giovedì 28 marzo 2013

l’Unità 28.3.13
Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento
Stop di Bersani: «Non tratto sui nomi per il Quirinale»
Ultimo appello del premier incaricato alle forze politiche per un «governo di cambiamento»
A Napolitano il leader Pd porterà «non solo numeri ma anche valutazioni politiche»
di Simone Collini


Bersani lancia un ultimo appello alla responsabilità delle altre forze politiche per far nascere un «governo di cambiamento», poi dopo l’indisponibilità a votare la fiducia ribadita la mattina dal Movimento 5 Stelle, quand’è sera il leader del Pd registra la risposta negativa da parte del segretario Pdl Alfano: «Non ha formulato alcuna seria apertura, la vicenda è chiusa, sta a lui rovesciare la situazione». Cosa vuol dire? Che finisce qui il tentativo avviato una settimana fa dal presidente incaricato? Bersani non intende gettare la spugna adesso, ma il messaggio inviato a Berlusconi (che è la vera controparte) è questo: se il Pdl allude a una trattativa sul nome del prossimo Capo dello Stato, non ci sarebbe alcuna disponibilità da parte del Pd a seguirlo su questo terreno. Però è proprio questo il punto su cui si è incagliato il confronto. E entro stasera il nodo, in un modo o nell’altro, dovrà essere sciolto. Dopodiché Bersani, oggi stesso o domattina nel caso si riaprissero dei margini di trattativa, salirà al Quirinale per sciogliere la riserva.
INSULTI E CHIUSURE DAL M5S
Che la strada si sia fatta ancora più stretta il leader del Pd lo capisce bene, ma sa anche che in queste ventiquattr’ore ancora molte cose possono succedere. Non sul fronte M5S, che per bocca dei capigruppo Lombardi e Crimi ribadisce il no alla fiducia, mentre Grillo offende tutti i leader politici definendoli «Padri Puttanieri»: «Auguri ai salvatori della Patria», è la risposta del leader Pd.
È invece dal fronte centrodestra, con l’offerta della «corresponsabilità» sulle riforme istituzionali e la disponibilità a scegliere il prossimo Capo dello Stato con la più ampia condivisione possibile, che Bersani attende «una parola conclusiva». Quella che arriva in
serata da Alfano non viene giudicata tale, ma di certo restringe fortemente i margini di manovra.
INSUFFICIENTE LA ROSA DI NOMI
L’offerta al Pdl della presidenza della Convenzione che dovrebbe approvare le riforme istituzionali non smuove Berlusconi. L’ex premier ha dato mandato ad Alfano di trattare fino all’ultimo sul Quirinale. Una rosa di nomi a cui attingere (tra gli altri, si parla di Franco Marini e Giuliano Amato) non è per il Pdl una soluzione possibile. Il successore di Napolitano, è la richiesta dell’ex premier, deve essere di «area» centrodestra. Un’impostazione inaccettabile per Bersani: «Non sono ipotizzabili scambi tra cose del tutto diverse», è la linea ribadita ieri di fronte a chi ipotizzava il via libera del Pdl al suo governo sulla base di una trattativa sul prossimo Presidente della Repubblica. «Parto dalla Costituzione, che prevede tre votazioni che richiedono la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto. Per le cariche costituzionali parto da un presupposto di una comune garanzia su figure che abbiano caratteri costituzionali o istituzionali. Non parto da esigenze di parte o faziose».
Però il seguito del ragionamento fatto da Bersani al Pdl è che dopo quelle tre votazioni basta la maggioranza semplice per eleggere il nuovo Capo dello Stato, che il centrosinistra con i suoi 345 deputati e i suoi 123 senatori parte da una posizione di forza, che il successore di Napolitano può essere scelto insieme ai Cinquestelle e che quindi è meglio se Berlusconi non alza troppo la posta. La nota diffusa ieri sera da Alfano «vicenda chiusa» è una risposta che al quartier generale del Pd viene interpretata come un rilancio. E soltanto oggi si capirà se si tratti di un bluff per provare a forzare la mano di Bersani sulla partita del Quirinale o se effettivamente la trattativa sul doppio binario governo di cambiamento e corresponsabilità sulle riforme istituzionali non sia andata a buon fine.
Questa mattina Bersani vedrà le ultime due delegazioni, quella di Sel e quella del Pd, e dichiarerà chiuse le consultazioni. Aspetterà però anche una risposta definitiva da parte del centrodestra. «Non voglio, in nome del cambiamento, inalberare una politica faziosa. Io voglio dire che serve uno scatto di reni da parte di tutti quanti, in questo Paese. E chi dice no dica anche cos’altro propone. Un governo del presidente? Non so cosa voglia dire e credo che non lo sappia nessuno».
AVVIARE LA LEGISLATURA
Nel caso in cui la risposta del Pdl dovesse essere però negativa, Bersani dovrebbe esaminare attentamente con che tipo di posizione salire al Quirinale a riferire circa l’esito di queste consultazioni. Nel Pd (l’ha fatto Alessandra Moretti) e anche in Sel (lo stesso Nichi Vendola) c’è chi sostiene che il presidente incaricato debba comunque chiedere a Napolitano di essere mandato
alla prova della fiducia in Parlamento, anche in assenza di «numeri certi».
Bersani non vuole ingaggiare un braccio di ferro con il Capo dello Stato, che la scorsa settimana gli ha dato l’incarico a «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo tale da consentire la formazione di un governo». Però vuole giocare fino in fondo questa partita, senza lasciare nulla di insensato. Per questo aspetterà ancora oggi una risposta dal centrodestra e poi andrà al Quirinale «per valutare insieme al Presidente della Repubblica» come procedere per arrivare all’obiettivo principale, che per Bersani è «consentire l’avvio di questa legislatura». Domanda dei giornalisti: chiederà di andare alle Camere? Risposta: «Io non ho diktat da fare, non vado là con delle richieste in premessa». Però aggiunge il leader del Pd: «Devo portare una valutazione conclusiva, che è fatta di numeri e anche di valutazioni politiche». Come a dire, in questa situazione i numeri non sono tutto.

l’Unità 28.3.13
L’asse tra Grillo e il Cavaliere a dispetto dell’Italia
di Pietro Spataro


LA COMMEDIA DEGLI INSULTI E I GIOCHI DI POTERE si incrociano. Un inedito asse tra Grillo e Berlusconi sembra sbarrare al tentativo di Bersani: il vaffanculo del comico si unisce ai veti del Cavaliere e insieme rischiano di mandare all'aria l'impegno per un governo di cambiamento. Se nelle prossime ore, prima che Bersani salga al Quirinale, non dovesse aprirsi uno spiraglio l’Italia precipiterebbe in una fase turbolenta e pericolosa.
Non solo perché il tempo non gioca a favore e le trattative per un nuovo esecutivo ci renderebbero fragili e indifesi in una situazione finanziaria già terremotata. Ma anche perché, è inutile girarci attorno, un'altra soluzione tecnica sarebbe la soluzione peggiore quando servono scelte politiche chiare e il coraggio di osare. Una «soluzione greca» ci getterebbe dentro un vortice pericoloso. L'esempio di Atene, con il dramma di una crisi economica incontrollabile e di una condizione sociale insostenibile, solo a citarlo fa venire i brividi. Ora starà alla saggezza e all'equilibrio di Napolitano trovare, nelle condizioni date, la via d'uscita migliore. Non è semplice, perché la ferita che rischia di aprirsi non sarà facile da rimarginare e sicuramente non è compatibile con alcuna ipotesi di governissimo che si basi su un patto tra il Pd e il Pdl. Siamo a un passaggio ad alto rischio. E in questa confusa fase politica ci sono state forze che hanno giocato al tanto peggio tanto meglio. Lo ha fatto Grillo che ha preso l'enorme consenso ricevuto dagli italiani e lo ha usato, tra insulti e ingiurie, come una clava. Se durante la campagna elettorale le sue volgarità potevano far sorridere qualcuno, oggi appaiono quel che sono: la dimostrazione che a Grillo dell'Italia non gliene importa nulla. In preda a un ossessivo «vaffanculismo» sta impedendo ogni possibile soluzione. Perché, in fondo, è sulle macerie che il comico genovese spera di prosperare. E perché, alla fine, dall'alto di un Suv, dei milioni di reddito e delle ville adagiate sulle dune non si capisce davvero la vita dei pensionati, dei precari o degli esodati che gli sembrano solo personaggi in cerca di autore per uno show di successo. Ma qui non siamo al Bagaglino e la commedia dell'ingiuria rischia di trasformarsi in una tragedia.
Non a caso nella parabola della demagogia ha incontrato una destra che resta prigioniera di Berlusconi. Anche il Cavaliere, rimanendo nell'ombra, sta guidando il suo partito avendo cura solo dei suoi interessi personali. Preferisce non misurarsi con la sfida di una convenzione per le riforme che potrebbe essere l'occasione di un vero cambiamento istituzionale e si chiude nel suo bunker pensando solo al nuovo capo dello Stato. Se le cose dovessero andare male potrà vendersi il successo di aver fatto cadere Bersani con la speranza di un governo che diventerebbe davvero il trionfo dell'ingovernabilità.
Sarebbe un brutto epilogo. Certo, i margini sono stretti ma la buona politica, nelle condizioni più avverse, spesso riesce a trovare la spinta che sembra impossibile. Aspettiamo che Bersani salga al Quirinale e speriamo che le porte non siano tutte chiuse. Nel caso contrario serviranno, soprattutto nel Pd, nervi saldi per gestire una nuova fase senza cedimenti e con la consapevolezza di essere comunque il primo partito. Tutto servirà nei prossimi giorni, tranne un partito diviso.

l’Unità 28.3.13
Grillo insulta il Pd per fermare i suoi
Sul blog il comico attacca i partiti: «Puttanieri»
Ma l’avvertimento è diretto ai 5 Stelle favorevoli a un sostegno al governo di cambiamento
Bersani: «Auguri ai salvatori della patria»
di Maria Zegarelli


L’anatema che scivola nel torpiloquio, l’ennesimo, arriva di buon’ora, dopo un po’ che i suoi due capogruppo hanno incontrato Pier Luigi Bersani in diretta streaming mandando in diretta la saccenza e le gaffe di Roberta Lombardi e quel fare da «vorrei ma non posso sennò mi linciano» di Vincenzo Crimi. Eccone un assaggio: «Padri Puttanieri, quelli che hanno sulle spalle la più grande rapina ai danni delle giovani generazioni. Questi padri che chiagnono e fottono sono i Bersani, i D'Alema, i Berlusconi, i Cicchitto, i Monti che ci prendono allegramente per il culo ogni giorno con i loro appelli quotidiani per la governabilità».
Beppe Grillo sceglie un particolare di un quadro di Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, e piazza un titolo che è un tutto un programma: «Figli di NN». Un attacco durissimo ai partiti e ai loro leader che sul blog a metà pomeriggio scatena un dibattito che conta più indignati che esaltati. Sono troll, come sostiene il fondatore di M5S? Forse. O forse è solo la democrazia del web, bellezza.
A Pier Luigi Bersani sono i suoi collaboratori a mostrare l’ultimo missile a cinque stelle. Quando poco dopo i giornalisti gli chiedono un commento risponde: «Auguri ai salvatori della Patria». Poi, su twitter: «Pensare di fermare l'intelligenza con gli insulti è come pensare di fermare l'acqua con le mani. Uno può insultare fin che sta fuori dal Palazzo, quando sta dentro deve dire cosa vuole fare».
In diretta streaming non lo diranno mai ma in Parlamento sono gli stessi deputati e senatori del Movimento a provare imbarazzo per quelle frasi così inutilmente volgari e offensive scritte dal loro Capo. E per quelle pronunciate da Lombardi durante l’incontro con Bersani, «...mi sembra di stare a Ballarò». Quell’apriscatole, con cui dovevano aprire il Parlamento, in mani sbagliate rischia di provocare ferite profonde, ora iniziano a rendersene conto.
Forse sarà per questo che Grillo sposta l’attenzione, sa che il corpaccione del Movimento è tormentato dai maldipancia. La compattezza è solo apparente, ad uso e consumo delle dirette streaming.
Figlie di NN le nuove generazioni, scrive Grillo, «senza padri, sono figlie di NN, dal latino "Nomen nescio : nome non conosco". Sulle loro carte di identità, sui loro documenti di lavoro, nei libretti universitari alla voce "figlio di" risulta la sigla NN, figlio di nessuno, figlio della colpa, figlio di padre ignoto, figlio di vecchi puttanieri che si sono giocati ogni possibile lascito testamentario indebitando gli eredi. Non ci sono però responsabili conclamati della miseria, della mancanza di un futuro, di una qualunque prospettiva a cui sono stati condannati questi ragazzi. Nessuno ammette responsabilità di sorta. È opera del destino cinico e baro, dello Spirito Santo, della moderna divinità chiamata mercato che si manifesta all'improvviso come un nume iroso che chiede sacrifici umani. Lo sfascio ha origini soprannaturali, non è causa dei dilettanti, cialtroni, delinquenti che hanno smontato con determinazione e scientificità lo Stato italiano negli ultimi vent'anni».
Insulti pesanti, un grande amalgama che sprigiona miasmi. Tutti uguali, tranne i nuovi cittadini, gli eletti del M5S. «Quei padri continua Grillo che rifiutano ogni addebito del disastro nazionale, che percepiscono però vitalizi e doppie pensioni, gente canuta che non ha mai avuto il problema della disoccupazione e del pane quotidiano, è ancora qui, ancora a spiegarci come e perché siano le nuove generazioni, i choosy, i bamboccioni, i veri colpevoli. A raccontarci la favola che affidandosi a loro, alla loro esperienza e capacità e senso dello Stato, si cambierà il Paese. Questo dicono i Padri Puttanieri, quelli che hanno sulle spalle la più grande rapina ai danni delle giovani generazioni».
Parole che piombano in Parlamento e aggiungono tensione a tensione. Deborah Bergamini, Pdl, si rivolge alla presidente di Montecitorio, Laura Boldrini: «Ogni critica è legittima ma non deve sconfinare nell'insulto, le chiedo di esprimere analoga fermezza nel difendere l'onorabilità del Parlamento anche in questa occasione come ha fatto ieri».
A Palazzo Madama è Alessandra Mussolini a porre la questione: «Frasi ingiuriose e chiedo al capogruppo Vito Crimi di smentire, altrimenti mi appello agli articoli 66 e 67 del regolamento del Senato. Dichiarazioni politiche gravi fatte in sede extraparlamentare, altrimenti chiedo sanzioni disciplinari». Crimi replica: «Non ho in questa veste alcun dovere di smentire le dichiarazioni del signor Grillo». Le ha fatte sul suo blog, spiega. «Pertanto aggiunge ritengo che qualora in questa sede ci fossero comportamenti disciplinarmente rilevanti, ne risponderemmo ma non per dichiarazioni, da cui siamo stati peraltro abituati anche da parte di altri capi politici». Le troie in Parlamento di Battiato e i Padri puttanieri di Grillo, un esordio vergognoso.

