domenica 31 marzo 2013

il Fatto 31.3.13
Napolitano, l’idea geniale
Il governo non serva più

di Antonio Padellaro

Altro che dimissioni. Il capo dello Stato resta fino al 15 maggio, resuscita l’esecutivo Monti e regala al suo successore due commissioni per spianare la strada all’accordo Pd-Pdl. Una soluzione mai vista. Tutti contenti (compreso M5S). Ma l’Italia con i suoi giganteschi problemi resta senza guida.
Nella repubblica specialista in tavoli, tavolini, comitati e commissioni perditempo era inevitabile che, a conclusione del più inutile giro di consultazioni che si ricordi, il capo dello Stato invece dell’incarico di governo abbia deciso di creare due bei gruppi di lavoro e di assegnare dieci incarichi ad altrettanti supposti esperti. Essi dovrebbero partorire, in un paio di settimane, quelle presunte riforme economiche e istituzionali con cui da un ventennio la peggiore classe politica dell’orbe terracqueo prende in giro gli italiani.
Intendiamoci, Giorgio Napolitano va capito: giunto all’epilogo del settennato, si ritrova a gestire una crisi politica ingestibile cosicché, stufo di perdere tempo con partiti che già pensano alle prossime elezioni e usano i microfoni del Quirinale per farsi propaganda, ha pensato di mollare la patata bollente al suo successore. C’era solo il problema di arrivare al 15 maggio. Prima ha fatto sapere che se ne sarebbe potuto andare in anticipo: niente di scandaloso trattandosi di poche settimane, ma abbastanza per gettare nel panico bipartisan quei politici che senza più la copertura di Re Giorgio, per circolare dovrebbero munirsi di giubbotto antiproiettile. Ed ecco i dieci “saggi”, parola che induce al sorriso, trattandosi (salvo un paio di nomi) perlopiù di vecchie cariatidi o di politicanti in disarmo. Spartiti secondo il più rigoroso manuale Cencelli, sembrano fatti apposta per preparare il terreno all’inciucione Pd-Pdl, che l’attuale inquilino del Colle considera come una sorta di premio alla carriera.
Subito da tutte le televisioni si sono levate grida di giubilo da parte di giornalisti convocati all’uopo: uno ha detto addirittura che quella di Napolitano era “una mossa da fuoriclasse”. Negli osanna si sono naturalmente distinti i leader di cui sopra: adesso, mentre i saggi saggiano, potranno dedicarsi serenamente alla campagna elettorale. Crisi e disoccupazione possono attendere. Una frase di circostanza giunta dal M5S ha fatto andare in un brodo di giuggiole qualche novello esperto: un caso psichiatrico, direbbe Grillo, visto che il movimento ha come scopo dichiarato la distruzione completa dell’attuale sistema dei partiti. Dopo la pausa pasquale vedremo come la supercazzola sarà accolta dai mercati, mentre già in Europa si stenta a credere che con i suoi giganteschi problemi l’Italia continui ad affidarsi al governo Monti, sfiduciato in tutti i sensi. Attenzione, gli italiani sono pazienti, ma se si arrabbiano sono guai.

il Fatto 31.3.13
il costituzionalista Stefano Ceccanti
“Mai visto prima, è l’anomalia italiana”
di Caterina Perniconi


Il governo Monti, sfiduciato, resta al suo posto. Dieci “saggi” dovranno ipotizzare delle riforme realizzabili da un governo del presidente, che Giorgio Napolitano si riserva di nominare più avanti. Uno scenario inimmaginabile fino a ieri “e di cui non ci sono precedenti nella storia della Repubblica”, come spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti.
Ceccanti, quello che è successo è previsto dalla Costituzione?
Sulla base dell’articolo 92, in presenza di una situazione confusa come quella che si è creata dopo la mancanza dei vincoli richiesti al premier preincaricato, il Capo dello Stato è dominus assoluto per la formazione del governo.
Come pensa di fare?
Prova con una “coalizione assistita”. I saggi servono come base a un futuro governo del presidente. Una sorta di preincarico collettivo.
Di cui lui potrebbe essere il presidente una volta terminato il mandato?
Non mi pare che l’obiettivo realistico sia quello di far nascere un governo subito, ma quello di sminare la situazione per consentirlo eventualmente al futuro presidente, visti il profilo dei nomi e lo stato dei rapporti politici.
Missione possibile?
Non si è mai visto un periodo di stallo così lungo, siamo in presenza di una crisi dei partiti senza precedenti. Non è nemmeno paragonabile alla situazione che si creò tra il governo Amato e quello Ciampi, quando al Quirinale c’era Scalfaro. Lì i partiti erano più strutturati, ora molto più sfasciati.
L’Europa come reagirà?
L’Europa è piena di grandi coalizioni, dalla Germania all’Olanda. La differenza è che lì i partiti si mettono a un tavolo e si accordano, che poi era quello che Napolitano auspicava succedesse anche da noi. Ma la nostra è un’anomalia perché i partiti sono troppo distanti e troppo deboli. Quindi deve provare a farlo il Capo dello Stato.
Ha accettato la teoria di Grillo, quella di lasciare il governo sfiduciato e far lavorare il Parlamento?
No, credo che un governo nascerà.
E che fine fa il premier pre-incaricato, alias Pier Luigi Bersani?
Il bilancio sulle consultazioni fatto da Napolitano significa che anche il preincarico è da considerarsi esaurito. Se anche risbucasse come incaricato, sarebbe un nuovo incarico, non legato all’esplorazione precedente.
Dei “saggi” che ne pensa?
I nomi sono decisamente spostati su un asse Pd-Pdl. Mi sembra difficile che possano avvicinare più di tanto le posizioni dei partiti di riferimento.
Secondo lei ce la faranno?
Pd e Pdl possono anche prendersi il rischio di appoggiare il governo del presidente, purché producano innovazioni forti, come il combinato disposto semipresidenzialismo doppio turno, perché le riforme forti possono sgonfiare l’elettorato di Grillo. Ma se le innovazioni fossero deboli sarebbe un enorme boomerang. L’unica cosa che mi sembra chiara è che non andremo a votare in piena estate dato che qualcosa sarà tentato in maggio dal nuovo presidente.

il Fatto 31.3.13
L’oligarchia alla corte di Re Giorgio Sapore di inciucio
Con Violante e Quagliariello il Colle sforna l’operazione Pd-Pdl che Bersani non voleva
di Fabrizio d’Esposito


Il loro biglietto di presentazione potrebbe essere questo: “Ci chiamiamo Violante e Quagliariello e non risolviamo problemi”. Pulp Fiction da inciucio del Sabato Santo. Luciano Violante, dalemiano di strettissima osservanza del Pd, e Gaetano Quagliariello, berlusconiano poi montiano del Pdl di nuovo berlusconiano, sono due dei quattro saggi politici indicati da Giorgio Napolitano. Dal gennaio del 2012 la coppia Violante&Quagliariello si è vista o sentita tutti i giorni per ben sette mesi, quando la strana maggioranza del Monti, ABC (Alfa-no, Bersani, Casini), non aveva più timore di mostrarsi in pubblico. Dal Colle era arrivato, in quell’inverno di Palazzo ormai lontano, e allora ancora ignaro del boom pentastellato, un appello a fare la legge elettorale per sostituire l’orrido porcellum.
Luciano, Gaetano e il sistema tedesco-spagnolo
“CiaoLuciano”, “CiaoGaetano”. I due esponenti, da convinti assertori di un eterno inciucio istituzionale da Paese normale, misero a punto un sistema misto tedesco-spagnolo, un po’ proporzionale un po’ maggioritario, che non faceva stravincere i grandi partiti ma nemmeno perdere i piccoli. In primavera, però, il Movimento 5 Stelle fece il pieno alle amministrative e il sistema teutonico-ispanico andò in soffitta insieme con Violante e Quagliariello. I due, infatti, lasciarono il posto ad altri due sherpa, il bersaniano Maurizio Migliavacca e il berlusconiano plurindagato Denis Verdini, che per tre mesi studiarono invano un sistema per imbrigliare i grillini. Il resto è storia notissima. A febbraio abbiamo votato con il porcellum e il risultato elettorale ha prodotto il caos dell’ingovernabilità al Senato. Così per tentare di venire a capo di questo pantano pasquale, il Colle si è inventato due comitati di saggi e per la parte politica ha riportato in auge la coppia del sistema mancato tedesco-spagnolo. Alla base di tutto un comandamento non esplicitato ma presente nel realismo del Quirinale: non toccare Silvio Berlusconi. I nomi indicati dovrebbero dare questa garanzia. A partire proprio da Violante.Già presidente della Camera, oggi responsabile del Pd per le riforme, l’esperto dalemiano rivelò in aula a Montecitorio che all’inizio della Seconda Repubblica, il Pds rassicurò il Cavaliere e il suo fedele GianniLetta, altro sostenitore dell’inciucio perenne, che le tv di Mediaset non sarebbero state toccate. Per gli anni seguenti, poi, Violante ha sempre sostenuto in ogni modo possibile la necessità di riconoscere e legittimare Berlusconi per fare le riforme bipartisan. Maquesto lavorìo incessante non ha mai sopito tutti i sospetti del Pdl su di lui, individuato come il primo capo del “partito giustizialista”. Violante ha cercato di smentire questa nomea con l’obiettivo di diventare giudice costituzionale ma alla fine non ce l’ha fatta.
In ogni caso la sua patente di inciucista è confermata anche da un’uscita clamorosa di cinque mesi fa: fare un nuovo arco costituzionale in Parlamento lasciando fuori Di Pietro (allora non c’era ancora Rivoluzione Civile) e grillini. Anche in quell’occasione, Quagliariello si mostrò d’accordo con lui. Radicale da giovane, il saggio del Pdl è diventato teocon nella maturità politica, al punto da gridare“assassini”nelgiornodella morte di Eluano Englaro. Il suo pigmalione è stato l’ex presidente del Senato Marcello Pera. Quagliariello fu il suo principale consigliere, mettendo su anche un dotto pensatoio di giuristi, storici ed economisti: Magna Carta, di cui fa parte anche Giovanni Pitruzzella, uno dei cinque saggi scelti da Napolitano per l’economia. Dopo la rottura con Pera, Quagliariello ha scalato le posizioni di vertice del Pdl, arrivando a fare il vicecapogruppo vicario di Maurizio Gasparri al Senato nella scorsa legislatura. La sua rete di rapporti è trasversale (ha scritto sul Riformista di Antonio Polito) e nella fase concitata della salita in politica del premier Mario Monti è stato fortemente tentato dai centristi. Ironia della sorte, in quei giorni tumultuosi del centrodestra, si è visto e sentito 24 ore su 24 con un altro saggio del Colle: il ciellino Mario Mauro. Era tutto pronto per un esodo di massa dal Pdl a Scelta Civica ma alla fine Quagliariello, pur convinto dell’esaurimento della spinta propulsiva del berlusconimo, è rimasto dov’era. Un impegno premiato adesso dal Quirinale.
Campioni del “dialogo” tra destra e sinistra
Gli altri due saggi del comitato politico dell’inciucio sono Mauro, appunto, e il costituzionalista Valerio Onida, che piace molto a Sel. Il primo è stato capogruppo del Pdl a Strasburgo e dentro Cl ha portato avanti per anni la dinamica del dialogo bipartisan, incarnata dalla commissione interparlamentare presieduta da Enrico Letta, vice di Bersani. Il destino di Onida, invece, nelle ultime settimane ha avuto un sapore surreale. Il suo nome era circolato con insistenza a proposito del cosidetto piano B del segretario del Pd: ossia un governo guidato da un premier gradito al M5S. Ma lo stesso Onida ha sparigliato i giochi in un’intervista al Giornale, avvertendo che B. non può essere dichiarato ineleggibile.
Tra i sei saggi per l’economia c’è chi invece può davvero affascinare i pentastellati: l’uomo Istat Enrico Giovannini, incapace di tagliare i costi della politica per conto del governo tecnico. In tempi più recenti, Giovannini ha inventato un indice che ha fatto breccia nel mondo grillino: il Bes, che indica il benessere equo sostenibile. Derubricati a nomi istituzionali quelli del leghista Giancarlo Giorgetti e del dalemiano Filippo Bubbico, presidenti di commissioni speciali del Parlamento, tra i saggi dell’economia spiccano Giovanni Pitruzzella, avvocato di fiducia di Renato Schifani, specialista di consulenze e oggi presidente dell’Antitrust. Un’altra garanzia per l’intoccabilità di B. Salvatore Rossi, invece, è il numero tre di Bankitalia. Non potendo fare ricorso né a Visco né a Saccomanni, l’istituto che ha la stella polare in Mario Draghi ha fornito un uomo dell’economia reale vicino al centrosinistra. Quanto a Enzo Moavero Milanesi, ministro in carica, il suo nome è la conferma che il governo di Mario Monti è risorto

