma la sensazione di una destra vittoriosa pur ridotta al lumicino viene anche dalle contraddizioni del Pd. Solo un partito confuso e incerto può lasciar cadere nel dimenticatoio il risultato che ha raggiunto. Che sia avvenuto per il rotto della cuffia e sia monco di una maggioranza in una Camera deve essergli ben presente per non cadere nel delirio di onnipotenza. Però c'è un limite anche al masochismo. Il Pd vi si sta invece tuffando dentro. Gli manca la convinzione di sé. Si sta ripetendo quanto era avvenuto nel 2008 quando l'ottimo e insuperato risultato di allora venne buttato alle ortiche e il partito si pianse addosso per non aver vinto, cioè per non essere arrivato primo. Ora che il Pd ce l'ha fatta, di nuovo rischia la crisi di nervi. Per arrivare al traguardo Bersani deve superare ogni tipo di ostacolo, ivi compreso quello che viene dalle sue file, dalla mancanza di sostegno effettivo al suo tentativo. Anche se nessuno ha il coraggio e l'onestà di dichiararlo apertamente nelle sedi proprie, e non nei salotti televisivi, a Bersani manca quello che sorregge Berlusconi: un partito unito, disposto a seguirlo fino in fondo. Questa debolezza ha ridotto fin da subito le chance di successo del segretario del Pd. Se così non fosse, il partito avrebbe avuto buon gioco a dire che questa era l'unica possibilità per proseguire la legislatura: quando si ha il controllo di una Camera non si può forse governare ma certamente si può impedire di fare nascere ogni altro governo. Oggi invece assistiamo ad un Berlusconi che impone– o per lo meno cerca di imporre – le sue scelte ed è pronto con il suo 30% a scatenare le piazze e impedire alle camere di lavorare, mentre il Pd se ne sta come un agnellino tremante ad attendere che sorte gli toccherà, senza avere il coraggio delle proprie scelte. A forza di essere responsabile e ragionevole come molti gli intimano di fare, il partito perde ogni credibilità. Di fronte a tante e tali pressioni il Pd può reggere solo se si dimostra compatto e consapevole della propria forza e della gravità della sfida. Se ritiene cioè di avere ancora un “senso” e quindi una mission.
O il Pd comprende che verrà giudicato dal suo elettorato — indipendentemente dalle valutazioni della cosiddetta classe dirigente — sulla capacità di reggere sulle proprie posizioni e di non cedere al ricatto del Signore di Arcore, oppure le sue spoglie saranno spartite tra grillini e altri che verranno.

il Fatto 26.3.13
CGIL spaccata
Camusso sotto tiro e volano i bicchieri
di Giorgio Meletti


C’è un aspetto prosaico, che Susanna Camusso e i suoi portavoce minimizzano: le accuse di gestione personalistica della Cgil. E c’è un’aspetto più nobilmente politico: al segretario generale più di un esponente del maggiore sindacato italiano chiede conto del trionfo elettorale di Grillo. Non ovviamente come responsabilità diretta, ma perché quel 25 per cento al Movimento 5 Stelle illumina il ritardo di comprensione della realtà dell’organizzazione che fu guidata da Giuseppe Di Vittorio.
LE TENSIONI si sono manifestate nella riunione nel direttivo Cgil del 20 marzo scorso. Una discussione animata, per i critici di Camusso, normale per i suoi sostenitori, ha portato a una parziale riscrittura del documento presentato dalla segreteria, bersagliato da diverse proposte di emendamento. La rielaborazione del testo ha fatto sì che il sito della Cgil l’ha pubblicato solo ieri, dopo cinque giorni di decantazione, in coincidenza dell’incontro con il presidente incaricato Pier Luigi Bersani (la versione Camusso riferisce di disguidi tecnici). La pressione del leader Fiom Maurizio Landini, che proprio ieri ha deciso con il suo comitato centrale che in maggio i metalmeccanici torneranno in piazza, è nota. Partiamo allora dal leader dei pensionati Carla Cantone. Forte dei suoi 3 milioni di iscritti (metà di quelli totali Cgil), la leader dello Spi ha protestato perchè nel documento Camusso si ignorava l’esistenza dei pensionati. E ha preteso di inserire la richiesta di restituire la rivalutazione degli assegni tolta dal decreto Salvaitalia targato Monti e Fornero. Cantone aveva però mandato il preavviso al leader: una settimana prima del direttivo aveva pubblicato sulla prima pagina dell’Unità un severo monito sul cambiamento. In particolare, visto il trionfo grillino, Cantone ha intimato al sindacato di non “rendersi sordo davanti alla richiesta forte di parole e azioni nuove” trasmessa del “vento del rinnovamento”. E la discussione non si è più fermata. Dopo il teso confronto del direttivo di mercoledì scorso, le due dirigenti il giorno dopo si sono esibite in un plateale battibecco al tavolo della presidenza di un convegno a Riccione. Alcuni testimoni riferiscono di aver visto un bicchierino di plastica volare delle mani di Camusso verso la rivale.
MA CHE DICONO... – minimizza Cantone – stava giocherellando con il bicchiere, stavamo discutendo animatamente e le è scappato di mano... ”. Già, e di che cosa discutevano? “Non è ancora il momento di parlarne – taglia corto Cantone –. Per adesso dico solo che al direttivo Cgil il documento è stato approvato all’unanimità”. Infatti la minoranza che normalmente gira attorno alla Fiom di Landini stavolta non ha presentato un documento alternativo, ma alcune richieste di emendamento. Alcune respinte, come quella per la rivendicazione del salario minimo. Una accettata dalla segreteria, riguardante la rivendicazione di regole sulla rappresentanza dei lavoratori e sul loro voto su accordi e contratti. Su questo Landini ha incassato il sostegno della segretaria del sindacato degli alimentaristi, Stefania Crogi, ex socialista come Camusso. Il punto politico delicato per Camusso è che i suoi due più forti contestatori, Cantone e Landini, sostengono cose diverse: l’indicizzazione delle pensioni toglie risorse alla tutela di precari e disoccupati. Ma il vertice è preso in mezzo proprio per le sue difficoltà di darsi una linea. Dopo una campagna elettorale tutta al fianco del Pd di Bersani, gli operai hanno dato a Grillo il 40 per cento dei loro voti. E la Cgil affronta la crisi drammatica dell’economia con un documento che indica come punto di partenza per il prossimo governo “costi della politica” e riforme istituzionali.

La Stampa 26.3.13
La crisi del lavoro stressa. Alla Cgil arriva lo psicologo
“Sempre più disoccupati, assisterli ci toglie il sonno”
di Marina Cassi


A Torino L’Inca è lo sportello che accoglie chi perde il lavoro, chi cerca un sussidio, chi spera in una pensione. Compresi migliaia di «esodati» disperati
Stanchezza, nervosismo, notti tormentate, ansia. Veder soffrire fa soffrire e dopo quattro anni di una crisi che sta picconando le fondamenta produttive di Torino la Camera del Lavoro prima e per ora unica in Italia ha deciso di dare una mano ai sempre più stremati impiegati dell’Inca con un sostegno psicologico. Quattro giorni di corso con un docente universitario per imparare a gestire se stessi e il proprio stress. Adesso stanno meglio e il modello potrebbe estendersi a altre strutture della Cgil come annuncia la segretaria Susanna Camusso.
L’Inca è lo sportello che accoglie, nella grande sede rossa di via Pedrotti nel rosso borgo di Regio Parco, chi perde il lavoro, chi cerca un sussidio, chi spera in una pensione compresi migliaia di «esodati» disperati. Hanno tutti davanti un futuro avaro.
Gli impiegati cercano una soluzione; nel 2012 hanno istruito la bellezza di 47 mila pratiche - erano 32 mila nel 2009 - ma hanno visto passare e ascoltato quasi 150 mila persone. E’ una umanità attonita e disperata di che ha perso certezze, visto sgretolarsi le fabbriche e spesso è diventata povera all’improvviso. E che vuole una risposta alla sua situazione, ma anche qualcuno disposto a sorbirsi la sua storia, a farlo sentire meno solo.
E la segretaria della Camera del Lavoro, Donata Canta, già annuncia: «Il prossimo passo sarà dato un uguale sostegno ai tanti sindacalisti delle categorie e dei territori che da quattro anni fanno vertenze che finiscono con decine di esuberi. Non è che vedi chiudere una fabbrica e poi riesci a dormire la notte».
Racconta: «E’ nell’ultimo anno che al situazione è precipitata come, spesso inascoltati, continuiamo a dire. Abbiamo visto crescere il numero delle persone che vengono da noi, ma anche visto cambiare le persone: sono più disperate, cercano qualsiasi appiglio per riuscire a ottenere qualche decina di euro».
E in questa situazione è facile immaginare «utenti» esasperati che, spesso, scambiano i lavoratori della Cgil per dipendenti dell’Inps e di altri enti e li accusano di inefficienze e ritardi che dipendono da altri.
L’Inca - come l’ufficio vertenze - è il buco nero dentro cui si infila il massimo del disagio. Duemila pratiche per la disoccupazione nel 2009 lievitate a quasi 8 mila nel 2012, 339 di mobilità salite a 1700. Ci lavorano in 34 e Paolo, il più giovane, non ha dubbi: «E’ durissima perchè ogni mattina li vedo arrivare a decine tutti con la stessa disperazione, con i figli da crescere, i mutui e le bollette da pagare. Non è un lavoro come un altro il nostro, è sociale».
Confida: «Non si stacca mai. Anche il sabato e la domenica le persone che abbiamo visto durante la settimana le portiamo a casa nella nostra mente». Per tutti i lavoratori dello sportello ai drammi di chi siede loro di fronte si somma lo stress per la incertezza del diritto. Paolo ne fa un racconto che potrebbe sarebbe comico se non fosse drammatico: «Il massimo è arrivato con gli esodati. Vengono, spiegano, noi facciamo la pratica per la pensione. Da quello dipende il futuro. Ma non siamo in grado di dire loro se avranno o meno la pensione: non lo sappiamo».
Negli scorsi mesi il dirigente dell’Inca torinese, Franco Latona, si è accorto che il «burn out» incominciava a colpire i suoi colleghi; allora con il responsabile della formazione, Vito Montrone, ha messo a punto un corso di formazione con il professor Claudio Palumbo docente di psicologia dell’educazione all’Università di Parma che applica il metodo della valutazione delle competenze.
Di una cosa è certo: «Soffrire di stress dopo anni di un peso emotivo così intenso è normale. L’importante è riuscire a gestire l’evento senza sentirsi inadeguato; serve conoscersi meglio e soprattutto serve riuscire a ricomporre la frattura tra lavoro e vita fuori».

l’Unità 26.3.13
Grillo: governo a noi o subito alle urne
La linea isolazionista dell’ideologo Becchi: «I partiti sono i nostri nemici. Torniamo al Mattarellum»
Parlamentari dubbiosi, si incontrano prima di vedere Bersani
di Andrea Carugati