l’Unità 28.3.13
Dissenso vietato, come Bokassa
di Toni Jop


«Bersani è venuto a strisciare come un verme per salvare il culo e la poltrona. Lo sapete bene che se Bersani non fa il governo... tutta l’attuale classe dirigente del Pd, comunista e massona, se ne va fuori dai coglioni. Bersani è venuto a strisciare davanti al M5S per salvare il culo a se e agli altri cadaveri mummificati del komitato kentrale... altro che "bene del Paese" e "senso di responsabilità". Ma chi credete d’incantare con le vostre palle? Siete finiti... siete dei cadaveri, espulsi dalla storia. E vi cacceremo a calci nel culo»: questo è uno dei commenti depositati da uno della curva grillina nel blog dell'Unità dedicato all'incontro tra il leader della sinistra e una pattuglia di parlamentari Cinque Stelle. Ieri. Fa orrore? Si sappia che, a proposito di troll, gli spazi pubblici di questo giornale sono un catalogo mai sazio di simili suggestive prese di posizione. Se sull’altro fronte qualcuno sul suo blog scrive «Signor Grillo, non sono purtroppo d'accordo con lei e le sue più recenti scelte benché abbia votato proprio M5S»,
reagisce, con enorme senso della propria dignità, come la povera Carrie qualcuno ricorderà quel bel film di De Palma quando il giorno della recita le infangano il vestito bello e lei istintivamente fa una strage. Come un Bokassa qualunque non ritiene possibile che il dissenso possa insidiare la sacralità della sua missione. Tra l’altro, a parte la parola «verme» che qui sui due piedi non ricordiamo nel suo più recente vocabolario, quel messaggio postato all’Unità on line potrebbe averlo scritto lui. Strisciare, fuori dai coglioni, salvare il culo, palle, cadaveri, espulsi dalla storia, calci nel culo, sembra proprio farina fuggita dal suo sacco a raccolta da qualcuno che in quel sacco crede forte. Accade così, che in questo Paese un assessore e intellettuale di livello europeo perda la funzione e sia sanzionato in Parlamento per aver detto «troie» pur senza alcun vezzo di genere. Mentre Grillo e il suo linguaggio possono decidere che Bersani è un «padre puttaniere». E non accade nulla.

l’Unità 28.3.13
Lo scrivano di Melville e quel no dei grillini
di Valeria Viganò


C’È CHI DICE NO. NO, IO NON CI STO. NO, IO NON CI STO. È PRESTO DETTO, È PRESTO FATTO. Basta dire no. Il valore del no è un valore assoluto. Il no è contro per principio. Può anche fregarsene dei contesti, è un’idea di per sé. Questo devono aver pensato gli uomini e le donne a stelle paladini della protesta contro un assoluto malaffare sul quale il compromesso non si può giustamente aprire. Nessun compromesso. Bartleby lo scrivano, eccelsa creatura di Melville, rispondeva a ogni richiesta con un «preferirei di no» certamente più
aggraziato ma altrettanto definitivo. Come Gianni Celati sostiene nella stupenda prefazione al racconto di Melville, vi è un fondo di indifferenza in una simile risposta, una non appartenenza, un isolamento. Di un uomo che mette in atto il rifiuto costante e ripetuto come unica azione e manifestazione di libero arbitrio. Ma se Bartleby, invece di uno scrivano a cui, come sottoposto, non resta che ubbidire o, come fa lui, decidere se eseguire il compito oppure no, fosse stato un capoufficio, o meglio ancora il direttore generale, gli sarebbe stato possibile rispondere con un diniego al suo compito da assolvere? Avrebbe potuto esimersi dal suo dovere e responsabilità? Chi dice no alla protervia corrotta, alla disonestà, ai mali orrendi di questo Paese vecchio e triste ha stramaledettamente ragione. E siamo con lui, come cittadini e italiani. Ma chi non è un semplice scrivano e assurge al ruolo di rappresentante di milioni di persone (semplici cittadini e italiani), viene per questo pagato (speriamo il giusto e non più lautamente) è obbligato per ruolo e potere, non solo a negare ma a proporre un’alternativa, un incontro sull’alternativa, un dialogo sull’alternativa. Perché l’alternativa possa farsi realtà. L’assoluto contenuto nel no si scontra con il relativismo che appartiene a qualsiasi comunità degli uomini e delle donne. Il Parlamento è una di queste. Sedersi su uno scranno così nobile non vuol dire battere i piedi e chiudersi in se stessi, producendo un solo mono-tono, una sillaba, due lettere tanto drammatiche. Il no può diventare la sferzata necessaria ma non uno sdegno vuoto. Il no non deve essere portatore di idee dittatoriali ma l’etica
imprescindibile davanti alle nefandezze. Un’etica che abita gli esseri umani come senso di giustizia senza essere giustizieri. Noi non ci saremmo aspettati da Bartleby qualcosa che non aveva, non potevamo pretendere altro che la sua incredibile originalità. Ma da qualcuno che è diventato molto di più di Bartleby e ha in mano le sorti di una intera nazione sì, pretendiamo di più. Pretendiamo una coscienza, una preparazione, una conoscenza che vada oltre un no, che non smetta come Bartleby di scrivere perché banalmente non vuole e resti fermo ore a guardare un muro in una nuova rivolta senza parole. Hai voluto la bicicletta e adesso pedala. Bartleby la bicicletta non la voleva, preferiva andare a piedi. Chi la vuole e la ottiene deve pedalare di gran lena, e soprattutto avere una meta che non sia un’isola solitaria. Per quello ci vuole una barca, che rischia di affondare insieme al transatlantico, perché l’isola è un miraggio, è l’Isola Che Non C’è.   

l’Unità 28.3.13
Malumori nei gruppi 5 Stelle. L’«unanimità» è un falso
Non tutti sposano la linea dura. «Giallo» sull’apertura a un nome diverso
da Bersani: Crimi prima dice poi smentisce Scoppia il caso Lombardi
di A. C.


Non ci divideremo come sull’elezione di Grasso. E non usciremo neppure dall’Aula. Abbiamo votato all’unanimità», giurano i capigruppo grillini Crimi e Lombardi dopo l’incontro con Bersani.
E tuttavia la tanto decantata unanimità, nel voto, non c’è stata. Alla Camera, in particolare. Dove Bersani non ha bisogno di voti di fiducia a 5 stelle, ma dove la discussione è stata più animata. Al voto, martedì sera, è andato anche un documento più possibilista nei confronti del Pd. Chiamato «il documento del se». Ha preso 4 voti, e alcune astensioni. I quattro sono il toscano Massimo Artini, l’emiliano Matteo Dall’Osso, il campano Girolamo Pisano e Tommaso Currò.
Al Senato c’è stato un voto “possibilista”, quello della fiorentina Alessandra Bencini. Ma anche il napoletano Giuseppe Vacciano (uno di quelli che aveva pubblicamente sfidato Grillo dopo il sì a Grasso) sembra decisamente poco incline alla linea intransigente. Punta dell’iceberg di un malessere più diffuso, della consapevolezza che «bisogna dare una risposta alla domanda di governo che viene dal Paese», come spiega Francesco Campanella, ex Cgil.
Il clima è agitato. Per tutta la giornata i grillini esternano, il muro del no ad ogni governo è già caduto, ora si ragiona su un nome gradito ai 5 stelle che potrebbe arrivare dal Quirinale (non dal Pd) nel caso di un fallimento di Bersani. Il capogruppo Crimi ormai passa le giornate a correggersi, quando non è la collega Lombardi a dargli sulla voce. «Se Napolitano fa un altro nome è tutta un'altra storia», spiega Crimi. Poi su Facebook arriva l’ennesima correzione: «L’affermazione è stata estrapolata. Se il presidente Napolitano non dovesse assegnare a Bersani l'incarico di formare un nuovo Governo il percorso delle consultazioni riprenderebbe il suo iter, nel quale il movimento Cinque Stelle si proporrà direttamente per l'incarico di formare una squadra composta da nominativi nuovi». Girano tra i grillini i nomi di Zagrebelsky e Rodotà. A quel punto i gruppi tornerebbero a riunirsi. E la guerra tra intransigenti e dialoganti si riaprirebbe, più cruenta. Ma anche in caso di giuramento di un governo Bersani, la discussione su come votare è destinata a riaprirsi. «Sicuramente tra i senatori, servirà un supplementio di discussione e un nuovo voto». E non si escludono possibili uscite di singoli dall’auladi palazzo Madama per dare una mano al Pd.
E si aggiunge un altro caso. Quello attorno alla Lombardi, che con i suoi modi decisamente sbrigativi ha già fatto arrabbiare una parte del suo gruppo. Tanto che lunedì sera, in una delle infinite riunioni grilline, il trentenne romano Adriano Zaccagnini si è alzato per chiederne le dimissioni. La Lombardi, infatti, in aula non ha letto il testo preparato dal gruppo con gli apporti della rete, ma un suo documento sulla crisi di Cipro. «Una brutta tesi di laurea triennale», è stato uno dei commenti più benevoli. «Non ci rappresenta».
Stesso discorso per l’intervento a gamba tesa contro i 40 miliardi di debiti da pagare alle imprese. «Una porcata», ha detto la capogruppo, «perché i soldi in parte vanno alla banche». Un errore, secondo molti. L’intervento di Zaccagnini non ha avuto seguito. «Forse perchè ho utilizzato toni eccessivi, ma anche molti altri erano d’accordo con me», spiega. Ora «l’incidente è chiuso, le ho rinnovato la mia fiducia». «Ma nel merito spiega il grillino si è scusata molto poco. Non ha fatto autocritica, si e giustificata dicendo che ha avuto una percezione errata delle decisioni dell’assemblea. Cosa vuol dire? Bella domanda, non lo so. È fatta così...».
Non è solo il caso dell’intervento non concordato a creare a malumori nella truppa. «Ho detto anche altre cose, che serve più trasparenza tra di noi e verso l’esterno», spiega ancora Zaccagnini. «Non dobbiamo avere paura di discutere. C'è un’ala di intransigenti, di tifosi, che tende a imporsi».
Una spaccatura, quella tra «tifosi» e dialoganti, che Grillo e Casaleggio cercano di tenere sotto controllo. Isolando le voci dei non tifosi. Non a caso il comico genovese ha deciso di organizzare un nuovo incontro con i parlamentari a cavallo di Pasqua. Si terrà probabilmente all’inizio della prossima settimana, in un luogo top secret, forse in Toscana. Il capo vuole vederli negli occhi, dare la linea, capire su chi può contare davvero. Il web non basta più. Non è detto che veda tutti insieme i 160 parlamentari. Si parla di incontri scaglionati, visto che alcuni gruppi regionali sono considerati più fedeli: Piemonte, Campania, Puglia. Mentre Emilia e Marche vengono tenute sotto osservazione. Oggi nuova riunione congiunta di deputati e senatori: si discuterà del caso Lombardi e anche del nome da proporre per la guida del governo.
Anche l’intervento di ieri sul blog, in cui Grillo si è scagliato con violenza contro i «padri puttanieri», non ha convinto tutti. «Beppe è fatto così», lo giustificano alcuni giovani deputati. E Crimi, incalzato in aula al Senato, risponde: «Quel post pubblicato al di fuori dell’ambito parlamentare è responsabilità esclusiva del signor Giuseppe Pietro Grillo. Non ho alcun dovere di smentire...»

