sabato 30 marzo 2013

l’Unità 30.3.13
L’Unità di Gramsci

Innanzitutto la nostra solidarietà al giornale per l’attacco di Grillo. Che non stupisce. A questo proposito, trascriviamo un estratto dell’articolo di Antonio Gramsci, apparso sull’Ordine Nuovo del 21 aprile 1921, a proposito delle origini del fascismo italiano, che ci sembra particolarmente illuminante. «Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e amministrato».
Sandro e Grazia Novellini

l’Unità 30.3.13
Crisi bloccata. Napolitano pronto alle dimissioni
L’Europa teme la crisi italiana
di Paolo Soldini


TUTTI SI PREOCCUPANO, GIUSTAMENTE, DEGLI EFFETTI CHE LO STALLO ITALIANO PUÒ provocare sui mercati. Ma c’è un pericolo ancora più grave del quale non pare che ci sia, qui da noi, grande consapevolezza ma che sta inquietando, e molto, le istituzioni di Bruxelles e le maggiori cancellerie: la mancanza di un vero governo a Roma rischia di aprire una crisi politica in tutta l’Unione europea.
L’Italia insomma può trascinare l’Europa nel disastro. Non è pensabile, dicono negli ambienti della Commissione a Bruxelles, che si gestisca la politica europea senza l’iniziativa e la responsabilità del terzo paese del continente. «Troppo grosso per fallire», come si dice, ma anche per mettersi fuori, tra parentesi. Un governo che svolge solo gli affari correnti non può avere né l’iniziativa né la responsabilità. Gli incoscienti che blaterano sul «precedente» del Belgio non sanno di che cosa parlano: è vero che in quel paese è mancato per tanti mesi il governo nazionale, ma là esistono i governi delle tre comunità linguistiche che svolgono molte delle funzioni amministrative e politiche che negli altri stati sono prerogative dell’autorità centrale nazionale. Non c’è stato un vuoto politico, né una mancanza di iniziativa: il Belgio durante la sua lunghissima crisi del governo centrale ha esercitato persino la presidenza di turno del Consiglio europeo. Lasciamo stare il Belgio, perciò, e concentriamoci sui disastri che l’esistenza in Italia solo di un governo per gli affari correnti può produrre a livello europeo. Cominciamo dai dati più banali. Entro il 10 aprile l’esecutivo (quale?) deve presentare, com’è noto, il Documento Economico e Finanziario. Può farlo il governo Monti, ovviamente, ma il Def non indica soltanto i provvedimenti che riguardano la situazione interna. Deve contenere anche il piano di riforme che l’Italia si impegna ad adottare per rispettare il Fiscal compact. È un piano che deve essere concordato con Bruxelles e con i governi dei partner. Come potrà farlo un governo che, ammesso che esista ancora, saprà di dover essere presto sostituito da qualcuno che magari avrà in testa tutt’altre idee? E quale fiducia riscuoterebbero (riscuoteranno) da parte degli interlocutori le misure indicate? Seconda questione: l’Italia nel secondo semestre dell’anno prossimo eserciterà la presidenza di turno del Consiglio. Il piano delle iniziative e degli appuntamenti viene scadenzato su 18 mesi. La Lettonia e il Lussemburgo, che saranno di turno dopo di noi, hanno già presentato il loro programma. Noi abbiamo tempo per farlo fino al prossimo novembre ed è evidente che non si tratta di iniziative che possano essere prese da un governo provvisorio.
Facciamo un’ipotesi ancora più drammatica. La crisi di Cipro è stata, per il momento, allontanata. Ma mettiamo il caso che una situazione simile si determinasse, com’è purtroppo possibile, in Slovenia, dove ci sono forti investimenti italiani. Se questi dovessero essere salvati con l’intervento del fondo di salvataggio Esm il governo di Roma dovrebbe firmare un Memorandun of Understanding come quello che fu fatto firmare alla Grecia. E quale governo potrebbe sottoscrivere un documento che conterrebbe impegni pesantissimi? Oppure, meglio, quale governo avrebbe la forza di strappare una rinegoziazione che eviti il commissariamento puro e semplice dell’economia italiana da parte della trojka? Non certo un governo provvisorio, in carica solo per gli affari correnti.
Fin qui abbiamo messo in fila alcune ipotesi che mostrano come lo stallo a Roma possa portare complicazioni enormi sul piano del puro e semplice funzionamento dell’Unione europea. Ma dietro c’è uno scenario ancora più inquietante. L’Italia, l’unico grande paese in cui la ripresa non si avvicina ma pare allontanarsi, è ormai, agli occhi dell’establishment e dell’opinione pubblica di tutti i paesi, la grande malata del continente. Non solo per la sua debolezza economica ma anche per la debolezza della sua politica. L’Europa non si era ancora ripresa dallo choc Berlusconi che sulla scena, insieme con il suo, è venuto alla ribalta un altro populismo segnato dall’ostilità contro Bruxelles. Come faceva notare all’indomani delle elezioni Giovanni Di Lorenzo, direttore della Zeit e acuto osservatore delle cose di casa nostra, per la prima volta in uno dei grandi paesi dell’Unione c’è una maggioranza parlamentare potenzialmente antieuropea. E François Hollande non ha certo forzato i fatti ricordando l’insicurezza che il populismo dilagante in Italia porta a tutti i paesi dell’Unione. È una paura diffusa dappertutto, al di là delle Alpi. Ed è da irresponsabili non rendersene conto. Certo, non è un problema soltanto nostro e a determinarlo sono stati, in larghissima parte, gli errori e le incredibili insensibilità di chi ha imposto le scelte dell’austerity, gli ayatollah del neoliberismo. Ma è qui che il corto circuito è avvenuto. E l’incendio potrebbe dilagare molto rapidamente. Chi guarda a Roma, in questi giorni, ha paura.

l’Unità 30.3.13
Tensione nel Pd ma ora è tregua
«Sosterremo le scelte del Colle»
di Simone Collini


Escluso il governissimo, il Pd è pronto ad appoggiare qualunque decisione prenderà il Capo dello Stato. Domanda: compreso il governo del presidente? E a questo punto la risposta è di diverso tipo, a seconda dei dirigenti democratici a cui viene rivolta. C’è chi risponde con un certamente e chi lo fa con un’altra domanda: e con i voti di chi nascerebbe? E si capisce che le prossime settimane non saranno facili, per il Pd. Con l’ipotesi delle dimissioni del Presidente della Repubblica, da ieri sul tavolo, a complicare ulteriormente la situazione.
Il secondo giro di consultazioni condotto da Giorgio Napolitano non è bastato a superare la fase di stallo e tra i democratici si iniziano a fare più evidenti le differenze tra chi sostiene la necessità di appoggiare un esecutivo di scopo anche insieme al Pdl e chi continua a pensare che o Pier Luigi Bersani ha la possibilità di andare alla prova del voto in Parlamento oppure nessun’altra strada sarà percorribile ed è auspicabile tornare alle urne.
Per ora le diverse posizioni convivono in relativa armonia (già non mancano botta e risposta a distanza) ma non appena Napolitano metterà sul piatto la sua decisione, verrà convocata la Direzione del partito e lì emergeranno tensioni fino ad ora tenute a freno. Anche perché, viene spiegato al quartier generale del Pd, quale che sia la mossa che farà il Capo dello Stato e quali che siano gli scenari che si apriranno governo istituzionale, incarico pieno a Bersani o anche nuove elezioni il partito dovrà non solo discutere la strategia da adottare ma anche avviare la fase congressuale.
NO ALLE LARGHE INTESE
Ieri il leader democratico è volato nella sua Piacenza e in quanto presidente incaricato ha lasciato che fossero il vice-segretario Enrico Letta e i capigruppo di Camera e Senato Roberto Speranza e Luigi Zanda a salire al Colle. La delegazione democratica, ricevuta per ultima al Quirinale, ha ribadito il no a qualunque ipotesi di governissimo e ha ascoltato da Napolitano parole di non poco peso: il Capo dello Stato ha spiegato che è anche pronto a dimissioni anticipate, nel caso capisse che solo così si potrebbe superare questa fase di stallo.
Vicesegretario e capigruppo Pd ne hanno preso atto, così come hanno preso atto del no all’ipotesi di un governo istituzionale espresso da Pdl e Movimento 5 Stelle, e sono usciti dal colloquio con Napolitano con questa posizione, spiegata ai giornalisti da Letta: primo, «abbiamo cercato il coinvolgimento di tutti, attraverso la scelta di una convenzione costituente, il luogo in cui fare quella riforma della politica resa necessaria da un risultato così clamoroso»; secondo: «l’idea di rivotare con l’attuale legge elettorale è profondamente sbagliata»; terzo: «i contrasti aspri tra le forze politiche rendono non idoneo un governissimo con forze politiche tradizionali»; quarto: «I troppi no ascoltati, e cioè no a un governo istituzionale o a un governo del presidente e al progetto di Bersani rischiano di negare la possibilità che il cambiamento possa avvenire». Conclusione: «Al Presidente Napolitano abbiamo espresso fiducia piena e gratitudine dicendo che non mancherà il nostro supporto responsabile alle decisioni che prenderà». Tutto chiaro? Fino a un certo punto. Se ora è chiusa definitivamente l’ipotesi di un governissimo Pd-Pdl, a sentire i vari dirigenti democratici rimangono ancora aperte due strade. C’è chi sostiene la necessità di appoggiare un governo di scopo, come fanno Paolo Gentiloni, Matteo Richetti e altri renziani, e chi, come i cosiddetti Giovani turchi, pensa che l’alternativa a un governo a guida Bersani siano soltanto le elezioni anticipate.
L’AVVIO DELLA FASE CONGRESSUALE
Un assaggio di quello che potrebbe succedere nel Pd nei prossimi giorni è arrivato ieri da un’uscita di Debora Serracchiani - «il Piano B c’è già e ha un nome: Matteo Renzi, anche da subito, anche da stasera» a cui ha subito ribattuto l’esponente della segreteria bersaniana Davide Zoggia: «Non esiste un piano B, tutto il Pd è impegnato in queste ore a sostenere il segretario nel suo compito da presidente incaricato». Compito che, a sentire anche altri esponenti democratici vicini al segretario, è tutt’altro che finito fuori campo. La contrarietà espressa da Pdl e M5S a un governo del presidente, viene spiegato, rende più complicata quella strada che non l’ipotesi che Bersani alla fine venga mandato alle Camere a cercare i voti necessari per ottenere la fiducia.
Entro breve si conoscerà la decisione di Napolitano. Quel che è certo è che la via indicata dal Capo dello Stato, quale che sia, provocherà fibrillazioni all’interno del Pd, che dopo Pasqua andrà a una Direzione in cui si dovrà anche avviare la fase congressuale. Nel caso poi Napolitano dovesse decidere di dimettersi, lasciando la mano a un Presidente nel pieno dei poteri, compreso quello di sciogliere le Camere, nel Pd verrebbe in primo piano la questione di chi candidare alle prossime elezioni. Renzi vuole evitare false partenze, e sta seguendo l’evolversi della situazione con molta attenzione.

l’Unità 30.3.13
Populismo e crisi della democrazia
Il tema si impone in questo scorcio di secolo, in cui si deve fronteggiare una lunga depressione economica
La storia dimostra come si sia distrutta la libertà con l’utilizzo degli stessi istituti democratici
di Marco Almagisti


