venerdì 29 marzo 2013

l’Unità 29.3.13
La partita di Bersani: no a condizioni inaccettabili
L’incaricato definisce «non risolutivo» l’esito delle sue consultazioni, tra le «preclusioni» di Grillo e le richieste irricevibili del Pdl
Il tentativo va ai tempi supplementari
di Simone Collini


Le «preclusioni» di Beppe Grillo, le «condizioni inaccettabili» poste da Silvio Berlusconi. Pier Luigi Bersani sale al Quirinale e di fronte a Giorgio Napolitano spiega perché gli incontri che ha avuto in questi giorni con i gruppi parlamentari «non hanno portato a un esito risolutivo». Spiega il leader del Pd al termine di un’ora e un quarto di colloquio con il Capo dello Stato: «Ho riferito al presidente Napolitano l’esito del lavoro e delle consultazioni svolte in questi giorni, che non hanno portato a un esito risolutivo. Ho illustrato gli elementi positivi raccolti intorno alle proposte di natura istituzionale, insieme alle difficoltà venute da preclusioni o da condizioni non accettabili. Il presidente ha ritenuto di condurre direttamente e personalmente dei suoi accertamenti».
Dunque nuove consultazioni al Quirinale cominciano questa mattina con il Pdl, proseguono questo pomeriggio con Movimento 5 Stelle e Scelta civica per poi chiudersi in serata con l’arrivo al Colle della delegazione del Pd. Ci saranno i capigruppo di Camera e Senato Roberto Speranza e Luigi Zanda ma non Bersani, che formalmente è ancora il presidente incaricato. Il timing deciso dal Presidente della Repubblica è tutt’altro che casuale ed è una conferma del fatto che il leader Pd, nonostante non sia riuscito a dimostrare «l’esistenza di un sostegno parlamentare certo tale da consentire la formazione di un governo», non ha rinunciato all’incarico che gli era stato affidato esattamente una settimana fa.
Come emerge nel corso dell’incontro al Colle è lo stesso Napolitano che ora vuole capire se sia vero che Berlusconi (che salirà al Colle portando con sé la Lega) abbia condizionato il via libera del Pdl al governo Bersani all’assicurazione che il prossimo Capo dello Stato sia un uomo scelto dal centrodestra. Ed è lo stesso Napolitano che ora vuole ascoltare dai Cinquestelle (dovrebbe tornare al Quirinale Beppe Grillo, che ieri ha lasciato la villa di Marina di Bibbona mandando fuori il custode incappucciato per depistare i giornalisti e sgattaiolare via dal retro) quali siano le preclusioni personali poste su Bersani. Dopodiché, ascoltati anche i montiani, ci sarà l’incontro conclusivo col Pd e il Presidente della Repubblica tirerà le fila.
ROAD MAP DECISA INSIEME
Una road map decisa nel corso del colloquio al Colle e che, stando a quanto detto, si dovrebbe concludere in tempi rapidi. Napolitano per domani darà un incarico o procederà direttamente a una nomina. Tra le ipotesi in campo c’è infatti ancora un governo a guida Bersani (se di fronte a Napolitano dovessero cadere le «preclusioni» e «condizioni inaccettabili» riferite dal leader Pd) e un cosiddetto governo del presidente. In entrambi i casi si porrebbe però la questione: sostenuto da quali forze parlamentari?
Bersani, che in serata lascia il Quirinale soddisfatto per come è andato l’incontro, a Napolitano presenta la «valutazione conclusiva, fatta di numeri e anche di valutazioni politiche». Il segretario del Pd sottolinea cioè le difficoltà a cui si andrebbe incontro nel caso si volesse perseguire
nuovamente la strada di un governo tecnico, sostenuto da forze tra loro eterogenee come Pd e Pdl. Il leader della coalizione che ha la maggioranza assoluta alla Camera e la maggioranza relativa al Senato, è inoltre il ragionamento di Bersani, avrebbe certamente più chance di trovare i voti in Parlamento di una personalità che non è stata eletta.
E poi ci sarebbe da tener conto della contrarietà a sostenere un esecutivo insieme al Pdl già espressa non soltanto dal partito di Nichi Vendola ma anche da una larga fetta del Pd (insieme contano 345 deputati e 123 senatori). Dice il capogruppo di Sel Gennaro Migliore dopo aver parlato con Bersani in serata: «Con rispetto per il Quirinale riteniamo sia possibile andare ancora a verificare il consenso nelle Aule rispetto alla nostra proposta».
Il leader del Pd si rimetterà a quanto deciso da Napolitano al termine di questo ulteriore giro di consultazioni, ma tra i democratici c’è già chi parla di una minore corresponsabilità nel caso si andasse verso la soluzione del governo del presidente. È vero che una parte del partito è favorevole a questo scenario, ma molti parlamentari del Pd non sono affatto disposti a sostenere un nuovo esecutivo insieme al Pdl così come si è fatto per un anno e mezzo con il governo Monti.
LA PARTITA DEL QUIRINALE
Il rischio che un eventuale governo del presidente sia in balia di turbolenze parlamentari e che possa avere vita breve viene insomma messo in conto, quale che sia il profilo delle personalità che ne farebbero parte. E poi anche sul fronte Quirinale, spiegano
diversi parlamentari democratici, le tensioni non mancherebbero. Nella seconda metà di aprile cominceranno le votazioni per eleggere il successore di Napolitano. L’offerta fatta da Bersani al Pdl di sceglierlo puntando alla massima condivisione possibile finora è stata rispedita al mittente, con la controproposta di lasciare al centrodestra la scelta del prossimo Capo dello Stato. Come condizione, appunto, per far partire il governo Bersani. Scambio rifiutato dal Pd. Se entro oggi le posizioni in campo non dovessero mutare, il centrosinistra è pronto a scegliere insieme ai Cinquestelle il prossimo Presidente della Repubblica.
Sta a Berlusconi decidere, è il messaggio che ancora ieri sera arrivava dal Pd. Se quel passaggio verrà caratterizzato da un clima di scontro tra i poli e di forti tensioni, anche un governo composto da personalità dall’indubbia competenza e credibilità sarebbe esposto a forti rischi.

La Stampa 29.3.13
È mancata la pistola fumante
Il cruccio del segretario: non aver potuto usare l’asso
Senza la minaccia di scioglimento delle Camere, la strategia era quasi spuntata
Vista l’impossibilità di sciogliere le Camere, la sua posizione s’è indebolita
di Federico Geremicca


La cravatta di traverso, la giacca sbottonata, la faccia un po’ sgualcita. Quando poco dopo le sette della sera Pier Luigi Bersani si è affacciato alla tribunetta del Quirinale, il cosiddetto «linguaggio del corpo» non lasciava presagire nulla di buono.
E invece il leader Pd - il suo tentativo, anzi - barcolla ma è ancora in piedi: e solo stasera, in questo Venerdì di Passione, se ne conoscerà la sorte ultima e definitiva. I margini, onestamente, sono esigui, sempre più stretti: ma se c’è una cosa che può esser data per certa, è che Bersani non arretra, non rinuncia e non si arrende. E dopo il colloquio di oltre un’ora col Capo dello Stato, s’è lasciato andare ad uno sfogo intorno alle ragioni che hanno minato (e forse addirittura già affondato) il suo tentativo di fare un governo: «Sarebbe stato tutto diverso con un Presidente nella pienezza dei suoi poteri - ha ripetuto ai suoi -. Avessimo avuto un Capo dello Stato in condizione di sciogliere il Parlamento, certo non avrebbero menato il can per l’aia trovando pretesti di ogni tipo».
Corrucciato. Preoccupato. E soprattutto molto deluso: «Siamo arrivati vicinissimi all’obiettivo. Mancava, anzi manca, solo un passo - ha insistito con i suoi - ora vediamo se Napolitano ci aiuta a farlo. Ma al Presidente ho dovuto per onestà dire che, se io fallissi, sul dopo bisognerà ragionare con attenzione, senza dare nulla per scontato: il Pd non è disposto a sostenere qualunque governo, ed è vincolato ai deliberati della sua Direzione».
Fonti del Quirinale negano qualunque contrasto nel colloquio tra Napolitano e Bersani: «Del resto - spiegano - il segretario del Pd è venuto a resocontare circa lo stallo determinatosi, rimettendosi alle valutazioni del Presidente: non ha chiesto altro tempo, non ha sollecitato voti in Parlamento, non ha alzato barricate sul dopo, in caso di fallimento». In cambio, se si può dir così, il Capo dello Stato vedrà - con consultazioni brevissime - se è possibile rimuovere quello che, a detta di Bersani, appare l’ostacolo maggiore incontrato: e cioè le garanzie che Berlusconi solleciterebbe circa il nome del futuro presidente della Repubblica.
Si tratta, in tutta evidenza, di una questione della massima delicatezza. Si immagina, però, che un tale problema possa certo esser posto ad un presidente del Consiglio preincaricato: ma assai più difficilmente ad un Capo dello Stato in carica. Berlusconi potrà naturalmente porre la questione in altro modo: e dire, per esempio, che il Pd ha già eletto i presidenti di Camera e Senato, pare voglia eleggersi quello della Repubblica e dunque non può pretendere anche Palazzo Chigi. Ma è appunto questo quel che Napolitano intende capire: e cioè, se con un nome diverso da quello del segretario del Pd, Berlusconi e la Lega sono davvero pronti - come ripetono da giorni - a far nascere un governo o se invece il loro “piano a” non siano, in realtà, le elezioni anticipate.
Napolitano al lavoro, dunque, per provare ad evitare - se possibile - il naufragio del tentativo-Bersani. Al leader Pd, dunque, non resta che attendere: ma si tratta di un’attesa per nient’affatto rassegnata: «Chiunque dovesse venire dopo di me, compreso Saccomanni assicurava in serata il segretario dei democratici - dovrà prima di tutto conquistare i voti dei 480 parlamentari della nostra coalizione: voti che io ho già. E non ci vengano a proporre governissimi, magari mascherati dietro un altro nome, perché lì il mio no è già scritto. C’è mezzo Pd che non voterà mai per una sorta di riedizione del governo Monti e che non vuole rompere la coalizione con Sel, visto che Vendola per quella via non ci seguirebbe... ».
Appeso a un filo, insomma. E, come si dice da giorni, completamente nelle mani di Berlusconi. «Magari - annotava a fine giornata Bersani - ci ripensa e capisce che un “governo del Presidente” rischia di essere un pasticcio anche per lui». Lo diceva con la solita voce profonda: ma sembrava più un auspicio, stavolta, che una possibilità concreta, sulla quale puntare il famoso cent...

La Stampa 29.3.13
Si consuma un incontro senza ultimatum
Il faccia a fccia al Quirinale
Così è nata la soluzione “congelamento”
La richiesta dal Pd: no a fotocopie sbiadite di Monti
di Antonella Rampino


Un lungo incontro pacato, a ragionare di un vulcano in ebollizione e di rapporti politici che non sboccano in nuovo governo, quello di ieri sera tra il Presidente e il Segretario, che è ancora premier incaricato, ma congelato. Adesso tutti parleranno del venerdì di passione di Napolitano, impegnato attorno alla necessaria formazione del nuovo governo di cui l’Italia ha bisogno, e della via crucis di Bersani, da ieri presidente del consiglio incaricato e congelato. Ma è stato un lungo colloquio politico, attorno alla complessità della più ardua impresa di tutta la storia repubblicana, quello tra il Presidente e il Segretario, perfettamente consapevoli entrambi della gravità del momento. Un’ora e un quarto di faccia-afaccia, soli nello studio alla Vetrata, il luogo dove abitualmente lavora il presidente della Repubblica, e fuori l’Italia (e un bel pezzo di mondo occidentale) in attesa. Presente solo il segretario generale Donato Marra, che poi pronuncerà pubblicamente la formula di rito, l’esito delle consultazioni di Bersani «non è stato risolutivo».
Alla fine, Bersani resta in pista e Napolitano inizierà stamattina alle 11 un giro di consultazioni rapido che parte proprio dai nodi che gli incontri tenuti dal segretario Pd non hanno potuto sciogliere. Il Segretario ha riportato per filo e per segno al Presidente i passi in avanti, e gli irrigidimenti, delle sue formalissime consultazioni. Il nodo non sono solo le «preclusioni» dei grillini, quanto i «condizionamenti» del Pdl. Che aveva preso in serissima considerazione -riferisce Bersani- la linea disegnata dal Presidente e suggerita come possibile soluzione politica al Segretario di offrire al centrodestra di partecipare, anche presiedendo la famosa «Convenzione», alle riforme di cui il Paese ha bisogno, condividendo dunque con il Pd anche l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, e dando una «non sfiducia» al governo Bersani. Sembravano aver accettato, ha spiegato il Segretario, ma poi che c’è stato nei contatti successivi un non atteso irrigidimento sulla linea «o Gianni Letta al Colle, o niente».
È da lì che ripartirà oggi Napolitano, e non a caso le agenzie -mentre Bersani parlava davanti ai giornalisti al Quirinale- già battevano la notizia: Berlusconi in viaggio verso Roma. Si spera, in queste ore concitate al Colle, che l’ex presidente del Consiglio prenda in seria e responsabile considerazione quello che Napolitano intende prospettargli: un metodo per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica simile a quello che portò al Colle Cossiga prima, e poi anche Ciampi. Si spera di sciogliere un nodo al momento intricatissimo, e che vedrebbe la nascita del governo Bersani e del parallelo tavolo delle riforme: quello di cui il Paese ha bisogno.
Né il Presidente né il Segretario hanno parlato di un sottinteso: è possibile che per portare avanti il tentativo, il nome del presidente del Consiglio con mandato pieno non sia più quello di Bersani. Il Segretario è consapevole del rischio. Perché al Presidente ha detto che tuttavia il Pd, titolare della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e della maggioranza relativa al Senato, non aderirà a tentativi di governi del presidente, governi di scopo, o governi-ponte che portino l’Italia al voto il prossimo autunno. «Non sono possibili fotocopie sbiadite del governo Monti, un incarico a una personalità di garanzia quale potrebbe essere quella del direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni non regge, specie dopo che il Pdl ha impallinato in quel modo il governo tecnico dopo le dimissioni in Parlamento di Terzi sul caso marò», è stata la sostanza del (lungo) ragionamento di Bersani. Napolitano pare che annuisse: quel passaggio politico è stato il peggiore di tutta la legislatura, e ha segnato la vicenda e il destino di Monti. Che potrebbe tuttavia dover restare al proprio posto, pur non avendo più forza e autorevolezza (avendo anche perduto il responsabile della politica estera) proprio perché non solo il Pd non voterebbe un nuovo esperimento tecnico, o di scopo, o istituzionale: non lo voterebbe neanche il Pdl. Sul sentiero strettissimo della formazione del nuovo governo, il Presidente e il Segretario hanno incrociato e condiviso comuni preoccupazioni. Si vedrà stasera alle 18 se si saranno sciolte.