l’Unità 28.3.13
E sul blog tante proteste
Pioggia di critiche contro il leader del M5S: «Offende e basta», «Grandissima occasione di cambiare il Paese gettata alle ortiche»
di Caterina Lupi


Se per Grillo i politici invisi «padri puttanieri», c’è chi accetta la sfida al gioco delle metafore e getta la spugna: «Vi ho votato. Alla prova dei fatti, con profonda tristezza, prendo atto che sono rappresentato da piccoli amateur in libera uscita», scrive un cinquestelle già pentito. Ma i più non la prendono con ironia e gli rigirano contro le offese. «Mi sa che se continui così il più puttaniere sei te che hai il culo caldo con Casaleggio ai mari caldi mentre noi ci dovremo subire il default dell’Italia», si firma Andres Leardini, di Rimini. Mercoledì bollente, sul blog di Grillo i tanti commenti postati uno dopo l’altro disegnano una rivolta in diretta web, con un’ondata di critiche alla posizione del leader 5stelle, ai suoi toni e le offese. C’è chi sfoggia aplomb: «Buonasera, non condivido le vostre scelte,ci porterete alla fame, e comunque non vi voterò più», scrive Enrico Maset. E chi una rabbia ormai contenibile: «Mi spiace ma questa guerra generazionale è falsa. Io sono un disoccupato da 6 mesi, vado per i 48 e come me ne conosco centinaia, anche a casa da 2 anni. E credo che se non si fa qualcosa adesso avremo perso l’occasione», si firma Stefano Lena. «Che delusione è diventato il M5S! Criticavo i vecchi politici per i loro continui insulti e ora mi ritrovo un Grillo che offende e basta. Meglio stia zitto e lasci parlare Crimi, che almeno è più educato», commenta Massimiliano D’Isanto. Paolo De Persis, di Veroli (Fr), tira le somme: «Grandissima occasione gettata alle ortiche per cambiare veramente e finalmente il Paese», mentre Carlo G. di Collegno racconta: «Ho votato M5S più per protesta che per convinzione, ovviamente verrò bollato come un troll dai fanatici del blog. In realtà sono un padre di famiglia alle prese come tanti con una tremenda crisi. Risposte? Il nulla, assisto esterreffatto a una zuffa fanciullesca».
Federico R., da Pian di Scò, tra tanti punti esclamativi boccia il Movimento: «Siete ridicoli! Non avrete mai più il mio voto, dilettanteschi e incompetenti. Crimi e Lombardi, 2 buffoni che non sanno nulla, 2 facce normali della mediocrità, che delusione Beppe...». E fra chi guarda in cagnesco i commenti che crescono sul blog («Ma i troll del Pd lavorano a cottimo?» chiede Francesco S., di Racale»), e chi loda Grillo, sul blog dell’«anticasta» si fa strada un interrogativo, che è pure di un Gianfranco D. (Milano): «Ma a nessuno dei “cittadini” viene in mente di chiedere il 730 di Casaleggio e Grillo?».

l’Unità 28.3.13
I nipotini di Ballarò
Il reality della politica: nessuno sguardo nella telecamera come accade in un unico genere, il porno
di Massimo Adinolfi


Se la vita sono anni che è finita in diretta, davanti alle telecamere, tutti i giorni trasmessa e ritrasmessa, «per informare, emozionare e divertire» cioè, se capisco, non per viverla per quale motivo non avrebbe dovuto fare la stessa fine anche la politica?
Se con i reality show, dopo avere simulato la vita quotidiana di una famiglia qualunque, o di un gruppo di persone qualunque, si sono portate le telecamere dappertutto, riprendendo in presa diretta le sfide canore, le squadre di calcio, le operazioni di chirurgia estetica, la vita in una fattoria o una prova gastronomica, una gara di sopravvivenza o le corsie di ospedale, fino alla scelta della sposa perfetta e alla ricerca della migliore amica, volete che non si possa trasformare in un reality anche la formazione di un governo, quello vero, quello della Repubblica italiana?
Roberta Lombardi la capogruppo a cinque stelle che diceva non di rappresentare i cittadini ma di «essere» i cittadini, e piuttosto incomprensibilmente affermava che loro, i grillini, non incontrano le parti sociali perché «sono» le parti sociali beh, forse era la prima a non crederci, visto che le è parso a un certo punto di trovarsi a Ballarò, e invano Pier Luigi Bersani ha provato a spiegarle che no, si tratta proprio di fare il governo vero, quello che rende il giuramento nelle mani del presidente Napolitano. Invano: la trasformazione di un incontro politico in uno spettacolo televisivo, alla quale neppure Guy Debord, quello della critica della società dello spettacolo, aveva potuto pensare, si era già compiuta.
Ora dicono che è stata una grande prova di democrazia, che sono stati spazzati via i vecchi riti della politica, che finalmente è possibile vedere con i propri occhi come vanno le cose nelle segrete stanze, che non c’è più nessun filtro, nessuna mediazione fra i politici e il popolo dicono così e fanno finta di non sapere che mettere una telecamera non solo media e come, ma altera profondamente, trasformando la realtà in una finzione, in una simulazione, in una messa in scena, a beneficio degli spettatori. I protagonisti dell’incontro di ieri, comunque, sono stati bravi: nessuno sguardo in camera, come accade per lo più in un unico genere di pellicola in commercio, cioè nei film porno. Ma che si sia trattata di una rappresentazione pornografica della realtà è evidente, perché vale in entrambi i casi la stessa condizione fondamentale: i protagonisti sanno di essere guardati. Ora, provate voi ad essere naturali, a fare l’amore sapendo di essere guardati. Delle due l’una: o siete dei consumati attori del genere, oppure quello che farete sarà un’altra cosa. E infatti quello che abbiamo visto è stata un’altra cosa: non una consultazione fra il presidente incaricato e i capigruppo, ma uno spettacolo impudico, ad uso del pubblico. E forse anche di qualcun altro, che non doveva limitarsi a guardare per essere informato, ma per controllare. Dico Beppe Grillo, l’unico all’interno del movimento che può scegliere il regime di visibilità che preferisce: farsi vedere qui piuttosto che là, andare da Napolitano ma non da Bersani, non apparire nelle tv italiane ma concedersi a quelle straniere, e diramare comunicati senza farsi intervistare.
Ebbene, a Grillo toccava controllare, guardare senza essere visto che i portavoce del Movimento eseguissero a puntino il loro mandato. Crimi e Lombardi non erano infatti da Bersani per discutere (c’è forse stata vera discussione?), bensì per eseguire. La discussione nel Movimento c’era stata prima, ma non è andata in diretta streaming. Quando infatti i cittadini deputati devono discutere davvero, stanno bene attenti a tenere lontani giornalisti e cameraman, si riuniscono a porte chiuse, e se occorre sbattono i pugni sul tavolo e gridano cercando di non farsi né vedere né sentire. Ma se anche un giorno decidessero, per essere almeno coerenti, di non tenere riunione se non davanti a una telecamera, siamo davvero sicuri che la democrazia ne guadagnerebbe?
Siamo davvero sicuri che le istituzioni di un ordine politico liberale avrebbero da guadagnare dalla scomparsa di ogni riservatezza, dalla fine di ogni separazione di ambiti fra ciò che può essere reso di dominio pubblico e ciò che per sua natura deve essere tenuto riservato? Io sarei sicuro del contrario, e senza scomodare il Panopticon di Bentham (dove certo si poteva vedere tutto, ma che era però un’istituzione carceraria: restrizione della libertà ed esposizione alla visibilità procedono infatti di pari passo), senza evocare lugubri scenari mi accontenterei non dico della segretezza di un conclave, ma almeno della discrezione di una casa d’appuntamenti. Che è superiore a quella che Lombardi e Crimi esigono per le consultazioni, anche se inferiore a quella dei consulti che tengono con Grillo.

l’Unità 28.3.13
Un comportamento davvero irresponsabile
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il M5S non ci faccia tornare a votare, specialmente senza cambiare la legge elettorale. Non creda che, se si rivota, i cittadini non si ricordino di chi aveva la possibilità di avviare un governo e non ci ha nemmeno voluto provare. Il M5S è arrivato in Parlamento per operare un cambiamento. Ci provi con il Pd.
Paride Antoniazzi

I grillini hanno detto no. Su tutta la linea. In diretta streaming. Chiedendo a Bersani di riferire a Napolitano che loro appoggeranno soltanto un Governo guidato da uno di loro. Senza chiarire, ovviamente, se a quel punto decideranno di avviare degli inciuci (così loro chiamano le trattative) con altre forze politiche o se, guidati da Casaleggio, chiuderanno le Camere dando l’avvio ad una dittatura grillina. Malinconicamente chiarendo in questo modo il retrogusto
di prepotenza e di avidità che si percepisce, da un certo momento in poi, in tutti i movimenti di protesta che passano dalla denuncia degli errori di chi gestisce il potere alla voglia dichiarata di prenderlo. Collocando Bersani che aveva cercato di esporre i punti del suo programma fra i “padri puttanieri” e ordinando ad una capogruppo presuntuosa ma obbediente di definire “porcata” il provvedimento che permette alla Pubblica Amministrazione di pagare i debiti contratti con le imprese, Grillo ha deciso di tagliare i ponti, infatti, con tutti i suoi interlocutori. Ritagliandosi un ruolo di contestatore feroce ed irresponsabile di tutto quello che gli altri faranno o tenteranno di fare. Finché i suoi lo seguiranno o finché tutti saremo costretti a indossare la divisa scelta da lui e a consegnargli il futuro. Nostro e dei nostri figli.

il Fatto 28.3.13
A fari spenti nella notte
di Antonio Padellaro


Dispiace dirlo, ma l’Italia appare ogni giorno di più come una nave alla deriva senza pilota, senza timone e senza rotta che imbarca vistosamente acqua, come dimostrano tutti gli indicatori economici sempre più giù, a eccezione dello spread che torna a salire. Vi faremo grazia di tutte le indiscrezioni che ipotizzano questo o quel governicchio appeso ai capricci di partiti e partitini che, per garantire uno straccio di fiducia, dovrebbero entrare e uscire dall’aula del Senato, come in certe pochade gli amanti clandestini entrano ed escono dagli armadi. La verità è che nessuno ha la più pallida idea di come uscire dall’incommensurabile casino in cui ci hanno gettato l’imperizia e l’irresponsabilità di troppi presunti leader, per non parlare dei guru che scommettono sull’apocalisse. Gli insulti di Beppe Grillo sono diventati insopportabili anche per i tanti che avevano votato M5S sperando di dare un governo del cambiamento al Paese e si ritrovano davanti un muro di ostilità verso tutto e tutti. Gli va però dato atto che lo aveva detto già un’ora dopo il voto e ripetuto fino allo sfinimento, che mai e poi mai il movimento avrebbe appoggiato governi politici di qualsivoglia colore o camuffamento. E allora appare incomprensibile e perfino ottusa l’ostinazione di Bersani nel proporre alleanze impossibili che l’ex comico si diverte a stracciare con le ingiurie più sanguinose. A meno che non sia tutta una messinscena per dimostrare quanto i grillini siano inaffidabili in una campagna elettorale che non finisce mai. Voto anticipato (già a ottobre?) su cui, con il consueto cinismo, gioca le sue carte anche Berlusconi, convinto che gli italiani, di fronte alla inettitudine della sinistra e alle mattane grillesche, lo riporteranno sulle spalle a Palazzo Chigi. L’ultima parola spetta ora a Napolitano. Si parla di un nome a sorpresa, di un asso nella manica non sgradito a Grillo. La pochade continua, mentre la nave affonda.

il Fatto 28.3.13
L’ex socio Enrico Sassoon
“Troll e vaffa, così Casaleggio ha scelto Beppe Grillo”
di Carlo Tecce


