mercoledì 27 marzo 2013

l’Unità 27.3.13
Bersani, un passo avanti
Per il leader Pd 24 ore per superare gli ultimi ostacoli
Nel Pd cresce il no a ipotesi tecniche o di larghe intese
di Maria Zegarelli


Dopo quello che è successo oggi in Aula con le dimissioni improvvise del ministro Terzi non mi pare stia crescendo l’appeal dei governi tecnici. Ero e resto convinto che l’unica proposta politica è il governo Bersani». Non è un giovane turco a parlare e neanche un bersaniano doc. È Antonello Giacomelli, Areadem, che ha appena assistito alle dimissioni a sorpresa di Giulio Terzi. Rosa Villecco poco prima che scoppiasse il caso dice grosso modo la stessa cosa: «Questo continuo parlare dell’ipotesi B serve soltanto a indebolire l’unica strada percorribile, quella a cui sta lavorando il segretario. E mi chiedo se un ministro “politico” e non tecnico avrebbe fatto gli stessi errori commessi dal governo Monti sul caso dei due maro’». È qui nei corridoi di Montecitorio, sui divanetti dove si può fumare senza uscire fuori quando piove, che la discussione nel Pd si consuma. Ogni giorno uno strappo, un’intervista su un quotidiano per tornare a proporre il piano B, un governo «a bassa intensità politica», nome pescati ovunque tranne che nei partiti, di scopo, giusto il tempo di fare una nuova legge elettorale, celebrare il rito delle primarie per la leadership e tornare al voto. Il nome più quotato per Palazzo Chigi è quello di Fabrizio Saccomanni, Dg di Bankitalia, sui ministri si spazia dalla società civile a giuristi, costituzionalisti, chi più ne ha più ne metta.
Ieri è stata la volta di Roberto Reggi, uomo di fiducia di Matteo Renzi, che sul Foglio di Giuliano Ferrara ha detto che «è inutile negarlo: nel Pd ci sono due partiti nel partito. Uno, in caso di fallimento di Bersani, vuole le elezioni. L’altro semplicemente no. Ecco. Noi siamo per il partito del semplicemente no». Loro, i renziani (ma non solo loro perché la fronda spazia tra i democratici) sono per l’ipotesi B, appunto. E se Napolitano dovesse chiamare in seconda battuta proprio il sindaco «è ovvio che in quel caso la risposta non potrebbe essere che una: “sì”». Quel Renzi che a detta di un altro rottamatore come Matteo Richetti starebbe già pensando a una lista civica con il suo nome, perché «lo sanno tutti che Renzi prenderebbe molti più voti del Pd» e perché tutti sanno anche che il «Pd è morto». Anzi, no, come recita la smentita. Malato grave, questo sì. Inutili le dichiarazioni di Bersani e del sindaco fiorentino per rasserenare gli animi, rapporti cordiali, telefonate «con qualche risata», «massima lealtà, non pugnalo alle spalle»...
La miccia è accesa, solo che per il momento è stata collocata con la lunghezza giusta per arrivare alle prossime ore. Se Bersani incassa la fiducia, si spegnerà in attesa del momento giusto, se il tentativo del segretario dovesse fallire, vai a capire il botto quanto forte sarebbe. «Oggi ogni mia energia la spendo per il rafforzamento del Pd, un bene troppo prezioso per metterlo in discussione», dichiara a un certo punto del giorno Stefano Bonaccini, il segretario regionale dell’Emilia. Non ci vuole pensare «che il Pd non possa avere un grande futuro», spiega. Non ci può pensare che proprio mentre Bersani sta cercando quello che per molti non è altro che un «miracolo», nel partito ci sia già chi è proiettato oltre. I giovani turchi, da Andrea Orlando a Matteo Orfini, al neosenatore Francesco Verducci sono convinti che se fallisse Bersani non resterebbe che tornare al voto. Chi lavora per il «miracolo», chi per scongiurare le urne a qualunque costo, compresa la grande coalizione. E poi chi evoca scissioni (e le smentisce un po’) in vista della scesa in campo di Renzi e chi provoca al contrario, come l'europarlamentare Salvatore Caronna: «Credo sia altrettanto legittima la posizione di chi è convinto che non sia più rinviabile, per questo Paese innanzitutto, avere una forza politica simile, per cultura, organizzazione, programma, ai partiti socialisti e socialdemocratici presenti nei vari Paesi europei». Sarà per questo che l’altra sera, nel corso della direzione del Pd, Franco Marini ha preso la parola per dire che questo non è il momento di aprire dibattiti interni, adesso è il momento di dare piena fiducia al segretario per la sua mission quasi impossibile. Perché è evidente che aprire un dibattito adesso sarebbe come accendere quella miccia.
Beppe Fioroni, altro politico di lungo corso, dice che di queste polemiche non ne vuole proprio parlare. E mentre scivola in Transatlantico si attacca al telefono. Quando chiude commenta che oggi è un po’ più ottimista di ieri. Sul governo.

l’Unità 27.3.13
Ancora 24 ore per il governo. Ma resta il nodo Quirinale
di Simone Collini


Sostenere o consentire, è la proposta. E ancora 24 ore è il lasso di tempo per portare avanti le trattative. Con una complicazione, per il presidente incaricato: alla partita sul governo se n’è affiancata un’altra, riguardante il prossimo Capo dello Stato. E benché si giocherà nella seconda metà di aprile, potrebbe dipendere da quest’ultima l’esito della prima. Un paradosso temporale? Non per Berlusconi, che liquida con un’alzata di spalle l’offerta del centrosinistra di fare una scelta attraverso la più ampia condivisione e insiste invece perché il successore di Napolitano sia un esponente del centrodestra. E su questo vuole chiudere ora un accordo. Per di più non soltanto verbale. Se non ci fosse questa «collaborazione»? Niente «governo di cambiamento» e, a sentire Alfano, si andrebbe dritti a nuove elezioni.
Le consultazioni di Bersani si chiudono oggi pomeriggio, ma ormai è chiaro che Pd e Pdl intendono portare avanti il confronto fino all’ultimo minuto utile. Quando sarà? Domani o la prossima settimana, dipende da Napolitano. Il Presidente della Repubblica venerdì ha dato al leader del Pd l’incarico a «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo tale da consentire la formazione di un governo». La verifica si chiude tra stasera e domattina, dopodiché Bersani salirà al Colle per riferire il risultato dei colloqui avuti da sabato. Dice la deputata del Pd Alessandra Moretti che il premier incaricato «chiederà a Napolitano di andare in Parlamento e di presentare gli otto punti». E anche Vendola spiega: «Ci sono precedenti, i governi di minoranza non sono una novità nella storia del Paese. Bersani dovrebbe essere mandato in Parlamento a fare la sua proposta per il Paese».
In realtà Bersani non intende andare a un braccio di ferro con il Capo dello Stato, che difficilmente potrebbe accettare di mandare l’incaricato alla prova del voto senza che sia preventivamente dimostrato il «sostegno certo». Per questo il leader del Pd dovrà lavorare nelle prossime 24 ore per convincere le altre forze parlamentari a «sostenere o consentire» il governo di cambiamento, a «non impedire» il percorso avviato. Come? Oggi alla delegazione del M5S Bersani illustrerà nel dettaglio gli otto punti, ma sull’eventuale sì dei grillini il Pd si fa poche illusioni ed è ora sul fronte centrodestra che continuerà a lavorare.
L’incontro ufficiale che c’è stato ieri con Alfano e Maroni ha fatto registrare degli spiragli che Bersani vuole capitalizzare. «Certamente i problemi rimangono, bisogna continuare a lavorare, ma mi pare si cominci a comprendere meglio che cosa intendo per quel famoso doppio registro», dice il leader Pd insistendo sulla collaborazione sul fronte delle riforme istituzionali (da approvare tramite una Convenzione, la cui presidenza potrebbe essere affidata proprio a un esponente del Pdl). Bersani giudica importante soprattutto l’insistenza con cui il leader della Lega ha parlato della necessità che nasca «un governo a guida politica», la contrarietà nei confronti di un ipotetico nuovo governo tecnico. E anche la posizione con cui è andato a trattare Alfano, chiedendo «collaborazione» sull’elezione del prossimo Capo dello Stato, è per Bersani più avanzata di quella dimostrata fino all’altro ieri. Il problema è come rispondere a entrambe le istanze.
Bersani sta pensando di dar vita a un governo snello e composto in parte da personalità politiche non invise al centrodestra, in parte da personalità di alto profilo, dalle universalmente riconosciute competenze, alle quali sarebbe difficile dire no tanto per i Cinquestelle quanto per i leghisti. Più complicata è però la partita avviata col Pdl. Alfano, su mandato di Berlusconi, ha esplicitamente chiesto che il prossimo Presidente della Repubblica sia un esponente di «area» centrodestra. Discutere ora di un tema che sarà all’ordine del giorno tra un mese, per di più mettendo sul piatto dei nomi, è una proposta inaccettabile per Bersani, che da un lato ha assicurato l’intenzione di voler procedere in quel passaggio mirando alla condivisione più larga possibile, dall’altro ha consegnato al suo interlocutore un monito neanche troppo velato: «Sapete quali sono i numeri del Parlamento». Come dire: con i suoi 345 deputati e 123 senatori il centrosinistra parte da una posizione di forza per eleggere il sucessore di Napolitano, avendo poi la maggioranza assoluta o insieme a Scelta civica o insieme ai Cinquestelle.
Entro domani si capirà se le forze sono giunte a un punto d’intesa. Nel caso, si è già trovato il modo per far prendere la fiducia a Bersani anche al Senato. La Lega uscirebbe dall’aula, facendo abbassare la maggioranza, e alcuni esponenti del gruppo Grandi autonomie e libertà (ieri andato alle consultazioni insieme a Pdl e Carroccio) voterebbero sì. I nodi da sciogliere però non sono di poco conto.

Repubblica 27.3.13
Pdl e Lega: meglio il voto ma Bersani non si arrende “Passi avanti, io ci credo”
L’offerta di Bersani al Pdl “Insieme solo per le riforme ma niente governissimi”
Spiragli per l’intesa. Berlusconi studia l’uscita dall’aula
di Goffredo De Marchis


FRA numeri, date, scadenze e quorum che stanno in bella vista sulla scrivania del premier incaricato, Pierluigi Bersani tira fuori il succo dell’accordo in extremis che serve ad avviare il suo esecutivo. Domani torna al Quirinale: o ha in mano l’intesa o
getta la spugna.

«NON parlatemi di governissimi — dice ad Alfano e Maroni quando vengono ricevuti nella sala di Montecitorio —. È una formula che per me significa una sola cosa: pretendere l’impossibile per non fare il possibile». Parliamo invece, spiega il leader democratico, della Convenzione per le riforme istituzionali. La chiama «Costituente », senza tanti giri di parole. «In quella sede tutte le forze politiche devono avere una responsabilità. Io e il governo ci mettiamo al servizio di questa grande operazione di cambiamento. Si lascia inalterata la prima parte della Costituzione e si modica la seconda. Con il contributo di tutti». Questa è la proposta. Che in concreto, il giorno dell’eventuale voto di fiducia a Bersani, si realizzerebbe con l’uscita dall’aula di Pdl e Lega al Senato. La soglia della maggioranza si abbassa, il governo ottiene i voti necessari. E il miracolo si compie.
Il segretario del Pdl e il governatore lombardo ascoltano. Bersani ha appena cominciato il suo ragionamento. «Un mio fallimento è possibile, l’ho messo nel conto. Ma levatevi dalla testa che se si arriva a un secondo giro, il Pd porta di nuovo la croce. A questo, non ci stiamo. Posso consentire la nascita di un altro esecutivo, ma subito dopo, ve lo dico chiaro, noi prendiamo le distanze. Ci mettiamo alla finestra e al primo provvedimento che non piace al Pd, stacchiamo la spina. Se si torna a votare, il mio partito un piano B ce l’ha. E voi? ». Bersani sa che esiste un solco tra la Lega e Berlusconi. «Il Cavaliere punta sparato alle elezioni, ma Roberto si è già messo di traverso. Non vuole tornare alle urne e spinge da giorni per consentire la partenza del governo». Infatti Maroni fa pressioni su Alfano perché il Pdl accetti l’offerta di Bersani: la presidenza della Convenzione a un uomo del centrodestra, il nuovo capo dello Stato che non sia ostile al Cavaliere, la grande occasione di partecipare alla costruzione della Terza repubblica con un occhio attento al federalismo (questo dal suo punto di vista). Con il Carroccio, il Pd ha messo giù le basi della legge costituzionale che darebbe vita alla “Costituente”. Una legge che affida al Parlamento la decisione finale sul testo della nuova Carta, senza emendamenti: o si approva o si respinge. Un percorso non breve, ma con qualche certezza sull’esito finale. Da qui si parte. Ventiquattro ore di tempo per riuscire, dopo la giornata in cui le carte sono state scoperte. «Il governo avrebbe la sua autonomia — spiega Bersani —. Lavorerebbe sugli 8 punti e voi dovreste consentire la sua nascita, con le forme parlamentari possibili. Ci vuole fantasia. Ma le larghe intese non esistono. L’abbiamo già visto con Monti, questo film. Con il Pdl e la Lega non possiamo stare insieme. Niente inciuci. Riforme e Palazzo Chigi sono due binari diversi. Così rimangono». Il punto chiave, il terzo binario, è il nuovo inquilino del Quirinale, poche storie. Bersani detta la linea: «Se nasce un governissimo, il Pd si sente disimpegnato, questo è evidente. E faremo valere le logiche dei numeri nell’elezione del presidente della Repubblica. Ci muoviamo su un nome nostro, i numeri dicono che possiamo farlo da soli. O quasi». L’avvertimento deve arrivare forte a Berlusconi. C’è una rosa del Pd, con Franco Marini in testa, che può essere condivisa dal Pdl. Ce n’è un’altra che cercherebbe consensi e sostegno da altre parti, tagliando fuori il centrodestra. «Però non si può discuterne adesso o fare degli scambi. Detto questo, sui temi istituzionali si discute, nessuno vuole escludere il Pdl. E la scelta del presidente della Repubblica sta in questo campo».
L’apertura a tutto campo sulla Convenzione verrà offerta oggi anche al Movimento 5stelle. Ma è dal centrodestra che Bersani si attende, questo pomeriggio, un pronunciamento pubblico, un sì alle riforme istituzionali condivise. Sarebbe il viatico con cui strappare a Giorgio Napolitano il mandato pieno. «Domani salgo al Colle e porto quello che posso portare — spiega ancora il segretario del Pd —. Se non ci sono le condizioni, al capo dello Stato dirò che non è il caso di andare in aula. Ma se il quadro cambia nelle prossime ore, allora il governo nasce». Un governo alle sue condizioni, certo. «Il coinvolgimento politico del Pd finisce con il mio incarico. Ci si inventa qualcos’altro? In quel caso teniamo le mani libere. Su questo punto sto fermo, non cedo. Questo è il mio inizio e la mia fine per quello che riguarda un progetto che sia politico». Un ultimatum rivolto al centrodestra ma anche a una parte dei democratici. «Dentro le larghe intese — dice ancora il segretario — io e il Pd non ci staremo mai. Non farò fare al mio partito la fine del Pasok, dei socialisti greci».
Sono i toni e le parole di chi sta giocando la partita della vita. E che coinvolge tutti secondo Nichi Vendola. «Il Paese sta esplodendo, la disperazione è ovunque. Se questo governo non nasce, tra un mese dovremo girare con i giubbotti antiproiettile».

Repubblica 27.3.13
Orfini: “Né ora né mai un esecutivo con il Cavaliere”
intervista di G. C.


ROMA Matteo Orfini, leader dei Giovani Turchi, si va verso un accordo con il Pdl?
«No, nulla è cambiato da questo punto di vista. La nostra proposta è chiara: da un lato la disponibilità a discutere con le forze parlamentari e sociali delle grandi riforme istituzionali di cui il paese ha bisogno; dall’altro la proposta di un governo di cambiamento sulla base degli otto punti che abbiamo presentati che sono non trattabili e non derogabili. Quindi un governo Pd-Pdl è inimmaginabile».
Neppure ponendo dei “paletti”?
«Non è misteriosa la ragione per cui non si può fare: è che non si risolvono i problemi del paese mettendo insieme forze politiche alternative che hanno visioni diverse sulle soluzioni di quei problemi. Certamente il Pd chiede di consentire l’inizio della legislatura e la nascita di un governo».
Ad oggi c’è uno stallo: Bersani rischia di fallire?
«Lo stallo c’era il giorno dopo le elezioni, ma il Pd ha preso l’iniziativa disegnando una possibile via di uscita, anzi l’unica via uscita: la nascita del governo Bersani e la grande convenzione per le riforme».
Il Pd esplode se il segretario non ce la fa?
«Lavoriamo perché non fallisca e non discutiamo delle subordinate».
Però ci sono. Un governo istituzionale, del presidente, appoggiato da tutte le forze, sarebbe inevitabile in seconda battuta?
«L’impianto non può mutare: non si può pensare alla nascita di una maggioranza tra noi e Berlusconi anche per il dopo. Quello che abbiamo escluso per l’oggi, lo escludiamo anche per il domani».
Nel Pd i renziani ritengono possibile l’unità nazionale a sostegno di un governo “del presidente”.
«Nel partito si discute. Ma è curioso che chi oggi esclude l’ipotesi del governo con il Pdl, la consideri domani un’ipotesi possibile. Sarebbe contro la logica».
Se Napolitano decidesse in questo senso, i Democratici cosa farebbero?
«Napolitano ha il dovere di dare un governo al paese, perché questo è ciò che la Costituzione chiede al presidente. Le forze politiche valutano. Ma non credo che il Pd possa mutare atteggiamento. Un governo, quale che sia, sostenuto da una maggioranza Pd-Pdl, non è utile al paese».
(g.c.)

il Fatto 27.3.13
Si chiama “convenzione” la trattativa con Berlusconi
I democratici offrono la presidenza al Pdl o al Movimento
di Fabrizio d’Esposito