Mentre Grillo sul blog invita i suoi seguaci a «segnalare» i cosiddetti «trolls», i commentatori «infiltrati e pagati» dalla Casta rei di criticare il leader e di suggerire un’intesa col Pd, il professor Paolo Becchi, ideologo dei grillini, s’incarica di ribadire la linea in vista dell’incontro della delegazione a 5 stelle con Bersani.
«Se non si vuole affidare il governo al M5S, allora non si potrà che rivotare», tuona il giurista genovese sul blog di Claudio Messora, responsabile della comunicazione dei senatori. «Non siamo noi, ma i vecchi partiti prosegue Becchi ad essere irresponsabili, perché stanno tentando di prolungare il più possibile l’attuale crisi sperando di navigare a vista per un po’ di tempo, mantenendo questo Paese in stato vegetativo permanente nell’attesa che succeda qualcosa (un miracolo?) che possa salvarli».
Becchi ribadisce la linea isolazionista, invita i parlamentari a non cadere nelle «trappole» dei partiti e boccia tutti gli scenari di governo che si stanno prospettando in questi giorni, definendoli «spaventosi e raccapriccianti». Compreso «un nuovo governo di tecnici, questa volta spostato a sinistra (Rodotà, Onida, Zagrebelsky, Marzano, forse qualche prete, qualche donna, qualche santo, qualche navigatore)» guidato da Pierluigi Bersani. «Una forma di suicidio assistito lo definisce nelle mani del Presidente della Repubblica». «Certo è che iniziare una nuova legislatura con un nuovo governo del presidente sarebbe un colpo di Stato ancor più grave di quello che portò, lo scorso anno, Monti alla presidenza del Consiglio», conclude. «Non esiste il “meno peggio”. I partiti politici vanno tutti combattuti sullo stesso piano, sono i nostri nemici politici, e con loro non è possibile alcuna alleanza».
Linea condivisa naturalmente da Grillo e Casaleggio e dai vertici dai gruppi parlamentari (anche se Crimi su Zagrebelsky aveva fatto una mezza apertura). Ma il problema è che tra i parlamentari, e soprattutto tra gli elettori, l’idea del «Muoia Sansone con tutti i filistei» suscita parecchie perplessità. Un sondaggio dell’Osservatorio elettorale dell’Università di Urbino ha illustrato che il 53, 6% degli elettori 5 stelle sarebbe favorevole a un’intesa di governo col Pd, percentuale che sale oltre il 63% tra i votanti grillini che arrivano da sinistra. Un dato che si riflette anche tra gli utenti del blog di Grillo (quei pareri critici che il comico ha definito «troll» e «schizzi di merda digitale») e, in misura assai minore, anche nella pattuglia parlamentare.
Oggi i deputati e i senatori a 5 stelle si riuniranno per decidere la linea in vista dell’incontro con Bersani, che sarà domani mattina. Bocche cucite alla vigilia, i «reprobi» che hanno votato Grasso in Senato sono tra i più abbottonati, perché sanno che su di loro si addensa la diffidenza e il sospetto dei compagni di banco. Stavolta, infatti, non sono ammessi scherzi. Chi dovesse votare in dissenso (dando voce a quel 53% di elettori che vorrebbero dialogare con Bersani) sarebbe subito radiato dal gruppo e sottoposto al tribunale della Rete. Tra i senatori c’è anche chi, pur non volendo sostenere il governo Pd, si pone il problema di una controproposta. «Non possiamo solo dire no, abbiamo preso il 25% dei voti e ci spetta una proposta per il governo del Paese», spiega un senatore. Ieri ne hanno discusso a palazzo Madama, ma ancora una potenziale squadra grillina non è stata partorita. Oggi dunque i parlamentari discuteranno, ma non è detto che ci sia un voto. «Semmai voteremo una volta che Bersani arriverà in Parlamento con una squadra di governo», spiega un deputato. «Ma prima non ce n’è alcun bisogno, la linea è chiara». Si vedrà. Di parlamentari che, a microfoni spenti, esprimono disagio ce ne sono. Almeno una ventina. Domani alle 10 intanto l’incontro tra Bersani e i due capigruppo grillini Lombardi e Crimi sarà trasmesso in diretta streaming.
Sul blog, intanto, il capogruppo alla regione Sicilia Giancarlo Cancelleri s’incarica di sminuire il modello di collaborazione dei grillini con la giunta del Pd Crocetta, preso da molti a simbolo di una possibile cooperazione a livello nazionale. «Non sono Crocetta e Battiato a fare la storia di questo paese, la storia la stiamo facendo noi, costringendoli alle scelte. Sono convinti che il M5S stia “coabitando” con loro, niente di più falso, niente di più inesatto. Da soli non avrebbero cambiato nulla. Non facciamoci fregare. Senza di noi sarebbe stata l’ennesima Sicilia degli ennesimi politici».
Becchi, intanto, lancia la proposta grillina di riforma della legge elettorale: il ritorno al Mattarellum. È «un falso colossale», spiega, che «senza un nuovo governo non sarebbe possibile approvare una nuova legge elettorale: il Parlamento può già legiferare, in questo momento, anche con l’attuale governo dimissionario». «In questa fase basterebbe accordarsi su una soluzione molto semplice: votare con la legge elettorale precedente, il Mattarellum. Basterebbe approvare una legge con un solo articolo. Si potrebbe fare con una facilità disarmante».

l’Unità 26.3.13
Cittadini 5 Stelle, zero leggi in Parlamento
«Non abbiamo adeguato personale legislativo», ammette il deputato Zaccagnini
Gli altri gruppi sfornano ddl, i grillini sono con l’apriscatole in mano...
di Toni Jop


Ecco che si alza un altro grido di dolore dalle file grilline, sarà la quaresima incombente? «Siamo senza adeguato personale legislativo», ha lamentato sul suo sito Facebook il deputato Adriano Zaccagnini. Lo avevano sorpreso, e fotografato, mentre consumava un pasto al ristorante della Camera, uno dei luoghi infernali messi all’indice dal corretto bon ton Cinque Stelle. Si era scusato, e non se ne faccia un dramma, non è questo che interessa. Meritano invece attenzione quelle sue parole sul «personale» perché, fin qui, costituiscono la sola chiave evidente per cercare di interpretare il livello produttivo dei gruppi parlamentari che fanno capo a Grillo.
Le quantità sono sempre ingannevoli, le cifre sono ambigue proprio per la loro sfacciata arroganza, quindi prendiamole con le pinze, anche in questo caso, ma... A conti fatti, nel corso di questo sincopato inizio di legislatura, se si può valutare la qualità della presenza di una compagine parlamentare anche dai disegni di legge che ha messo in campo, bisognerà pur ammettere che qualcosa non funziona tra quei banchi. Prendiamo questa sintetica tabella relativa al numero di disegni di legge presentati dagli schieramenti fino ad oggi: Pd, Sel, Cd, Psi e Svp hanno depositato 297 provvedimenti; il Popolo della Libertà con la fida Lega 213; Lista civica con Monti 40; Iniziativa popolare 20; Cinque Stelle 0. Zero. Va bene: sono al loro primo ingresso, non sono sostenuti dalla forza d’inerzia di cui godono gli altri partiti che trascinano ddl da una legislatura all'altra. Ma zero suona strano; suonava, prima delle parole di Zaccagnini.
Non hanno personale. Costa, devono far conti, magari Grillo non ha detto nulla in proposito e così hanno paura di dirgli «dotto’, che dobbiamo fare? Servono soldi, li prendiamo dal fondo “informazione”, li dobbiamo togliere a Casaleggio?”. Stallo legislativo, qui siamo, con l’apriscatole in mano. Giusto, l’apriscatole: quand’è che l’hanno usato? Non per i loro meeting di gruppo, lì hanno optato per una riservatezza insospettabile, prima. Per il resto, mentre sono inchiodati in sala d’attesa si riguardano i film delle loro cose; perché altro, a quanto pare, non fanno. Processi interni, discussioni segrete perfino per lodare la bellissima intuizione del capo assoluto che, sconvolto per la spaccatura tra i suoi su Grasso, ha pensato bene di commissariarli con due tostissimi comunicatori alle dipendenze di Casaleggio i quali, dopo aver sparato divertenti cazzate, hanno deciso di chiudersi la bocca.
Intanto, sempre il loro geniale Megafono invece di preoccuparsi del suo fronte parlamentare sta lì a dare ordini mattacchioni per difendere i suoi territori, il blog, dalle incursioni del dissenso. Ritiene che sia troppo consistente per essere vero, e così lo ha attribuito ai troll, incursori prezzolati dalla sinistra, giura. Ha addirittura avvisato i controllori di marcare con dei segni grafici i falsari. Un bel delirio. È chiaro che in queste condizioni non è in grado di ascoltare i bisogni dei parlamentari, che se potesse, dopo quel che hanno fatto, manderebbe a spalare carbone pulito, altro che ufficio legislativo. Usassero l’apriscatole che costa niente e tutti capiscono cosa vuol dire.

il Fatto 26.3.13
Cantautore e assessore: Franco Battiato
“Beppe voti un governo, con Bersani o senza”
di Caterina Perniconi


Grillo deve chiudere un occhio e appoggiare un governo per far fronte all’emergenza”. É a Londra per un concerto Franco Battiato, ma resta collegato con l’Italia e vede davanti a sé una sola soluzione per sbloccare lo stallo politico: i grillini direttamente coinvolti in un esecutivo. Due giorni fa il cantautore e assessore della Regione Sicilia aveva criticato i continui attacchi del leader del MoVimento 5 stelle alla politica, “a volte sembra che stia per cedere un minimo, ma poi le frasi sono sempre quelle”. Auspicando un “modello Sicilia” anche per l’Italia: “La coabitazione con M5S qui ha funzionato, e sta andando benissimo”.
Quest’ultima frase ha scatenato la reazione del capogruppo dei grillini siciliani, Giancarlo Cancelleri, secondo il quale “le persone come Battiato sono convinte che il M5S stia ‘coabitando ’ con loro ma non c’è niente di più falso, niente di più inesatto. Il modello Sicilia non esiste o meglio siamo noi – continua Cancelleri – quelli del M5S, i deputati, gli attivisti, i cittadini che ogni giorno si sbracciano per portare avanti punti di buon senso, buone idee. Se domani mattina Battiato, Crocetta e compagnia varia proponessero idee non buone, non in linea con il bene dei cittadini, il M5S li manderebbe a casa in un secondo”.
Assessore, cosa ne pensa della reazione di Cancelleri?
Credo che in Sicilia siamo riusciti ad abbattere dei muri, non ci sono destra o sinistra che tengano. E quando io dico che abbiamo ‘coabitato’, significa che abbiamo lavorato bene insieme. Continuo a pensare però che Grillo stia esagerando.
Insomma, deve appoggiare Bersani?
Se non se la sente andiamo di nuovo a votare, ma non credo sia la soluzione migliore per il Paese.
Meglio un governo Pd-Pdl?
Non credo, ma dipende da loro a quel punto. Di certo abbiamo bisogno di riforme urgenti e qualcuno deve farle. Insisto, il modello Sicilia funziona.
Precursori di un accordo di governo?
Non è una gara. Noi stiamo lavorando bene, siamo affiatati, andiamo d’accordo.
Ma Grillo non vuole che i suoi votino una fiducia a un governo dei Democratici.
A volte però alcune sue dichiarazioni vengono smontate, sul voto a Grasso non mi pare abbia punito nessuno. Il problema è che sono in tanti, molti di più di quelli che si aspettavano.
Impossibile controllarli?
Certo, è molto difficile per colpa dei numeri. Ma ci sono delle urgenze ora per cui bisogna chiudere un occhio, votare 3 o 4 leggi fondamentali.
Ma in Sicilia non c'è il problema
della fiducia iniziale, Rosario Crocetta è stato eletto direttamente. A Roma bisogna appoggiare la nascita di un esecutivo.
Si può votare la fiducia a un governo provvisorio, per risolvere le impellenze.
Con o senza Bersani?
Non lo so, possono anche indicare un altro nome, ci sarà qualche personalità che non gli dispiace.
La gente si aspetta responsabilità dal M5S?
Non vorrei che si aspettassero di essere rieletti o di prendere il 50%, il nostro è un Paese bizzarro.
Cioè?
Ormai è frammentato in maniera pazzesca, c'è chi si astiene e non si prende nessuna responsabilità e chi vota in cambio di 50 euro. La prossima volta può cambiare tutto di nuovo.
A proposito, ha visto Berlusconi sabato?
No, ero all’estero, comunque non m’interessa.
La piazza era piena.
Ma ci sono stati anche flop, a Napoli per esempio. O a Milano, dove doveva volare e invece ha vinto Giuliano Pisapia.
Alle ultime elezioni ha vinto Maroni.
A Milano ha vinto Ambrosoli, è la provincia a essere ancora ignorante.
E se invece che ignoranti volessero semplicemente indietro l’Imu?
Ecco, sono ignoranti. Perché l’Imu l’ha votata anche Berlusconi e non avrebbe nessun modo per restituirla. Ma se ascoltano solo le informazioni veicolate dalle sue tv non miglioreremo.
Ha visto un po’ dei nuovi deputati e senatori grillini?
Solo un paio di rappresentanti in televisione.
Che idea si è fatto di questo mondo?
Io posso parlare solo per l’esempio siciliano, che conosco. Lì sono stati eletti dei ragazzi di buon senso, non importa essere politici di professione per fare cose buone.
La ascoltano?
Sì, e anche io li ascolto.
Intendevo la sua musica.
Credo di sì (ride) ma non è certo un problema. Ora c’è da salvare un Paese.