Dodici anni in società con Gianroberto Casaleggio, un profilo internazionale, un’araldica complessa, scrittura e relazioni, economia e Internet, poi Enrico Sassoon ha scritto una lettera, lo scorso settembre, per sigillare proprio quei dodici anni. E in poche righe, pubblicate in evidenza sul Corriere della Sera, si è liberato di quelle ricostruzioni su complotti, massoneria, servizi segreti che – dice – l’hanno perseguitato. Non adora parlare ai giornalisti. Ci riceve in una sala riunioni costellata di oggetti elettronici antichi e moderni, che un neofita vedrebbe bene in un museo. Riflette su ogni sillaba e la registra anche.
Quando ha incontrato Casaleggio?
Ci siamo conosciuti nel 2000, quando sono entrato a far parte del Cda di Webegg come consigliere indipendente. Quando nel 2004 Casa-leggio fonda la sua società di consulenza e strategie di rete (che cura il sito di Grillo), mi propone di acquisire una quota e io entro come socio di minoranza con il 10%. In quell’epoca ero l’ad di American chamber of commerce. Ho lasciato la Casaleggio Associati perché c’erano fazioni in rete, esterne e interne al Movimento, che mi diffamavano. Né Grillo né Casaleggio mi hanno difeso. Sono stato costretto a lasciare pur non avendo mai scelto di fare politica con il M5S. Non mi ha colpito la rete, ma persone che hanno trovato la mia figura professionale poca consona al Movimento.
Come può un sito attirare milioni di visite che diventano milioni di voti?
Perché Grillo ha toccato corde di carattere sociale e politico che hanno persuaso un numero crescente di persone. Credo che il blog sia un’idea di Casaleggio, penso che Grillo non sapesse proprio nulla di Internet quando gli fu proposto. Casa-leggio ha notato il successo di Grillo che faceva spettacoli con una componente di critica sociale e politica molto aggressiva. Ha pensato che potesse essere utile sfruttarlo e inserire Internet, le connessioni immediate, negli spettacoli in maniera tale che potesse far vedere le cose di cui parlava, ricordo ad esempio la vicenda Telecom. Hanno usato molto la famosa mappa del potere, elaborata da Casaleggio e Associati, che dimostrava come poche persone controllano molti Cda.
È stato anche un affare economico?
È convenuto per un breve periodo di tempo. Che io sappia, Grillo non ha mai pagato niente, non ha speso un euro, ma ha dato in concessione la vendita di dvd e libri. Pubblicità? Non ho idea. La Casaleggio ha un passivo non drammatico per una società che non supera 1,5 milioni di fatturato. Pura fantasia che la Casaleggio Associati abbia costruito un impero con quel fatturato.
Otto anni governando la rete, ora Grillo segnala “gruppi pagati per gettare fango”, i troll.
Mi sembra strano che si lamenti di interventi in rete di cui lui è stato il primo esempio. Come leggo nei commenti al blog, quelli più seguiti e votati, la maggior parte sono molto critici con la sua denuncia. La presa di posizione di Grillo è oggettivamente molto curiosa: lui ha fatto esattamente quello che lamenta in questo momento, e solo perché è rivolto contro di lui...
Ma Internet è davvero sinonimo di trasparenza?
La rete è uno strumento come il telefono o come la televisione, ma ha barriere di accesso più basse. La rete non significa democrazia, se usata male può anche significare attentato alla democrazia. Chi vuole identificare la rete come democrazia, e si immagina un popolo della rete, dice cose sostanzialmente sbagliate. La rete è lo strumento più potente per fare politica, nessuno, però, la usa in maniera sistematica come loro.
L’hanno usata per le Parlamentarie: poca partecipazione, tante polemiche.
Quando si selezionano persone per creare dei candidati queste persone dovrebbero essere selezionate per capacità, competenze, onestà, storie personali, quanto tutto questo sia stato possibile verificarlo attraverso le Parlamentarie, non ne ho idea e non ce l’ha nessuno se non chi le ha organizzate mettendo i filtri.
Quanto durerà il M5S in Parlamento?
La proposta politica di Grillo dipenderà dalla capacità di trasformare in programmi quelle che sono finora essenzialmente parole d’ordine peraltro abbastanza elementari e in parte solo di protesta. Per fare questo mi sembra che venga utilizzata una tecnica che ricorda molto quella economica del crowdsourcing (chiedere supporto alle folle, ndr), cioè quando un’azienda o una persona si rivolge a una comunità online, più o meno specialistica, per risolvere un problema e ricevere proposte che poi dovrà scegliere, premiare e infine utilizzare. Questo richiede due condizioni: la prima che esista un pensiero strutturato, la seconda che ci sia un’organizzazione capace di filtrare quello che arriva. Ascoltando Grillo che utilizza questi termini in maniera piuttosto confusa, che sono certamente patrimonio culturale di Casaleggio, ho la netta sensazione che si illudano di fare crowdsourcing politico non avendo per ora né una struttura organizzata né un pensiero realmente definito.
Chi è imprescindibile per il Movimento: Casaleggio o Grillo?
Mi pare che l’uno non viva senza l’altro. La parte ideologicamente più preparata mi sembra sia quella di Casaleggio, Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono.

il Fatto 28.3.13
La risposta dei cinque stelle
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, sono deluso da giovani persone pulite per cui ho votato. Ascoltano immobili, rispondono poco e si trincerano dietro l'idea immutabile che “il governo o lo facciamo noi o non si fa”. Sanno benissimo di non poterlo fare da soli. E allora? Quanti giri a vuoto prima di tornare a votare? Il rischio Cipro non conta?
Pietro

CI SONO due strade per esaminare il primo attesissimo incontro trasmesso in diretta, tra il leader politico Bersani, candidato a formare un governo di centrosinistra, e i giovani deputati e senatori del Movimento 5 Stelle che avevano già annunciato la decisione di dire “no”. La prima è di esaminare il rituale dell'evento, le sequenze, il linguaggio, i vari interventi, che i 5 Stelle seguono (eseguono) con una propria liturgia fondata sul controllo pubblico. Non è colore, il rituale del Movimento. Quello era il caso, troppe volte confuso, della Lega Nord, che si situava, nei primi tempi, tra i raduni degli alpini, e accenni senza cultura a presunti Vichinghi, per poi trasformarsi nella patetica e imbarazzante cerimonia dell'acqua del del Po. Il codice Cinque Stelle è scarno, unanime, collettivo e non può essere individualmente variato. Ci sarebbero molte cose da dire su questo rigore disciplinare, finora estraneo ai partiti democratici in Europa. D'altra parte, in un momento di crisi caotica e di contraddizioni (non solo contrapposizioni) continue, fra partiti e dentro i partiti, non è detto che sia un male, in attesa che si intravveda una gentilezza o un sorriso. Ma proprio la gravità del momento ci costringe a dedicare tutta l'attenzione al risultato. Il risultato è no. No alla perorazione di Bersani (chiara e dignitosa, ma nessuna perorazione sarebbe stata accolta). No a qualsiasi “governo politico”. Qui perdi il filo, perché non c'è un “fuori dalla politica” così carico di ricchezze morali e talenti organizzativi per andare a cercare aiuto esterno, subito dopo una elezione politica lunga (è sembrata lunga) dibattuta e sofferta. Ma se fosse possibile, si tratterebbe di una nuova supplenza “civile” che segue una supplenza “civile” non proprio gloriosa. E poi qual è il senso, dopo che una grossa rappresentanza del Movimento 5 Stelle, che era il “fuori” più organizzato e combattivo, è entrata in Parlamento? È vero, chiede di formare il “suo” governo. È un diritto. Ma per questa volta non ha i numeri. Rifiuta qualsiasi altro governo. Anche questo è un suo diritto. Ma neppure gli altri, se ciascuno resta al suo posto, hanno i numeri. Afferma che, una per una, voterà le buone leggi che dovessero essere presentate alla Camera. Ma da chi, se non si può fare un governo? È possibile che il solo progetto politico, per un Paese disperato e in pericolo, sia di spingere in tutti i modi il Pd addosso al Pdl, che sarebbe il vero vincitore, avrebbe i famosi numeri per governare (dopo avere governato per vent'anni) e, come unico risultato, dichiarare confermata la certezza che “sono tutti uguali”? Politicamente ha un suo senso. Moralmente molto meno. A cominciare dal rischio a lunga durata per la Presidenza della Repubblica.

La Stampa 28.3.13
Elettori grillini in freezer
di Cesare Martinetti


Beppe Grillo è un leader politico riconosciuto in quanto tale da un italiano su quattro. Elettori che avevano votato per la destra, per il centro e – prevalentemente – per la sinistra. Ex astensionisti che hanno trovato in lui una ragione per tornare ad esprimere un voto. Delusi, disillusi, disgustati, schifati dalla politica che hanno riconosciuto nel suo «vaffa» un modo di esprimere quel che dettava loro il cuore. Il rifiuto, uno schiaffo, una pernacchia alla politica, a questa politica rituale, inconcludente e impunita, sempre capace di auto autoassoluzioni e mai in grado di trovare soluzioni per i problemi della gente.
Giovani e anziani, precari e pensionati, artigiani e piccoli imprenditori rosi dalle tasse, 30-40enni intellettuali e laureati non riconosciuti nei loro saperi e nei loro talenti da questa nostra Italia paralizzata dalle piccole e grandi caste, corporazioni impenetrabili e spesso parassitarie, filiere famigliari che non si rompono. Ventenni autorelegatisi in quel limbo chiamato «Neet» e composto da quelli che non studiano, non lavorano, non cercano né l’uno né l’altro che sarebbero già quasi il 30 per cento di quella generazione.
Ecco, è possibile che molti di questi siano soddisfatti del loro voto dopo aver visto i loro parlamentari in azione, si sentano confortati dall’ascoltare il loro leader, rassicurati della bontà della scelta fatta: perduta ogni speranza che qualcosa cambi, evviva i «vaffa», vuoi mettere il piacere? Ma sarà proprio così?
Ieri, dopo aver pilotato da lontano i suoi ragazzi nell’inutile e irridente comparsata all’incontro con il presidente incaricato Pierluigi Bersani, Grillo ha «postato» sul suo blog la sua valutazione politica della mattinata accomunando tutti i leader degli altri partiti – da Monti a Berlusconi, a D’Alema, allo stesso Bersani - nel giudizio di «puttanieri», che «ci prendono per il culo ogni giorno con i loro appelli alla governabilità».
Ora, Grillo può usare la lingua che vuole, l’insulto è stato parte del suo messaggio politico, gli elettori giudicano liberamente. Grillo è a sua volta liberissimo di rifiutare il programma di Bersani come la politica di tutti gli altri. Può rivendicare per il suo movimento la leadership del governo, a patto di essere capace di costruirne uno. Non è questo il punto.
Ma passato un mese dalle elezioni, depositate le sorprese e le emozioni, incassata una straordinaria dote politica e parlamentare si può immaginare che molti di quel quarto di elettori italiani si chiedano come verrà speso il proprio voto. Quanti si contenteranno del «vaffa» continuo e ripetuto?
La politica italiana è a un punto di svolta, il successo della lista Grillo ha aperto una fase rivoluzionaria e le rivoluzioni non avvengono mai con ordine, il galateo ne è sempre travolto. Al di là del giudizio sui contenuti della proposta politica, tutti hanno sottolineato l’importanza di un parlamento rinnovato da parlamentari diversi, giovani, carichi di rabbia e di rancori, ma anche di energia, di competenze spesso ignorate dalla politica tradizionale.
Ma il punto è proprio questo: quell’energia di cui sono portatori i deputati di Grillo deve rimanere impacchettata e gestita in via esclusiva dal capo? Insultare per insultare per insultare (salvo poi riconoscere, come ha rivelato un fuori onda tv, dignità e correttezza a Napolitano, anche lui pesantemente insultato in precedenza) è l’unico mandato ricevuto dagli elettori? L’obiettivo è mettere in freezer i voti ottenuti, mandare tutto a scatafascio puntando a prendere il 51 per cento alle prossime elezioni? E poi?
Il realismo è il punto di arrivo di ogni politica che sia tale, insegnava Machiavelli, ed è quello che chiedono gli elettori ai loro rappresentanti e gli elettori di Cinque stelle non sono diversi dagli altri. Grillo impari a usare l’enorme capitale di energia che gli italiani gli hanno affidato. La forza della realtà insegue anche lui e a un certo punto lo raggiungerà. Come dice Gustavo Zagrebelsky nell’intervista che pubblichiamo oggi i processi politici in corso oggi nel nostro sistema possono distruggere o rinvigorire la democrazia. Basta poco per far pendere la bilancia o di qua o di là.