E il quarto giorno arrivarono i partiti, finalmente. Dopo tre pomeriggi e due mattine trascorse a consultare il Paese reale, dai sindacati al forum dei giovani, dal Terzo settore a comuni e regioni, Pier Luigi Bersani riceve le delegazioni di centrodestra e centristi montiani. Non manca un colpetto di scena. I rappresentanti di Gal, Grandi autonomie e libertà, il gruppetto di senatori provenienti da Pdl, Lega e Mpa, non va più da solo ma si aggrega ad Angelino Alfano e Roberto Maroni. Un segnale di forza inviato al premier preincaricato: “Il nostro dominus è Berlusconi”. Il pacchetto tre in uno (Pdl, Lega e Gal) si ferma poco da Bersani. È lo stesso segretario berlusconiano ad ammetterlo all’uscita: “L’incontro è stato breve”. Il centrodestra continua a chiedere le larghe intese e a porre la questione del Quirinale, cioè di un candidato quantomeno condiviso per la successione a Giorgio Napolitano. Anche per questo, dice Alfano, “le distanze continuano a essere molto lontane”. Non manca un ambiguo ultimatum, destinato ad alimentare altre voci di contatti e trattative: “Diamo 48 ore a Bersani”.
DOPO IL ROUND con Alfano, Maroni e Gal, Bersani scende e va alla buvette per la prima volta in questi giorni di consultazioni. Con lui c’è Enrico Letta, che presenzia ai colloqui del segretario del Pd. Pochi minuti dopo, in un corridoio del Transatlantico, si fanno vivi a passo svelto Maurizio Migliavacca e Vasco Errani. Sono i due sherpa bersaniani incaricati del lavoro sporco. La loro priorità è spaccare i grillini e portare una parte di essi su Bersani, ma la sensazione è che fino a quando “non si parlerà di scioglimento delle Camere” non ci sono margini. Migliavacca ed Errani s’infilano in una stanza e scompaiono. Poi Bersani risale su. In Transatlantico c’è scompiglio per il caso Terzi. “Il cadavere del governo Monti puzza sempre di più”. Non che il tentativo di Bersani stia tanto meglio, però. Alle sei meno un quarto della sera tocca al quartetto di Scelta civica. Oli-vero, Mario Mauro, Dellai, Ce-sa. I centristi sono disponibili ma chiedono “un fatto nuovo”, ossia un’apertura del Pd al Pdl. Cesa dell’Udc arriva a ipotizzare un governo Bersani con l’appoggio esterno di berlusconiani e montiani.
Ma lo schema del segretario democrat non cambia, in attesa della giornata decisiva di oggi con il Movimento 5 Stelle. Tirando le somme davanti ai cronisti, Bersani insiste sulla formula del non impedimento alla nascita del suo governo, rivolta principalmente a Lega e Gal, sotto schiaffo però del Cavaliere. Qui è Rodi e qui bisogna saltare. La prima mossa in queste “48 ore di tempo” concesse da B. per bocca di Alfano è il ritorno del doppio registro o binario governo-tavolo istituzionale, che ieri ha spiegato anche al cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi italiani. In pratica, al Pdl il leader del centrosinistra offre la guida della Convenzione per le riforme istituzionali, compresa la legge elettorale. La stessa offerta dovrebbe essere fatta al M5S. Chi accetterà dovrà dare, in cambio, il via libera all’esecutivo Bersani. Una proposta troppo evanescente, forse, e liquidata come “furba” e “insufficiente” da vari esponenti del centrodestra. In direzione del Pdl però potrebbe partire non ufficialmente una rosa di nomi per il Quirinale, la vera ossessione di Berlusconi. Tre in particolare: Giuliano Amato, Lucia-no Violante, Sergio Mattarella. La garanzia sul metodo condiviso c’è già ma questo a B. non basta. Fino a che punto si sbilancerà Bersani sulla successione a Napolitano, dando per buona peraltro la sua affermazione di ieri che “non ci sono dietrologie da fare”?
LO SCHEMA di un governicchio tra Pd e Scelta civica, con il non impedimento di Lega e Gal è l’unica strada percorribile in alternativa ai grillini. Bersani è convinto che le sue idee “cominciano a essere capite”. Anche se c’è “ancora da lavorare” e i “problemi rimangono”. E non è escluso che domani al Quirinale, il segretario del Pd chieda comunque a Napolitano di andare lo stesso al Senato. Al buio, senza numeri certi, contando solo su “ipotetiche desistenze”. Il no del Colle dovrebbe essere scontato ma il premier preincaricato potrebbe ottenere una proroga del suo mandato esplorativo o dire chiaro e tondo che non ci sono altre strade. Tanto vale tentare la carta dell’aula, quindi, sperando magari nella sponda di Maroni che vuole “un governo politico e di legislatura”. Quello che è certo, dicono i suoi fedelissimi, è che “Bersani non molla, non c’è alcun passo indietro, né su un fronte né sull’altro”. E in caso di fallimento, per il leader del centrosinistra, c’è sempre e solo l’opzione del voto anticipato. A quel punto però nel Pd verranno fuori le divisioni con i renziani, refrattari alle urne anticipate.
Un secondo giro con un nome diverso da quello di Bersani esclusivamente nelle mani di Napolitano. Ma con un governo tecnico per arrivare al voto, il centrosinistra già minaccia di eleggersi da solo il capo dello Stato.

La Stampa 27.3.13
Trattativa doppia
Trattativa fino all’ultimo tra offerte a Monti e garanzie al Cavaliere
Cresce la possibilità di un incarico agli Esteri per il professore
di Fabio Martini


E ora la Grande Trattativa è davvero partita. Certo, i principali protagonisti confidano di non sapere come andrà a finire. Ma per 48 ore si negozierà. Non più a tutto campo, perché da ieri sera (con i no unanimi a Bersani dei Gruppi a Cinque Stelle) si è definitivamente chiuso il «forno» Grillo. In compenso, all’ora di pranzo, quando mancavano tre ore all’incontro col Pdl, la trama tessuta dietro le quinte da Pier Luigi Bersani e dal suo amicissimo Vasco Errani verso il centro si era infittita e - se non proprio accogliente - era diventata quantomeno più resistente. Soprattutto per un motivo, importante a quell’ora della giornata: Mario Monti, da giorni disponibile soltanto per larghe intese, aveva fatto sapere di non essere insensibile alla nascita di un governo Bersani. Al punto che dall’entourage del presidente del Consiglio, era trapelata una indiscrezione: se l’operazione Bersani dovesse decollare, Monti potrebbe diventare ministro degli Esteri. E proprio a metà giornata arrivava la conferma anche ufficiale della fondatezza di quella pista: Mario Mauro, presidente dei senatori montiani, personaggio poco incline alle iniziative personali, depositava un post pubblicato sul profilo Twitter del partito: «Come nel caso Costa Concordia, la gente ci chiede “Vada a bordo”. Dobbiamo governare la nave, farle riprendere il suo percorso».
Apertura più evidente, incoraggiamento più generoso al presidente incaricato non poteva venire. Eppure, la definitiva chiusura del «forno» grillino finiva per «deprezzare» l’apporto dei 21 senatori montiani. Da ieri, col no del Cinque Stelle, Bersani non deve più raggiungere quota 158, sommando «fuggiaschi» o neo-responsabili provenienti da diversi gruppi parlamentari. Da ieri, il problema è diventato quasi unicamente simbolico: Berlusconi ha fatto sapere a Bersani di essere pronto a far partire il governo ma chiede che il Pd gliene dia riconoscimento formale.
E fino a ieri sera Bersani non sembrava assolutamente dell’idea. Certo, l’incontro con il centro-destra non era andato male. Il presidente incaricato aveva decrittato subito i segnali incoraggianti. Nella Sala del Cavaliere di Montecitorio, dove Bersani riceve i suoi ospiti, il Cavaliere di Arcore non si era presentato. Discutere a porte chiuse con Berlusconi, ai leader della sinistra non ha mai portato bene e oramaiè come se si fosse consolidato una specie di complesso che ne sconsiglia la «contaminazione». Nel corso del colloquio Roberto Maroni ha mostrato tutta la sua simpatia per Bersani che, da ex presidente di Regione, è considerato dai leghisti il migliore interlocutore possibile per un partito che ha deciso di riprendere la battaglia federalista. E al termine dell’incontro le parole pronunciate davanti ai giornalisti da Alfano e da Maroni sono apparse incoraggianti a Bersani, sicuramente prive di pregiudiziali personali.
È chiarissimo anche il messaggio sul Quirinale: al centrodestra e in particolare a Berlusconi interessa soprattutto che sia eletto un Capo dello Stato che non gli sia ostile, che da presidente del Csm eserciti la sua moral suasion sui magistrati, che un domani sia in grado di esercitare il potere di grazia. Ecco perché gli sherpa dei due schieramenti hanno ricominciato a ragionare sui nomi non sgraditi a Berlusconi. Lui sul Colle vorrebbe Gianni Letta, che però è indigeribile per il Pd. E nelle prossime ore si sfoglierà la margherita del Cavaliere: Franco Marini, già presidente del Senato, grande amico proprio di Letta; Emma Bonino, con la quale Berlusconi ha un cattivo rapporto, ma che, vista da destra, garantirebbe schiena dritta rispetto alle pulsioni corporative dei magistrati; Pietro Grasso, attuale presidente del Senato, rispettato dal Cavaliere. E naturalmente garanzie per Berlusconi potrebbero venire anche dal Guardasigilli di un eventuale governo Bersani: per quell’incarico così delicato si sussurra il nome di Luciano Violante, in queste ore è uno degli sherpa impegnati nella trattativa, per anni considerato il principale interlocutore dei pm e che più recentemente si è impegnato in una ampia rivisitazione del suo pensiero sulla politica giudiziaria.

La Stampa 27.3.13
Bersani offre la Bicamerale al Pdl
La presidenza della “Convenzione per le riforme” al centrodestra. E ai grillini dirà “non mi faccio da parte”
di Carlo Bertini


Di mollare il testimone a qualcun altro, per piegarsi a uno dei «desiderata» dei grillini, non ci pensa proprio, «perché dovrebbe farsi da parte chi è stato votato da tre milioni di persone alle primarie? », domandano i suoi. Perciò se i grillini oggi chiederanno a Bersani di rinunciare e fare posto ad un altro esponente del centrosinistra per fargli guidare lo stesso «governo del cambiamento», lui risponderà picche. Anche di trattare col Pdl sulla compagine di governo non ha troppa voglia, anche se nel suo partito il pressing in tal senso è forte.
Ma al Pdl è disposto a dare un riconoscimento politico offrendo la presidenza della bicamerale «Convenzione per le riforme». Ben sapendo, glielo ha detto Alfano a chiare lettere nel colloquio, che lo snodo è il Quirinale e su questo c’è chi sta trattando al riparo dai riflettori. Con l’arma finale sempre posata sul tavolo, perché come dice uno dei pochi che segue Bersani in ogni passo, «se fossi in Berlusconi, tra beccarmi come presidente della Repubblica una Bocassini, un Zagrebelsky o Rodotà, e avere invece un nome gradito e una legittimazione politica con la Convenzione, non avrei dubbi su cosa mi conviene».
Ma alla fine di questa tornata, che si annuncia più lunga del previsto - «cercherò di risolvere entro Pasqua», quindi più probabile che salga al Quirinale venerdì - Bersani dovrà prendersi un fardello sulle spalle e decidere. Perché in ballo c’è la consapevolezza che ai segnali di fumo lanciati da Alfano potrebbe dover corrispondere una qualche apertura sulla compagine ministeriale del governo. Il pressing arriva pure dai «montiani» quando rivelano, uscendo dal colloquio con Bersani, di aver «chiesto un ulteriore sforzo che indichi la volontà di un maggiore coinvolgimento di tutte le forze politiche che possono contribuire a dare avvio alla legislatura». E anche se i bersaniani assicurano che non ci saranno ministri del Pdl ma tecnici di area centrosinistra, non è un caso che nomi di personalità come De Rita o Mirabella, presidente emerito della Consulta, comincino a circolare nei capannelli del Pd: dove non si scommette più sull’impronta giovanile che potrà avere questo esecutivo, ma si comincia a scommettere sulla possibilità che Bersani ce la faccia. Il premier incaricato si presenterà al Quirinale fiducioso di poter approdare alle Camere, non inseguendo l’idea di sfondare una diga per un pugno di voti, ma provando in queste ore a costruire maggiore consenso intorno alla sua proposta; che si può tradurre in voti a favore, quelli di Scelta Civica e magari qualcuno dai grillini, o uscite dall’aula che valgano come astensione da parte di Pdl e Lega.
Durante le consultazioni, accompagnato da Maroni e dagli autonomisti di Gal, Alfano fa capire a Bersani che se si risolve la questione del Colle loro consentiranno di far partire il suo governo; ma davanti ai giornalisti il leader Pdl rimarca le distanze, «ci opporremo a un governo Bersani senza di noi. Le posizioni restano molto distanti e se lo resteranno nelle prossime 48 ore, noi ribadiremo che l’unica strada è quella del voto».
Ma il clima è mutato in meglio se Bersani esce nella sala Aldo Moro e annuncia che «le distanze ci sono ma su questo piano si può discutere». Osservando che «si comincia a comprendere meglio il significato della proposta per questa Convenzione per le riforme che possa dare risultati in tempi certi... ». Insomma, il Pdl potrebbe intestarsi la guida dello strumento che traghetti il paese verso la terza Repubblica.
E anche con i montiani non è andata male, assicurano i big del Pd, «loro ci stanno, ma lo diranno solo quando sarà chiaro che il tentativo possa riuscire».

Corriere 27.3.13
Commissione di sei mesi guidata dal Pdl
di Francesco Verderami


È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Manca solo l'accordo. È la politica, bellezza, con i suoi paradossi e i suoi penultimatum, con la linea dell'intransigenza ufficiale che scolora nelle trattative riservate, con intese su modelli di governo, formule di sostegno parlamentari, persino percorsi di riforma già stabiliti, e che però rischiano di diventare carta straccia nelle urne.
Insomma l'accordo c'è, anche sul cerimoniale, che è necessario rispettare. Perciò va prima consumato il rito delle consultazioni, con l'incontro dei Cinquestelle, al termine del quale il «preincaricato» dovrà prender atto che i grillini non ci stanno a dargli la fiducia. Nel frattempo gli sherpa di Pd e Pdl hanno accatastato pile di progetti, su un esecutivo a guida Bersani composto da politici di centrosinistra e tecnici d'area di centro e centrodestra, a cui l'opposizione-maggioranza darebbe un appoggio esterno.
E con l'avvio del governo si avvierebbero anche le riforme, patrocinate da due appositi ordini del giorno alla Camera e al Senato che darebbero vita a una commissione redigente da far presiedere a un rappresentante dell'opposizione-maggioranza. Sulla falsariga della vecchia commissione Bozzi, una pattuglia di costituenti — assistita da personalità esterne — verrebbe incaricata di riscrivere in sei mesi la seconda parte della Carta, da presentare poi al giudizio inemendabile del Parlamento.
È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Peccato però che manchi l'accordo. Perché se su governo e riforme c'è già più di un'ipotesi di intesa, sulla presidenza della Repubblica si sta giocando una spericolata mano di poker tra Bersani e il Cavaliere. Non a caso Berlusconi, prima che la delegazione del centrodestra venisse ricevuta dal «preincaricato», ha dettato la linea ad Alfano: «Dovrete essere irremovibili». Sul Colle, ovvio, non sul resto, che è come l'intendenza: seguirà. E sul nodo del Quirinale pesa il lodo Berlusconi: «Se il Pd accetta la grande coalizione, noi accetteremo di votare un candidato indicato dal centrosinistra. Se il Pd non se la sente di fare il governo con noi, allora dovremo essere noi a indicare un candidato di centrodestra».
E poco importa al Cavaliere se Bersani, venerdì scorso, gli ha inviato un messaggio attraverso Alfano, spiegandogli che «bisogna ragionare su personalità non targate» e che siano «potabili». Niente da fare. Al tavolo di poker l'ex premier si è presentato con il nome di Gianni Letta. A Bersani sono cadute le braccia. E fosse questo il solo problema. Il punto è che il segretario del Pd non vuole, lui dice che non può, mettere insieme la trattativa su Palazzo Chigi con quella per il Colle. «Non posso imbastire adesso una trattativa aperta sul Quirinale», ha ripetuto ieri durante le consultazioni. Perché Bersani è determinato nel voler varare il governo, «ma solo dopo che è partito il governo sono pronto a discutere sulla presidenza della Repubblica, per trovare un giusto equilibrio», cioè a trovare un compromesso su una personalità di estrazione «moderata».
Così l'accordo (sul resto) galleggia sull'alito del drago, e senza un accordo (sul Colle) rischia di bruciarsi. Già, ma chi sarebbe a perdere la mano di poker? È vero, ieri Berlusconi ha pescato una buona carta dal mazzo. Con il caso dei marò ha schiantato Monti, che — a sentire un autorevole esponente di Scelta civica — «ha perso il controllo del gruppo e anche la speranza di diventare ministro degli Esteri nel governo di Bersani». C'è la manina di Alfano (su mandato del Cavaliere) dietro le incredibili dimissioni del titolare dalla Farnesina? Di sicuro, grazie alla mossa di Terzi — che è stato a un passo dalla candidatura nelle liste del Pdl — Berlusconi ha smontato il disegno del «preincaricato» che pensava di edificare il suo governo, partendo dal mattone centrista.
Invece anche quel piccolo mattone si è sgretolato, e il leader del Pd adesso non può fare a meno del supporto (a che titolo si vedrà) del centrodestra per andare a Palazzo Chigi. E per ottenere l'appoggio ha quarantotto ore di tempo per dare una risposta a Berlusconi sul Quirinale. Bersani insomma è spalle al muro. Ma attenzione, perché l'azzardo del Pdl potrebbe non pagare, dato che restano ancora due carte coperte. La prima: se l'intesa sul Colle non si realizzasse, il «preincaricato» potrebbe alzar la posta chiedendo a Napolitano di andare in Parlamento per cercare la fiducia. «Napolitano ci ha dato garanzie che senza numeri certi non consentirà a Bersani di formare il governo», sostiene il Cavaliere. Sarà, ma è disposto ad andare a vedere fino in fondo il gioco?
C'è poi la seconda carta, la più pericolosa per Berlusconi. Senza un'intesa con il Pd, per il Quirinale potrebbe pescare alla fine le peggiori carte (dal suo punto di vista), cioè Prodi o Zagrebelsky o Rodotà, che in principio verrebbero magari votati dai grillini, e su cui i democratici gioco forza sarebbero «costretti» a convergere. Anche in questo caso, il Cavaliere sarebbe disposto a rischiare? E dopo aver perso il Colle, sarebbe sicuro di vincere le elezioni, che nel Pdl già fissano per il 7 luglio? Perché nel Pd Renzi si sta muovendo, chiamando a raccolta anche ciò che resta di Scelta civica, e nei sondaggi farebbe presto a cambiare il trend. Perciò nell'ora delle decisioni irrevocabili Bersani e Berlusconi trattano.