La Stampa 26.3.13
Battiato: “Per cambiare le cose necessario trovare un accordo”
L’assessore-cantante: il M5S faccia 3-4 leggi indispensabili
di Laura Anello


«Forse Cancelleri non sa quanto si sta massacrando Crocetta per il bene della nostra isola. Se lo sapesse, non parlerebbe così». A Londra, dove sta per esibirsi nella tappa del suo tour «Apriti Sesamo» che lo vedrà stasera a Bruxelles, le polemiche sulla politica italiana arrivano attutite. Così è già tardo pomeriggio quando Franco Battiato — assessore al Turismo della Regione siciliana — legge e replica con amarezza alle parole del capogruppo dei Cinquestelle al Parlamento dell’Isola, Giancarlo Cancelleri. L’autore di «Povera patria», aveva richiamato Grillo alla responsabilità dicendo che l’Italia «è un Paese dilaniato» e aveva evocato il modello Sicilia — dove Crocetta ha portato al traguardo numerosi provvedimenti con il sostegno del MoVimento — come possibile riferimento per il governo nazionale. Ma Cancelleri gli ha dato una risposta al vetriolo, sostenendo che «il modello Sicilia non esiste», e che «se domani mattina Battiato, Crocetta e compagnia varia proponessero idee non buone, il movimento Cinquestelle li manderebbe a casa in un secondo». Per concludere: «Non sono loro a fare la storia di questo Paese, siamo noi. Da soli non avrebbero cambiato nulla».
È così, maestro? Da solo, Crocetta non avrebbe cambiato nulla?
«Queste frasi non meriterebbero alcun commento, ma ci provo. Dico che bisogna rispettare le persone che stanno lavorando per cambiare la Sicilia. Crocetta è una causa, non un effetto. La causa, il motore del cambiamento, non l’effetto di processi innescati da altri».
In che cosa state cercando di cambiare la Sicilia?
«Crocetta ama la gente semplice e difende i deboli, che cosa c’è di più rivoluzionario nel panorama della politica italiana? È sbagliato sottovalutare quel che sta facendo. Forse Cancelleri non sa quanto sta lavorando, i precari incazzati li incontra lui, la gente che chiede risposte pure…».
E lei, da assessore, in che modo sta contribuendo a questo cambiamento? Ci sono state polemiche sulla sua assenza. Il centrodestra preannuncia la sfiducia...
«Il mio ruolo è quello di richiamare nella mia terra scienziati di livello mondiale, che stanno cambiando il percorso degli individui. Mi metto in contatto con tanti nomi della letteratura, della fisica quantistica, della danza, di tutte le cose che appartengono all’arte, alla spiritualità».
Agli attacchi per le sue assenze che cosa risponde?
«Che sono attacchi tipici della destra, che non sopporta di essere stata scalzata. E non sopporta che uno come me, da sempre fuori da questa casta, si possa permettere di dire qualcosa contro la corruzione, l’illegalità».
E Grillo? Pensa che debba allearsi con la sinistra per governare?
«Penso che il M5S, col successo che ha avuto, debba indicare qualcuno con cui trovare un accordo per portare a casa quelle tre-quattro leggi che possono cambiare le cose. Ho già detto che per me il 75 per cento dei politici dovrebbe andare a casa, ma ci sarà pure un 10-20 per cento della sinistra non troppo compromesso con cui si può parlare, lontano da un certo tipo di politico italiano…».
Senza fare nomi… «Senza fare nomi».
Il “modello Sicilia” per lei funziona?
«Ho considerato l’arrivo dei grillini un dono da ogni punto di vista. Non ho mai avuto a che fare con Cancelleri, con lui solo un saluto veloce. Ma ho incontrato molti dei ragazzi deputati, li ho conosciuti durante le riunioni, mi pare che abbiano fatto bene. Si sono ridotti lo stipendio, io lo devolvo integralmente ogni mese, sicuro che l’onestà vinca su tutto. Ma è presto, per tirare le somme. Prima di vantarsi, bisogna arrivare a conclusioni serie».

La Stampa 26.3.13
l leader di Piratenpartei Bernd Schlömer
Il n.1 del partito dei pirati tedeschi:
«Grillo dovrebbe ascoltare di più le voci all’interno del movimento anziché dirigere un fan club»
“Nel M5S non c’è democrazia in Germania non sarebbe legale”
di Enrico Caporale

qui

La Stampa 26.3.13
I ribelli agitano Grillo “Ditemi cosa succede”
L’ex comico chiede spiegazioni ai due capigruppo sui “trattativisti”
di Andrea Malaguti


Non sembrava nervoso. Ma di sicuro era preoccupato. Forse per la prima volta da quando lo tsunami si è spostato dalle piazze al Palazzo. Così sabato, dopo essersi rigirato a lungo i giornali tra le mani - li odia, ma li legge Giuseppe Piero Grillo ha sentito al telefono (qualcuno sostiene che si sia trattato di uno scambio di mail, ma il senso cambia di poco) prima la sua capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi, poi il suo capogruppo al Senato, Vito Crimi. Quattro parole per esprimere un disagio diventato profondo. «Ditemi che cosa succede».
Già. Che cosa succede nella pancia del MoVimento 5 Stelle? Chi sono i venti cittadini convinti che sarebbe necessario discutere la possibilità di un accordo con il Pd? E, soprattutto, è ancora in grado il papa ligure di tenere a bada i suoi inquieti sacerdoti? Sono fedeli, obiettori di coscienza o traditori? Uno psicodramma diventato sgradevole al punto da condizionare l’intera giornata di ieri (antivigilia dell’incontro in diretta streaming con Pier Luigi Bersani) dopo che già domenica pomeriggio tra i 163 eletti era girato un messaggio che chiedeva: «Chi si è sfogato con i media? ». Il tono non era tanto quello di una domanda, piuttosto di un’accusa.
L’ala dei talebani, la più forte gli ultraortoddosi, i fedeli alla linea - si era ricompattata immediatamente, confortata dalla disponibilità di Grillo a presentarsi personalmente a Roma per un incontro (eventualità non ancora esclusa). «Se arriva il Capo nessuno si ribellerà», era la riflessione. Di certo era arrivato il momento di inviare nuovi inequivocabili messaggi.
Così, ieri mattina, utilizzando la voce profonda e pensierosa che usa quando non vuole lasciare spazio ai dubbi, Roberto Fico - vicino a Grillo e a Casaleggio per istinto e per sensibilità commentava in Transatlantico: «I cosiddetti trattativisti? Nessun problema. Se un senatore (o un deputato) votasse la fiducia al governo sarebbe espulso. E se la fiducia la votassero in 53 sarebbero espulsi tutti e 53. Noi siamo qui per fare opposizione vera. Non per distruggere. Ma per costruire un Paese diverso. Migliore. Affidabile». Chi ha voglia di alzare la testa?
Contemporaneamente, sul suo blog, lo stesso Grillo decideva di ridefinire il senso del rapporto tra il governatore Crocetta e il MoVimento Cinque Stelle nell’Isola: «Il modello Sicilia siamo noi - scrive Cancelleri -. Siamo noi che stiamo facendo la storia costringendo Crocetta e compagnia a fare le scelte». Sottotitolo: la nostra forza dipende dall’assenza di legami, anche una sola stringa di scarpe che ci legasse a qualsiasi partito finirebbe per strangolarci. Significativo anche il post scriptum: «Da oggi è nuovamente possibile per gli autorizzati segnalare i commenti dei troll o degli utenti che contravvengono alle regole del blog». Scontro totale. Sul web e nella vita vera. Dentro il Palazzo con la Casta. Fuori con gli spalatori di «merda digitale». Noi e loro. Il mondo spaccato in due. La formula frankeinsteiniana dell’Uomo Nuovo. Eppure, a spaventare i «trattativisti» più che la voce grossa del Capo - che comunque ha un peso - era l’incomprensibile atteggiamento di Bersani. «Vuole allearsi con noi o con la Lega e Monti? Che senso ha venire allo scoperto se poi quello guarda altrove? Cornuti e mazziati sarebbe troppo», commentavano con le voci intrecciate come se la loro fosse una danza due cittadini-parlamentari al Senato. Una complicata battaglia di posizioni. Proseguita fino a notte fonda.
A Montecitorio, nella sala del Mappamondo, Tatiana Basilio, fedelissima del papa ligure, spiegava che «in ogni famiglia qualcuno si perde, magari anche un figlio», lasciando intendere che il MoVimento era pronto a fare i conti con qualche profugo, ma deciso a non farsi condizionare. E la Lombardi chiosava: «La linea è pacifica. Ed è sempre la stessa. Non è stato chiesto, e non ci sarà, nessun chiarimento». Ma la sua voce aveva la forza minore di una lampada da tavolo, che invece di fare luce si limita ad avvolgere le ombre. È ancora presto per i titoli di coda.

La Stampa 26.3.13
Fraccaro: “I dissidenti? Qualcuno ha sbagliato ma non capiterà più”
Il segretario d’aula grillino: siamo compatti
di A Mala.


Talebani del MoVimento. Uno è il trevigiano Riccardo Fraccaro. Cittadino-parlamentare neoeletto segretario della Camera. Trentadue anni, laurea in legge (tesi in diritto internazionale dell’ambiente) parla con attenzione, misurando i toni, come se stesse governando il fuoco di un camino immaginario. Momento delicato.
Riccardo Fraccaro, offeso?
«Da che cosa? ».
Da Grillo che sale al Quirinale senza neanche passare a salutarvi.
«E quale sarebbe il problema? ».
Non avrebbe dovuto almeno dirvi: buongiorno?
«Forse. Ma quello per Beppe era uno sfizio».
Scusi?
«Ce l’aveva spiegato l’ultima - e unica - volta che ci siamo visti che a lui piaceva l’idea di andare dal Presidente. Il MoVimento è nato grazie a lui, mi pare che fosse un’aspettativa legittima».
L’orgoglio (vanità) è legittimo. La condivisione non dovrebbe essere necessaria?
«Lo diciamo. Non dimentichiamo che ogni atto creativo in fondo è antidemocratico. E lui il MoVimento l’ha creato. Poi però ci lascia camminare da soli. Siamo noi a scegliere».
Ecco, visto che tocca a voi: che cosa scegliete?
«Stiamo parlando del governo? ».
Esatto.
«La nostra linea non si è mai spostata di un centimetro. Non daremo la fiducia a Bersani. Né a nessuno dei vecchi partiti».
Non date quell’impressione.
«Curioso. Perché io ai nostri incontri sono sempre presente e non c’è nessuno a mettere in discussione le linee di fondo. D’altra parte noi esistiamo assieme o non esistiamo».
Al Senato avrebbe votato per Grasso?
«No».
Chi l’ha fatto ha sbagliato?
«Sì. C’era una decisione della maggioranza. Andava rispettata. Ma c’è stata confusione nella comunicazione. Lo abbiamo capito. I tempi per decidere erano stretti, qualcuno è stato travolto dall’emotività. Capita. O meglio: è capitato. Non capiterà più».
Dissenso vietato?
«Ma che c’entra? Banalmente c’è un codice interno. Dice una cosa ovvia: decide la maggioranza. Sennò salta tutto per aria. È la nostra pietra angolare. Tra l’altro fidarsi di questi partiti è impossibile».
Nemmeno se si impegnano sui punti del vostro programma?
«Hanno avuto vent’anni per fare una lunga serie di cose che hanno trascurato. Però nelle commissioni si può cominciare a intervenire. Se fanno atti concreti noi ci siamo».
Prima vedere cammello.
«Davanti ad alcuni atti concreti potremmo riflettere su un atteggiamento diverso. Il Parlamento è organizzato per lavorare. Sfruttiamolo. Per alcune riforme bastano pochi giorni».
Il modello Sicilia.
«Il modello M5S».
Perché quello che fate sull’isola non potete farlo nel resto del Paese?
«Perché in Sicilia non era necessaria la fiducia preventiva».
Non l’avrebbe votata neppure lì?
«Proprio no. Le ho detto che la coerenza viene prima di tutto».