il Fatto 31.3.13
Tecnici forever
Il programma del Monti bis
di Stefano Feltri


Fabrizio Barca non ha mai iniziato a fare gli scatoloni, “resteremo fino a luglio”, diceva nelle scorse settimane il ministro per la Coesione, con singolare preveggenza. Il governo Monti (o meglio, Monti bis) comincia una seconda vita, post mortem: resterà almeno fino a maggio, più probabilmente luglio, chissà, magari ottobre. E deve lavorare in un contesto completamente diverso, privo di ogni legittimità politica dal basso ma con la missione, ribadita dal Quirinale, di assicurare anche verso l’estero la credibilità dell’Italia.
Mario Monti tornerà a fare il premier di garanzia, ormai molto distaccato dal suo ruolo di capo partito di Scelta Civica. Assieme al ministro per gli Affari europei Enzo Moavero (uno dei dieci saggi scelti da Giorgio Napolitano) dovrà gestire una nuova missione europea delicata: tra aprile e maggio devono definire con la Commissione europea il quadro di finanza pubblica e riforme cui l’Italia si vincola per il 2014. Una partita complessa in cui è coinvolto anche Vittorio Grilli, il ministro delle Finanze (che dopo le polemiche sul suo mutuo e sulle presunti favori alla ex moglie ha tenuto un profilo bassissimo) perché il nodo cruciale è quello dei pagamenti di 40 miliardi di debiti dello Stato verso le imprese fornitrici della Pubblica amministrazione. A questo punto toccherà a Monti e Grilli fare un decreto e alla Commissione speciale, una sorta di eredità delle precedenti commissioni Bilancio, esaminarla di raccordo col governo, prima della conversione in aula. La Commissione speciale della Camera presieduta dal leghista Giancarlo Giorgietti e quella del Senato guidata da Filippo Bibbico del Pd sono gli unici organismi parlamentari davvero funzionante: in attesa che nascano le altre commissioni (legate ai destini del nuovo governo), possono fare tutto. Questa settimana la Commissione speciale della Camera dovrà occuparsi di esodati, per esaminare un decreto attuativo del ministero del Lavoro che amplia la copertura ad altre 10 mila persone, poi passerà alla Tares, la tassa sui rifiuti, che riguarda invece il ministero del Tesoro. La Commissione potrà anche indicare priorità e sollecitare il governo a legiferare, quasi si trattasse di una legittimazione selettiva. Alcuni ministeri, tipo quello del Lavoro guidato da Elsa Fornero, non avevano riforme in cantiere. Ma se il nuovo Parlamento chiede, possono sempre attivarsi. Altri, come il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, aspettano di capire quali margini ci sono e poi sono pronti a tornare al lavoro come se nulla fosse (“In queste settimane abbiamo lavorato sempre a tempo pieno”, ripete sempre il ministro).
Quello che ha il compito più difficile è forse lo stesso Monti: non può liberarsi dello strascico indiano della vicenda dei due marò appena riconsegnati. E come ministro degli Esteri ad interim ha una seconda chance per ricostruire la credibilità distrutta dalla linea ondivaga e dalle dimissioni a sorpresa di Giulio Terzi.

il Fatto 31.3.13
Il Pd umiliato litiga già sul nuovo Capo dello stato
Bersani ieri aspettava ancora una telefonata di Napolitano, ma la sua linea è fallita
Molti pronti a saltare sul carro del Presidente
di Wanda Marra


Pier Luigi Bersani ieri pomeriggio ancora aspettava una telefonata definitiva di Napolitano che gli comunicasse ufficialmente come interpretare la sua posizione. Prima pre - incaricato, poi congelato. Poi forse dimissionato in diretta tv. Oppure congelato fino all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E poi chissà, come ieri almanaccava qualche bersaniano. Il segretario democratico era partito per Piacenza perché Napolitano gliel'aveva detto, che non se ne faceva nulla. Quanto meno nell'immediato. E lui Pier Luigi era ancora appeso a un filo. Un filo che immediatamente dopo le comunicazioni mattutine del Colle alcuni vicinissimi interpretavano come l'approdo delle due commissioni descritte da Napolitano. Ovvero, Bersani sarebbe stato il premier da incaricare "dopo". Tant'è vero che lui, passate un paio d'ore rilasciava una dichiarazione gelida: "Siamo pronti ad accompagnare il percorso indicato dal Presidente. Governo di cambiamento e convenzione per le riforme restano l' asse”. Come dire: ribadisco il mio progetto. Certo, quando escono i nomi sostenere una cosa del genere sembra sempre più arduo. E non è un caso che non ci sia nessuna convocazione per la direzione che molti si aspettano la prossima settimana: in questa fase, fallita la linea di Bersani, potrebbe succedere di tutto.
Il Pd cammina in ordine sparso. Con Bersani è rimasto il "tortellino magico", i fedelissimi, che fino all'ultimo l'hanno consigliato di rimanere sulle sue posizioni. Ma anche moltissimi dirigenti locali, con i quali il segretario si è blindato. Sarà guerra, con tutti gli altri.
I NOMI fatti da Napolitano sono una doccia fredda anche per chi - come i renziani - il governo del Presidente lo voleva dall'inizio. "Un pasticcio", lo definiscono uomini vicini al sindaco di Firenze. L'interpretazione è che si aspetteranno altre due settimane, e sarà il nuovo Presidente a dare l'incarico. Il tema del Colle torna. Per loro, il preludio non è certo a un governo del cambiamento, ma col Pdl che farà due o tre cose e poi andrà al voto a ottobre. Come diceva Matteo Richetti venerdì "è finita la questione o Bersani o elezioni". Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, ieri si limitava a commentare: "Le decisioni del Capo dello Stato possono essere le condizioni che ci aiutano a uscire dall'empasse. Speriamo facciano presto". I malumori dei renziani aumentano: hanno sbagliato completamente strategia a rincorrere Grillo fino all'umiliazione, dicono. E tra l'altro, Bersani se voleva davvero farlo doveva mettersi subito da parte. Dunque, è solo questione di tempo e toccherà a Renzi. E il partito alla fine, dicono, lo accoglierà come il salvatore: perché lui corre per la premiership e del Pd non gli importa nulla. Per cui va benissimo che sia guidato da una figura più a sinistra, come Fabrizio Barca. Il congresso sarebbe a ottobre, difficile pensare che ci si arrivi.
Sul fallimento della linea politica di Bersani sono d'accordo anche gli uomini di area Dem, quelli di Franceschini. Spiega Antonello Giacomelli: "Quando la politica legittima lo stallo perpetua una nuova fase di commissariamento". Su Twitter era stato un po' più deciso: "Larghe intese per via istituzionale... Vorrei chiedere a chi le ha impedite per via politica se è soddisfatto". Adesso si dovrà fare in modo di eleggere il nuovo Presidente della repubblica, non come si è fatto col governo, spiegano. Il riferimento non è casuale. Infatti, il centrosinistra ha quasi i numeri per scegliere da solo il nuovo inquilino del Quirinale (501 grandi elettori dei 504 necessari). Dovrà aprire un dialogo esplicito con altre forze o no? Non si è ancora consumato lo scontro sul "piano b" di Napolitano, e già se ne apre un altro. Sì perché a questo punto i Democratici sanno che sarà lui a determinare con le sue scelte anche la loro sorte. Il Pd reggerà? “La parole di Napolitano - scrive Salvatore Margiotta, sempre su Twitter, anch’egli franceschiniano - aprono oggettivamente una nuova fase. Il Pd deve saperla interpretare. Se possibile unitariamente. Altrimenti, meglio chiarezza”. Se Verini e Gentiloni plaudono a Napolitano, alle larghe intese, alle urne scongiurate, i Giovani Turchi provano a leggerla in un altro modo. "Abbiamo impedito governissimi e annessi. Il Presidente ha indicato una strada condivisa da tutti, anche dall'M5S. E questo è un bene. Ascolteremo i suggerimenti di questi saggi ma naturalmente il Parlamento è sovrano". Parola di Matteo Orfini. Oggi è Pasqua, ma la Resurrezione sembra lontana.

il Fatto 31.3.13
La rincorsa pop di Renzi parte da Amici a Mediaset
Il sindaco di Firenze raccoglie applausi tra i ragazzi di Maria De Filippi.Per sedurre spettatori (ed elettori) di B.
Arriva vestito come Fonzie di Happy Days, giacchetta di pelle e pantaloni a sigaretta, la conduttrice lo introduce citando il papa
Poi si paragona a Brunelleschi che “Ha avuto il coraggio di crederci”
di Malcom Pagani


Oltre le palme finte del Dubai Bar, il carcere di Rebibbia, i molti Fuenti di periferia e le decadenti archeologie industriali della via Tiburtina, c’è l’apostolo Matteo Renzi. Predica sotto la volta di Maria De Filippi. Arrota la cadenza Arno doc. Abita senza percepibili imbarazzi gli abiti indigeni e i gigli identitari dello stilista fiorentino Ermanno Scervino. Indossa il cappuccio delle buone intenzioni.
SNOCCIOLA il rosario del nulla con commovente predisposizione d’animo, maltratta la lingua di Dante e non pago, dispensa indulgenze e patenti di felicità: “Quando è uscita la notizia che c’era un politico che andava ad Amici m’hanno guardato: ‘aaah questi politici’. I politici meno felici hanno detto: ‘ma come si fa ad andare a un talent show? ’”. Breve pausa: “Perdonateli se fanno polemiche sul talent show, ma non perdonate quei politici che vogliono cancellare il talento”. L’applauso (scala Mercalli in allarme) è solo la conseguenza di un’operazione ardita. Calarsi con pantaloni a sigaretta, scarpe nere traslucide e giacca di pelle in tinta mutuata da Arturo Herbert Fonzarelli, tra le adolescenti adoranti di Amici: “Pasqualeeeee, sei fichissimo”. Nell’isola dell’audience che la ragazza di Pavia che voleva diventare magistrato (contesta i giudizi frettolosi: “Non si possono liquidare i successi pensando che li guardino solo i coglioni”) domina da anni incontrastata. Negli studi Elios, tra le steadycam, il brulichio delle duemila voci che quando approvano, espongono striscioni o battono mani e piedi provocano spostamenti d’aria, Renzi è venuto a duellare in differita (si vedrà il sei aprile alle 21.00 su Canale 5) con cabala e ridicolo.
I precedenti delle intemerate in campo alieno viravano a nero. Massimo D’Alema in maniche di camicia a cucinare risotti da Bruno Vespa: “Invece di mettere la cipolla a sfriggere, io la lascio a bollire così perde il suo afrore". Le lacrime di Piero Fassino in corrispondenza d’amorosi sensi con la sua antica tata, nel 2005, sempre da Ma-ria, in C’è posta per te. Oggi Renzi, negli stessi studios in cui passarono Leone e Pasolini, nella terra di mezzo in cui venne girato il Django originale, sguaina l’arma della retorica e spara cartucce a salve.
Quando molti anni fa, in terrificante giacca marron si presentò da Mike Bongiorno a La ruota della fortuna, Renzi comprò vocali e consonanti per aggirare il presente. Allo scopo di ipotecare il futuro, invece della D di Domodossola chiesta con qualche timidezza al grande Mike, da Maria il giovane Matteo sventola la P di paravento.
DE FILIPPI lo introduce ieratica, vagamente mistica e pronuncia la parola speranza almeno sei volte: “Non so chi a casa sia credente o creda ancora nella Chiesa, ma avrete ascoltato e condiviso le parole del Papa. Ha detto ai giovani: ‘non fatevi rubare la speranza’… è facile dirlo a parole, ma quando non c’è più niente anche le parole contano. Dobbiamo provare a ricostruire un filo di speranza, la speranza ha una profondità e una creatività, ecco una di quelle persone che ancora crede che ci sia un filo di speranza da cui poter ricominciare, Matteo Renzi”. Boato. Con le note di Try di Pink: “Ti sei mai chiesta come mai tutto si sia rivelato una menzogna? ” Matteo afferra il microfono. Parla a braccio. Esplora il vuoto cosmico: “È molto bello, ma è anche difficile parlare di speranza, ha ragione Maria… è difficile essere qui soprattutto uno da parte di che fa il sindaco, da parte di uno che con quella parola brutta… che fa politica… ci aspettiamo che che voi ci diate una mano a costruire questa speranza, non è vero che va tutto male”. Non del tutto almeno. Il veltroniano “ma anche” ha fatto proseliti anche nel territorio di chi ad Arcore andava in pellegrinaggio: “Sì è vero la crisi, i problemi tutto quello che volete” – concede Matteo – “però nella vostra sfida di oggi… c’è un sentimento bello di speranza che ci si può fare (sic) ”.
SI GIRA A DESTRA e a sinistra, l’ovale paonazzo, un po’ di emozione, i soliti tranelli dell’italiano: “Noi avremo speranza di non fare come è stato fatto fino a oggi, che spesso si trovava lavoro non per il talento ma per la raccomandazione, sarà un grandissimo momento quello in cui questo paese sarà fatto da persone che vanno avanti con la forza del proprio sudore, anche battendo (sic) qualche botta”. E poi via di autobiografia: “A me è capitato di prenderle, può essere anche bello, puoi ritrovare la grinta per ripartire, non la voglio fare lunga, è il momento vostro, però fatemi dire l’ultima cosa”. Gliela fanno dire ed è già un miracolo perché al pubblico che ha bloccato la Tiburtina per Marco Mengoni, Renzi piace. Però la gente aspetta Miguel Bosè ed Emma, i bianchi e i blu, le squadre di Amici. Bisogna fare in fretta. Matteo non si fa pregare e cesella la retorica: “Ve lo dico con il cuore, io non so come questo bellissimo paese immaginerà il proprio domani, ma quando penso a Firenze, penso a un personaggio, il Brunelleschi, che tutti consideravano mezzo matto perché costruiva una cupola come non l’aveva mai fatta nessuno”. Qui, Renzi il modesto non resiste all’identificazione introducendosi nello scivoloso linguaggio che lambisce logge e cupole. Non ci fa caso nessuno.
A BEN GUARDARLO, tra un applauso e l’altro, ci si domanda come mai, fuor di metafora, non sia in gara anche lui: “Il Brunelleschi ha avuto il coraggio di insistere di crederci”. Gran finale: “Io penso che se tutti insieme riusciremo a dare la dimostrazione che coltivando un sogno uno può raggiungere un obiettivo... non so se voi potrete vincere o perdere, magari perderete la battaglia, però non perderete la faccia che è la cosa più importante”. Poi esce. Altri applausi. Il fotografo personale del neo caro leader in maglia verde non scatta più. Ha abbondante materiale per i posteri.