La Stampa 27.3.13
Il via libera all’esecutivo passa per l’intesa sul Quirinale
di Marcello Sorgi


La quarta (ma in realtà prima, vera) giornata di consultazioni ha confermato tutte le difficoltà del tentativo di Bersani di formare il governo. E lo stesso leader del Pd, dopo aver incontrato, tra gli altri, i rappresentanti della coalizione Pdl-Lega e quelli di Scelta civica, ha dovuto ammettere che il quadro non ha fatto grandi passi avanti. Se non per un aspetto, che nelle dichiarazioni pubbliche non ha avuto grande spazio, ma nei conversari al chiuso dello studio messo a disposizione a Montecitorio invece si: un punto acclarato e nel complesso condiviso della possibile soluzione della crisi è che non si sta più discutendo di un governo Pd-M5S-Scelta civica che lasci all’opposizione il centrodestra. Piuttosto, del tentativo di Bersani di fare un governo a partire dal centrosinistra, che al Senato comincerebbe in minoranza, ma al quale gli altri gruppi parlamentari, con atteggiamenti diversi, di appoggio, di indifferenza o di opposizione non pregiudiziale, consentirebbero di iniziare il proprio lavoro, mentre su un altro terreno, in un clima di rispetto reciproco, si avvia, o si riavvia, il confronto sulle riforme istituzionali.
Parola più, parola meno, è il quadro tracciato dal Presidente Napolitano all’atto del conferimento del pre-incarico. Ma è inutile nascondersi che la questione di cui si sta discutendo, su cui l’accordo potrebbe maturare ma anche mancare, riguarda appunto la successione al Quirinale. Se si sentirà garantito da una candidatura concordata e condivisa, che dunque dovrebbe portare a un’elezione con una larga maggioranza del nuovo Capo dello Stato, Berlusconi darà via libera a Bersani per il governo, scegliendo un atteggiamento parlamentare (astensione, uscita dall’aula, o altro) utile a far sì che il leader del Pd prenda la fiducia anche al Senato. E se questo sarà evidente, anche Scelta civica potrebbe abbandonare la posizione di equidistanza dal centrodestra e dal centrosinistra. Altrimenti, se l’accordo non si troverà, Bersani non farà il governo e le elezioni torneranno ad essere uno sbocco più che probabile.
In questo quadro l’incontro con la delegazione del movimento di Grillo stamane va vista in una luce diversa. Bersani, in diretta streaming, farà di tutto per conquistare il consenso di M5S. Ma anche, nel caso assai probabile di un mancato accordo, per dimostrare che si tratta di un rifiuto pregiudiziale e che sono i 5 Stelle a non volere il cambiamento. La novità dell’ultima giornata di consultazioni è proprio questa: che i partiti, tutti, a cominciare dal Pd, si sono resi conto che stare al gioco di Grillo non paga, e hanno deciso di prendere le prime contromisure.

La Stampa 27.3.13
Se Bersani dovesse fallire a rischio il piano B del Colle
I democratici si irrigidiscono sull’ipotesi “governo di scopo”
di Antonella Rampino


Un’altra giornata di fuoco, lassù al Quirinale, mentre arrivano a raffica segnali dello smarrito senso delle istituzioni, tra le dimissioni di Terzi e un magistrato del calibro di Caselli che chiede «tutela» al Csm dalle accuse di un altro magistrato, che incidentalmente è il presidente del Senato e seconda carica dello Stato Piero Grasso. E chissà se è una buona nuova che si allontana - per ora pare sino a prima di Pasqua - l’incontro con il pre-incaricato presidente del Consiglio Pierluigi Bersani.
Perché sarà un faccia-a-faccia intenso, e forse con tratti aspri, quello tra Napolitano e il segretario del Pd. Determinato, quest’ultimo, a farsi togliere il suffisso «pre» dall’incarico, e a farsi mandare a cercare i voti per la fiducia in Senato. E determinato, Napolitano, a non dar via alla conta, come si può del resto leggere chiaramente, nello «statement» con il quale ha investito Bersani della facoltà di avviare le consultazioni. Le quali, condotte ricevendo personalità di vario tipo, da Saviano a De Rita fino a Bagnasco, tutte le esistenti sigle di parti sociali, e infine le forze politiche, nella massima pompa della Sala del Cavaliere nel palazzo di Montecitorio, servono ad indicare con chiarezza che il segretario Pd tiene il punto. Non accetterà facilmente che il Presidente dia il via libera al proprio piano B, a quel «governo di scopo» che possa fare le poche cose assolutamente indispensabili: avviare un po’ di crescita e lenire la disoccupazione, far fronte agli impegni europei, affrontare la riforma della legge elettorale e qualche altra correzione istituzionale. E poi raggiungere le elezioni, con le europee, la primavera del 2014.
Qui c’è un primo punto: se Bersani intignasse - i piacentini hanno la testa dura - la discussione potrebbe veder quasi coincidere il piano A del Segretario con il piano B del Presidente. Ovvero, che il Pd dia il via libera a un nome proposto da Napolitano ma condiviso dal Pd, i cui voti sono necessari in Parlamento.
E sarà una discussione intensa, quella tra il Presidente e il Segretario, per il motivo per il quale il primo non vuol mandare il secondo a caccia di voti in Senato: perché anche se non riuscisse a racimolare la fiducia, sarebbe comunque insediato a Palazzo Chigi al posto di Monti. Infatti, al momento di ricevere un mandato dal Capo dello Stato, il premier incaricato presta giuramento, e in quel preciso momento viene anche firmato il decreto presidenziale di dimissioni effettive del precedente governo. È il meccanismo grazie al quale l’Italia non potrà mai restare senza un governo in carica, com’è accaduto al Belgio per quasi due anni. Ma è anche il meccanismo per il quale si rischia di avere al governo un’anatra zoppa: è la preoccupazione di Napolitano.
Altro punto certo è che, avendo Berlusconi infilato nella partita per Palazzo Chigi anche quella per il Colle, l’argomento sarà certamente affrontato nell’incontro tra Napolitano e Bersani. Si annusa un rischio. Non che il Pd si voti da solo (cioè con i montiani, se ci stessero, e al momento non pare che ci stiano) un capo dello Stato preferito. Ma che il Pdl, dato che tutti insistono, a partire da Berlusconi e dai giornali berlusconiani, dia indicazione di scrivere sulla scheda per il nuovo presidente il nome di Giorgio Napolitano. In quel caso, si rischia di provocare un effetto trascinamento. E sinora Napolitano l’ha detto e ripetuto con chiarezza: non sono disponibile a rinnovi o prolungamenti di mandato. C’è quasi da sperare che Bersani abbia qualche carta coperta. E magari, chissà, ce la faccia...

Corriere 27.3.13
Il Pd scommette sugli «spiragli» e sulla sintonia con Maroni
Più ottimismo nel partito. Bersani al Colle domani o al massimo venerdì
di Monica Guerzoni


ROMA — Il «no» unanime del M5S non sembra lasciare margini all'ottimismo, i montiani pongono condizioni e molti, nel Pd, temono un «bluff» da parte del centrodestra. Ma Bersani, che pure ammette le «difficoltà», mostra di credere nel «miracolo» di un governo che porti il suo nome. La strategia della lentezza non ha dato per ora numeri certi da portare sul Colle, eppure nello staff del segretario si respira un'aria meno plumbea. «Napolitano sorprenderà tutti», azzarda un pretoriano del leader.
Al Nazareno, nonostante le fibrillazioni dentro il partito, pensano che il penultimo giorno di consultazioni abbia segnato una svolta. Parlare di aperture sarebbe fuorviante, ma al vertice del Pd si sono convinti che «ci sono spiragli» e che nelle prossime ore il centrodestra potrebbe ufficializzare il via libera a Bersani. «Non dico sia fatta, ma il Pdl certo non ha chiuso», sorride Davide Zoggia. E Grillo che sbatte la porta? «Non è una novità. Ma quando hanno eletto, con i nostri voti, un questore al Senato e un vicepresidente alla Camera, la cosa non gli ha creato tanto disturbo». Il filo è sottilissimo, ma i bersaniani più ottimisti fantasticano di un'intesa vicina sul nome del successore di Napolitano e rimarcano quella «forte legittimazione» che Enrico Letta ha offerto all'opposizione attraverso la Convenzione per le riforme: un organismo cogestito e dotato di «grandi poteri», che nei piani di Bersani dovrebbe essere guidato da Alfano.
Troppa fiducia? «Diciamo che c'è voglia di farcela», stemperano i facili entusiasmi i collaboratori del presidente incaricato. E rivelano come anche Bobo Maroni avrebbe «una voglia matta» di dar vita a un governo che allontani le elezioni. Il segretario avrebbe registrato una preziosa sintonia con il leader della Lega, tanto che nel Pd si torna a ragionare della possibilità che diversi senatori del Carroccio lascino l'Aula al momento del voto di fiducia, così da abbassare il quorum.
«Ho puntato su un quadro di corresponsabilità — è l'appello di Bersani a tutte le forze —. Chiedo che questo percorso non venga impedito. Punto. Non inseguite dietrologie o strani cunicoli». Le dietrologie si sprecano e riguardano l'elezione del prossimo capo dello Stato, che il Pdl rivendica per sé. Bersani ribadisce che non ci saranno scambi, eppure la girandola dei nomi non sgraditi al Cavaliere si è rimessa in moto, con Marini e Grasso favoriti.
Al centrodestra Bersani ha proposto una squadra «snella, ma di qualità», con ministri «di alto profilo». Un governo politico, arricchito da personalità esterne e inattaccabili, che nulla però abbia a che fare con le larghe intese: «L'esecutivo — ha chiarito Bersani — lo facciamo noi». Resta il passaggio cruciale dei numeri, di cui lui non pare curarsi. Se Bersani pensa che ci siano «tanti modi per far partire un governo», Vendola ritiene che l'ostacolo del Colle si possa superare anche senza una consistenza numerica certa e spiega così il piano del segretario: «L'Italia è al collasso, se c'è una piattaforma che incontra un sentimento largo, chi la rifiuta deve spiegarlo al Paese». Con questo spirito Bersani salirà al Colle domani, o venerdì al massimo, per chiedere a Napolitano un mandato pieno. Il segretario non vuole andare al braccio di ferro con il capo dello Stato e i suoi assicurano che non opporrà resistenza. Se il presidente dovesse metterlo di fronte all'evidenza dei numeri Bersani insisterà sull'urgenza imposta dalla crisi economica e sul fatto che non esistono strade più larghe della sua. «Anche Bush — ha detto alla delegazione del centrodestra — ha governato anni con una manciata di voti di scarto...». Dietro la facciata dell'unità, il Pd è dilaniato. «Bersani farà il governo e quelli di noi che hanno il maldipancia si prenderanno un maalox», sospira Fioroni. I dalemiani sono pronti alle larghe intese. I veltroniani teorizzano un «governo del presidente» guidato da Saccomanni. Renzi ha promesso lealtà, ma i suoi scalpitano. «Se Napolitano decide che i compitini di Bersani non vanno bene — prevede Angelo Rughetti — un governo bisognerà farlo...».

Corriere 27.3.13
Il Senato e i 37 voti che mancano a Bersani
Il centrosinistra può contare su 122 voti certi. La variabile degli autonomisti di Gal
di Dino Martirano


ROMA — Le dimissioni annunciate del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata ora rischiano di scompaginare i piani del Pd che, venuta meno la «stampella» del M5S, punta a una «pax berlusconiana» e a una non belligeranza della Lega per superare la difficile prova della fiducia a Palazzo Madama. Lo schema di gioco, nelle intenzioni del presidente incaricato Pier Luigi Bersani, è ricollegabile a quello della «non sfiducia» già sperimentata nella sua forma più eclatante nel 1976 dal monocolore Andreotti: quel governo, infatti, prese il via solo perché i parlamentari di Pci, Psi, Pri, Psdi e Sinistra indipendente si astennero alla Camera mentre al Senato (dove l'astensione vale per un voto contrario) uscirono in parte dall'aula però garantendo il numero legale. Nel '76, i no ad Andreotti arrivarono soprattutto dal Msi.
Tuttavia, oggi a Pier Luigi Bersani serve una «maggioranza certificata» in tutte e due le Camere per poter rispettare le condizioni imposte dal Quirinale: «E questo — puntualizza il costituzionalista Francesco Clementi — vuol dire che il presidente incaricato deve avere i voti necessari in entrata, cioè prima di presentarsi davanti al Parlamento». Detto questo, lo scossone inferto dal responsabile della Farnesina al governo Monti (in carica per gli affari correnti) fa sembrare ancora più contorto il labirinto di contatti non ufficiali, anche con il centrodestra, che nelle intenzioni dei colonnelli di Bersani dovrebbero portare il centrosinistra a quota 159 voti. Cioè, appena sopra la soglia minima per ottenere la fiducia.
Tra gli scenari possibili, infatti, ce ne è solo uno in cui non è prevista la regia di Silvio Berlusconi: Pd, Sel e l'alleato Südtiroler Volkspartei possono infatti contare su 122 senatori (il 123° è il presidente Pietro Grasso che, per prassi, non vota) che sommati ai 54 grillini (presto verrà sostituita la dimissionaria Giovanna Mangili) assicurerebbero al centrosinistra un maggioranza autonoma. Ma questa, come confermato ieri sera dal voto dei gruppi parlamentari dei grillini, è un'ipotesi della irrealtà.
Per cui gli ufficiali di collegamento di Bersani coordinati dal capogruppo Luigi Zanda — ieri pomeriggio sono stati inviati al Senato pure Dario Franceschini e Gianclaudio Bressa — stanno lavorando per rosicchiare quei 37 voti che separano il presidente incaricato dalla «maggioranza certificata» anche al Senato. Per riuscire nell'impresa, Bersani deve innanzitutto ottenere l'appoggio dei 21 centristi e l'innesto di almeno un'altra ventina di voti. Che potrebbero arrivare dai banchi della Lega (16 senatori) e da una metà di quello strano gruppo (10 senatori) composto da fedelissimi di Renato Schifani, e dunque di Berlusconi, da un paio di leghisti, siciliani che fanno capo (rispettivamente) a Lombardo e a Micciché. Sono loro i parlamentari schierati dal Cavaliere e da Maroni con la sigla Grandi autonomie e libertà: «Noi ci muoviamo solo se Berlusconi ce lo chiede, anzi a me lo deve chiedere tre volte...», dice il socialista craxiano Lucio Barani che non stima Bersani («Mi ricorda un salumiere...») e dice di avere parecchi «conti in sospeso con i comunisti». Anche Luigi Compagna, repubblicano e pidiellino doc, conferma che «votare la fiducia a Bersani non sta né in cielo né in terra se non si muove il Cavaliere». Il capogruppo del Gal, Mario Ferrara è un fedelissimo di Schifani e lo stesso discorso vale per la senatrice Laura Bianconi. E il leghista targato Gal Jonny Crosio prende le distanze: «Io sono maroniano praticante, leghista ortodosso, e mi muovo in sintonia con la Lega. Per me non si pone il problema di cosa chiederà di votare Micciché».
Per cui, fatte tutte le sottrazioni, senza il placet di Berlusconi e di Maroni, dal Gal potrebbero arrivare a Bersani giusto 3 o 4 voti: quelli dei «siciliani» Antonio Scavone, Giuseppe Compagnone, Giovanni Mauro e Giovanni Bilardi (eletto in Calabria). In ogni caso, precisa il leader del Grande Sud, Gianfranco Micciché, «Bersani deve avere il coraggio di proporre al centro destra un governo di pacificazione....».
L'ultimo, residuale scenario chiama in causa anche quell'aliquota di grillini che ha già votato per Grasso contro gli ordini dei vertici del M5S: «Ai grillini chiedo pragmaticamente di votare la fiducia al governo Bersani», ha detto Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso dalla mafia insieme a 5 agenti di scorta nel '92, che vanta un discreto ascendente sugli eletti del M5S in Sicilia. I senatori grillini «dissidenti», tuttavia, possono essere 5 o 10 ma da soli non sono sufficienti. Per questo, in questo secondo schema, Bersani dovrebbe ottenere la «non sfiducia» anche da settori della Lega e da quelli dei gruppi fiancheggiatori del Pdl.
E c'è da giurarci che, pure in questo caso, Berlusconi avrebbe da dire l'ultima parola su come devono votare i «suoi» senatori.