NEGLI ANNI QUARANTA LE DEMOCRAZIE HANNO RICOSTRUITO LA PROPRIA STABILITÀ DOPO AVER PAGATO IL PEGNO del sacrificio di cinquanta milioni di esseri umani in due guerre mondiali, a pochi anni di distanza. In seguito, la democrazia si è consolidata attraverso decenni di pace e oggi si mostra ai nostri occhi disincantati con disfunzioni e difetti verso i quali siamo meno indulgenti rispetto alle generazioni che hanno vissuto la guerra. Immemori degli orrori causati dai nemici della democrazia, noi, cittadini delle democrazie contemporanee, ci riveliamo poco propensi a tollerarne le rughe. Si manifestino, tali rughe, sia quali promesse non mantenute, sia sotto forma di regole troppo complicate per poter garantire risultati immediati. Nel crepuscolo del Novecento, in un contesto di sostanziale ottimismo riguardo alla possibilità di diffusione spaziale della democrazia, gli studiosi più attenti hanno cominciato a registrare crescenti rilievi critici sullo stato di salute delle democrazie consolidate. Si stava cominciando a comprendere che i processi legati alla sfiducia verso le istituzioni, pur non deflagrando necessariamente in palesi contestazioni del sistema democratico, possono comunque minarne il consenso e incidere così sul concreto funzionamento della democrazia. A maggior ragione il tema si impone in questo scorcio di secolo, in cui le democrazie liberali debbono fronteggiare una crisi economica prolungata che infrange molte illusorie convinzioni circa la capacità di autoregolazione del capitalismo globalizzato e contemporaneamente incrina ogni certezza circa la riproducibilità del
Welfare State.
Storicamente, il consenso diffuso nei confronti della forma di governo democratica risulta relativamente recente. Fino all’inizio del Settecento, quasi nessun autore, tra quelli di cui possediamo gli scritti, pensava che la democrazia fosse un modo desiderabile di organizzare la vita politica. In tale dissenso nei confronti della democrazia, si possono evidenziare due differenti fattori di contrarietà: a) un’obiezione relativa alla preferibilità; b) un’obiezione relativa alla praticabilità. Rientra nel primo caso una posizione come quella di Platone (nella Repubblica), secondo il quale la democrazia costituisce una forma di governo deplorevole, in quanto inibisce l’insorgenza e la maturazione di quelle qualità (come la saggezza e la competenza) necessarie ad un’autorità politica capace. Appartengono al secondo caso le critiche relative all’efficacia dei processi costituenti democratici ed alla capacità della democrazia di riprodursi nel tempo. Nel Contratto sociale, Jean-Jacques Rousseau sostiene che «una vera democrazia non è mai esistita né mai esisterà. È contro l’ordine naturale che il grande numero governi e che il piccolo sia governato». È quella propria di Rousseau, una concezione «sostanziale» della democrazia, intesa come forma di governo fondata sulla partecipazione diretta del demos, considerato nella sua interezza, alle principali attività di cui si compone la vita associata.
Le obiezioni relative alla praticabilità della democrazia hanno osteggiato per lungo tempo l’affermazione della sua preferibilità come forma di governo. Alla fine del Settecento, il politico radicale inglese Thomas Paine fu tra i primi autori a sostenere che la democrazia può superare molte tiepidezze in merito alla sua preferibilità a patto di riuscire a dissipare i principali dubbi relativi alla sua effettiva praticabilità al di fuori delle anguste dimensioni caratterizzanti il precedente storico della polis greca. Questa evoluzione decisiva avviene quando i propugnatori della democrazia comprendono che unendo il principio democratico del governo del popolo alla prassi non democratica della rappresentanza, la democrazia può assumere forme e dimensioni completamente nuove, coincidenti con gli Stati nazionali (e oltre).
Nel Novecento Norberto Bobbio e Giovanni Sartori ci hanno insegnato che la democrazia è soprattutto un insieme di regole. Il nucleo minimo fondante consiste nell’esistenza di procedure che consentano la libera scelta dei governanti da parte dei governati. Senza tali condizioni, giusta la lezione dei fondatori della politologia italiana contemporanea, discorrere di democrazia risulta esercizio retorico quando non ingannevole. Tuttavia, l'esistenza di questo nucleo minimo di procedure democratiche rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente affinché si consolidi e progredisca una democrazia di qualità. Alle procedure della democrazia vanno aggiunte quelle dimensioni di contesto che ne rendano effettiva l'applicazione. Infatti, quel connubio fra democrazia e rappresentanza, se risulta determinante, rendendo possibile la forma di governo democratica a livello di massa, reca con sé un lato oscuro, ricco di insidie.
Se è vero che i governi democratici possono scaturire solo dalla corretta applicazione di procedure democratiche, purtroppo non è vero l'inverso: l'esistenza di regole democratiche non garantisce mai del tutto dall'utilizzo perverso delle medesime. Nella libertà dal mandato, nel «margine di manovra», connaturato alla rappresentanza moderna si cela anche la possibilità che i rappresentanti agiscano utilizzando le procedure democratiche al fine di “svuotare” di senso una Costituzione. Al fine, cioè, di rendere irresponsabili i leader rispetto alle proprie azioni.
Al contempo, l’asimmetria fra i «pochi» e i «molti», connaturata alla rappresentanza politica, si conferma quale elemento potenzialmente sempre presente di criticità per la legittimità democratica. La «sindrome populista» – intesa quale critica radicale rivolta all’establishment in nome di una presupposta purezza incontaminata del popolo – costituisce un’ombra ineliminabile della democrazia contemporanea, poiché si radica nel meccanismo della rappresentanza che, come si è detto, costituisce la condizione di praticabilità della democrazia di massa. I populisti brandiscono un principio cardine della democrazia, il «governo del popolo», per schiacciarne altri: il «governo limitato» (dalla legge), il «governo temperato» (dal rispetto degli altri e delle loro «buone ragioni»).
La prima questione investe i rappresentanti e concerne gli esiti a cui essi possono condurre un sistema democratico variandone (e manipolandone) le regole. La seconda riguarda soprattutto i cittadini e rimanda alla stabilità della democrazia e al grado di legittimità diffusa di cui essa deve avvalersi, alle richieste e iniziative “dal basso” che essa può ammettere oppure respingere.
La storia italiana ed europea del Novecento dimostra come la democrazia sia stata distrutta da leader che hanno agito attraverso l’utilizzo dei medesimi istituti democratici, per farla implodere, «svuotandola» dall'interno. Tale opera di manipolazione «dall’alto» è riuscita ad incrociare sovente le spinte «dal basso» dei populisti, incapaci di riconoscere le procedure della democrazia quali «beni comuni», da rispettare, tutelare e condividere anche con quanti manifestano una differente visione del mondo. Il richiamo a tali vicende ci aiuta a rammentare come, da sole, le «buone» regole democratiche non possano bastare; per consolidare la democrazia e migliorarne la qualità diviene necessario trasformare queste regole in forza culturale, vivente nella filigrana della società, diffondendo i principi costituzionali democratici nella cultura politica diffusa.
Se consideriamo la qualità di una democrazia come risultato della qualità delle relazioni che intercorrono fra istituzioni rappresentative e cittadini, emerge storicamente il ruolo di «ponte» svolto dai partiti, in quanto essi sono (stati), al contempo, parte della società e presenza nelle istituzioni. In particolare i partiti di massa sono in grado di «dilatare» gli ambiti della partecipazione dei cittadini, incanalandola al contempo entro le regole del sistema politico democratico, creando nuove soggettività politiche diffuse normalmente non eccedenti la solidarietà più ampia (l’appartenenza nazionale). In particolare, nel corso del Novecento, alcuni partiti di sinistra, nati con obiettivi anti-sistema, hanno finito per incanalare e integrare un potenziale di protesta che altrimenti sarebbe sfociato in manifestazioni di contestazione delle istituzioni democratiche. In questo senso, la crisi di questi partiti e delle loro culture politiche, la quale si manifesta nel nostro Paese con virulenza peculiare, giustifica molte preoccupazioni sulle prospettive del sistema democratico. Sulla Stampa del 23 marzo, un pensatore certo non indulgente verso i partiti di massa, quale Massimo Cacciari, così esprime il proprio rammarico per le vicissitudini seguite alla loro scomparsa: «Dc e Pci, quelle sì erano potenze catecontiche. Leadership complesse, che filtravano i fermenti eversivi delle basi sociali, li trasformavano. Quando sono scoppiate è stata la catastrofe: venticinque anni di massacro».
I prossimi mesi ci diranno se saremo in grado di ricostruire un sistema partitico in grado di ricollegare i cittadini alle istituzioni cercando di ripristinare la qualità della democrazia compromessa, oppure se la “catastrofe” diventerà il nostro orizzonte familiare.

l’Unità 30.3.13
Sconfiggere i populisti per cambiare il Paese
Bersani ha orientato la bussola nella direzione che teneva insieme cambiamento e responsabilità
di Franco Mirabelli


QUESTI GIORNI DI CONSULTAZIONI E CONFRONTO TRA I PARTITI NON SI SA CHE ESITO PRODURRANNO, MA CERTAMENTE MERITANO qualche considerazione.
1) Al di là dei giudizi «estetici» su cui in troppi si sono troppo soffermati raccontando un segretario triste, solo e disperato, Bersani ha dimostrato coerenza e serietà, attenzione all'interesse del Paese e la volontà di costruire un governo per il cambiamento e non un governo ad ogni costo. Abbiamo detto cosa vogliamo fare per affrontare le emergenze sociali che vive il Paese, per far ripartire l'economia e per rispondere al messaggio che gli italiani hanno urlato con il voto: serve cambiare la politica, rinnovare le istituzioni, affrontare la crisi degli istituti della rappresentanza, rispondere ad una urgente domanda di partecipazione. Il Pd ha scelto di orientare la propria bussola verso una direzione che tiene insieme cambiamento e responsabilità e credo che su questa strada si debba restare.
2) In queste settimane con le scelte fatte abbiamo dimostrato di essere capaci di rispondere alla domanda di rinnovamento e discontinuità che è forte nel Paese. La scelta dei capigruppo ma, soprattutto, l'elezione dei Presidenti delle Camere sono figlie di un partito che sceglie di aprirsi, di valorizzare al servizio del Paese personalità che rappresentano i valori sociali, civili, di legalità da cui bisogna partire per ricostruire.
3) La sfida per il cambiamento che abbiamo lanciato, ha mostrato tutti i limiti e le ambiguità del Movimento Cinque Stelle. L'imbarazzo con cui Grillo ha risposto alla proposta di fare e fare subito alcune riforme che i suoi elettori hanno sollecitato ha dimostrato più la preoccupazione di non aprirsi al confronto, di mantenere un controllo ossessivo sugli eletti, di negare legittimità alle altre forze parlamentari, piuttosto che di voler cambiare davvero le cose. La stessa infondata proposta di rinunciare ad eleggere il governo, lasciando che tutto venga deciso in Parlamento, nasconde la volontà di non assumersi responsabilità cercando allo stesso tempo di blandire un elettorato che vuole cambiamenti concreti, discontinuità e non farsi guidare solo da una ossessione distruttiva.
4) Il tentativo del Pdl e di Berlusconi di confondere la disponibilità, che abbiamo giustamente dato a condividere le scelte sulle riforme istituzionali e l'elezione del Presidente della Repubblica, con uno scambio politico di bassa cucina, dimostra come la tanto propagandata responsabilità del centrodestra italiano non vada mai oltre la difesa dell'interesse di parte se non personale del leader Pdl.
5) Il quadro politico che emerge in questi giorni conferma, al di la di come finirà la discussione sul governo, la necessità se si vuole cambiare veramente questo Paese di unire tutti i riformisti per sconfiggere i populisti che vogliono utilizzare le giuste spinte che vengono dai cittadini per sé e non per cambiare davvero.

il Fatto 30.3.13
Il Pd dichiara la resa, ma Bersani ancora no
di Wanda Marra


IL SEGRETARIO “SCAPPA” A PIACENZA E RESTA “CONGELATO”, LETTA E VENDOLA RESPINGONO DI NUOVO L’INCIUCIO CON IL PDL

Pier Luigi Bersani ieri mattina è uscito dalla sua casa al centro di Roma, il vestito da premier pre-incaricato sotto braccio, ed è andato a Piacenza. Nella situazione di stallo totale potrebbe anche essere richiamato per andarsi a prendere una non-fiducia in Senato. Ma siamo ai bizantinismi di una crisi istituzionale e politica senza sbocco, che si può raccontare solo con delle “non soluzioni”. Non si parla certo di governo dell’Italia.
DAVANTI ai Corazzieri che hanno roteato gli occhi per tutta l’estenuante giornata di consultazioni, è uscita per ultima la delegazione del Pd capitanata dal vicesegretario Letta e dai capigruppo di Camera e Senato, Speranza e Zanda. Va spedito Letta, sembra persino di buonumore: “Abbiamo cercato il coinvolgimento di tutti dentro un percorso di riforme, abbiamo proposto un governo centrato su obiettivi per avviare la legislatura”, rivendica la proposta. Poi sottolinea i no: “Le ampie contrapposizioni, sottolineate dal presidente Napolitano, rendono non idoneo un governissimo”. E dunque il Pd ribadisce il no a governi con il Pdl, governissimi, larghe intese. Si fa forte dei no altrui: “I troppi no espressi qui a un governo istituzionale, a un governo del presidente, oltre ai no ascoltati durante le consultazioni, rischiano di negare che il cambiamento possa avvenire”. Poi, un congedo di apertura: “Non mancherà il nostro sostegno alle decisioni che prenderà il presidente”. Il riferimento è a un governo di scopo, un governo del presidente. “Che tanto gli altri non votano”, chiosano dal Nazareno praticamente un minuto dopo. All’ultima tappa della via Crucis, il Pd - forte del vantaggio di essere salito per ultimo - può alzare le braccia e ribadire i suoi paletti, addossando le responsabilità del fallimento del suo tentativo ad altri. Il colloquio con Napolitano – raccontano – stavolta è stato davvero cordiale, con un presidente affettuoso, molto sereno. Che ha resocontato al Pd tutti i no ricevuti: una crisi senza soluzione. Tanto che Napolitano, come ha spiegato alla delegazione, non si sentirebbe di prendere una decisione e a questo punto sarebbe per temporeggiare. Oppure dimettersi. I Democratici dal canto loro gli hanno espresso un appoggio a un eventuale governo del presidente. “Che però difficilmente si farà”, confessano. Paradossalmente in uno scenario come questo, Bersani potrebbe essere richiamato in extremis. “Improbabile”, dicono però dai vertici del Pd. Giocando di sponda Vendola, l’alleato più fedele del segretario l’ha detto chiaro e tondo: “Tutti, Grillo come gli altri leader, hanno sulle proprie spalle il destino del Paese, bisogna evitare di togliersi il Paese da sopra le spalle e metterlo sotto i piedi”. E dunque, “la soluzione più idonea a traghettare l’Italia fuori da questo avvitamento e pantano è nel conferimento dell’incarico a Bersani”. Un non-governo Bersani potrebbe gestire “gli affari correnti” ovvero le emergenze economiche meglio di un Monti ormai screditatissimo. Andare alle Camere è quello che vuole Bersani: può rivendicare di averci provato fino all’ultimo, offrendo l’unica soluzione possibile in campo e magari andare al voto come premier sfiduciato. Impuntandosi pure con il partito per essere lui il futuro candidato premier.
SCENARIO sul quale nel Pd, comunque, si aprirà la guerra. Il governo del presidente appare un’ipotesi remota. Almeno adesso. Ma tanto per non smentirsi i Democratici hanno già cominciato a litigare. Ieri Matteo Richetti, uno dei più antichi sodali di Matteo Renzi si è affrettato a dichiarare: “Bene Letta: facciamo un governo del presidente in cinque punti”. Così si andrebbe al voto in ottobre e il sindaco di Firenze – che ieri è stato tirato in ballo con un tormentone durato per mezzo pomeriggio come un premier incaricabile – avrebbe ancora il tempo di prepararsi alle primarie per Palazzo Chigi. Replica Stefano Fassina dei Giovani Turchi: “Dev’essere il governo del presidente votato da tutti, anche dai 5 Stelle”. Si favoleggia a inizio della settimana prossima, per votare questo, “il piano B”. Ma per ora non c’è nessuna convocazione. Magari invece in quella data il “resiliente” Bersani potrebbe andarsi a giocare la sua vittoria di Pirro.

La Stampa 30.3.13
Orlando: nessuno può avere più chances del leader Pd
La situazione si è incartata. Solo il Colle può mediare
L’unica opzione: «Potremmo considerare solo un esecutivo trasversale di tutte le forze»
intervista di Francesco Grignetti


Il Pd si aggrappa ancora alla speranza di vedere Bersani a palazzo Chigi. E là dove non è riuscito il Pier Luigi nella sua «esplorazione», forse riuscirà Giorgio Napolitano. Anche Andrea Orlando non molla. «Vedo che molti danno per morto il tentativo di Bersani. Ma non riesco a vedere perché possa essere considerate più probabili altre ipotesi di un governo Bersani, considerando che il M5S ha chiuso la porta a tutte quelle in campo e che il Pdl non intende appoggiare nuovi governi tecnici».
E invece, onorevole Orlando, voi del Pd insistete su Bersani, ma intanto aprite a un governo del Presidente.
«Guardi, a dirla tutta, se l’ipotesi di successo per un rinvio alle Camere di Bersani può avere difficile esito, non vedo molte probabilità in più per le altre».
Ma così non c’è altra via che lo scioglimento del Parlamento. È così?
«In effetti vedo una situazione incartata. Di qui la necessità di rimettere il quadro alla valutazione del Presidente della Repubblica».
Dietro l’angolo, insomma, ci sono nuove elezioni?
«E’ uno scenario che non si esorcizza non parlandone. Si tratta di esplorare le strade possibili per evitarlo. Però, quando noi diciamo di confidare nel Capo dello Stato non soltanto rimettiamo l’iniziativa nelle sue mani come vuole la Costituzione, ma gli riconosciamo anche una capacità di mediazione che in questi anni abbiamo ben misurato».
Qual è, insomma, il senso ultimo del discorso di Enrico Letta?
«Che è giusto esplicitare sostegno al Capo dello Stato. Ma anche ribadire a quali ipotesi il Pd intende dare il proprio consenso e a quali no».
E Letta è stato chiaro: no a un governissimo come coalizione dei partiti tradizionali, sì a un eventuale governo del Presidente. Lei vede qualche speranza di convergenza con il Pdl?
«Il problema non è lessicale, ma politico. Noi del Pd escludiamo un governissimo che sia basato su un asse Pd-Pdl. Per evitare di riandare a votare con la vecchia legge elettorale potremmo prendere in considerazione un governo che sia costruito su un consenso trasversale di tutte le forze politiche, con alcuni obiettivi circoscritti, e un programma che faccia proprio, almeno in parte, quello che avevamo proposto con i famosi 8 punti».
Scusi, chiedendo un «consenso trasversale» volete dire che è indispensabile anche il voto dei grillini?
«Diciamo che serve la disponibilità di tutti a far nascere la legislatura. Fondamentale è che questo ipotetico governo del Presidente non sia circoscritto a un asse Pd-Pdl che a mio avviso non è in grado di rispondere alla richiesta di cambiamento che sale dal Paese e somiglierebbe sinistramente alla maggioranza del governo Monti».
Sì, ma come la mettiamo con la fiducia dei grillini?
«Non so se il passo debba essere di pieno consenso, sicuramente sarebbe importante una nonostilità. Se ci fosse l’ostilità del 5 Stelle, infatti, è evidente che riproporrebbe la base parlamentare, a prescindere dalla nostra volontà, di quell’asse Pd-Pdl che ho appena escluso. Ecco perché è tanto importante anche il programma».