La Stampa 29.3.13
Bersani spera ancora ma il partito si prepara a un cambio di passo
Il segretario confida nella moral suasion del Capo dello Stato sui gruppi moderati
di Carlo Bertini


«Ora il problema vero è che se non sortirà effetti la moral suasion di Napolitano e Bersani si dovesse fare da parte, subito dopo si aprirebbe la resa dei conti nel partito», ragiona uno dei pochi dirigenti della ristretta cerchia dei «lealisti» non di stretta osservanza bersaniana. E la considerazione - a sentire le varie anime di destra, sinistra e centro del Pd - è unanime. Nel caso Bersani non dovesse proseguire il percorso, il Pd dovrebbe per forza di cose riunire gli organismi dirigenti, in primis una Direzione subito dopo Pasqua, per votare un eventuale cambio di linea, cioé il via libera o meno ad un «governo del presidente». E in un partito già oggi squassato da fortissime tensioni sotterranee, questo vorrebbe dire il rischio di una lacerazione potenzialmente devastante e alla luce del sole: perché un minuto dopo il fallimento di Bersani verrebbero allo scoperto tutti quelli che finora sono rimasti silenti per non essere accusati di sabotaggio; quelli disposti ad avallare un esecutivo se pure di scopo, se pure a tempo, se pure condizionato a precise riforme da fare, ma che veda il Pd votare una fiducia insieme al Pdl.
I bersaniani sperano che «Napolitano riesca a sminare le condizioni inaccettabili poste da Berlusconi» e cioé quella pregiudiziale sul Quirinale che sta bloccando tutto, ma nel Pd sono in pochi a crederlo possibile. E se è vero che il segretario fino a ieri faceva pure sapere di esser disposto a votare una fiducia ad un esecutivo simile, ma con un appoggio esterno e senza nessuna garanzia di durata, pronto a staccargli la spina in qualunque momento non appena sarà nominato un nuovo capo dello Stato, nel partito si può aprire una faglia letale.
E anche se è un problema ancora di là da venire, «visto che ora l’incarico di Bersani è congelato e Napolitano valuterà se ci sono le condizioni per sbloccare la partita, in caso negativo se ne parlerà da martedì in poi», prevede uno dei pochi big che ha visto Bersani subito dopo l’incontro al Quirinale. Le truppe sono già pronte a scendere in campo, raccontano che i dalemiani siano i più irritati per la linea seguita fin qui dal segretario e anche se nel caso di una conta le carte interne alle correnti si mescolerebbero, tra quelli disposti a votare un governo del presidente si possono iscrivere anche renziani, veltroniani, lettiani, franceschiniani, mentre i «giovani turchi» si metterebbero di traverso.
«Per noi - spiega uno dei leader dei «turchi» Matteo Orfini - l’unica altra ipotesi possibile è che con un altro nome al posto di Bersani si verifichi se sia possibile un’altra maggioranza che comunque dovrebbe comprendere anche i 5 stelle. In quel caso, noi voteremo, ma i grillini questa cosa non l’hanno mai detta. Viceversa, per decidere di cambiare linea dovremmo contarci in Direzione». Con una postilla che riecheggia in molti conversari del Pd e cioé che «la soluzione si troverebbe subito se al Quirinale restasse Napolitano che garantisce tutti e al quale anche la destra ha riconosciuto equilibrio in una situazione delicatissima». Ma ciò detto, molti bersaniani di varia estrazione farebbero fatica a dare l’ok ad un esecutivo «che consenta a Grillo di starsene fuori e gridare all’inciucio». E in quel caso vorrebbero tagliare i nodi e andare al voto. Trovando schierati sulla stessa sponda gli alleati di Sel: tanto che nel gioco delle minacce e dei rilanci che ha segnato la giornata di ieri, tra una chiusura di ogni speranza di trattativa col Pdl e una riapertura di spiragli dopo pranzo, Gennaro Migliore, braccio destro di Vendola e capogruppo di Sel, traeva la conclusione che «se non c’è Bersani per evitare la spaccatura della coalizione e del Pd meglio andare a votare».
Per questo nel Pd già si guarda al congresso, previsto a ottobre, ma che di fatto si aprirebbe con la conta nei gruppi parlamentari sul «governo del presidente». E si guarda già alle primarie, dove Renzi a quel punto correrebbe da favorito, provando a ricompattare dietro di sè tutto il Pd.

Repubblica 29.3.13
La non-rinuncia di Pierluigi
di Concita De Gregorio


IN BILICO sulle parole, Pierluigi Bersani avanza nella nebbia.
C’è il presidente della Repubblica, adesso, a tenergli la mano sul crinale sottile che da una parte ha il baratro del voto, dall’altra la rinuncia. Sarà una Pasqua di passione. Un equilibrismo da giocolieri del lessico della politica, è una partita di ruzzle che si gioca tutta sui semi, sui non, sui quasi, sui pre.
IL LEADER del partito che ha non-perso le elezioni e che dunque in virtù della maggioranza numerica, non politica, ha avuto da Napolitano un pre-incarico ha condotto le consultazioni all’insegna del non-impedire un governo ed ha infine, ieri, non-rinunciato. È un semi-commissariamento, una quasi-sconfitta. La mano del presidente della Repubblica sulla spalla di Bersani è certo il segnale di un dissidio politico tra Napolitano e il segretario del Pd certificato dall’interminabile colloquio fra i due, un’ora e un quarto, quando è a chiunque evidente che per dire «non ho trovato i voti» bastava un minuto. Bersani è fieramente contrario ad un’intesa col Pdl, che in cambio dei voti di fiducia pretende il prossimo inquilino del Colle: posso essere io o Gianni Letta, ha detto Berlusconi. La “condizione non accettabile”. Ma è anche, questa inedita forma di collaborazione, l’esito di un’ostinazione che diventa estremo tentativo di non mandare tutto a monte, di non gettare la spugna, di provare ancora, due tre giorni ancora, insieme. Possono sembrare oggi, tutti questi semi tutti questi non, sofismi lessicali. Spasmi di un corpo agonizzante, si legge in rete, disperati tentativi di conservazione. Tuttavia sono anche, invece, il sentiero stretto attraverso cui provare a dare al Paese una risposta alla richiesta di rinnovamento e di riforme che tenga conto del voto popolare. Vediamo. Sono le sette e dieci di sera quando Bersani, stanchissimo e laconico, si presenta in una sala della Vetrata, al Quirinale, affollata sudata e nervosa. Gira voce che Grillo abbia un nome “coperto” che forse darà oggi. Gira anche voce che in verità sia già pronto il “governo del presidente”, un nome indicato dal Colle per uscire dalle secche e per evitare, anche, di incagliarsi nell'ingorgo istituzionale prossimo venturo: dal 15 aprile si devono convocare le Camere per l’elezione del nuovo capo dello Stato e serve un governo, per quella data. Napolitano continua a ripetere di non
essere disponibile ad una rielezione, seppure a termine e con dimissione incorporata. Donato Marra, il segretario generale, ha appena riferito che “l’esito delle consultazioni non è stato risolutivo”. Il governo non c’è, si sapeva. Ha anche aggiunto, Marra, che Napolitano si riserva di prendere “senza indugio” iniziative che gli consentano di capire e valutare “personalmente” il quadro politico. Cioè: dopo un’ora e un quarto di colloquio il presidente della Repubblica ha detto va bene, ho capito, da solo non ce l’hai fatta, vengo con te a vedere che succede.
Come un personaggio di Calvino il pre-incaricato dimezzato si presenta dunque alle telecamere. Stropicciato, stanco, pallido. Dice, in sostanza: mi sono trovato di fronte a “preclusioni” (il no del Movimento 5 stelle) e a “condizioni inaccettabili” (il baratto che il Pdl pretende con il Quirinale, terribilmente esplicito). Non dice, però: rinuncio. Una nota del Pd si affretta a farlo notare pochi istanti dopo, il portavoce di Napolitano Pasquale Cascella lo spiega ai vecchi amici: Bersani non rinuncia, sarà Napolitano, da stamattina, a ripercorrere le tappe delle sue consultazioni per verificare che davvero non ci siano margini per affidargli l’incarico pieno, e di andare alle Camere a cercare fiducia.
Nel frattempo i cellulari dei cronisti impazziscono di notizie o pseudotali: Grillo sta arrivando a Roma, torna dalla Toscana per riunire i gruppi e dare finalmente un nome. Berlusconi è disposto a virare da Letta su Frattini, per il Quirinale. Napolitano pensa alla convergenza su Giuliano Amato. Tutti sanno, tutti ripetono che la vera partita è quella del Quirinale. Ma non ci sono più i partiti, non c'è più il mondo che da decenni conosce le regole di quel sofisticato meccanismo. C'è la paura, oggi, a scandire l'agenda. Come dice il film del momento, “Viva la libertà”: è la paura la musica della politica. Nella Camera, alle otto di sera quasi deserta, arriva la nota: alle undici di venerdì Santo riprendono le consultazioni al Quirinale, si parte dal Pdl. E così si riavvolge il nastro dei sei giorni più lunghi di Pierluigi Bersani. Dalle 17.40 di venerdì 22 marzo, quando ha avuto il pre-incarico, alle 19,10 del 28 marzo, giorno della non-rinuncia. Una quasi-settimana che il segretario Pd ha iniziato con l’intenzione di prendere tempo, convocando Confcooperative e Coldiretti, Confprofessioni e Copagri. Passata per quello strano martedì 26 in cui ha visto Alfano e un’ora dopo, in convento, il cardinale Bagnasco mentre la rete brulicava di indiscrezioni su un appuntamento di Grillo con l’ambasciatore americano curioso di sapere del referendum anti-euro. Finita il mercoledì 27 con lo streaming del colloqui con i capogruppo Cinquestelle, quello che sembrava più che un incontro un processo, quello in cui Bersani diceva “o si va a messa o si sta a casa”, pregando i cinquestelle di fare un gesto di responsabilità, quello in cui la capogruppo diceva “le parti sociali siamo noi”. Ora il pre-incarico è congelato. Ora il semi-incaricato è affiancato dal Presidente, tutelato e quasi sostituito. Ora siamo al passaggio più stretto. Quasi una fine, un non inizio. Una semi-possibilità di governo, uno scenario pre-greco, una non sconfitta.

Corriere 29.3.13
Quel no al governo del presidente L'ultima sfida del segretario
Al Colle dice: da noi appoggio esterno. E nel Pd Renzi è di nuovo in campo
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani tenta di giocarsi le ultime carte al tavolo della presidenza del Consiglio. Il segretario del Partito democratico va al Quirinale e non sfugge al confronto con l'inquilino del Colle. Né rinuncia a giocare duro: «Non c'è un altro tentativo oltre il mio, non esiste un governo che prenda più voti di quanti ne possa prendere io. Noi non possiamo fare compromessi obbligati: il nostro elettorato ci guarderebbe malissimo. Faremmo un regalo a Grillo e anche a Berlusconi».
Poi, per perorare la sua causa il segretario del Pd spiega: «Non è possibile che chi ha perso le elezioni possa indicare il candidato alla presidenza della Repubblica». Quindi Bersani lascia intravedere uno spiraglio a Napolitano: «Maroni mi ha detto che preferisce me a un tecnico, perché dice che so quello che si deve fare...». A onor del vero, però, non sono queste le parole che hanno mosso Giorgio Napolitano a un supplemento d'indagine. È stato un altro discorso quello che ha colpito il capo dello Stato, che non pensava di trovarsi di fronte un Bersani così poco propenso a gettare la spugna di fronte all'evidenza: «Se vuoi fare il governo del Presidente, sappi che noi possiamo al massimo garantirti un appoggio esterno. Nel senso che lo faremo nascere ma non lo sosterremo in nessun modo e ogni volta che ci capiterà di dover votargli contro lo faremo senza problemi».
Al Pd raccontano che dopo le parole di Bersani il presidente della Repubblica si sia inquietato. Già, perché sempre a largo del Nazareno giurano e rigiurano che il patto tra il capo dello Stato e il segretario era chiaro: tu provi a formare un governo, ma se non ci riesci sai che non si va alle elezioni, bensì a un esecutivo di scopo che mandi in porto poche fondamentali cose: riforma della legge elettorale, revisione radicale del finanziamento pubblico dei partiti, riduzione dell'Imu, legge di stabilità. È su questo patto che è nato il tentativo Bersani. Ma ora il segretario del Partito democratico ha spinto più in là la frontiera del confronto: «Io sono pronto ad andare in Parlamento a cercarmi la maggioranza nelle aule sugli otto punti del mio programma. Se tu pensi che non si possa andare così, mi devi dimostrare che c'è una maggioranza alternativa: a quel punto io mi farò da parte».
Ma mentre il segretario gioca la sua partita per palazzo Chigi, nel partito si è aperta la corsa alla premiership prossima futura. In aprile verrà convocata una direzione straordinaria, cui spetterà il compito di indire le procedure per il congresso del Pd che si terrà in autunno. A quel punto Matteo Renzi dovrà rettificare la sua road map. Lui non avrebbe voluto incrociare la sua rincorsa a quella interna al Pd. La sua idea era quella di giocarsi la partita per la premiership evitando quella per la segreteria. Ora diventerà più difficile tenersi lontano da quella tenzone. Renzi lo sa e prepara le contromosse con un unico punto fisso: «Non mi farò mai cooptare da quelli».
Quelli sono lì, che lo aspettano. Alcuni speranzosi di coinvolgerlo e di mettersi dietro di lui per evitare l'ondata grillina. Non a caso ogni giorni il sindaco di Firenze parla con Enrico Letta, Dario Franceschini e Vasco Errani. Ossia con gli esponenti che in questi giorni stanno seguendo da vicino le trattative di Bersani. Errani poi è uno dei membri del cosiddetto "tortello magico", ossia del circolo degli emiliani di cui il segretario si fida ciecamente.
Comunque il sindaco rottamatore sta scaldando i motori per riavviare la sua campagna elettorale. In questi giorni, lontano dalle luci dei riflettori e dai microfoni dei cronisti, Renzi ha incontrato sia Massimo Zedda, sindaco Sel di Cagliari, che il primo cittadino di Napoli Luigi de Magistris. Formalmente incontri tra colleghi, in realtà colloqui che servono a Renzi per rafforzarsi sul fianco sinistro, quello che è risultato il più debole nelle primarie combattute contro Bersani. Il sindaco rottamatore sa che è a sinistra che gli mancano ancora i consensi, come sa che in quel mondo stanno pensando a una candidatura alternativa a lui: quella della presidente della camera Laura Boldrini o del primo cittadino di Milano Giuliano Pisapia.

Corriere 29.3.13
Miguel Gotor
«Non è una partita personale ma serve un esecutivo politico»
intervista di Andrea Garibaldi


ROMA — Bersani non è a fine corsa. «Non ha rinunciato all'incarico e non mi risulta che Napolitano gli abbia chiesto di rinunciare. L'esito delle consultazioni è definito "non risolutivo". Che non vuol dire negativo».
Miguel Gotor, senatore da un mese, storico, autore di un premiato volume sulle lettere di Moro. E membro da qualche tempo del circolo ristretto del segretario del Partito democratico.
Perché il colloquio è andato avanti per un'ora e mezza?
«La matassa da sciogliere resta ingarbugliata. Ma credo che Napolitano abbia pienamente compreso la serietà del lavoro svolto da Bersani in questa settimana».
Nessun contrasto, né divergenti visioni?
«Ritengo che Napolitano e Bersani stiano giocando una partita comune, nell'interesse dell'Italia».
Come ha spiegato Bersani le «preclusioni» e le «condizioni inaccettabili che ha incontrato»?
«Ci è stato proposto dal Pdl uno scambio: avrebbero sostenuto il governo per avere il diritto di indicare il presidente della Repubblica».
Bersani ha detto no.
«C'era un problema di correttezza istituzionale: non possono emergere nomi decisi dalla trattativa tra leader, al di fuori della dinamica parlamentare. Tra l'altro, i leader non possono garantire l'esito finale».
E adesso?
«Confidiamo nella saggezza del presidente della Repubblica. Il Paese non ha bisogno né di governicchi né governissimi».
Sempre più complicato.
«Vedo tre pilastri. Si deve fare un governo di cambiamento. Si deve eleggere un presidente della Repubblica condiviso, che nessuno imponga dall'alto. E poi, pilastro maggiore, una Convenzione per le riforme».
Per fare cosa?
«Per fare in tempi certi ciò che diciamo da tempo: toccare l'architettura costituzionale, ridurre i parlamentari, cambiare legge elettorale».
Con la partecipazione di tutti?
«Con la partecipazione e la responsabilizzazione di tutte le forze politiche».
Se anche la maggioranza a sostegno del governo fosse così ampia, non sarebbe un «governissimo»?
«Il programma di governo può allargarsi, ma a partire dagli "8 punti" di Bersani. Bersani non entrerebbe in una maggioranza con il Pdl perché quel partito ha dimostrato di non saper operare per il cambiamento necessario».
Parliamo di un nuovo governo tecnico?
«Le consultazioni di Bersani non hanno espresso favore per un governo tecnico. Anzi, ci sarebbe più consenso per un governo politico».
Bersani può ancora avere un ruolo da protagonista?
«Bersani è ancora saldamente in scena. Ma la sua proposta non ha un tratto personale, è il segretario del Pd».
Adesso, che succede nel Pd?
«Si continuano a seguire gli eventi attorno alla proposta Bersani. Il film non è cambiato».