La Stampa 27.3.13
La prima volta dell’incontro in streaming
Per i democratici l’ha proposto il segretario: “Diteglielo, che se lo vogliono non c’è problema”
di Francesca Schianchi


Due telecamere, due microfoni, e qualche migliaio di utenti collegati. Ieri, a Montecitorio, il Reparto servizi radiotelevisivi della Camera stava facendo le prove che tutto funzionasse alla perfezione. Stamattina presto gli ultimi controlli, e poi via, basterà un clic e dalle dieci, dalla Sala del Cavaliere al primo piano del Palazzo, voci, gesti, richieste e risposte del presidente incaricato Pierluigi Bersani, del vicesegretario del Pd Enrico Letta, e dei capigruppo del Movimento cinque stelle Vito Crimi e Roberta Lombardi entreranno in casa di chiunque sia interessato a sentirli.
Una prima assoluta, «per noi è un evento», lo definisce un funzionario di Montecitorio. Già, perché consultazioni in streaming, diretta video con telecamera puntata che immortala il delicato incontro tra un presidente incaricato «con riserva» e gli esponenti di un’altra forza politica, tra stucchi e velluti della Camera non si erano mai viste. Ma così è il nuovo corso: già un paio di settimane fa i grillini lo avevano annunciato, l’unica possibilità di fare incontri politici con altri gruppi, per loro, è che venga consentita la diffusione via streaming, «questa sarà la nostra richiesta – disse la Lombardi – questo sarà il nostro modo di relazionarci: in trasparenza». E così, quando nei giorni scorsi il Pd ha contattato gli esponenti del Cinque stelle per invitarli all’incontro, ha prevenuto la richiesta. Raccontano i democratici che è stato lo stesso segretario Bersani a proporre: «Diteglielo, che se vogliono la diretta streaming non c’è problema». Proposta accolta con soddisfazione dai grillini.
A trasmettere in diretta saranno la web tv e il canale YouTube della Camera. Degli strumenti comunicativi a disposizione del Palazzo, sarà solo il canale tv a non rilanciare l’appuntamento: si è deciso così nel caso ci fossero stati lavori d’Aula da trasmettere. Ma chi vorrà assistere al colloquio lo troverà su molti altri siti: la politica della Camera è quella di concedere il segnale a chiunque lo chieda, e allora la diretta sarà disponibile anche su Youdem, la web tv del Pd, su La Cosa, quella del M5S, così come su vari siti d’informazione. Cosa che moltiplica i contatti reali di questo genere di appuntamenti: per l’elezione della Boldrini, gli utenti della diretta sono stati circa 5mila (e oltre 20 mila visualizzazioni successive su YouTube), ma di questi utenti fanno parte anche siti che, a loro volta, moltiplicano la visione. Per esempio, la Direzione del Pd di lunedì sera su Youdem ha avuto 88 mila contatti in un’ora.
Ma due telecamere che spiano ogni sospiro dell’incontro, non rischiano di renderlo un po’ ingessato? «A noi non inibiscono per niente», garantisce Stefano Di Traglia, l’uomo della comunicazione del leader Pd. «Cosa dirà loro Bersani? Gli ricorderà in che situazione è il Paese, il fatto che occorre fare scelte responsabili. Ci sono punti su cui noi e loro possiamo discutere, ma in Italia serve prima un voto di fiducia per far partire un governo. Quale grado di responsabilità intendono dimostrare? ». La risposta, oggi, in diretta sul vostro computer.

il Fatto 27.3.13
Laura Puppato, l’ambasciatrice di Pier Luigi
“Nessun altro nome: il M5S dica le sue condizioni”
di Wanda Marra


Spero nel risveglio delle coscienze dell’M5s e nel senso di responsabilità che può arrivare da Monti”. Laura Puppato, neo senatrice Pd, ex sindaco di Montebelluna stimata da Grillo la racconta così.
Senatrice, cosa dovrebbe fare il Movimento 5 Stelle?
Dare al paese il segnale che si aspetta e assumersi le sue responsabilità, sapendo che ha il coltello dalla parte del manico: noi non abbiamo la maggioranza piena e in qualsiasi momento, se le cose non vanno nella direzione che vogliono, i senatori grillini possono sfiduciarci. E dunque, possono trovare delle soluzioni per non impedire che questo governo veda la luce: fare una dichiarazione prima della fiducia, dare libertà di voto, o anche uscire dall’Aula.
Lei crede che Bersani dovrebbe fare un passo indietro a favore di un nome più gradito ai grillini come capo del Governo?
Le aperture di credito si possono fare o non fare, ma bisogna almeno avere una conoscenza reciproca delle proprie volontà e delle proprie idee. Nell’M5s nessuno ha voluto spiegare bene quali possono essere le condizioni alla nascita di questo governo. Ma da quello che leggo in rete e ascolto in giro, la posizione di molti loro elettori non è sul no al governo Bersani: se vanno a casa, molti voti non li riprenderanno. Nessuno vuole un paese allo sbando.
Insomma, Bersani non si deve fare da parte?
L'unico che può scegliere è lui. Il mandato che abbiamo dato come partito è solo a lui.
Ma un governo con i voti di Monti e Gal, e la Lega che esce è preclusa? E ci vorrebbe comunque un accordo politico col Pdl.
Non parlerei di accordo politico. Spero nella responsabilità da parte del Pdl perché l’Italia non scivoli nel baratro, magari trovando un nome per il Colle quanto più possibile condiviso.

Repubblica 27.3.13
La senatrice del Pd: sto creando una piattaforma dove costruire proposte di legge da portare in Parlamento
Puppato fa da pontiere sulla Rete “Tanti 5Stelle soffrono la linea dura”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Se Grillo vuole irreggimentare i parlamentari 5Stelle penso non ci riuscirà, perché è un atteggiamento incomprensibile e inaccettabile politicamente». Laura Puppato, senatrice del Pd, ha con il MoVimento 5Stelle un ottimo rapporto. Con alcuni grillini, e con i NoTav, è appena andata in Val di Susa.
Puppato, lei fa da pontiere tra Pd e grillini?
«Non è un ruolo ufficiale, per dire così. Ma certamente il mio è un modo di concepire la politica e le priorità politiche più vicino a quello dei 5Stelle, come del resto lo è tutta quell’ala del Pd attenta all’ambiente. Ci sono una condivisione e una vicinanza ma, vorrei chiarire, non per ragioni opportunistiche».
Però ha creato un blog di dialogo con i M5S?
«Non è un blog. Se verrà accettato da un’area politica vasta, non coincidente con il Pd, nascerà un bel progetto: una piattaforma partecipativa in Rete, ovvero un terreno neutrale aperto, in cui i cittadini e i parlamentari portino alla discussione pubblica idee e bozze per proposte di legge. Nella loro definizione finale, saranno poi votate dalla cittadinanza e i parlamentari proponenti si impegnano a portarle alle Camere».
Un canale aperto di dialogo?
«Un luogo dove fare incontrare le rispettive idee e per promuovere quella politica dal basso, trasparente, democratica e che conduca a scelte concrete».
C’è qualche possibilità, secondo lei, che i 5Stelle votino la fiducia in Senato al governo Bersani?
«Il M5S, in particolare al Senato, è composto da persone che hanno più di 40 anni, quindi mature, con un’esperienza di vita e professionale alle spalle. Credo che molti di loro nutrano fortissime perplessità a restare inermi rispetto al rischio-paese. I 5 Stelle sanno anche due cose: siamo l’unico paese europeo in cui per il premier è necessaria la fiducia politica in due Camere; inoltre, sono consapevoli che quella che potrebbe risultare una fiducia limitata, programmatica ha una ulteriore opportunità che è nelle loro mani. Hanno poi il coltello dalla parte del manico, perché possono votare in ogni momento la sfiducia. Insomma, ci sono tutte le condizioni perché si ravvedano: se non votano la fiducia, facciano una scelta che non impedisca che la fiducia al governo Bersani ci sia».
Non crede che i grillini abbiano una preclusione nei confronti di Bersani?
«Non l’ho mai ascoltata dalle loro voci, l’ho letta sui giornali».
Beh, Grillo ha definito il segretario del Pd “il morto che parla”. Forse hanno un altro nome, un’altra personalità che sarebbero disposti ad appoggiare?
«Non hanno mai indicato in Bersani l’elemento ostativo. Comunque, siamo in un magma, non ci sono dialogo o relazioni che consentano chiarimenti. Non mi pare che sia Bersani l’ostacolo».
Il rapporto del Pd con i 5Stelle non è chiuso?
«Sento una sostanziale speranza, a prescindere dalle dichiarazioni che fa questo o quello. Sì, in Rete ci saranno anche “troll” ma ci sono tanti che hanno votato 5Stelle dandogli una delega a fare».

il Fatto 27.3.13
Agende Rosse
Salvatore Borsellino
“Fossi un eletto Cinque Stelle farei nascere un governo”
di Emiliano Liuzzi


Se Pietro Grasso oggi è presidente del Senato lo deve anche a lui, Salvatore Borsellino, classe 1942, fratello di Paolo, leader del movimento che porta il nome di Agende rosse. Fu lui a invitare i senatori del Movimento 5 stelle a votare per “Grasso, ma soprattutto contro Schifani”. Lo fece attraverso un sms. Poche righe, per evitare che fosse riconfermato il berlusconiano, già presidente del Senato nella scorsa legislatura. A quel punto gli eletti del Movimento 5 stelle, 18 nel corso dell’assemblea e 13 al momento del voto segreto, tirarono i remi in barca: “Noi non possiamo tornare a casa con l’elezione di Schifani, non ci guarderebbero più in faccia”, dissero i siciliani. Ne seguì un dibattito, un voto per alzata di mano, ma nonostante fossero minoranza proseguirono sulla loro strada. C’è chi parlò di lacrime, nomi scritti contando i minuti e facce scure dentro e fuori l’aula. Tanto ha segnato quel voto per il Movimento, un trauma che ora li mette al centro della discussione politica e che li fa sembrare più deboli. Questo per dire quanto la parola di Borsellino, simpatizzante del Movimento 5 stelle, possa influire. Così il nome di Borsellino è tornato d’attualità. Ma, dice lui, le cose “oggi stanno diversamente” e “mi cuciono addosso un ruolo che non è il mio”.
Però il suo sms ai senatori grillini fu decisivo, non ne fanno mistero neanche loro, i destinatari dell’appello raccolto al volo.
Lo so. Conosco i ragazzi del Movimento, molti di loro hanno lavorato con me per Agende rosse, mi rispettano, almeno quanto io rispetto loro.
C’è chi dice che farà la stessa cosa quando sarà il momento di dare la fiducia a un governo Bersani. È vero?
No, questo non corrisponde al vero. Anche perché so bene che troverei delle porte chiuse. Quella era un’espressione per una carica istituzionale, non esecutiva.
Non ha fatto e non farà nessun appello di voto per un eventuale governo Bersani?
Assolutamente no. Ripeto: sarebbe contro ogni politica che hanno portato avanti fino a oggi. Loro faranno delle scelte chiare e annunciate.
E allora perché lo fece per Grasso?
Perché se Grasso è un opportunista, avere Renato Schifani alla presidenza del Senato sarebbe stato deprecabile.
Dunque fu una scelta contro più che a favore?
Esatto. Non credo che questo Paese meriti Schifani.
Merita Bersani?
Neanche. Ma fossi un senatore del Movimento 5 stelle mi porrei il problema: forse sarebbe più efficace dare la fiducia a un governo e poi combattere le proprie battaglie. Ma capisco che così non può essere e non sarà.
Il motivo?
Il Movimento 5 Stelle nasce proprio con lo scopo di mettere fine a questa guerra fa-sulla che il centrosinistra e il centrodestra fingono di combattere da vent’anni, quando da 20 anni sembrano essere i migliori alleati.
Grillo può dormire sonni tranquilli?
Non farò nessuna pressione. Io sono pragmatico, ripeto, forse, mi trovassi al loro posto, farei nascere un governo per portare avanti le mie istanze. Ma lo dico probabilmente perché non sono lì a decidere, il problema non me lo pongo più di tanto. Per quello che li conosco in questa scelta saranno compatti nel rispettare il mandato avuto dagli elettori. Non credo ci saranno defezioni. E mi spingo anche oltre.
Cioè?
Dico che forse neppure Grillo riesce a influire più di tanto sul voto dei suoi. I giornali continuano a farsi beffa di gente che invece ha dimostrato di poter rappresentare le istituzioni. E sono tutte persone con una loro idea politica ben precisa. Che semplicemente non coincide con quella dei partiti tradizionali. Dunque di Bersani o chi per lui.
È pentito della scelta a favore di Grasso?
No, in quel momento ritenevo di fare una cosa giusta.
E tra Grasso e Travaglio da che parte sta?
Travaglio, senza dubbio alcuno. Quello che ha detto corrisponde alla verità. Ha avuto un effetto dirompente perché Travaglio ha elencato quello che Grasso ha fatto in molti anni nell’arco di pochi minuti, ma la sostanza è quella. Non ho trovato una pausa fuori posto.
Condivide anche la scelta di Travaglio di non concedersi a un duello con Grasso?
Sì, la sede, se ci doveva essere, era quella di Servizio Pubblico. Non avrebbe avuto nessun senso andare a replicare in un'altra trasmissione.

l’Unità 27.3.13
Tra i Cinquestelle si incrina il muro del «no a tutto»
Rischio spaccatura tra i parlamentari
Linea dura alla Camera, ma al Senato c’è chi pensa di uscire dall’aula per aiutare il leader Pd
di Andrea Carugati


ROMA Sono ore di tensione tra i senatori grillini. Di riunioni che durano ore, seguite da nuove riunioni. Spesso fin quasi a mezzanotte. Ieri più che in altri occasioni. La vigilia dell’incontro con Bersani, che stamattina alle 10 sarà trasmesso in streaming dal sito della Camera.
Un appuntamento cruciale per la pattuglia dei 5 stelle, ancor più dell’elezione del presidente del Senato. La settimana scorsa al Quirinale Grillo è stato tranchant: «O l’incarico a noi oppure niente». Linea ribadita nei giorni successivi, soprattutto dalla capogruppo alla Camera Roberta Lombardi: «No anche a tecnici o super tecnici piovuti da Marte». E ancora, lunedì, dall’ideologo Paolo Becchi: «O noi o si torna al voto». Tra i senatori, però, l’idea del muro contro qualunque ipotesi di governo non convince. Nelle riunioni di ieri si rischia la spaccatura, come sull’elezione di Grasso. Molti sentono il peso della responsabilità, non vogliono passare per quelli dello sfascio. Gli appelli si moltiplicano, da Salvatore Borsellino a Fiorella Mannoia: «Trovate un’intesa col Pd». «I privilegiati come me possono anche aspettare gli eventi e stare a vedere quello che succede, ma tutta quella fascia di popolazione senza lavoro, senza speranza che cosa fa?», scrive su Facebook la cantante, passata ai 5 stelle dopo una vita a sinistra. «Ai grillini chiedo di votare pragmaticamente la fiducia e poi, da quel punto, appoggiare il governo solo per i provvedimenti che coincidono con il loro programma», si accalora Salvatore Borsellino. Poche ore prima del voto su Grasso, l’appello del fratello del giudice ucciso della mafia fu decisivo per convincere una pattuglia di senatori a votare in dissenso dal partito. Anche in queste ore i siciliani si mostrano sensibili alle ragioni del gruppo delle «agende rosse», quel mondo antimafia che ruota attorno a Libera di Don Ciotti, alla Fondazione Caponnetto, di cui fa parte uno dei senatori 5 stelle, Mario Michele Giarrusso. Per questo ieri la discussione è stata così lunga. «In quell’occasione ci hanno preso in contropiede, stavolta vogliamo arrivare all’appuntamento preparati», spiega un senatore pugliese. Alla fine la pattuglia si compatta solo sull’ipotesi di un no a un governo Bersani. Ma apre sul dopo. A un’altra ipotesi di governo. Girano i nomi degli ex presidenti della Consulta Onida e Zagrebelsky, il modello è quello. «Vogliamo un governo con personalità estranee alla politica», spiega il deputato Matteo Dall'Osso a Radio 24. «Nomi come Saviano, Gabanelli, come premier ma in difficoltà devono fare così». A Bersani la fiducia non la diamo».
Non è una voce isolata, l’idea di tornare rapidamente alle urne non convince. I grillini aspettano che fallisca il tentativo di Bersani, che la palla torni di nuovo al Quirinale, che dal cilindro esca un nome «a cui non si può dire no». Se spuntasse un nome del genere, «ci riuniremmo ancora per votare», spiega Giarrusso. A quel punto la discussione potrebbe farsi davvero infuocata. Intanto però c’è da affrontare l’incontro con Bersani. La Lombardi mostra i muscoli parlando con i cronisti a Montecitorio: «Il leader Pd è impresentabile e lo ha dimostrato in questi 20 anni. Neanche se si butta ai miei piedi e mi implora di dargli un lavoro...siamo compatti, anche al Senato dopo il caso Grasso». Poi corregge parzialmente il tiro: «Se lui si fa da parte e accetta i nostri 20 punti allora si può parlare...».
Non tutti condividono questi toni. Anzi. «Andiamo da Bersani ad ascoltare, consapevoli che i suoi 8 punti non ci bastano», spiega un senatore nel cortile di palazzo Madama. Il clima è nervoso, la caccia di potenziali dissidenti è spietata, molti si vergognano di farsi vedere a parlare con un cronista. Circola in alcuni capannelli l’ipotesi di non partecipare all’eventuale voto di fiducia, per far abbassare il quorum e dare una mano a Bersani. Un paio di senatori vengono considerati già persi, comunque non controllabili. sommando questi due a quelli che potrebbero non partecipare al voto, la pattuglia dei 53 grillini potrebbe dunque scomporsi. La discussione prosegue fino a tarda sera.

l’Unità 27.3.13
«Se Bersani taglia gli sprechi possiamo anche dialogare»
di Claudia Fusani


Hai letto l’appello di Fiorella Mannoia? Nel suo blog scrive a Grillo che dovete dare la fiducia a Bersani, oppure molti elettori vi volteranno le spalle.
«Dovrebbe accadere un miracolo».
Di che tipo?
«Ad esempio se domani (stamani, ndr), nelle consultazioni tra i nostri portavoce e il segretario del Pd, dovessero essere messe sul tavolo alcune proposte concrete, percorribili in tempi ragionevoli con i passaggi tecnici necessari per realizzarle».
È un’apertura?
«È quello che penso io. Del resto ho sempre detto che prima o poi bisogna pur cercare un dialogo con qualcuno. Se dovesse accadere questo, cosa circa la quale sono molto scettico, non dico che Lombardi e Crimi escano dalla consultazione di domani dicendo un sì o un no a Bersani. Però potrebbero uscire e prendere tempo per un confronto con i nostri elettori».
Andrea Cecconi è il deputato Cinquestelle eletto nel collegio di Pesaro. Trentuno anni, alto, magro, volto scavato anche per via della barbetta, ha sempre lavorato come infermiere nella casa di carcere di Villa Fastiggi. Rispetto ad altri suoi colleghi dimostra più confidenza con i giornalisti. E anche la voglia di ragionare andando al di là degli steccati. Ieri pomeriggio sedeva su un divanetto nel Transatlantico di Montecitorio. Il tempo è quasi scaduto. E gli appelli ai Cinque stelle perché valuti la possibilità di governare con il Pd si moltiplicano. Dopo Mannoia, chiede la stessa cosa anche Salvatore Borsellino. Loro, i Cinquestelle, passano da una riunione all’altra.
Quali dovrebbero essere le proposte concrete e realizzabili?
«Dovrebbe arrivare con un programma vero di tagli ai costi dello Stato oltre che della politica. Via le province, via tutti gli enti inutili, abolizione delle controllate o almeno basta con la lottizzazione di quei posti, dalle cooperative alle municipalizzate. Dovrebbe arrivare con un prospetto da cui si vede che in un anno, un anno e mezzo, la macchina dello Stato anziché costare 700-800 miliardi va a regime con 5-600 miliardi. Cominciamo da qui».
I tagli e la razionalizzazione dei costi è uno dei primi punti di Bersani.
«Noi non chiediamo enunciazioni di principio. Non ci fidiamo più. Non ci fidiamo di lui e del Pd che è nato e cresciuto in quel sistema lì, quello delle cooperative e delle controllate. È il loro sistema di potere. Come fanno a smantellarlo? Dichiarerebbero la loro fine. Loro, i partiti, sono quello che noi chiediamo di distruggere».
Il tempo è scaduto, ne sono tutti consapevoli.
«Peccato però che finora hanno discusso solo di dove andare a trovare i voti, quali persone nominare. Ci avessero portato anche un volume alto così di proposte concrete con i modi per realizzarle, beh, lo avremmo sicuramente letto e preso in esame. Quelli del Pd non cercano neppure un contatto, un dialogo. Non si avvicinano mai a noi. Non ci coccolano affatto. Lo fa Sel, in aula applaude i nostri interventi. Ma forse si sono divisi i compiti così. O forse non ritengono importante farlo qui alla Camera dove hanno già la maggioranza». Non è facile, i primi giorni vi siete vantati di non dare la mano. Torniamo all’ipotetico miracolo. Che ci deve mettere Bersani in quella proposta?
«I tagli ai costi dello Stato e della politica al primo punto. Poi la riforma delle legge elettorale, una legge vera legge contro la corruzione, lavoro e sviluppo».
Quindi non volete andare a votare ?
«No, noi vogliamo un governo».
Cinquestelle?
«Non scherziamo, è fantascienza».
E allora? Dalle urne sono uscite una maggioranza zoppa del Pd e due minoranze, voi e il Pdl. Con qualcuno di questi partiti vi dovete sporcare le mani prima o poi se volete un governo.
«Infatti, con qualcuno prima o poi ci dobbiamo mettere a sedere a ragionare. L’importante è che Napolitano a proposito, hai visto che è nato un feeling con Grillo dia l’incarico a una persona terza rispetto ai partiti».
Quindi non Bersani?
«A meno che non faccia il miracolo»