La Stampa 30.3.13
«Va ad Amici? giusto»
Orfini: Matteo ora? Sarebbe una follia


«Penso sia un’idea folle. Non è nell’agenda dell’oggi». Così Matteo Orfini, uno dei leader dei giovani turchi del Pd, ha criticato in radio l’ipotesi di una immediata candidatura di Matteo Renzi. Circa le polemiche su Renzi ad `Amici, Orfini afferma: «Se un dirigente del Pd ha l’occasione di andare ad una trasmissione come questa e rivolgersi a un pubblico diverso dai talk show politici, fa bene ad andarci. Poi spero che dica cose di buon senso. Io la prima edizione di “Amici” l’ho anche vista tutta». «L’autorevolezza del presidente della Repubblica - dice Orfini - è tale che potrebbe convincere tutti a prendersi le proprie responsabilità perché dà garanzie di terzietà, mentre Bersani rappresenta una parte». Orfini spiega: «Il M5S si è dichiarato indisponibile a votare la fiducia a qualunque governo con una posizione quasi aventiniana rispetto al voto di fiducia a qualunque tipo di Governo. Il Pdl ha cercato di inserire nella discussione elementi impropri».

Corriere 30.3.13
Matteo Orfini
«Noi dentro solo con Pdl e 5 Stelle Ora il voto è pericolosamente vicino»
intervista di Andrea Garibaldi


ROMA — E adesso, Orfini, si va verso il «governo del presidente»?
«Noi non siamo contrari».
Matteo Orfini, fa parte della prima linea dei giovani dalemiani, poi bersaniani del Partito democratico. Per motivi anagrafici (non ha 40 anni), guarda anche oltre Bersani.
«Governo del presidente» sostenuto da quale maggioranza?
«Il "governo del presidente" è tale se appoggiato almeno dalle tre principali forze politiche: Pd, Movimento 5 Stelle, Pdl. In caso contrario si tratterebbe di un'altra cosa».
Un governo Pd-Pdl-Monti sarebbe un'altra cosa?
«Sarebbe un governo di "larghe intese", un "governissimo", da noi reiteratamente escluso».
Un «governo del presidente» dovrebbe essere guidato da un tecnico o da un politico?
«Non è il problema chiave. Ribadisco: questo governo sarebbe caratterizzato dalla sua maggioranza, che dovrebbe contenere le tre forze politiche con il maggior numero di voti alle elezioni di un mese fa».
Quello che lei dice non significa accettazione di qualunque decisione prenda Napolitano.
«Supporteremo qualunque decisione del presidente della Repubblica, a parte quelle da noi esplicitamente escluse, come il "governissimo"».
Quindi lei spera in un «ravvedimento» del Movimento 5 Stelle e di Beppe Grillo?
«Credo che se alcune forze politiche continueranno ad essere irragionevoli, a partire dal Movimento di Grillo, pagheranno un prezzo altissimo. Grillo con questa politica bizzarra delle mezze frasi, delle smentite quotidiane comincia a ricordare molto la Prima Repubblica».
C'è comunque l'esigenza di cambiare la legge elettorale. Neanche per fare questo accettereste un'alleanza Pd-Pdl-Monti?
«Cambiare la legge elettorale è una priorità e proprio per tale ragione ci vuole il concorso di tutte le forze».
Ieri Grillo ha detto: torniamo al «Mattarellum», la legge vigente prima dell'attuale.
«Avrebbe potuto consentire la nascita del governo Bersani: il suo programma prevedeva il cambio di legge elettorale».
Ma se tornare al «Mattarellum» servisse a superare le logoranti e vane trattative alle quali abbiamo assistito per mesi?
«Ne discuteremo. Ma Grillo, ripeto, sta diventando scaltro come i politici della Prima Repubblica, gioca con le parole».
Si fa, in queste ore, anche l'ipotesi di dimissioni del presidente Napolitano.
«Spero non esista tale ipotesi. In tutti i passaggi drammatici degli ultimi anni — dalle dimissioni di Berlusconi alle difficoltà di Monti — l'elemento di tranquillità è stato Napolitano».
E l'ipotesi della sua ricandidatura?
«Continuo a sperare che tutti assieme riusciamo a convincere Napolitano a restare, a compiere questo difficile sacrificio. Non si trova in Italia, adesso, uno migliore di lui per il Quirinale».
Su Napolitano almeno ci sarebbe convergenza fra Pd e Pdl?
«Mi pare che fino a oggi il Pdl abbia fatto nomi di più basso livello: Berlusconi, Letta...».
Il suo segretario, Bersani, a questo punto è fuori gioco per la presidenza del Consiglio?
«Attendiamo il giudizio del presidente della Repubblica. Bersani comunque è il segretario del Pd e continuerà a cercare soluzioni per uscire dalla crisi».
Sono possibili altri candidati del Partito democratico per la guida del governo?
«Nella situazione attuale mi pare difficile. Bersani finora ha saputo interpretare al meglio il dialogo sulle riforme e il cambiamento».
Cosa succede ora dentro il Partito democratico?
«Sul tentativo di Bersani c'è stato unanime sostegno. Nei prossimi giorni in Direzione discuteremo su come gestire questa fase».
Orfini, se il «governo del presidente» non si realizza?
«I margini per una soluzione sono diventati comunque molto stretti. Le elezioni sono uno scenario pericolosamente vicino».

La Stampa 30.3.13
Il segretario sarà “processato” dagli stessi che l’hanno eletto
Verso la resa dei conti: pronti D’Alema-Veltroni, i popolari, i giovani turchi
di Federico Geremicca


Se cominciamo con lui, uomo moderato e alleato leale - dalle primarie fino al deludente voto di febbraio - è solo per render meglio un’idea: l’idea, cioè, di quanto si sia mosso dentro e intorno al Pd nel mese trascorso dalle elezioni a oggi. E quanto, soprattutto, si muoverà da oggi in poi.
Erano giorni che Bruno Tabacci era in sofferenza: e ieri quest’insofferenza ha tracimato. «L’inseguimento a Grillo non si può fare rimettendo insieme i cocci della sinistra, da Ingroia a Di Pietro ai Comunisti italiani... », ha dettato Tabacci alle agenzie. E poi, raggiunto telefonicamente, ha spiegato: «A Roma, per le elezioni al Campidoglio, stanno rimettendo in piedi proprio una cosa del genere: da far rimpiangere la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Ma io avevo capito che la rotta del Pd fosse cambiata. Definitivamente cambiata... ».
E invece eccoci qui a fare i conti con l’«inseguimento a Grillo»: che, Tabacci a parte, costituirà il primo capo d’accusa dal quale Pier Luigi Bersani dovrà difendersi, appena il suo tentativo di fare un governo risulterà anche ufficialmente tramontato. Ad aspettarlo al varco c’è ormai una folla: leader al momento defilati, come D’Alema e Veltroni; figure fino a ieri di primo piano - come Bindi, Finocchiaro e Franceschini sacrificate nell’«inseguimento a Grillo»; gruppi - come i giovani turchi di Orfini, Orlando e Fassina - per i quali «la ruota del cambiamento» ha girato poco o niente; e Matteo Renzi, infine, il leader in sonno, l’asso da calare, la risposta a Grillo e chi più ne ha più ne metta.
Nella sostanza, è la stessa maggioranza che lo elesse segretario ad essersi letteralmente sfarinata: Bersani naturalmente lo sa e da ieri - nella sua Piacenza - ha cominciato a ragionare su come affrontare l’inevitabile resa dei conti che lo attende nel Pd. Tener duro e difendere le scelte fatte? Presentarsi dimissionario alla prima occasione utile? Rimettere al partito la decisione su cosa fare? Bersani riflette, sapendo però che il cerchio si stringe e nuove alleanze interne si vanno costruendo. Matteo Renzi, in particolare, esercita ormai una sorta di effetto-calamita: non ha bisogno di muovere un dito, perché c’è la fila davanti alla sua porta.
Il chiarimento - per usare un eufemismo - resterà sospeso fino alla conclusione (qualunque essa sia) della complicata vicenda del governo: poi - e salvo elezioni a breve - sarà tutto un ribollire fino al Congresso, già programmato per ottobre. Un segretario giovane (Letta? Barca?) e un futuro un candidato premier ancor più giovane (Renzi), sembrano l’approdo obbligatorio: ma è difficile immaginare che vi si possa giungere in un clima di solidarietà e concordia...
Molte cose - forse troppe cose - hanno avvelenato il clima nel Pd: e quasi tutte vengono - naturalmente - imputate a Bersani. I capi d’accusa sono numerosi, e non riguardano solo la linea tenuta dopo il voto (l’«inseguimento a Grillo»). Molti, infatti, contestano addirittura i toni e gli argomenti di una campagna elettorale iniziata da vincitori e finita in altro modo. Altri, i più delusi, puntano l’indice contro quello che, con poca generosità, è stato definito l’«autismo» del segretario: pochissime informazioni al partito su quel che maturava nella crisi, le riunioni continue riservate al solo «tortello magico» (Migliavacca, Errani, Fiammenghi), l’incaponirsi su una linea (riecco l’«inseguimento a Grillo»...) che 48 ore dopo il voto poteva esser tranquillamente abbandonata.
Può essere che abbia una risposta per tutto: e può essere, naturalmente, che quelle risposte vengano archiviate come poco convincenti o addirittura sbagliate. Per esempio: bene l’apertura al nuovo, a Beppe Grillo, subito dopo il voto; ma male incaponirsi su una posizione vanificata (mortificata) dalle porte ripetutamente sbattute in faccia dal comico genovese. E male, anzi malissimo, aver tarato ogni iniziativa solo in funzione dell’«inseguimento a Grillo»: dagli otto punti di programma ai nuovi presidenti di Camera e Senato (intorno ai quali già si registrano insoddisfazioni e ironie) tutto è stato fatto guardando da una parte sola. Pessimo, infine, il «mai con Berlusconi» ripetuto all’infinito: con il risultato di sbarrare qualunque altra strada al Pd (e al capo dello Stato)...
Acque tempestose, dunque. All’indomani della delusione elettorale, a Bersani fu chiesto se aveva pensato alle dimissioni: «Io non abbandono la nave - rispose, ed era il 26 di febbraio -. Posso starci sopra da capitano o da mozzo, ma non la abbandono». È passato un mese: e nessuno sa come Bersani risponderebbe oggi...

Corriere 30.3.13
Tra i democratici scatta il «liberi tutti»
Sul ruolo di Renzi sospetti e auspici. E Bersani si rifugia in Emilia con i fedelissimi
di Maria Teresa Meli


ROMA — Bersani sì, Bersani no: nel Partito democratico si è già aperta la fase precongressuale. Con tutte le conseguenze del caso: i sospetti, gli sgambetti, i pugnali prima affilati e poi rinfoderati.
Senza dare necessariamente retta alle voci che circolano nei corridoi del Nazareno e ai soprannomi che sono stati dati ad alcuni protagonisti delle attuali vicende — secondo i bersaniani del tortello magico Enrico Letta veste i panni di Bruto e Dario Franceschini quelli di Cassio — è chiaro a tutti, nel Pd, che una partita è finita e un'altra sta per cominciare. Può essere quella che vuole giocare il leader, il quale è convinto che non tutto è perso, che lo sbocco, se non è il suo governo, può essere ancora quello delle elezioni anticipate (magari favorite dalla voce secondo cui Napolitano potrebbe rassegnare le dimissioni il 2 aprile). O può essere un'altra ancora, perché la verità è che ormai nel Pd ognuno gioca una partita in proprio. Bersani, che non si sente sul viale del tramonto, continua a rassicurare i fedelissimi: «Aspettiamo che cosa decide di fare il presidente: vediamo che film si apre e chi avrà l'iniziativa». Matteo Renzi, che si sente in pista, bada solo a fugare i sospetti di chi pensa che Giorgio Napolitano manderà lui alle Camere per raccogliere una maggioranza parlamentare, Pdl incluso, ovviamente. Con una lista dei ministri decisa senza contrattare con i partiti e un programma denso ma minimo che consenta un governo di un anno al massimo. «Non esiste», ribadisce il sindaco di Firenze, anche se Debora Serracchiani lo chiama in causa e, dopo averlo tradito (politicamente, ben si intende) con Bersani, ora lo rilancia nella speranza che sia lui a fare il governo del presidente.
Ognuno parla la propria lingua nella Babele del Pd. Così accade che Gentiloni anticipi il probabile sì del partito a un governo del presidente, prendendosi i rimbrotti di Matteo Orfini: «La linea del Pd non cambia perché lo dice Gentiloni». E mentre si litiga Beppe Fioroni avverte: «Lo stallo ci uccide: il Pd deve sparigliare». Ne sono convinti anche alcuni Democrat di rito franceschiniano, come Piero Martino e Saverio Garofalo. I due deputati del Pd non hanno dubbi: «Fossimo in Bersani accetteremmo la sfida di Berlusconi e proveremmo a fare un governo con il Pdl». Nel frattempo Fabrizio Barca affina un documento sulla forma-partito.
Insomma, tutti dicono tutto e non sembra esserci una linea in questo Partito democratico che sbanda alla curva delle consultazioni. «Letta gioca per Renzi», suggerisce un senatore; «Letta gioca per sé», dice un deputato; «Franceschini vuol far scontare a Bersani il prezzo della sua bocciatura come capogruppo dei deputati». Intanto, gli uomini del «tortello magico», i bersaniani doc, sono scappati tutti dalla Capitale: Maurizio Migliavacca e Vasco Errani tornano nella loro Emilia. E il segretario fa lo stesso correndo a Bettola. La loro assenza si nota. E pesa. C'è chi la prende già come una ritirata non si sa quanto strategica. Da casa sua, però, Bersani avverte. «Mi pare che trovare una soluzione in questo contesto sia difficile, in fondo la proposta di un governo da me guidato resta quella che «rispetta più di ogni altra il risultato elettorale». E comunque, sottolinea il leader del Partito democratico, in tutti i conversari con i suoi, «io non ho mai detto dopo di me il diluvio, nè o Bersani o elezioni: se c'è una soluzione che favorisce un esito positivo di questa situazione complicata, sarò il primo ad esserne felice. A patto che non sia un pasticcio e che rispetti il risultato elettorale e la domanda di cambiamento che ci arriva dagli elettori».
In questa fase di stallo, Bersani e il gruppo dirigente del Pd seguono con interesse le mosse del Colle e si interrogano sull'effettiva possibilità che Napolitano si dimetta il 2 aprile. «Accetterà una ricandidatura, che anche ieri gli è stata riproposta dal Pdl?», si chiedono a largo del Nazareno. Oppure... «Oppure — è la minaccia di Bersani all'indirizzo di Berlusconi — si aspetterà la data canonica e, visto l'atteggiamento del Pdl, sceglieremo il nuovo presidente della Repubblica con il Movimento 5 Stelle: il Cavaliere non potrà avere nessuna garanzia per il Quirinale».