La Stampa 28.3.13
Zagrebelsky: “La democrazia alla prova del grillismo”
Intervista di Cesare Martinetti


Le guerre nel mondo, i conflitti senza soluzioni, la finanza senza regole, le disuguaglianze che crescono, tra Paese e Paese, tra cittadini e cittadini. «Pare che tutto ci stia sfuggendo di mano - dice Gustavo Zagrebelsky -, sembra che non ci sia più nessuno in grado di formulare un’idea che abbraccia e sia riconoscibile da tutti». La terza edizione di Biennale Democrazia cade in un momento drammatico per l’Italia. Sarà l’occasione per riflettere sulle norme di base della nostra società. Ne parliamo con il presidente emerito della Corte Costituzionale, inventore (con Pietro Marcenaro) e anima della Biennale.
Professor Zagrebelsky, la parola democrazia associata a quella di utopia, di questi tempi, sembra avere un connotato ironico: la democrazia non è più una prospettiva reale?
«L’idea di fondo di Biennale è pensare all’avvenire in modo da ristrutturare una prospettiva comune. Questo deve fare la cultura politica. La parola utopia c’entra perché significa la proiezione in un futuro di aspirazioni e tentativi di trovare soluzioni alla difficoltà del presente».
Ma l’utopia realizzabile è ancora un’utopia?
«Ci sono utopie utopiche, idee consolatorie che permettono di rifugiarsi nell’immaginazione. Si tratta di un esercizio intellettuale sterile. Ma ogni progettazione del futuro deve avere un aspetto utopico. “Per mirare giusto nel bersaglio devi mirare più in alto”, diceva Machiavelli. Lo ricorderà Carlo Ossola parlando dell’utopia in letteratura. I condizionamenti renderanno il risultato finale inferiore al progetto. Ma il progetto bisogna averlo».
Alla Biennale ascolteremo dei progetti realizzabili?
«Stiamo cercando di far emergere qualcosa di nuovo che già c’è, che cova sotto la cenere, che può costituire energia feconda. Sulla base della premessa, diventata un luogo comune, che per sopravvivere bisogna cambiare. Parleremo di economia, mondializzazione della finanza, economia, produzioni, consumi, modi di produzione che non sperperano risorse ambientali. Nuovi strumenti di partecipazione».
A questo proposito il tema di democrazia e Internet è diventato decisivo con il successo della lista di Grillo. Lei crede nella democrazia diretta per via elettronica?
«La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più consapevole, in processi di sintesi comune? Il dibattito alla Biennale darà delle risposte».
Intanto le prime votazioni alle Camere e la prospettiva dei voti di fiducia hanno già posto la questione della trasparenza del voto dei singoli parlamentari grillini minacciati di espulsione se usciranno dalla linea del «partito».
«Questo mi ricorda molto la fase giacobina della rivoluzione francese, quando si era imposto agli elettori di votare in pubblico. È il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo dell’esercizio della libertà? ».
Ed è esplosa la questione del vincolo di mandato, se cioè i parlamentari siano liberi di votare secondo coscienza o se debbano essere vincolati alla linea del partito espressa in campagna elettorale.
«Nelle costituzioni liberali non c’è vincolo di mandato. Nella nostra questo è previsto dalll’articolo 67, legato all’idea che la democrazia, come diceva Hans Kelsen, è un regime mediatorio, cioè un regime in cui le ragioni plurime si devono incontrare fra di loro e trovare punti mediani. La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato, esprime questa esigenza che in parlamento - il luogo dove ci si parla - sia possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’aula non sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo: libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti, mortificazione delle personalità».
È una norma che appartiene a tutte le costituzioni liberali?
«Certo, viene dalla rivoluzione francese, prima del giacobinismo. Non c’era in quella sovietica, né in quella della Comune di Parigi, che però non appartengono alla nostra tradizione costituzionale democratica».
La crisi della democrazia è però innegabile, questioni come rappresentanza, partecipazione, efficacia delle decisioni sono d’attualità anche nei sistemi più giovani.
«Ma almeno per ora tutti si dichiarano democratici. Non c’è ancora nessuno che si sia alzato per dire: basta con la democrazia, c’è un modello migliore. Semmai si dice: questa democrazia, la nostra, non ci piace, non funziona. Ma ciò significa che resiste l’idea di fondo che c’è una democrazia alla quale dobbiamo mirare. Per il momento democrazia resta una parola universale».
Però è giustificato dire che questa nostra democrazia è in crisi e non funziona?
«C’è una legge universale della politica secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile».
È esattamente quello che percepiamo oggi in Italia, le elezioni ne sono state la dimostrazione. Professor Zagrebelsky, ce la farà la nostra democrazia?
«Se riesce a riaprirsi, a combattere i gruppi chiusi, i “giri” nascosti del potere, e riesce a far sentire i cittadini partecipi della cosa pubblica e non espropriati. Quando si parla di rinnovamento della democrazia si intende proprio questo. I gesti simbolici come la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio delle spese che favoriscono i parassitismi politici. Se si riuscirà a fare ciò anche utilizzando virtuosamente i nuovi strumenti della comunicazione politica potremo dare una risposta positiva alla domanda che fu di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi saggi: la democrazia ha un futuro? ».
E se questo non succederà?
«Peggio per noi e per i nostri figli».

La Stampa 28.3.13
La strada stretta del Quirinale Bersani vuole andare alle Camere anche senza numeri certi
Preoccupazione per i mercati e l’indebolimento di Monti
di Antonella Rampino


Mentre nei corridoi della politica spirano i nomi di Giuliano Amato e Luciano Violante come asso nella manica, o conigli che dovrebbero sortire dal cappello di Giorgio Napolitano per il suo «governo di scopo», anzi «governo Pella» poiché il presidente della Repubblica li porrebbe all’attenzione del Parlamento per un voto di fiducia considerando esperite le proprie consultazioni, l’unico punto certo della giornata di ieri è che si è fatto ancor più stretto il sentiero per formare un governo.
Quei rumours (si tratta più probabilmente di possibili ministri) spirano grazie a una piccola frase pronunciata ieri da Vito Crimi, il capogruppo grillino al Senato: no a Bersani presidente del Consiglio, ma «se Napolitano fa un nome, è tutta un’altra storia». Ma a ridurre ulteriormente le possibilità politicamente concrete -Crimi potrebbe esser brutalmente smentito da Grillo in qualsiasi momento - ci ha pensato il Pdl, mostrando di voler impallinare qualunque prossimo governo di tipo «tecnico», mirando dritto al premier in carica per gli affari correnti: Monti è fortemente indebolito - specie sulla scena internazionale - dall’aver perso per strada il ministro degli Esteri. In parole povere, è divenuto ben debole garanzia del Paese, in una fase politica per giunta di fortissima instabilità. Di qui, probabilmente, il fatto che circoli il nome di Giuliano Amato, la cui credibilità internazionale e transatlantica è intatta e indiscussa (tanto che potrebbe puntare al Colle). Quanto all’altro nome, si tratta di una figura di «pontiere» con il pdl che, se non i voti dei grillini, potrebbe averli dai berluscones. Entrambe le personalità sono tali che il Pd non potrebbe rifiutarsi di votarle. Ma l’indebolimento di Monti, contemporaneamente, apre un sottile spiraglio a Bersani, che non verrebbe esposto da Napolitano al rischio di conta per la fiducia in Senato proprio per non scalzare da Palazzo Chigi quella che era una garanzia per il Paese, Mario Monti.
Perché questo è il punto: il Pdl che spara anticipatamente su qualsiasi «tecnico» alle viste, sperando in elezioni il più presto possibile (comunque non potrebbero essere prima dell’autunno), porta in primissimo piano la figura di Bersani, emersa dalle primarie, comeha ricordato Napolitano nel conferirgli l’incarico. E il Pd, comunque titolare della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e di quella relativa al Senato. E con ciò, non è andata bene, ieri, per Bersani alla prova della consultazione con le parti politiche, e assai in forse è anche che il Pdl accetti di dare un via libera (magari con la non sfiducia) al governo, accettando di sedersi al tavolo delle riforme istituzionali, presiedendo la nuova «Bicamerale». Ma il fatto che sembri slittare l’appuntamento al Colle indica che forse qualcosa può ancora muoversi. Napolitano ha detto che Bersani «riferirà appena possibile», ma ancora nessuna comunicazione ufficiale risulta da parte del segretario Pd, e pare slittare forse alla serata di oggi, forse a domani mattina - l’atteso e risolutivo appuntamento. Nonostante, riferiscono fonti parlamentari, Napolitano e Bersani si sentano quasi tutte le sere.
Il tempo si è fatto brevissimo: ieri la giornata dell’Italia sui mercati internazionali è stata preoccupante, è impensabile arrivare alla loro riapertura martedì dopo Pasqua senza aver sciolto con un nome il rebus del governo. È nell’ordine delle possibilità che le chances di Bersani di andare a sottoporsi alla fiducia aumentino, se Napolitano non avrà individuato una figura tra il politico e l’istituzionale che i tre ingovernabili non-vincitori delle elezioni accettino.

Corriere 28.3.13
Un Bersani nervoso cerca di rimuovere le ultime incognite
di Massimo Franco


La sponda grillina si è confermata scivolosa, anzi ostile nei confronti di Pier Luigi Bersani. La consultazione fra il premier incaricato e i delegati del Movimento 5 stelle ha chiuso qualunque margine di dialogo. E per paradosso, la decisione di mandare in rete ogni parola pronunciata nel loro incontro ha irrigidito le posizioni. La trasparenza è diventata l'arma per evitare uno smottamento nel gruppo parlamentare di Beppe Grillo, scottato dalla «fuga» di qualche voto al Senato nell'elezione del presidente Piero Grasso. Sembrava una finzione di dialogo. Invece di parlarsi, gli interlocutori si rivolgevano ai rispettivi elettorati, già pensando ad un possibile scenario di voto anticipato. E poche ore dopo Vito Crimi, capogruppo grillino al Senato, ha liquidato il tentativo del segretario del Pd annunciando che se Giorgio Napolitano fa un altro nome, il M5S potrebbe essere più flessibile.
Bersani torna oggi al Quirinale per riferire al capo dello Stato se ritiene di poter tentare la formazione di un Esecutivo. L'impressione è che voglia provarci, pur avendo presenti le difficoltà. E infatti si fa anticipare da parole sferzanti sull'eventualità di un «governo del Presidente» che Napolitano potrebbe sentirsi costretto a proporre di fronte ai veti incrociati dei partiti. Segno che per la sinistra una qualsiasi subordinata a Bersani sarebbe vissuta come un arretramento e un passo ulteriore verso la fine anticipata della legislatura. Rispetto all'impostazione iniziale, però, la tattica del leader del Pd ha subìto una torsione vistosa.
Era partito puntando molte delle sue carte su una presunta disponibilità di Grillo e del suo gruppo: se non altro perché è proprio a quel movimento che alla fine il partito ha ceduto una percentuale dei suoi consensi. E invece, si è dovuto rassegnare ad una strategia del rifiuto che non prevede aperture di credito a nessuno; e punta invece ad un'accelerazione della crisi del sistema, tentando di spingere il Pd ad un compromesso governativo con il Pdl. Per quanto si tratti di un esito che ha sostenitori trasversali, seppure in modo contorto e pasticciato, le probabilità che si verifichi rimangono esigue. Il rischio di una marcia inesorabile verso le urne non va esclusa. I berlusconiani additano quel traguardo come inevitabile, se Bersani getta la spugna. Sono infatti convinti che i sondaggi, le divisioni nella sinistra e la crisi di identità della lista di Mario Monti, lavorino per loro.
Alcune frasi del capo leghista Roberto Maroni sono state interpretate come una cauta disponibilità a discutere. Ma il Carroccio non ha la forza di assumere una posizione indipendente e men che meno conflittuale rispetto al Pdl. Fra l'esito dell'incarico al leader del Pd e un'eventuale precipizio, comunque, c'è di mezzo la scelta del nuovo presidente della Repubblica. E sul successore di Napolitano i giochi promettono di rivelarsi più pesanti e imprevedibili di qualunque ambizione di rivincita elettorale. Il vero discrimine fra Bersani e Silvio Berlusconi è proprio la figura del prossimo capo dello Stato. Il Pdl gioca pesante nel chiedere per il Quirinale qualcuno che garantisca il Cavaliere. E subordina un eventuale appoggio proprio a una trattativa serrata e stringente su questo punto.
Ma il Pd non sembra in grado, né vuole offrire assicurazioni di questo tipo. Il settennato presidenziale conta molto di più di palazzo Chigi, per le implicazioni strategiche che ha. Il risultato è che all'incognita sulla via d'uscita dalla crisi del governo si aggiunge quella sul capo dello Stato. Con la prospettiva palpabile di un conflitto istituzionale. Quando il segretario del Pdl, Angelino Alfano, chiede a Bersani di rovesciare la sua impostazione, dà voce a un Berlusconi convinto di essere più forte politicamente; e pronto a passare ad una fase successiva ancora tutta da decifrare e inventare. «La vicenda è chiusa e l'ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato», accusa Alfano. «Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell'interesse del Paese». Sa di aut aut, e tenta di rimandare all'avversario la responsabilità di una rottura. A meno che Napolitano non riesca a indicare un'alternativa all'impotenza dei partiti.