La Stampa 27.3.13
I troll antesignani pre-web
di Gianluca Nicoletti


Finalmente qualcuno ha deciso di occuparsi della preoccupante rinascita del Troll. Lo ha fatto Beppe Grillo, con un’esemplare chiamata alle armi del suo popolo contro quegli sgradevoli scherzi della natura. Ora il Troll è stato ufficialmente messo al bando: non lo merita, ma potrà almeno gloriarsi di un’immeritata dignità di nemico da sterminare. Mai prima, il Troll ebbe tanta veemente valutazione del suo potere di disturbatore mercenario. Sappiamo che ora è al soldo del lato oscuro della forza, quella stessa forza del Web che, nella sua dimensione di luminosità penta stellare, é virtuosamente rappresentata dai manipoli che presidiano l’area sacra del blog di Grillo.
Si pensi che l’evocazione del disturbatore compulsivo delle preistoriche comunità Internet risale ai gloriosi tempi di Usenet; fu infatti agli albori della Rete che avvenne la cyber riesumazione di questi mostriciattoli dalla narice colante, nativi della foresta nord europea (quindi euro-entusiasti).
Fu allora strenua negli antichi Newsgroups la resistenza verso questi cocciuti portatori di pensiero deviante. La razza dei Troll inquinava i topics più rigorosi con il loro petulante reiterare obiezioni, strampalate, derive di pensiero, ossessioni complottistiche.
Folli ideologie devianti che andavano dall’urinoterapia, alle scie chimiche, al mito della grande madre Gea. Costoro furono eliminati al grido: «Nessuno dia da mangiare al Troll! ». Tanto che tutti pensammo che i Troll fossero tutti morti di fame, soprattutto che nessuno di loro fosse riuscito a sopravvivere al crollo del regno di Windows98.
Invece ecco che scopriamo che sono rispuntati proprio adesso, quando di web 2.0 parlano oramai solamente nei circoli delle bocce. Più pericolosi e organizzati che mai i Troll (che hanno sette vite) hanno ripreso la loro attività malvagia, foraggiati da chi vorrebbe che in rete siano restaurati i principi passatisti e decadenti della contaminazione dei saperi e del diritto al dissenso. Morte al Troll, senza se e senza ma. Siano marchiati e avviati verso una soluzione finale del problema della loro cyber esistenza. Era ora che qualcuno affermasse che Internet é di chi sappia conquistarla, guai a chi disturba i navigatori, a chi osa seminare dubbio e sospetto, Siamo certi che Internet sarà la salvezza dell’umanità… Ma proprio tutti tutti no! Avranno facoltà di post solo coloro che serreranno i ranghi assieme al popolo del «like» e acconsentiranno di marciare, compatti e indefessi, sotto il vessillo del fiero pollice eretto.

l’Unità 27.3.13
Ma gli unici «troll» a pagamento li paga Casaleggio
Il guru dei Cinquestelle ha usato gli «influencer» per anni, generando opinioni sul web e consensi per il comico
Un vero e proprio asset aziendale
di Roberto Rossi


Da mesi orde di troll, di fake, di multinick scrivono con regolarità dai due ai tremila commenti al giorno sul blog. Qualcuno evidentemente li paga per spammare dalla mattina alla sera. (...) schizzi di merda digitali (...)». Così Giuseppe Paolo Grillo in uno dei suoi ultimi post commetava il dissenso registrato nel suo sito. Eppure con troll e i fake Grillo ha costruito il suo personaggio, con utenti finti o generati da computer, la fabbrica del consenso online di Gianroberto Casaleggio ha legittimato, negli anni, un gradimento politico e generato un assett aziendale.
Per farlo Casaleggio ha seguito segue regole semplicissime. Il punto di partenza è la creazione di un personaggio web. Grillo è perfetto, un comico ha visibilità. La stessa operazione è stata tentata con Antonio Di Pietro. Ma l’ex pm non ha lo stesso appeal del comico. Grillo è, invece, diverso, fa ridere, è molto conosciuto. Attorno al personaggio, poi, si crea un luogo. Il suo blog diventa un punto di riferimento, in quel posto si cerca di convogliare il maggior traffico online possibile. Come si fa? Si creano altri luoghi di discussione paralleli. Legati a Casaleggio e a Grillo ce ne sono diversi: Cadoinpiedi, Tzetze, Chiare Lettere oppure il sito de il Fatto quotidiano. Si lanciano su questi luoghi e in rete temi e si fa un’analisi semantica su quelli più letti, quelli che creano maggiore aggregazione, discussione. Questi diventano automaticamente la sintesi del pensiero di Grillo, quello che il comico spara nel blog. «Un po’ spiega Michele Di Salvo esperto in comunicazione web come faceva il segretario di sezione del Pci durante i dibattiti. Parla per ultimo e fa una sintesi degli argomenti che hanno avuto maggiore discussione. Questo permette di creare una massa di lettori e contenuti e commentatori attivi che ingigantisce la percezione del radicamento». Che deve essere poi strutturato con un processo di aggregazione e appartenenza. Si deve creare un gruppo che deve essere tenuto chiuso e difeso. In che modo? «Basta farlo sentire sotto attacco continuo dice Di Salvo alimentando una pressione e individuando alcuni nemici generici (giornalisti, politici, dipendenti pubblici). Il gruppo spaventato si stringerà a difesa del capo.
Per creare consenso, negli anni, Casaleggio ha usato una particolare categoria di troll chiamata genericamente «influencer». Sono blogger o web activist, che vengono pagati per seguire profili e alimentare le discussioni in rete. Casaleggio non si è inventato nulla. Negli Stati Uniti ci sono già società che si servono di una rete di collaboratori per creare fan o seguaci di un partito e o di un’azienda. Imprese come Magic Viral, Fun Bullet, GetFans Now, offrono servizi con un tariffario ben specifico: con 80 dollari, ad esempio, ti puoi acquistare mille fan in Facebook, mentre per 5mila supporter il costo sale a 330 euro. Gli influencer sono un asset fondamentale per queste aziende. Generano il 90% dei contenuti pur costituendo solo il 10% degli utenti ma incidono per il 60% sugli acquisti. Si tratta di marketing. Che vale anche in politica. Ed è quello che i troll della Casaleggio & Associati fanno. Commentando come fossero utenti qualsiasi generano e spostando opinioni. Spiega ancora Di Salvo (che ha scritto anche un ebook dal titolo «Chi e cosa c’è dietro Grillo e il MoVimento 5 Stelle»): «La quota di utenti reali attiva sul sito di Grillo è circa del 30%. Ma questo non è uno scandalo, il metodo è piuttosto comune». Ma non solo. «Anche il milione di follower Twitter del comico genovese non sono reali. La stima è che di questi solo 160 mila siano persone reali».
Questo apre anche un altro capitolo. In questa strategia di marketing non ci sono solo gli «influencer» che orientano le discussioni. Il modello di comunicazione di Grillo ha bisogno anche di una massa critica per rendere il messaggio ancora più popolare. E come si fa? Si creano, nei principali social network, profili informatici automatici (chiamati Bot) falsi. La scorsa estate Marco Camisani Calzolari, patron della Digital Evaluations, pubblicò uno studio nella quale si evidenziava come degli allora 600mila fan Twitter del comico genovese quelli ritenuti quasi certamente dei falsi erano 327.373 e cioè il 54,5%. I follower sicuramente reali erano invece solo 164.751 (il 27,4% del totale). All’epoca Grillo liquidò la ricerca, che pure diceva come anche altri partiti si servissero di questa pratica, dando del berlusconiano all’autore e tanto bastò a sedare gli animi.
Anche perché nella fabbrica del consenso di Casaleggio gli ingranaggi devono sempre girare. La popolarità di Grillo è un assett da tutelare, il comico uno spot vivente. Con il quale il guru che crea consensi può incassare anche contratti con altre aziende e far vivere la sua fabbrica.

l’Unità 27.3.13
La scelta di Beppe Grillo e dei 5 stelle
di Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

I grillini vogliono nuove elezioni? No, altrimenti l’avrebbero già detto. Vogliono gestire loro il teatro politico. Leggo che vogliono la rinuncia ai rimborsi elettorali: «Faccia questo gesto e poi ne riparliamo». Leggo che «il M5S voterà ogni proposta di legge se parte dal suo programma», come in Sicilia. È chiaro quel che Bersani deve fare: deve fare il grillino.
Marco Maggioni

Uno studio dell'Università di Urbino sulla provenienza politica dei voti grillini dà consistenza «scientifica» all'idea già «intuita» da molti per cui questi voti provengono in parti quasi uguali dalla destra e dalla sinistra. Difficile per Grillo, in queste condizioni, consultare la base perché il movimento si spaccherebbe in due parti uguali e contrapposte ma difficile anche, per lui, dare la fiducia a
Bersani (scontentando una metà dei suoi) o negarsi ad una collaborazione con lui su proposte che corrispondono a quelle del suo programma (scontentando l'altra metà). È su questa analisi che si fonda il residuo, tenace ottimismo di Bersani per un governo «di scopo»? Probabilmente sì. A rendere assai stretta la strada in salita del presidente incaricato, tuttavia, resta l'incognita legata alla povertà culturale di un gruppo dirigente che si è lasciato sfuggire in più di una occasione l’idea (il progetto o il sogno) di un controllo totale di tutte le istituzioni. Se davvero mirassero a quello e solo a quello, Grillo e Casaleggio non si fermeranno a riflettere sulla proposta di Bersani. Alzeranno il tiro e lavoreranno solo per mettere se stessi al posto di quelli che vogliono mandare via. Giocando con noi, però, con la nostra democrazia e con la nostra vita.

Corriere 27.3.13
Governicchi e governacci
di Giovanni Sartori


Mentre il parto del nuovo governo si ingarbuglia sempre più, il presidente di Confindustria, Squinzi, dichiara che «siamo alla fine, non c'è più tempo né ossigeno». Sembra anche a me. E per sostenere questa conclusione vorrei cominciare dal ricordare alcuni antefatti dei problemi che ci affliggono.
Forse molti non sanno che l'Unione Europea (Ue) non comporta l'adozione di una moneta comune (l'euro). I Paesi Eu che hanno adottato l'euro sono 17, mentre i Paesi senza euro sono 10. A parte l'Inghilterra che mantiene la sterlina e che è il caso più importante, sono fuori euro Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Romania e altri piccoli Stati. L'Unione Europea nacque quando venne di moda (diciamo così) la «globalizzazione». S'intende che la globalizzazione finanziaria venne da sé, con la tecnologia che la rendeva non solo possibile ma anche ineluttabile. La globalizzazione economica è tutt'alta cosa, avendo in mente, per l'Europa, il modello Stati Uniti.
Il problema è che un sistema federale richiede un linguaggio comune. Gli Stati Uniti parlano l'inglese, la Germania il tedesco, l'India ha ereditato l'inglese, il Messico lo spagnolo, il Brasile il portoghese. L'Europa parla invece circa 22 lingue, che certo non possono alimentare una aggregazione federale. Invece l'Europa può diventare una comunità economica, che oggi è la comunità dell'euro. Ma purtroppo la messa in opera di questa unione è stata frettolosa e insufficientemente pensata. Tutti gli Stati del mondo controllano la propria moneta e si possono difendere, economicamente, con dazi, dogane, e anche svalutando o rivalutando la propria moneta. Così gli Stati Uniti tengono il dollaro «basso» per facilitare le proprie esportazioni. Invece l'Unione Europea è una comunità economica indifesa. I singoli Stati che la compongono non possono stampare moneta, né difendere le proprie industrie con barriere doganali, né impedire che le popolazioni più povere dell'Unione si trasferiscano dove lo Stato sociale paga meglio. Difatti quattro Paesi (Germania, Gran Bretagna, Austria e Olanda) chiedono di poter rifiutare il welfare agli immigrati comunitari.
In questa vicenda tutti hanno le proprie colpe. Ma ne hanno di più i Paesi mediterranei, Italia inclusa, che si sono dati alla bella vita indebitandosi oltre il lecito. L'ora della verità è scoccata, ahimè, troppo tardi per i Paesi che sono riusciti ad accumulare un debito pubblico (Buoni del Tesoro) che supera abbondantemente il Pil, il Prodotto interno lordo. Come possono risalire la china nella quale sono colpevolmente precipitati? In Italia oramai la pressione fiscale è altissima, a livelli che soffocano la crescita. E l'evasione fiscale resta largamente impunita.
Dovremmo esportare di più. Ma qui l'ostacolo è, come ho già accennato, che la nostra moneta, l'euro, è sopravvalutata rispetto al dollaro. In passato (nel 1972) avevamo escogitato il «serpente monetario» europeo che consentiva fluttuazioni delle monete entro una fascia del 2.25 per cento.
L'esperimento fu utile, ma venne sostituito nel 1979 dal sistema monetario europeo (Sme) che venne a sua volta sostituito, da ultimo, dalla Banca centrale europea di Francoforte.
Varrebbe la pena di risuscitare un nuovo «serpente» sotto il controllo, beninteso, di Francoforte? Non lo so. Ma varrebbe la pena di pensarci. Perché da 14 anni la crescita dell'Italia è vicina allo zero.
Aggiungo che il nostro Paese è particolarmente a rischio anche per le ragioni che passo rapidamente a elencare. Primo, risultiamo, nelle graduatorie internazionali, tra i Paesi più corrotti al mondo. Tra l'altro siamo anche gli inventori della «onorata società», volgarmente mafia, e per essa un Paese forse più tassato dal pizzo che dallo Stato. Aggiungi una altissima inefficienza burocratico-amministrativa. A tal punto che i fornitori dello Stato vengono pagati con nove-dodici mesi di ritardo. Un vero scandalo. Tutto sommato, allora, non vedo proprio come gli investitori stranieri siano, in queste condizioni, tentati di investire in Italia.

il Fatto 27.3.13
Renzi e la strana aspettativa, a carico del Comune
Il sindaco assunto dai familiari prima dell’elezione in Provincia
E i contributi glieli paga la collettività
di Marco Lillo


Il Comune e la Provincia di Firenze da quasi 9 anni pagano i contributi per la pensione del dirigente di azienda Matteo Renzi. Il problema è che l’azienda che ha assunto il giovane Renzi come dirigente 8 mesi prima di collocarlo in aspettativa (scaricando l’onere previdenziale sulla collettività) è della famiglia Renzi. Lo si scopre leggendo un documento del 22 marzo scorso: la risposta a un’interrogazione presentata dai consiglieri Francesco Torselli (Fratelli d’Italia) e Marco Semplici (Lista Galli). “Il dottor Matteo Renzi è inquadrato come Dirigente presso l'azienda Chil srl”, scrive il vicesindaco Stefania Saccardi e aggiunge “alla società presso cui risulta dipendente in aspettativa il dottor Renzi sono erogati i contributi previsti all’art. 86 comma 3 del Testo unico sugli enti locali”. La legge in questione impone all’Ente locale di provvedere al versamento dei contributi previdenziali, per gli amministratori locali che, in quanto lavoratori dipendenti, siano stati collocati in aspettativa non retribuita per assolvere al mandato.
LA TENTAZIONE di farsi assumere poco prima dell’elezione per caricare sull'ente i versamenti pensionistici è forte. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, è stato al centro di uno scandalo perché era stato assunto da un Comitato legato al Pd il giorno prima del 16 febbraio 2008, data in cui comunicava la sua candidatura a presidente della Provincia. Ora si scopre che anche Renzi fruisce della stessa legge. “Renzi”, scrive il vicesindaco nella sua risposta all'interrogazione “risulta inquadrato come dirigente dal 27 ottobre 2003 nell’azienda CHIL srl, gestita - prosegue il vicesindaco - dai familiari fino al 2010. Dopo la cessione di ramo d’azienda la nuova società Eventi 6 Srl è costituita da soggetti privati estranei a rapporti di parentela”. In realtà, come il Fatto ha già scritto, la Eventi 6, che fattura 4 milioni di euro all'anno nel settore della distribuzione della stampa, è di proprietà delle sorelle Matilde e Benedetta Renzi (36 per cento a testa), della mamma Laura Bovoli (8 per cento) e del fratello del cognato, Alessandro Conticini, 20 per cento. L’assunzione di Renzi, a differenza di quella di Zingaretti, è avvenuta 8 mesi prima dell'elezione a presidente della provincia, il 13 giugno 2004. Fino a 8 mesi prima dell’elezione, la società di famiglia pagava molto meno di quanto poi provincia e comune verseranno per la sua pensione. Spiega il vice-sindaco Saccardi nella sua risposta: “Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre 2003 presso la Chil srl. Dal 27 ottobre 2003 è stato inquadrato come dirigente”. Fonti vicine al sindaco spiegano al Fatto: "L’assunzione non era finalizzata a lucrare i contributi. La società della famiglia Renzi in quel periodo viveva una fase di ristrutturazione. L’acquisto della qualifica di dirigente da parte di Renzi era legata alla cessione delle sue quote. Prima era socio ed era inquadrato come collaboratore. Nel periodo in cui cede le quote diviene dirigente”.