La Stampa 29.3.13
Ugo De Siervo: “Bersani potrebbe avere ancora una possibilità”

è presidente emerito della Corte Costituzionale

«Un esito favorevole a Bersani - dice il costituzionalista Ugo De Siervo - mi sembrava estremamente difficile perché se i grillini e il Pdl assumono come un fatto politico il suo tentativo, è evidente che poi non può avere una maggioranza numerica-politica chiara e vendibile. Anche se Bersani ora ha tutto il diritto di dire che comunque il Pd è essenziale per qualsiasi governo, perché ha la maggioranza assoluta alla Camera. Rovesciando il discorso, poi decide il Pdl. Ma ora siamo nella piena e naturale discrezionalità del Presidente della Repubblica. Si abbiano 24 ore di pazienza e sapremo».
Un minimo di pazienza. «Il Presidente o darà l’incarico a qualcun altro o lo confermerà a Bersani, ma sarà sempre una scelta diversa da quella originaria. Perché nel frattempo c’è stata una serie di accertamenti condotti dal Capo dello Stato».
Dice così perché il passaggio delle consultazioni condotte personalmente dal Capo dello Stato potrebbe far cambiare natura a un governo Bersani? Potrebbe cioè un governo politico divenire «istituzionale» in corso d’opera? «Tutto è possibile in teoria. Certo, sembra un po’ curioso che un governo nato politico diventi tecnico, però, non si può dedurre dal comunicato del Quirinale una scelta sostanziale».

Corriere 29.3.13
Crepe nei 5 Stelle
La senatrice Alessandra Bencini del M5s: «Non so se voterei contro Bersani»
«Ai colleghi l'ho detto e non mi hanno fatto ostracismo»
La parlamentare grillina: il leader Pd più autorevole di altri, la fiducia si può sempre revocare
intervista di Alessandro Trocino

qui

Repubblica 29.9.13
La fronda del Pd: “Pierluigi troppo ostinato”
I renziani: dovremo assecondare il Colle. Errani: ora tutti uniti sul segretario
Il Pd guarda col fiato sospeso alle nuove consultazioni al Quirinale: il partito rischia di spaccarsi
di Giovanna Casadio


ROMA — «Cosa succede nel Pd, adesso? Il partito continuerà ad appoggiare l’impegno di Bersani... voglio vedere chi si alza a dire di no, adesso!». Vasco Errani in questi giorni ha sondato i leghisti, ha tessuto la tela bersaniana e ieri ha parlato a lungo con Matteo Renzi, che era a Roma per l’assemblea dei sindaci. È per il Pd il passaggio più difficile: il partito sotto stress, potrebbe esplodere. «Stiamo giocando una partita dove non c’è vittoria», è la triste riflessione che nelle ore d’attesa prima dell’incontro tra Bersani e Napolitano, circola tra i Democratici. Ma l’ultima mano concessa dal Quirinale al segretario non convince tanti e cresce il numero di chi avrebbe già voluto un “governo del presidente”, rassegnandosi all’evidenza: il centrosinistra non ha i numeri al Senato. Senza troppa ostinazione.
I renziani si trattengono a stento. «Non si capisce bene cosa significhi quello che sta accadendo - ragiona Paolo Gentiloni - e mi ripeto: tifo Bersani fino a quando sarà in campo. Però poi, la linea del segretario sarà archiviata dai fatti e il Pd dovrà assecondare in pieno gli sforzi del presidente della Repubblica». L’ennesimo rilancio del leader democratico è un azzardo? Oggi al Colle i Democratici ripeteranno che «altre soluzioni, non a guida Bersani, sono complicate, difficili: non è che un tecnico qualsiasi possa rendere più facile la nascita del governo». La precisazione arriva ieri sera tardi dalla segreteria del Pd. Insieme a quell’altra considerazione che il leader democratico è saldamente in sella al partito. «Continua la suspense e siamo tutti guardinghi...», ammette Andrea Orlando, uno dei leader della “gauche” del Pd. Nessuno però, neppure tra i “giovani turchi”, se la sente di ripetere oggi che l’unica strada - fallendo ormai Bersani - sia il voto. Parte da loro il tam tam sul nome di Fabrizio Barca. Sono molti i nomi che si rincorrano del resto per il “passo B” del Pd. Tra i premier graditi: Saccomanni, Bonino.
Si irrigidisce Davide Zoggia, bersaniano di ferro: «Non si potrebbe del resto avviare una cosa che sia contro la maggioranza assoluta della Camera, rappresentata dal centrosinistra». Marina Sereni, vice presidente della Camera appena eletta, e franceschiniana, esclude ancora che il Pd, il partito di maggioranza relativa, possa imbarcarsi in un’avventura di governo con il Pdl: «Non abbiamo accettato scambi indecenti, grandi coalizioni che sarebbero comunque state guidate dal segretario democratico, e perché ora dovremmo appoggiare un governo con una personalità non nostra?».
Replica Giovanni Legnini: «Ma come possiamo essere irresponsabili, noi. Abbiamo finora fatto appello al senso di responsabilità di tutti perché conosciamo bene le condizioni del paese». E Gianclaudio Bressa, a cui spetta ieri il compito di rispondere a Grillo che vorrebbe un Parlamento in funzione senza governo - riconosce: «Come fai a sottrarti a un’ipotesi, qualsiasi questa sia, del presidente? Abbiamo appena detto che il paese è allo stremo e ha bisogno di un governo. Tutto poi, va fatto in fretta, prima che riaprano i mercati».
Renzi intanto scalda i motori. Evidente che nel Pd sta per cominciare la conta, e il sindaco “rottamatore” - come ha già detto - è pronto a candidarsi alla premiership quando si andrà a votare. Non subito: precisa Dario Nardella, l’ex vice sindaco di Firenze, renziano, preoccupato per la strada che il partito ha imboccato, per l’oscillazione tra i 5Stelle e le larghe intese.
«Ora siamo davvero al giro di boa - ribadisce Nardella non c’è da perdere tempo». Anche Francesco Boccia, lettiano, afferma che «occorre affidarsi a Napolitano, che il Pd non può chiudere gli occhi e non decidere, nella malaugurata ipotesi che per Bersani la strada sia impedita davvero». È Arturo Parisi, l’ex ministro, critico verso il partito, a ricordare: «Forse ci si poteva accorgere subito che andava trovato un baricentro esterno. Il Pd deve elaborare il lutto, prendere atto che la linea tenuta è stata perdente». Cosa succede, quindi? Parisi ironizza: «Qualcosa di molto simile alle vecchie convergenze parallele, in cui forze politiche profondamente diverse convergono parallelamente, come vedersi e dire “Toh, anche tu qui?”». Ricorda che dalle urne i Democratici sono usciti migliori perdenti: probabilmente la via di un «baricentro esterno» sarebbe stata da intraprendere subito.
Laura Puppato riconosce: «Prendiamo atto che i numeri non ci sono, e a questo punto facciamo un passo di lato, però ci auguriamo che ci si renda conto che il paese non può attendere ». Puppato, che è tuttora ufficiale di collegamento tra il Pd e i 5Stelle, pensa a un governo «con una figura tecnica o politica», purché ci sia.

il Fatto 29.3.13
Ma quanti “Amici” ha Matteo Renzi...


MATTEO RENZI fra impegni istituzionali e appuntamenti in televisione. Non si tratta di un confronto in un “salotto” politico ma la trasmissione Amici di Maria De Filippi che si appresta all’esordio nella fascia serale. Secondo un tweet di Paolo Calvani, responsabile comunicazione Mediaset , il sindaco di Firenze andrà “in un noto programma tv di intrattenimento di prima serata”. Calvani non lo dice ma il programma dovrebbe proprio essere il serale di Amici di Maria De Filippi, che debutterà sabato 6 aprile su Canale 5. Del resto non è notizia inedita che Renzi piace ad un pubblico trasversale. La registrazione è prevista domani.

La Stampa 29.3.13
Il programma in onda il 6 aprile
Renzi torna in campo e sceglie la platea di “Amici”
Per molti il sindaco di Firenze Matteo Renzi sta già pensando a nuove elezioni
di Luca Dondoni


Prima il mistero, nato in mattinata con un tweet di Paolo Calvani, responsabile comunicazione di Mediaset: «Sorpresa: Matteo Renzi sarà presto ospite di un noto programma tv di intrattenimento di prima serata». Nel primo pomeriggio la soluzione, con la risposta al «dove e quando». Il sindaco di Firenze sarà ospite della prima puntata della nuova edizione di «Amici 12», il programma di Maria De Filippi in onda su Canale 5 dal 6 aprile. La trasmissione sarà però registrata domani sera. Ma che ci andrà a fare «il rottamatore» tra i ragazzi di Maria? Escluso che balli, improbabile che canti, risponderà alle domande dei ragazzi sui temi dell’impegno politico e amministrativo. Una mossa a sorpresa per cercare di essere vicino alle nuove generazioni con la partecipazione a una delle trasmissioni più amate dagli under 30.
Inutile dire che la scelta di Renzi ha scatenato prima stupore e poi le ironie, specie sul web, soprattutto sulle motivazioni che hanno spinto il politico ad accettare l’invito della De Filippi. Detrattori e sostenitori, però, sono concordi che si tratta della prima mossa di una nuova campagna elettorale.
È proprio il numero di telespettatori ad aver convinto il rottamatore a salire su un palco per lui inconsueto. «Amici» serale può contare su una platea che non è mai scesa sotto i cinque milioni di telespettatori e con il cast di stelle previste quest’anno in giuria o come ospiti, Renzi si assicura il risultato della visibilità massima. Ormai ospite fisso nei principali talk show politici non è la prima volta che il sindaco toscano accetta di frequentare la tv «leggera». In passato era intervenuto a «Quelli che» su Rai2 e «Il Volo in diretta» su Rai3. Dai corridoi degli studi Elios, quartier generale della trasmissione c’è soddisfazione per la presenza del dirigente Pd che conosce bene il mondo di «Amici». Il successo del programma è, tra l’altro, il miglior esempio di trasversalità. Dai ragazzini di 14 anni alle madri di 45 sino alle nonne di settant’anni tutti vengono catturati dalle avventure musicali e danzanti dei giovani allievi. «È un’occasione per vedere all’opera dei giovani talenti - dice una delle signore del pubblico che da anni frequenta lo studio - e quando li guardo è un po’ come se applaudissi mio figlio, piangessi o mi arrabbiassi per lui». È anche a queste mamme che Renzi parlerà sabato sera, conscio della loro importanza per perseguire un obiettivo: la crescita della sua popolarità presso un pubblico in parte lontano dalla vecchia politica.

La Stampa 29.3.13
Finanziamento pubblico Il Pd senza soldi in cassa riduce le sedi e i costi
Il tesoriere Misiani: non ci sarà alcun taglio di personale
di Raffaello Masci


Cari amici (e compagni), tirate la cinghia: i soldi sono pochi, saranno ancora di meno in futuro e quindi disponiamoci ad affrontare una stagione di vacche magre. Il testo è di un altro tono, ovviamente, ma questo ne è il senso. Parliamo di una lettera che Antonio Misiani, tesoriere del Pd, ha scritto ai circa 200 dipendenti del partito. La missiva è datata 22 marzo ed è stata divulgata da «La Zanzara» di Radio24.
«Le prospettive di superamento del finanziamento pubblico dei partiti - dice Misiani - così come attualmente regolato, impongono un ulteriore, severo ridimensionamento della struttura e dei costi del Pd nazionale, per arrivare preparati ad affrontare la complessa fase di passaggio ad un nuovo modello di finanziamento dei partiti». Insomma - è l'esortazione del tesoriere - impariamo a fare le formichine prudenti in vista del lungo inverno che ci si para davanti. L’ultimo bilancio depositato dal Partito democratico, quello del 2011, parlava di circa 58 milioni di finanziamento pubblico, a cui si sommavano altri 5 milioni di contributi provenienti in buona parte dagli eletti e dai loro emolumenti. A luglio del 2012 poi, il finanziamento pubblico è stato dimezzato a 29 milioni. Già allora - e peraltro a metà anno - il Pd ha dovuto fare una drastica cura dimagrante delle proprie spese, di circa il 30%. Ora, è l’esortazione di Misiani ai dipendenti del partito, bisogna fare ancora di più, e si comincia col ridurre sedi e uffici sparsi: due appartamenti in via del Tritone, ai civici 87 e 169 verranno lasciati subito dopo Pasqua, mentre delle due sedi ufficiali, quella di largo del Nazzareno e quella di via Tomacelli, ne resterà solo una (probabilmente la prima, più grande). Resta da capire l’entità del risparmio, dato che gli spazi dovranno essere risistemati, ma comunque un risparmio ci sarà, rispetto al milione e 700 mila euro di affitti che si pagano ora.
Poi, se c’è da risparmiare, si parte dall’alto, tant’è che il budget a disposizione dei membri della segreteria vedrà un taglio drastico del 75% (oggi la spesa è di circa un milione e mezzo l’anno). Di una analoga percentuale sarà ridotto anche il bilancio dei giovani democratici, ma la base su cui applicare il taglio è assai più esigua (240 mila euro l’anno).
Il solerte tesoriere - economista bocconiano di Bergamo - dice anche che andrà a guardare bene nelle spese per i fornitori (oggi costano circa 2 milioni l’anno) e perfino in quelle per giornali, viaggi, trasporti, noleggi: un insieme di esborsi che grava per circa 2,7 milioni.
Dato che il partito farà tutto questo, anche i dipendenti devono contribuire: non che venga loro tagliato loro alcunché, né che si procederà ad una dolorosa riduzione di organico il tesoriere lo ha escluso assolutamente, almeno in questa fase), ma bisognerà stare attenti a quelle disattenzioni che poi vanno a pesare sui bilanci. Per esempio le ferie: ci sono 18 mesi per utilizzarle e non potranno più essere accumulate. Come da contratto. Inoltre «si ricorda che tutti, indipendentemente dagli incarichi e qualunque sia il livello di responsabilità assegnato (quest’ultima frase è sottolineata nel testo - ndr), sono tenuti a comunicare all’Ufficio personale eventuali assenze». Infine «considerata la situazione, a partire dal mese di aprile e fino a ulteriore comunicazione, non saranno più autorizzati gli straordinari». Per ora ci si ferma qui. Poi, quando ci saranno nuove norme sul finanziamento, si vedrà.

l’Unità 29.3.13
Le strane trovate dei costituzionalisti senza stelle
Intellettuali grillini dicono che si può prorogare il governo tecnico
Ma dovrebbero considerare un dettaglio: che ci sono state le elezioni
di Michele Prospero