Corriere 26.3.13
Grillo serra i ranghi e lancia la caccia agli «intrusi» sul blog
Domani consultazione in diretta streaming
di Alessandro Trocino 


ROMA — Caccia ai troll sul blog ma anche ai possibili parlamentari dissidenti. Beppe Grillo serra i ranghi e dopo aver lanciato l'allarme su chi viene «pagato per spammare» il sito, alza il tiro, invitando tutti alla denuncia degli intrusi virtuali. Ma non sfugge a nessuno che l'improvviso appello alla «vigilanza democratica» coincida con l'avvicinarsi della data fatidica, ovvero del giorno della fiducia al governo proposto da Pier Luigi Bersani. Alle voci incontrollate di un «disagio» da parte di alcuni esponenti a 5 Stelle, in particolare senatori, la risposta dello staff è la ricerca delle eventuali «gole profonde». Dopo un sondaggio via mailing list interna — con la domanda sicula «cu fu?», rimasta inevasa — ieri alcuni membri dello staff in Transatlantico chiedevano conto ai deputati di chi avesse fatto soffiate ai giornalisti.
Domani alle 10 ci sarà l'incontro (trasmesso in streaming) tra Bersani e la delegazione 5 Stelle, formata dai capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi. Non è escluso che prima ci sia un dibattito interno. Ma la Lombardi nega: «Nessuno lo ha chiesto. E la linea politica è palese». Come a dire che non saranno tollerate posizioni divergenti. Il caso Grasso resterà isolato. Il «perdono» a chi ha votato il presidente del Senato indicato dal Pd non si ripeterà. Per evitarlo, c'è chi ora invoca soluzioni più drastiche. Giuseppe Mancini, nel forum sul sito di Grillo, chiede che la ratifica online degli elettori avvenga anche nel caso in cui non venga chiesta l'espulsione: «Altrimenti oggi io perdono te e tu perdoni me e si crea un'altra casta». Linea dura condivisa su Twitter dalla deputata Danila Nesci.
In apparenza la compattezza c'è. Spiega Tatiana Basilio: «La pensiamo tutti allo stesso modo. Ma siamo 163 teste diverse e in tutte le famiglie succede che qualche figlio si perda». Fedeli alla linea anche i calabresi Paolo Parentela e Daniela Dieni. E Andrea Cecconi, che aggiunge: «Se qualcuno la pensa diversamente lo dica apertamente. Non ci vedo nulla di male nel parlarne». Apertura lodevole, che non collima con il clima. La caccia al troll, l'intruso prezzolato, categoria nella quale viene sussunta qualunque opinione critica, è partita ufficialmente. Caccia simbolica e piuttosto velleitaria. Anche perché Grillo scrive che è possibile segnalare chi contravviene «alle regole del blog». Regole introvabili sul sito.
I parlamentari, intanto, si organizzano. In Aula rischiano di finire all'estrema destra perché il Pdl vuole stare al centro: decisivo sarà il voto del Pd. Ieri intanto la Lombardi ha visto il questore Stefano Dambruoso per chiedere di rivedere le regole sui collaboratori (per legge i gruppi devono destinare il 55 per cento del budget all'assunzione di collaboratori già assunti, che spesso hanno lavorato con altri partiti e dei quali non ci sono neanche curricula). Dambruoso ha espresso la disponibilità, ma se ne occuperà il collegio.
Quanto al dialogo, Vito Crimi la pensa così: «I partiti dovrebbero scusarsi e fare due passi indietro». Grillo è ancora più chiaro e posta un intervento di David Graeber, anarchico, attivista di Occupy Wall Street: «Negli ultimi duecento anni, i democratici hanno cercato di innestare gli ideali di autogoverno popolare sull'apparato coercitivo dello Stato. Ma per loro natura gli Stati non si possono realmente democratizzare». Bersani e i «democratici» sono avvertiti.

Repubblica 26.3.13
Beppe chiama a rapporto i capigruppo “Ditemi chi vuole votare la fiducia”
Lettera di Crimi e Lombardi. Fico: chi dissente è fuori
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — «Ditemi che succede», chiede Beppe Grillo a Vito Crimi e Roberta Lombardi. «Voglio sapere se davvero nel gruppo ci sono persone che pensano di fare un accordo con il Pd». Mentre sul blog il capo politico del Movimento 5 Stelle attaccava le “orde di trolls” colpevoli di non essere fedeli alla linea, nella vita reale chiedeva spiegazioni ai suoi portavoce in Parlamento sui retroscena degli ultimi giorni. Quel che ha letto sui giornali non gli è piaciuto affatto. Sapere che qualcuno pensa che «così rischiamo di perdere il nostro appuntamento con la storia», oppure che «se avessimo dovuto dare la fiducia a Crocetta il modello Sicilia di cui ci vantiamo non sarebbe mai partito», è una cosa che proprio non gli va giù. Così sente i capigruppo. Chiede spiegazioni. E mentre in Rete parte la caccia agli infiltrati, in Parlamento, tra chi ha espresso il suo dissenso, serpeggia la paura.
«Dimmi chi è il senatore che ti ha parlato», chiede Rocco Casalino - ex concorrente del Grande Fratello, ora uomo di comunicazione dei grillini lombardi - a un cronista. Lamenta la pressione e gli attacchi della stampa: «Faccio
questo lavoro da anni e non ho mai visto una cosa del genere». Tra i parlamentari, nel week end, sono girate e-mail che si interrogavano sui non allineati. Roberta Lombardi ha scritto ai deputati. Crimi ai senatori. «Non ci credo che 20 di noi siano pronti a votare la fiducia a Bersani», è una delle frasi del capogruppo di Palazzo Madama. Che suona come un monito: attenzione, dopo la divisione su Grasso, non possiamo permettercene altre.
Ufficialmente, ogni dissenso è negato. «Siamo un gruppo compatto », dice la ventiseienne calabrese Federica Dieni. «Vorrei che chi pensa queste cose ne parlasse al gruppo», invita il toscano Alfonso Bonafede. Ancor più chiaro, Roberto Fico: «Se uno vota contro la decisione dei gruppi, stavolta, è fuori. Se al Senato votano contro in 53, sono fuori in 53». A chi le chiede se ci sarà un’assemblea prima dell’incontro di domani mattina con il Pd, Roberta Lombardi risponde secca: «Non è stato chiesto un momento
di confronto. La linea è talmente pacifica...». Eppure già ieri sera - dopo l’aula - i deputati si sono riuniti in segreto fino a tardi. Non tutto è in chiaro. Non tutto va in streaming. E c’è chi, come Tatiana Basilio, di Brescia, alcune defezioni le mette in conto: «In tutte le famiglie qualche figlio si può perdere».
Il punto è che anche coloro che fino a sabato scorso erano pronti ad alzare la mano e chiedere agli altri: «Sicuri che non sia il caso di andare a vedere le carte di Bersani?
Sicuri che così non si finisca per aiutare la vecchia politica?», non hanno trovato le sponde che cercavano nel Pd. Fanno notare che il segretario non ha fatto nessuna proposta irrinunciabile ai 5 Stelle. Che quando Grillo gli ha chiesto di abolire il finanziamento pubblico, «ha tirato fuori l’antica Grecia per dire che no, i soldi alla politica servono». Soprattutto, vedono trattative in corso con la Lega, con il Pdl. «Se tanto si fanno un governo tra loro, che senso ha impuntarci e rischiare di farci cacciare?». A questo punto, è davvero difficile che i mal di pancia dei singoli possano trasformarsi in battaglia politica all’interno dei gruppi. Né rischia di ripetersi un caso Grasso, perché il voto sulla fiducia è palese, l’espulsione sarebbe immediata. Tra le voci di Transatlantico, c’è anche quella di un prossimo arrivo di Grillo, che il giorno della salita al Colle non ha incontrato i parlamentari come qualcuno si aspettava. «Non ne so nulla - dice un deputato - ma personalmente avrei la necessità di vederlo, o almeno sentirlo in assemblea, tanto per sapere che cosa ha in mente. Non che sia influente, ma almeno ne prendiamo coscienza».

Repubblica 26.3.13
Giuliano Santoro, l’autore del libro “Un Grillo qualunque”: la caccia alle streghe è solo un modo per cercare di serrare le fila
“È in difficoltà e colpevolizza gli infedeli”
di Concetto Vecchio


ROMA — Giuliano Santoro, da studioso del grillismo, ritiene fondata la denuncia sulle infiltrazioni dei troll nel blog di Grillo?
«Si tratta di una specie di caccia alle streghe. Leggo la sua uscita come un segnale di debolezza: Grillo comincia a fare i conti con il dissenso. Vede, questi messaggi contrari alla linea ufficiale contraddicono la sua idea della rete come un’entità unica, il famoso “popolo del web”. Ora, “il popolo del web” non esiste, è una sua costruzione ideologica, la rete è semplicemente uno spazio pubblico nel quale agiscono varie forze, che talvolta confliggono tra loro. Questa vicenda lo dimostra una volta di più».
Ma perché giudica l’affondo una debolezza?
«Volendo schematizzare finora il blog di Grillo funzionava così: il comico-leader detta l’agenda e gli spettatori-lettori la condividono su Facebook, che è un formidabile moltiplicatore di contenuti, un luogo dove solo una piccola minoranza produce contributi originali. Gli altri si limitano a commentare con un “mi piace”. Ecco, i tanti commenti critici verso gli ordini calati dall'alto sovvertono questa passività».
Grillo incita alla caccia all’infiltrato. Ma com’è possibile scovarlo?
«Non vedo come potrebbe, da un punto di vista pratico. Il suo invito rappresenta piuttosto un messaggio politico, un modo per serrare le fila, respingere il nemico esterno. È l'ennesimo tentativo di colpevolizzare il dissenso.
Lo scrive lui stesso nel suo post di domenica, quando parla di «divisori venuti per separare ciò che è oscenamente unito». I dissenzienti, sono, in questa logica, i fautori di una guerra che cerca di rompere l’unità fittizia e autoritaria che c’è nei 5 Stelle».
Reggerà questa unità oppure al Senato si spaccheranno, votando la fiducia a un governo Bersani?
«Penso che nel breve periodo l’unità non si romperà. Anzi, i loro auspici si stanno realizzando, visto che c’è il rischio concreto di un governissimo. Il che confermerebbe
il loro frame: da un lato ci sono i partiti, che sono tutti uguali, e dall’altro ci sono i 5 Stelle. Per questo, se solo provi a ragionare, anche usando un pensiero autonomo dai partiti, ti zittiscono con un “allora ti paga il Partito democratico”».
Cosa l’ha colpita dei loro primi passi in Parlamento?
«La capacità incredibile di concentrarsi sui dettagli, di spostare cioè l’attenzione su questioni simboliche ed emotive, a scapito di quelle materiali e razionali».
Può fare un esempio?
«Si parla di “rendicontare le caramelle”, e s’ignora l’importantissimo vertice dei primi ministri di Bruxelles. Insomma, si punta di continuo alla pancia degli elettori, senza spiegare come uscire dalla crisi».