Corriere 30.3.13
«Pier Luigi? Magari avrà un ruolo di terzo piano»


«C'è una certa grandezza in mio fratello Pier Luigi, bisogna ammetterlo. Ora c'è il vomitare di tutte le persone che vogliono dire la propria su di lui, ma quando le bocce saranno ferme, si capirà quello che lui ha dovuto fare per tenere insieme il partito». La pensa così Mauro Bersani, fratello di Pier Luigi, che ieri al programma «Un giorno da pecora», su Radio2, ha parlato della situazione che sta vivendo il segretario del Pd. «Secondo lei, Pier Luigi dovrebbe fare un governo con Berlusconi?» gli è stato chiesto. «Andare con Berlusconi è come andare a fare una passeggiata con un serpente in tasca», ha detto senza mezzi termini, prima di rispondere «Fabrizio Barca, sarebbe un bellissimo nome» alla domanda su chi vedrebbe bene come premier se dovesse indicare un nome diverso da quello del fratello. «I politici prima o poi finiscono, e finiscono quasi sempre con una delusione, non è che finiscono in gloria», ha detto quando gli è stato chiesto se la carriera del fratello fosse finita. Escluso, secondo Mauro, che Pier Luigi vada al Quirinale: «Per l'amor di Dio, queste sono cose che si riservano ai democristiani»: piuttosto, «magari Pier Luigi avrà un ruolo di terzo piano. Io penso che ci sarà sempre bisogno del suo cervello però», ha spiegato. Nel corso dell'intervista, Mauro Bersani se l'è presa con Massimo Cacciari, anche lui in collegamento telefonico con i conduttori Sabelli Fioretti e Lauro. Motivo? Il filosofo ed ex sindaco di Venezia poco prima aveva criticato duramente le scelte del Pd. «Quel Massimo Cacciari che ho sentito prima — ha detto Mauro Bersani — è una persona che non vorrei vedere neanche lontano 10 mila chilometri, è uno che ha detto tutto e il contrario di tutto nella sua vita». La risposta di Cacciari non si è fatta attendere: «Non ho mai cambiato idea, quel che dico ora lo dicevo 20 anni fa. Il signor Mauro si informi, non parli a vanvera».

Repubblica 30.3.13
L’amarezza di Bersani: “Ma un filo c’è”
Bersani, il giorno amaro della resa “Nessun governo è possibile ma Berlusconi dovrà pagarla”
Il leader torna a casa: ora non lasciamo solo il Colle
di Goffredo De Marchis


«BERLUSCONI blocca tutto: Costituente, un nome condiviso per il Quirinale, il governo istituzionale. Allora, che paghi un prezzo pure lui». Il suo prezzo, Pierluigi Bersani ha finito di pagarlo ieri pomeriggio, rimettendosi alle decisioni di Giorgio Napolitano.
GETTANDO, di fatto, la spugna. «La verità è che non c’è nessun esecutivo possibile», diceva sconsolato. Neanche il suo. È davvero un venerdì di Passione. La Pasqua di Resurrezione sembra molto lontana.
Il giorno della sconfitta Bersani lo vive in collegamento telefonico permanente con Enrico Letta. Fino all’ultimo secondo, fin dentro le stanze del palazzo presidenziale. Appena il numero due del Pd esce dal colloquio con il capo dello Stato, telefona al segretario, chiuso nella sua casa di Piacenza. Insieme scrivono il comunicato che andrà letto alla stampa. La linea è concordata, il passo indietro, momentaneo o definitivo che sia, pure. La conferma del no al governissimo, la Convenzione rifiutata dal centrodestra, la denuncia dello stallo servono a tenere il punto. Subito prima della resa: ci rimettiamo alle scelte del Colle. Che la strada stretta si fosse interrotta, Bersani l’aveva capito già giovedì sera. E con la sua segreteria aveva concordato un ritorno a Piacenza per la mattina di ieri. Tutti a casa quelli del giro stretto del leader. Migliavacca a Fiorenzuola, Errani a Ravenna, Fiammenghi a Marina di Ravenna. «Andiamo a fare la Pasqua con le nostre famiglie», è stato il congedo. Bersani, quando parte da Roma, non sta neanche tanto bene di salute. Nausea, mal di stomaco. Gli effetti di una settimana vissuta sul filo, di notti in bianco, di muri di gomma. «Troppe consultazioni — scherzava un suo collaboratore alludendo all’ironia sulla quantità dei convocati — . Qualcuno delle delegazioni gli avrà passato l’influenza».
A casa, per trascorrere «finalmente un giorno di quiete». Con la moglie Daniela e le figlie Elisa e Margherita. Ma il telefono squilla continuamente, la televisione è accesa su Skytg24 per la diretta dal Quirinale. I collegamenti via cellulare sono limitati al portavoce Stefano Di Traglia e al vicesegretario. La telefonata decisiva arriva subito dopo le dichiarazioni di Silvio Berlusconi. Ed è Bersani ad autocongelarsi stavolta. «Enrico — dice a Letta — adesso teniamo i contatti con Napolitano. Non lasciamolo solo, affidiamoci a lui. Berlusconi vuole mandare tutto all’aria, non possiamo permetterlo». Bersani dunque accetta il passo indietro di fronte a una situazione fuori controllo e impazzita. Conosce bene il rovello di Napolitano, il presidente gliel’ha confidato senza giri di parole: «Penso alle dimissioni. Altrimenti non se ne esce». Anche Bersani ci ha messo del suo, ma il capo dello Stato alla fine ha compreso le sue ragioni. Per difendere il tentativo di un governo del cambiamento, per rispettare l’esito delle elezioni che hanno consegnato al centrosinistra una vittoria dimezzata, ma pur sempre una vittoria. La sera prima, giovedì, di fronte al presidente della Repubblica Bersani aveva messo il paletto contro il governo istituzionale: «Il Pd non può e non vuole votarlo».
Ma adesso è il momento di ricucire, perché a Bersani Napolitano ha spiegato di sentirsi non solo preoccupato ma svuotato «dei pieni poteri», quindi vicino alle dimissioni. «Attendiamo con rispetto e in silenzio le decisioni del capo dello Stato. Ora più che mai», spiegava il segretario al telefono. Aggiungevano i suoi fedelissimi: «Bisogna davvero aspettare e basta. Il D-Day è oggi».
Sul divano, in salotto, nelle pause tra una telefonata e l’altra, Bersani legge il libro di Roberto Saviano sulla cocaina che arriverà in libreria a giorni. Non è una copia-civetta dell’editore, ma «un omaggio personale» dello scrittore, «una cortesia molto apprezzata», dice il segretario. Sono fuggevoli momenti di relax, come le chiacchiere con Elisa e Margherita. Ora c’è da gestire l’uscita di scena e forse problemi ancora maggiori: un governo oppure le dimissioni di Napolitano. E il partito spaccato. Bersani ha il dente avvelenato con chi, da dentro, ha ostacolato la sua corsa proponendo il governo di scopo mentre svolgeva il suo giro di consultazioni. Fronda renziana, soprattutto. «Gli ha dato molto fastidio il sabotaggio. Lui correva e gli altri lo sgambettavano», raccontano i bersaniani. Ma Napolitano, spiega Bersani, non si è fatto condizionare dalle interviste e dagli articoli di giornale. Ha parlato con lui, non ha cercato sponde all’interno del suo partito. Il segretario però sa che il destino degli sconfitti è fatto di pugnalate e di voltafaccia improvvisi. Se li aspetta. Possono definitivamente spezzare il filo sottilissimo che ancora lo lega alla speranza. Anche e soprattutto dentro dal suo partito partiranno le accuse e la resa dei conti. C’è una direzione da convocare a breve, in cui cambieranno tutte le carte in tavola. Il Pd sarà chiamato forse ad affrontare subito la successione a Napolitano. Con quali alleanze? Con quali nomi? Con quale unità del partito, soprattutto. A tarda sera, resta in piedi, con rassegnazione, l’ipotesi che Napolitano stamattina dia il via libera a Bersani per andare alle Camere e cercare lì una maggioranza. Era la strada maestra. Ma quindici giorni fa. Nel frattempo si è consumato il tentativo Bersani. E la sua resa.

Repubblica 30.3.13
Il Pd si spacca sull’esecutivo-traghetto “Mai col Pdl”. “Non si può votare”.
Giovani Turchi contrari, Renzi e Franceschini aprono
di Giovanna Casadio


ROMA — La tregua è rotta. Il cuneo che Berlusconi ha tentato in queste settimane di mettere nel Pd per divaricarne le posizioni e creare la tensione massima, è andato a segno. Ma la giornata di passione dei Democratici - Bersani a Piacenza, gli emiliani Migliavacca e Errani in contatto continuo con il leader e Enrico Letta a trovare una rotta comune prima di salire al Quirinale - subisce una brusca accelerazione. La “gauche” del partito - gli Orfini, Verducci, Orlando, Fassina, i cosiddetti “giovani turchi” - vengono convocati dal vice segretario al Nazareno, la sede del partito, e pongono alcune condizioni: «Se anche vincesse la linea del “governo del presidente” sia chiaro che i paletti devono essere precisi ». Matteo Orfini poi, ne pone tanti e tali da renderlo di fatto impossibile: «Se stiamo parlando di un governo istituzionale allora deve avere la fiducia di tutte le tre grandi forze, non solo del Pd e del Pdl ma anche del MoVimento 5Stelle. E poi lo deve decidere una nuova Direzione del partito». Di fatto è un no a qualsiasi ipotesi di “governo del presidente”. Circolano nomi graditi, i soli che lo renderebbero potabile per i “giovani turchi”: Barca, Rodotà, Bonino. Prima che Letta annunci la disponibilità («Sosterremo le scelte di Napolitano»), con una formula concordata con il segretario, i bersaniani e la sinistra del partito si irrigidiscono: «No a larghe intese, mai con il Pdl». Ma non ci sono solo i renziani (il sindaco “rottamatore” parla a sua volta con Letta) a spingere perché non si resti in una ridotta, non ci si arrocchi su una posizione antiberlusconiana dura e pura per il ritorno subito al voto. Dario Franceschini e lo stesso vice segretario spingono per una linea di responsabi-lità: «Non possiamo dire no a tutto, apparire come quelli che non pensano al paese, almeno cambiare la legge elettorale e fare le misure per il lavoro». Letta sente anche Veltroni, ascolta D’Alema.
E Matteo Renzi è preoccupato e irritato. Lo confida ai suoi, dopo avere letto una notizia che circola sempre con maggiore insistenza che sarebbe pronto a scendere in campo e anche a guidare un governissimo. La giudica una polpetta avvelenata, per metterlo in difficoltà. Paolo Gentiloni, renziano, nelle stesse ore, rompe la prudenza e dichiara: «Siamo stati sempre leali con Bersani, ma dopo di lui non c’è il voto, bensì un governo del presidente». Il tam tam su una Direzione immediata cresce. Comunque, il “parlamentino” ci sarà la prossima settimana. Davide Zoggia, bersaniano di ferro, detta una nota in cui si ribadisce che il Pd non ha un “piano B”, è sempre e tutto con Bersani. La stessa carta che gioca Nichi Vendola al Quirinale. Il leader “rosso” tira l’ultima volata al segretario del Pd: «Bersani è l’unica soluzione, vada alle Camere.
Non è così. Ostinarsi sul nome del segretario è ritenuto ormai inconcludente,
sia da un punto di vista tattico (per non restare con il cerino in mano consegnato da Berlusconi), sia strategico. Stefano Fassina è amareggiato: «Il tentativo di Bersani era per un governo di svolta, ora sarà un’operazione di piccolo cabotaggio...». Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione democratica, ritiene che sarebbe meglio andare a votare subito piuttosto che aspettare fino all’autunno, quando la situazione italiana sarà forse peggiorata con un “governicchio”. «Siamo alla tempesta perfetta, noi non vogliamo larghe intese, il Pdl non vuole un governo del presidente. L’unico sbocco è il voto», annota Antonello Giacomelli. Per un’apertura a un governo di larghe intese è Beppe Fioroni, in sintonia con il segretario della Cisl, Bonanni. «Alla grande coalizione non penso da oggi, ma da quel dì. Il Pd sparigli, non sia spettatore dello sfascio, gli italiani non ce lo perdonerebbero». I più critici verso Bersani parlano del “chicken game”, il gioco del pollo: si sta a guardare chi riesce a sfilarsi per ultimo dal dirupo.

il Fatto 29.3.13
Goldman Sachs: “Fattore Grillo problema per l’Ue”


LA BANCA d’affari americana Goldman Sachs, che alcune settimane fa aveva accolto con piacere il successo del Movimento 5 Stelle, ora ci ripensa e Jim O’Neill, presidente della divisione asset management punta l’indice sul “vero problema dell’Unione europea” che non è Cipro, “ma l’Italia con il fattore Grillo”. La sua voce per ora è isolata, per gli analisti la situazione è troppo fluida perché si possa azzardare quale potrebbe essere la reazione delle borse martedì, ma “la possibilità di elezioni anticipate non viene vista positivamente dai mercati finanziari” commenta Marco Valli, capo economista per l’eurozona di Unicredit: “È possibile un aumento delle tensioni sui mercati se il Paese rimane senza una guida forte”. La colpa dell’instabilità dei mercati, secondo il prorettore del Politecnico di Milano, Giuliano Noci, sarebbe da rintracciare nella “latitanza della politica europea, ormai appiattita sulla Germania”. I mercati ormai tendono ad esaltare ogni singolo episodio, perdendo di vista il tutto e scaricando il fardello sugli anelli più deboli. Per questo motivo, prosegue Noci, “il Paese di certo non può permettersi una fase di non governo”.

il Fatto 30.3.13
Casaleggio si candidò in lista civica di destra


UN PASSATO vicino a Forza Italia. Poi il passaggio ai Cinque Stelle. Così Gianroberto Casaleggio torna a stupire. Nel 2004 il guru dei grillini si candidò nel Consiglio comunale di Settimo Vittone, un paesino in provincia di Torino, con una lista civica vicina al partito di Silvio Berlusconi. La notizia è stata lanciata dall’ultimo numero di Panorama. Il nome della lista era “Per Settimo” e il suo capo, Vito Groccia, candidato sindaco, è definito un “politico calabrese vicino a Forza Italia”. Per Settimo arrivò terza su tre gruppi candidati. Misero anche il successo riscosso da Casaleggio: soltanto sei voti. Nella stessa inchiesta, il settimanale, riporta la dichiarazione di voto per i Cinque Stelle di Giuliano Di Bernardo, 74 anni, fondatore della Gran loggia regolare, la massima autorità nella massoneria italiana e oggi maestro di Dignity, l’Ordine per la dignità dell’uomo. “Io non votavo da 15 anni, ma sono tornato a farlo e ho dato la mia preferenza al Movimento Cinque Stelle” confessa Di Bernardo nell’intervista a Panorama. Ma tra Grillo e Casaleggio preferisce il secondo, proprio perché “con il suo messaggio parla a un’élite”: cioè quella che, come lui, crede in un futuro abitato da un’umanità governata da “una comunione di illuminati, presieduta dal tiranno illuminato”.