Lo statista (non più mascherato) di Genova ha dettato la linea, che mescola intransigenza (verso la sinistra) e continuità (con Monti). Mentre con Berlusconi ostacola un governo di cambiamento, concede il via libera al governo tecnico. Dalla spiaggia privata, il leader del M5S gioca alla sedizione e ordina le condizioni di una resa immediata: lunga vita a Monti e morte a l’Unità.
Quando non si copre il volto e scappa inseguito da mai servili giornalisti, Grillo si sente come il generale indiscusso di un esercito di conquistatori, implacabili nel colpire a comando. E perciò intima: niente governo, lavori solo il Parlamento. Qui, come l’opinione pubblica ha ormai appreso in questo fortunato avvio di legislatura, le sue truppe brillano per competenza, per autonomia e coraggio, per prestigio e dignità, per abilità oratoria. Insomma, per capacità di leadership.
Con il voto di febbraio, un profondo ricambio di classi dirigenti ha offerto i galloni a una nuova élite del potere. Un ceto di inarrivabile levatura che compare soltanto in fasi storiche irripetibili è al servizio della nazione. Le grandi eccezioni sono sempre in grado di regalare figure eccelse di statisti guidati dai cittadini Crimi e Lombardi. Per il loro carisma contagioso, mostrano di non avere niente a che fare con il grigiore di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Croce, Nitti, Einaudi, Dossetti.
Qui è comparsa, sulle rovine del rovinoso passato partitocratico, una nuova classe eletta, composta da raffinate personalità che avrebbero entusiasmato anche Mosca o Pareto. L’Italia, dopo la distruzione creatrice indotta dalle urne, pare proprio baciata dalla buona sorte. E rimane rapita al cospetto della trionfale marcia degli aristocratici scudieri di Grillo, penetrati armati (di apriscatole) nelle «putride istituzioni» per scacciare la «viscida casta» del privilegio e imporre il governo dei migliori.
Statisti di tale levatura, che di sicuro un segno indelebile lasceranno nelle aule non più sorde e buie, potranno contare per forza sul supporto di una mente sottile. Ci sarà di sicuro dietro le quinte un pensatore politico che li illumina. E infatti ecco risplendere nell’ombra la riservata figura (come poteva mancare?) dell’ideologo (semi) ufficiale del movimento. Schivo, riflessivo, Paolo Becchi evita i chiassosi palcoscenici televisivi dove i mediocri vanno per promuovere l’ultima fatica letteraria, ma trova il modo di diffondere comunque il prestigioso suo verbo nuovo.
Una idea incredibilmente forte ha partorito l’ingegno giuridico di questo custode del costituzionalismo grillino: la prorogatio. I costituzionalisti, nipotini di Kelsen, spiazzati nella loro cittadella positivistica, si interrogano sul significato di questa categoria innovativa che fa spremere le meningi a chi intende penetrarla a fondo. Grillo e il suo ideologo (in tempi più cupi e non magnifici e progressivi come quelli che corrono, un impresario d’ingegno dovrebbe ingaggiarli perché la loro rappresentazione in materia costituzionale è degna dei migliori palcoscenici e non solo di quelli virtuali di un’Agorà elettronica) vogliono che «rigor Montis» continui ad alloggiare a Palazzo Chigi.
I costituzionalisti normali, nella loro modesta opera di manutenzione delle regole, obiettano che forse andrebbe considerato un piccolissimo dettaglio: ci sono state le votazioni. Si è aperta cioè una nuova legislatura e non è possibile prorogare il governo espresso nelle precedenti consultazioni.
Una bazzecola formalistica, ribattono però Grillo e Becchi, i nuovi sovrani della Costituzione materiale. E però una soluzione che sciolga il nodo alla radice ci sarebbe: convincano subito il Quirinale e presentino, i grillini insieme a Berlusconi, una bella mozione di fiducia a sostegno del redivivo governo Monti.
Un vero rivoltoso gentiluomo questo Grillo, non c’è dubbio. Con uno tsunami elettorale ha spazzato via ogni cosa, ma oggi ordina alla tempesta di placarsi perché la sinistra è in difficoltà e Monti deve conservare il potere. Così si riconosce il gran volto di un sovversivo tosto, che non è il classico parolaio. Grillo ha un programma massimo e lo realizza: Monti resti e però si chiuda subito l’Unità.
Dopo la nuotata lungo lo Stretto, Grillo pensa di emulare un altro comico che esibiva alla folla il suo robusto torace. Stia sereno, su un governo tecnico potrà anche essere assecondato. Ma sulla chiusura del giornale di Gramsci si rassegni. Neanche il regime nero, che per il suo favoloso inizio ha fatto perdutamente innamorare la cittadina Lombardi, c’è riuscito.

l’Unità 29.3.13
Ora Grillo punta a chiudere l’Unità
«Fa propaganda contro di me»
Attacco al giornale che ha osato criticarlo per il «patto con Berlusconi»
La direzione: vuole chiuderci come il Cav Comunicato della Nie
di Natalia Lombardo


Al capo dei 5 Stelle non piace il titolo che lo accomuna al Cavaliere e cosa fa? Invoca di fatto la chiusura del giornale E scoppia la polemica

Grillo si infastidisce per le critiche de l’Unità, che ha parlato di «patto con Berlusconi» contro il cambiamento, e auspica la sua chiusura. Dal suo blog lancia l’editto: basta finanziamenti ai giornali che fanno propaganda. Immediate le reazioni. La direzione del giornale: vuole chiuderci come Berlusconi. Comunicati della Nie e del Cdr.
Per vent’anni l’Unità ha subito attacchi mirati e pesantissimi da Silvio Berlusconi, o è stata bollata come «giornale omicida» da Giuliano Ferrara, ora ci pensa Beppe Grillo a pretendere nel suo comizio virtuale che il nostro giornale muoia: «Stiamo mantenendo con i soldi pubblici un progetto editoriale di propaganda», attacca il leader Cinque stelle. Non è una novità, commenta il nostro direttore sul sito del quotidiano: «Grillo non è il primo che vuole la chiusura de l’Unità. L’hanno preceduto altri, tra i quali, guarda caso, anche Silvio Berlusconi», ma al leader M5S Claudio Sardo riconosce «un primato: nemmeno Berlusconi avrebbe avuto il coraggio di proporre un prolungamento del governo Monti».
«Finanziamo un giornale di propaganda», titolava ieri il blog di Grillo. Nel testo i (presunti) conti del quotidiano, certamente in difficoltà come la gran parte dell’editoria italiana: «L’Unità è in rosso per circa 3,5 milioni di euro. Ha subito una perdita di 4,3 milioni del 2011. Lo stesso anno ha ricevuto 3,709 milioni di euro di contributi pubblici, 5,267 milioni di euro per l’anno 2010. Ha un debito che a fine 2011 era di 21,22 milioni di euro: dei quali più di 8 nei confronti dei fornitori».
Conti e dati duramente contestati dall’azienda. «Ci dicano dove li hanno presi», risponde Giovanni Rossi, presidente della Federazione della Stampa. Poi Grillo lancia l’amo adatto al suo elettorato web: «Stiamo mantenendo con i soldi di tutti i contribuenti un progetto editoriale di propaganda. La prima pagina de l’Unità di oggi lo testimonia e in rete è stata inizialmente scambiata per un fotomontaggio: “Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento’”».
Già, perché il comico (o ex comico) che fa della democrazia diretta e delle libere espressioni il suo credo, salvo cancellare i commenti sgraditi, non ha mandato giù la prima pagina di ieri de l’Unità: nella foto Berlusconi e Grillo; il titolo, dai toni forti dopo il colloquio di Bersani con i capigruppo M5S e la coincidenza con le pretese dell’ex premier è, appunto, «Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento». Il senso è spiegato nell’editoriale di Pietro Sparato, vicedirettore: «L’inedito asse tra Grillo e Berlusconi sembra sbarrare al tentativo di Bersani». Ma il leader 5 stelle invece di replicare alla critica, vuole zittire chi lo critica.
Il comitato di redazione del nostro giornale ha fatto presente che «l’Unità non ha taciuto sotto il fascismo o al tempo dei quotidiani attacchi di Berlusconi e non lo farà oggi». I giornalisti spiegano come la testata sia «penalizzata dalla raccolta pubblicitaria e in un regime di mercato distorto dall’assenza di leggi che tutelino la libera concorrenza», ricevendo i finanziamenti pubblici all’editoria che «esistono in tutti i paesi democratici» e che sono stati fortemente ridotti, così da portare alla chiusura molte testate, soprattutto di sinistra. Fondi pubblici erogati per garantire la libertà di stampa e di informazione e il pluralismo riconosciuti come «valori fondanti» dalla Costituzione italiana, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell`uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
«Grillo deve imparare ad accettare critiche e polemiche», commenta con l’Unità Giovanni Rossi della Fnsi, «non può farle solo lui verso gli altri, quindi deve capire che anche gli altri possono criticare le sue posizioni. In democrazia funziona così». Questo come principio generale. In particolare, sull’attacco diretto al nostro giornale, il presidente della Fnsi afferma che «è un giornale vero, non è un’iniziativa fasulla fatta per drenare fondi del finanziamento pubblico», come è avvenuto per testate fantasma, con redazioni inesistenti.
L’Unità, prosegue Rossi, è «un giornale che esprime un’opinione, una posizione politica, secondo un diritto costituzionale che deve essere garantito, in nome del pluralismo che deve, al di là delle opinioni di Grillo, continuare a caratterizzare questo Paese». Tra l’altro Giovanni Rossi fa presente che «come Fnsi abbiamo più volte avanzato proposte per una riforma che renda più trasparente il finanziamento pubblico all’editoria proposte che i colleghi de l’Unità, come di tanti altri giornali, hanno sempre sostenuto».
Ma sul blog di Grillo sono molti i commenti critici e nel pomeriggio la questione sparisce. Così Marco Tosi scrive a Beppe: «Guarda che assieme ai rimborsi elettorali Bersani ha più volte dichiarato di voler eliminare anche quelli ai giornali! Comunque il titolo è vero! Se volete il cambiamento votate la fiducia e iniziate a proporre disegni di legge». Duro anche Alessio Perini. «Perché caro Grillo potresti dimostrare il contrario...» da ciò che ha detto l’Unità, «chi ti vota più... stai riconsegnando il paese in mano ad un criminale. Nella migliore delle ipotesi un suo uomo andrà al Quirinale». Perché sono molti a rimproverare al leader M5S: «Fai risorgere Berlusconi».

Il cdr: imparate la democrazia

Se ne faccia una ragione Beppe Grillo: l’Unità non ha taciuto sotto il fascismo o al tempo dei quotidiani attacchi di Berlusconi e non lo farà oggi. Penalizzata dalla raccolta pubblicitaria e in un regime di mercato distorto dall’assenza di leggi che tutelino la libera concorrenza, l’Unità riceve quei finanziamenti pubblici all’editoria che esistono in tutti i paesi democratici del mondo e che soltanto in Italia sono messi in discussione con una martellante e non disinteressata campagna di disinformazione. Tali fondi peraltro sono già stati ampiamente ridotti e i tagli hanno costretto alla chiusura diverse testate, specialmente a sinistra. Queste misure di sostegno, infatti, servono proprio per garantire l’esistenza di voci libere e la tutela di interessi come la libertà di stampa e di informazione e il pluralismo che la Costituzione italiana, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea hanno riconosciuto fra i valori fondanti della convivenza democratica. Il dissenso e la libertà di pensiero non si possono cassare come un commento sgradito o non allineato al pensiero unico di un blog.
È il gioco della democrazia, e Grillo dovrebbe imparare a rispettarlo.
Il Comitato di redazione de l’Unità

Nie dà mandato ai legali

Dopo un articolo sul sito web di un quotidiano anche un importante uomo politico italiano, Beppe Grillo, ha utilizzato un articolo sul proprio sito per diffondere notizie sullo stato di salute di Nuova Iniziativa Editoriale spa, la società editrice del quotidiano l’Unità. Stante la gratuità e l’infondatezza delle notizie diffuse in Rete, Nie spa ha ritenuto doveroso dare mandato ai propri legali al fine di tutelare i propri interessi nelle sedi civile e penale.
Per quanto riguarda poi il quotidiano che per primo ha ritenuto necessario pubblicare queste notizie, vale la pena ricordare che 2007 e 2008 sono stati gli anni in cui la Nie spa ha subito le perdite maggiori della sua storia. In quegli anni, il direttore responsabile era Antonio Padellaro, attuale direttore de il Fatto Quotidiano.

l’Unità 29.3.13
A chi non piace la democrazia
di Oreste Pivetta


Grillo se l’è presa con l’Unità per l’accostamento a Berlusconi. Non riesco a immaginare quanto possa essersi offeso il Cavaliere, che evidentemente, non mancandogli lo spirito, si riconosce qualche tratto in comune con il comico genovese.
Entrambi sanno raccontare barzellette. L’ex premier però non ha invocato la fine di questo giornale, come gli era capitato in passato, sulla scia di un precedente illustre italiano, Benito Mussolini, che assai risoluto e con altri mezzi l’Unità riuscì a farla sparire dalle edicole, senza tuttavia mai farla tacere. Ripeto con orgoglio: senza mai farla tacere.
L’altro giorno mi è capitato di scrivere un articolo per ricordare gli scioperi del ’43, primo atto della Resistenza, cioè della lotta di liberazione. Ricordavo come Umberto Massola, comunista e organizzatore di quegli scioperi, si fosse recato nella tipografia clandestina, vicino a Milano, dove si stampava l’Unità. L’Unità uscì con un titolo che diceva: “Sciopero di centomila operai torinesi! In tutto il paese si segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà”. La notizia e l’indicazione politica. Talvolta è utile ripetere. Un paio di sere fa, alla televisione, mi è capitato invece di vedere uno speciale di Raistoria dedicato al campo di concentramento di Bolzano, quello dove spadroneggiava un tale Micha, il boia, che uccideva gli arrestati con le proprie mani dopo averli sadicamente seviziati. In quel campo, prima di finire ad Auschwitz, passò anche Carlo Venegoni: era stato arrestato perché stampava l’Unità clandestina.
Vorrei dire a Grillo di mettersi il cuore in pace: non sarà lui a riuscire, dove fallirono fascisti e nazisti, Mussolini e Hitler, Starace e Goebbels, per intenderci. Non faccio paragoni, s’intende. Grillo mi ricorda tuttalpiù Ron Hubbard, quello di Scientology. Che vale molto meno dei suddetti.
Il passato, la storia, una cultura che si lega al passato, alla storia, meriterebbero però sempre qualche attenzione, soprattutto da parte di chi ha scelto la strada della politica, pur imbracciando il fucile contro la politica. Ma c’è il presente che preme e guardiamo ai problemi, quasi tragedie, del presente: l’economia in bilico, la disoccupazione che sale, una generazione colpita... Non dimentichiamo la sofferenza della democrazia. Cittadini che non vanno a votare, demagogia, populismi, declino culturale e morale... Grillo ha trovato la scorciatoia: basta mettersi su internet. Su internet si può parlare di tutto. Con lui possono parlare tutti di tutto, purché non interferiscano con i suoi progetti, purché non lo critichino. Un eroe del pensiero unico, del blog monodirezionale.
La democrazia è qualche cosa di più complicato, non è fatta di silenzi (Crimi, dopo la consultazione, bloccato in strada dai giornalisti, oscillava penosamente tra anticaglie democristiane e omertà mafiose) o di domande e risposte negate. La democrazia non è Ballarò, dove i suoi portavoce aspirerebbero a parcheggiarsi. La democrazia è di tante voci. E i giornali sono tra le voci principali: informazione, narrazione, orientamento, dibattito. La società «civile» che i grillini invocano e che pretendono di rappresentare vuole dentro di sé giornali (e partiti), perché cresce di opinioni diverse e di confronti. Chi preferisce i silenzi è solo «incivile». O peggio. Il silenzio-assenso non vale in politica e nega la comunità. Anche in questo caso la storia insegna.
Grillo fa i conti in tasca all’Unità. Credo che a questo punto sia facile fare i conti in tasca ai giornali: non c’è giornale che non soffra, dal Corriere della sera al Sole24ore. La crisi non rispetta il colore delle testate. Basta leggere l’elenco dei licenziamenti chiesti nei programmi di ristrutturazione, quante ore di cassa integrazione, quante ore di solidarietà, quanto infine sono calati  gli investimenti pubblicitari, un mercato dal quale non sarebbe difficile rendersene conto l’Unità come altri giornali (dal Manifesto a Liberazione, chiusa da tempo) sono esclusi. Varrebbe la pena qualche volta, quando si parla di soldi soprattutto, riflettere anche sulle condizioni di una presunta «casta», in bilico tra prepensionamenti, mobilità, lavoro sottopagato...
Un stato «civile», perché la società sia «civile», sostiene i giornali e sostiene soprattutto i giornali che per carattere politico e per dimensioni meno vengono premiati dal mercato della pubblicità, più fatica fanno a stare in campo. Riconosce che sono democrazia. Qualsiasi paese democratico lo riconosce.
Altrimenti davvero sarebbe una resa, deleteria per tutti, per chi sta in alto e per chi sta in basso, perché ancora i giornali sono portatori di idee, di cultura, di critiche, di dissenso, ancora raccontano brani di realtà, la fabbrica che chiude, i lavoratori sulle gru, le commesse in sciopero, anche i politici che rubano. I giornali, tutti i giornali, danno la parola a chi non l’ha, a quel vasto mondo di nessun privilegio e di pochi diritti: disoccupati, immigrati, donne sfruttate, cittadini inquinati dallo smog o dai rumori. I giornali controllano. I giornali denunciano: che cosa sarebbe stato di tangentopoli senza i giornali? Che cosa sarebbe stato Grillo senza i giornali?