Corriere 28.3.13
Il 70% degli italiani pessimista su Bersani
di Renato Mannheimer


Nessuno sa in questo momento se Bersani riuscirà nel suo intento di creare una coalizione di governo che possa ottenere la fiducia in Parlamento. Al riguardo, si leggono, ancora in queste ore, le opinioni più diverse, da quelle più ottimiste — che ipotizzano, sulla spinta dell'esigenza di dare un governo al nostro Paese, il consenso di vari partiti (o pezzi di partiti) alla proposta del segretario Pd — ai più pessimisti, che vedono nei veti incrociati un ostacolo insormontabile al tentativo di Bersani.
Gli italiani, nella loro larga maggioranza, non sembrano credere nella possibilità che Bersani riesca a raccogliere una maggioranza. Solo il 30 per cento appare in questo senso ottimista, mentre ben il 67 per cento la pensa in modo opposto.
Al solito, le opinioni variano però in relazione all'orientamento politico. Emerge, in particolare, come le valutazioni più negative sulla capacità di Bersani di riuscire nel suo esperimento si manifestino tra l'elettorato dei partiti che più vi si oppongono o ne appaiono esclusi, quali il Movimento 5 Stelle o il Pdl, ove addirittura l'80 per cento ritiene che il segretario del Pd fallirà. Viceversa, la maggioranza degli elettori per la coalizione di centrosinistra risulta più fiduciosa, tanto che il 59 per cento dichiara di prevedere che Bersani ce la farà. Ma è molto significativo rilevare come, anche all'interno della coalizione che appoggia il segretario del Pd, una percentuale di votanti molto consistente (38 per cento) non crede nella riuscita del tentativo in corso. Insomma, per un motivo o per l'altro, gli italiani appaiono pessimisti. Sull'esito dell'esperimento di Bersani, ma anche — lo mostrano molte ricerche in corso — sul futuro del Paese in generale, sia dal punto di vista della crescita economica, sia, al tempo stesso, da quello della sua tenuta sociale.

Corriere 28.3.13
Pietro Ichino
«Missione fallita. Ma che rischio tornare a votare con questa legge»
intervista di Andrea Garibaldi


ROMA — «Come era prevedibile, il tentativo di Bersani è finito in un binario morto». Pensa questo, senza appello, il professor Pietro Ichino, senatore, docente di diritto del lavoro. Fu tra i fondatori del Pd poi, dopo le primarie di dicembre, è stato eletto nella lista Monti.
Nessuna via d'uscita?
«Non ha senso che Bersani dica: se fallisco, si vota a giugno. Votare a giugno non è un'opzione praticabile. Senza una riforma elettorale, i problemi si aggraverebbero. Del resto, gran parte dello stesso Pd è convinto che il voto non sia l'unica alternativa».
Bersani non ha ancora rinunciato al suo tentativo di formare un governo.
«Bersani rifiuta qualsiasi dialogo con il Pdl, ma cerca di formare una maggioranza con brandelli di centrodestra, maggioranza che dipenderebbe interamente dal Pdl, lasciandogli però il ruolo e i benefici dell'opposizione. Che senso ha?».
Bersani vorrebbe anche creare una commissione per le riforme con la più ampia partecipazione.
«È giusto distinguere attività di governo e riforme istituzionali. Ma tutto lascia credere che questa legislatura possa servire solo a fare la riforma elettorale e un pezzetto di riforme costituzionali (abolizione delle Province, riduzione del parlamentari). Quindi tanto vale che sia ampia la maggioranza di governo».
Quindi, se Bersani non ce la fa?
«Il Paese sta correndo gravissimi rischi: l'unica scelta responsabile è riconoscere al Capo dello Stato un ruolo di "arbitro politico" su cosa fare e come farlo».
Un «governo del Presidente»?
«È l'unica possibilità politica oggi praticabile. Affidiamoci tutti alla saggezza di Napolitano. Di tutto c'è bisogno tranne che di un clima da guerra civile».
Dunque un nuovo governo tecnico?
«Non è detto. Si può ipotizzare una soluzione mista, tecnici più politici. E non si può nemmeno escludere che il capo del governo possa essere un politico».
E per il Quirinale?
«Non si devono ripetere gli errori commessi per eleggere i presidenti delle Camere. Va scelta una figura su cui convergano tutte le forze maggiori».
Se Bersani rinuncia, che succede nel Pd?
«Ci sarà una nuova maggioranza nel partito e ciò potrà essere rilevante anche per le sorti della legislatura».

Repubblica 28.3.13
E il governo del presidente scuote il Pd
Renziani e "giovani turchi": se Pierluigi fallisce dovremo ascoltare Napolitano
Nel partito cresce l’irritazione verso i grillini: "Incapaci di prendersi delle responsabilità"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Salta il Pd? Ma no, perché?». Matteo Renzi rassicura. Ma il Pd è una pentola a pressione. La paura del fallimento di Bersani è una spada di Damocle per il centrosinistra. Innescherebbe una reazione a catena e, se il segretario insistesse sulla posizione di chiusura a un "governo del presidente", rischierebbe di passare in minoranza. I bersaniani negano. Maurizio Migliavacca, capo della segreteria, piacentino, colui a cui Bersani affida le patate bollenti anche di queste ultime ore, lancia bordate ai 5Stelle: «Si chiariscano le idee e si assumano le loro responsabilità». Però il "passo B" non lo prende ancora in considerazione, Migliavacca: «Ammesso che accada il peggio, e incrociamo le dita, se il Colle volesse tentare altre strade non maturerebbero in poche ore».
Il Pd avrebbe cioè tutto il tempo per digerirle. Ma allora le tensioni sarebbero vicine al punto di rottura. Il tam tam dei renziani per un "governo del presidente" ha messo solo la sordina. Paolo Gentiloni ha rilanciato più e più volte il "governo istituzionale o a bassa intensità politica", che consentirebbe intese larghe: «Faccio il tifo per Bersani, ma non possiamo tornare al voto con questa legge elettorale e il Pd non potrà che assecondare la decisione del presidente della Repubblica». Matteo Richetti, braccio destro del sindaco "rottamatore", aveva brandito, e poi negato, la possibilità di scissione. Roberto Reggi, "falco" renziano, non ha escluso l´ipotesi che già da subito il presidente Napolitano possa affidare un incarico a Renzi. A parte il gioco a chi la spara più grossa, al giro di boa per la nascita di un governo Bersani e ancora nell´incertezza, c´è una resa dei conti in atto sulla strategia portata avanti fin qui di abbraccio con i 5Stelle. Qualche giorno fa, Renzi aveva detto che l´inutile perdita di tempo dietro ai grillini, rendeva la strada verso il governo «da stretta a strettissima». Mantra renziano di ieri, dopo la performance grillina in streaming, la conferenza stampa, gli insulti di Grillo sul blog e lo spariglio serale su un altro nome per il governo che non sia Bersani. «I 5Stelle così facendo si stanno rivelando dei matti - afferma Pippo Civati, simpatizzante dei grillini - hanno un atteggiamento impolitico, dicono tutto e il suo contrario. Sono disposti ad appoggiare un governo non guidato da Bersani? Parlassero chiaro. Per il Pd è davvero un momento difficile. Su Twitter circola la battuta: "Abbiamo cominciato con Saviano e finiamo con Miccichè"».
A pranzo con i fedelissimi - Enrico Letta, Dario Franceschini, Vasco Errani e Migliavacca - Bersani ha mostrato l´irritazione verso i 5Stelle che «hanno paura di prendersi le responsabilità e di affrontare i temi veri». «Pier Luigi avrebbe dovuto reagire più duramente agli insulti, alle contumelie di Grillo, che si mette sotto i piedi le istituzioni», argomenta su Facebook Donatella Ferranti, cattolicodemocratica, convinta che Bersani sia da sostenere fino all´ultima possibilità, però poi si cambia registro e non si torna alle urne. E persino la "gauche" del Pd, i cosiddetti "giovani turchi", da Orlando a Orfini, hanno una posizione più sfumata. Avevano sempre sostenuto: o Bersani o voto; ora sembrano più possibilisti verso una soluzione del presidente, a patto che non comporti un governissimo. Non così, Stefano Fassina, che precisa: «Bersani ce la farà, però se così non fosse allora, meglio andare al voto e il più rapidamente possibile».

La Stampa 28.3.13
Il Pd non esclude l’appoggio esterno a un governo di scopo
Ma non potrebbe dare certezze sulla durata e già si guarda alle urne con Renzi leader
di Carlo Bertini


«Alfano non è Berlusconi, che forse si riserva un’ultima possibilità domani, certo se sul Quirinale pretendono di fare un accordo su un nome indicato da loro, noi non siamo intenzionati a trattare»: la fotografia che scatta uno dei pochi ad avere voce in capitolo nel Pd dopo Bersani, apre uno squarcio su un panorama molto cupo per un partito che da oggi si potrebbe trovare di fronte a un bivio dilaniante: prendere atto che il suo leader non ce l’ha fatta e decidere se dare o no la fiducia a un governo del Presidente, mischiando i suoi voti a quelli del Pdl. E questo è solo il primo degli scenari che si dispiegano davanti agli occhi dei dirigenti di prima e seconda fascia. Non c’è solo la scelta potenzialmente devastante di fronte agli elettori della sinistra, cioè dare o meno un ok a un altro governo in caso di fallimento del tentativo di Bersani. Ma c’è anche la prospettiva di dover attrezzarsi a un nuovo round elettorale senza aver davanti una precisa risposta su quale sarà stavolta il capocordata: posto che il nome di Renzi è ovviamente il più gettonato.
Stando così le cose e se la notte non porterà consiglio in casa Pdl, in assenza di nuovi segnali è molto probabile infatti che Bersani stasera o domani andrà a riferire l’esito dei suoi colloqui al capo dello Stato, che a quel punto valuterà il da farsi.
Nella war room del Pd ci si interroga su cosa possa succedere, mettendo sul piatto le diverse ipotesi e fioccano gli interrogativi: per un governo tecnico non ci sono le condizioni, «dopo il disastro di oggi e di ieri» e allora chi potrebbe mai dar vita a un governo politico se non ci è riuscito il leader Pd? E quale può essere un nome secco proposto dal capo dello Stato che miracolosamente possa mettere tutti d’accordo? In ogni caso, se fosse messo alle strette davanti ad una prospettiva di un governo di scopo, Bersani sarebbe anche pronto a consentirne la partenza per senso di responsabilità, ma anche chiarendo che quello del Pd sarebbe solo «un appoggio esterno» senza alcuna garanzia di durata, dovrebbe convincere il partito a ingoiare questo cambio di linea. «Se mi trovassi di fronte a un nome diverso dal mio, magari dovrei dargli la fiducia per farlo partire, ma io non mi caricherei della responsabilità di questo percorso e non considererei quello il mio governo», va dicendo il leader nei suoi colloqui privati. Ma le ipotesi che si scandagliano sono molteplici, perfino quelle meno probabili: magari Napolitano si dimette prima del termine del suo mandato e si va al voto. Ritorna attuale financo l’idea che rimanga Monti in carica per queste settimane in attesa che arrivi il nuovo capo dello Stato.
Insomma, una gran confusione, in cui si affaccia il vero nodo: posto che molti sono convinti che «il prossimo voto lo facciamo con Renzi leader», come si potrà arrivare a questo approdo senza far implodere un partito già squassato da tensioni per il timore di prestare il fianco ad accuse di inciucio col Pdl? Basta un tweet di Mentana che svela un’esclamazione della Bindi, «abbiamo cominciato consultando Saviano e finiamo chiedendo i voti a Micciché... », per avere un’idea di quale sia ora il clima nel Pd. Anche i vendoliani sono consapevoli che, se si facesse un accordo con Berlusconi, «per una settimana finiremmo sì sulla graticola, ma dopo le cose varate dal primo consiglio dei ministri, la nostra gente tirerebbe subito il fiato perché son quelle le cose che contano ora», ragiona Gennaro Migliore. «Certo, sarebbe un governo sostenuto da una “maggioranza silenziosa” con il sospetto dell’inciucio che ci esporrebbe al massacro», ammette Pippo Civati. «Comunque anche un governo del Presidente con noi sganciati in una sorta di appoggio esterno avrebbe vita breve», fa notare Franceschini. E tra i falchi attestati sulla linea dura del voto subito, «i turchi», monta la preoccupazione per la prospettiva di doversi piegare alle ragioni della «responsabilità». In ogni caso, la decisione se sostenere un governo del Presidente «per staccare la spina quando ci pare» andrà messa ai voti in una Direzione: che di sicuro sarebbe a dir poco tormentata.