Repubblica 30.3.13
Nei gruppi e sul blog crescono le critiche. E c’è chi ammette: la linea Casaleggio è no a qualsiasi governo
E il leader stronca la fronda interna “Troppi dubbi tra i nostri deputati”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — C’è una gran confusione sotto il cielo dei 5 Stelle. Beppe Grillo lo sa, e per questo non smette di dettare la linea con tweet, telefonate, interviste in diretta sulla sua web tv.
Da una parte ci sono deputati e senatori che ripetono: «Davanti a nomi come quelli di Gustavo Zagrebelsky, Salvatore Settis, Stefano Rodotà, dovremmo riunirci e decidere». Non sono dissidenti, non è una minoranza quella che pensa che un governo della società civile si potrebbe far partire. Perfino Roberta Lombardi, dopo aver riferito ai suoi dell’incontro con Napolitano, mentre attraversa il corridoio che la porta all’ufficio della presidente della Camera, si ferma a spiegare: «Quando diciamo no a governi pseudotecnici intendiamo quelli fatti da persone che sono comunque parte del sistema dei partiti. Quando chiediamo un governo a 5 stelle non vogliamo dire che dobbiamo essere noi, o Beppe Grillo, a guidarlo, ma persone che abbiano alte professionalità, una spiccata moralità, e il nostro programma». Se le si chiede un nome, lei ironizza: «Come si chiama quello? Ah, papa Francesco ». Davanti a ipotesi vere, risponde: «Devo vedere il curriculum ». È certa che non si vada in quella direzione, «ma se Napolitano ce lo chiedesse ci riuniremmo e saremmo pronti a dare i nomi in 48 ore. Per consultare la base non ci sarebbe il tempo». Che lo dica perché ci creda, o per tenere buoni i parlamentari contrari al «no a tutto», poco importa.
Le cose non cambiano.
E così, all’ultimo momento, i 5 stelle non hanno portato alcun nome al presidente della Repubblica Napolitano. Giovedì - mentre la maggior parte di loro era già partita col trolley in mano per tornare a casa - alcuni parlamentari avevano pensato di stilare una rosa. «Sembrava che Grillo fosse d’accordo», racconta uno di loro. Poi il contrordine. Non è difficile capire da dove. Fonti vicine allo staff confermano quel che già si era capito: «Casaleggio è per il no a qualsiasi governo». Anche per questo, Beppe Grillo ha chiamato Napolitano prima che Crimi e Lombardi salissero al Colle. «Gli ha detto che la linea non sarebbe cambiata. No ai partiti, nessun nome da proporre».
Ed eccola, la frattura. Grillo, Casaleggio, e i più ortodossi del Movimento, dicono no a qualsiasi governo. Credono che l’unico modo per fare la «rivoluzione senza ghigliottina» sia lavorare in Parlamento. Attaccano gli pseudotecnici per far fuori nomi che sono circolati anche tra i loro: Grasso, Saccomanni, lo stesso Rodotà. Nello stesso tempo, vedono le truppe sempre più insofferenti davanti a questa impostazione. «Noi rispondiamo ai nostri territori», dice un deputato. «Ci chiedono di fare qualcosa, sentiamo una pressione enorme».
È per placare questi istinti, che mentre Crimi e Lombardi sono dentro lo studio di Napolitano, Beppe Grillo telefona al direttore di Sky Sarah Varetto per chiederle di rettificare la dichiarazione sul «sì agli pseudotecnici». È per rafforzare la linea, che subito dopo le consultazioni prende la parola su La Cosa attaccando tutto e tutti. Ripete vecchi refrain: «Il Parlamento è un’aula vuota dove ci sono nominati, non eletti, condannati, prescritti, patteggiati». Tutti impuri, tranne i suoi: «Capisco questi ragazzi che devono schivare ogni minuto domande che contengono già la risposta». Le divisioni emerse sono colpa dei giornalisti. Le pressioni per fare un governo vengono da chi «ha sbagliato voto». Poco importa se in quelle stesse ore il suo blog si riempia di commenti che contestano la linea. Come quello di Pietro da Cagliari: «Una cosa giusta l’hai detta: abbiamo sbagliato a votarti». O di Pasquale Giunta: «Dovevamo mandare Bersani al governo e “ricattarlo” per fare le riforme!».
La domanda è sempre la stessa. Chi decide nel Movimento? I parlamentari eletti o Beppe Grillo? Massimo Baroni - deputato psicologo - risponde con poesia: «Diciamo che Grillo ha l’ispirazione. La visione. A volte, vede le cose prima di noi».

Repubblica 30.3.13
Fiom discriminata, Marchionne indagato
I pm chiudono l’inchiesta su Pomigliano. L’azienda: mossa sconcertante
di Conchita Sannino


NAPOLI — Due paginette notificate ai vertici di Fiat. E il braccio di ferro tra il Lingotto e la giustizia italiana continua. Dopo le sentenze civili, arriva l’inchiesta penale la — prima — per l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne e per l’ad di Fabbrica Italia Pomigliano, Sebastiano Garofalo. L’ipotesi per cui finiscono indagati: l’inosservanza dei provvedimenti già emessi, prima a Torino, poi a Roma, a favore degli operai «discriminati».
La Procura di Nola ha inviato ai due manager l’avviso di conclusione indagini in cui il pm ipotizza a loro carico la commissione di due contravvenzioni. A Marchionne e Garofalo viene dunque contestato il fatto di non aver riconosciuto agli operai della Fiom dello stabilimento di Pomigliano d’Arco quei diritti sindacali che si ritengono lesi già in due condanne (di primo e secondo grado) a Roma, e di un altro pronunciamento a Torino; e di non aver superato «l’asserita discriminazione » — così come riporta in serata una nota del Lingotto — degli iscritti allo stesso sindacato «nel processo di trasferimento dei dipendenti di Fiat Group Automobilies a Fabbrica Italia Pomigliano». È un fulmine a ciel sereno, per Fiat. Che definisce «sconcertante e paradossale » l’azione dei pm. «Tale iniziativa — afferma il Lingotto — è l’ennesima espressione dell’inusitata offensiva giudiziaria avviata dalla Fiom nei confronti di Fiat da più di due anni».
Ora, secondo le procedure ordinarie, i due manager hanno a disposizione venti giorni per potersi sottoporre ad interrogatorio o depositare una memoria attraverso i loro legali. Se le loro ragioni non dovessero apparire convincenti, il pm chiederà il loro rinvio a giudizio, ipotesi che allo stato appare la più verosimile.
E il segretario generale di Fiom, Maurizio Landini, annuncia già: «Se arriveremo al processo faremo tutto quello che possiamo, compresa la costituzione parte civile».
La stessa Fiom aveva da tempo pubblicato annunciato la sua diffida per «la continua e reiterata discriminazione» nei confronti dei 19 “suoi” lavoratori di Pomigliano, gli unici a essere tornati in cassa integrazione già alcuni mesi fa: assunti il 28 novembre scorso, non avevano svolto gli ultimi sei mesi di lavoro necessari, secondo l’accordo tra azienda e sindacati, a poter lavorare sulla “Panda”, nell’area riservata. Ed è proprio l’esposto della Fiom a muovere l’azione dei magistrati.
Il sindacato segnala che Fiat e Fabbrica Italia non stanno ottemperando a quanto dettato dal giudice del lavoro. Così è Nola, la Procura competente per territorio guidata da Paolo Mancuso, il magistrato anticamorra già noto per le sue inchieste e la prima tangentopoli che infiammò l’area napoletana, a procedere in base all’articolo 650 del codice penale.
È quello che indica «l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità ». Ovvero: «Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a lire quattrocentomila». Il dato davvero peculiare, per la Fiat, è che il reato si può considerare in teoria continuamente «perdurante». Fino a quando quei diritti offesi non verranno riparati.

il Fatto 30.3.13
Primo cittadino. Confidenze dal Campidoglio
Alemanno: “Tangenti? Me le hanno offerte 20 volte”
di Antonello Caporale e Valeria Pacelli


Roma si sta rivelando una fatica immane per il suo sindaco che infatti ne sente ogni peso. Se lo incrociate per strada noterete una lieve curvatura delle spalle: ecco, sono i pensieri che affliggono Gianni Alemanno e lo costringono all’afflizione permanente. Durante il suo quinquennio al Campidoglio non ha schivato una sola rogna. Dalla neve alla metro B, qualunque questione diviene un caso. E qualunque caso un fascicolo giudiziario.
O è il fato che si accanisce contro di lei oppure è lei che si accanisce contro Roma.
Sono al centro dell’interesse della stampa e della Procura: tendono sempre a tirarmi in ballo. La chiamano Aledanno, un motivo ci sarà. Se è per questo anche Retromanno, ma sono pregiudizi faziosi, dai.
Non è un complotto.
Voi ricordate una sola inchiesta durante la giunta Veltroni? Ricordate, per esempio, come è finita quella sui derivati? Rammento io: tutto archiviato .
Lei sarà sfortunato, ma non c’è sua nomina che non incontri un problema, un affaire, un retroscena da codice penale. Per esempio Riccardo Mancini, il suo braccio destro.
Braccio destro?
Come lo vogliamo chiamare?
Un amico, una persona con la quale ho condiviso una parte del mio impegno politico.
L’ha indicato amministratore delegato di Eur Spa, ed è stato arrestato pochi giorni fa con l’accusa di aver intascato una tangente per l'acquisto di 45 filobus.
Non rinnego quell’amicizia, aspetto come tutti di conoscere gli esiti dell’inchiesta. Ma qual è la mia responsabilità?
Al telefono gli dice: “Ma che c’avete in testa, siete scemi? Uno vi aiuta... nun c’è niente da fa’, siete scemi”.
Quell’intercettazione non ha rilevanza penale, ma dimostra semmai che Mancini faceva le sue scelte in autonomia. Comunque spero che Mancini esca pulito da questa vicenda.
Spera. Quindi non ne è certo.
Me lo auguro.
Mancini ha già ammesso di aver ricevuto 80 mila euro. E si sussurra che la somma lieviterebbe a 500 mila euro.
A quanto ho capito, Mancini ha detto di aver ricevuto 80 mila euro non come tangente.
Qui siamo al peso specifico di una mazzetta.
La cosa più difficile in un’amministrazione come quella di Roma è selezionare le persone e sto pensando a una commissione di saggi che valuti le biografie di ciascuno, una lista trasparente in cui l’errore, il difetto di valutazione o la semplice ignoranza possa essere evitata. Desidero che ogni profilo sia messo on line. Aggiungo però che un sindaco gode di minori filtri difensivi rispetto, per esempio, a un ministro. Arriva di tutto sulla mia scrivania.
È mai stato protagonista di episodi in cui le hanno fatto capire che insomma ci poteva essere in ballo una tangente direttamente per lei?
Eccome. Mi sono trovato di fronte almeno una ventina di volte a situazioni ambigue che potevano nascondere circostanze di questo genere. E di denunce alla polizia, ai carabinieri ne ho fatte.
Aveva promesso di fare di legalità e trasparenza un cardine della sua gestione. L’ex parroco don Ruggero Conti, suo garante per le famiglie in campagna elettorale, condannato a 15 anni per abuso sui minori.
Era uno dei parroci più importanti di Roma. Come facevo a sapere che lui avesse questi problemi?
Franco Panzironi, rinviato a giudizio per abuso d’ufficio l’aveva mandato all’Ama, Franco Maria Orsi, consigliere comunale Pdl e delegato all’Expo di Shanghai indagato per corruzione.
Lei però non ricorda che i loro guai giudiziari sono avvenuti dopo le nomine, e in ogni caso non sono stati ancora condannati, vedremo come andrà a finire.
Però nel caso di Stefano Andrini, ex amministratore delegato dei servizi ambientali Ama, si sapeva ogni cosa: condannato già nell’89 a 4 anni e mezzo, poi ridotti a tre per il pestaggio di due ragazzi.
Sì, ma non si può giudicare una persona dal suo passato. Le condanne come la detenzione sono anche un processo di riabilitazione. È anche vero che Walter Veltroni assunse Silvia Baraldini, coinvolta nel mondo delle Br. Allora lei è proprio sfortunato. Aledanno sulla croce. Lasci stare la croce, proprio oggi (ieri, ndr) che sto per andare a salutare il Papa Francesco che celebrerà la via crucis. Una personalità magnifica, l’ho chiamato il Papa sociale 2.0.
Sindaco, tra qualche settimana si vota. La vedo dura.
Fifty-fifty, dicono i sondaggi. Cinquanta possibilità su cento di farcela.
Berlusconi sembra invaghito di Alfio Marchini.
È un imprenditore come lui e gli starà simpatico, nulla di più. È il classico candidato a prescindere dal suo orientamento politico: sta a destra, a sinistra, altrove? Boh! Conosce Roma? Boh! So che giocava a polo in giro per il mondo.
Se lei perdesse?
A differenza di altri non avrei paracadute. Ignazio Marino è senatore, per esempio. Dorme sonni tranquilli.
Le toccherebbe lavorare.
Da sindaco lavoro venti ore al giorno, ma non avrei difficoltà a fare altro. Il mio conto in banca è sempre in rosso e adesso che mia moglie Isabella
Rauti non è più consigliere regionale il tema lavoro in famiglia è molto sentito.
Può scalare le rocce. L’alpinismo è la sua grande passione.
Certo, servizi integrati per la montagna. È un’idea che mi frulla. Ma sono ingegnere, mi piacerebbe fare progettazione. L’urbanistica è la mia passione.
Piani regolatori e municipi. E torniamo sempre lì.
No no, lei è malizioso.
Che fatica fare il sindaco. Incontri tanta gente...
Resti spaventato: e questo chi sarà?
Ti chiedono foto.
Eccome, le foto.
E se fai politica e metti su una corrente ci vogliono soldi.
Anche questo è vero. Bisognerà assolutamente regolamentare questo sistema: io penso che per la mia campagna elettorale...
Almeno un milione di euro.
Non so, stiamo facendo i conti.
Tanti soldi comunque.
Metteremo un tetto massimo: cinquemila euro a contributo.
Bello.
Stiamo iniziando con le cene per la raccolta di fondi. Vorrei fare come Obama.
Obama è fantastico, la sua campagna elettorale è stata stellare, ricchissima.
Nel senso di mandare una comunicazione personalizzata a ogni categoria. Pensiamo ai pensionati. Gli ha scritto: guarda che intendo difendere i tuoi diritti. Mi dai 15 dollari?