il Fatto 29.3.13
5 Stelle, oggi i nomi da fare al Quirinale
“Ma chi li ha scelti?”
di Paola Zanca


“Nomi? Ma quali nomi! noi non abbiamo votato niente! ”. Da Nord a Sud, deputati e senatori si domandano che cosa stia succedendo. Oggi alle 16 i Cinque Stelle sono riconvocati al Quirinale, secondo giro di consultazioni, e a Napolitano porteranno la loro rosa di nomi per la guida di palazzo Chigi. Dovrebbero essere i soliti noti: Gustavo Zagrebelsky, Salvatore Settis, forse Stefano Rodotà. Ma la lista è top secret. Talmente tanto, che nemmeno gli eletti la conoscono. È qui che si scatena la caccia grossa: come è possibile che il Movimento che si riunisce su tutto, non abbia discusso in maniera ufficiale della formazione da proporre al Colle? Qualcuno potrebbe dire che è mancato il tempo, che solo ieri Napolitano li ha richiamati al Quirinale. Eppure non era un’ipotesi difficile da immaginare. Nel frattempo, però, sono tutti partiti, perfino Vito Crimi ha dovuto annullare il biglietto per casa che aveva già in tasca. “Possiamo essere convocati e incontrarci in qualsiasi momento - dice Roberto Fico, deputato napoletano - Molti di noi restano a Roma e gli altri ci mettono poco a tornare”. Ma è evidente che non è così. La lista esiste già? è la domanda dei cronisti a Fico: “No comment”, ripete due volte, quando gli fanno notare che in gergo il silenzio equivale a un sì.
PER LA PRIMA VOLTA, i parlamentari Cinque Stelle si sentono tagliati fuori. E la sensazione che un gruppo ristretto stia portando avanti la partita grossa, non è piacevole da digerire. “Non è il nostro metodo”, dice un senatore. “Sarebbe gravissimo”, aggiunge un altro. Oggi, comunque, a gestire la patata bollente dovrebbe arrivare Beppe Grillo in persona. Qualcuno sostiene sia arrivato a Roma già ieri sera, ma le notizie sulla partenza da Marina di Bibbona (dove il leader era arrivato due giorni fa) sono confuse e depistate: dalla villa sul mare è uscito incappucciato il custode, tre macchine hanno varcato il cancello e se su una ci fosse Beppe, non si sa.
DI CERTO, c’è solo una telefonata. È quella con cui i senatori, martedì, l’hanno raggiunto dopo le consultazioni con Bersani. La racconta Paola Nugnes su Facebook: “Credo sia giusto che le vostre cose le discutiate tra voi”, avrebbe detto Grillo stando al racconto della senatrice. Chi c’era, però, ricorda che il leader ha aggiunto altre parole: “Tenete duro, restate compatti, nessuna fiducia a Gargamella, vi vogliono fottere”. Di telefonate, ieri, ce ne sono state molte. Una, piuttosto lunga tra Claudio Messora e Gianroberto Casa-leggio. Ufficialmente, hanno continuato a discutere della piattaforma che deve servire alla comunicazione tra gli eletti (due giorni fa, 4 deputati sono andati a Milano per incontrarlo), segno che il filo diretto con il guru non si è mai interrotto .
La settimana prossima - tra sabato o domenica, in Toscana o in Abruzzo - si terrà il “summit” a un mese dalle elezioni: gli eletti incontreranno i fondatori del Movimento per fare il punto su questi primi burrascosi trenta giorni di legislatura. Si parlerà anche dei dissidi interni, caso Lombardi compreso. Ieri, la capogruppo che ha creato malumori per la sua gestione troppo autoritaria dei deputati, si è presentata in assemblea piuttosto abbattuta: “Mi sono svegliata malissimo. Le cose che ho letto mi hanno dato molto fastidio. Parlate chiaro, se volete che mi dimetta ditelo”. Sulla faccenda, per il momento, pare si sia steso un velo. Ma ogni giorno ce n’è una. Ieri è toccato alla romagnola Giulia Sarti - che già nei giorni scorsi, insieme a una ventina di colleghi aveva proposto di votare i nomi da proporre al Colle - polemizzare con la nomina del bolognese ‘Nik il nero’, alias Nicola Virzì, ultimo ingresso nello staff della comunicazione. Tutto è rimasto nel chiuso delle stanze: come spiega la deputata Federica Daga la web cam “l’abbiamo dimenticata”. Che aggiunge: “Devo portarmela pure in bagno? Se non facciamo lo streaming scrivete che manchiamo di trasparenza, ma siete fuori? ”. Di video, ieri se n’è fatto uno: sottofondo di Lucio Battisti, i Cinque Stelle cantano: “Siamo pronti, Presidente, siamo pronti per governare. Perchè no? Ci metta alla prova, signor Presidente. Non chiuda la porta, noi siamo pronti”.
Grillo, almeno fino a oggi alle 16, pensa ad un’altra soluzione: “Non è necessario un governo per una nuova legge elettorale o per avviare misure urgenti per le pmi o per i tagli delle Province”. Il Parlamento è sovrano, dice, “si può fare”.

il Fatto 29.3.13
Il giornalista Gianluca Nicoletti
“Macchè streaming, una candid camera anni 90”
di Carlo Tecce


Gianluca Nicoletti, giornalista e scrittore, conduttore di Melog su Radio 24, non rinnega l'anagrafe che dona uno sguardo largo e lungo: “Ho la mia età e ne ho vissute di epoche, e non avrei mai pensato di osservare il culto del vecchio, il vintage digitale: la castroneria che lo streaming sia una novità”.
Qui si mette in discussione la filosofia del Movimento Cinque Stelle.
Non faccio un ragionamento di carattere politico, non mi interessa. Vent'anni fa mi emozionavo per lo streaming, ora mi viene noia perché mi risulta, anzi dovrebbe risultarci superato. I ragazzi scorrono le tecnologie con vorace velocità, e noi torniamo a una diretta, che si vede pure malissimo, per manifestare trasparenza?
Dicono che l'incontro Bersani-5Stelle, a inquadratura fissa e un po' smerigliata, sia un'innovazione assoluta.
Certo, per l'ignoranza digitale che regna nelle istituzioni. Cosa cambia fra la televisione e lo streaming? Il faccia a faccia, tra gli esponenti di due partiti così diversi, così contemporanei, sembrava una candid camera anni 90 oppure una pantomima riuscita male. Si potevano anche utilizzare i canali ufficiali di Camera e Senato. Non tutti, purtroppo, dispongono di buone connessioni. Se non fosse stato per i siti o le tv, nulla avremmo saputo, ma tanto quel che aveva un'importanza era poco.
Lo streaming è morto, allora.
Quando non si crede più nel padre eterno, la religione si lega alle tradizioni, agli aspetti superficiali come lo streaming che è una banale trasmissione di dati, anche di pessima qualità. Può avere un valore aggiunto soltanto se viene adoperato per un evento, per qualcosa che non può essere ripreso: mi viene in mente l'impiccagione di Saddam Hussein.
Il Movimento Cinque Stelle è sceso a Roma armato di apriscatole, che poi sarebbe anche la rete. L'informazione immediata cioè non mediata.
Portano una parvenza di novità con un ritardo di vent'anni. È come quando vai in un negozio che fa i saldi e ti presentano una collezione vintage, ti sfoderano le riserve del magazzino. Questo è possibile, ripeto, perché i politici italiani non ci capiscono nulla di internet e tecnologia. La rete in sé non funziona, non è uno strumento democratico per definizione, ma è fondamentale per la riproduzione. La diretta streaming si ferma a un momento, non c'erano contenuti originali: non c'era interazione, cosa cambia con la messa in onda televisiva?
Beppe Grillo ha creato un movimento politico con un sito molto scritto, non essenzialmente aggiornato ai tempi di Silicon Valley.
Il blog è un mezzo arcaico e quel blog ha una forte moderazione per togliere il dissenso, viene sfruttato molto per tenere intoccabili varie parole d'ordine. Sono appassionato di un mondo che cambia e ricicla il passato, però non dimentichiamoci che lo streaming o un blog non sono nulla di rivoluzionario per il resto del pianeta, forse per noi, italiani, un pochino sì.

il Fatto 29.3.13
Celentano striglia Grillo I vip: è ora di compromessi
Da Mannoia a don Gallo: i “grandi elettori” cercano di ammorbidire l’intransigenza a 5 Stelle sul governo
di Emiliano Liuzzi


Le pressioni dei grandi elettori, artisti e intellettuali soprattutto, non sono servite a niente. Beppe Grillo è rimasto su un no irremovibile rispetto all'ipotesi di un governo guidato da Pier Luigi Bersani. Ha respinto tutte le interferenze dall'esterno, hanno deciso lui, Gianroberto Casaleggio e un pugno di parlamentari eletti con il Movimento 5 stelle. Ha mandato i due capigruppo di fronte al segretario del Pd e, come se non bastasse, ha scritto un post definitivo sull'ipotesi. Dirà la sua al presidente Napolitano, probabilmente.
NON HA ASCOLTATO neppure Don Gallo che, nel parlare di “un gioco al massacro”, lo aveva supplicato di trattare sugli argomenti senza pregiudizi. “Chi ha veramente a cuore il bene comune, dovrebbe cercare di trovare uno spiraglio in queste tenebre. Anche se non è facile: vediamo questi voti di metterli insieme. Il Movimento vada al tavolo col centrosinistra per realizzare le riforme più importanti come la legge elettorale, il conflitto di interessi, la possibilità di eliminare le pensioni d'oro e di dimezzare i parlamentari e di combattere la disoccupazione, l'evasione fiscale e la corruzione". Grillo ha taciuto.
A fianco del prete degli ultimi, si è posizionato anche il figlio di Dario Fo, Jacopo, che dal suo blog sul fattoquotidiano.it   ha parlato di tentativi di conciliazione necessari da chi parla lingue diverse ma non troppo. “Il Pd ha fatto otto proposte – scriveva nei giorni scorsi – ma evidentemente non sono sufficientemente appetibili per il Movimento”. Per questo secondo Fo la soluzione ponte avrebbe potuto chiamarsi Laura Puppato, senatrice ed ex sindaco del Comune di Montebelluna, definito Comune a 5 Stelle dallo stesso Grillo: “Crediamo che tu, cara Puppato, rappresenti l’anima del Pd più vicina a questo modo pratico di ragionare e di trovare una convergenza. Chi meglio di te potrebbe costruire una piazza dove discutere pubblicamente sulle leggi immediatamente indispensabili per evitare il collasso nazionale? ”. La risposta è stata un'altra porta chiusa. Grillo è partito per Marina di Bibbona, con in tasca altri pensieri e programmi. Più distante Dario Fo che, almeno in questa fase, non si è sentito di fare nomi. Il premio Nobel, molto più che un alleato di Grillo, si è limitato a consigliare una serie di alternative per oltrepassare il problema, “nomi ai quali il Movimento 5 stelle non potrebbe dire di no”. Ma è stato più un messaggio a Napolitano che altro.
Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, e leader delle “agende rosse”, attraverso questo giornale, il suo appello lo aveva già fatto, pur senza convinzione: “Capisco che per i parlamentari a 5 stelle la posizione sia quella di porre fine a un centrosinistra e un centrodestra che governano a braccetto questo Paese da quasi 20 anni, ma probabilmente io avrei dato la possibilità a Bersani di giurare per poi valutarlo di volta in volta dentro l'aula”.
Più ampio l'approccio di Adriano Celentano che dalle pagine di Repubblica cita il Papa (“la politica impari da lui”) e se la prende con Marco Travaglio, soprattutto, e la trasmissione di Mi-chele Santoro, per gli attacchi al presidente del Senato Grasso, colpevoli secondo lui di appesantire l’aria, mentre “dovremmo orientare la luce del sole ovunque spuntino, anche se piccoli, i segnali del cambiamento”. Non risparmia nessuno, Celentano, e liquida come una cazzata l’ineleggibilità di Bersluconi proposta da Flores d’Arcais e già recepita dai grillini: “Fuori luogo”, scrive, e “decisamente fuori tempo musicale”. Da grande elettore del Movimento 5 stelle, Celentano si è rivolto anche a Grillo direttamente: “Praticamente tu spingi Bersani ad allearsi con Berlusconi. Hai mai pensato ai vari risvolti di una così curiosa alleanza? Tutti e due, per come li hai ridotti, sarebbero costretti a venirsi incontro, anche se nell'animo di entrambi auspica l'idea di tornare il più presto possibile felici e separati più di prima. Nel frattempo ci sarà una gara a chi dei due lavorerà meglio per il bene degli italiani. Se ciò avvenisse è chiaro che il merito sarà ancora tuo. Ma se poi questi due si divertono a stare insieme? E allora la strana alleanza che doveva durare solo il tempo di una o due riforme, potrebbe protrarsi e durare magari qualche anno, o addirittura cinque di anni... ”.
AL CORO di appelli anche Fiorella Mannoia, vicina agli ambienti della sinistra ufficiale, ma che alle scorse elezioni ha dichiarato di aver scelto Grillo: “Non sarebbe meglio trovare un compromesso transitorio solo per traghettare il Paese a nuove elezioni, magari fra un anno? Ora è il momento di agire, il M5S è andato al governo. Che cosa si fa? Si sta a guardare il Paese andare a fondo o si dialoga? No, caro Beppe, mi dispiace ma non sono d'accordo”.
Chi si è mantenuta a debita distanza è stata Mina, grande elettrice solo sulla carta visto che è cittadina svizzera. Ha fatto il suo appello di voto per Grillo, amico e compagno di strada della cantante, ma poi si è chiamata fuori da ogni questione dialettica e politichese.

il Fatto 29.3.13
I vecchi amici di Alemanno, ombre e guai in Campidoglio
Da Mancini a Panzironi, storia dei “rapporti pericolosi” tra il primo cittadino e tanti manager della destra romana
di Rita Di Giovacchino