il Fatto 28.3.13
Renzi: assunto, candidato e pensione sicura in 11 giorni
Un posto nell’azienda di famiglia nel 2004, poco prima che l’Ulivo lo lanciasse alla presidenza della Provincia
di Marco Lillo


Matteo Renzi è stato assunto come dirigente dalla società di famiglia, la Chil Srl, undici giorni prima che l’Ulivo lo candidasse a presidente della provincia nel 2004. Ieri abbiamo raccontato che grazie all’assunzione da dirigente (messo in aspettativa dopo l’elezione) da quasi 9 anni i contributi della pensione del dirigente-sindaco sono versati dalla collettività. Oggi si scoprono nuovi particolari sulle manovre che hanno preceduto e seguito l’assunzione. I consiglieri comunali che hanno fatto scoppiare il caso con la loro interrogazione, Francesco Torselli (Fratelli d’Italia) e Marco Semplici (Lista Galli), non sono soddisfatti della risposta del vice-sindaco di Firenze Stefania Saccardi pubblicata ieri dal Fatto. “Oggi presenteremo una nuova interrogazione – annuncia il consigliere Torselli – per sapere a quanto ammonta esattamente la cifra pagata dalla collettività, prima dalla Provincia e ora dal Comune, per la pensione del sindaco”. La risposta alla prima interrogazione spiegava solo che “alla società presso cui risulta dipendente in aspettativa il dottor Renzi sono erogati i contributi previsti all’art. 86 comma 3 del Testo unico sugli enti locali”, senza cifre.
IL COMUNE di Firenze e prima la Provincia, hanno versato alla società di famiglia i contributi previdenziali per Matteo Renzi, nel rispetto del Testo Unico Enti locali che prevede il rimborso dei contributi alla società presso la quale lavora l’amministratore pubblico collocato in aspettativa non retribuita. Quando l’assunzione è molto vicina alla candidatura però sorge il dubbio che sia motivata più dall’ottenimento del rimborso dei contributi che dalla reale necessità dell’azienda di disporre di un dirigente distratto dalla politica. Nicola Zingaretti a Roma è finito nell’occhio del ciclone perché è stato assunto da un Comitato legato al Pd il giorno prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente della Provincia. Ora si scopre che Renzi è stato assunto – non uno ma undici giorni prima dell’annuncio della sua candidatura – dalla società della sua famiglia. Il sindaco è inquadrato dal 27 ottobre 2003 nella Eventi 6 che oggi è intestata alle sorelle Matilde e Benedetta Renzi (36 per cento a testa), alla mamma Laura Bovoli (8 per cento) e al fratello del cognato, Alessandro Conticini, 20 per cento. Come spiega il vice-sindaco Saccardi nella sua risposta all’interrogazione: “Renzi ha avuto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre 2003 presso la Chil srl. Dal 27 ottobre 2003 è stato inquadrato come dirigente”. Ecco la cronologia degli eventi di nove anni fa, ricostruita sulla base dei documenti camerali: il 17 ottobre 2003 il “libero professionista” Matteo Renzi e la sorella Benedetta cedono le quote della Chil Srl ai genitori; il 27 ottobre 2003, dieci giorni dopo avere ceduto il suo 40 per cento, Renzi diventa dirigente della stessa Chil Srl, amministrata dalla mamma; il 7 novembre 2003, solo 11 giorni dopo l’assunzione, l’Ulivo comunica ufficialmente la candidatura del dirigente alla Provincia; il 13 giugno 2004 Renzi viene eletto presidente e di lì a poco la Chil gli concede l’aspettativa. Da allora Provincia e Comune versano alla società di famiglia una somma pari al rimborso dei suoi contributi. Se Renzi non avesse ceduto le sue quote nel 2004, sarebbe stata una società a lui intestata per il 40 per cento a incassare il rimborso: una situazione ancora più imbarazzante di quella attuale, con le quote intestate a sorelle e mamma.
LA CHIL è una società fondata da papà Tiziano che si occupa di distribuzione di giornali e di campagne pubblicitarie. Dal 1999 al 2004 è intestata a Matteo e alla sorella. Poi, come visto, subentrano i genitori. Nel 2006 Tizia-no Renzi vende il suo 50 per cento alle figlie Matilde e Benedetta. Chil arriva a fatturare 7 milioni di euro nel 2007. Poi cambia nome in Chil Post Srl e nell’ottobre del 2010 cede il suo ramo d’azienda a un’altra società creata dalla famiglia: la Eventi 6 Srl. La vecchia Chil, ormai svuotata, finisce a un imprenditore genovese e fallisce. Mentre la Eventi 6 decolla dai 2,7 milioni di fatturato del 2009 ai 4 milioni di euro del 2011. Dopo il suo collocamento in aspettativa, il dirigente Matteo Renzi segue il destino del ramo d’azienda e oggi è collocato nella Eventi 6, di Rignano sull’Arno, sede storica della famiglia.
Le fonti vicine a Renzi precisano: “L’indicazione della candidatura alla Provincia venne anticipata a novembre per sbloccare la candidatura del sindaco Domenici ma era condizionata all’accordo sui sindaci che si chiuse solo ad aprile. L’accostamento ad altre situazioni ben diverse è sbagliato perché Matteo Renzi lavorava davvero in Chil da molti anni”.

il Fatto 28.3.13
La Ue all’Italia: “Giù le mani dai pm”
Il commissario Viviane Reading ammonisce: “Garantire l’indipendenza della magistratura”
di Giampiero Gramaglia


È una brutta stagione, per l’Italia e per la sua immagine internazionale: un governo dimissionario che lava in pubblico i panni sporchi dell’affare dei due marò; un assessore – prontamente “dimissionato” – che fa sfoggio di turpiloquio anti-casta in un’aula del Parlamento europeo; e, ora, una bacchettata sulle dita e un voto pessimo sulla pagella europea alla giustizia italiana.
“GIÙ LE mani”, tuona la “maestra”, la vicepresidente della Commissione europea Viviane Reding, responsabile della giustizia. “Se vogliamo un sistema giudiziario indipendente – dice –, dobbiamo lasciare lavorare i magistrati in modo indipendente”. Che si riferisca all’Italia non c’è dubbio: risponde a una domanda sullo scontro in atto da noi tra politica e magistratura. La Reding, una bella signora lussemburghese, ha una lingua che ti taglia i panni addosso ed è l’elemento più esperto dell’esecutivo comunitario, l’unica al terzo mandato: una che non ha paura di dire come la pensa, capace di litigare da pari a pari con il presidente francese Nicolas Sarkozy. L’occasione della frecciata all’Italia è la presentazione del primo rapporto Ue sui sistemi giudiziari dei Paesi dell’Unione: l’Italia è terz’ultima nella classifica della lunghezza dei processi, seguita solo da Cipro e Malta; ed è anche il Paese dei 27 con il maggior numero di cause civili e commerciali pendenti ogni 100 abitanti, sette, il doppio del Portogallo che la precede. Per quanto riguarda la percezione dell’indipendenza dei magistrati, torniamo siamo al fondo della graduatoria europea, in diciannovesima posizione.
Che cosa l’Europa pensasse della giustizia italiana, lo si era già capito dalle sentenze con cui, ripetutamente, la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ci condanna per la lunghezza dei processi o per la disumanità del sistema carcerario: ogni verdetto, un colpo all’immagine e pure un salasso alle casse tra multe e indennizzi. La durata dei procedimenti è uno dei criteri individuati dall’esecutivo comunitario per valutare l’efficienza dei sistemi giudiziari dei Paesi Ue. In Italia, per risolvere le cause civili e commerciali, ci vuole un tempo medio di 500 giorni. L’inefficienza della macchina giudiziaria, ha osservato la Reding, “ha un impatto molto negativo sugli investimenti, che non possono aspettare e che devono avere la certezza della legalità”.
PROPRIO per questo – ha aggiunto la vicepresidente – la Commissione lavora “a stretto contatto con il governo e con il ministro della Giustizia” Paola Severino, che sono “consapevoli del problema”. La speranza è che lo sia pure il prossimo Esecutivo. A sottolineare l’importanza dell’autonomia dei giudici, oltre alla Reding, è stato anche Olli Rehn, altro vicepresidente della Commissione, responsabile degli affari finanziari. Per Rehn, finlandese, “un sistema giudiziario di qualità, indipendente ed efficiente, è essenziale per garantire un ambiente favorevole allo sviluppo imprenditoriale”.

l’Unità 28.3.13
Muore il Museo della mente
L’ex ospedale psichiatrico a rischio chiusura
L’appello del direttore a Zingaretti: «Troviamo una soluzione per consolidare la struttura considerata fra le più innovative e originali d’Italia»
di Luciana Cimino


SONO PASSATI SOLO 13 ANNI DALLA CHIUSURA DEL SANTA MARIA DELLA PIETÀ, IL MANICOMIO DI ROMA. Nonostante la difficile applicazione della legge 180, quello che era il luogo dell’angoscia e dello stigma sociale è oggi diventato un complesso aperto al pubblico. O almeno lo era nelle intenzioni delle amministratori dell'epoca.
Oggi tutto il carico di avanguardia nella cura della disabilità mentale rappresentato dall’ex ospedale psichiatrico rischia di disperdersi per l’inerzia pubblica. Tanti i progetti previsti per l’intero plesso (casa dello studente, polo culturale, ostello), tutti rimasti sulla carta, tranne il Museo della Mente, nato nel 2000 in una ala dell’edificio. All’inizio «pioneristicamente», racconta oggi Pompeo Martelli, direttore, oggi invece il Museo è una realtà riconosciuta in tutto il mondo, studiata in Europa, unica nel suo genere in Italia. Eppure rischia di chiudere. Il Museo dipende dalla Asl Roma E, quindi dal sistema sanitario regionale. In un contesto di tagli estremi come quelli avvenuti sotto il commissariamento Polverini, alla Asl di riferimento rimane ben poco per questa attività. Anzi nulla.
La manutenzione delle installazioni (realizzate da Studio Azzurro dopo il cospicuo finanziamento del 2008 stanziato dalla Giunta Marrazzo) e degli spazi deriva dagli introiti degli ingressi, 5 euro a biglietto, mentre «con un fund raising a 360 gradi abbiamo comprato nuove strutture». Ma i soldi per pagare il personale non ci sono più. A giugno scadranno i contratti precari dei tre operatori, sono antropologi, archivisti (il Museo contiene il più grande archivio storico di psichiatria del Paese) esperti nella salute mentale in una prospettiva sociale. Il soldi per rinnovare i contratti non ci sono. «La Asl in realtà ha già interrotto le collaborazioni da due anni, le abbiamo rinnovate fino a ora con il contributo di privati». In pratica in una struttura completamente pubblica il lavoro dei dipendenti è assicurato dal finanziamento dei cittadini. «Ma è paradossale, il contributo dei cittadini dovrebbe essere utilizzato per operazioni che hanno una ricaduta pubblica, mostre, installazioni». Al momento il Museo della Mente è aperto part time. Cioè non è aperto nel fine settimana «i giorni a più alta densità di affluenti di visitatori», lamenta Martelli. Un funzionamento non consono al livello di interesse che produce: già eletto negli anni scorsi «Museo più innovativo e originale d’Italia», l’ex Santa Maria della Pietà è visitata da 35 mila persona l'anno: scolaresche da tutta Italia, ricercatori stranieri, operatori. «È un vero museo di narrazione – spiega il direttore modernissimo e unico nel suo genere per il tema che tratta: la diversità, dando voce a chi non ce l’ha, pazienti, malati, familiari». La ricaduta sul territorio è preziosissima, «rafforziamo le competenze dei cittadini che dopo la visita tornano nella comunità sostenendo la funzione dei centri di salute mentale, combattendo lo stigma, fa capire alle persone come è nata l’esclusione sociale e quali sono invece i modelli di inclusione dei disabili mentali, è una testimonianza storica del manicomio ma anche continua proposizione». Altre esperienze del genere stanno nascendo in altre città. «Non si può continuare a mettere pezze». A gennaio il consiglio comunale di Roma ha approvato all'unanimità una mozione del Pd che, riconoscendo l’eccellenza del polo del Santa Maria della Pietà, impegna il sindaco Alemanno a intervenire. Da parte del primo cittadino però «non è arrivato nessun segnale».
Nel 2012 la situazione allarmante del Museo fu presentata alla Regione Lazio ma anche «da Renata Polverini nessuna risposta». Ora il direttore Martelli ha deciso di rivolgere un appello al nuovo governatore Nicola Zingaretti. «Auspico un tavolo con una sinergia istituzionale che trovi una soluzione per consolidare la struttura e per svilupparla nel tempo». A pieno regime, quindi con un punto ristoro, una libreria e l’apertura 7 giorni su 7, il Museo potrebbe costituire «una vera impresa sociale, assumendo più di 20 persone tra cui disabili psichici». «Nessuno ci ha ascoltato fino a oggi, vogliamo uscire dall’emergenza, le istituzioni si assumano la responsabilità».