Corriere 30.3.13
Il sovraffollamento delle carceri non ha uguali nell'intera Europa
di Marco Imarisio


La situazione oscena delle carceri è diventata ormai uno stereotipo tutto nostro. Come la pizza e il mandolino, o la dolce vita che purtroppo è finita da un pezzo. Il sovraffollamento degli istituti di pena italiani, con il degrado e i lutti che ne conseguono, viene ormai vissuto non come una indegna anomalia, ma come un tratto minore dell'identità nazionale. Nel migliore dei casi, un problema impossibile da risolvere con il quale si è obbligati a convivere.
L'ultima ricerca della Fondazione dell'Istituto Carlo Cattaneo ha il merito di elencare numeri freschi (sia quelli italiani sia quelli europei risalgono al primo bimestre 2013) e il proposito dichiarato di scuoterci da questa sensazione di ineluttabilità, da questo continuo allargare le braccia quando si parla di carceri. Inutile girarci intorno, i paragoni con il resto del continente sono impietosi. La stragrande maggioranza dei nostri istituti — oltre l'80 per cento — ha più detenuti che posti regolamentari, e sono molti quelli che contano la bellezza di tre detenuti per ogni singolo posto disponibile in base alla capienza consentita. Uno sull'altro. Da Nord a Sud, senza eccezioni, come dimostra la classifica delle criticità, capeggiata da Lamezia Terme, Brescia, Busto Arsizio, Varese e Piazza Armerina.
Ma forse, e ci si vergogna quasi a scriverlo, non è neppure questo il dato più sconfortante. Nel 2006, dopo l'indulto varato dal secondo governo Prodi, l'Italia passò dalla prima all'ultima posizione per livello di sovraffollamento carcerario. In un Paese normale ci sarebbe voluto poco per mantenersi a livelli medi di decenza, o meglio di umanità.
Invece già nel 2009 tornammo a primeggiare tra i peggiori. E non si trattava certo di una mera questione di delinquenza, come sostengono alcuni. Dall'inizio del nuovo secolo Paesi come Francia, Spagna e Inghilterra hanno tassi di detenzione superiori a quelli italiani ma nessun problema di sovraffollamento. Con le sue tabelle e i suoi dati, la ricerca dell'Istituto Cattaneo ci ricorda come il dramma delle carceri sia davvero una delle nostre vergogne peggiori, specchio di una incuria e di un cinismo sempre più dilaganti.

l’Unità 30.3.13
Sapere, l’Italia è fanalino di coda europeo
Secondo i dati Ue il nostro Paese è quello che ha tagliato di più per scuola e università
Gli stanziamenti sono tornati al livello del 2001
Edilizia e insegnanti sono i settori più colpiti dalla riduzione dei fondi
di Mario Castagna


Peggio di Cipro, Romania, Lettonia e Ungheria. Peggio di qualsiasi altro paese Ue ma anche dei paesi che aspirano ad entrarci come la Turchia. Nessuno Stato europeo riesce ad eguagliare la pessima performance italiana nel finanziamento all’istruzione. Nell’Europa in crisi, alle prese con le misure di austerità e di rigore finanziario, nessun paese ha ridotto, in termini reali, i finanziamenti a scuola, università e ricerca. Solo l’Italia ha attuato una politica così miope, riportando indietro le lancette a 10 anni fa. Il finanziamento per l’anno 2012 è infatti lo stesso previsto per l’anno 2001. A fotografare l’amara realtà è la Commissione Europea, che in una sua pubblicazione ufficiale, «L’impatto della crisi economica nel finanziamento all’istruzione in Europa», uscita da pochi giorni e liberamente disponibile su Internet, mette insieme per la prima volta dati, tabelle e statistiche di 31 diversi paesi europei.
L’Italia è il fanalino di coda. Se infatti nell’ultimo anno la maggior parte dei paesi ha ridotto gli stanziamenti per l’istruzione, tutti nell’ultimo decennio avevano aumentato i fondi, anche del doppio. In Italia, invece, il taglio si è abbattuto su un budget disponibile già al di sotto delle necessità.
In Grecia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Portogallo, Romania, Galles e Croazia, i tagli dal 2011 al 2012 sono stati superiori al 5%, mentre in altri 12 paesi il taglio è stato più contenuto, dall’1% al 5%. In nessuno di questi paesi però il budget a disposizione è ritornato ai livelli di dieci anni fa, come è accaduto invece in Italia.
Ma c’è anche chi ha aumentato i soldi per scuola, università e ricerca. La medaglia d’oro in questo caso se l’aggiudica la Turchia che ha aumentato i fondi del 5%, seguita da Malta ed dal Lussemburgo. In altri importanti paesi, come Irlanda, Lettonia, Austria, Romania, Slovacchia, Finlandia, Svezia e Islanda, l’aumento è stato più contenuto. Mediamente nel decennio 2001-2011, i paesi europei hanno aumentato del 10% la loro spesa in istruzione. L’Italia è invece rimasta ferma al palo. Non si è praticamente mossa e oggi gli stanziamenti in termini reali sono gli stessi di 10 anni fa, mentre il tasso di inflazione ha fatto aumentare i prezzi in misura considerevole. Questo significa che oggi la scuola, l’università e la ricerca in Italia sotto largamente sottofinanziate.
Il rapporto della Commissione esamina analiticamente quali sono state le componenti più importanti di questo grande taglio di bilancio. Il nostro paese ha smesso di investire nelle infrastrutture della conoscenza, sia per quel che riguarda l’edilizia scolastica (secondo i dati del ministero, meno del 20% delle strutture scolastiche sono a norma) sia per quel che riguarda l’adeguamento degli strumenti didattici alle nuove tecnologie (ad Ottobre 2012, a causa dei minori soldi a disposizione, è stata tagliata la connessione ad internet a 3800 scuole).
Un’altra fonte di risparmi è stata negli ultimi anni la politica di contenimento degli organici e delle relative retribuzioni. Sempre secondo il rapporto della Commissione Europea, in un terzo dei paesi presi in esame è stato ridotto il numero di insegnanti mentre spesso aumentava il numero degli alunni. Anche in questo caso il record negativo viene raggiunto dall’Italia, con l’8,5% in meno di insegnanti negli ultimi 5 anni. Una riduzione significativa che ha portato a risparmi nell’ordine di centinaia di milioni di euro solo per quel che riguarda la scuola primaria e secondaria. Nello stesso tempo i salari degli insegnanti rimasti in servizio sono stati spesso congelati con il blocco degli aumenti che ha fatto diminuire il loro potere d’acquisto. Infine un’altra fonte di risparmi per lo stato italiano sono state le recenti riforme dei servizi offerti agli studenti sempre meno numerosi e sempre più costosi.
La penuria di soldi ha reso via via meno fertile il dibattito pubblico italiano sul sapere e sul ruolo che può avere come strumento d’uscita dalla crisi. Non passa giorno che non venga pubblicato un documento sul finanziamento delle scuole, degli atenei o dei centri di ricerca italiani. L’ultimo appello è il documento della Conferenza dei Rettori del 21 marzo in merito al piano triennale del ministero per l’Università. Se solo i docenti, gli studenti ed i ricercatori italiani avessero pochi soldi in più, potrebbero parlare delle opportunità che il loro lavoro offre come strumento indispensabile e indifferibile per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile, una prospettiva di cui tanto ci si affanna a ricercare il bandolo della matassa.

Corriere 30.3.13
L'ombra di Tienanmen sulla first lady cinese «Cantò per le truppe»
Una foto riemerge dopo più di 20 anni
di Guido Santevecchi


PECHINO — La foto di una giovane in divisa verde oliva, con i capelli mossi dal vento mentre canta per dei soldati radunati in piazza, riemerge dal passato per turbare (forse) i piani della leadership cinese. La ragazza di quell'immagine filtrata attraverso la censura è Peng Liyuan, affascinante moglie del presidente Xi Jinping. La piazza è la Tienanmen e la data sarebbe il giugno del 1989, pochi giorni dopo la strage di manifestanti ordinata dal regime.
Peng Liyuan, che oggi ha 50 anni, è una cantante famosa, con la sua voce da soprano esegue inni patriottici e melodie struggenti. Fa parte della sezione artistica dell'Esercito popolare di liberazione e ha il grado di maggiore generale. In questi giorni in Cina (e sulla stampa internazionale) la sua popolarità è stata rilanciata dall'apparizione, al fianco del marito appena eletto presidente, nel corso della visita di Stato in Russia e Africa. Una bella signora, elegante in soprabito scuro e sciarpa turchese. La Repubblica Popolare non è abituata a una first lady e l'uscita pubblica di Peng ha suscitato entusiasmo: «L'America ha Michelle Obama, noi ora abbiamo Peng Liyuan», hanno scritto i giornali di Pechino.
Ed ecco spuntare sulla Rete un'altra Peng. Soldato tra i soldati, nei giorni terribili della Tienanmen. La foto è stata messa su Sina Weibo, il Twitter cinese, da un anonimo «@HKfighter», con la didascalia «Dopo il massacro Peng Liyuan cantò per confortare i soldati». L'account è stato bloccato e la foto subito censurata. Il governo cinese non permette discussioni pubbliche su quella pagina di orrore scritta nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989, quando ai soldati fu ordinato di sparare sui giovani che da settimane manifestavano nella piazza Tienanmen. Ma l'immagine ha cominciato a girare su alcuni siti americani specializzati nell'analisi di notizie provenienti dalla Cina.
L'agenzia Associated Press ha fatto dei riscontri secondo i quali la foto è la controcopertina di un numero del 1989 della rivista dell'Esercito cinese. È stato rintracciato un reporter, Sun Li, il quale sostiene di averla copiata sul suo smartphone anni fa, di averla inavvertitamente scaricata sul suo microblog e di averne poi perso le tracce. Sun Li dice di non avere idea di come possa essere riemersa ora.
Si sono aggiunti altri frammenti, letti nella didascalia originale della rivista militare: Peng avrebbe «cantato per le truppe della legge marziale» il brano della rivoluzione comunista «combattere per il potere, guidare la nazione».
Gli esperti sostengono che si tratta effettivamente della Tienanmen, perché sull'angolo a sinistra in alto dell'immagine si vede una parte del mausoleo dove giace il corpo imbalsamato di Mao.
Non può essere un caso che la performance di Peng per «confortare i soldati» che avevano sparato sugli studenti sia spuntata proprio ora che la cantante, diventata first lady, viene presentata come nuova rappresentante del soft power della potente Cina.
Qualcuno ci vede un segnale di disagio all'interno del potere. Forse un tentativo di incrinare il sostegno per la «prima coppia» della Repubblica Popolare. Xi Jinping (che nel 1989 era un funzionario di partito in una provincia dell'Est), da quando è arrivato al vertice del partito a novembre del 2012, e poi è stato nominato presidente a metà marzo, ha giocato molto sull'immagine. Si è fatto vedere in giro senza cravatta, si è fatto fotografare addormentato per la stanchezza su un pullman, poi ha esibito Peng nella sua prima missione di Stato.
«Ma questa foto probabilmente avrà un impatto negativo più all'estero che in Cina», ha detto alla Associated Press Joseph Cheng, docente di scienze politiche alla City University di Hong Kong. Sembra dargli ragione il commento del padre di un ragazzo ucciso quel 4 giugno del 1989. «Se avessi visto questa foto allora, avrei provato disgusto. Ma ora, guardando oggettivamente, è solo il passato. Peng era una cantante militare, i suoi comandanti le avevano dato l'ordine di esibirsi e lei doveva obbedire», dice Wang Fandi.
Wang a quei tempi insegnava al Conservatorio di musica a Pechino e nonostante Peng Liyuan non fosse una sua allieva la ricorda come una ragazza modesta, con un grande talento per le melodie popolari: «Anche se avesse fatto qualcosa di sbagliato allora, è al futuro che dobbiamo guardare oggi».

Corriere 30.1.13
Arendt, quella scandalosa verità
La filosofa parlò di «banalità del male» e finì nel mirino degli «ortodossi»
di Pierluigi Battista