Repubblica 31.3.13
Un incubo di meno
di Eugenio Scalfari


I GIORNALI di ieri titolavano tutti, in prima pagina e a piene colonne, sulle dimissioni del presidente della Repubblica dal suo incarico. I più benevoli attribuivano questa ipotetica ma probabilissima decisione ad un alto senso di responsabilità: impossibile varare un governo con maggioranza precostituita; la sola strada per Napolitano era dunque quella di porre fine al suo mandato accorciando di una decina di giorni la nomina del suo successore che, avendo il potere di sciogliere le Camere, avrebbe potuto influire sull’atteggiamento dei partiti oppure per metter fine alla legislatura appena eletta e ridare la parola al popolo sovrano. Ma non mancavano i malevoli: Napolitano abbandonava il campo lasciando la patata bollente al suo successore.
Non so da dove venisse questa pseudonotizia. So soltanto (e l’ho detto la sera di venerdì rispondendo ad una domanda della Gruber nella trasmissione “Otto e mezzo”) che chi conosce il nostro Presidente e la sua storia era certo che non è uomo che si sottragga alle responsabilità anche quando comportano fatica e sofferenza.
Napolitano sa benissimo che le sue dimissioni premature rispetto alla naturale scadenza del suo settennato, avrebbero gettato i mercati in grandissima confusione, avrebbero accresciuto la rissa tra i partiti e al loro interno, avrebbe annullato la credibilità internazionale del nostro Paese già abbastanza logorata dagli insuccessi politici che hanno fortemente indebolito l’immagine di Mario Monti. Nel suo recente viaggio a Berlino, il nostro capo dello Stato aveva rassicurato la cancelliera Angela Merkel sul fatto che l’Italia non sarebbe mai rimasta senza governo.
Le sue dimissioni avrebbero aperto un buco al Quirinale per almeno un mese senza che neppure si sapesse chi sarebbe stato il suo successore. Un mese non è poca cosa, senza contare che il nuovo capo dello Stato avrebbe dovuto riaprire le consultazioni per nominare un nuovo governo e poi, forse, sciogliere le Camere e aprire una campagna elettorale: altri tre mesi (a dir poco) di ulteriore insicurezza.
È vero che questi ultimi passaggi (salvo quello dello scioglimento delle Camere che resta pur sempre deleterio) dovranno comunque esser compiuti; ma le dimissioni anticipate e il vuoto che avrebbero aperto non sarebbero certo state un buon viatico.
Per tutte queste ragioni, che mi rendono moderatamente ottimista, sono stato felice ieri quando alle ore 13.27 ho ascoltato le parole di Giorgio Napolitano confermare che avrebbe rispettato la scadenza naturale del suo mandato, avrebbe nel frattempo preso tutte le misure opportune per facilitare il compito del suo successore ed avrebbe stimolato, firmato e promulgato tutti i provvedimenti urgenti che l’economia del Paese richiede, a cominciare dal decreto sul pagamento dei debiti che la pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese fornitrici di beni e servizi.
L’ho già detto più volte, ma lo ripeto ancora oggi: sarà molto difficile — purtroppo — trovare un successore dello stesso spessore e livello di questo, che cesserà dal suo ruolo il 15 maggio prossimo.
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Un’altra strada avrebbe potuto seguire Napolitano, esclusa una volta per tutte quella delle sue dimissioni anticipate: avrebbe potuto nominare un nuovo governo senza politici di professione, un governo istituzionale che, una volta nominato, andasse in Parlamento a chiedere la fiducia e, qualora non l’avesse ottenuta, restasse comunque in carica per l’ordinaria amministrazione. Personalmente pensavo che questa sarebbe stata la via prescelta. Invece no.
Napolitano sperava di poterlo fare confidando che sia il Pd che il Pdl e forse perfino le 5Stelle facessero confluire i loro voti su un governo istituzionale che, ovviamente, non sarebbe stato il governissimo auspicato da Berlusconi.
Nel corso delle consultazionilampo seguite all’insuccesso del tentativo di Bersani, il Pd si è dichiarato disponibile a votare un governo istituzionale «di scopo» del genere di quello affidato nel 1993 da Scalfaro a Ciampi. Ma Grillo ha insultato (come sua turpiloquente abitudine) un’ipotesi di questo genere e Alfano, dopo aver ricevuto l’imbeccata dal suo padrone, ha detto che «il Pdl avrebbe appoggiato un nuovo governo purché fosse un governo politico con programma concertato dai partiti disposti a parteciparvi». Di fatto ha riproposto il governissimo che il Pd aveva già bocciato escludendolo dalle ipotesi negoziabili.
Avendo constatato che questo era l’insuperabile stallo, Napolitano ha scartato la nomina di un governo istituzionale lasciando in piedi il governo Monti. Ma c’è anche un’altra ragione, sia pure marginale: un governo istituzionale senza maggioranza e quindi degradato all’ordinaria amministrazione sarebbe stato una difficoltà aggiuntiva per il suo successore al Quirinale. Di qui la decisione di restare nel suo ruolo prolungando la permanenza di Monti a Palazzo Chigi e procedendo alla nomina di un comitato che metta in luce i punti programmatici sui quali ci sia la concordia delle forze politiche rappresentate in Parlamento, tale da facilitare il lavoro che attende il suo successore.
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Non si tratta affatto d’uno schiaffo ai partiti, che infatti saranno presenti nel suddetto comitato, di cui troverete i nomi nelle pagine del nostro giornale.
Va detto che le agenzie di stampa estere stanno già registrando la soddisfazione delle autorità europee, a cominciare da Mario Draghi che si è già complimentato con il nostro Presidente, nonché di molti nomi significativi delle forze economiche e internazionali. Insomma un boomerang di ottimismo che — si spera — sarà registrato martedì alla riapertura dei mercati. Ci sarà anche, nel comitato suddetto, il ministro Moavero per la sua competenza negli affari europei, e molte altre eccellenze del diritto e dell’economia.
Ho già detto che non si tratta affatto d’uno schiaffo ai partiti i quali però i loro problemi li hanno al proprio interno. Ed è questo che dobbiamo ora esaminare per completare il quadro. Cominciando con il Pdl.
Se lo stato maggiore fosse composto da persone responsabili, inviterebbe Berlusconi a ritirarsi dalla politica, togliendo in questo modo l’impedimento principale ad un accordo programmatico con gli altri partiti, evitando anche che il loro capo sia politicamente eliminato per via giudiziaria.
Non parlo del processo Ruby ma di quello sui diritti cinematografici di Mediaset che è già in fase di Corte d’Appello, la cui sentenza si avrà entro il prossimo maggio.
In prima istanza l’imputato è già stato condannato a quattro anni di reclusione e all’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Ove la Corte confermasse questa sentenza, il problema non si porrebbe più, per non parlare di Napoli dove la Procura, che aveva chiesto ma non ottenuto la procedura immediata, ha chiesto pochi giorni fa il rinvio a giudizio per via ordinaria. Se sarà concesso dal Gup, è un’altra tegola ancor più contundente che si prepara.
Purtroppo, il pacifico ritiro in pensione del Cavaliere non si verificherà perché lui non è il capo ma il padrone del suo partito, ed anche della Lega, ed è supportato da dieci milioni di elettori che sperano e credono ancora che Berlusconi gli regalerà un asino con le ali. Un Ippogrifo asinario. È la quinta volta che glielo promette e la colpa che gli impedisce un così meraviglioso regalo è dei magistrati e dei comunisti. Gli allocchi ci sono in tutto il mondo e non soltanto in Italia. Ma da noi purtroppo ce ne sono molti di più che altrove. Siamo fatti così e forse un po’ di alloccaggine c’è in ciascuno di noi. Pazienza.
Nel Pd la situazione è alquanto diversa ma qualche sintomo di tensione c’è anche lì, alimentato da alcuni giornali e televisioni che hanno un (incomprensibile) interesse a tenerlo vivo.
Il Pd è diviso in molte correnti. Un tempo non c’erano, adesso ci sono e comunque esiste un “apparato” numeroso ma non molto rappresentativo degli elettori che sono anche per il Pd una decina di milioni. (Prima di queste elezioni erano circa quattordici e quelli del Pdl più di sedici).
Renzi aspetta il suo momento ed ha certamente una sua capacità di richiamo.
Cambierebbe alquanto i connotati del partito, ma un cambiamento ci vuole, come no?
Su posizioni fortemente diverse c’è Fabrizio Barca, attualmente ministro della Coesione nel governo Monti. Se domandi a Fabrizio che cosa vorrebbe fare quando questo governo avrà cessato di esistere, ti risponde che gli piacerebbe occuparsi del partito, al quale non è neppure iscritto ma verso il quale sente una profonda vocazione.
Per fare che cosa? Per cambiarlo, naturalmente. Non nella linea ma nella struttura. Come Renzi? No, in tutt’altro modo. Barca non vuole essere più ministro e tantomeno aspirante alla presidenza del Consiglio.
Vuole occuparsi del partito e cambiarlo, punto e basta.
Sono in vista nuvole per Bersani? Nella fase attuale non sembra. Se ne parlerà al congresso quando scadrà da segretario. Fino ad allora il partito sembra compatto ed è bene che tale rimanga.
Il movimento montiano di Scelta civica. Di fatto è diventato quantité négligeable.
Ci sono i sopravvissuti del Udc e Montezemolo con i auoi circoli sul territorio.
Hanno preso, i montiani, 3 milioni di voti che in gran parte erano quelli dell’Udc e di Fini. La prossima volta ne prenderanno probabilmente meno salvo una eventuale implosione del Pdl che in parte (modesta) potrebbero approdare a Scelta civica.
Ma poi, last but not least, ci sono Grillo, Casaleggio e i loro otto milioni di elettori e gli eletti.
Non si può dire che Grillo sia un incidente di percorso, gli allocchi ci sono anche trai suoi (parecchi) ma ci sono anche quelli che vogliono rifare l’architettura della Repubblica. Come? Non è chiaro. Su base referendaria? Sì, ma fatta in Rete. In che modo? Non è chiaro neppure questo salvo su un punto: per ora dalla Rete (dal suo blog) parla soltanto Grillo, Casaleggio e i loro amici certificati; col passare del tempo le maglie della Rete saranno allargate (adelante, Pedro, cum judicio).
Gli eletti sono per ora alquanto smarriti, naturalmente col tempo matureranno.
Io li considero i nuovi barbari nel senso greco del termine: parlano un linguaggio diverso dal nostro. Chi parla un altro linguaggio ha anche un diverso pensiero e una diversa visione della società. Quale? Neanche loro lo sanno, si formerà passo dopo passo; oppure impareranno il nostro linguaggio e contribuiranno a cambiare senza distruggerla la nostra visione del bene comune.
Questo è stato il coraggioso tentativo di Bersani.
Sicuramente prematuro, ma la strada è quella, insegnar loro il nostro linguaggio e accogliere i contributi da loro proposti. E chi ha più filo da tessere faccia la tela.