Corriere 28.3.13
L'anima secondo Tommaso
di Armando Torno


Opera di un Tommaso d'Aquino ormai maturo — venne scritta tra il 1268 e il 1270 — la «Sententia de anima» è una ricerca ricca di rimandi e di scavi. O meglio, queste pagine di Tommaso sul «De anima» di Aristotele altro non rappresentano che un'odissea in una selva di specchi nella quale si desidera ghermire, tra l'altro, la conoscenza della sostanza dell'anima e dei suoi accidenti, oppure esporne la natura attraverso le teorie dei vari filosofi (e secondo verità). Il dottore medievale si sofferma sui movimenti, sui dubbi che essa possa essere in qualche luogo, sulla sua felicità e in che cosa essa consista. I sei studiosi del «Progetto Tommaso» ci restituiscono Lo specchio dell'anima (San Paolo, pp. 1224, 69) con una introduzione ricca di informazioni, note e lessico, oltre che testo latino a fronte e traduzione italiana. Un'opera che è uno sguardo, appunto, in uno specchio. Dentro e oltre di esso, con i rischi e i possibili incontri, l'anima rivede se stessa. Mentre è inseguita dalle forti idee di Aristotele e dello stesso Tommaso.

Corriere 28.3.13
il Classico

Con il titolo La rivoluzione italiana (1918-1925) Pietro Polito ha raccolto per le Edizioni dell'Asino (pagine 255, 15) una serie di articoli di Piero Gobetti, nei quali si rispecchia la parabola politica del giovane editore torinese, nato nel 1901 e scomparso nel 1926, che fu una delle voci più lucide e intransigenti della cultura antifascista.

Repubblica 28.3.13
L'arte perduta di illuminarci attraverso i libri
Lina Bolzoni, grande studiosa del Rinascimento, racconta l’attualità della mnemotecnica
Da Giordano Bruno che interrogava l’Ariosto come se fosse l’I Ching a Petrarca che usava la "mente vuota"
"Le stanze della memoria dilatavano le capacità della mente: sarebbero utili per gestire la quantità sterminata di dati di oggi"
di Benedetta Craveri


In un giorno imprecisato tra il 1565 e il 1566, mentre è novizio dei domenicani a Napoli, Giordano Bruno si trova a giocare con alcuni amici al gioco delle "sorti", che consiste nello scegliere a caso dei versi e associarli, sempre a caso, al nome di uno dei partecipanti. Il libro scelto è l´Orlando furioso e il verso toccato in sorte a Bruno è quello riferito a Rodomonte, «d´ogni legge nimico e d´ogni fede». Il grande pensatore eretico vi vedrà la prefigurazione del proprio destino e, da quel momento in avanti, non cesserà di interrogare il poema dell´Ariosto fino al rogo di Campo de´ Fiori che, il primo gennaio del 1600, concluderà la sua drammatica esistenza. Giordano Bruno che legge l´Ariosto è uno dei saggi che figurano ne Il lettore creativo. Percorsi cinquecenteschi fra memoria, gioco, scrittura di Lina Bolzoni (Guida Editore, pagg. 379, euro 25) e che illustra in modo esemplare il complesso e affascinante intreccio tra scrittura e arti figurative, fra pensiero e memoria, fra imitazione e invenzione, fra esoterismo e gioco di cui la studiosa è maestra. E l´immagine del Rinascimento che ne emerge è di sorprendente attualità. Ma che cosa intende l´autrice con "lettore creativo"?
«Il "lettore creativo" indica, ben prima dell´ermeneutica, la consapevolezza antica che un´opera vive anche attraverso i suoi lettori, in un dialogo che può avere anche risultati inaspettati. Cambia nel tempo quello che un´opera ci dice, e per certi aspetti cambia l´opera stessa gli occhi del suo autore: lo diceva Tasso quando, sollecitato dai censori, rileggeva la Gerusalemme Liberata».
Anche Petrarca, come lei sottolinea, è esplicito nel chiedere ai suoi lettori di rivivere in piena consapevolezza il suo processo creativo. Ma come?
«Petrarca chiede al suo lettore un´etica basata sul rispetto del testo e sul vuoto mentale (non devi pensare alla notte passata con l´amante, ai problemi di soldi). Dopo di che il testo può influire sulla mente di chi lo legge (o di chi lo ascolta) con la forza della sua qualità, creare un vincolo magico, come diceva Giordano Bruno. È interessante che anche nel Rinascimento ci sia una corrente che punta più sulla struttura del testo che sulla sua capacità di dialogo. Giulio Camillo, il famoso autore del teatro della memoria, costruiva delle macchine retoriche che dovevano strappare ai testi classici i segreti della loro bellezza».
Un tema ricorrente in questi suoi saggi è la forza magica del testo, com´è il caso di Bruno che interroga l´Orlando furioso come si potrebbe fare con gli I Ching.
«È affascinante pensare che in un convento domenicano si interrogasse l´Ariosto, non la Bibbia. È un uso per noi straniante, ma di grande fascino del testo poetico, che così penetra nella vita individuale, delinea un destino. Lo si fa tuttora in Iran, con la grande poesia d´amore».
Un grande "mito" della civiltà umanistica, da Petrarca a Machiavelli a Montaigne, è quello del dialogo, lei lo definisce "negromantico", con i grandi scrittori del passato. In che cosa consiste?
«Petrarca ha un ruolo decisivo in questa vicenda. Certo, molti spunti ci sono già nei classici: ad esempio nelle Lettere a Lucilio di Seneca troviamo straordinari consigli di etica della lettura, su come leggere per controllare le passioni e affrontare il terrore della morte. Nel Medioevo c´è una ricca tradizione che unisce la lettura con la meditazione e l´arte della memoria. Quel che cambia è che Petrarca dialoga alla pari con i grandi autori classici».
Imitazione, invenzione, creazione: tre termini che si intersecano continuamente nel suo libro...
«Quella che ho ripercorso è una vicenda in cui scrivere significa imitare, in cui il nuovo nasce da un dialogo con l´antico, in cui ci si sente per molti versi in esilio nel proprio tempo e si cercano altrove gli interlocutori che permettano la rinascita».
Nel suo saggio La stanza della memoria lei ha ricostruito la centralità dell´arte della memoria nel Rinascimento. Ma oggi, in tempi di memoria artificiale, qual è la sua importanza?
«Italo Calvino diceva che è un peccato che a scuola non si studino più a memoria le poesie, e io sono d´accordo con lui. Nel senso che è importante coltivare la memoria, costruirsi appunto un tesoro personale, che arricchisce la nostra immaginazione e anche ci conforta. Questa in fondo è stata, nelle sue componenti più interessanti, l´arte della memoria: un esercizio che dilatava le capacità della mente, e univa insieme memoria e invenzione. C´era anche una componente più meccanica e ripetitiva, una "memoria artificiale" che in un certo senso anticipa la nostra esperienza. Del resto l´arte della memoria vive e si trasforma in relazione con le grandi rivoluzioni tecnologiche (dalla scrittura al manoscritto alla stampa). Oggi direi che il problema è proprio il controllo personale su questo sterminato magazzino di memoria che ci viene proposto: riuscire a interrogarlo senza farci dominare».
In che misura la "Repubblica delle lettere", quella comunità intellettuale basata sulla ricerca condivisa del buono, del bello e del vero in cui gli umanisti si riconoscono al di là delle differenze religiose e politiche, si pensava europea? E cosa è stato del loro insegnamento?
«Erasmo pensava a una "Repubblica delle lettere" che andava al di là dei singoli paesi e si arrabbiava con il nazionalismo arrogante dei ciceroniani romani, che non volevano riconoscere quanto di nuovo era maturato al di là dei loro confini. Voglio dire che costruire una comunità europea non è mai stato facile. Oggi credo che possiamo valorizzare le nuove esperienze dei giovani, che per piacere o per necessità si muovono con disinvoltura nel mondo. Credo che ci sia un patrimonio enorme da riscoprire e da valorizzare, per costruire un´Europa non del tutto assoggettata alla logica della finanza internazionale».
Sono sempre meno gli studenti che si riconoscono nei valori della cultura umanistica. Qual è la sua esperienza di docente di Letteratura italiana della Scuola Normale Superiore?
«Credo che molto si giochi nelle scuole medie, inferiori e superiori: quando facciamo i colloqui per l´ammissione degli studenti vediamo subito se hanno avuto dei bravi insegnanti. Certo, oggi trasmettere gli strumenti per apprezzare i nostri classici, e insieme per capire come il canone si rinnova, è una sfida difficile. Difficile ma non impossibile».

Repubblica 28.3.13
"In Treatment", sul lettino dello psicanalista Castellitto
Dal 1° aprile su Sky la serie diretta da Saverio Costanzo
di Leandro Palestrini


ROMA «E’ stato il trionfo del piano d´ascolto: la cosa più difficile per un attore». Sergio Castellitto non ha il volto malinconico di Gabriel Byrne, che ha portato al successo la serie tv Usa In Treatment (sulla cable tv Hbo), ma dice di essersi «divertito» sulla poltrona del dottor Mari, psicoterapeuta della versione italiana firmata da Saverio Costanzo, in onda su Sky Cinema 1 dal primo aprile alle 20.30 (per 7 settimane in 35 episodi). Ogni giorno della settimana il dr. Castellitto riceve un paziente diverso nella sua «stanza confessionale: sono cinque storie per cinque segreti». Il lunedì c´è l´anestesista Sara (Kasia Smutniak) segretamente innamorata dell´analista. Il martedì Dario, carabiniere straziato dai sensi di colpa (Guido Caprino). Il mercoledì Alice, giovane ballerina dai dolorosi segreti (Irene Casagrande). Il giovedì ci sono Pietro e Lea, una coppia in crisi (Adriano Giannini e Barbora Bobulova). La terapia stressa anche il terapeuta che la fa. Il venerdì il dr. Mari deve ricorrere a una collega e amica (Licia Maglietta) per risolvere la sua «ridicola crisi di mezza età».
Saverio Costanzo va fiero del cast. «Attori di altissimo livello. Abbiamo girato lunghi ciak ininterrotti di 25 minuti consecutivi. Servivano attori che avessero consapevolezza del loro corpo, della voce, della scena». Gli attori confessano dei retroscena. «Avevo paura di andare sul set. Paura di non saper ricostruire emozioni che si erano già scatenate durante le prove», racconta Barbora Bobulova. «Un´esperienza teatrale. È stato terrificante scoprire i propri limiti», dice con autoironia Kasia Smutniak. Aggiungendo: «In Treatment rappresenta l´intimità, la sessualità, anche cose imbarazzanti. Ma così mette a nudo le persone». Adriano Giannini concorda: «Di fatto sono sette pièce teatrali. Un giorno per puntata. Scene ripetute. Tre macchine da presa sui primi piani». Lontane per lavoro, salutano a distanza le attrici Licia Maglietta, Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi.
Hagai Levi, l´ideatore dello psico-serial israeliano Be Tipul alla base della serie americana, fa i complimenti: «È un capolavoro. Il più importante adattamento mai fatto della mia serie, che scava sui traumi delle persone e di una nazione». Molto grati regista, cast e sceneggiatori: Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Ilaria Bernardini, Giacomo Durzi, Nicola Lusuardi. Il vicepresidente Cinema e Intrattenimento di Sky, Andrea Scrosati, sottolinea la qualità: «In Treatment non è un prodotto che mira a fare ascolti, ma serve a proporre ai nostri abbonati qualcosa che non avrebbero avuto senza Sky». Per il produttore Lorenzo Mieli (Wildside) si tratta di «una serie rivoluzionaria: per l´argomento trattato e la struttura narrativa». Tra 9 mesi si vedrà in chiaro su La 7, come conferma il direttore Paolo Ruffini: «Il pubblico di Sky e quello di La7 hanno tante cose in comune». Le prossime fiction targate Sky: I delitti del BarLume (dai romanzi di Marco Malvaldi), 1992 con Stefano Accorsi (su Tangentopoli), Gomorra (da Roberto Saviano) e un Diabolik.