il Fatto 27.3.13
Crac dei Salesiani, agli atti una santissima “mazzetta”
Al presidente dell’Università pontificia “775 mila euro”
di Valeria Pacelli


A ricevere due versamenti di denaro “in cambio di influenza presso la chiesa” per la gestione dell’eredità dei salesiani fu don Manlio Sodi, il presidente della Pontificia Accademia della Teologia. È questa l’ultima novità che emerge dalle indagini difensive e della gendarmeria vaticana che ha riacceso i fari della procura di Roma sulla questione del patrimonio dei salesiani. Perché dopo l’archiviazione sul presunto raggiro ai danni della Fondazione di don Giovanni Bosco, le indagini ora sono state riaperte.
Determinanti le dichiarazioni rese da Don Manlio Sodi, lo scorso dicembre nello studio dell’avvocato Michele Gentiloni, difensore della Congregazione. Don Sodi, in passato collaboratore di Tarcisio Bertone, ammette di aver ricevuto due versamenti, uno da 175 mila euro e un secondo da 600 mila euro, da Carlo Maria Silvera, il consulente finanziario di origini siriane.
SILVERA entra negli affari della Congregazione molti anni fa, quando i nipoti di Alessandro Gerini, il ricchissimo “marchese di Dio”, senatore democristiano per due legislature, impugnano il testamento del nobiluomo che aveva destinato palazzi e terreni ai salesiani. Nel 2007 Silvera, in qualità di rappresentante dei nipoti, propone all'economo dei Salesiani, don Giovanni Battista Mazzali, una mediazione. Che prevedeva una clausola: la percentuale a lui destinata sarebbe aumentata al momento in cui sarebbe stata fatta una stima precisa del patrimonio. Bertone è d’accordo con la soluzione e nella trattativa partecipa anche l'avvocato milanese Renato Zanfagna, finché l’8 giugno 2007 viene siglato il patto. Tuttavia una commissione di periti stabilisce che il patrimonio equivale a circa 658 milioni di euro, e di conseguenza la parcella per Carlo Moisè Silvera raggiunge la soglia di 99 milioni. La congregazione si rifiuta di pagare la cifra pattuita, Silvera fa ricorso e ottiene dal tribunale di Milano il sequestro dei beni dei Salesiani per 130 milioni di euro. Che rischiano il crac e denunciano Silvera e Zanfagna di truffa. L’indagine però viene archiviata.
MA POCHI mesi dopo colpo di scena: Don Manlio Sodi oltre parlare di ingenti somme di denaro, è anche l’uomo che fa da ponte tra Tarcisio Bertone e Re-nato Zanfagna. I due, tramite don Sodi, riescono ad incontrarsi il 30 marzo del 2007, giorno in cui Bertone dice di essere stato raggirato. Ma la questione è molto più complicata. Perché da una parte don Manlio davanti ai legali dei Salesiasi ammette di aver ricevuto quel denaro, anche se poi non è molto convinto sulla destinazione, dice “per opere caritatevoli”, ma poi non ricorda bene quali esse siano. versione che non convince gli investigatori vaticani, se-cono i quali si tratterebbe di una mazzetta per ottenere una corsia preferenziale in Vaticano. Dalla sua invece Carlo Moisè Silvera, sentito dal Fatto, nega. “Conosco don Manlio da molti anni. - racconta Silvera - ma non gli ho mai dato un euro neanche per opere caritatevoli”.
E che qualcuno mente è chiaro. Bisogna anche dire che in Vaticano la questione salesiani preme a molti. In primis allo stesso Tarcisio Bertone che poco prima che ci fosse l’archiviazione, il 24 settembre del 2012, ha inviato una lettera alla procura di Roma. Il segretario di Stato ha ammesso di aver avuto contatti con le parti “impegnate in questo lungo e contorto procedimento, cercando di capire per quanto possibile le ragioni della Fondazione. (..) A questo scopo ho favorito per quanto mi era possibile, un accordo transattivo di per sé proposto e condiviso dall’avv. Renato Zanfagna, che fino a un certo periodo fungeva da avvocato difensore della fondazione”. Bertone aveva dato il nulla osta anche per la soluzione negoziale che consentiva al faccendiere di aumentare la sua parcella “ma –spiega nella lettera- ritenendo che non si dovesse superare assolutamente la somma di 25 milioni. (..) Al contrario sono venuto a conoscenza solo successivamente che l’avvocato Zanfagna insieme con l’avvocato Scoccini ed altri hanno congegnato un meccanismo per gonfiare a dismisura il valore del patrimonio”. La lettera è arrivata pochi giorni prima della decisione della procura. Il giudice Adele Rando ha archiviato la vicenda, anche se adesso lo stesso Bertone chiede di essere sentito. Tuttavia, anche l’avvocato Re-nato Zanfagna ha denunciato per diffamazione la congregazione. Anche se dichiara l’avvocato Michele Gentiloni “dopo accurate ricerche non risulta nessun procedimento a carico dei salesiani. Nessuno è indagato”.
Ed è questo un altro capitolo di una vicenda che da 22 anni, anno della morte del ricco marchese di dio, ancora non trova soluzione.

Repubblica 27.3.13
“Non ce l’ho con le donne ma con i politici corrotti è matto chi mi attacca”
L’artista:“Ora basta, ho il concerto”
intervista di Emanuele Lauria


PALERMO — «Non ci posso credere ». Alle sette della sera Franco Battiato si fa leggere al telefono, a Bruxelles, i dispacci d’agenzia che lo riguardano. «Grasso? La Fornero? Sono contro di me? Non ci posso credere. Ma sono tutti matti?». La musica delle prove per il concerto al Palais des Beaux-arts copre altre espressioni colorite di incredulità del cantautore-assessore che non restituisce proprio l’impressione di uno che l’ha fatta grossa. «Troie sì. L’ho detto. Potevo dire prostitute. Il termine magari non piace, ma come chiama lei quelle, o quelli, che rendono i propri servizi per soldi?». Lo dice così, Battiato, con una leggerezza che sembra lontana anni luce dalle polemiche che infiammano Camera e Senato. Quasi a rievocare il testo di uno dei suoi più famosi brani.
Lei cantava, in Bandiera bianca: «Quante stupide galline che si azzuffano per niente». Ha riproposto quel tema, più o meno.
«Con una differenza. Io oggi (ieri, ndr) non ho fatto riferimento solo alle donne, ma anche agli uomini. Ho parlato di una parte deviata del Parlamento che avrebbe fatto qualsiasi cosa per il potere. Vuole negare che è così?».
Diciamolo subito: a chi si riferiva?
«Non riesco neppure a nominarli, certi personaggi. La zona è limitata. Ma mi sembra che siano finiti sulle pagine dei giornali, e al centro di inchieste giudiziarie, soggetti che prendevano soldi per fare leggi pazzesche, per bloccare il Paese, per fare o non fare cadere i governi. È ovvio che il mio pensiero va alla scorsa legislatura».
La Boldrini ha censurato le sue parole, definite «volgari e insultanti».
«Ma lei non c’entra, ripeto. Poteva informarsi prima, farmi una telefonata. Il nuovo Parlamento ancora deve mettersi in moto, ci aspettiamo tutti un grande cambiamento».
Ammetta che dare della «troia» a una rappresentante delle istituzioni non è proprio il massimo.
«Ha ragione. Se avessi usato il termine “prostituta” sarebbe stato diverso, forse. Peraltro non ho nulla contro le prostitute, semmai contro chi le sfrutta. Il punto è un altro: si sono viste cose orribili, in Parlamento, e non può essere una veste istituzionale a fare da copertura. Bisogna indignarsi per i termini che si usano o per i comportamenti di politici deviati che fanno a pugni con un Paese che muore di fame? Insomma, non mi è scappata quell’espressione. Io sono così. Ho detto anche alcune cose sulla Chiesa, in passato, o meglio su qualche alto prelato con il vizietto. Ma nessuno ha generalizzato. Ora non voglio essere frainteso».
Quindi?
«Quindi ci manca pure che passo per sessista, per misogino. Andate a riascoltare le interviste che ho rilasciato, entusiasta, sulle donne che lavorano nell’Assemblea siciliana. La mia era una critica, una battuta ambisesso, rivolta a una zona limitata del Parlamento».
Resta il fatto che anche dallo schieramento che rappresenta in Sicilia, il centrosinistra, si levano a gran voce richieste di dimissioni.
«Ma no».
Proprio così. Grasso dice che esprimerà il suo disagio a Crocetta.
«Pure lui. Forse ha ragione Travaglio...».
La censura arriva anche dal ministro Fornero.
«Non ci posso credere, non ci posso credere. Guardi, meglio che non aggiunga altro. Forse tutti avrebbero fatto meglio a documentarsi su quello che ho detto a Bruxelles. C’erano pure parecchie donne che mi hanno fatto festa».
Il presidente Crocetta l’ha sentito?
«No, non ancora».
E se le chiedesse di lasciare l’incarico?
«Ci impiegherei pochissimo, guardi. Per assurdo, sarebbe un’occasione fantastica. Ma in questo momento non penso a niente. E se permette, la lascio. Ho le prove del concerto».

Repubblica 27.3.13
“Staminali, in Italia è soltanto alchimia”
Su “Nature” gli scienziati stranieri protestano contro il decreto che autorizza le cure già iniziate
di Elena Dusi

ROMA — «Le cliniche che offrono cure con le staminali senza provarne l’efficacia esistono in tutto il mondo, ma in genere devono nascondersi dalle autorità sanitarie. In Italia invece questi trattamenti hanno ricevuto un’approvazione ufficiale».
Per la rivista scientifica Nature, la decisione del ministro della Salute Renato Balduzzi di autorizzare il “metodo Stamina” per i circa 30 bambini che avevano già iniziato la cura «ha fatto inorridire gli scienziati». Con un articolo in apertura sul suo sito internet, il giornale ripercorre il garbuglio di quello che è stato definito “il nuovo caso Di Bella”. Il decreto Balduzzi del 21 marzo in particolare apre di fatto le porte degli ospedali pubblici a un metodo che a maggio del 2012 era stato definito dall’Agenzia italiana del farmaco «inadeguato per le cattive condizioni di contaminazione e pulizia » e perché ciò che viene iniettato nei malati «non è in alcun modo identificabile come cellule staminali».
Il metodo Stamina è «pura alchimia » secondo Elena Cattaneo, direttrice del laboratorio sulle staminali dell’università di Milano, intervistata da Nature.
Maurizio Brunori, biochimico alla Sapienza di Roma e accademico dei Lincei, commenta: «Non avevo mai sentito di un ministro che contraddice l’Agenzia del Farmaco ». Balduzzi ha precisato che «il decreto non conferisce riconoscimento ufficiale al Metodo Stamina ». E ha gettato la palla nel campo dei giudici: «La decisione del governo di autorizzare la prosecuzione delle terapie “ordinate” dai magistrati si è resa necessaria per ovviare ad una discriminazione, frutto di autonomi pronunciamenti dei giudici».
L’intervento della magistratura - molti dei trattamenti sono stati richiesti dai giudici per “uso compassionevole” su bambini senza altre speranze di cura - è un altro aspetto peculiare su cui insiste Nature.
Amedeo Santosuosso, magistrato e docente all’università di Pavia, spiega nell’articolo che «il metodo Stamina non ha mai mostrato alcun beneficio per i pazienti. La motivazione “per uso compassionevole” è dunque illegittima».
Il duro servizio di Alison Abbott - corrispondente di Nature per le vicende europee - cita anche l’unica sperimentazione del metodo Stamina, condotta all’ospedale Burlo Garofolo di Trieste e pubblicata su Neuromuscular Disorders a dicembre 2012. Lo studio è firmato da Marco Carrozzi e Alessandro Amaddeo, che da dicembre 2010 a dicembre 2011 hanno seguito 5 bambini malati di Sma (atrofia muscolare spinale) tra i 3 e i 20 mesi di età. Dopo sei somministrazioni di cellule con il metodo Stamina, due bambini sono morti e gli altri non hanno registrato miglioramenti (ma neanche effetti collaterali). Dei pazienti sono state misurate forza muscolare e concentrazione di alcune proteine nel liquido cerebrospinale. Registrazioni video dei bambini sono state inviate a medici estranei senza indicare l’ordine temporale.
Nell’articolo di Nature il presidente della Fondazione Stamina Davide Vannoni (psicologo all’università di Udine) spiega di aver assistito al trattamento di una paralisi facciale con le staminali in un viaggio in Russia nel 2004. Subito dopo invitò un esperto ucraino e uno russo a Torino. Da allora ha trattato circa 80 pazienti con Parkinson, Alzheimer, fino alle degenerazioni muscolari e nervose congenite dei bambini. È anche finito in un’inchiesta della procura di Torino per truffa (chiedeva ai pazienti diverse migliaia di euro per cure che una Fondazione dovrebbe offrire gratis). «Vannoni - scrive Nature - ammette di non aver mai pubblicato alcun risultato, ma nega che il suo metodo sia alchimia». E spiega anche che «la pubblicità dei media gli ha portato 9mila pazienti». A corredo dell’articolo la rivista pubblica la foto dell’attivista che sabato scorso si è denudata in piazza del Popolo mostrando sul seno la scritta “Sì vita, sì Stamina”.

La Stampa 27.3.13
Nasce la superbanca dei Brics
Sempre più autonomi dall’Occidente: accordi sul commercio per evitare il dollaro
di Ilaria Maria Sala


Il summit di quest’anno dei Paesi cosiddetti «Brics» – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – promette di scompaginare parte dell’assetto economico mondiale, con la creazione annunciata di una nuova banca per lo sviluppo, capace di rivaleggiare con la Banca Mondiale stessa. Il nuovo leader cinese, Xi Jinping, attualmente nel suo primo viaggio estero da Capo di Stato, ha fatto il possibile per sottolineare l’importanza che attribuisce alle nazioni appartenenti ai Brics: la sua prima mèta da
Presidente cinese è stata infatti Mosca, seguita poi dalla Tanzania e ora dal Sudafrica, per partecipare al summit a Durban.
Il gruppo di economie emergenti, infatti, da tempo scalpita per il lento adattarsi del resto del mondo e delle sue istituzioni all’arrivo di questi nuovi e così importanti attori – i cinque Paesi appartenenti ai Brics rappresentano il 25% del Pil globale e il 40% della popolazione mondiale – e ha più volte cercato di ottenere maggiore peso tanto alla Banca Mondiale che al Fondo Monetario Internazionale, senza ricevere soddisfazione. Ora, la creazione di una Banca per lo sviluppo, finanziata con circa 10 miliardi di dollari Usa da parte di ognuno dei Paesi membri (un ridimensionamento delle precedenti ambizioni, 50 miliardi a testa). Non è ancora noto dove sarà la sede della nuova Banca, né come sarà organizzata, ma quello che appare chiaro è che dovrebbe garantire la capacità di finanziare la costruzione di nuove infrastrutture e approvvigionamento energetico.
L’accresciuta importanza del commercio fra Pechino e gli altri Paesi Brics è stata messa in evidenza anche dalla decisione presa ieri fra Cina e Brasile di procedere verso un parziale allontanamento dal commercio in dollari Usa, con l’approvazione di scambi fino ai 30 miliardi l’anno direttamente in valuta cinese o brasiliana, un accordo che dovrebbe diventare operativo già da quest’anno, e proteggere i due Paesi dagli scossoni valutari americani ed europei. Ciò nonostante, gli scambi commerciali fra le due principali economie dei Brics denunciano un certo squilibrio, dato che il Brasile, la cui crescita è notevolmente rallentata negli ultimi tempi, esporta soprattutto materie prime per importare prodotti finiti.
Fra gli altri temi del summit, anche la promessa di aumentare gli investimenti in Africa, ribadita da Xi proprio in Tanzania, dove ha anche voluto sottolineare di volere una relazione «fra eguali» nel continente africano, per smentire chi reputa che la relazione Cina-Africa non sia granché diversa da quelle di tipo coloniale del passato. Ieri è stato aiutato dal presidente sudafricano Zuma: «La Cina per noi è un esempio da imitare», ha detto.