Mancini non è il mio braccio destro, sono illazioni da cui non mi farò condizionare”. Alemanno non flette e non recede, non ha altra scelta chetornareafareilsindacodiRoma e non intende rinunciarci. La valanga rischia di travolgerlo, ma lui glissa, smussa, minimizza.
Riccardo, che riceveva dall’assessore Mancini chi? Che l’ex ad di Ente Eur fosse “diretta espressione del vertice dell’amministrazione capitolina”, uomo “subordinato” al sindaco di Roma, in realtà lo afferma il gip Stefano Aprile nell’ordinanza d'arresto in cui contesta all’ex ad di Ente Eur il reato di concussione: “Non aveva incarichi ufficiali, ma riceveva nella stanza dell’assessore”. Non è cosa facile prendere le distanze dall’amico di un vita, a legarli è il comune passato di “duri e puri” da Avanguardia nazionale a Boia chi molla. E lui Mancini in effetti non lo ha mai mollato, almeno finora. La loro amicizia era nata proprio all’Eur. Il Fungo era il punto di raccordo negli anni Ottanta della fascisteria romana, dai Pariolini come Alemanno, ai fratelli Fioravanti, noti per i molti omicidi e i famosi processi, fino a Massimo Carminati, il Nero di Romanzo Criminale, che all’Eur spa era di casa, qualcuno pensava che addirittura Mancini lo avesse assunto. “Macché è soltanto un vecchio amico”, si è giustificato lui. A preoccupare in queste ore il sindaco di Roma è soprattutto una cena con i vertici di Fin-meccanica, possibile oggetto di un suo interrogatorio in procura subito dopo Pasqua. “Sono stato a cena con Guarguaglini, c'era anche Cola, Mancini non c'era”. Ma “chi tocca quei fili muore” e i rapporti con Fin-meccanica hanno bruciato gloriose carriere, dentro e fuori piazza Montegrappa, da Guarguaglini a Tremonti, al suo braccio destro Milanese, condannato ieri a 8 mesi per quella barca da 16 metri ottenuta in cambio del suo interessamento agli appalti Enav. “I filobus erano soltanto uno step in vista del mega-appalto da 2 miliardi di euro. A Mancini interessava soprattutto la nomina ad ad di Ente Eur”, ha raccontato al pm Ielo, Marco Iannilli, commercialista del Lorenzo Cola legato a Guarguarglini proprio perché quel manager, con il busto di Mussolini nel salone e il ritratto di Hitler sul letto, era l’uomo giusto per trattare con la segreteria di Alemanno. La lobby Rome, come l’ha definita Eduardo d’Incà Levis, di cui Mancini era l’emissario. Dal Fungo al Fungo, 30 anni dopo grazie ai filobus Mancini è tornato da vincitore. Con l’elezione a sindaco di Alemanno era uscito allo scoperto, finanziatore di due campagne elettorali e poi suo tesoriere. Le chiavi di Eur spa gli spettavano. Intestatario di una fila di conti esteri su cui venivano fatte circolare le commesse, Iannilli sa tutto: “Il ruolo di Mancini era quello di chiudere gli accordi e di bloccare i pagamenti, attraverso le sue entrature nell'amministrazione comunale, fino a quando Cerando (manager di Breda-Menarinibus, ndr) non avesse erogato le somme dovute”. Un dubbio: “A quel punto vado da Cola e gli chiedo: se l’appalto lo prende Finmeccanica. come è possibile che la tangente la prende Finmeccanica? I soldi sono suoi e di Borgogni”.
Nomi e cognomi della Parentopoli
Non è la prima grana che vede Alemanno coinvolto in una storia di favori e tangenti. Nell’inchiesta sulla barca di Milanese, l’ex ad di Enav Guido Pugliese, spiegò: “SullanominadiFabrizio Testa quale ad di TechnoSky ci furono inchieste insistenti da parte del sindaco di Roma che mise in croce Tremonti”. Il sogno di Mancini era il rilancio dell’Eur, 40 milioni di incasso all’anno. Dalla Nuvola di Fuksas, al vecchio Velodromo saltato in aria, dove voleva progettare alberghi e palazzine, 30 mila cubi di cemento. Si portava dietro amici e amici degli amici. Fuori i dirigenti storici per far posto a Dario Panzironi, figlio di Franco, ad di Ama. Ma anche Adriano Tilgher, 1 anno e 9 mesi per violazione della legge sulle armi. E poi il suo socio in affari Ugo Luini, tra i consiglieri di Nuova Italia, perquisita la sera dell’arresto di Mancini. Nell’ultimo mese Alemanno ha cercato di prendere le distanze da “cementificazione” e Parentopoli. Ma il suo sistema di potere poggiava anche su Franco Panzironi. La scelta di assumere il figlio Dario, a novembre, ha fatto scandalo. Ma nessuno ha battuto ciglio quando il padre fu indagato per turbativa d’asta con pressioni e minacce alle ditte interessate all’appalto da 16 milioni per la fornitura delle divise dei netturbini, assegnata alla Sogesi ortofrutta). Anche la Parentopoli capitolina reca la sua firma: nel 2009 ci fu un’infornata di 350 lavoratori interinali, tra cui la figlia dell’ex caposcorta di Alemanno, il genero Armando e la sua segretaria. Lo scandalo si estese all’Atac, altre 850 assunzioni. Furono indagati, oltre Panzironi, anche Gianfrancesco Regard, ex responsabile legale dell’Ama, Luciano Cedrone direttore del personale, il dirigente Ivano Spadoni dirigente aziendale e Sergio Bruno, presidente del consorzio Elis. Le 800 assunzioni erano avvenute tramite l’Elis, agenzia interinale priva dei requisiti di legge, ma 40 furono per chiamata diretta. Parentopoli fu un ciclone che investì una giunta già offuscata da altri scandali: fino al 2009 ai vertici dell’Ama c’era Stefano Andrini, anche lui legato all’estrema destra. Legami che non aveva mai reciso: fu costretto a dimettersi non per il passato di picchiatore, ma per i rapporti con Gennaro Mokbel e il senatore Nicola Di Girolamo, coinvolto nella truffa di Fastweb e Telecom Sparkle.

il Fatto 29.3.13
Marino (Pd): “Ora il sindaco si dimetta”


“ALEMANNO dovrebbe dimettersi”. Lo ha detto ieri Ignazio Marino, candidato alle primarie per il Comune di Roma del 7 aprile, durante l’intervista in diretta sulla web tv del Fatto. Marino ha spiegato: “Dopo l’arresto di Mancini, Alemanno dovrebbe fare un passo indietro. Non sto certo dicendo che il sindaco abbia partecipato alla spartizione di denaro o che abbia preso tangenti. Ma penso che le dimissioni sarebbero la via migliore per Alemanno per consentirgli poi di provare la propria estraneità ai fatti”. Secondo il senatore del Pd, “va però ricordato che, tra tutte le persone che hanno circondato Alemanno in questi anni, cominciano ad essere davvero tante quelle che hanno o hanno avuto problemi giudiziari. Il sindaco dovrebbe ammettere di aver sbagliato a circondarsi di queste persone, e trarne le conclusioni”. Tanti i temi toccati nell’intervista. “Se vinco le primarie del 7 aprile, mi dimetto da senatore” ha promesso Marino, che è poi tornato a polemizzare con David Sassoli, altro candidato Pd, di cui già mercoledì aveva chiesto il ritiro per i manifesti diffusi a Roma. Ieri la nuova stoccata: “Prendo atto che dall’8 ottobre il capogruppo del Pd nel Parlamento europeo (Sassoli, ndr) risiede a Roma e non a Bruxelles”. Replica dallo staff di Sassoli: “Nel periodo tra ottobre 2012 e febbraio 2013, come si può verificare dai dati di votewatch.eu, il capogruppo è stato presente a Bruxelles ogni settimana”.

Corriere 29.3.13
Rizzo chiama a raccolta i comunisti europei


MILANO — Marco Rizzo, ex parlamentare del Pdci e ora segretario dei Comunisti Sinistra Popolare/Partito Comunista, riunirà sabato 6 aprile a Roma in via Casilina i partiti comunisti europei, per discutere della situazione politica e creare una rete comunista «dal forte internazionalismo». Alla presenza degli ambasciatori di Cuba, del Venezuela e della Corea del Nord si discuterà di come rilanciare l'ideale comunista, vista la grave crisi elettorale che attraversa i partiti con la falce e martello non solo in Italia. E anche l'attuale situazione politica italiana verrà analizzata: Rizzo critica sia «il governo Monti con le sue politiche liberiste e le figuracce internazionali», sia il «nuovo inconsistente M5S che si concentra su problemi minimi, come i costi della buvette parlamentare». Rimane il rifiuto netto della socialdemocrazia, quindi anche del Pd, che si è ormai «abbandonato alle politiche capitaliste mondiali: è necessario invece che l'Italia esca velocemente dall'Unione Europea, dall'Euro e dalla Nato», sostiene il segretario del Csp-Pc. Non saranno presenti i partiti comunisti che «hanno abiurato, cioè tolto il simbolo della falce e martello dal proprio simbolo»: nessuno spazio quindi per il greco Syriza ma neanche per lo storico Partito comunista francese.

La Stampa 29.3.13
Hollande: l’austerity alimenta i populismi. Avete visto l’Italia?
“La crisi dell’euro è risolta, ma occorre ancora rigore, alcuni Paesi sono fragili”
di Alberto Mattioli


Ha parlato molto, 45 minuti in diretta in prima serata su «France2», e non ha detto quasi nulla. L’esercizio era difficile ma François Hollande ne è uscito bene, da quel politico smaliziato che è. Del resto, è un momento in cui in Francia va tutto male, compresi i sondaggi sul suo gradimento. Finito l’effetto-Mali, con il Président che indossa l’elmetto di «chef des Armées», una parte che strappa sempre gli applausi al pubblico francese, la realtà economica presenta il conto. Tutti i dati sono cattivi e non è certo tutta colpa di Hollande. Però l’opinione pubblica non gli rimprovera tanto questa situazione, ma il fatto che non dia l’impressione di sapere come uscirne.
Hollande sta deludendo, anche e soprattutto chi l’ha votato. Il dubbio comincia a serpeggiare pure fra i socialisti. Il malcontento è generale. Ieri Hollande è stato fischiato dagli anti-nozze gay al suo arrivo in studio. E non ha pace nemmeno nel privato: da settimane, rimbalzano voci su una relazione con una bella attrice quarantenne, Julie Gayet. E tanto sono rimbalzate che madame Gayet ha sporto denuncia per scoprire chi le ha messe in circolazione.
A parte questo, in tivù Hollande ha affrontato tutti gli argomenti. Si sapeva che di promesse clamorose non c’era da aspettarsene, anche perché non c’è un euro per finanziarle. Quelle che Hollande ha fatto sono state tutte low cost, come uno «choc di semplificazione» per la burocrazia imposta alle aziende e per l’elefantiaca macchina amministrativa e la riduzione della spesa pubblica.
La famosa o famigerata tassa del 75% sui redditi più alti ha fatto vincere a Hollande le elezioni ma è chiaramente inapplicabile. Abbandonarla, però, è impensabile. E così il Presidente ha annunciato che sarà pagata dalle imprese sulla remunerazione dei loro amministratori, qualora sia più alta di un milione di euro. L’idea è un po’ fumosa (le stock option e i bonus, per esempio, saranno compresi o no?) e poi così diventa chiaramente dissuasiva, perché le grandi società ci penseranno tre volte prima di continuare a pagare gli stipendi faraonici dell’evo a. C. (ante Crisi). Invece Hollande dice una cosa nuova, e per nulla di sinistra, quando fa capire che la riforma delle pensioni è inevitabile. Nel 2010, sfilò in corteo contro la riforma di Sarkozy; oggi ammette che il deficit del sistema arriverà a 20 miliardi di euro nel 2020, quindi qualcosa va fatta.
Sull’Europa, per Hollande la crisi dell’euro è risolta ma alcuni Paesi, fra cui l’Italia, «sono sempre fragili». Dunque, bisogna essere «rigorosi», ma non si parli di austerità, che è il propellente del populismo. «E in Europa vedo montare i populismi, gli egoismi nazionali. Avete visto ciò che è successo in Italia? ».
Il Presidente è apparso tranquillo, anche perché voleva tranquillizzare. Il linguaggio era talvolta troppo tecnico, la polemica con «il mio predecessore» velata ma presente: «Non faccio - ha detto il successore di Sarkò - la politica degli annunci permanenti». Il resto è retorica: «Non sono più un Presidente socialista, ma il Presidente di tutti i francesi». Su fatto che la seconda parte della frase sia vera, si può discutere; sulla prima, nessun dubbio.

l’Unità 29.3.13
Il Sudafrica col fiato sospeso per Mandela
Un altro ricovero per il padre della democrazia sudafricana
L’appello di Zuma. Le contraddizioni della grande potenza
di Gabriel Bertinetto


I comunicati diffusi ieri sera dalle autorità sudafricane lasciavano intuire la gravità delle condizioni di salute di Nelson Mandela, il padre della democrazia sudafricana, l’uomo che condusse i neri alla conquista della parità in uno Stato sino ad allora dominato dalla minoranza bianca.
Già ricoverato in dicembre per un’infezione polmonare, l’anziano ex-presidente era stato di nuovo portato in ospedale poco prima della mezzanotte di mercoledì. Il paziente «risponde positivamente alle cure» recitava un comunicato presidenziale, riecheggiando un po’ evasivamente il linguaggio dei bollettini medici. Seguiva un ringraziamento ai media e al pubblico per «la cooperazione nel rispetto della privacy di Madiba (così viene affettuosamente chiamato Mandela dai connazionali) e della sua famiglia». Poco prima il capo di Stato Jacob Zuma aveva chiesto «al popolo sudafricano e al mondo intero di pregare per il nostro caro Madiba» esprimendo «totale fiducia nell’équipe medica».
Ma il dopo-Mandela è in realtà già iniziato da tempo. Non solo per l’età avanzata (Madiba nacque nel 1918) e la salute precaria (quattro ricoveri negli ultimi due anni), ma per la sua volontaria auto-esclusione dalla scena politica. Una decisione presa nel 1999, quando molti si aspettavano una ricandidatura per un secondo mandato quinquennale. Disse allora di voler lasciare il timone in mano a dirigenti «più giovani e più capaci». Sono passati quattordici anni e molte cose sono cambiate in Sudafrica, anche se non sempre nella direzione che Mandela aveva auspicato.
Proprio in questi giorni a Durban si è svolto il vertice dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), cinque Paesi accomunati da un impetuoso ritmo di sviluppo economico, nei quali vive circa metà dell’intera popolazione mondiale. Nel summit si è discusso di un’iniziativa ambiziosa, il varo di un istituto finanziario destinato ad affiancare e forse sfidare la Banca Mondiale. Come leader del Paese ospitante, Jacob Zuma ha potuto con orgoglio annunciare l’avvio di «negoziati formali per fondare una nuova Banca per lo sviluppo guidata dai Brics».
Il Sudafrica è protagonista delle grandi scelte internazionali. Non solo sul terreno economico, ma anche in quello della diplomazia e della sicurezza. Da qualche anno Pretoria è sempre più coinvolta nei tentativi di risolvere le crisi regionali che affliggono il continente nero. Con risultati più o meno positivi ha offerto il proprio ruolo mediatore in Madagascar, Costa d’Avorio, Libia. Recentemente ha inviato truppe nella Repubblica Centrafricana, dove proprio pochi giorni fa tredici suoi soldati sono rimasti uccisi dai ribelli dell’alleanza Seleka che combattono contro il governo di Bozizé.
Ma l’accresciuto peso internazionale è solo un aspetto della realtà sudafricana. All’interno il Paese vive forti tensioni sociali. Lo stesso Zuma ha commentato con preoccupazione i risultati dell’ultimo censimento: «Le cifre ha dichiarato il capo di Stato rivelano che l’ultimo gradino della scala è sempre occupato dai neri, che sono tuttora alle prese con grande miseria, disoccupazione, disuguaglianza, nonostante i progressi che abbiamo fatto dal 1994», cioè dall’anno in cui finiva l’apartheid e in Sudafrica si svolgevano le prime elezioni a suffragio universale.
I dati sulla distribuzione della ricchezza parlano chiaro. Il reddito medio annuo di una famiglia bianca supera di sei volte quello di una famiglia nera. Ed è nella stragrande maggioranza composto da neri quel trenta per cento di sudafricani che risultano senza lavoro, così come sono neri i quasi due milioni di persone che vivono nelle baraccopoli su una popolazione complessiva di circa 52 milioni.
L’Anc (African National Congress), il partito della rivolta contro il dominio razziale, continua a vincere le elezioni, nonostante il malcontento e la delusione provocati da una crescita economica squilibrata e dalla corruzione. Al suo stesso interno è in corso una lotta furibonda fra i capi storici e i nuovi leader dell’ala giovanile. Lo scontro è culminato dieci giorni fa nella destituzione dell’intero gruppo dirigente della Lega della gioventù. Il segretario generale dell’ANC, Gwede Mantashe, un fedelissimo di Zuma, ha negato che si tratti di una purga o che il partito sia in fermento. Si è limitato a liquidare i siluramenti come «misure disciplinari» verso individui che rischiavano di «arrecare discredito all’immagine del partito». Le vittime della punizione accusavano invece parte della leadership centrale di danneggiare l’onore dell’Anc con la tolleranza o complicità verso la corruzione dilagante, e con provvedimenti errati in materia economica e sociale.
Qualche mese fa le drammatiche contraddizioni sociali e politiche che attanagliano il Paese emersero nelle polemiche intorno alla strage di Marikana. Trentaquattro minatori in sciopero uccisi dalla polizia. Neri contro neri. Lo Stato creato dall’African National Congress contro il popolo in difesa del quale l’African National Congress si era battuto.

l’Unità 29.3.13
Sex and the citadel. Vita intima in Islam
Shereen El Feki scrive un libro sui costumi sessuali nei Paesi arabi. E scoppia il caso
di Simone Porrovecchio