La ingiuriarono nei modi più orribili: «donna senza cuore», traditrice che aveva «disertato l'ebraismo» e che addirittura aveva «calunniato le vittime e scagionato la Gestapo e le SS». Qualcuno, in Germania, fece finta di sbagliarsi e la chiamò «signora Hannah Eichmann». Perfino la sua storia segreta con Martin Heidegger divenne un capo d'accusa. Per colpa delle sue «relazioni private», sostennero gli inquisitori le cui gesta sono state ricordate in un libro dello scomparso Joachim Fest, lei, l'ebrea scappata dalla Germania in mano alle camicie brune, avrebbe «attenuato la responsabilità del boia delle SS soprattutto per distrarre l'attenzione dalle simpatie per il nazismo del suo maestro» che nel 1933, nel celebre discorso all'Università di Friburgo, fece coincidere il destino tedesco con la necessaria e incondizionata sottomissione agli ordini del nuovo Fuhrer.
Ecco a che punto di furore arrivò la polemica contro Hannah Arendt, che nel 1963 aveva dato alle stampe il suo resoconto del processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, incarnazione di quel mediocre ma smisurato orrore che l'autrice definì incautamente «la banalità del male»: la polemica che è al centro del nuovo film di Margarethe von Trotta che porta nel titolo il nome della filosofa tedesca.
La Arendt andò al processo di Gerusalemme non condividendo affatto il valore catartico che la classe dirigente israeliana, Ben Gurion in testa, aveva associato prima alla cattura di Eichmann e poi al tribunale che lo avrebbe giudicato. Ben Gurion rivendicava il diritto di Israele a portare nei suoi tribunali un uomo coinvolto ai massimi livelli nella macchina dello sterminio degli ebrei. E a chi obiettava sulla legittimità dello Stato di Israele di giudicare un uomo che non era un suo cittadino, Ben Gurion rispondeva che invece solo lo Stato di Israele avrebbe potuto giudicarlo, perché era finita l'epoca dell'ebreo mansueto che non reagisce, che si lascia portare alla morte docilmente «come agnelli al macello», ma era nata l'epoca del sogno sionista realizzato in cui gli ebrei si sarebbero sentiti al sicuro, colmi d'orgoglio e di consapevolezza di sé. Perciò la condanna di Eichmann avrebbe dovuto essere simbolicamente il punto di svolta, il «mai più» solennemente proclamato a Gerusalemme, come perenne monito per i nemici degli ebrei.
Ma era proprio questo progetto a non essere condiviso dalla Arendt. La quale subito, sin dalle pagine iniziali dei saggi apparsi prima sul «New Yorker» e poi confluiti nel libro «Eichmann in Jerusalem», contestò la scenografia di un dramma in cui Ben Gurion era «il regista invisibile».
Il suo punto di vista venne articolato con un'argomentazione molto severa nei confronti di tutto il processo e con una sottolineatura molto marcata del ruolo ambiguo, e talvolta complice, che i «Consigli ebraici», nel tentativo di minimizzare la portata dello sterminio e nell'illusione di mitigare o almeno contenere la violenza omicida dei nazisti, si trovarono a recitare, infliggendo una ferita terribile al popolo ebraico, regalando al carnefice una stampella nel corso di un massacro atroce. Fu questa sottolineatura, e non, come spesso in seguito si dirà, la nozione di «banalità del male», a scatenare una veemenza polemica contro la Arendt che una sua amica, Mary McCarthy, non esitò a definire pari a quella di un pogrom (come si evince nella bellissima corrispondenza Tra amiche, pubblicata in Italia da Sellerio). Una spirale atroce di accuse che spaccò l'opinione pubblica e il mondo ebraico.
Si cominciò proprio dalle colonne della «Partisan Review», la rivista di cui la Arendt era pilastro e figura centrale, dove Lionel Abel scrisse una recensione feroce in cui, sostanzialmente, si sosteneva che l'autrice del reportage da Gerusalemme aveva reso Eichmann «esteticamente accettabile» e gli ebrei «esteticamente ripugnanti». Come scrisse proprio la Arendt all'amica McCarthy (che di lì a poco sarebbe stata sottoposta anche lei a un'«inquisizione» laica, capeggiata da Norman Mailer, che aveva preso come bersaglio il romanzo Il gruppo): «ho appena saputo che la Anti-Defamation League ha inviato una circolare a tutti i rabbini perché facciano prediche contro di me il giorno dell'Anno Nuovo». Interdetta dalla ferocia inusitata delle critiche che le piovevano addosso, la Arendt osservò che però la «critica è rivolta a un'"immagine" e quest'immagine è stata sostituita al libro che ho scritto».
Ma il tono si faceva sempre più aspro. Jacob Robinson, uno dei tre assistenti della pubblica accusa nel processo Eichmann, scrisse sulla rivista «Facts»: «Per anni i nostri nemici hanno condotto una campagna che è consistita nel passare la spugna sui rei e nell'incolpare le vittime. Queste ultime, dopo essere state brutalmente assassinate, vengono ora messe a morte una seconda volta dai profanatori. Fra questi nemici si è schierata Hannah Arendt».
Le argomentazioni della Arendt vennero così addirittura equiparate alle gesta ripugnanti degli aguzzini. Gli amici anche più cari della Arendt, da Hans Jonas a Gershom Scholem, si unirono al coro dei rimproveri. A sua difesa la filosofa ebbe solo la stessa McCarthy e Raul Hilberg, lo storico che per primo aveva affrontato con una documentazione meticolosa la portata della Shoah in un libro che però aveva scatenato polemiche di violenza appena minore di quelle suscitate dal caso Eichmann. La paura di Israele, la minaccia mai definitivamente allontanata di un antisemitismo che proprio in quegli anni riceveva un nuovo, avvelenato impulso da un antisionismo virulento e fortemente ostile nei confronti degli ebrei, tutto questo contribuì a saturare di sostanze tossiche una discussione partita male e realizzata nei modi peggiori.
Hannah Arendt non meritava la crudeltà anche personale di certe critiche: meritava invece di essere criticata nel merito e argomento contro argomento. Prevalsero invece l'anatema e l'insulto. Una brutta pagina nella storia culturale del Novecento.

Il film di Margarethe von Trotta «Hannah Arendt», con Barbara Sukowa, Axel Milberg e Janet McTeer è uscito l'anno scorso in Germania, ed è una rimeditazione sul modo in cui la filosofa elaborò le sue tesi su Eichmann. L'uscita della pellicola in Italia è prevista per il prossimo autunno

Corriere 30.3.13
Quell’ora di sonno in meno e l’idea di tempo che se ne va
Da Sant'Agostino a Mann: la percezione dello scorrere dei giorni
di Anna Meldolesi


Nonostante le ore di luce guadagnate, domani mattina sarà difficile liberarsi dalla fastidiosa sensazione che ci abbiano sottratto sessanta minuti. Come quando voliamo verso Est: più ci allontaniamo più il fuso orario sembra scipparci un pezzetto di vita. Dove finisce il tempo perduto?
Da nessuna parte, ovviamente. È tutta un'illusione percettiva. Minuti, ore e giorni ticchettano e passano imperturbabili, sfidando la nostra comprensione. «Cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so. Se desidero spiegarlo a qualcuno che lo chiede a me, non lo so», scriveva Sant'Agostino.
I più fortunati trascorreranno i prossimi giorni senza lavorare. Una volta liberati da scadenze e cartellini da timbrare, forse sarà più facile sincronizzare l'orologio che portiamo al polso con quello interiore, che i neuroscienziati non sono riusciti con precisione a mappare. Forse. Perché la psicologia contempla anche un «effetto vacanze», che sembra farci sfuggire il tempo tra le dita, almeno nell'immediato. Come aveva intuito Thomas Mann, nel suo La montagna incantata, andare in villeggiatura gioca strani scherzi alla percezione del tempo. Aspettiamo quel momento per mesi ma, quando arriva, vola via in men che non si dica. Sono le novità che, interrompendo la routine, cambiano il ritmo dell'orologio mentale. Se ascoltiamo una serie di note uguali a eccezione di una (do-do-do-sol-do-do-do), il sol ci sembra più lungo. Lo spiega bene la psicologa dell'Università di Boston Claudia Hammond in Il mistero della percezione del tempo, appena pubblicato da Einaudi: quando l'attenzione si sposta, il meccanismo di tempificazione si rompe.
Paradosso per paradosso, avete notato che quando viaggiamo l'andata sembra più lunga del ritorno? Il bello è che le vacanze tornano a dilatarsi a distanza di tempo, nei ricordi. Ripensandoci abbiamo fatto così tante cose diverse dal solito, che il metro di misura normale ci restituisce il tempo apparentemente scomparso. Le valutazioni temporali in prospettiva e retrospettiva non quadrano più. Oddio, penserà qualcuno, è già Pasqua un'altra volta. «Ogni anno le feste arrivano prima, ogni anno sembra più corto».
In gioventù il tempo cammina, poi accelera fino a correre. Minuti e giornate restano uguali, ma gli anni si contraggono. Nabokov, lo scrittore, credeva che fosse una questione di proporzioni matematiche: se hai solo 20 primavere, un anno è un ventesimo della tua vita, ma diventa una frazione via via più piccola man mano che invecchi. Forse l'età ha un effetto telescopio: gli avvenimenti sembrano più vicini del vero. Ma il fenomeno potrebbe essere dovuto, almeno in parte, al fatto che molti dei nostri ricordi risalgono al periodo in cui si forma l'identità, quando tutto è nuovo, tra i 15 e i 25 anni. Il picco della reminiscenza, lo chiamano. Poi la vita diventa ripetitiva, e la rarefazione delle nuove esperienze disconnette prospettiva e retrospettiva.
È proprio questa la chiave di molti dei misteri del tempo, possiamo sfruttarla a nostro vantaggio? Di certo non sappiamo far girare indietro le lancette dell'orologio come racconta Lewis Carroll in Sylvie e Bruno, né possiamo invertire la freccia del tempo come hanno immaginato Martin Amis e Philip Dick. Vivere La vita all'incontrario, ringiovanendo fino a scomparire con un orgasmo nel ventre materno, è il surreale esperimento del pensiero cantato da Simone Cristicchi.
Ma il tempo psicologico, come si fa a domarlo? Gli psicologi hanno dimostrato che la paura e l'infelicità lo frenano, ma lo scambio non è allettante. Forse un tempo lento è meno desiderabile di quel che pensiamo, sostiene Claudia Hammond. Probabilmente è meglio accontentarsi di allungarlo in retrospettiva, vivendo in modo più intenso e più vario per accumulare ricordi come in una perenne villeggiatura. Oppure no, mettiamoci in poltrona e rilassiamoci. Non ne serberemo memoria, ma forse è anche di tempo perso che abbiamo bisogno.

Corriere 30.3.13
La pillola che «ripulisce» i nostri ricordi dal dolore
Il professor Birmes: «La memoria resta, ma chi rivive una scena di terrore soffre meno»
di Stefano Montefiori


PARIGI — Non fa sparire il dolore di un amore infelice, è molto lontano dall'«incantesimo di memoria» di Harry Potter, dalla pillola blu di Matrix e pure dal neuralyzer di Men in Black, ma funziona. Da oltre un decennio il propranolol viene periodicamente tirato in ballo — esagerando — come «la pillola che cancella i cattivi ricordi», perché è troppo affascinante anche solo immaginare una vita sanata dalla sofferenza psichica. Ma se sarà inutile prendere il propranolol per dimenticare la sconfitta nel derby, è ormai provato che questo farmaco betabloccante di solito usato nella terapia delle aritmie cardiache riesce ad attenuare i disturbi dello stress post-traumatico.
A Tolosa lo usa con i suoi pazienti il professor Philippe Birmes, che ha a sua disposizione una casistica unica a livello internazionale: 200 tra i superstiti dell'esplosione alla fabbrica Azf di Tolosa, avvenuta nel 2001.
Appena 10 giorni dopo l'attacco all'America, alle 10 e 17 del 21 settembre, un deposito di 300 tonnellate di nitrato di ammonio esplose provocando un terremoto di magnitudine 3.4 e un boato che venne percepito fino a 80 chilometri da Tolosa. Morirono 31 persone (quasi tutti dipendenti della fabbrica) e 2.500 rimasero ferite.
Nei mesi successivi, molti cominciarono a rivivere il momento dello scoppio, con attacchi di panico, nei momenti più imprevedibili della giornata. In quegli anni, a Montréal, il professore canadese Alain Brunet somministrava sperimentalmente il propranolol ai sopravvissuti di incidenti stradali molto gravi, o a persone che erano state vittime di aggressioni.
Nel 2007 Brunet presentò i risultati delle sue ricerche al collega di Tolosa, che decise di proporre il propranolol anche ai suoi pazienti. «Molti di loro potevano cadere in uno stato di terrore da un momento all'altro: agorafobia, sudori freddi, tachicardia, una sofferenza enorme», dice Birmes. Otto accettarono la cura con il propranolol. Oggi le loro condizioni, e quelle di altri 35 pazienti assistiti per problemi analoghi a Montréal e Boston, sono molto migliorate. I disturbi del sonno e i flashback sono finiti.
Il paziente prende la pillola (a poco prezzo perché ormai è un farmaco generico) e circa un'ora e mezzo dopo viene aiutato a riattivare il ricordo dell'evento traumatico. Sei sedute bastano per rompere l'associazione tra memoria e sofferenza: l'evento non viene cancellato, viene soltanto rivissuto in modo meno vivido, meno doloroso. Quell'esperienza di vita c'è ancora, solo che fa stare molto meno male.
È una battaglia cominciata negli anni Settanta affrontando il ritorno a casa dei reduci del Vietnam, e continuata tra molti dubbi anche filosofici. Nel 2003 la commissione di bioetica del presidente americano George W. Bush condannò le ricerche sull'«oblio terapeutico»: «Tutti noi siamo in grado di pensare a eventi traumatici nelle nostre vite, che furono orribili quando li abbiamo vissuti — disse Rebecca S. Dresser, una dei membri — ma che alla fine ci hanno resi quello che siamo».
Fa paura pensare alle poche paginette aride che avrebbe scritto un Marcel Proust sotto propranolol, e ancora di più immaginare che ne sarebbe di quel che resta dell'umanità se bastasse una pillola per cancellare il ricordo del male fatto agli altri, cioè il rimorso. Il filosofo francese Paul Ricœur, che oggi avrebbe cento anni, sosteneva che il «dovere di memoria» è il modo di rendere giustizia agli altri, e insieme la possibilità di riparare agli errori commessi diventando persone migliori.
Tutto messo a rischio dal propranolol? In fondo gli uomini hanno sempre cercato di dimenticare, il farmaco anti-stress traumatico è forse semplicemente uno strumento più efficace dell'alcol. Il professor Birmes ne è convinto: «I ricordi restano, come la distinzione tra bene e male. Ma chi rivive con terrore sempre la stessa scena, ora può soffrire di meno».

Repubblica 30.3.13
Il silenzio dell’anima
Parla il grande studioso di Meister Eckhart e Simone Weil “Il dogma è nemico della conoscenza”
“Chi si rivolge all’assoluto senza mediazione è oggetto di censura e condanna da parte della Chiesa”
Marco Vannini: Perché l’Occidente ha dimenticato i suoi mistici
di Antonio Gnoli