Repubblica 31.3.13
L’amaca
di Michele Serra


Ci sono due prerogative in virtù delle quali potrei fare parte dei “dieci saggi” nominati dal Capo dello Stato. Sono, infatti, come ciascuno dei dieci, un maschio ultracinquantenne. Non sono una femmina e non sono un giovane. Ma lungi dal rassicurarmi, questo riconoscermi nel segmento sociale chiamato a reggere le sorti delle istituzioni mi inquieta non poco. Perché conferma la natura ancora sostanzialmente patriarcale della nostra società. Sebbene contrastata da un voto che ha spedito in Parlamento moltissime donne e molti giovani, questa natura mostra una tenacia insopprimibile. Può darsi che a questa tenacia corrisponda un contenuto di necessità: che, cioè, nessuno meglio di un consesso di maschi anziani sia in grado di prendere decisioni utili al Paese. Rimane comunque (e forse mi rimarrà fino al compimento estremo del mio percorso di maschio anziano) la curiosità di sapere come funzionerebbe, il mondo, se la novità della giovinezza, e la differenza femminile, potessero seriamente modificare gli assetti, il funzionamento e forse anche gli scopi del potere. Naturalmente il più rispettabile e rispettato dei maschi anziani, che è il capo 

l’Unità 31.3.132
Bersani: «Ma resto in campo». Il Pd alla prova
di Simone Collini


Messaggio numero uno: la proposta resta quella del governo di cambiamento e della convenzione per le riforme istituzionali. Messaggio numero due: gruppi di lavoro e nomi dei loro membri sono scelte assolutamente autonome del Quirinale.
Pier Luigi Bersani ha seguito da Piacenza le ultime mosse di Giorgio Napolitano. Il leader del Pd è stato avvisato direttamente dal Capo dello Stato della decisione che di lì a poco sarebbe stata comunicata ai giornalisti nella Sala della vetrata e del perché, nonostante l’avesse messa effettivamente in conto, l’ipotesi delle dimissioni è stata prontamente accantonata (tra gli altri, Napolitano ha sentito anche il presidente della Bce Mario Draghi e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che hanno sottolineato i rischi a cui sarebbe andata incontro l’Italia, anche dal punto di vista della speculazione internazionale, senza un governo e un Capo dello Stato). E anche dopo l’annuncio da parte del Presidente della Repubblica dei «due gruppi ristretti» che ora dovranno lavorare a riforme istituzionali e di carattere europeo, economico e sociale, i due sono tornati a parlarsi.
GOVERNO DI CAMBIAMENTO
Dopodiché, Bersani ha fatto diffondere una nota, questa: «In un passaggio molto difficile il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha scelto di dare all’Italia e al mondo un segnale di stabilità e di continuità delle nostre Istituzioni. Per quello che sta a noi, siamo pronti ad accompagnare responsabilmente il percorso che il Capo dello Stato ha indicato». Però la nota contiene anche una seconda parte, breve quanto importante per capire qual è la strategia che il leader del Pd intende seguire nelle prossime settimane, questa: «Un governo di cambiamento e una convenzione per le riforme restano per noi l’asse sul quale ricercare il contributo più largo delle forze parlamentari».
Il passaggio rende anche più chiara una precisazione su cui Bersani, parlando con gli interlocutori che lo hanno cercato ieri dopo l’annuncio di Napolitano, ha insistito. E cioè che per quel che riguarda la decisione dei «due gruppi ristretti» di lavoro e anche la scelta dei loro membri, compresi quelli di provenienza Pd, egli non ha avuto alcun ruolo. Sono scelte assolutamente autonome del Quirinale, è stato il messaggio recapitato dal segretario democratico.
SI GUARDA AD APRILE
Bersani infatti non pensa, come qualcuno fuori ma anche dentro il Pd vorrebbe, che questi due gruppi di lavoro (a ben guardare composti da quattro personalità riconducibili all’area del centrosinistra, quattro del centrodestra e due montiani) possano preparare il terreno per la nascita di un governo di larghe intese. Ed è invece convinto che al termine di questo percorso, che avrà una tappa fondamentale nella seconda metà di aprile nell’elezione del prossimo Capo dello Stato, saranno in campo ulteriori elementi per sostenere la nascita del «governo di cambiamento», da far camminare di pari passo a un confronto più ampio possibile sulle riforme istituzionali. Insomma la linea con cui Bersani ha tentato di andare alla prova della fiducia in Parlamento, senza riuscirci per le «preclusioni» del Movimento 5 Stelle e per quello che nel Pd viene definito «il ricatto di Berlusconi sul Quirinale». Il ragionamento per il futuro quindi è questo: dopo l’elezione del successore di Napolitano, che superata la terza votazione il centrosinistra con i suoi 345 deputati, 123 senatori e la trentina di delegati regionali di area può eleggere insieme soltanto ai montiani o ai Cinquestelle, quel ricatto verrebbe meno e il quadro sarà totalmente diverso. E il Pd potrebbe tornare a chiedere la guida del governo.
TREGUA ALLA PROVA
Bisognerà però vedere se nelle prossime settimane tutto il partito seguirà Bersani sulla linea del «governo di cambiamento» e il confronto con il Pdl relegato al solo tema delle riforme istituzionali. Dopo Pasqua verrà convocata una Direzione per discutere le novità e per decidere come muovere i prossimi passi. Ed è assai probabile che tensioni finora sopite in quel passaggio vengano allo scoperto. Già ora qualche parlamentare renziano inizia a criticare la linea seguita dal segretario e a chiedere di aprire al governo di scopo, anche se sostenuto insieme al Pdl. E nel fronte bersaniano si guarda con attenzione alle mosse di Enrico Letta e Dario Franceschini, che nei giorni scorsi hanno parlato con Matteo Renzi.
Paolo Gentiloni, che nei giorni scorsi aveva promesso «lealtà» nei confronti del tentativo di Bersani aggiungendo che in caso di fallimento non poteva essere il voto l’unica alternativa, dice ora che «all’interesse generale dobbiamo subordinare le posizioni di parte» e che «si tratta di lavorare nei prossimi giorni per individuare i punti essenziali di una possibile soluzione di governo». E il deputato Pd Angelo Rughetti, renziano doc, spiega che i gruppi di lavoro possono ora «confrontarsi sui temi prioritari nell’interesse del Paese entrando nel merito delle questioni più urgenti», aggiungendo che «dopo questa fase che non può che essere transitoria, il passaggio successivo che si presenterà al nuovo Capo dello Stato sarà scegliere fra elezioni a giugno o stabilizzare i gruppi di lavoro in un nuovo governo».
Dei due organismi, che si riuniscono la prima volta martedì, fanno parte parlamentari e personalità appartenenti o riconducibili a Pd, Pdl e Scelta civica. E già in questi giorni tra i democratici si accenderà la discussione, forse anche più sui temi di merito, sulla natura e soprattutto sulle prospettive di questi due gruppi di lavoro.

l’Unità 31.3.132
Stefano Fassina
«Ora in Parlamento lavoriamo sullo sblocco dei pagamenti della P.A I Cinquestelle? Si sono assunti la responsabilità di fermare riforme utili»
«Il governo del cambiamento unica strada indicata dal voto»
«L’alleanza con il Pdl non è praticabile. Un governo a guida Pd è ancora un’opportunità»
intervista di Andrea Carugati


«Non si tratta di una pausa, neppure di un time-out, e il governo di cambiamento che abbiamo proposto resta necessario. Il Pd sia più fiducioso nelle sue possibilità». Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, non vede alternative alla linea percorsa fin qui dal partito.
E tuttavia dal Quirinale arriva un congelamento delle consultazioni per il nuovo governo...
«Non c’è una vera e propria sospensione. La scelta del presidente Napolitano di continuare a garantire un punto di riferimento solido e unanimemente apprezzato, in una fase così difficile, consente di cercare le soluzioni ai problemi del Paese che non siamo riusciti a trovare in questi giorni. Il governo di cambiamento rimane necessario, come gli elettori hanno inequivocabilmente manifestato, e restano necessarie anche le riforme costituzionali da attuare con la massima convergenza possibile».
Cosa succederà da qui all’elezione del nuovo Capo dello Stato?
«Il Parlamento continuerà a lavorare, a partire dalle commissioni speciali di Camera e Senato insediate la settimana scorsa, per dare i pareri sugli atti del governo. In primo luogo affronteremo lo sblocco dei pagamenti dello Stato alle imprese per 40 miliardi. Le forze politiche, dal canto loro, dialogheranno al fine di trovare le soluzioni sul versante del governo e delle riforme».
Il Pd come intende muoversi? Ritiene che l’incarico a Bersani sia da considerare concluso?
«Il cambiamento radicale che abbiamo proposto sul terreno della moralità e sulle emergenze economico-sociali resta la priorità. Le difficoltà in cui siamo derivano anche dal fatto che soluzioni diverse da quella avanzata da Bersani hanno un potenziale di cambiamento decisamente minore. Dunque, quel doppio binario governo e Convenzione per le riforme costituzionali resta la strada migliore per rispondere alle sfide che abbiamo di fronte. Non c’è un problema Bersani o un problema Pd: quel governo semmai è un’opportunità che l’Italia rischia di perdere. Altre soluzioni, a partire dal governissimo, rischierebbero di allargare la distanza tra cittadini e istituzioni». Dunque dopo la «pausa» il Pd porterà la stessa proposta al nuovo presidente della Repubblica?
«Non c’è una pausa. Le prossime saranno giornate in cui continueremo a cercare un confronto tra le forze politiche per seguire il percorso che abbiamo indicato. Ci sono delle misure da approvare e un lavoro politico da fare».
Dunque sarà una sorta di prolungamento delle consultazioni di Bersani?
«Non con quel “format” e con quella sistematicità, ma saranno giornate di confronto approfondito. La nostra proposta è incisiva, risponde alle emergenze del Paese ed è ancora in campo. Mi aspetto dei passi avanti».
Con i Cinque Stelle la discussione è ancora aperta? È stato un errore puntare su una convergenza con loro?
«Noi ci siamo rivolti dall’inizio a tutto il Parlamento, con gli 8 punti che presentavano oggettivamente delle difficoltà per chi finora si è opposto a una seria legge anti-corruzione e sul conflitto di interessi. È stato giusto rivolgerci anche agli eletti del partito di Grillo, parlando di programmi e cercando un coinvolgimento nell’elezione dei presidenti delle Camere. Loro si sono assunti la responsabilità di chiamarsi fuori rispetto a un percorso di cambiamento che risponde anche alle domande di una parte dei loro elettori».
Resterete contrari a qualsiasi forma di governo col Pdl, sia di larghe intese sia «simil tecnico» o del presidente?
«Sono impraticabili sia la strada di un’alleanza politica, sia quella di una nuova “strana maggioranza”. Abbiamo già visto nella scorsa legislatura le difficoltà a portare avanti serie proposte di cambiamento col Pdl: per questo bisogna distinguere tra governo e riforme costituzionali da scrivere tutti insieme. Vorrei ricordare a tutti che il Berlusconi, che oggi usa toni apparentemente responsabili, è lo stesso che tre mesi ha provocato la brutale conclusione del governo Monti, senza preoccuparsi delle conseguenze».
E sull’elezione del nuovo Capo dello Stato?
«Bisogna individuare una figura di garanzia, ricercando la più ampia convergenza».
Nel Pd come troverete la sintesi tra la sua linea e quella di chi apre a un governo col Pdl?
«Bersani ha ripetuto oggi (ieri, ndr) la disponibilità del Pd a sostenere il percorso indicato dal presidente Napolitano. Il Pd deve avere più fiducia in se stesso, superare lo spaesamento post-elettorale. Siamo la prima coalizione nel Paese, l’unica forza attorno a cui si può costruire un futuro di lavoro, sviluppo ed equità. Dobbiamo rimboccarci tutti le maniche perché l’Italia in questa fase ha drammaticamente bisogno di noi».
Lei come valuta la provocazione di un governo indicato dai Cinque Stelle sostenuto anche da voi? Non sarebbe un modo per farli uscire dall’isolamento?
«La democrazia ha le sue regole, la coalizione che ha la maggioranza alla Camera è quella guidata da Bersani, dunque è giusto che chi ha più voti provi a costruire il governo. Poi ci sono aspetti programmatici del partito di Grillo che rischiano di portare il Paese a fondo, dall’ambiguità sull’euro a quella sul debito pubblico. Hanno raccolto una domanda seria di cambiamento, ma non sembrano avere la capacità di assumersi le responsabilità conseguenti».

La Stampa 31.3.13
“Prima il Quirinale, poi l’esecutivo”
Bersani guarda già al nuovo inquilino del Colle: “Situazione ribaltata”. Ma nel Pd soffia la tempesta
di Carlo Bertini