La Stampa 27.3.13
Parte la sfida agli Usa così Mosca e Pechino si dividono il mondo
Cinesi leader in Africa, i russi tornano in Medioriente
di Maurizio Molinari


Il quinto summit dei Brics si celebra a Durban, in Sudafrica, con Cina e Russia protagoniste di un disegno strategico che punta a sommare risorse economiche e interessi politici per ridimensionare la superpotenza degli Stati Uniti su più scenari regionali: dall’Africa al Medio Oriente fino all’Estremo Oriente.
Alla vigilia degli incontri fra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - le economie emergenti che crescono di più - il nuovo presidente di Pechino Xi Jinping ha scelto Mosca come primo viaggio all’estero per tratteggiare con Vladimir Putin un patto ambizioso, da lui stesso illustrato nel discorso pronunciato all’Istituto russo di relazioni internazionali. «Il mondo cambia in fretta, non possiamo vivere nel XXI secolo restando imprigionati nel vecchio colonialismo. A garantire i nuovi equilibri saranno più strette relazioni sino-russe» ha detto Xi, contrapponendo l’intesa Pechino-Mosca alla «mentalità della Guerra Fredda» con cui in Cina si identificano in genere gli Stati Uniti.
A dare sostanza a tale direzione di marcia sono due tipi di convergenze. Sul fronte economico Pechino garantisce 2 miliardi di dollari di prestiti alla compagnia energetica Rosneft per raddoppiare le esportazioni di greggio in Cina, all’evidente fine di trasformare le risorse della Russia nel motore della propria crescita, puntando a creare un blocco economico capace di dare credibilità alle tre sfide dei Brics all’America: una Banca per lo sviluppo globale, un Consiglio economico per guidarla e il pensionamento del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali.
Sul terreno strategico l’asse russocinese è all’offensiva disegnando una sorta di divisione di sfere di influenza. In Africa è la Cina la nazione leader, grazie a investimenti diretti che toccheranno i 300 miliardi di dollari nel 2015, portando il totale di quelli dei Brics oltre quota 500 miliardi, mentre in Medio Oriente a guidare è la Russia, come dimostra la crisi siriana che vede Pechino sostenere con il proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu l’intransigente opposizione di Putin a ogni tentativo di rovesciare il regime di Bashar Assad. Se Xi plaude ai «niet» russi sulla Siria «perché non si può interferire negli affari interni di Stati sovrani» e «non si deve consegnare la Siria ai jihadisti di Al Qaeda», Putin dà luce verde al ricorso ai petrorubli per sostenere la massiccia penetrazione cinese in Africa.
Ma non è tutto, perché Pechino e Mosca hanno in comune anche il fatto di sentirsi minacciate dallo scudo anti-missile Usa come dagli accordi siglati da Washington con i rispettivi vicini, in Europa dell’Est e in Estremo Oriente. A tale riguardo è interessante notare il sostegno di Putin a Pechino nella disputa sugli isolotti DiapyuSenkaku contesi dal Giappone, alleato di Washington.
Dietro quanto sta avvenendo, spiega Robert Kaplan stratega di «Stratfor», «c’è il disegno cinese di usare la Russia, e anche i Brics, contro gli Stati Uniti come gli Stati Uniti usarono la Cina contro l’Urss ai tempi di Henry Kissinger e Richard Nixon» ovvero «obbligare l’America a fronteggiare non solo la Cina ma più rivali sulla scena internazionale». Moises Naim, politologo della Fondazione Carnegie a Washington, vede in tale processo «la conferma dello slittamento del potere globale da Ovest a Est, come da Nord a Sud». E a confermarlo, aggiunge Kaplan, «è il fatto che a innescare l’offensiva cinese è la debolezza dell’Europa» perché «Pechino vede i bilanci militari dell’Ue che continuano a scendere e ne trae la conclusione che gli Usa possono contare meno sugli alleati».
Ma Naim, autore del saggio «The End of Power» appena uscito in America, ritiene che «i Brics non possono dormire sonni tranquilli perché se da un lato guadagnano terreno nei confronti di Usa ed Europa dall’altro ne perdono, anche loro, rispetto a un mondo più frammentato, più mobile e con le popolazioni meno disposte a farsi governare passivamente». Pechino e Mosca sono «autocrazie estranee ai sistemi democratici», aggiunge
Kaplan, e questo è un ulteriore elemento di vulnerabilità perché, come dice l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski, «oggi è più facile uccidere 100 milioni di persone che governarle» a causa della proliferazione di partiti, siti web e cellulari. Ciò comporta per la Cina la necessità di guidare i Brics «guardandosi dalle stesse rivoluzioni che minacciano l’Occidente» riassume Naim.
Per Kaplan, autore del saggio «Monsoon», la maggiore spina nel fianco dell’asse russo-cinese è invece l’India: «New Delhi non sarà mai un formale alleato degli Usa ma per numero di abitanti, capacità militari e posizione geografica costituisce il contrappeso naturale della Cina e ciò offre agli Usa la possibilità di giocare nelle acque dell’Oceano Indiano la contropartita tesa a neutralizzare la divisione del Sud del Pianeta in sfere di influenza fra Mosca e Pechino».

l’Unità 27.3.13
Togliatti, i cattolici e la svolta di Bergamo
Cinquanta anni fa il leader del Pci auspicava «un reciproco riconoscimento di valori»
di Giuseppe Vacca


Il 30 marzo prossimo saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del più celebre discorso di Palmiro Togliatti sulla collaborazione fra comunisti e cattolici intitolato Il destino dell’uomo.
Il discorso, pronunciato a Bergamo dieci giorni prima, cadeva nel mezzo della campagna per le elezioni del 28 aprile e Togliatti non aveva scelto a caso la città natale di Papa Giovanni XXIII per pronunciarlo: si era agli inizi della coesistenza pacifica ed egli richiamava il recente incontro del Papa con la figlia e il genero di Krusciov che aveva avviato il disgelo fra Mosca e il Vaticano. Ma era cominciato anche il Concilio, e Togliatti ne seguiva i lavori con molta attenzione sottolineando la «fine dell’età costantiniana», cioè la fine della identificazione della Chiesa con l’Occidente. Inoltre, dopo il XXII Congresso del Pcus (ottobre 1961) il Pci aveva innovato la sua visione della coesistenza pacifica assumendo come obiettivo concreto il superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti.
Nel discorso di Bergamo, quindi, Togliatti si dirigeva simultaneamente al suo mondo e al mondo cattolico auspicando una collaborazione fondata su «un reciproco riconoscimento di valori». Se in politica interna mirava a prevenire l’isolamento del Pci liberando il confronto con la Dc di Aldo Moro dal vincolo dell’unità fra comunisti e socialisti, le principali novità del suo discorso riguardavano soprattutto la visione storica del mondo del dopoguerra e la revisione della dottrina comunista sulla religione. Non era la prima volta che Togliatti attirava l’attenzione sulle novità dell’era atomica: l’aveva fatto nel ’45, subito dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, e ancora nel ’54, nell’appello al mondo cattolico «per salvare la civiltà umana».
Ma ora ne traeva tutte le conseguenze: l’avvento dell’era atomica aveva cambiato la correlazione fra la politica e la guerra poiché, di fronte alla possibilità dell’autodistruzione del genere umano, la pace, egli dice, «diventa una necessità». «Ma riconoscere questa necessità, aggiungeva, non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata».
Quindi non si poteva più pensare alla guerra come “prosecuzione della politica con altri mezzi” e ciò implicava anche l’abbandono della visione sovietica della coesistenza come «lotta di classe nel campo internazionale», insieme al paradigma classista nell’interpretazione della storia. «Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».
Il discorso esigeva il superamento ideale della divisione fra credenti e non credenti, e su questo tema la revisione di Togliatti era ancora più radicale poiché, lasciando cadere la visione illuministica e marxista del rapporto fra religione e modernità, egli affermava l’autonomia, l’irriducibilità e la positività del fatto religioso. «Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, dichiarava, noi non accettiamo più la concezione ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali (...). Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa».
Quindi anche il marxismo, di cui rivendicava la validità ermeneutica perché la società potesse essere organizzata secondo fini stabiliti solidalmente dagli uomini e dalle donne del pianeta, era posto al servizio di una visione schiettamente personalistica: l’obiettivo del «pieno sviluppo della persona umana» come «meta di tutta la storia degli uomini», onde poteva affermare «che la nostra è, se si vuole, una competa religione dell’uomo».
Il discorso di Bergamo era intriso della retorica tradizionale sulle responsabilità americane per la guerra fredda e caratterizzato da una visione ottimistica del futuro del socialismo. Così come, per altro verso, era ricco di intuizioni sulle nuove forme di alienazione e di solitudine dell’uomo nelle società capitalistiche più sviluppate che esigevano anch’esse profonde revisioni concettuali per essere affrontate insieme da credenti e non credenti in una prospettiva personalistica e comunitaria. Per un inquadramento adeguato Il destino dell’uomo andrebbe quindi inserito in una ricostruzione storica della riflessione e dell’opera politica degli ultimi anni di Togliatti: un periodo di significative revisioni non ancora esplorato nell’insieme. Ma i passi salienti su cui abbiamo richiamato l’attenzione ne costituiscono la cifra più alta e se non altro per questo il discorso di Bergamo merita il nostro ricordo.

l’Unità 27.3.13
Il neutrino «trasformista»
Nel viaggio da Ginevra al Gran Sasso ha trasmutato
Il mutamento è in sintonia con le teorie di Pontecorvo, il fisico nato 100 anni fa, che ha contribuito moltissimo a decifrare la particella
di Pietro Greco


È ARRIVATO AL GRAN SASSO IL TERZO NEUTRINO TAU. ERA PARTITO DA GINEVRA CHE ERA UN NEUTRINO MUONICO. E LUNGO LA STRADA HA «OSCILLATO», OVVERO HA TRASMUTATO. Proprio come prevede la teoria elaborata a metà del secolo scorso da Bruno Pontecorvo. A rilevare l’«oscillazione del neutrino» è stato l’esperimento internazionale Opera presso il Laboratorio che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare possiede sotto il Gran Sasso. L’esperimento coinvolge sia il più grande laboratorio di fisica del pianeta, il Cern di Ginevra, che il più grande laboratorio sotterraneo di fisica del mondo, quello appunto del Gran Sasso.
Al Cern di Ginevra vengono prodotti fasci di neutrini muonici, indirizzati verso il Gran Sasso. I neutrini sono particelle minuscole che interagiscono poco con la materia. Un neutrino potrebbe attraversare un muro di piombo spesso quanto l’intero sistema solare senza essere fermato. Così il fascio di neutrini può viaggiare tra la Svizzera e l’Abruzzo senza bisogno di alcun tunnel. Ad aspettarli, sotto il Gran Sasso vi sono i rivelatori di Opera piuttosto sofisticati e molto pazienti. Sono capaci di attendere l’evento – la trasmutazione del neutrino di «colore» muonico in un neutrino di «colore» tau – per mesi e mesi. E, infatti, il primo evento positivo è stato rilevato nel 2010, il secondo nel 2012 e ora eccoci al terzo, dopo cinque anni di presa dati.
In realtà gli eventi attesi in questo lasso di tempo erano un po’ di più. Almeno 5 e forse addirittura 15. Ma il numero dipende molto sia dall’efficienza dei rivelatori sia dai parametri compatibili con la teoria di Pontecorvo. Non c’è dubbio, tuttavia, che il terzo evento rilevato da Opera corrobora la spiegazione teorica del fisico nato, esattamente cento anni fa, a Pisa. E non poteva esserci modo migliore per festeggiare i cento anni dalla nascita del «fisico che non poteva vincere il Nobel» che questa.
Già, perché Pontecorvo, come L’Unità ha ricordato più volte, è stato di gran lunga il fisico che ha contribuito di più alla conoscenza di questa elusiva particella. Fornendo contributi di carattere sperimentale: indicando, già negli anni ’40 del secolo scorso, come dovevano essere realizzati le sofisticate trappole per catturarli (i rivelatori). Ma anche e soprattutto di carattere teorico. È stato Pontecorvo a prevedere che esistono neutrini di diverso «colore», uno per ogni famiglia di leptoni. In pratica ci deve essere un neutrino associato all’elettrone (il leptone carico più grosso), un neutrino associato al muone (il fratello più grasso dell’elettrone).
All’inizio degli anni ‘60 Steinberger, Lederman e Schwartz riuscirono a dimostrare l’esistenza di questi due tipi di neutrini (elettronico e muonico) e per questo furono insigniti del premio Nobel nel 1988. A Stoccolma non pensarono di premiare anche chi, per via teorica, ne aveva previsto l’esistenza, come avevano fatto più volte nel passato. Legittimo il dubbio che abbiano pesato ragioni politiche: Pontecorvo nel 1950 era stato protagonista di una “fuga” fuori dall’ordinario, lasciando l’Occidente e rifugiandosi in Unione Sovietica.Bene, oggi sappiamo che esiste un fratello ancora più grasso del muone (la particella tau) e che, sulla base della teoria di Pontecorvo, ci deve essere un terzo tipo di neutrino. La cui esistenza è stata provata.
Non solo. Pontecorvo ha previsto che, tra le tante stranezze dei neutrini, ce ne dovesse essere una davvero incredibile: l’«oscillazione», ovvero la trasformazione di un tipo di neutrino in un altro. Una teoria che ha delle implicazioni. Perché se davvero i neutrini «oscillano» allora devono avere anche una piccolissima massa. Il fatto è che il Modello Standard delle Alte Energie prevede che i neutrini non abbiano massa.
Nel 1998 i giapponesi dell’esperimento Super-Kamiokande hanno rilevato per la prima volta un’oscillazione del neutrino. Dodici anni dopo la prima dimostrazione da parte di OPERA, al Gran Sasso. Poi la seconda e infine ieri la notizia del terzo evento. Che spalanca a nuove sfide. Intanto, se i neutrini oscillano e hanno una massa, come è ormai evidente, occorrerà mettere mano al Modello Standard delle Alte Energie appena confermato, al Cern di Ginevra, con la scoperta del bosone di Higgs. Inoltre bisogna capire perché di «neutrini trasformati» se ne sono rilevati così pochi: dipende dall’efficienza dei rivelatori oppure occorre affinare la teoria delle oscillazioni?
Ma di tutto questo si discuterà, nei prossimi mesi, a Pisa e a Roma, oltre che a Dubna in Russia, nel corso dei convegni scientifici e delle celebrazioni dedicate al «signore dei neutrini», Bruno Pontecorvo.

Corriere 27.3.13
I barbari oltre il muro incubo degli intolleranti
Perché la negazione del diverso genera mostri
di Corrado Stajano


La paura, l'insicurezza, il rancore, il risentimento, la cattiveria, lo spirito offeso, la voglia di vendetta, il rifiuto dell'altro — il «diverso» — sembrano pesare sempre di più nella vita degli uomini del mondo globalizzato. La fraternità si è incrinata, nonostante sia al posto d'onore nel primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. I concetti di libertà e di uguaglianza, proclamati anch'essi fin dai tempi della Rivoluzione francese, resistono, almeno formalmente. L'articolo 3, forse il più importante, della nostra Costituzione, ribadisce la pari dignità dei cittadini, uguali davanti alla legge «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ma nella pratica quotidiana quella «dignità sociale», voluta da tutte le parti politiche nel 1948, sembra spesso un'astrazione, un principio da riconquistare ogni giorno.
Sono questi tra i temi più rilevanti di una società alla ricerca di certezze, trasformata dalle grandi migrazioni, dalla crisi economico-finanziaria che non risparmia nessuno, dagli assetti sociali stravolti, e anche dalla non elevata qualità intellettuale della classe dirigente di oggi.
Prevale la paura di sé stessi e di tutto. Due criminologi, Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori all'università statale di Milano-Bicocca, si sono addossati il greve compito di affrontare la crisi che stiamo attraversando dal punto di vista della criminalità, della società e della visione politica. Ne hanno scritto in un libro appena uscito da Feltrinelli, Oltre la paura (pp. 256, 18): il loro è uno studio denso, ricco di sollecitazioni, di fatti, di interrogativi pressanti. Rispecchia l'attuale condizione di una comunità in difficoltà, va alla ricerca, con spirito democratico, dei rimedi che potrebbero servire per uscire da una palude gelatinosa che inquina il mondo.
Il crimine è l'evento che forse più di tutti aiuta a penetrare nel mistero del cuore umano, lo testimoniano i classici, Delitto e castigo di Dostoevskij, per esempio. I due autori conoscono nel profondo i saperi della criminologia internazionale, ma hanno fatto per anni pratica anche sul campo. Ceretti è stato a lungo giudice del Tribunale dei minori milanese e ha firmato perizie di grande rilievo su atroci casi criminali, gli assassinii di Erika De Nardo a Novi Ligure, i delitti di Andrea Calderini e di Ruggero Jucker, di sanguinante violenza. Nella struttura del libro, di criminologia politica, si può dire, i due autori hanno fatto una scelta razionale identificando alcuni problemi che ritengono essenziali per una visione complessiva: la criminalità e l'insicurezza del mondo di oggi; le violenze urbane, individuali e collettive; l'odio razziale; le forme di controllo e le mafie; il carcere e la salute mentale.
Ceretti e Cornelli partono generalmente da un fatto anche minuto, lo descrivono con nitidezza narrativa e partono di lì per le loro riflessioni, analisi, studi, ricerche, comparazioni. Il libro è un pentolone di carne al fuoco, fin troppa. Mette il dito sul panico che prende spesso per motivi veri, o per le più diverse suggestioni, ampi strati della popolazione. Spesso sono le classi dominanti a soffiare sul fuoco della paura per consolidare il loro consenso. C'è nel libro una citazione illuminante di Tzvetan Todorov: «La paura dei barbari è ciò che rischia di rendere barbari».
L'analisi prende dunque sempre l'avvio da un fatto, il particolare. Il litigio per un'auto parcheggiata illecitamente nel centro di Cremona che sfocia in un delitto. E sorprende che spesso siano persone normalissime i responsabili di azioni dissennate. Un tassista che investì un cane nel quartiere Antonini di Milano scatenò una selvaggia reazione, aggravata in questo caso da una catena di omertà.
Il libro è ricco degli eventi di un tempo buio. Le pagine sull'odio razziale fomentato in questi decenni dalla Lega, con leggi e ordinanze riconosciute poi incostituzionali dalla Suprema Corte, sono forse tra le più approfondite e convincenti. Quelle sui poteri criminali difettano invece di un'analisi sui cittadini che vivono, tra paura e ambiguità, nelle regioni mafiose.
È un mondo andato all'aria, il nostro. La persecuzione degli zingari — i nazisti li rinchiusero nei lager della morte — , la voglia di farsi giustizia da sé, una politica della sicurezza necessaria, ma che non può essere fondata soltanto sulla militarizzazione, sui sindaci sceriffi, sono tutti problemi analizzati con cura in Oltre la paura. Come il linciaggio di Rosarno del 2010 che dovrebbe seguitare a far riflettere in un Mezzogiorno senza pane e lavoro. La situazione delle carceri, poi, disumanità e degrado inimmaginabili, messa duramente sotto accusa dall'autorità europea.
Ma Ceretti e Cornelli non sono soltanto gli analisti di quel che nel nostro dolce Paese non funziona, vanno invece alla costante ricerca di soluzioni civili per tentare di risolvere problemi reali e situazioni spesso insostenibili. Le ultime pagine del libro raccontano quel che è riuscito a fare in un garage della Candelaria, uno dei quartieri poveri di Caracas, il maestro Josè Antonio Abreu che ha messo in mano uno strumento a ragazzi dipendenti dal crack, a bambine prostitute, a giovani appartenenti a pericolose gang e ha insegnato loro a far musica, con l'ammirazione di Sir Simon Rattle, direttore dei Berliner Philarmoniker. Da quel garage è nato El Sistema, 350.000 giovani, ragazzi, bambini che hanno creato 120 orchestre giovanili e un centinaio di orchestre infantili salvando tante vite dalla droga, dalla delinquenza, dalla galera.
Sarà soltanto un test straordinario, quello di Caracas, ma fa capire come i problemi reali della sofferenza, della paura, della violenza, si possono risolvere non con la repressione o con la logica assistenziale, ma con le idee, l'azione, l'offerta di opportunità di vita.