l’Unità 26.3.13
Il bambino di Cittadella e la Pas
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il bambino di dieci anni, prelevato qualche mese fa dagli agenti di polizia in una scuola di Cittadella e allontanato dalla madre sulla base di una diagnosi di Pas, è potuto tornare a casa perché la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della mamma. Cosa pensa lei di questa «sindrome» che non è inclusa nel Dsm 5 ma risulta contemplata nelle Linee guida in tema di abuso sui minori della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza?
Silvia Nuzzo

La Corte di Cassazione ha ritenuto che la Pas non sia una diagnosi sufficientemente fondata dal punto di vista scientifico per funzionare come punto di riferimento per la scrittura di una sentenza. I supremi giudici non hanno considerato attendibile dunque una diagnosi su cui la comunità scientifica è a oggi spaccata in due, fra una minoranza di sostenitori che vedono Pas in tutte le situazioni in cui un bambino non vuole vedere il genitore non collocatario e una maggioranza di specialisti che nella Pas non crede semplicemente perché non crede nel plagio e nella possibilità che la mente di un essere umano, adulto o bambino che sia, possa essere completamente e stabilmente eterodiretta, senza l’aiuto determinante delle gravi patologie che in un caso come questo chiaramente non c’erano. Quello che accade nelle separazioni più conflittuali è semplicemente un allinearsi del bambino alla tesi del genitore di cui più avverte la fragilità e/o da cui si sente più rassicurato e capito con l’invio all’altro, che il bambino non vuole incontrare, di un messaggio che dovrebbe essere inteso come una richiesta di aiuto drammaticamente sottovalutata dall’esperto che gli risponde ignorando le sue difficoltà e dicendogli: «Questo messaggio non è tuo». Alienandolo, stavolta sì, da quello che lui comunque sente in quel momento.

l’Unità 26.3.13
Xi, il nuovo re d’Africa
Il colonialismo ugualitario dei cinesi
di Gabriel Bertinetto


La curva descritta dal grafico si impenna vertiginosamente verso l'alto, fotografando un incremento dell'interscambio commerciale fra la Cina e l'insieme dei Paesi africani di sensazionale rapidità.
Nel 2002 la linea si solleva appena al di sopra dello zero, a indicare una manciata di miliardi di dollari. Dieci anni dopo l'import-export globale tocca già i 200 miliardi. Una cifra che mette il Paese di Xi Jinping saldamente al primo posto nel mondo fra i partner commerciali del continente nero. Aggiungiamoci i dati sulla quantità di imprese trapiantate in Africa (oltre 800), e sul numero dei cittadini della Repubblica popolare ivi emigrati per lavoro (almeno un milione), e il quadro della pacifica invasione cinese si presenta in tutta la sua impressionante e massiccia chiarezza.
Xi Jinping ha inserito non a caso tre Paesi africani fra le mete del suo primo viaggio all’estero nelle vesti di capo di Stato: Tanzania, Sudafrica, Repubblica del Congo. A Dar es Salaam ieri ha firmato 16 nuovi contratti, suggellando un rapporto di collaborazione che qui risale molto indietro nel tempo, addirittura all’era di Zhou Enlai e della ferrovia costruita dagli asiatici per collegare la Tanzania con lo Zambia. Rivolgendosi direttamente agli interlocutori locali, ma certamente avendo presente i crescenti timori della concorrenza politica ed economica internazionale, Xi ha cercato di descrivere in termini paritari, il rapporto del suo governo con gli Stati del continente nero. Ricordando i 20 miliardi di dollari che nei prossimi due anni verranno emessi a favore degli Stati locali, ha sottolineato che «l’Africa appartiene agli africani» e tutti ne devono «rispettare la dignità e l’indipendenza». «Vediamo lo sviluppo altrui come una nostra opportunità -ha aggiunto Xie lo promuoviamo insistendo sull’uguaglianza dei Paesi indipendentemente dalla loro dimensione, forza o ricchezza».
Sul piano ideologico il discorso fila. Ma sul terreno fattuale sono molte le voci che ne contestano l’attendibilità. Lamido Sanusi, governatore della Banca centrale di Nigeria, ritiene ad esempio che l’Africa stia semplicemente cedendo le sue risorse naturali alla Repubblica popolare in cambio di prodotti made in China. «Questa fu a suo tempo l’essenza del colonialismo. Gli inglesi andarono in Africa e India per procurarsi materie prime e mercati. L’Africa oggi sta spontaneamente aprendo le porte a una nuova forma di imperialismo».
Altre critiche sono meno perentorie, ma altrettanto severe: «Africa e Cina da un decennio vivono una vera storia d’amore, ma la luna di miele è finita», afferma Ana Alves, studiosa dell’Istituto sudafricano di affari internazionali con sede a Johannesburg. Alves si riferisce alle tensioni sempre più frequenti fra cinesi emigrati e gente del posto. L’episodio più grave risale allo scorso agosto, in Zambia, quando l’amministratore cinese di una miniera di carbone fu ucciso dai lavoratori in sciopero che reclamavano invano un aumento di stipendio. Human Rights Watch denuncia le pesanti condizioni di lavoro imposte dai padroni cinesi nell’industria estrattiva, dove gli orari sono estenuanti, le misure di sicurezza insufficienti, le paghe minime. Un forte malcontento deriva anche dall’afflusso di manodopera straniera che soprattutto nell’edilizia toglierebbe lavoro ai locali, e dall’immissione di prodotti cinesi a basso costo (tessili ed elettronici soprattutto) che fanno concorrenza alle merci fabbricate sul posto.
A Durban, dove parteciperà oggi al vertice dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, cinque potenze emergenti in cui vive quasi metà dell’intera popolazione mondiale), Xi Jinping si sentirà probabilmente ripetere dal capo di Stato locale Jacob Zuma le osservazioni che ques’ultimo fece sei nove mesi fa durante una visita a Pechino. Allora Zuma mise in guardia verso i rischi di relazioni commerciali squilibrate, spiegando come «l’esperienza fatta dall’Africa con l’Europa in passato inviti alla prudenza».
Al di là dei proclami di facciata, Pechino è consapevole che i problemi ci sono. Prima della partenza di Xi, il suo vice ministro degli Esteri Zhai Jun ha ammesso «le crescenti sofferenze» nei rapporti con i Paesi africani, pur individuandone le cause in un semplice «deficit di comprensione reciproca». C’è poi un aspetto dell’atteggiamento della Repubblica popolare che inquieta l’Occidente, al di là della rivalità di tipo economico. Pechino è solita giustificare in nome della non ingerenza negli affari interni altrui, la sua tolleranza verso regimi che la comunità internazionale ha messo all’indice per le violazioni dei diritti umani. Intrattiene buoni rapporti commerciali con personaggi come Omar al-Bashir, dittatore sudanese su cui pende un mandato di cattura della Corte internazionale dell’Aja per genocidio e crimini di guerra, o Robert Mugabe, leader dello Zimbabwe.

Repubblica 26.3.13
Materie prime ed esportazioni Xi alla conquista dell’Africa per superare l’economia Usa
L’esordio all’estero del leader cinese. Ela moglie trionfa sul web
di Giampaolo Visetti


PECHINO  — «Vediamo lo sviluppo degli altri come una nostra opportunità e lo promuoviamo su un piano di uguaglianza tra Paesi, indipendente rispetto a dimensione, forza o ricchezza». Xi Jinping atterra in Tanzania e invia un messaggio diretto alle nazioni in crescita e al resto del mondo: la Cina punta sull’Africa per superare l’economia Usa entro il 2016, assicurandosi le materie prime e le esportazioni per accelerare il salto alla guida del secolo. Il neo-leader di Pechino, a dieci giorni dalla presa del potere, è impegnato nel primo viaggio-simbolo dell’era che ha chiamato del «sogno cinese». In patria aveva scelto una missione a Shenzhen, sulle orme di Deng Xiaoping. Per presentarsi all’estero ha optato invece per la Russia di Putin, per le potenze emergenti dell’Africa e per il vertice dei Brics a Durban, il primo ospitato nel «continente del futuro». A Mosca si è parlato di energia e di armi, ma soprattutto del nuovo patto politico tra i Grandi usciti sconfitti dalla Guerra Fredda, in opposizione all’alleanza Usa-Giappone nel Pacifico. Qui, per quattro giorni tra Sudafrica e Congo Brazaville, Pechino è decisa invece a lanciare «un nuovo ordine globale dello sviluppo », assumendo la guida del «pianeta con il segno più».
Per Xi Jinping è un viaggio fondamentale, schiaffo al tramonto di Stati Uniti ed Europa, esclusi dall’agenda delle priorità. «Ogni volta che vengo in Africa — ha detto Xi a Dar Es Salaam — mi colpisce il continuo progresso. La Cina rafforzerà i rapporti commerciali, opponendosi alla prepotenza dei grandi sui piccoli e dei più ricchi sui più deboli». E’ il discorso del nuovo amministratore delegato dell’ex Terzo Mondo, considerato il «prossimo asse dello sviluppo globale» e il continente da cui Pechino può «cominciare ad espandere il proprio modello economico e culturale». Nel 2000 l’interscambio Cina-Africa era di 6 miliardi di dollari. Nel 2012 ha superato i 200 e il Dragone si è impegnato prestarne 20 fino al 2015. In un decennio Pechino ha concesso 67 miliardi di crediti all’Africa subsahariana, rispetto ai 55 erogati dalla Banca Mondiale. Lo scorso anno gli investimenti diretti cinesi in Africa hanno toccato quota 16 miliardi, trasformando il continente nella grande miniera della seconda economia mondiale. La Cina importa da qui il 30% del suo petrolio, più le materie prime necessarie alla crescita dei propri colossi multinazionali. Nel 2012 le importazioni, cresciute di venti volte in un decennio, sono arrivate a 113 miliardi di dollari. In cambio Pechino costruisce strade e ferrovie, porti e aeroporti, città e distretti industriali, fino a pianificare sette «zone economiche speciali », dall’Algeria alle Mauritius.
Archiviata la fase dei conglomerati rossi: le piccole e medie imprese cinesi emigrate in Africa, da 800 nel 2006, sono esplose ufficialmente a 11 mila e gli analisti parlano di decine di migliaia. Dopo l’abbraccio euro-asiatico tra Russia e Cina, ecco dunque il ponte afro-cinese, lanciato oggi a Johannesburg dal vertice tra Jacob Zuma e Xi Jinping. L’Occidente è povero di risorse, consuma sempre meno ed è vecchio. Asia e Africa scoppiano di materie prime, hanno i Pil in crescita e sono il serbatoio dell’umanità giovane. Per i media di Stato, il primo tour del leader comunista è dunque «l’icona di una nuova era» e segna «il passaggio del testimone dello sviluppo dall’Ovest all’Est». Valore moltiplicato dal vertice con Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica che rappresentano il 43% della popolazione mondiale, il 69% della crescita e il 17% del commercio. Obbiettivo del summit «anti-G20» è dare vita ad un proprio fondo comune e ad un nuovo istituto bancario internazionale (50 miliardi di dollari di capitale iniziale), alternativo a Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale, considerati «strumenti sorpassati delle superpotenze occidentali sebbene a spese delle nazioni emergenti». Il primo passo, per Pechino, verso una rivoluzione monetaria, la piena convertibilità dello yuan e la sua trasformazione in nuova valuta di riserva.
La pre-condizione, per il Quotidiano del Popolo è però «guidare il cartello delle economie pronte ad esplodere». «L’Africa appartiene agli africani — ha detto Xi Jinping — e agiremo affinché tutti i Paesi ne rispettino dignità e indipendenza ». Non solo un monito alle ex potenze coloniali europee e agli Usa. La Cina vede crescere l’accusa di «neo-colonialismo predatorio », di teorizzare la «non ingerenza » per giustificare il sostegno a regimi spietati, di esportare modelli di lavoro «simili alla schiavitù». Famosa la definizione di Hillary Clinton nel 2011: «Neo-colonialismo strisciante». Si sono aggiunti scandali e rivolte contro «l’invasione gialla», come in Zambia, con i manager
cinesi imputati per aver sparato sui minatori sfruttati nelle cave del rame, o come la requisitoria della Nigeria contro «una Cina che si prende le materie prime per rivenderci sottoprodotti finiti». Xi in Tanzania si è difeso ripetendo che quella di Pechino è «una strategia win-win», di mutuo vantaggio perché «lo sviluppo cinese arricchisce gli africani, abbassando i rischi di instabilità sociale e di espansione del terrorismo islamico».
Il “sogno cinese” del nuovo leader, che ha rinviato il primo faccia a faccia con Obama all’autunno, è così «sfilare l’Africa all’Occidente» per costruire il «nuovo ordine mondiale» fondato sulla Cina. Decisiva l’immagine, a partire da quella di Peng Liyuan, prima first lady di Pechino dalla morte della moglie di Mao. Il suo esordio a Mosca, con abiti e accessori d’alta moda, ha fatto impazzire sia i cinesi che i media stranieri, che l’hanno ribattezzata la “Raissa Gorbaciova” dell’Asia. Altro colpo al soft-power della Casa Bianca, mentre a Durban tutti aspettano «la neo-donna più potente del mondo», prima cinese della storia a prendere la parola (a favore della lotta all’Aids) in occasione di un vertice internazionale. La conferma che in Africa il futuro è già cominciato.