Le poche nozioni che so intorno al misticismo le appresi da Padre Pozzi che incontrai a Lugano alcuni anni fa e mi spiegò in che cosa consisteva la libertà di certe Sante. E le ricavai anche dalle poche volte che vidi Raimon Panikkar che se avesse voluto avrebbe portato nelle piazze più gente di Beppe Grillo. Era commovente sentirli parlare. E mi chiedevo se le parole che pronunciavano li obbligava a una coerenza, a una prassi, a un comportamento in linea con le loro riflessioni. Si può studiare la mistica senza esserne in qualche modo coinvolti, colpiti, iniziati? Simone Weil fu la testimonianza che la mistica non è conoscenza, ma sapienza e che ogni cosa che pensi attorno ad essa è come se la pensassi su di te. È la parola che si fa carne.
Sono alcuni anni che seguo il lavoro di Marco Vannini. I suoi studi sono interamente dedicati alla mistica: alla sua storia, alle differenze che nel suo seno sono intervenute, ai fraintendimenti che l’hanno segnata. L’anno scorso uscirono per Bompiani i Commenti all’Antico Testamento di Meister Eckhart che Vannini ha curato con mirabile competenza. Mentre è di questi giorni Lessico mistico (edito da Le Lettere), una bella, chiara e convincente ricognizione tra le parole che ci servono per accostarci a questo oggetto misterioso che a volte identifichiamo con la religione.
Si può comprendere la mistica senza esserne coinvolti?
«Ciò che chiamo mistica non è come scegliere un settore di ricerca intellettuale. Ma il terreno ove cercare la risposta alla domanda: come conoscere l’anima e Dio. Non credo, perciò, che si possa essere “studiosi di mistica” senza una profonda esigenza religiosa. A volte occorrono anni, a volte un attimo solo, per ottenere quella evangelica rinuncia a se stessi, senza la quale le pagine dei grandi mistici restano un libro chiuso».
A proposito di grandi mistici è centrale, nella sua formazione, Meister Eckhart. È singolare che al suo pensiero si interessarono più che i teologi alcuni grandi filosofi.
«Fu Hegel a vedere nel pensiero di quel maestro medievale il proprio pensiero. Non capiremmo nulla della sua dialettica senza la riflessione di quel grande mistico. D’altra parte, Heidegger confessò alla fine della sua vita, che il pensiero di Eckhart lo aveva occupato a lungo. Se prendiamo la filosofia nel suo senso forte, originario, greco — che non è quello di una professione intellettuale, ma di una scelta di vita — allora è possibile accostarla alla mistica».
A chi pensa?
«Anzitutto a Platone e al platonismo che rappresentano il “luogo mistico” per eccellenza. Ma poi, in ogni vero filosofo si scopre il riferimento a quella dimensione del profondo dell’anima in cui il mistico abita. E penso a Wittgenstein, cui infatti dedicai la mia tesi di laurea. La mistica è il terreno della riservatezza, del silenzio, e non ha nulla in comune con quel parlare invano che è la teologia. Purtroppo la mistica in Occidente è stata prevalentemente tenuta sotto il controllo della istituzione ecclesiastica. Il mistico che si rivolge all’assoluto senza mediazione alcuna è stato spesso oggetto di censura e di condanna da parte della Chiesa».
La mistica in occidente è stata soprattutto un affare interno allo scontro teologico, mentre in Oriente ha puntato all’affinamento delle tecniche del pensiero. La convince questa distinzione?
«L’Oriente, ovvero essenzialmente l’India, privo del controllo dogmatico, ha sviluppato una ricerca per certi aspetti più libera. Ma l’utilizzo di una serie di tecniche per la meditazione ha rappresentato un limite».
In che senso?
«Dove c’è un primato della tecnica lì c’è uno scopo, un “perché” e dove c’è un perché la libertà dell’intelligenza è finita. Cifra essenziale del mistico è infatti essere “senza perché”, come Dio, e come la “rosa” dei celebri versi di Silesius, su cui ha riflettuto anche Heidegger. Da ciò anche la delusione che spesso esperimentano quegli occidentali che, non trovando nel cristianesimo soddisfazione alle loro esigenze di verità e profondità, si sono rivolti all’Oriente. In realtà l’Occidente custodisce tesori di intelligenza spirituale, solo che sono stati spesso ricoperti dall’incomprensione e dal dogmatismo del potere».
Contro questa incomprensione reagirono nel Novecento due figure come Simone Weil e Etty Hillesum. Perché in loro fu fondamentale la relazione con il mistico?
«Per l’esigenza di verità che le animò e per l’onestà della loro ricerca che fu prima di tutto onestà di vita. Il loro esser donne le aiutò e, non a caso, la storia della mistica è costellata di figure straordinarie di donne, dal momento che amore, abnegazione, distacco sono (almeno così si diceva) caratteristiche tipicamente femminili».
Che cos’hanno in più queste tre parole?
«Sono tutte e tre contenute nei testi che possiamo prendere a fondamento: il
Convito di Platone e il Vangelo — ultima espressione del genio greco scrisse la Weil — , esprimono con sfumature diverse la stessa realtà. Aggiungerei una quarta parola che è beatitudine. Perché l’esito della vita mistica non è né il piacere né la felicità, che dipendono dalle circostanze, ma la beatitudine appunto».
Non è un traguardo per pochi?
«Per tutti coloro che sanno affrontare il cammino. Un cammino verso le beatitudini evangeliche ma anche verso quella beatitudine con cui, insieme alla salvezza, Spinoza conclude la sua Etica».
Parole come “beatitudine”, “salvezza” non promettono la realizzazione dell’irrealizzabile?
«Se teniamo presente il legame indissolubile tra beatitudine e salvezza, ci appare fuorviante ogni utilizzazione del termine mistica al di fuori del campo suo proprio, che è quello spirituale. La politica e perfino il mondo del web oggi sono stati in certi casi attraversati dalla mistica. Ma io direi di mantenere il significato delle parole nell’ambito rigorosamente loro proprio, per evitare la confusione del linguaggio, che è poi la confusione del pensiero».
Viviamo una crisi materiale e spirituale senza precedenti. La gente chiede giustizia e non solo diritto. La mistica ha ben presente la distinzione. Ma la giustizia che invoca la mistica non rischia di essere l’irrealizzabile utopia del cuore? In altre parole non ritiene che il limite della mistica sia di essere fuori dalla storia?
«È stata Simone Weil a ricordarci che giustizia e diritto non sono parenti stretti, giacché il diritto si fonda sulla forza. E quanto al praticare la giustizia non ritengo sia un’utopia ma, come insegna Eckhart, un modo di essere nella verità. Senza pretendere affatto di instaurare regni di Dio su questa terra, il mistico sta dunque nel mondo ed opera in esso».
Ammetterà che ci sono esempi nella storia di personaggi che nel nome della purezza e della verità della giustizia hanno compiuto orrori e misfatti. Non vede il rischio?
«Sarei uno sciocco se non lo vedessi. Ma, appunto, “essere la giustizia” non significa arrogarsi un arbitrario ruolo di legislatore, né parlare in nome di un qualche presunto Dio. Significa invece spogliarsi della propria egoità. La giustizia legata al proprio Io scatena le paranoie peggiori e crea i mostri teologici che la storia ha conosciuto: Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot».
È molto difficile spogliarsi del proprio Io. E quando ciò avvenisse non si è automaticamente fuori dalla storia?
«È difficile, certo, liberarsene. Ma tutt’altro che impossibile. E poi nella storia ci si sta comunque. Francesco d’Assisi, per fare un esempio che è tornato alla nostra attenzione, non è stato nella storia? Non continua ad esserci? I grandi mistici sono stati anche uomini e donne di azione. Dove cerchi Etty Hillesum se non nella tragedia storica di Auschwitz? La contemplazione non nega l’azione. E il vero mistico è colui che rischia più di tutti».

Lessico mistico di Marco Vannini Le Lettere pagg. 259, euro 20



l’Unità 30.3.13
Battiato una natura ineludibile da ribelle
di Marco Rovelli


VORREI TORNARE SULLA VICENDA DI FRANCO BATTIATO, SU CUI HO SCRITTO QUALCHE STATUS SU FACEBOOK (DEL RESTO LA VICENDA SEMBRAVA FATTA APPOSTA PER UN SOCIAL NETWORK). Io trovo totalmente fuori fuoco la crocifissione di Battiato, e tanto più il suo siluramento da parte di Crocetta. Adesso si fanno fuori le persone oneste e non i corrotti? Crocetta revoca l’incarico a Battiato, mentre quelli e quelle che votarono in Parlamento dicendo che Ruby era la nipote di Mubarak, e lo dicono ancora, se ne stanno tranquille sul proprio scranno, insieme al loro papi.
Crocetta, come molti altri, imputa a Battiato di aver offeso il Parlamento, e il suo ruolo istituzionale, utilizzando quei termini: ma Battiato non ha offeso il parlamento, piuttosto alcuni suoi indegni membri, e dire che ha offeso il parlamento è proprio un pessimo paralogismo. Così come è un pessimo paralogismo dire che ha offeso le donne, come ha affermato la Fornero (io ho l’impressione che siano state più offese dalle cose che ha fatto lei).
Quanto al ruolo non vedo perché un assessore non dovrebbe dire «troie», come se l’assessore non facesse parte del mondo e smettesse di essere un normale umano. Mascherarsi dietro un’anestesia linguistica credo che sia attutire le realtà, quelle sì, vergognose: e a volte (non di regola, ma: a volte) bucare lo schermo, profanare il sacro, è necessario per rivelare quelle verità nascoste. E la verità è che il parlamento è stato troppo a lungo un luogo di compravendita e mercimonio di anime e di dignità (laddove coloro che scelgono liberamente di vendere il proprio corpo meritano tutto il rispetto). E Battiato è un uomo libero: come lui stesso ricordava, «non ho mai marciato, né ubbidito durante il servizio militare. Questione di carattere e personalità», e per questo era finito nel carcere militare. Up patriots to arms.

Corriere 30.3.13
1935 2013 No, tu no
Jannacci, il poeta con le scarpe da tennis che faceva il medico e amava la musica
Il cantautore Enzo Jannacci è morto ieri sera alla Clinica Columbus di Milano
Aveva 77 anni ed era ammalato da tempo di cancro. Accanto a lui tutta la famiglia
di Mario Luzzatto Fegiz


Enzo Jannacci è stato il rappresentante di una cultura musicale e cabarettistica tipicamente milanese. Non solo un cantautore, ma un caposcuola, intorno al quale si sono aggregati personaggi di grande rilievo come Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Sandro Viola. Fra i migliori amici del medico-cantautore, l'avvocato cantante Paolo Conte. E poi Giorgio Gaber, per lungo tempo compagno di scena (la loro esecuzione di «Una fetta di limone» in stile Blues Brothers resta un classico), e Dario Fo che rimase subito colpito dal suo talento.
Jannacci ha firmato canzoni di rara bellezza, ironiche, struggenti. Ha cantato il mondo dei perdenti, come il «Palo della Banda dell'Ortica» o la «Vincenzina davanti alla fabbrica» o, simbolo degli emarginati a vita, il protagonista di «Vengo anch'io». Ha trasformato in eroe un cornuto strutturale come l'Armando, e in eroina del libero amore la molto disponibile Veronica (che lo faceva «al Carcano, in pé», in piedi). Faccia indefinibile, fra lo stupefatto, l'imbarazzato e l'immobile, quella parlata apparentemente stentata e nasale: per anni Jannacci oltre che cantante è stato un comico, capace di scoprire altri comici. Enzo Jannacci era nato a Milano il 3 Giugno 1935. Colpisce subito il suo lavoro serio e rigoroso su due fronti: la medicina e la musica. Si laurea e si specializza in cardiochirurgia da una parte, e dall'altra frequenta il conservatorio diplomandosi in pianoforte, armonia e direzione d'orchestra. Il successo arriva abbastanza presto, ma lui non rinuncia a fare il medico, esattamente come Vecchioni non molla l'insegnamento al liceo e Paolo Conte il mestiere di avvocato.
Di giorno in ospedale, di notte a cantare. Muove i primi passi al Santa Tecla di Milano dove si esibisce con Tony Dallara, Adriano Celentano e Giorgio Gaber. Poi al Derby le sue doti cabarettistico-musicali colpiscono Dario Fo che lo inizia al teatro. La prima canzone viene pubblicata nel 1959 e si intitola «L'ombrello di mio fratello». Poco dopo «Il cane con i capelli». Appare evidente che Jannacci sa coniugare musica e comicità. Seguono tanti altri successi come «Vengo anch'io. No, tu no», «Giovanni telegrafista», «L'Armando», «Veronica». Più avanti arriverà «Quelli che». Più che una canzone, è un «format» che può essere continuamente aggiornato. È un florilegio di comportamenti umani, a volte folli, a volte disonesti, a volte inspiegabili. «Quelli che... tanto il calcio è solo un gioco e poi quando perde il Milan picchiano i figli... Quelli che votano scheda bianca per non sporcare». Aggiornata nel corso dei decenni fa il paio con un'altra canzone, «Puli Puli», che colpisce a 360° in dialetto milanese, dai «cantautur» (che quando cànten se senti l'udùr) a «Chi di giurnàl» (chè il so' mestè l'è cunta su i bal).
Jannacci ha firmato capolavori come «El purtava I scarp del tennis», «Andava a Rogoredo», «Sfiorisci bel fiore», ma è stato anche superbo interprete di canzoni altrui come «Ma mi» di Carpi e Strehler (cavallo di battaglia anche della Vanoni), «Bartali» di Paolo Conte, «La strana famiglia» di Gaber-Alloisio. Affreschi di solitudine e malinconia sono «Giovanni telegrafista», mollato dal grande amore a colpi di punto-linea e «Mexico e nuvole». Jannacci ha composto anche numerose colonne sonore per Romanzo popolare di Monicelli, per Saxofone di (e con) Renato Pozzetto, per Pasqualino Settebellezze. Senza contare le canzoni scritte per Cochi e Renato, a cominciare dalla «Canzone Intelligente», sigla del varietà tv della domenica, «Il poeta e il contadino» e «E la vita la vita», sigla di una «Canzonissima».
In teatro non disdegnava il ruolo di autore puro, che non appare: come La tappezzeria, scritta a quattro mani con Beppe Viola che nel 1975 fu il trampolino di lancio di Massimo Boldi, Diego Abatantuono, Enzo Porcaro, Giorgio Faletti, Mauro Di Francesco.
Nel 1989 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con «Se me lo dicevi prima». Nel '91 ci riprova con «La fotografia» in coppia con la grandissima Ute Lemper e riceve il Premio della Critica. Nel '94 è ancora all'Ariston in coppia con Paolo Rossi con il brano «I soliti accordi», arrangiato da Giorgio Cocilovo e Paolo Jannacci, suo unico figlio e grande musicista.
Nel finale della sua carriera Jannacci era tornato al jazz, il suo vecchio amore. Straordinario il rapporto col figlio Paolo: ordinato, sistematico e preciso, Jannacci jr. ha contribuito a prolungare la carriera del padre che ha aiutato e sostenuto fino alla fine. Jannacci ne era consapevole e quando Gaber pubblicò «La mia generazione ha perso» commentò: «Una generazione che ha avuto figli come Dalia (figlia di Gaber, ndr) e Paolo, non può dire di aver perso».


il Fatto 30.3.13
L’Unità ieri e oggi, vuoti di memoria


L’insuccesso gli ha dato alla testa, viene da dire leggendo le ultime righe di un comunicato della Nie, società editrice dell’Unità, pubblicato nella pagina dedicata alla polemica con Beppe Grillo sui conti in rosso del giornale fondato da Antonio Gramsci. Che il quotidiano sia in crisi lo dicono non solo i numeri, ma anche giornalisti e poligrafici, giustamente preoccupati per il futuro dell’azienda. Notizie riprese anche da ilfattoquotidiano.it   e che la Nie così commenta: “Vale la pena ricordare che 2007 e 2008 sono stati gli anni in cui la Nie ha subito le perdite maggiori della sua storia. In quegli anni, il direttore responsabile era Antonio Padellaro, attuale direttore de il Fatto Quotidiano”. Evidentemente lo stato di prostrazione in cui versano gli attuali consiglieri della Nie comporta anche gravi disturbi di memoria, che provvediamo quindi, brevemente, a rinfrescare. Nel 2008, l’Unità vendeva quasi il doppio delle copie che vende ora. Prima del 2008, c’è stato il 2001 quando grazie alla direzione di Furio Colombo e a una cordata di imprenditori coraggiosi l’Unità viene risollevata da una voragine di debiti targati Ds e riportata nelle edicole con innegabile successo presso i lettori. Invece, dopo il 2008 ci sono soltanto l’Unità con la minigonna (poi ritornata a un formato meno stravagante), le vendite a picco e lo stato di crisi.