«Adesso si è ribaltata la situazione, si farà prima il presidente della Repubblica e poi il governo e ciò potrà mutare l’atteggiamento delle parti»: malgrado nel suo partito soffi già tempesta e l’ala dialogante guardi al governo del presidente come unico sbocco, Pierluigi Bersani conta di poter tornare in gioco con il nuovo Capo dello Stato che avrà dalla sua pure l’arma dello scioglimento delle Camere e quindi del voto. Posto che il percorso fissato da Napolitano traghetterà i partiti verso l’elezione del suo successore, la conclusione tratta in queste ore da Bersani con i suoi uomini è che «se si potrà scegliere il presidente insieme con altre forze politiche, ciò potrà rasserenare e favorire un clima migliore per le scelte che compierà il nuovo capo dello Stato». Viceversa, «se Berlusconi vuole imporre sé stesso o Gianni Letta al Colle, resterà per il centrosinistra la possibilità di scegliersi il Capo dello Stato», spiega un consigliere del leader. Quindi il criterio di voler eleggere il nuovo inquilino del Colle con i due terzi dei voti resta immutato, ma fino alla prova del nove.
Detto questo, se non fosse abbastanza chiaro dal tono delle parole usate da Bersani, «siamo pronti ad accompagnare il percorso indicato dal presidente», la freddezza tra il segretario del Pd e il capo dello Stato è testimoniata dal fatto che Bersani ha tenuto subito a chiarire che la sua linea non si sposta di un millimetro. Raccontano i suoi uomini che nel corso di una telefonata, Bersani avrebbe confermato al Capo dello Stato che questo percorso a lui sta bene, ripetendo però la sostanza di quanto scritto nel suo commento alle agenzie: e cioé che «governo di cambiamento e Convenzione per le riforme restano l’asse sul quale ricercare il contributo più largo delle forze parlamentari».
Insomma, Bersani considera questa mossa come un modo per occupare proficuamente i prossimi 15 giorni che vanno da qui all’inizio delle votazioni del nuovo capo dello Stato, facendo fare un lavoro istruttorio ai «saggi» utile per il successore di Napolitano. Volendo però mettere bene in chiaro che «la scelta dei nomi è stata fatta in totale autonomia dal Presidente». Tradotto, non solo Bersani non è stato consultato su nessun nome, nemmeno su Violante; non solo il leader o e il suo staff mostrano di non apprezzare affatto che tra i saggi non vi siano donne. Ma a chi adombra il sospetto che in queste compagini si possa intravedere una sorta di anticipo di un possibile governo, i bersaniani rispondono sprezzanti che poi «dovrebbe fare i conti con la resistenza della metà del Pd, restio a votarlo». Insomma, da quella campana nulla che assomigli a un’apertura ad un governo col Pdl, che molti nel partito vedono ora come approdo inevitabile. «Quello che la politica non ha potuto fare per via ordinaria, Napolitano lo ripropone per via istituzionale», twittava ieri Antonello Giacomelli, area Franceschini. «Va dato un governo al paese e nessuno può più tergiversare o fare scaricabarile sulla pelle degli italiani», è il pensiero di un altro ex Ppi, Beppe Fioroni.
D’ora in avanti, nel Pd la partita dunque si gioca su due tavoli in vista di una Direzione la prossima settimana che si annuncia infuocata: «La partita del Quirinale è scottante perché i bersaniani vogliono un Presidente che si insedia e scioglie le Camere», rivela un dirigente dell’altra sponda. Insomma, tutti quelli pronti a dire subito sì a un governo di scopo che allontani le elezioni - renziani, dalemiani, veltroniani, ex Ppi sono propensi ad usare il criterio della «condivisione delle scelte istituzionali» quando verrà il momento. Gli altri, «turchi» e pasdaran bersaniani, si attestano sulla linea dura di un’elezione fatta in tandem con i grillini. E quindi non è passato inosservato quanto scritto sul suo blog da Beppe Grillo. Che nella convocazione delle primarie on line per la scelta del candidato al Colle, denuncia «le trattative già in stato avanzato per un nome condiviso per la presidenza della Repubblica tra Pdl e Pdmenoelle» e cita il nome di «Prodi che cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche».

Repubblica 31.3.13
Bersani ora propone la tregua “Prima votiamo per il Quirinale” Ma nel Pd scatta il “processo”
I fan del leader: urne subito. I renziani: un errore
di Giovanna Casadio


ROMA — «Ora lo schema è ribaltato, prima c’è l’elezione del presidente della Repubblica e poi la nascita del governo. Concentriamoci sulla prima partita». Pierluigi Bersani lo dirà nella riunione della Direzione del Pd, che non è ancora stata fissata: subito dopo Pasqua, o un po’ più in là. Un modo per frenare l’assalto delle correnti, pronte a processarlo.
Sono ore difficili. Il segretario è preoccupato «per l’Italia e per la “ditta”», per un partito cioè che riconosce l’abnegazione di Pierluigi, ma che ritiene un errore avere insistito su una strada - il governo di minoranza guidato aperto ai grillini - inagibile. La linea del segretario è stata sconfitta. Comunque, è sulla necessità di procedere ancora «un passo alla volta», e guardando al successore di Napolitano, che Bersani pensa di tenere uniti i Democratici, ben sapendo che già a bordo campo Renzi scalda i muscoli.
In pratica un rinvio della resa dei conti: la convinzione che non si può sapere ora se ci sarà un “governo del presidente” oppure elezioni anticipate a giugno/luglio. Eppure cresce il fronte di chi nel Pd è per un “governo del presidente” (i renziani, Veltroni, i
Popolari di Fioroni e lo stesso D’Alema è pro «linea della responsabilità »); forse sono diventati già maggioranza. Però i bersaniani pensano che un ritorno alle urne non sia precluso: se ci sarà un capo dello Stato condiviso da un’ampia maggioranza, allora si ragionerà sul governo; se no, il nuovo presidente scioglierà le Camere. La “gauche” del partito, ma pure Enrico Letta e Dario Franceschini sono convinti che il tempo non sia scaduto. «Vediamo se il nuovo inquilino del Colle sarà in grado di rompere le difficoltà, siamo in una fase complessa », fanno sapere dalla segreteria del Pd. Tant’è che appena Napolitano ha finito di illustrare la sua decisione davanti alle televisioni, comincia il giro di telefonate di Bersani. Filo diretto con Migliavacca e Errani. Il comunicato è concordato parola per parola con Letta, il vice, e impegna il Pd «ad accompagnare il percorso di Napolitano», però ribadisce la linea: «Un governo di cambiamento e una convenzione per le riforme restano per noi l’asse sul quale ricercare il contributo più largo delle forze parlamentari».
A casa, a Piacenza, è una giornata frenetica per il premier fino all’altroieri preincaricato, oggi archiviato di fatto e che il presidente della Repubblica non cita affatto nel suo discorso. Bersani sente due volte Napolitano. Le agenzie di stampa registrano intanto una pioggia di dichiarazioni democratiche di lode al capo dello Stato che sono la presa di distanza dal segretario e dalla sua linea. Impazzano i tweet. «Grazie al presidente Napolitano per la sua saggezza, va incoraggiato. Basta inseguire Grillo»: afferma Beppe Fioroni. Il renziano Paolo Gentiloni ammette di tirare un sospiro di sollievo: «Napolitano fa fare un passo avanti e crea le condizioni per uscire dallo stallo. La linea di Bersani è archiviata, come del resto gli ultimatum di Berlusconi. Ora c’è la strada precaria, stretta, a tempo del governo del presidente». Sul web si scatena il dibattito: «Il piano B si è imposto», ribadiscono i renziani. Giachetti, Tonini, Magda Negri ringraziano Napolitano. I “giovani turchi” invece pensano alle urne con un candidato premier che potrebbe essere Barca oppure Pisapia e che dovrebbe sfidare Renzi. Il percorso congresso- primarie comincerà ad aprile. Letta invita alla calma: «Adesso si tratta di raffreddare gli animi, prendiamo un momento di riflessione, appoggiamo Napolitano e cominciamo a ragionare sul prossimo presidente della Repubblica». Nomi già ne circolano, e pure il conto sui numeri: il centrosinistra di eleggere a maggioranza il successore di Napolitano.

Repubblica 31.3.13
De Micheli: “Quella del Colle è una sfida ai partiti, a noi, ai no di Grillo e al Pdl che poneva condizioni irricevibili”
“Pierluigi è stato lineare, non si dimetterà e faremo di tutto per varare un governo”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — «Una militante mi ha consigliato: mangia i tortellini, servono a tenersi su. Ecco, è la sera giusta...». Scherza, la deputata democratica piacentina Paola De Micheli. Ma è innegabile che quello appena trascorso non sia stato un sabato sereno, in casa Pd: «Eppure noi mettiamo al primo posto il bene dell’Italia, per andare oltre questa situazione di stallo. Il Presidente della Repubblica ha giustamente spostato l’attenzione dai veti alle cose da fare per risolvere le emergenza del Paese».
Onorevole, pensa che Bersani sia ancora in pista?
«Se è un modo per chiedermi se si dimetterà, le rispondo: credo di no. E penso che il suo percorso sia stato lineare, nei confronti del partito e delle istituzioni. In linea con questo percorso e attorno al segretario si articoleranno le nostre proposte, nei prossimi giorni».
Proposte arriveranno innanzitutto dalla commissione di saggi scelta dal Capo dello Stato.
«La commissione è molto autorevole, anche se non è esaustiva, manca una rappresentanza femminile e inevitabilmente può essere soggetta a critiche. Di certo il contributo di cambiamento arrivato in Parlamento sarà utile alla commissione. L’importante è che raggiunga l’obiettivo e individui punti comuni affinché il governo che verrà possa essere operativo».
Dove porterà, questo “consiglio di saggi”, al governissimo?
«Allo stato attuale non sarei così definitiva sugli sbocchi. Ma penso che i saggi avranno la voglia di ascoltare e farsi carico delle proposte innovative».
E i tempi?
«I tempi non possono certo essere lunghissimi».
Fra elezioni e governissimo cosa preferisce?
«Continuo a ritenere che la scelta migliore sia un governo politico. Bisogna fare di tutto per arrivare a un governo, possibilmente politico».
Intanto, il Pd rischia di dividersi?
«Noi abbiamo dimostrato sensibilità. Nel partito si discute, è ovvio. E sarebbe una notizia che in un grande partito accadesse il contrario».
Oggi è cambiato qualcosa o resta comunque il veto dei democratici per un governo politico con il Pdl?
«Non so se dopo oggi qualcosa è cambiato. Il punto segnato da Napolitano è “sfidante” verso il Pd, ma la sfida riguarda soprattutto chi finora ha detto solo no. Il Pdl ha posto condizioni irricevibili. Ha scelto una posizione iper tatticista. Noi adesso dobbiamo partire all’attacco e questa mossa del Colle ci consente di togliere dal tavolo quei tatticismi. Il tavolo, anzi, è ribaltato: misuriamoci sui temi, non c’è più spazio per scambi o giochetti».
Una sfida anche per Grillo.
«Noi abbiamo stanato il M5S, abbiamo reso evidente che non è intenzionato ad essere forza di cambiamento».

l’Unità 31.3.132

Susanna Camusso, segretario generale Cgil protesta ironicamente su Twitter: «Sarà... Ho pensato viva le donne!»

La Stampa 31.3.13
Ma le “sagge” non esistono?
di Mariella Gramaglia


A un certo punto era invalsa la moda, per fare un po’ gli americani, di chiamare «padri costituenti» i parlamentari che hanno redatto la nostra Costituzione. Errore grave. Le «madri costituenti» erano ventuno, pochissime su 556 eletti, ma era il lontano 1946.
Nella vicina incerta primavera del 2013 scopriamo, invece, che le «sagge» non esistono. I saggi, specie rara e preziosa, appartengono a un unico genere, quello maschile. Solo un manipolo di uomini coraggiosi può essere chiamato a una missione impossibile: stendere, nella minuscola manciata di giorni che ci separa dalla conclusione del mandato del Presidente Napolitano, un microprogramma di breve fase, ma sufficientemente dignitoso e preciso da poter vestire come un guanto la mano di colui (su colei nutriamo poche speranze, date le premesse) che potrebbe succedere a Mario Monti. Insomma un miracolo, cui dar corpo prima che cali il quindicesimo sole. Un miracolo da veri uomini.
Eppure Giorgio Napolitano non ha mai mancato di lodare il talento femminile in politica, ha dichiarato che sarebbe tempo che fosse una donna a succedergli, ha più volte aggiustato la barra del timone quando governava un presidente del Consiglio convinto che la locuzione «dignità femminile» appartenesse a una lingua strana, o addirittura morta, il gaelico, l’ostrogoto, o chissà...
Dunque perché il Presidente ha fatto una simile scelta? La fretta, l’ansia, l’assillo di rendersi utile al Paese con la massima rapidità non spiegano tutto.
Nel leggere i nomi viene in mente un’altra possibile soluzione dell’enigma. Il fatidico secondo livello: per poter esercitare una mediazione di questo tipo devi avere potere da molti anni. Avere delle truppe su cui contare nel caso dei politici. Essere saldamente al vertice di enti e istituzioni nel caso dei tecnici. Insomma, essere in quella cerchia che gli inglesi chiamano «old boys network».
E se fossero proprio gli «old boys», e le loro reti, ad averci fatti colare a picco? Questo Parlamento sarà pure poggiato sulla faglia di un terremoto, tuttavia, senza particolari costrizioni regolamentari, ci ha regalato un’assemblea ringiovanita di dieci anni e una percentuale di donne mai vista prima. Almeno da questo punto di vista gli italiani e le italiane - che hanno lasciato pencolare senza maggioranza il Senato della repubblica - si sono espressi con molto chiarezza. Vogliono più donne e più persone giovani a rappresentarli. E’ un messaggio culturale, oltre che politico.
Invece siamo tutti qui, in attesa del verdetto di dieci autorevolissimi e attempati signori.
Bisogna ammettere che, nelle stesse condizioni, i cardinali non se la sono cavata troppo male. Noi laici, però, abbiamo il vantaggio della libertà di scelta e lo svantaggio che ci fa difetto l’assistenza dello Spirito Santo.