Corriere 26.3.13
L’opinione pubblica cinese? Non cercatela nei social network
di Marco Del Corona


Uno degli assunti che si danno per acquisiti riguardo la Cina è che i nuovi media, in particolare i microblog tipo Twitter (il cui accesso nella Repubblica Popolare è formalmente censurato), stiano plasmando un'opinione pubblica sempre più vivace, aperta, capace di dibattiti ad ampio raggio. Uno studio di due ricercatori della University of Hong Kong su un campione di 29.998 utenti di Sina Weibo (il più diffuso dei simil-Twitter) invita alla cautela. Che un'opinione pubblica si sviluppi è un fatto, ma che questo sia necessariamente causato dai social network e in particolare dai microblog non è ancora provato.
Secondo l'indagine, condotta da Michael Chau e Fu King-wa l'anno scorso, emerge anzi che il 57,4% degli account (17.224) non hanno prodotto alcun contenuto. «Solo il 13% dei microblogger cinesi ha scritto almeno un post originale nel giro di una settimana» e «una porzione ancora più piccola, circa il 4,8%, contribuisce con una quantità sproporzionata di post, oltre l'80% del totale». Dunque: pochissimi utenti lanciano online moltissimi tweet, indicando come la sopraccitata vitalità della Rete sia per buona parte un fenomeno di élite. Élite peraltro concentrate nelle grandi città.
Lo studio suggerisce la necessità di «indagini successive». Tuttavia se in Cina la microblog-sfera è abitata e frequentata da una piccola minoranza dei circa 600 milioni di netizen complessivi, è altrettanto vero che anche Twitter, l'originale, è affollato — meglio: infestato — da account vuoti, magari creati solo per gonfiare di follower altri account. Ecco allora un'altra verità: forse non saranno (ancora) così decisivi a modellare la nuova opinione pubblica cinese, ma i social network nella Repubblica Popolare hanno tratti che li fanno assomigliare a quelli dell'Occidente. E dunque, se non altro, un ulteriore pezzo di globalizzazione s'è compiuto.

il Fatto 26.3.13
Per i matrimoni gay d’America giorno del giudizio supremo
di Angela Vitaliano


New York La notte in cui Barack Obama venne eletto presidente degli Stati Uniti per la prima volta, a conferma di una volontà forte di rinnovamento e progresso, la democratica California, lo Stato più grande dove erano stati, fino ad allora, approvati i matrimoni fra persone dello stesso sesso, votò, tramite un referendum denominato “Proposition 8”, per cancellare quel diritto e, dunque, l’unione di tantissime coppie. A distanza di poco più di quattro anni e, dopo una serie fitta di udienze, davanti ai vari gradi della giustizia americana, oggi, il principio di costituzionalità della “Proposition 8” verrà messo in discussione davanti alla Corte Suprema che poi dovrà esprimere un parere, a quel punto definitivo, entro la fine di giugno.
I sostenitori del referendum sono arrivati fin qui, oggi, per opporsi alla decisione della Corte suprema dello stato della California che, sebbene con un margine molto risicato, aveva accolto le richieste degli avvocati Theodore B. Olson e David Bois a favore del matrimonio gay.
IL CASO, negli anni, inutile dirlo, aveva calamitato l’attenzione di tutti: dalle star di Hollywood alle associazioni a favore dei diritti umani fino a “far capitolare” sempre più politici, in maniera bipartisan. D’altro canto gli stessi avvocati, due celebrità del foro, che erano stati “rivali” nel 2000, nel famoso caso “Bush contro Gore”, quando avevano rispettivamente difeso i candidati nel-l’ormai famosa “riconta” delle schede elettorali, si erano immediatamente trovati dalla stessa parte in questa circostanza. E solo un mese fa, la coalizione “Respect for same marriage”, di cui fanno parte oltre 80 organizzazioni che operano nell’ambito dei diritti civili, ha trasmesso, nell’ambito di un investimento da un milione di dollari, uno spot pubblicitario, a favore delle unioni gay, che faceva un “collage” delle dichiarazioni di sostegno in tal senso di politici importanti: da Obama a Colin Powell, da Dick Cheney alla moglie dell’ex presidente, Laura Bush.
L’ultimo spot, invece, la cui programmazione è partita domenica scorsa, punta sulle persone comuni e sul fatto che ciascuno dovrebbe sostenere il diritto dei gay a sposarsi perché parte della nostra comunità come amici, fratelli, sorelle, colleghi di ufficio. È percepibile, infatti, in tutto il paese, un forte cambiamento di opinione in tal senso, con la maggioranza degli americani sempre più aperta ad un allargamento dei diritti civili alle coppie omosessuali: nel 2003, infatti, il 55% si dichiarava contrario alle unioni gay, oggi sostenute da oltre il 58%. Non a caso, quando nel 2009 Obama diede il via alla sua prima presidenza, il matrimonio gay era legale solo in Massachusetts (dove era stato approvato nel 2004) mentre oggi lo è in 9 Stati (fra cui New York) e in 3 (Maine, Maryland e Washington) è stato approvato proprio lo scorso novembre.
La Corte Suprema, inoltre, dovrà confrontarsi anche sul “Defense Of Marriage Act” che stabilisce la definizione del matrimonio come l’unione fra un uomo e una donna e nega i benefici assistenziali alle coppie gay legalmente sposate negli Stati dove ciò è consentito.

l’Unità 26.3.13
Sciopero libera tutti
Marzo 1943: gli operai incrociarono le braccia e cominciò la Resistenza
di Oreste Pivetta


C’ERA CHI, TRA I PIÙ GIOVANI, IGNORAVA PERSINO IL SIGNIFICATO DI QUELLA PAROLA: SCIOPERO.Eppure quel giorno, la mattina del 5 marzo 1943, incrociarono le braccia, riconquistando quella libertà e quella dignità che il fascismo aveva negato loro per anni e anni, un «ventennio» alla fine. Cominciarono a Torino, alla Fiat, a Mirafiori, la grande fabbrica, la fabbrica moderna, che quando venne inaugurata, solo quattro anni prima, era stata presa a simbolo dell’edizione più aggiornata del taylorismo, della razionalizzazione estrema dei processi produttivi (e dello sfruttamento, calcolato mossa per mossa, minuto per minuto), del grande balzo industriale dell’Italia fascista. Si presentò Mussolini stesso nel maggio 1939 ad aprire le porte di quell’enorme stabilimento, dove nel giro di pochi mesi avrebbero trovato posto ventimila operai. Mussolini fu accolto con freddezza, con ostilità celata. Il senatore Agnelli, il padrone di casa, ci rimase male. Mussolini se ne andò, mormorando: «Porca Torino». Si era reso conto che non avrebbe mai conquistato sino in fondo quella città, s’era confermato nell’idea di una città antifascista malgrado tutto. Come si dimostrerà nel giro di pochi anni, dopo l’ingresso in guerra, dopo i primi bombardamenti, dopo la prima fame, quando si scoprì sotto le bombe che il pane mancava e che il piano di razionamento congegnato dai gerarchi in camicia nera non dava da mangiare, quando si sopravviveva di borsa nera, le officine erano state militarizzate, le ore lavorative erano diventate dodici al giorno.
Cominciarono le proteste nel gennaio e nel febbraio, le prime negli stabilimenti di Fiat Acciaierie e di Fiat Diatto. A quel punto la parola d’ordine tra i comunisti in clandestinità, Leo Lanfranco, Umberto Massola, Ermes Bazzanini, Amerigo Clocchiatti, fu: sciopero generale. Organizzare uno sciopero generale, quando il diritto allo sciopero era negato, quando esprimere le proprie idee non era consentito, quando sindacati e partiti erano stati tolti di mezzo. La parola d’ordine doveva essere: «indennità di sfollamento». L’aveva concessa a gennaio il ministero delle Corporazioni, centonovantadue ore di salario (una mensilità) a tutti i capifamiglia in grado di dimostrare di essere sfollati. Mai pagata. Era una parola d’ordine che, senza pretendere nulla di più di quanto promesso da quello stesso regime, da- va conto della condizione di miseria del pae- se, della sofferenza dei lavoratori, diceva quanto la guerra opprimesse anche chi stava a casa, operai famiglie bambini, quanto si vo- lesse cambiare strada. Si votò lo sciopero. Alle dieci in punto, al suono come ogni giorno della sirena d’allarme, si sarebbe dovuto sospendere i lavoro. La direzione della fabbrica, a Mirafiori, il cuore della protesta, avvertita, decise che quella mattina la sirena avrebbe taciuto. Ma le dieci dello sciopero rimasero: nel suo re- parto Leonardo «Leo» Lanfranco, manu- tentore specializzato, reduce dal confino a Ponza con Terracini e Secchia, assunto no- nostante la sua fama di comunista perché sapeva dominare il ferro, poi capo parti- giano, trucidato dai fascisti nel febbraio 1945, chiamò i suoi. Tutti insieme improv- visarono un corteo dentro la fabbrica.Leo Lanfranco venne arrestato pochi giorni dopo insieme con un centinaio di compagni. Vennero liberati, qualche mese dopo, il 26 luglio, dopo una protesta di lavoratori sotto le Nuove. Quello sciopero fu l’inizio. Non fu un successo. Qualcuno usò addirittura la parola fallimento. Ma l’organizzazione comunista, perfettamente «radicata», come si direbbe oggi, nel sistema industriale torinese, ebbe la capacità di diffondere la «notizia che conta»: lo sciopero c’era stato, gli operai avevano fatto sentire la loro voce. I lavoratori di altre fabbriche seguirono l’esempio. Tra il 9 e il 10 marzo entrarono in sciopero le Officine Savigliano, la Pimet, la Fast Rivoli, l’11 marzo la Riv, la Michelin, la Lancia, il 12 marzo toccò al Lingotto, il 15 si fermarono la Snia Viscosa, il cotonificio Valle Susa, il Gruppo Finanziario Tessile. Ne ricordiamo solo alcune. La protesta dilagò. In un crescendo che fece impazzire questura e partito fascista. Un rapporto dei carabinieri restituisce il calore di quelle giornate. Siamo alla Riv di Villar Perosa: «Alcuni operai sono uditi reclamare la pace separata e la fine della guerra. Altri, come avevano già fatto durante la notte, intonano Bandiera rossa, mentre c’è chi usa violenza ai colleghi che vogliono persuadere alla ripresa del lavoro... Energica l’azione delle donne, che dopo aver incitato i compagni, passano furiosamente alle vie di fatto contro i pochi elementi contrari che tentano di far fallire lo sciopero...».
Umberto Massola avrebbe ricordato molti anni dopo di incontri avvenuti per discutere l’esito di quegli scioperi. Se ne considerò subito il senso politico, il senso di una rivolta. Avrebbe ricordato ancora che il 14 marzo s’era recato nella tipografia clandestina, vicino a Milano, dove si stampava l’Unità. «Quando i compagni addetti alla tipografia – scrisse Umberto Massola videro il grande titolo da porre in prima pagina: ‘Sciopero di centomila operai torinesi! In tutto il paese si segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà’, saltarono di gioia e lavorarono di gran lena anche durante la notte per assicurare l’uscita del giornale l’indomani». Storie nostre.
L’indomani fu sciopero ancora e via via in tante altre fabbriche verso Milano. Il 23 scescero in sciopero gli operai della Falck, che cacciarono un manipolo di fascisti che avevano tentato di entrare in fabbrica. Il giorno successivo sarà la volta della Pirelli e poi della Caproni, della Bianchi, della Brown Boveri, dell’Alfa Romeo. Poi verso il Veneto, verso Porto Marghera, verso l’Emilia, verso la Toscana. La protesta diventò un fiume. Un moto che il regime non riuscì a frenare, il primo moto della lotta di liberazione: «Cominciava la guerra partigiana – scrisse Giancarlo Pajetta sull’Unità – là si gettava il seme della Repubblica italiana fondata sul lavoro».
Che la rivendicazione di un’indennità di sfollamento, delle 192 ore, potesse condurre a tanto, forse non era facilmente immaginabile. Neppure la fame, le condizioni penose di vita, le bombe e la paura, avrebbero potuto tanto se, malgrado tutto, malgrado tutti gli sforzi del regime, l’ostilità al fascismo, l’estraneità operaia alla retorica fascista, la distanza da una cultura totalitaria non avessero trasformato la sfiducia, la diffidenza, lo scetticismo della prima ora in un consapevole sentimento d’opposizione. Consapevole anche della durezza, dei rischi, del pericolo mortale di una lotta democratica in un paese senza democrazia.
La repressione non mancò. Non subito, perché le richieste vennero accolte (fu Valletta a intercedere perché le rivendicazioni dei suoi operai venissero almeno in parte soddisfatte). Nelle settimane successive circa duemila operai vennero fermati, molti arrestati, molti spediti davanti al tribunale speciale.
Ma intanto qualcosa era accaduto. Dopo la battaglia di Stalingrado, a un passo dal crollo del regime. Molti di quegli operai che avevano scioperato scelsero di continuare la loro lotta in montagna nelle formazioni partigiane, accanto ai militari sbandati che avevano ripreso le armi. A Torino, a Milano, in tanti altri luoghi era stato il lavoro, in quegli scioperi per il pane e per la pace, a dettare la fine del fascismo, nell’avversione alle logiche della guerra, nella riaffermazione della irriducibilità sociale del conflitto di classe, nella rivendicazione dei diritti fondamentali, scrivendo le prime parole della futura Costituzione repubblicana.