«NEL MONDO ARABO IL SESSO È L’OPPOSTO DELLO SPORT. TUTTI PARLANO DI CALCIO, E NESSUNO LO GIOCA. IL SESSO TUTTI LO PRATICANO, MA NESSUNO NE PARLA». È con una battuta che Shereen El Feki individua la domanda centrale del suo libro scandalo Sex and the Citadel – Intimate Life in a Changing Arab World (Pantheon – Random House) uscito in questi giorni in inglese e tedesco e indicato dal NYT tra i cinque libri più importanti dell'anno.
Perché è ancora così difficile parlare di sesso nel mondo arabo? E soprattutto: cosa e come si può cambiare? ll libro è stato quasi censurato in Egitto ed è al centro di un’aspra polemica in tutti i Paesi vicini. Shereen è scienziata scrittrice, accademica, giornalista e esperta numero uno al mondo di salute e sesso nel mondo arabo. È nata al Cairo e cresciuta in Canada dove è diventata immunologa. Oggi è soprattutto giornalista, lavora per la Tv araba Al-Dschasira e scrive per l’Economist. Si divide tra il Cairo e Toronto, è tra gli esperti incaricati dalle Nazioni Unite per il progetto United Nations Alliance of Civilizations ed è membro della Commissione Hiv dell’Onu.
Trovare risposte alla domanda di Shereen El Feki è impresa difficilissima. La persistenza però ha pagato. La giornalista ha raccolto una quantità straordinaria di opinioni e dati, dall’online dating alla mutilazione genitale femminile nei Paesi arabi. Cinque anni di lavoro in cui ha intervistato donne e uomini, soprattutto in Egitto, con in tasca la domanda più semplice: cosa pensano del sesso? E quale ruolo ha nella loro vita? El Feki descrive con piglio scientifico e sobrietà destini toccanti, motivazioni storiche e, soprattutto, consegna numeri inequivocabili e rivelatori.
Il merito di Sex and The Citadel è proprio questo: permettere uno sguardo completamente nuovo nella vita intima di un mondo alle prese con un cambiamento profondo e doloroso, inevitabile e, al momento, senza guida.
È lei a spiegare la tesi centrale della sua immensa e appassionante ricerca: «L’Islam ha nella sua versione scevra di estremismi una posizione positiva nei confronti della sessualità. Ma se il mondo arabo di oggi non dà vita a un rapporto libero e aperto con il sesso, lo sviluppo politico e sociale di quelle società continuerà a ristagnare». Ma attenzione, «Sex and the Citadel non è avverte , – un peep show, né ha pretese da enciclopedia. El Feki indica come momento culminante del lavoro confluito in Sex and the Citadel un’asserzione presa da una tesi di Foucault secondo cui «la sessualità è un punto di trasferimento particolarmente denso di relazioni di potere». Lei è partita da qui per dare forma al suo studio. «Il clima che si respira in questi giorni in Egitto, e in tutto il Maghreb, è del tutto simile a quello che avvolgeva l’Occidente all’alba della rivoluzione sessuale». La sua ricerca è stata come «tagliare con il coltello una nebbia fittissima, densa». Secondo la studiosa «molte delle forze sottese a quelle società non sono in rottura frontale con la tradizione, ma cercano di trovare disperatamente un punto di equilibrio con la Democrazia». Democrazia e sessualità.
Nel suo libro si ritrova una definizione più precisa. E nuova. «Non parlo mai di rivoluzione, ma di liberaziones essuale. La differenza è decisiva». La lotta per la Democrazia nei Paesi arabi va oggi di pari passo con una percezione nuova della sessualità. Racconta di come le sia venuta l’idea di un libro sull’argomento, mentre leggeva Foucault. «Ricevetti una statistica pubblicata dal Ministero della Salute egiziano in cui si producevano dati che non mi convincevano per niente. Secondo quella fonte ufficiale la diffusione dell’Hiv nei Paesi arabi era molto inferiore a quella registrata negli ex Paesi dell’Europa dell’Est, dell’Africa, dell’Asia. Si parlava di 0,1%. Ero colpita e sconvolta. Come era possibile che in tempi di globalizzazione un pezzo di mondo fosse completamente al riparo dall’epidemia?».
Shereen El Feki aveva ragione. Dopo un’ interrogazione alla Commissione Hiv dell’Onu le nuove ricerche hanno dato risposte molto diverse. Se nella media dei Paesi della regione l’Hiv si attesta intorno al 3%, tra le categorie ‘a rischio’, gay, tossicodipendenti e prostitute, i numeri schizzano molto più in alto. «Un dato non va dimenticato spiega la scrittrice gli uomini arabi che vanno a letto con gli uomini di regola vanno a letto anche con le donne, una moglie, una fidanzata promessa, una prostituta. Il problema come vediamo è culturale. Se è vero che l’Islam proibisce categoricamente rapporti sessuali fuori del matrimonio, agli uomini quanto alle donne, è pratica comune che gli uomini facciano sesso con altri uomini o donne. E anche qui a pagare il prezzo più alto sono le donne: discriminate, svantaggiate, vittime di rapporti sociali squilibrati».
Sessualità come specchio di una cornice più ampia di rapporti sociali che oggi sono sull’orlo di una svolta dagli esiti indecifrabili. Eppure Sehreen El Feki ha il coraggio di spingersi oltre, di formulare una tesi che non piacerà a tutti, ma che getta luce sulla situazione, inimmaginabile per i parametri occidentali, in cui vivono 359 milioni di arabi. Shereen prova a semplificare con la formula di un’equazione: i diritti sessuali sono a tutti gli effetti diritti inalienabili dell’uomo. La tesi è assai controversa, anche alle Nazioni Unite, dove di recente è stata sollevata più volte. «Io credo che il profilo privato dell’uomo influisca sulla sua dimensione politica. E viceversa. Nessuno può togliermi dalla testa il dubbio di come i giovani cittadini arabi possano essere cittadini partecipanti e attivi alla vita pubblica se non avranno la libertà e la possibilità di accedere a informazioni sul proprio corpo e la propria sessualità». Un cittadino senza una consapevolezza di sé, quindi anche sessuale, è un cittadino suo malgrado a metà. Questo è l’approdo politico del caso letterario scoppiato attorno a Sex and the Citadel.

il Fatto 29.3.13
L’anticipazione
Il potere al tempo dei 140 caratteri
di Noam Chomsky

Pubblichiamo un estratto di “Sistemi di potere” (Ponte alle Grazie editore, da oggi in libreria) raccolta di interviste rilasciate da Noam Chomsky al giornalista americano David Barsamian.

Bob Marley, il famoso cantante reggae giamaicano, cantava un celebre verso: “Emancipati dalla schiavitù mentale”. È un tema, questo, che ritorna spesso nelle sue opere.
Sì, è vero. Quando gli individui hanno cominciato a reclamare maggiore libertà per non essere asserviti o uccisi o repressi, si sono sviluppate spontaneamente nuove modalità di controllo per imporre una forma di schiavitù mentale che le inducesse ad accettare un sistema di indottrinamento senza fare domande. Se si possono ingabbiare gli individui in modo che non si accorgano delle dottrine fondamentali né tantomeno le mettano in discussione, allora essi sono asserviti. Non fanno che eseguire gli ordini, come se avessero una pistola puntata alla tempia.
In alcuni dei suoi seminari, a chi le chiede come reagire ai problemi che tratta, lei ribatte che si deve cominciare con lo spegnere il televisore.
La televisione inculca schemi di pensiero rigidi, che senz’altro ottundono le menti. Le dottrine non vengono formulate in maniera esplicita. Non è come la Chiesa cattolica: “Devi credere in questo. Devi leggere questo ogni giorno, devi ripetere questo ogni giorno”. È solo insinuato. Si insinua un sistema, e alla fine le persone lo fanno proprio. Un valido sistema di propaganda non esplicita i propri principi o le proprie intenzioni. È una delle cause dell’inefficacia del vecchio regime sovietico, per quanto ne sappiamo. Se si dice alle persone: “Dovete pensare così”, allora capiscono che è quello che il potere vuole che pensino, quindi escogitano un modo per sottrarsi a tale costrizione. È più difficile liberarsi da un sistema di presupposti non dichiarati che non da una dottrina esplicitamente enunciata. È così che funziona una buona propaganda. Il nostro apparato propagandistico è molto sofisticato. I fautori di questo sistema danno l’impressione di sapere perfettamente cosa fanno. Prendiamo le presidenziali americane del 2008 che, al pari di tutte le elezioni, non sono state altro che un grande evento di pubbliche relazioni. L’industria pubblicitaria aveva ben chiaro il proprio ruolo. Tanto è vero che, poco dopo le elezioni, la rivista Advertising Age ha assegnato l’annuale riconoscimento per la migliore campagna marketing alla campagna elettorale di Obama, organizzata appunto dall’industria delle pubbliche relazioni. Anzi, si è aperto un dibattito sulla stampa economica per questo riconoscimento. C’era euforia negli ambienti economici. Questo evento cambierà lo stile della comunicazione dei board aziendali. Sappiamo ingannare le persone meglio che in passato. Evidentemente nessuno credeva davvero che il vincitore fosse stato scelto per le sue politiche o i suoi propositi: era semplicemente una buona campagna marketing, meglio di McCain.
Mi chiedo quale sarà il futuro dei libri in una cultura dominata dall’immagine. E lo chiedo a lei, che è un lettore vorace. Le sue abitudini in questo senso sono leggendarie. Siamo seduti nel suo ufficio, circondati da pile di libri. Come riesce a finirli tutti?
Non ci riesco, purtroppo. Questa è la pila dei libri urgenti. Ce ne sono molti altri accatastati altrove. Una delle esperienze più dolorose che cerco di evitare, nei limiti del possibile, è calcolare quanto tempo ci vorrebbe per finirli tutti, se leggessi con costanza. Leggere un libro non significa solo sfogliare le pagine. Significa riflettere, individuare le parti su cui tornare, interrogarsi su come inserirle in un contesto più ampio, sviluppare le idee. Non serve a niente leggere un libro se ci si limita a far scorrere le parole davanti agli occhi dimenticandosene dopo dieci minuti. Leggere un libro è un esercizio intellettuale, che stimola il pensiero, le domande, l’immaginazione. Temo che tutto ciò scomparirà. Se ne vedono già le avvisaglie. Negli ultimi dieci-vent’anni qualcosa è cambiato nei miei corsi: un tempo, quando facevo dei riferimenti letterari, gli studenti sapevano più o meno di cosa stavo parlando, ma ora questo accade sempre più raramente. Me ne accorgo dalle lettere in cui mi pongono di continuo domande su quello che vedono su YouTube e mai su un libro o un articolo. Spessissimo capita che giustamente mi chiedano: “Lei sostiene questo, ma su quali prove si fonda? ”. E magari in un articolo scritto nella stessa settimana in cui ho tenuto quella conferenza c’erano note e analisi, ma a loro non è neanche venuto in mente di cercarle.
Cosa pensa di Twitter, in cui si hanno 140 caratteri a disposizione per dire qualcosa?
Ricevo una tonnellata di email, e sempre più spesso i messaggi sono domande o commenti di una frase, a volte così brevi che stanno nell’oggetto della mail. Bev mi ha fatto notare che è appunto la lunghezza dei messaggi di Twitter. Se si analizzano questi messaggi si nota una certa coerenza: danno l’impressione di qualcosa che è stato appena pensato. Magari cammini per la strada, ti viene in mente un pensiero e lo twitti. Ma se ti fermassi a pensarci per due minuti, o facessi un minimo sforzo per riflettere sull’argomento, non lo invieresti. A dire il vero, sono arrivato al punto che a volte mando una lettera solo per dire che non sono in grado di rispondere a una domanda di una sola riga.

Corriere 29.3.13
La modernità del mito di Orfeo misterioso, animista, impalpabile
«Canta e suona con la lira, affascina uomini, belve e alberi»
di Pietro Citati


Orfeo è nominato per la prima volta dal poeta Ibico, che parla di «Orfeo dal nome famoso»: per Pindaro è «il citarista padre dei canti per virtù di Apollo»; per Eschilo, è «colui che incanta la natura intiera con i suoi carmi». A partire dal quinto secolo, le sue immagini si moltiplicano: lo vediamo su una barca, mentre suona la lira e incanta con la voce e la musica: circondato dagli uccelli e dagli animali selvaggi: mentre sale in cima a un monte, per adorare il Sole-Apollo, suo padre; o discende agli Inferi per accompagnare o farne uscire la moglie Euridice; finché le Menadi lo dilaniano e la testa, staccata dal corpo, continua a cantare i versi di un oracolo. Sebbene sia greco, Orfeo non appartiene alla tradizione omerica, né a quella mediterranea: risale indietro nel tempo, nel mondo magico preellenico. La sua biografia di musico e di cantore ricorda quella di uno sciamano: fondatore di misteri, iniziazioni e purificazioni, che conosciamo sotto il nome di «orfismo».
Secondo Orfeo e gli orfici, l'anima, per punizione di un crimine primordiale, viene rinchiusa nel corpo come in una tomba. La morte costituisce il principio della vera vita: l'anima si incarna una seconda volta, e poi si reincarna sempre di nuovo, condannata a trasmigrare fino alla liberazione definitiva. Gli orfici favoriscono questa liberazione, astenendosi dai sacrifici cruenti, obbligatori nel culto ufficiale, e rifiutando il sistema religioso greco, inaugurato dal primo sacrificio sanguinoso di Prometeo. Così, ritornando alle abitudini vegetariane, espiano la colpa ancestrale e sperano di recuperare la beatitudine originaria, quando tutto il mondo viveva in una condizione orfica.
Attorno alle origini del mondo, l'orfismo raccoglie una serie di miti. Il primo grande dio è Eros: scaturisce dall'Uovo primordiale, che è stato formato dal Tempo nell'etere, ed è il principio della creazione degli altri dèi e dell'universo. Oppure la Notte genera Urano e Gaia: o il Tempo emerge dall'Oceano; o l'Uno partorisce il conflitto. Un altro grande mito racconta che i Titani, figli della Terra, si gettarono su Dioniso bambino, lo uccisero e banchettarono con la sua carne. Zeus li folgorò con un fulmine, e da queste ceneri si generò la razza umana. Noi siamo dunque composti di natura divina e terrestre: nostro dovere è coltivare in noi il divino elemento dionisiaco e sopprimere quello titanico e terrestre, partecipando a riti di iniziazione e di purificazione.
* * *
La Fondazione Lorenzo Valla e l'editore Mondadori stanno per pubblicare il quinto volume delle Metamorfosi di Ovidio sotto la direzione di Alessandro Barchiesi: testo critico di Richard Tarrant, commento di Joseph P. Reed. Tra i molti episodi, questo volume comprende una lunga e bellissima versione del mito di Orfeo, che una fitta serie di rapporti collega all'infinita e imprendibile totalità delle Metamorfosi.
Ovidio ama moltissimo tutto ciò che è iniziatico e misterico: tutto ciò che è nascosto e segreto: quindi dovrebbe amare questo aspetto di Orfeo; eppure non rivela la minima parte delle iniziazioni e purificazioni predicate dall'orfismo. Orfeo è, per Ovidio, sopratutto un narratore di metamorfosi: un suo doppio, proiettato nel mondo del mito, nel quale talvolta si affaccia il volto di un secondo narratore. Questi racconti discendono da quelli di Ulisse nell'Odissea: mentre Ulisse narra ai Feaci e ad Eumeo, attrae, ammalia, incanta, affascina; e come lui affascinano le voci di Ermes, delle Sirene, di Circe e di Calipso. Chi viene sottoposto al fascino perde il controllo di sé: posseduto, stregato, ridotto al silenzio; addormentato, diventato una cosa, costretto alla morte.
Così accade nelle Metamorfosi. Quando Orfeo canta e suona la lira, affascina gli uomini, gli uccelli, le belve, le pietre, sopratutto gli alberi: molti di essi hanno dietro di sé una storia umana. Il fascino accompagna ed avvolge le metamorfosi, che percorrono, dall'inizio alla fine, il libro di Ovidio. Il mondo non è semplice ed unico, come sembra: ogni figura contiene in sé un'altra figura, ogni apparenza contiene in sé un'altra apparenza. La morte colpisce il mondo, ma viene immediatamente abolita, e trasformata in un'altra esistenza, obbedendo ad una fluidità senza fine. Con arte sottilissima, Ovidio-Orfeo si china sul minimo, l'impalpabile, il leggerissimo: fissa il luogo dove le due figure si fondono; ma resta incerto se le sensazioni evocate appartengano alla figura che muore o alla figura che nasce, o alla doppia figura che nasce dal loro incontro.
Ecco il fanciullo Cipresso che diventa l'albero di cipresso: «Le sue membra, rese esangui dal pianto infinito, / presero a mutare tingendosi di verde, / e quei capelli, che un attimo prima scendevano / sulla candida fronte, a farsi ispida chioma: irrigidito, / ma gracile in cima, si protende verso il cielo stellato». Ecco il ragazzo Giacinto, che muore e diventa il fiore di giacinto. «Come quando qualcuno, in un giardino irriguo, stronca / viole, papaveri o gigli da cui sporgono fulvi pistilli, e quelli / subito appassiscono, chinano il capo diventato troppo pesante, / non stanno più ritti e con la corolla guardano il suolo, / così il volto del morente si abbandona, il collo, / perso ogni vigore, è di peso a se stesso e ricade sulla spalla.../ Il sangue, che sparso al suolo aveva macchiato l'erba, / cessa di essere sangue: spunta un fiore più fulgido / della porpora tiria e prende una forma simile al giglio: / solo che il giglio è d'argento, mentre questo è di porpora».
Non c'è limite alla morbidezza: mai, credo, racconto fu morbido come quello di Pigmalione innamorato della sua creatura di avorio e di miele. «Un giorno scolpì con arte stupefacente dell'avorio, / bianco come la neve, gli diede una bellezza che nessuna / donna reale potrebbe avere, e si innamorò del suo capolavoro. / Sembra una fanciulla vera, crederesti sia viva / e, se non fosse che è timida, in grado di muoversi: / è un'arte così grande che non si vede. È incantato, / Pigmalione, e nel petto prende fuoco per un corpo non vero. / Spesso accarezza la statua per capire se è carne, / oppure avorio, e non riesce a decidere per l'avorio, / le dà dei baci, gli sembra che siano ricambiati, le parla e l'abbraccia / e gli sembra che le dita affondino nelle membra / lì dove tocca, e teme premendo di lasciare dei lividi negli arti. / ... Di nuovo la bacia, e con le mani le accarezza il petto: / l'avorio accarezzato si ammorbidisce, perduta la durezza / cede e si infossa sotto le dita, come la cera dell'Imetto / si fa duttile al sole e plasmata col pollice si piega / assumendo le forme più varie, e più è usata più cede. / Stupito, e incerto se esultare o temer di fallire, / più e più volte l'innamorato tasta l'oggetto del suo desiderio: / è proprio di carne. Le vene pulsano alla pressione del pollice».
Intanto il tempo passa e trascorre su queste figure che si muovono: il tempo, la cosa più leggera e impalpabile dell'universo. Ovidio-Orfeo si fa tempo. Allunga e protrae gli enjambements: corteggia la prosa, emula il parlato, gioca con l'ironia, e mai come qui la sua arte è meravigliosa.