Repubblica 31.3.13
Lo sconforto della Bonino per l’assenza tra i saggi della componente femminile
“È triste un comitato di soli maschi non rispecchia la società italiana”
di Silvia Bernasconi


ROMA — «È una scelta triste. E non è lungimirante, perché non rispecchia la società italiana ». Mentre escono i nomi dei saggi indicati dal Quirinale Emma Bonino si trova al Cairo, in Egitto, presissima tra un incontro e l’altro. La raggiungiamo al telefono, e sembra di vederla scuotere la testa. Leader dei Radicali, Emma Bonino è stata commissario europeo, ministro, vicepresidente del Senato, ma soprattutto pioniera nella lotta per i diritti delle donne.
Che cosa ha pensato appena ha letto l’elenco dei saggi?
«Che è triste, molto triste. Il fatto che ci siano dieci uomini e nemmeno una donna è tri-
ste. Non mi ci faccia pensare troppo, mi viene lo scoramento».
Perché avrebbe voluto almeno una donna?
«Non voglio entrare nei criteri con cui è stata fatta questa scelta, sicuramente sono stati altri, non sono quali siano stati. Però questi saggi non rispecchiano la società italiana, che è molto più complessa di così. E le donne sono una parte fondamentale di questa
complessità. È come se in Sudafrica decidessero di formare una commissione composta da soli bianchi, oppure da soli neri, è lo stesso».
I criteri di selezione non dovrebbero basarsi soprattutto sui meriti dei singoli, indipendentemente dal genere?
«Certo. Ma il talento c’è nelle donne, ce n’è moltissimo, basta saperlo vedere e soprattutto basta volerlo vedere. Il contributo femminile è fondamentale. Il problema è che invece, purtroppo, questo talento viene sempre negato».
Anche in Rete e sui social network ci sono critiche e polemiche per l’assenza di donne. Cosa si aspetta da questa commissione di esperti?
«Mah...vedremo. Una cosa posso dire. Questa commissione non rispecchia la composizione della nostra società. E negare questa complessità, negare la presenza delle donne nella società, non è una scelta lungimirante, non pensa al futuro del Paese».
Il suo nome è stato fatto più di una volta tra i possibili candidati al Quirinale. Se nemmeno un saggio è donna, quanto tempo ci vorrà per avere un presidente della Repubblica donna in Italia?
«Le rispondo con un detto di Pari o dispare: per una donna è più facile diventare cardinale che salire al Quirinale. Ora devo proprio andare, ma resto triste».

l’Unità 31.3.132
E i cultori del Vaffa-day si inchinano al politichese
di Massimo Adinolfi


IL FATTO È CHE, NONOSTANTE LA NUMERAZIONE CONTINUA, GLI ARTICOLI 92, 93 E 94 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA OSSIA LA NOMINA, IL GIURAMENTO E LA FIDUCIA AL GOVERNO NON RIEMPIONO TUTTI GLI SPAZI. IL PRESIDENTE NOMINA, IL GOVERNO GIURA, IL PARLAMENTO VOTA LA FIDUCIA. Ma può accadere come nell’antichissimo paradosso di Zenone, dove Achille piè veloce non raggiunge mai la lenta Tartaruga a cui ha concesso inizialmente un po’ di vantaggio, essendo costretto, prima di percorrere il tratto di strada che lo separa dall’animale, a percorrerne almeno la metà, e prima della metà metà della metà, moltiplicando all’infinito i passi da compiere per potersi infine muovere. Così la nomina, il primo passo della sequenza, può essere proceduta da consultazioni, da più giri di consultazioni, da forme diverse di incarico e, da ultimo, dalla costituzione di gruppi di esperti. Dopo i quali non è ancora chiaro quale altro passo sarà compiuto.
Intendiamoci: lo stallo è determinato da posizioni politiche che gli sforzi fin qui condotti dal presidente della Repubblica non hanno potuto avvicinare, in modo che in entrambi i rami del Parlamento si disegnasse una maggioranza chiara. Torna allora alla mente la versione del paradosso proposta da Douglas Hofstadter: stavolta la Tartaruga, lenta di comprendonio, proprio non riesce a vedere come da due semplici premesse derivi una certa conclusione; allora Achille, dall’intelligenza svelta, trasforma subito quello che il carapace non vede nella semplice regola: date quelle premesse, questa è la conclusione. Ma la regola va assunta come una nuova premessa, e la Tartaruga ora non vede come dalle tre premesse date possa derivare la conclusione. Costringendo così Achille ad inserire una nuova regola, e ad allungare all’infinito la lista delle premesse. Fuori di metafora: Achille-Napolitano proprio non riesce a spingere i partiti-Tartaruga a vedere una possibile via d’uscita, e l’intervallo che lo separa dall’atto di nomina si amplia sempre di più.
Non è il solo paradosso. C’è anche il paradosso per cui il cittadino deputato capogruppo pro tempore Vito Crimi esulta. La decisione di Napolitano certifica, dice Crimi, quanto i Cinque Stelle hanno sostenuto: si può andare avanti col governo Monti. Ed è un vero paradosso: non tanto in termini costituzionali ma in termini politici. I Cinque Stelle provano ad occultarlo evitando di chiamare Monti con l’epiteto che Beppe Grillo gli ha affibbiato: Rigor Montis, ma la verità è che, quando il governo del Professore entrò in carica, sul blog di Grillo comparve una bella banconota da 50 euro, con al centro un teschio imparruccato. Orbene, è quella banconota che i grillini sono oggi contenti che rimanga in circolo. Se non è tatticismo politico questo, che si compiace di tenere in vita ciò che giudicava mortale o mortifero già un anno fa, non sapremmo dire cos’altro. Pochi mesi fa Grillo diceva: «Rigor Montis è come Figaro, tutti lo cercano, tutti lo vogliono per fare barba e capelli al Paese». Ora, però, a volerlo è lui.
Contemporaneamente, accade pure che il Movimento composto esclusivamente da cittadini niente politici, niente casta, niente cariche, niente onorevoli (nonostante i lapsus di Crimi): solo semplicissimi cittadini si infili nelle torsioni di cui il linguaggio della politica deve dar prova per cercare di tirarci fuori dall’impasse. Una singolare «coincidentia oppositorum»: l’adozione di nuove formule politiche, e persino l’invenzione di compiti e spazi di confronto inediti, al fine di favorire lo scioglimento finora impedito dalle preclusioni e condizioni che hanno stoppato l’incarico a Bersani, viene salutata con entusiasmo dai più convinti detrattori del politichese. I cultori del Vaffa Day si inchinano dinanzi al più arzigogolato passaggio che la storia repubblicana ricordi. E, per l’occasione, ci fanno il piacere di confermare quel che si viene da tempo dicendo: che la politica è precisamente ciò per la cui scomparsa populismi e tecnicismi si tengono la mano. I primi ad accorgersene sono stati gli storici dell’arte, perché dalle loro parti tecnica e primitivismo è un bel po’ che vanno a braccetto. Ora ce ne accorgiamo pure noi. Ma quel che nell’arte è ricerca, in politica c’è purtroppo il rischio che diventi avventura.

l’Unità 31.3.132
Trasparenza? Solo per gli altri
La diretta streaming è obbligatoria solo nelle riunioni con gli altri partiti, la «casa» non è più
di vetro quando si tratta di attriti interni ai 5 Stelle
di Natalia Lombardo


Il personale è politico, si diceva negli anni 70, che fossero contrasti tra militanti e leader o la faticosa emancipazione nelle coppie, ogni diatriba si sviscerava in un assemblearismo senza pareti. Con l’avvento del grillismo il politico sarebbe dovuto diventare personale, nel senso che ogni decisione si deve (dovrebbe) prendere collettivamente e rimbalzare nei tam tam della Rete, persino la scelta del prossimo presidente della Repubblica. Un meccanismo portentoso di democrazia diretta anche se non ci si guarda in faccia, però la casa (o la Cosa) non è più di vetro, le pareti si innalzano protettive nel momento delle scelte cruciali. Porte che si chiudono nelle salette ovattate di Montecitorio, il Palazzo espugnato dai Rivoluzionari con l’apriscatole, ma temuto come un untore del virus politichese.
Così la diretta streaming, pretesa come conferma della propria incorruttibilità da dimostrare al capo bifronte, Beppe& Casaleggio e ai severi militanti, chiude l’occhio stellato del Grande Grillo che vede, smentisce e provvede.
Dev’essere sembrata una grande prova di forza, per Roberta Lombardi, mostrare quella battuta sprezzante tirata a un Bersani disponibile oltre misura al dialogo: quel «eh eh, mi sembra di stare a Ballarò...». E accidenti, dal settecentesco Quirinale, che ha visto Papi e Re e presidenti, non si può far vedere al mondo il colloquio con il Capo dello Stato... Tanto ci aveva pensato Beppe Grillo a fare la sua consultazione privata al telefono con Napolitano.
La visione globale, la prova della purezza che neppure l’ampolla con l’acqua del Po garantiva così, sparisce quando i contrasti si accendono nel gruppo, come è accaduto prima del voto su Pietro Grasso presidente del Senato (inevitabile registrare le urla che uscivano dalla stanza chiusa) o nella riunione del gruppo Cinque stelle alla Camera venerdì mattina. E guai se alcuni cronisti, che in Parlamento ogni giorno compongono il mosaico della situazione politica con dichiarazioni, spiegazioni sussurrate, gesti e segni, colgono parole come il neologismo del governo «pseudo-tecnico»

l’Unità 31.3.132
Le differenze tra i grillini e il resto del mondo
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Cari grillini voi siete davvero convinti che sono tutti uguali eccetto voi che, in questo caso, finora, vi state comportando come qualsiasi altra forza politica nelle vostre condizioni?
Armando Mancini

L’idea per cui i politici sono tutti uguali è dura a morire nel tempo dei grillini. Essa può essere smentita facilmente, però, da una riflessione sulle giunte elette, in Lombardia e nel Lazio. Lì, con Maroni, un gruppo di personaggi della vecchia politica, quella che ha dato al Pirellone il record dei procedimenti penali rivolti a un’assemblea regionale e qui, con Zingaretti, una rosa di nomi nuovi, sei donne e quattro uomini, per comporre una squadra capace di ridare dignità al governo di una Regione distrutta, politicamente e moralmente, dal ciclone Polverini. Una differenza resa ancora più
evidente da quello che accade in Piemonte dove Cota, il leghista, si è inventato, per aumentare il numero dei componenti di una giunta già pletorica, l’assessorato (e l’assessore) ai tartufi e dove la crisi del debito e della sanità ha superato da tempo i livelli di guardia. Un caso? No. Cruciale per il centrosinistra, il discorso sul rinnovamento della politica e dei quadri che la debbono portare avanti è del tutto irrilevante per la destra dove a comandare c’è sempre lui, l’uomo capace di andare in doppiopetto (il giovedì) da Napolitano e di trasformarsi in guerrigliero il sabato: scendendo in piazza «contro la Giustizia». La Lombardi che replica con tanta sufficienza alle proposte di Bersani e il Grillo che le fa eco proponendo l’elenco dei «padri puttanieri» dando l’idea di un movimento che queste cose non le vede ancora. Facendo un errore grave.