IL RICORDO DI MILANO
Alla Camera del Lavoro convegno con Pisapia


Questa mattina alle 10.30 la Camera del lavoro di Milano ricorda gli scioperi del marzo 43 – 44 contro il fascismo. Introduce Roberto Cenati (Presidente Anpi Milano) con le musiche di Clelia Cafiero. Quindi le relazioni dello storico Luigi Ganapini, di Antonio Pizzinato, già segretario della Cgil, e Piera Pattano (Staffetta partigiana). Seguirà la proiezione del docufilm “Quei ragazzi del 43 – 44” con Marco Balma e Ottavia Piccolo e conclude il segretario della Camera del Lavoro, Graziano Gorla.
Alle ore 12.30 esposizione delle opere d’arte donate alla Camera del lavoro da Giorgio Gaslini e Marco di Giovanni e di una targa ricordo degli scioperi con l’intervento di Giuliano Pisapia, Sindaco di Milano

l’Unità 26.3.13
Buon compleanno Giovanna
101 anni di Resistenza
Si festeggia domani a Roma presso il Circolo Culturale Montesacro insieme ai compagni e gli amici della partigiana
di Gabriella Gallozzi


«DAL LAVORO SI PUÒ ANDARE IN PENSIONE, DALLA LOTTA MAI». ECCOLA GIOVANNA MARTURANO, «LA» PARTIGIANA. Domani compie 101 anni. Sì, centouno e gli amici la festeggeranno al Circolo culturale Montesacro (Corso Sempione 27, ore 16.30), a Roma. E sicuramente sarà una festa piena di affetto, ma soprattutto piena di ragazze e ragazzi. Perché la forza di Giovanna è proprio questa: saper parlare alle nuove generazioni. Ancora oggi, infatti, questa donna minuta e battagliera, va nelle scuole per portare il suo contributo di memoria. Non solo quella della resistenza e della lotta contro il nazifascismo che ha vissuto in prima persona da ragazza, ma anche quella dei diritti, conquistati negli anni dai lavoratori, dalle donne e oggi messi a rischio, complice la crisi. Lo dice e lo ripete Giovanna ai ragazzi: «Come possiamo dirci liberi se alle donne vengono fatte firmare le dimissioni in bianco e non possono fare figli?
Quale libertà può esserci per i giovani senza lavoro? Come si può buttar via l’articolo 18?». Questa è Giovanna Marturano, nata da una famiglia comunista di origini sarde che, una volta trasferitasi a Roma, in pieno Ventennio, ha conosciuto il carcere e la persecuzione del regime. Per lei come per tante altre donne aderire alla resistenza è stato naturale: «Dentro casa si lottava contro il padre autoritario ci ha raccontato tempo fa si è trattato di portare fuori e allargare quella battaglia. Per le donne la liberazione è stata una lotta nella lotta». Ma a guerra finita poco o niente è stato riconosciuto di tutto questo: «Noi partigiane abbiamo rischiato la vita come e più degli uomini. Eppure di riconoscimenti ne abbiamo visti ben pochi». Sono di altro genere i «riconoscimenti» che ha ottenuto Giovanna. Ma forse più importanti di quelli ufficiali: l’affetto incondizionato delle nuove generazioni alle quali è riuscita a passare il testimone della sua memoria da combattente. Tanti auguri Giovanna, da tutta la redazione de l’Unità.

Repubblica 26.3.13
Heidegger e  Jünger divisi dal nihilismo
Un libro del pensatore dell’essere dedicato al suo grande interlocutore
di Roberto Esposito


In pochi altri casi, come nel confronto tra Heidegger e Jünger, risulta provato il detto che un grande pensatore riconosce il senso profondo della propria opera attraverso lo scontro con un autore di pari livello. Fino ad ora il loro titanico corpo a corpo, inciso come una cicatrice nel cuore del Novecento, era consegnato soprattutto al dialogo
Oltre la linea (Adephi, a cura di Franco Volpi), costituito dai due testi che ciascuno aveva composto per i sessant’anni dell’altro. Adesso quel confronto ritrova l’intero sfondo teoretico in cui era maturato attraverso la pubblicazione di tutti gli appunti e le riflessioni svolte da Heidegger sul proprio interlocutore in un volume, intitolato Ernst Jünger, tradotto e ben curato per Bompiani da Marcello Barison.
Per situarlo nel suo tempo bisogna tenere presente da un lato l’ampia discussione sulla tecnica, avviata già negli anni Dieci da autori come Werner Sombart e Max Scheler, Oswald Spengler e Georg Simmel; dall’altro un gruppo di trattati di Jünger sulla Mobilitazione totale, sul Lavoratore e sul Dolore, che avevano subito suscitato l’interesse di Heidegger. Il loro tema di fondo era costituito dal dispiegamento planetario della tecnica e dalla consumazione dei valori umanistici che esso determinava in una forma cui era stato da tempo assegnato il nome di nichilismo. Al suo centro Jünger collocava la figura del Lavoro, intesa come ciò che mobilita tutte le risorse del pianeta in vista di una produzione illimitata. Piuttosto che attardarsi in una nostalgia per il mondo perduto, per lo scrittore, reduce dal trauma della Grande Guerra, si trattava di fronteggiare questa situazione tentando di costruire nuovi ordini.
Ciò che Heidegger rinveniva in questi testi era una capacità diagnostica pari a quella dimostrata da Nietzsche nei decenni precedenti. E ciò non perché Jünger fosse un suo seguace, «come ad esempio D’Annunzio e Mussolini, che concilia assai bene il proprio presunto spirito nietzscheano con le sue relazioni col Vaticano». Ma perché egli ha colto, portandola ad espressione nella categoria del Lavoro, quell’impulso sopraindividuale che Nietzsche definì “volontà di potenza”, portato al massimo grado dallo sviluppo illimitato della tecnica: «Jünger — scrive con linguaggio espressionista Heidegger — non aveva nello zaino il libro di Nietzsche intitolato La volontà di potenza, ma venne colpito da fuoco e sangue, da morte e lavoro, da silenzio e tuono della battaglia di materiali come manifestazione della volontà di potenza».
Ma se questa è la diagnosi jüngeriana che Heidegger fa propria, qual è l’atteggiamento che bisogna avere? Come rispondere alla perdita irrefrenabile dei valori su cui si era costruita la civiltà europea? Se nei grandi saggi degli anni Trenta Jünger profila una sorta di nichilismo eroico dell’azione, volto ad assumere in tutte le sue conseguenze la trasformazione in atto, già nel romanzo del 1939 Sulle scogliere di marmo, e poi soprattutto nel Trattato del ribelle, sembra mutare tono. Fermo restando che il processo nichilistico non può essere arrestato — va semmai accelerato per portarlo ad esaurimento — l’unica possibilità è quella di difendere alcuni spazi interiori, come l’eros, l’arte, l’amicizia e lo stesso dolore, a riparo dalle minacce del Leviatano e dagli appelli delle chiese. Tali baluardi appaiono allo scrittore come gli ultimi territori selvaggi, oasi di libertà nel «deserto che cresce». La singolarità della sua posizione sta proprio in questa oscillazione tra una sorta di ottimismo costruttivo, che lo porta a cavalcare l’onda montante della mobilitazione totale e un atteggiamento impolitico in cui si delineano figure estreme di resistenza come quella, solitaria, dell’Anarca, rifugiato nella propria interiorità e indifferente a tutto.
E Heidegger? Come si pone di fronte alle effrazioni ipotizzate da Jünger? Se apprezza massimamente la fenomenologia della crisi da lui tracciata, al punto di modellare su di essa la propria concezione della tecnica, non ne condivide la terapia, giudicandola non soltanto letteraria, ma interna a quella metafisica che vorrebbe superare. Torna la questione della “linea”, del “meridiano zero” oltre il quale non valgono più i consueti strumenti di navigazione. Mentre Jünger, pur consapevole della lunghezza della traversata, ritiene che la si possa oltrepassare alla ricerca di qualcosa di nuovo, Heidegger si mostra più prudente. Se il nichilismo non è il frutto malato di una stagione recente, perché affonda le proprie radici nella storia dell’essere, allora non è superabile a comando, in base ad una semplice volontà. La stessa idea di superamento, tipica del modo di pensare moderno, è parte integrante di quella medesima semantica nichilista che ci si illude di lasciarsi alle spalle, mentre non si fa che riprodurre davanti a noi.
E allora? Cosa resta da fare? E soprattutto il destino che ci attende è in qualche modo ancora nelle nostre mani o ci sfugge del tutto? Nella corrente letteratura filosofica si dà per scontata la superiorità della tesi di Heidegger sulla più sfuggente prospettiva di Jünger. E sul piano della coerenza interna dei concetti, è difficile contestarlo. Ma, se ci trasferiamo al piano della prognosi, siamo poi sicuri che l’amara sentenza heideggeriana secondo cui «ormai soltanto un dio ci può salvare» sia preferibile agli slanci eroici di Jünger? Da ultimo: Barison dedica questo lavoro alla memoria di Franco Volpi. In questo ricordo vorrei unirmi a lui.