Corriere 29.3.13
La critica filosofica e il tramonto europeo
il nuovo libro di Sossio Giametta
di Raffaele La Capria


Sossio Giametta si presenta con un nuovo libro di saggi filosofici dal titolo L'oro prezioso dell'essere (Mursia, pagine 392, 18) e già da questo titolo, come dal precedente Il bue squartato e altri macelli si capisce che l'immaginazione dell'autore, come quella del suo maestro Nietzsche, non è soltanto filosofica ma poetica.
Anche in questo nuovo libro di Giametta si parla delle cose ultime, di quelle su cui fin dalla più remota antichità si è fantasticato, ma se ne parla con una pacata tranquillità, senza la nevrosi stilistica e verbale di tanti filosofi, da Nietzsche ad Heidegger. Così questo libro che cerca di rispondere a domande temerarie è però un libro facile e leggibile, che porta serenità e non inquietudine. I problemi ardui che affronta insomma non ci ossessionano ma sono guardati direi con una dolce e persuasiva fermezza che a volte può apparire anche un po' presuntuosa. Si sente che c'è dietro l'esperienza di chi «ha letto tutti i libri» e si sente che questi libri sono stati metabolizzati da una coscienza che coraggiosamente si espone con la propria individualità. Per analogia ho pensato a quegli esploratori che si addentravano nel cuore di un'Africa sconosciuta alla ricerca delle sorgenti del Nilo.
Qui le sorgenti sono quelle del pensiero e della conoscenza, ma lo spirito di avventura e la curiosità di sapere sono molto simili. Così ho letto questo libro come si legge un libro di avventura dove si incontrano sul proprio cammino non belve feroci, ma idee che richiedono, per essere affrontate, controllo della mente e cuore intrepido.
Mi esprimo in questo modo e faccio questi paragoni perché io non sono un filosofo e non ho una mente filosofica, ma i problemi ultimi mi appassionano come appassionano ogni uomo che vuol «seguir virtute e canoscenza». E lo dico anche per sottolineare che questo libro può leggerlo anche chi non è un addetto ai lavori. Nel retro di copertina ci sono gli interrogativi cui Giametta cerca di rispondere: ne consiglio la lettura perché è una buona introduzione.
Giametta si muove nel vasto mare della filosofia, percorso dalle correnti dei grandi pensatori, come un provetto nuotatore, con un suo stile e capacità di resistenza. La cosa più riuscita del suo libro è la scelta delle citazioni, che sono come tanti punti di appoggio al suo ragionare, quasi che ognuno dei grandi filosofi da lui consultati, da Nietzsche a Schopenhauer, da Spinoza a Kant, gli desse una mano per venire in suo aiuto, e non solo per sostenere una sua tesi ma anche per portare a buon fine un lavoro comune. E qui la voce dell'autore si unisce alle altre e «porta la sua pietruzza». Che però a volte è una pietruzza che si insinua temerariamente nell'ingranaggio del pensiero altrui — anche se appartiene a uno dei grandi maestri — e lo fa inceppare scoprendone le contraddizioni e rivelandole senza timore. Sente di poterlo fare perché spesso i sacri vasi di erudizione quando si tratta di capire le cose della vita e quindi della «filosofia sostanziosa» cadono nel «filosofese».
Quella voce dice anche di considerare Spinoza il creatore del sistema filosofico dell'Occidente, e lo difende dall'incomprensione e dalle ingiurie dei suoi pur amati Nietzsche e Schopenhauer. Dice che sei sono i suoi maestri, ma non si sottrae alla tentazione di criticarli e di proporre soluzioni diverse ai problemi da essi affrontati. Nel saggio «Come fu che intuii quello che avevo capito» racconta come scoprì che Nietzsche non era solo un filosofo, un moralista, un poeta, un profeta, uno psicologo, un diagnostico e un trasfiguratore della crisi europea (il «tramonto dell'Occidente»), ma anche un genio religioso accomunabile a Lutero.
Ma Nietzsche, secondo Sossio Giametta, sviò la sua creatività religiosa sulla strada sbagliata dell'eterno ritorno di tutte le cose, cadendo in un fatalismo deprimente. Sono queste «alzate di testa», insieme a tante altre, quelle che ho definito «pietruzze nell'ingranaggio», pietruzze che fanno però risaltare i tratti originali e a volte fin troppo personali di un «critico dei filosofi» come appare in questo suo ultimo libro Sossio Giametta.

Corriere 29.3.13
Anche la Süddeutsche Zeitung ritiene fondata la questione del quaderno mancante
In difesa della filologia (applicata a Gramsci)
di Luciano Canfora


La discussione sorta intorno ai dati contraddittori sull'entità complessiva del corpus dei Quaderni gramsciani ha un fondamento, e le «irregolarità nella numerazione e nella etichettatura fanno arguire l'esistenza di un altro Quaderno»: lo ha osservato Henning Klüver nella «Süddeutsche Zeitung» dello scorso 28 febbraio.
Klüver ha il merito di aver dato conto al pubblico tedesco, su uno dei più importanti quotidiani, delle «scoperte» — così egli le definisce — racchiuse nel recentissimo saggio L'enigma del Quaderno di Franco Lo Piparo, edito da Donzelli. L'autore del volume — nota Klüver — «ha seguito con acribìa le tracce» del Quaderno mancante e «ha scoperto» i fenomeni che all'esistenza di tale Quaderno rinviano.
Il riconoscimento dei passi avanti compiuti sin qui in tale ricerca è interessante, dopo che già lo studioso americano di Gramsci Joseph Buttigieg, intervistato da «La Repubblica», aveva definito «ineccepibile» questo «lavoro sulle carte» (9 febbraio).
Per fortuna Lo Piparo, che in passato si era abbandonato a deduzioni ideologico-politiche azzardate e non utili, ha abbandonato quel terreno scivoloso e si è concentrato sui documenti e su quelli che la filologia di matrice tedesca chiamava Realien, dati di fatto.
Stona perciò l'impazienza di chi vorrebbe addirittura già sapere cosa ci fosse scritto in quel Quaderno! È un modo di procedere che suscita l'ironia di Klüver.
Il quale, al termine della sua eccellente cronaca, trova, chi sa perché, «molto italiano» fare oggetto di ricerca (Untersuchung) «un qualcosa che non è noto». Si potrebbe a rigore eccepire che chi ha dato vita alla celebre «Cosa in sé», inconoscibile par excellence, fu un non italiano di nome Immanuel Kant. E che molto prima di lui il greco d'Asia Anassagora aveva definito le tracce fenomeniche «sguardo sull'invisibile» (Fr. 21 DK opsis adelon ta phainomena). E cos'altro è una indagine filologica sulle tracce fenomeniche di un testo non conservato se non un cammino congetturale verso «ciò che non è direttamente visibile»? Le imponenti raccolte delle «tracce» delle tantissime opere antiche perdute stanno lì a testimoniarlo. E son dovute per lo più a grandi filologi tedeschi: Diels, Jacoby, Müller, Kock, eccetera.
In conclusione: sarebbe dunque forse ora di accantonare l'indignazione preventiva che si sente di tanto in tanto montare da più parti, assumere un buon calmante e mettersi a studiare le fonti. Fa bene anche alla salute.

Repubblica 29.3.13
Perché Basaglia è ancora attuale
Un’analisi sulla sopravvivenza dei “manicomi giudiziari”
di Pier Aldo Rovatti


Di solito, per tranquillizzare la nostra coscienza, pensiamo che l’epoca dei manicomi sia ormai conclusa. Come se fosse uno ieri molto lontano, ricordiamo pionieri come Franco Basaglia il quale abbandonò le stanze universitarie per andare a dirigere il manicomio di Gorizia: scoperchiò un sottosuolo infernale e i suoi resoconti sono depositati in scritti e immagini che hanno fatto il giro del mondo, fino al documento-racconto che la televisione pubblica ha diffuso in prima serata pochi anni fa. Tuttavia, nella testa della gente, i manicomi sono ormai un capitolo finito e Basaglia, con la “sua” legge del 1978, dopo quasi un decennio di battaglie anti-istituzionali a Trieste, ne avrebbe sancito la definitiva estinzione. Certo non veniva chiuso il capitolo della salute mentale (anzi lo si apriva clamorosamente), ma i manicomi diventavano qualcosa come un brutto ricordo.
Non è così. Non solo perché nel mondo la realtà manicomiale continua a esistere, ma anche perché nel nostro stesso Paese essa mantiene, nonostante tutto, laceranti sopravvivenze. Faccio solo l’esempio dei cosiddetti “manicomi giudiziari” (Opg): come si sa, dovevano sparire entro questo mese, ma è già stata decisa una proroga e ormai si dubita molto sulla loro conversione in “comunità protette”. La scadenza — non osservata — ha comunque richiamato l’attenzione sul tema della grande informazione: su questo stesso giornale è apparso un reportage di Adriano Sofri che si è calato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), parlando con gli internati ed evocando di nuovo l’immagine dell’“inferno”.
Sono così riaffiorati alcuni aspetti cruciali, ferite istituzionali e culturali lontane dall’essere rimarginate: la connessione tra l’idea di “pericolosità sociale” e quella di disturbo mentale, un nodo terribile e persistente, evidente sopravvivenza di una questione mai sciolta nella sua barbarie sociale e civile. Occorre però vedere come lì si è perpetuata la carriera dell’internato: nella prigione- manicomio si entra anche per episodi minori (un furto, una lite violenta) e poi ci si rimane sine die, e magari lì si muore (o si decide di farla finita) attraverso una sequela di conferme di persistente pericolosità. Perché è accaduto questo? Molto è dipeso dall’incapacità di adeguarsi allo stato di detenzione (e contenzione) e all’obbligatorietà di un regime farmacologico assai pesante e somministrato a semplice scopo sedativo. Di cura vera e propria non c’è ombra, quindi niente riabilitazione né terapeutica né sociale. Nulla che assomigli a una “guarigione”. Dato che ti ribelli, convinto di essere oggetto di un’ingiustizia spaventosa, la tua ribellione diventa la prova che sei ancora “socialmente pericoloso”, e così, di due anni in due anni, la tua condizione di internato viene confermata.
Si dirà: per fortuna questi infernali manicomi giudiziari ce li stiamo lasciando alle spalle. In proposito, tuttavia, corrono parecchi e motivati dubbi. Nessuno sa ancora bene che cosa debba essere una struttura protetta, dove tali strutture sorgeranno, come vi si articoleranno il regime psichiatrico e quello giudiziario, chi vi verrà “accolto” oltre ai superstiti dei manicomi giudiziari. Se si può prevedere che in esse la psichiatria (ma quale?) avrà un ruolo prioritario, niente ci autorizza a pensare che l’elemento manicomiale, e in sostanza il problema
della pericolosità, scompaia magicamente. È più facile sospettare il contrario, e cioè che la cultura manicomiale possa trovare qui un ulteriore terreno per diffondersi, unificandosi a una quantità di altri segnali che provengono dalla “normale” gestione della pratica psichiatrica, nei reparti ospedalieri dei “Diagnosi e cura” e nella disseminazione già esistente di comunità di contenimento del disturbo mentale.
Credo che l’attenzione agli Opg abbia comunque lanciato un allarme che potrebbe propagarsi dentro l’intera istituzione psichiatrica. Questo allarme si traduce in una drastica domanda: «Ma si può guarire, e come?». E soprattutto: «Dove?». Forse “guarire” è una parola che, nella sua evidente esplicitezza, potrebbe portarci fuori strada bloccandoci nella coppia malattia-salute, quando invece qui guarire non significa solo trovare la giusta diagnosi del disturbo e una soddisfacente risposta farmacologica. Ma vuol dire soprattutto riemergere da una condizione di non-soggettività a una condizione di soggetti, liberi e dotati di diritti sociali. Una condizione di risveglio pratico della nostra soggettività che sarebbe l’unico vero antidoto alla cultura manicomiale ancora diffusa. Mentre questa cultura è pur sempre incline a difendere la società dal disturbo mentale segregando i cosiddetti folli, la cultura del risveglio soggettivo va nella direzione opposta: vorrebbe eliminare ogni forma di contenzione e isolamento protettivo e restituire un corredo di soggettività a chi ne è privo o ne è stato privato. Non è forse proprio questa l’eredità che ci ha lasciato Basaglia? E cioè, che non basta chiudere i manicomi per farla finita con la cultura manicomiale? Se è così, come credo, allora dobbiamo constatare che il messaggio è stato ascoltato molto parzialmente e solo localmente, e che adesso occorrerebbe una decisa volontà politica per compiere il grosso del lavoro.
Ho trovato molti e utili spunti in un libro appena pubblicato (Guarire si può. Persone e disturbo mentale di Izabel Marin e Silva Bon, introduzione di Roberto Mezzina, edizioni Alpha Beta Verlag di Merano), in cui si dà conto con testimonianze e riflessioni di una ricerca condotta a Trieste sulla recovery (che possiamo tradurre con “ripresa” o “riemersione” del soggetto). Questo libro è apparso in una collana nella quale era anche stata pubblicata la sceneggiatura del film televisivo di Marco Turco che ho ricordato all’inizio, C’era una volta la città dei matti.