l’Unità 31.3.132
Tra Russia e Tanzania dove va la Cina di Xi
di Gianni Sofri


Xi Jinping è presidente della Cina dal 14 marzo, a conclusione della sessione annuale dell’Assemblea popolare (il Parlamento cinese), come previsto dal XVIII Congresso del novembre scorso. Da allora, una delle attività principali degli osservatori delle vicende asiatiche è l’interpretazione di tutti i principali movimenti dei nuovi leader.
In primo luogo Xi stesso, e poi Li Keqiang, nuovo premier. Qui esamineremo tre viaggi del presidente Xi; uno all’interno della Cina, per la precisione a Shenzhen in dicembre (quando non era ancora presidente) e due all’estero, in Russia e in Africa.
Il viaggio a Shenzhen ripeteva molto vistosamente un analogo viaggio di Deng Xiaoping del 1992, destinato a riaffermare un potere politico in crisi e a rilanciare l’economia nella città che era stata la prima fra le «zone economiche speciali» che avevano fatto da pivot per le grandi riforme.
Nel viaggio di Xi, quasi la celebrazione di un ventennale, l’aspetto economico era importante, ma non lo era meno quello militare. Vestito della classica giacca maoista, variamente fotografato insieme a soldati delle diverse armi (è entrato in un carro armato, ha pranzato in mensa e così via), Xi ha compiuto un’accurata ispezione del «teatro di operazioni» del Guangdong. Parlando agli ufficiali più alti in grado, ha insistito sull’importanza delle forze armate, fedeli al Partito, per le ambizioni globali del paese, e sulla necessità di un ammodernamento tecnologico. Ha anche chiesto a soldati e ufficiali di «tenersi sempre pronti a combattere e vincere», mentre negli stessi giorni si diffondevano slogan come «basta con il romantico pacifismo!». Sempre nei giorni della visita di Xi, l’ampio uso dell’espressione «teatro delle operazioni» voleva da un lato alludere all’attività integrata delle varie armi; dall’altro, suggerire che il Guangdong è oggi la «regione militare» più importante perché fronteggia alcuni degli arcipelaghi coinvolti nelle divergenze marittimo-confinarie degli ultimi mesi. Appare evidente come sui politici e sui militari cinesi operino l’attrazione del mare aperto e la volontà di estendere i confini marittimi.
IL GAS RUSSO
Veniamo ai viaggi internazionali. Ricambiando una cortesia di Putin, Xi ha scelto Mosca per il suo primo viaggio all’estero. Nell’incontro fra i due leader eredi dei due maggiori imperi comunisti, il tema principale riguardava l’energia, mettendo di fronte il paese più affamato in questo campo e la Russia, primo esportatore di gas naturale e secondo di petrolio. Ne sono usciti contratti di lungo periodo assai convenienti per entrambi. Ma l’incontro fra Putin e Xi ha anche sottolineato una generale solidarietà in campo internazionale, quasi un ritorno ai rapporti fra Cina e Urss negli anni Cinquanta, prima della grande rottura. Con la differenza, però, che oggi, se ci fosse un paese leader, questo sarebbe la Cina e non la Russia. Molti elementi uniscono tuttavia, oggi come allora, i due paesi. Per esempio, in politica estera, la comune avversione all’Occidente e in particolare agli Stati Uniti (anche se sarebbe sbagliato, per ora almeno, parlare di una ripresa della guerra fredda), con riflessi importanti per alcune aree del mondo (si pensi alla Siria). E ancora, è difficile non vedere somiglianze fra due paesi che sono entrambi autoritari e repressivi, burocratici e minati dalla corruzione. Ma soprattutto, si è avuta la sensazione che la Cina fosse alla ricerca di una nuova rete di alleanze globali destinata a contrastare quella che i cinesi ritengono essere una nuova forma di accerchiamento della Cina e dei suoi alleati da parte degli Stati Uniti e di una serie di paesi che a loro si appoggiano per contrastare le aspirazioni egemoniche cinesi: dal Giappone alla Turchia, passando per la Corea del Sud, il Vietnam, le Filippine, l’Australia, l’India e così via. È una situazione paradossale, nella quale ognuno può apparire accerchiante o accerchiato, minaccioso o minacciato. Quel che è certo è che la Cina ha oggi un grande interesse a costituire assieme alla Russia un gigantesco bastione continentale contro gli Stati Uniti e i loro alleati o amici. È significativo che di recente il Pentagono abbia annunciato la sospensione della realizzazione dello scudo antimissile in Europa per concentrare invece le risorse nel rafforzamento dell’apparato militare in Estremo Oriente.
IL TRIANGOLO
tuttavia, questi schemi geopolitici sembrano funzionare più sulla carta che in una realtà complessa. Per esempio, la rinuncia a proseguire per ora nella realizzazione dello scudo antimissile europeo è anche, da parte degli Stati Uniti, un messaggio distensivo alla Russia. In più, se sono quasi tramontati gli entusiasmi di qualche anno fa per una supposta «Cindia»
(per buona parte d’invenzione), tuttavia l’India conserva buoni rapporti con la Russia. Se si volesse rappresentare la geopolitica dell’Asia e delle regioni dell’Oceano Indiano e del Pacifico con delle figure geometriche, quella che prevarrebbe di gran lunga sarebbe il triangolo.
Da Mosca, direttamente, un aereo ha portato il neo presidente cinese a Dar es-Salaam: anche qui nel segno della continuità. Fu in Tanzania, negli anni Sessanta, che i cinesi si presentarono in Africa, costruendo la ferrovia Tanzam, per unire Tanzania e Zambia. Si inserivano così, timidamente, in una competizione per l’Africa che vedeva allora protagonisti, sul terreno economico ma ancora più su quello militare, americani e sovietici. Oggi la presenza russa, erede di quella sovietica, è pressoché cancellata. Gli americani, così come alcuni paesi europei, pagano a caro prezzo una presenza su cui pesa l’eredità coloniale, venendo coinvolti di continuo in conflitti spesso sanguinosi. I cinesi, intanto, si occupano dell’economia. Meglio, occupano l’economia. Come in altre parti del mondo, pur rivendicando a sé lo status di grande potenza globale, amano pensare a se stessi.
NON INGERENZA
I principi che regolano la politica africana della Cina vennero solennemente esposti a Pechino nel gennaio 2000 ai ministri di 44 stati africani. In realtà sono gli stessi dell’epoca maoista, di cui conservano persino il linguaggio: lotta all’«egemonismo», «uguaglianza e rispetto reciproco» tra paesi grandi e piccoli, «non ingerenza» negli affari interni di altri paesi. In virtù di quest’ultimo principio i cinesi possono avere tranquilli rapporti con «paria» internazionali come Mugabe, proteggere all’Onu regimi come quello sudanese, vendere armi a chiunque.
Diritti umani e corruzione non li riguardano, e questo li facilita. Così, possono investire, commerciare, costruire infrastrutture, vendere manufatti e acquistare energia e materie prime. Dal 2009 la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa. Duemila società cinesi operano in 50 paesi del continente; almeno un milione di cinesi vi abitano e vi lavorano. Il volume degli scambi tra Africa e Cina, che era di 5,6 miliardi di dollari nel 1999, è passato nel 2012 a 200 miliardi. Pechino investe in Africa più del Fondo monetario internazionale e concede più prestiti della Banca mondiale.
Malgrado questi successi, c’è chi ritiene che «la luna di miele sia finita» o chi, con altre espressioni, segnala la crescita di proteste africane per una politica, quella cinese, che ha poco di disinteressato e molto, invece, del vecchio colonialismo. Ma sarebbe prematuro decretarne la fine, o anche solo il declino.
Si può ben capire come tra i cinque Brics riuniti in questi giorni a Durban per il loro quinto vertice si sia fatta strada l’idea di una sorta di banca mondiale alternativa al predominio del dollaro e dell’euro. Ed è anche comprensibile che i cinesi, che cercarono a lungo di prendere la testa dell’intero Terzo mondo, siano oggi attirati dai cinque Brics (pronti a diventare sei Briics con l’Indonesia): nella speranza, probabilmente un po’ illusoria, di recitare il ruolo dei fortissimi tra i più forti del Sud del mondo.

il Fatto 31.3.13
Il pugno duro di Orbàn strema l’Ungheria
Il premier guida un Paese in modo autoritario mentre la disoccupazione vola
di Pasquale Rinaldis


Quando nel 2010 il primo ministro Viktor Orbàn è tornato alla guida dell’Ungheria, erano in molti che speravano riprendesse quel discorso iniziato venti anni prima, quando con un governo liberale e moderato tentò di instaurare una democrazia “postcomunista”, ispirata ai valori dell’Unione europea. Forte del sostegno dei due terzi del Parlamento e del partito d’estrema destra Fidesz, Orbàn a un certo punto però ha cambiato direzione, mostrandosi molto più sensibile alle questioni di potere, facendo emergere una certa nostalgia per quel sogno mai realizzato, quello di una “grande Ungheria nazionalista”, a discapito dei valori progressisti cui un Paese democratico è legittimato ad ambire. Annunciando la nuova Costituzione, simbolo di quella “guerra culturale” per rinvigorire una nazione ritenuta vittima della Storia, Orbàn ha dapprima promesso un “cambio di sistema che mostrerà all’Europa le virtù finora inespresse ” della nazione ungherese, cui però sono seguite le preoccupazioni di chi considera il gesto un vero golpe bianco, un “Putsch istituzionale”. Molte le voci che si sono levate per denunciare la rabbia montante degli ungheresi e le loro forti preoccupazioni: i vari dissidenti e ong ungheresi in favore della difesa dei diritti umani, hanno inviato disperati appelli alla Commissione europea, al presidente Barroso e alla Corte europea di Giustizia e al Consiglio d’Europa, il cui segretario generale, il norvegese Thorbjørn Jagland, ha affermato senza mezzi termini che “il governo Orbàn ha utilizzato la maggioranza di due terzi per bypassare la Corte costituzionale, in contrasto con principi e le regole dello Stato di diritto”. Ma alle richieste della Commissione europea di cambiare registro, Orbàn ha risposto che “sono decisioni del nostro Parlamento sovrano, non intromettetevi” aggiungendo che “il governo sta rispettando le norme europee, ma il potere costituente spetta solo al Parlamento ungherese”. Gli ungheresi intanto fanno la fame: il tasso di disoccupazione oggi si avvicina al 15% e per la prima volta le persone vengono invitate a emigrare, quando una volta invece si diffidava ad andare all’estero per paura dello sfruttamento. Opposta invece la posizione riguardo agli studenti che chiedono al governo il ripristino dei fondi statali all’istruzione e, soprattutto, l’abolizione del famigerato contratto che permette loro di studiare gratis ma a condizione di restare in Ungheria almeno il doppio del tempo dei loro studi. Tra le modifiche costituzionali apportate “in nome della difesa della dignità della Nazione, dello Stato e della persona” vi è poi la possibilità da parte del governo di limitare la libertà d’espressione; la Corte costituzionale “non potrà più sollevare obiezioni di sostanza, ma solo di forma su emendamenti alla Costituzione, e decadono le sue decisioni precedenti il gennaio 2012”. Inoltre per smorzare da subito ogni velleità da parte di associazioni umanitarie in difesa dei diritti degli omosessuali, nella Carta si precisa che “la famiglia riconosciuta dallo Stato è solo l’unione ufficializzata da matrimonio di una coppia eterosessuale che si sposa al fine di fare figli. Nessun altro tipo di unione avrà pari dignità con la famiglia sposata etero che vuole prole”. In ambito religioso, invece, i culti riconosciuti sono solo quelli previsti come tali dalle recenti leggi del governo. E pensare che prima della rivoluzione di Orbàn, l’Ungheria era considerata il Paese che aveva fatto più progressi fra quelli dell’ex blocco comunista.

il Fatto e Der Spiegel 31.3.13
Prigioniero X
Il primo 007 del Mossad che ha tradito Israele
La vera storia dell’agente Ben Zygier, il giovane che voleva diventare un eroe
Cresciuto col  sogno sionista, diventato un personaggio da spy game fino alla morte (suicidio?) nel carcere di massima sicurezza a Tel Aviv
di Ronen Bergman, Julia Amalia Heyer, Jason Koutsoukis, Ulrike Putz e Holger Stark