Ernst Jünger di Martin Heidegger (Bompiani pagg. 896 euro 35)

Repubblica 26.3.13
Adhd
L’approccio con il gioco e la terapia comportamentale
Cause genetiche e squilibrio dell’attività neuronale.
Negli studi dell’ateneo di Colonia. L’inefficacia nel lungo periodo dei farmaci.
Bimbi iperattivi, questione di età
di Stefanie Reinberger


Lasse è davvero un bambino agitato. Di solito è disattento e difficilmente riesce a concentrarsi a lungo su una cosa. Spesso disturba gli altri bambini dell’asilo, interviene nei discorsi degli altri ed è irruente. Perde facilmente la pazienza, a volte porta via ai compagni un giocattolo se si annoia o anche solo per dimostrare che è il più forte. A volte vuole solo aiutare, ma dimentica di dirlo. E in momenti in cui le cose non vanno bene come vorrebbe lui il biondino di solito molto allegro ha degli accessi di collera. (...) Heike Becker è sola a educare il figlio, e deve occuparsi di un bam- bino incontrollabile senza poter contare su alcun sostegno. (...) Lasse, come dice la diagnosi degli psicologi dell’università di Colonia, soffre di ADHD. (...) Il disturbo da deficit di attenzione, con o senza iperattività, ha molte facce. (...) «L’ADHD ha probabilmente una forte componente genetica », spiega Manfred Döpfner, della Clinica universitaria di Colonia (...). I fattori ereditari che sono stati finora identificati forniscono un quadro assai eterogeneo (...) «A rigore, ciò significa che ogni paziente avrebbe bisogno di una terapia individuale, ammesso che esistesse », afferma lo psichiatra Klaus-Peter Lesch (univ. di Wurzburg). La sindrome da deficit di attenzione, dunque, non esiste. (...) la malattia è considerata uno squilibrio nell’attività delle reti neuronali. (...) Nei pazienti affetti da ADHD risulta alterata la trasmissione dei segnali da diversi neurotrasmettitori cerebrali (...). Come non esiste un’unica diagnosi di ADHD, così non ci si può neanche aspettare una cura miracolosa (...) Il metilfenidato, che con il nome commerciale di Ritalin è il farmaco più usato per combattere l’ADHD, è efficace solo in due bambini su tre. Grazie a questo farmaco i bambini iperattivi possono concentrarsi meglio, sono meno agitati e molto meno impulsivi (...) Alcuni studi degli ultimi anni hanno però fatto sorgere dubbi sull’efficacia del Ritalin. (...) la ricerca è giunta alla conclusione che il metilfenidato, anche in combinazione con la psicoterapia, conserva solo un’efficacia limitata dopo l’interruzione del trattamento (...) Ciò solleva dubbi sul fatto che il Ritalin abbia in generale un autentico beneficio sui pazienti giovani. (...) Che cosa possiamo ricavare da questi risultati? «L’ADHD non è un problema destinato a durare per tutta la vita», dice Döpfner. (...) Insieme ai terapeuti della Clinica universitaria di Colonia, Heike Becker ha optato per una terapia comportamentale, grazie alla quale il bambino poteva imparare attraverso il gioco a controllarsi e a rimanere più a lungo concentrato (...) Döpfner e i suoi collaboratori stanno già lavorando con successo a un programma simile su bambini in età scolare. (...) A questo studio partecipa anche il piccolo Lasse (...) La madre di Lasse è soddisfatta: «Finalmente posso tornare a vedere aspetti positivi in mio figlio» (...)
* Stralci dell’articolo che apparirà su Mente & Cervello

Repubblica 26.3.13
Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi spiega i segreti della geometria
Tra questi, i misteriosi frattali, che hanno ispirato artisti, compositori e letterati
Jazz. Come mettere ordine nella musica del caso
di Piergiorgio Odifreddi


Esce oggi Abbasso Euclide! di Piergiorgio Odifreddi (Mondadori pagg. 370 euro 22) Qui ne anticipiamo una parte

Il Novecento è stato il secolo dell’astrazione, nella matematica e nell’arte. Ma in entrambi i campi l’astrazione comporta dei rischi, e oltre un certo limite può portare alla dissoluzione totale del contenuto, e alla perdita completa del significato. Recentemente la matematica ha sviluppato un’intera teoria della complessità, che ha potuto render conto parzialmente di questa tendenza. Dal punto di vista astratto, infatti, la differenza fra i fenomeni casuali e quelli che non lo sono si riduce al fatto che i primi non possono essere descritti in maniera semplice e compressa, e i secondi sì. Paradossalmente, dunque, più un’opera è complessa, più tende ad avvicinarsi alla casualità e a confondersi con essa. È il caso del free jazz in musica, o dell’espressionismo astratto in pittura, consistenti entrambi di strutture singolarmente irrepetibili, e collettivamente indistinguibili, che possono soltanto essere esibite, ma non descritte. Un esempio tipico è Luce bianca di Jackson Pollock, del 1954, che compare appunto sulla copertina del disco Free Jazz di Ornette Coleman, del 1961, da cui questo genere di musica prese il nome. La tela consiste semplicemente di un intrico di colori ottenuti facendo sgocciolare i pennelli sulla tela, così come il disco registra quaranta minuti di libere improvvisazioni di un doppio quartetto di musicisti.
Luce bianca fu dipinta due anni prima che Pollock morisse, schiantandosi ubriaco contro un albero. E il titolo sta ad indicare che, come i colori si mescolano e perdono la loro identità nell’amalgama della luce bianca, così le pennellate e i suoni di questo punto d’arrivo dell’arte si riducono a un puro raggio abbagliante, quando non semplicemente a un abbaglio raggiante. Ma la matematica moderna ha imparato a mettere parzialmente ordine anche nel caos e nel caso, grazie alla teoria dei frattali: delle figure autosimili, cioè, in cui una o più parti hanno la stessa struttura del tutto. Una proprietà, questa, ben illustrata dalla copertina di Free Jazz, che dall’esterno lasciava intravedere attraverso un buco un riquadro dell’opera di Pollock, praticamente indistinguibile dall’intera tela mostrata all’interno.
Volendo trovare figure autosimili, contenenti parti sempre più piccole, ma simili al tutto, non c’è bisogno di guardare lontano. Basta, ad esempio, rivolgersi a opere di Maurits Cornelis Escher quali Sempre più piccolo, del 1956, e Quadrato limite, del 1964. Un tentativo più radicale, ma meno riuscito, Escher lo fece nel 1956 in Galleria di stampe, cercando di realizzare un quadro che rappresenta una scena di cui esso stesso fa parte. L’idea era già venuta verso il 1320 a Giotto, nel retro del Polittico Stefaneschi, in cui si vede il committente che offre a San Pietro un modellino del polittico stesso. E venne di nuovo nel 1912 a Edmund Husserl, nel primo volume delle Idee per una fenomenologia pura, dopo aver visto a Dresda uno dei quadri seicenteschi di David Teniers, che riproducono la galleria di dipinti italiani dell’Arciduca Leopoldo. Oggi si parla al proposito di effetto Droste, perché a partire dal 1904 l’omonima produttrice olandese di cacao adottò sulle sue scatole l’immagine di un’infermiera, che teneva su un vassoio una copia della scatola stessa. Un trucco simile è stato usato, a partire dal 1921, dall’industria casearia francese La vache qui ritper il proprio logo, in cui una mucca che ride ha due orecchini che ripetono il logo stesso. Effetti di questo genere sono più facili da descrivere, che da realizzare. Non a caso, la letteratura abbonda di opere che contengono una parte che dovrebbe coincidere con l’opera stessa. Nell’Iliade di Omero, Elena ricama una veste di porpora che raffigura la storia del poema. Al termine del Ramayanadi Valmiki, i figli di Rama cercano rifugio in una selva, dove un asceta insegna loro a leggere su un libro che è, appunto, il Ramayana.
Nel Mahabarata di Vyasa, il narratore incontra un amico e gli racconta il Mahabarata, che narra del poeta Vyasa che detta al dio Ganesh il Mahabarata, una storia che narra di un re che incontra il poeta Vyasa e si fa raccontare il Mahabarata. Nel Sogno della camera rossa di CaoXueqin, il protagonista prevede in sogno gli avvenimenti del romanzo. Nell’Amleto di Shakespeare, si mette in scena una tragedia che è pressappoco la stessa dell’Amleto. E così via. [... ] Più in generale, strutture autosimili o telescopiche, a vari livelli, sono state usate sistematicamente nell’architettura religiosa e imperiale, sia orientale che occidentale. Se ne trovano esempi nelle piante delle città, come a Logone-Birni nel Camerun. Nei recinti dei complessi, come ad Angkor Wat in Cambogia. Nei tetti degli edifici, come alla Città Proibita di Pechino. Nelle torri dei templi, come al Kandariya Mahadeva di Khajurao. Nelle cupole delle chiese, come al Cremlino di Mosca. Nelle decorazioni dei soffitti, come all’Alhambra di Granada. E nei rosoni delle finestre, come a Notre Dame di Parigi.
Dal canto loro, gli artisti sono stati condotti a rappresentazioni di natura frattale ogni volta che hanno cercato di disegnare o dipingere fenomeni di turbolenza, atmosferica o acquatica. Per limitarsi al giapponese Katsushika Hokusai, basterà ricordare, oltre alla celeberrima Grande onda al largo di Kanagawa (1810), le due serie Mille immagini del mare (1833-34) e Viaggio tra le cascate giapponesi (1834-35).
Oggi le strutture autosimili si possono realizzare e visualizzare facilmente al computer, mediante i processi iterativi tipici dei frattali. Questi sono usati comunemente nella grafica computerizzata, per riprodurre gli oggetti naturali che ne esibiscono le caratteristiche: dalle scariche elettriche alle nuvole, dalle nubi ai monti, dai rami di pino alle foglie di felce, dai broccoli ai cavolfiori, dalle scaglie dei pesci alle squame dei serpenti, dalle contorsioni dell’intestino alle cavità dei polmoni, dalle fibre nervose alle circonvoluzioni del cervello.
Quanto il computer fosse in grado di simulare artificialmente il naturale, apparve chiaro fin dal primo corso sui frattali, insegnato a Yale nella primavera del 1993. Posti di fronte a immagini estremamente realistiche di Ken Musgrave, gli studenti discussero vivacemente se e quali fossero fotografie, increduli che si trattasse solo di realizzazioni artificiali. In seguito vari artisti si sono specializzati nella creazione di paesaggi matematici: Anne Burns, ad esempio, che li chiama appropriatamente Mathscapes, “Matesaggi”.
La prima esposizione di questo genere di applicazioni era stato il manifesto di Benoit Mandelbrot La geometria frattale della Natura, uscito in francese nel 1977, e in inglese nel 1982. Il retro di copertina riportava una Pianetizzazione frattale di Richard Voss, sorprendente per quei tempi. E poiché questa e altre immagini esibivano un’evidente connessione con l’arte, nei suoi “disconoscimenti” iniziali Mandelbrot si premurò di dichiarare: «competere con gli artisti non è per niente uno scopo del libro». E di aggiungere: «Non lo è neppure mostrare belle immagini, che sono uno strumento essenziale, ma solo uno strumento». Queste non richieste scusanti erano ovviamente dettate dalla preoccupazione che i manifesti aspetti artistici dei frattali potessero distrarre dai loro contenuti matematici. Puntualmente, l’estetica dei frattali catturò immediatamente l’attenzione dei curiosi e dei media. E presto ispirò una nuova forma d’arte, oggi popolare persino sulle T-shirt.