La Stampa TuttoScienze 27.3.13
Wilson: guidiamo le astronavi ma con la testa dei cavernicoli
“Chi siamo e dove andremo? Chiedetelo alle formiche”
Tra aggressività e altruismo, la doppia natura che ci ostiniamo a ignorare
di Gabriele Beccaria


Edward Wilson È professore emerito a Harvard: ha fondato la socio­ biologia vale a dire lo studio della evoluzione biologica dei comporta­ menti sociali

«Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? ». Queste domande senza tempo, affacciate sulla metafisica, sono il titolo che si scioglie nell’atmosfera onirica della celebre tela di Paul Gauguin. Ora Edward Wilson prova a dare una risposta multipla, oltre i dogmi della filosofia e della religione, portando in scena una scienza spogliata di freni morali e tabù intellettuali. Un ribaltamento di prospettiva che ha fatto urlare allo scandalo: lui è il più celebre entomologo del mondo e a 83 anni il professore-guru di Harvard - noto per essere il fondatore della sociobiologia - è sicuro che i tormenti sintetizzati nei colori dell’amato Gauguin si possano placare con un lunghissimo filo rosso che lega i comportamenti delle formiche al destino degli esseri umani, in un panorama che dall’oggi si snoda fino a 100 milioni di anni fa.
Così con un impasto di archeologia, biologia evoluzionistica, neuroscienze e matematica ha spiazzato molti colleghi, proponendo la sua spiegazione di che cosa ci ha reso umani e ci ha trasformati nella specie dominante: in una parola, è l’eusocialità. Siamo tutti eusocialisti, anche senza saperlo, e infatti - sostiene Wilson - incarniamo uno strano ibrido, «una civiltà da “Star Wars” con emozioni da età della pietra, istituzioni medievali e tecnologia da semidei».
Tanto rivoluzionario nei concetti quanto elegante nell’eloquio, l’anziano professore parla volentieri nel suo studio di Harvard dell’ultimo saggio che fa tanto discutere (il 27°), vale a dire «La conquista sociale della Terra», edito da Raffaello Cortina. E dice: «E’ vero. La ricerca della verità ha fatto arrabbiare molti. Anche Richard Dawkins, che ha costruito la propria carriera a partire dalla teoria della selezione di parentela. Ma è almeno da un decennio che si è capito che si tratta di un concetto pieno di punti deboli». Professore, lei sostiene che l’euso­ cialità è una delle più grandi inven­ zioni nella storia della vita: siamo scimmie nude che vivono in comu­ nità multi­generazionali, praticano la divisione del lavoro e tendono a comportarsi in modo altruistico, proprio come le formiche, ma a diffe­ renza di questi insetti abbiamo fatto un salto ulteriore, sviluppando una doppia natura conflittuale, egoista e generosa, angelica e diabolica. Può spiegare perché un’idea simile appa­ re così sconvolgente? «Già nel 2010, in un articolo su “Nature” che ho scritto con due straordinari matematici come Martin Nowak e Corina Tarnita, avevamo sfidato la teoria della selezione di parentela, secondo la quale un organismo rinuncia a una parte delle proprie risorse e si assume una serie di rischi per aiutarne un altro, con il quale ha un legame ravvicinato. Funziona solo in modo limitato e quindi, in linea con la maggioranza degli studiosi degli insetti sociali, avevamo proposto in alternativa un’altra teoria - quella dell’eusocialità, appunto - nota anche come selezione multi-livello: lì ci sono due aspetti da tenere a mente».
Quali sono? «Ho deciso di raccontare tutto nel mio libro perché sapevo di avere ragione e perché non è più possibile applicare la vecchia teoria a ciò che abbiamo scoperto di recente, dall’antropologia alla psicologia. Ora, finalmente, cominciamo a dare un senso al tutto e a definire una spiegazione complessiva delle nostre origini». Interpretando l’evoluzione, lei so­ stiene ­ secondo alcuni in modo ma­ nicheo ­ che la selezione di gruppo sia responsabile delle nostre virtù, men­ tre la selezione individuale sia alla ra­ dice dei nostri mali, dall’egoismo alla violenza. E’ un modello che ci condi­ zionerà per sempre o che muterà? «E’ la domanda delle domande! ». Questo è anche il punto­chiave della sua ricerca: non è così?
«Ho scritto due articoli proprio sul tema, “Evolution and our inner conflict” (l’evoluzione e il nostro conflitto interiore) e “The riddle of human existence” (l’enigma dell’esistenza umana): come vede sto diventando estremamente ambizioso. Ma dobbiamo affrontare i temi-chiave della condizione umana. E la risposta è sì: si tratta di una situazione permanente, in cui i comportamenti individuali e competitivi si manifestano all’interno del gruppo, ma allo stesso tempo esistono molte prove del fatto che tendiamo anche a essere cooperativi e a manifestare evidenti azioni altruistiche. E non a caso nel mondo animale sono state individuate almeno 17 linee evolutive contrassegnate da diversi livelli di collaborazione. Se l’umanità si riducesse a una sola unità collettiva, in cui nessuno devia, diventeremmo simili a formiche e, d’altra parte, se fossimo soltanto aggressivamente individualisti, non ci sarebbe una società come la conosciamo. E’ la gara tra questi aspetti e il loro continuo conflitto a scatenare la nostra creatività e l’ho sottolineato in un altro saggio, “Letters to a young scientist”: se nella scienza e nella tecnologia sono gli individui a elaborare le idee, ci vogliono poi i gruppi per applicare e trasformare al meglio le invenzioni stesse». Guardando al passato pro­ fondo, lei sostiene che siamo stati più fortunati che abili: la nostra evoluzione è l’effetto di una pura casualità? «Osserviamo la storia della nostra specie, da quando, circa 6 milioni di anni fa, ci siamo separati dalle scimmie: molte linee del genere Homo si sono succedute e a partire dall’Australopithecus abbiamo inventato il bipedismo, ma si trattava sempre di piccole popolazioni, spesso alle prese con frequenti cambiamenti climatici, e tutte si sono estinte, tranne noi Sapiens. E anche noi, in almeno un’occasione, siamo andati molto vicini a sparire». Rivolgendosi al futuro, però, scrive che non è irrealistico pensare che potremo risolve­ re molti problemi e, già entro il XXII secolo, trasformare la Terra in «un paradiso perma­ nente». Non sta peccando di ottimismo? «E’ vero che molti di noi scienziati sono ottimisti, ma guardiamo la realtà: non credo che diventeremo davvero pacifici e “buoni”, perché l’energia delle nostre esistenze proviene dalla competizione. Pensiamo agli sport e al calcio o alla nostra permanente fascinazione per i contrasti tra gruppi diversi e per le controversie internazionali. È un piacere che definirei istintuale e non credo che ci rinunceremo, ma allo stesso tempo, credo che, se riusciremo a sprecare meno tempo e risorse nei conflitti aperti, potremo far emergere le nostre qualità e così, riconoscendo e accettando la nostra reale natura, realizzare i nostri sogni». Crede veramente che la scien­ za potrà sostituire la filosofia e la religione in questo delica­ to processo di autoconsape­ volezza? «Per me è importante sottolineare la necessità di capire noi stessi ed è proprio questa capacità che ci manca di più. È il motivo per cui ho scritto “La conquista sociale della Terra”, tentando di tornare agli interrogativi della filosofia e della religione: da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Finora non abbiamo fatto molto bene, come specie, anche se abbiamo a disposizione una scienza e una tecnologia da semidei. Non credo che dobbiamo sbarazzarci delle fedi, piuttosto di quei miti con i quali cercano di spiegare la nascita del mondo, conservando invece i riti di passaggio e il senso di una realtà globale e superiore. È ora che proviamo davvero a capire chi siamo, anche se non abbiamo ancora iniziato a farlo».

Edward Wilson Biologo: È PROFESSORE EMERITO DI ENTOMOLOGIA ALLA HARVARD UNIVERSITY (USA)
IL LIBRO : «LA CONQUISTA SOCIALE DELLA TERRA» RAFFAELLO CORTINA EDITORE

Repubblica 27.3.13
Picasso da 155 milioni di dollari
Negli Usa è record per “Il sogno”


NEW YORK — Steven Cohen, fondatore dell’hedge fund SAC Capital, ha acquistato dal magnate americano dei casinò Steve Wynn Le reve (“Il sogno”) di Picasso per 155 milioni di dollari. È il prezzo più alto pagato da un collezionista d’arte americano per aggiudicarsi un’opera. Opera però che non è la più “cara” del mondo. Questo titolo spetta, infatti, al quadro di Cézanne venduto nel 2011 per più di 250 milioni di dollari: I giocatori di carte.
Ad aggiudicarsela, in una trattativa rimasta segreta per un anno, fu la famiglia reale del Qatar.
Cohen è un collezionista accanito, che può vantarsi di una serie in cui non mancano Van Gogh, Manet, de Kooning, Cézanne, Warhol, Richter. Le sue finanze non sono state evidentemente danneggiate nemmeno dalla multa record di oltre 600 milioni di dollari imposta a una sua società per insider trading. L’interesse di Cohen per Picasso risale al 2006: allora il proprietario Wynn era pronto a liberarsi del dipinto per 139 milioni di dollari, ma accidentalmente rovinò la tela dell’artista spagnolo rompendola con il gomito. La nuova cifra pattuita tra i due, a distanza di sette anni, sembra abbia coperto anche le spese di restauro e conservazione.

Repubblica 27.3.13
Il prete giusto
Etica, fede e ragione: la prefazione di Eugenio Scalfari al libro-intervista a Sciortino di Giovanni Valentini
Don Antonio e la libera Chiesa in libero Stato
di Eugenio Scalfari


Don Antonio Sciortino è un prete ma anche un giornalista, anzi un direttore. Dirige Famiglia Cristiana, giornale molto diffuso (centinaia di migliaia di copie) nelle parrocchie e negli oratori, specie al Nord ma non soltanto. Ufficialmente non rappresenta né la Santa Sede, né la Conferenza episcopale. La proprietà della testata è della Congregazione di San Paolo, ma Famiglia Cristiana non rappresenta neppure quella; i “paolini” si limitano a nominare o revocare il direttore ed è lui che decide la linea del giornale, naturalmente consultandosi con i suoi più stretti collaboratori. La figura professionale e religiosa di don Antonio è dunque abbastanza complessa e ha indotto Giovanni Valentini a dedicargli un libro-intervista. Credo sia stata una buona idea e Valentini l’ha sfruttata fino in fondo ponendo domande a tutto campo: la morale, la religione, la politica, il Vaticano, l’Italia. Domande specifiche, capaci di delineare un quadro generale ma entrando anche nei dettagli, nei fatti concreti, nelle cause che li hanno determinati, nei personaggi che ne sono stati i protagonisti. E don Antonio ha risposto a tutte, senza imbarazzo né reticenza. Ne esce, in quasi trecento pagine, la voce d’un cattolico moderno, prete fino in fondo ma anche moderno così come il Concilio Vaticano II l’ha configurato. Si potrebbe definire “martiniano” senza però dare a questa definizione il significato di una corrente all’interno della Chiesa. Del resto neppure il cardinal Martini accettava quella definizione, non si sarebbe mai riconosciuto nei “modernisti” del primo Novecento. Martini è stato soprattutto un vescovo e un cristiano d’intensa fede e così è, con tutti i suoi limiti, il direttore di Famiglia Cristiana.
Le sue risposte alle domande di Valentini seguono un metodo: distinguono gli errori fatti dagli uomini che di volta in volta hanno guidato la Chiesa dalla comunità ecclesiale vista complessivamente e formata da tutti i credenti. La Chiesa può sbagliare per colpa dei suoi rappresentanti i quali a loro volta possono sbagliare in buona fede o anche per le debolezze e i vizi ai quali non hanno saputo resistere, ma la Chiesa resta sempre e comunque la Sposa di Cristo e impara dagli errori e cresce imparando. Perciò nel pensiero di don Sciortino non è mai stata tradizionalista; ha conservato le tradizioni e la loro memoria ma sempre è stata aperta alla modernità dell’epoca cercando con la sua predicazione di evangelizzarla o almeno di modellarla. Sciortino non si nasconde che tentando di modellare la modernità la Chiesa ri-modella anche se stessa. Questo è il suo pensiero e le sue risposte alle domande poste dall’intervistatore. Ne riassumo qui alcune che descrivono un quadro e i fatti specifici che lo configurano. E comincio da questa prima domanda di Valentini: «Il cielo stellato è sempre sopra di noi, come scriveva Kant, ma di fronte all’imbarbarimento della società moderna a volte viene da chiedersi: la legge morale è ancora dentro di noi?» La riposta di Sciortino parte dunque dalla crisi economica che sta sconvolgendo la società ma che è anche secondo lui una crisi etica e spirituale. La crisi economica diventa così una sorta di “prova” che chiama in causa l’impegno individuale e collettivo. In un certo senso è un’incudine che serve ad affilare meglio l’amore per il prossimo, incoraggia i ricchi a sostenere i poveri, insomma risveglia il tessuto sociale.
Alle obiezioni dell’intervistatore sul dilagare delle diseguaglianze e dell’egoismo che le alimenta, l’intervistato risponde che l’egoismo è certamente riprovevole ma il solo antidoto è la fede e il modo di dimostrare la fede in Dio e in Cristo è quello di praticare la caritas.
La stessa risposta la dà alla domanda volutamente provocatoria che Valentini gli pone a proposito di Comunione e Liberazione, detta “la lobby di Dio”. Risponde: «L’espressione “lobby di Dio” significa fare un grande torto a don Giussani. È un giudizio non solo ingeneroso ma anche infondato. Che poi alcuni suoi “figli” cedano alla tentazione del potere è un altro discorso».
Questo modo di distinguere gli errori e i vizi dei singoli dall’impegno della Comunità ricorre assai spesso nella visione dell’intervistato e nel giornale da lui diretto; a proposito di Cl la risposta è questa: «L’impegno politico in senso stretto riguarda le persone e non Comunione e Liberazione in quanto tale».
La stessa concezione don Sciortino la applica allo scandalo del “Vatileaks” e ai difetti e manchevolezze della Curia e addirittura al malgoverno di alcuni suoi componenti, specie quelli preposti alle operazioni finanziarie dello Ior. Gli errori e le colpe dei singoli non vanno mai confusi con la Chiesa: «Il Santo Padre continua a invitarci tutti alla conversione di vita, non solo purificando i nostri comportamenti ma anche aumentando la nostra devozione alla causa del bene». Insomma dal male al bene, questo è il percorso garantito dalla presenza di Cristo nella sua Chiesa.
«La gerarchia è un’entità distinta e spesso contrapposta al “Popolo di Dio”?» gli chiede Valentini. Sciortino esclude questa contrapposizione così come esclude la distinzione tra presbiteri e laici. La Chiesa è una sola: istituzione gerarchica e comunità di fedeli. I peccati e i peccatori dentro la Chiesa sono molti, riscattati tuttavia da copiosi fiori e frutti della fede e dell’amore.
Significativa e anche a suo modo paradossalmente divertente una citazione storica di Sciortino: «Il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato ai primi dell’Ottocento, a Napoleone che gli diceva “e se domani mi proponessi di distruggere la Chiesa?” rispose: “Maestà, fareste una fatica inutile. Non siamo riusciti noi, noi preti, noi cristiani, con le nostre debolezze e la nostra infedeltà a distruggere la Chiesa. E vorreste riuscirci voi?”».
Un altro tema sul quale intervistatore e intervistato si diffondono a lungo riguarda il rapporto tra la religione e la politica. Su questo tema però, forse a causa della sua attualità, in Sciortino il prete e l’uomo di fede lasciano uno spazio molto ampio al giornalista e addirittura al cittadino schierato politicamente. E dice: «La Chiesa dev’essere al di sopra delle parti. Non è suo compito formulare soluzioni concrete e meno ancora soluzioni uniche per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno. Nel dialogo con una società pluralista e secolarizzata occorre cercare il più ampio consenso democratico per varare provvedimenti e leggi a favore dei cittadini e per la costruzione d’una società civile aperta e solidale. In tutto ciò che concerne l’organizzazione delle cose terrene — ricorda il Vaticano II — i credenti debbono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali e rispettare i cittadini che, anche in gruppo, difendono in maniera onesta il loro punto di vista».
E prosegue: «Non si tratta di rifare il look a politici cattolici squalificatisi per aver difeso l’indifendibile (hanno pure votato che Ruby era la nipote di Mubarak) con scarsissimo coraggio e senso di appartenenza alla dottrina cristiana, ma di realizzare un nuovo progetto per l’Italia».
Infine: «Lo Stato liberale garantisce il pluralismo e non discrimina nessuno in base alla confessione religiosa. A tutti assicura la manifestazione del proprio credo. Non è confessionale perché non sposa una sola religione e tanto meno la impone con la forza. Si mette al servizio della società e non viceversa».
Concludo. Bene ha fatto Valentini a portare il pensiero del direttore di Famiglia Cristiana a conoscenza (mi auguro la più ampia possibile) dell’opinione pubblica d’un Paese apparentemente molto cattolico e sostanzialmente tra i meno cristiani d’Europa. Quel giornale e quel direttore rappresentano ai miei occhi una Chiesa e una comunità con la quale il dialogo è possibile e fruttuoso. Resta da vedere fino a che punto la gerarchia accoglie il tipo di cattolico che Famiglia Cristiana rappresenta. Sciortino all’inizio dell’intervista nega che la gerarchia sia un’entità distinta dal «popolo di Dio» ma poi, quando le domande lo incalzano su casi concreti, quella distinzione riemerge anche nelle sue parole.
L’elezione del nuovo Pontefice servirà anche a fare chiarezza su questo punto fondamentale. Si vedrà se sarà un Pio XIII o un Giovanni XXIV. I nomi servono a identificare un riferimento. Il riferimento del nome Benedetto era troppo lontano nel tempo perché fosse indicativo. Infatti, come lo stesso Papa rinunciatario ha ammesso, ha lasciato molte rovine organizzative e soprattutto spirituali e un’opera di ricostruzione di estrema difficoltà alla quale la Chiesa nel suo complesso dovrà dedicarsi.

La morale, la fede e la ragione di Giovanni Valentini (Imprimatur euro 15)
Antonio Sciortino dirige il settimanale Famiglia Cristiana dal 1999