L’agente del Mossad Ben Zygier è stato trovato impiccato nella sua cella dalle guardie carcerarie alle 8 e 19 del mattino. La cella era divisa in due parti: in una il letto, un tavolino e un cucinotto, nell’altra la doccia e la toilette. Tre telecamere tenevano il detenuto sotto stretto controllo, ma nessuno si accorse che da oltre un’ora Zygier era scomparso dai monitor. Quando le guardie lo trovarono nella doccia, il suo corpo si stava già raffreddando. Una morte tutt’altro che dignitosa per un ardente sionista che aveva giurato di difendere Israele. “Nostro compito era tenerlo in isolamento, non impedirgli di suicidarsi”, è stato il cinico commento di una delle guardie.
Zygier era ospite del carcere di massima sicurezza di Ayalon, a Rambla, nella periferia nord-orientale di Tel Aviv. Ad Ayalon ci sono 700 detenuti e 260 guardie carcerarie. Ai detenuti del braccio di massima sicurezza non è consentito andare in sinagoga né in palestra. Zygier è morto nella cella 15, riservata ai nemici dello Stato. In questa stessa cella ha soggiornato anche Yigal Amir, l’assassino del primo ministro Rabin. Ed è proprio come “nemico dello Stato” che Zygier sarà ricordato negli annali della storia israeliana. Zygier è morto da oltre due anni, ma solo ora cominciano a circolare informazioni più attendibili sul suo caso che ha fatto scalpore creando imbarazzo sia al governo israeliano sia a quello australiano. In Israele il caso è stato protocollato come “segreto di Stato”, ma questo non ha impedito che circolassero molte ipotesi, compresa quella secondo cui Zygier sarebbe stato assassinato.
L’infanzia in Australia e la partenza per il kibbutz
Dopo una ricerca durata alcuni mesi, condotta in Germania, Israele e Australia e dopo aver parlato con i suoi amici e alcuni colleghi, possiamo raccontare la vera storia dell’agente Zygier. Ben Zygier ha fatto arrestare diversi informatori libanesi che fornivano informazioni al Mossad e ha fatto quello che mai nessun agente del Mossad aveva fatto prima: tradire il suo Paese. La sua è la storia di un giovane che voleva diventare un eroe e che, avendo fallito, si è suicidato. Ben è nato e cresciuto in un quartiere nella periferia di Melbourne. Suo padre Geoffrey, che aveva la fama di ebreo tradizionalista, era un commerciante agiato e Ben ha potuto frequentare le migliori scuole ebraiche della città entrando a far parte di Hashom Hatzair, una organizzazione giovanile sionista di sinistra.
Dopo il diploma ha studiato Legge alla Monash University manifestando la sua intenzione di trasferirsi in Israele. “Non mi sorprese che avesse il fegato di fare qualcosa di più avventuroso che aprire uno studio di avvocato a Melbourne”, ha commentato Corolyn Creswell, amica di famiglia e sua insegnante di inglese. Nel 1994 arriva al kibbutz di Gazit ai piedi delle colline della Galilea. Nell’ufficio del kibbutz ci riceve Daniel Leiton, 40 anni e un marcato accento australiano: “Ben era una persona incredibile”, dice. “Sempre allegro e amichevole”. Zygier e Leiton si erano conosciuti a Melbourne sul finire degli anni 80 quando erano entrambi già sionisti. Leiton è presente quando Ben sposa la sua ragazza israeliana. L’ha visto per l’ultima volta a Melbourne nel 2010, poco prima del suo arresto. C’era qualcosa di strano nel suo comportamento? Sembrava preoccupato? “No”, risponde Leiton. “Era lo stesso di sempre. Non riesco a credere che possa essersi suicidato. Non mi sembrava il tipo”. Ha mai pensato che fosse un agente del Mossad? Leiton non replica, ma è visibilmente a disagio.
Nel kibbutz Ben Zygier non faceva che parlare del sogno sionista, ricorda Lior Brand. Secondo Brand, Ben era “intelligente, colto e aperto” ed era pronto a difendere Israele a tutti i costi. Insomma un tipo perfetto per il Mossad. Da decenni il leggendario servizio segreto israeliano conduce una guerra silenziosa contro i nemici di Israele. Nel 2008 agenti del Mossad hanno ucciso a Damasco Imad Mughniyah, comandante di Hezbollah, e nel 2010 hanno assassinato a Dubai Mahmoud al-Mahbuh, comandante di Hamas. Per portare avanti questa guerra il Mossad ha continuamente bisogno di reclutare nuovi agenti.
Uomini come Zygier, cittadini di un Paese al di sopra di ogni sospetto e in grado di viaggiare senza attirare l’attenzione, sono preziosi per il Mossad. Inoltre la legge australiana consente di cambiare nome con facilità. Secondo le autorità australiane Zygier era in possesso di tre diversi passaporti. Zygier si laurea in Legge a Melbourne e comincia a fare pratica in uno studio legale, ma nel 2003 si trasferisce a Tel Aviv ed entra in uno dei più prestigiosi studi legali del Paese. Nel frattempo aveva già preso contatto con il Mossad e con il ministero della Difesa. Entrare nel Mossad non è facile. I servizi passano al setaccio la vita di tutti i familiari del candidato e lo sottopongono a scrupolosi esami psicologici. “Cerchiamo di eliminare i soggetti mentalmente instabili”, spiega uno psichiatra del Mossad. “I nostri agenti debbono essere sicuri ma non aggressivi, coraggiosi ma debbono sapere cosa è la paura, aperti ma capaci di tenere la bocca chiusa”, aggiunge Motti Kfir, ex responsabile dell’addestramento al Mossad.
Uno degli esercizi consiste nel toccare il centro di un cerchio con la punta del dito avendo un occhio bendato. In realtà è impossibile e chi ci riesce vuol dire che ha imbrogliato. L’esercizio serve a vedere se il candidato è onesto. Nel 2003 Zygier passa tutti i test e il Mossad lo inserisce in un programma di addestramento intensivo della durata di un anno dove impara, tra l’altro, tecniche di manipolazione e di falsificazione dei documenti. Nel 2005 la prima missione in Europa. Zygier deve infiltrare aziende che hanno rapporti commerciali con Iran e Siria. Il suo obiettivo è una azienda dell’Europa meridionale. L’azienda in questione ha rapporti con società iraniane ed è perfetta per reclutare informatori in Iran. Zygier riesce a farsi assumere in contabilità. “Era chiarissimo che Zygier non aveva alcuna competenza in questo campo”, ha dichiarato a metà marzo a Londra l’amministratore delegato dell’azienda. “Ma aveva enormi capacità e nel giro di pochissimo tempo imparò tutto quello che serviva”.
Zygier fa rapidamente carriera e inizia a partecipare direttamente alle trattative con i clienti. L’amministratore delegato ricorda che era rapidissimo nell’eseguire i compiti che gli venivano assegnati. Ma nota anche qualcos’altro: Zygier non sembra interessato al suo lavoro tanto da mettere a rischio consolidati rapporti d’affari con alcuni clienti di vecchia data. “Alla fine del 2006 fummo costretti a licenziarlo”, dice l’amministratore delegato. Zygier ha esperienze analoghe con altre aziende. Dopo l’Europa meridionale, il Mossad lo manda in Europa orientale dove sostanzialmente la sua missione ha risultati considerati fallimentari dai vertici del Mossad che nell’estate del 2007 lo richiamano a Tel Aviv. “Non era né particolarmente bravo né particolarmente inadatto. Era semplicemente mediocre”, dichiara un ufficiale addetto alla sicurezza. E così Zygier viene degradato da agente operativo a passacarte.
Il Mossad è diviso in tre dipartimenti: il ”Keshet” (arcobaleno) che si occupa di operazioni di sorveglianza e pedinamenti; il “Caesarea” che effettua operazioni sul campo all’estero e il “Tsomet” (incrocio) che gestisce le risorse e analizza le informazioni. Zygier viene assegnato al dipartimento Tsomet presso il quartier generale. Il suo lavoro qui è di tipo burocratico. Nulla a che vedere con lo spionaggio. Gli uffici di Tsomet somigliano a quelli di un qualunque ministero. In passato i dipendenti erano suddivisi in piccole unità; oggi invece tutti hanno accesso a tutte le informazioni e questo rende più facile il compito di un eventuale traditore.
Nelle prime ore del mattino del 16 maggio 2009, unità speciali libanesi fanno irruzione in casa di Ziad al-Homsi, nella zona occidentale della valle della Bekaa, e arrestano il 61enne al-Homsi con l’accusa di essere un agente israeliano. Per molti libanesi l’arresto di Ziad al-Homsi è un duro colpo e una sorpresa, non solo perché è stato il sindaco della sua città per anni, ma anche per essersi distinto durante la guerra civile da lui combattuta con coraggio contro le forze israeliane. I suoi amici e sostenitori non riescono a credere a quello che emerge dagli interrogatori nelle settimane successive all’arresto: Ziad al-Homsi era una spia israeliana dal 2006 e per i servigi resi aveva incassato la somma di 100 mila dollari.
Il nome in codice di Al-Homsi per il Mossad era “Indiano” e il verbale dell’interrogatorio chiarisce la sua importanza. Ziad al-Homsi aveva il compito di cercare di fornire agli israeliani informazioni sul nascondiglio dove da anni vive il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah. Ovviamente gli israeliani volevano arrivare a Nasrallah per assassinarlo.
La vittoria di Hezbollah contro le spie in Libano
I capi di accusa nei confronti di Ziad al-Homsi rivelano quanto complicate siano le procedure per reclutare agenti stranieri. Un cinese di nome “David” si era presentato a Al-Homsi spacciandosi per un dipendente del Municipio di Pechino e rappresentante di una azienda cinese desiderosa di stabilire rapporti commerciali. In occasione di un incontro in Libano, “David” aveva invitato Al-Homsi a Pechino a una fiera dicendogli che l’invito veniva direttamente dal governo cinese. Dopo il viaggio a Pechino c’erano stati altri incontri a Bangkok. Nel frattempo i cinesi avevano concesso al libanese un compenso mensile di 1.700 dollari. Poi avevano cominciato a fare domande. Per esempio gli avevano chiesto cosa sapeva di tre soldati israeliani scomparsi nel 1982 durante la guerra in Libano che Al-Homsi aveva combattuto dalla parte degli arabi. “In questo preciso momento, Ziad al-Homsi si rende conto di avere a che fare con israeliani che lavorano per il Mossad che non hanno nulla a che vedere con società di import-export o con organizzazioni che si occupano della ricerca di persone scomparse”, si legge nel verbale di interrogatorio.
Il Mossad fornisce a Al-Homsi un computer e un Flashdrive Usb oltre a una apparecchiatura che sembra un lettore stereo, ma in realtà è un potente trasmettitore. Secondo i capi di imputazione, la spia inviava rapporti a Tel Aviv ogni cinque giorni. Tutte le apparecchiature tecnologiche vengono rinvenute a casa di Al-Homsi nel maggio del 2009 al momento dell’arresto. L’arresto di al-Homsi, dice il generale Ashraf Rifi, capo dei servizi libanesi, è uno dei colpi più importanti messi a segno dalla sua organizzazione. Al-Homsi è stato condannato a 15 anni di lavori forzati, ma in seguito ha goduto di una amnistia. Durante la primavera del 2009 i libanesi scoprono diverse reti spionistiche israeliane in Libano. Tra gli arrestati Mustafa Ali Awadeh, nome in codice “Zuzi”, altro importante infiltrato all’interno di Hezbollah. Per i servizi israeliani il 2009 rappresenta la principale sconfitta nella regione. I vertici del Mossad sono sconcertati. Come hanno fatto i libanesi a individuare quasi tutti gli agenti del Mossad che operavano in Libano?
Poi dal Libano arriva una informazione che mette il Mossad sulla pista giusta: Hezbollah è stata in contatto con un agente del Mossad che all’epoca si trovava in Australia. I vertici dei servizi capiscono immediatamente che si tratta di Ben Zygier. Zygier, frustrato dal suo noioso lavoro da impiegato, aveva chiesto un permesso per riprendere gli studi continuando a percepire lo stipendio. Nell’ottobre del 2008, Zygier si iscrive nuovamente alla Monash University di Melbourne, questa volta con il nome di “Ben Allen”. Spiega di aver lavorato per una società di consulenza a Ginevra e che ogni tanto deve fare ritorno in Svizzera. Con questo pretesto giustifica i suoi numerosi viaggi. Una domenica di ottobre del 2009 il giornalista Jason Koutsoukis, all’epoca corrispondente dal Medio Oriente per i giornali australiani The Age e Sydney Morning Herald, riceve una email criptata proveniente apparentemente da un dipendente del governo australiano. “Indagini di intelligence hanno scoperto un agente israeliano nato in Australia che attualmente è tornato a vivere in Australia. Si sospetta anche che possa aver partecipato a operazioni del Mossad in Australia”, dice l’email. In un’altra email si fa il nome dell’azienda per la quale Zygier aveva lavorato nel 2005. Evidentemente gli australiani tenevano d’occhio Zygier da tempo.
Il giornalista Jason Koutsoukis telefona a Zygier all’inizio di dicembre del 2009 e gli riferisce il contenuto delle email. “Fantasie”, replica secco Zygier prima di attaccare senza nemmeno salutare. Qualche settimana dopo, a metà gennaio 2010, tra i due ha luogo una seconda conversazione. “Mi risulta che lei ha lavorato per una azienda europea. Mi può dire che lavoro faceva? ”, chiede Katsoukis. “Non so nemmeno di cosa sta parlando”, risponde Zygier. “Ovviamente mi confonde con qualcun altro”. Dieci giorni dopo i servizi segreti interni di Israele arrestano Zygier che era stato invitato dal Mossad a rientrare in sede per discutere le informazioni ricevute da Beirut.
La storia che emerge dalle indagini dei servizi interni è uno choc per il Mossad. Zygier, avvilito dalle sconfitte e nel tentativo di recuperare credibilità agli occhi dei superiori, aveva tentato di reperire nuove fonti e di reclutare altri informatori. Stando alle indagini, nel corso dei numerosi interrogatori Zygier ammette che, prima della partenza per l’Australia, senza autorizzazione aveva incontrato in Europa orientale un membro di Hezbollah con l’intenzione di farlo diventare un suo informatore. Ma Zygier ignora un aspetto importante della vicenda: il membro di Hezbollah riferisce ogni cosa a Beirut e comincia a fare il doppio gioco. Anzitutto convince Zygier di essere interessato a collaborare con lui, ma concorda ogni iniziativa con i servizi di Hezbollah. Della cosa viene messo al corrente lo stesso Nasrallah. Il contatto tra Zygier e Hezbollah va avanti per mesi e a un certo punto non si capisce chi dirige il gioco. I libanesi gli chiedono di dimostrare che lavora per il Mossad. Il rapporto dei servizi israeliani indica che Zygier comincia a fornire a Beirut informazioni riservate alcune delle quali riguardano Ziad al-Homsi e Mustafa Ali Awadeh. Quando viene arrestato, gli agenti trovano un cd contenente altre informazioni segrete provenienti dal dipartimento Tsomet.
“Possa la sua anima rimanere legata alla vita”
Tel Aviv, inizio di marzo del 2013. “Zygier voleva fare qualcosa di grosso e non ci è riuscito”, dice un esponente del governo israeliano che ben conosce la vicenda di Zygier. “E così è finito su una brutta strada e si è cacciato nei guai”. È già capitato in passato che informatori israeliani abbiano tradito e siano passati al nemico. Ma un agente del Mossad non ha mai fatto quello che ha fatto Zygier. È una amara sconfitta per Israele mentre per Hezbollah è uno dei rarissimi casi in cui un servizio di intelligence arabo ha sconfitto quello israeliano.
Lior Brand, uno degli amici del kibbutz di Gazit, è convinto che il Mossad “abbia commesso un grosso errore” a reclutarlo. I servizi israeliani volevano dare un esempio di severità e, parlando con l’avvocato di Zygier, dissero che si aspettavano una condanna ad almeno dieci anni di reclusione. Nell’estate del 2010, mentre si trovava in prigione, nacque la seconda figlia di Zygier e alla famiglia fu concesso il permesso di fargli visita. Il 15 dicembre dello stesso anno a Zygier fu permesso di parlare al telefono con la madre Louise. Poche ore dopo era morto. Perché si è ucciso? Orgoglio ferito? Vergogna? Vendetta? Quando le autorità hanno consegnato il corpo di Zygier alla famiglia, al funerale sono stati invitati gli amici più intimi tra cui Daniel Leiton del kibbutz di Gazit. Leiton al funerale chiese perché Zygier, appena 34enne, avesse pagato i suoi errori con la vita, ma nessuno gli diede risposta. Sulla pietra tombale in marmo nero i genitori hanno fatto scrivere: “possa la sua anima rimanere legata alla vita”. Zygier è stato sepolto nel cimitero ebraico di Springvale. In Australia, non in Israele.
© 2013, Der Spiegel Distribuito da The New York Times Syndicate

La Stampa 31.3.13
Shéhérazade, la favola che serve alle donne di oggi
L’eroina delle Mille e una notte , come esempio di emancipazione Una mostra all’Institut du monde arabe di Parigi ne rilancia la figura
di Angelo D’Orsi


Così la vedeva Picasso La principessa Shéhérazade in un’incisione dalla serie Le mille e una notte, realizzata da Picasso nel 1968. Si può vedere fino al 28 aprile a Parigi nella mostra che l’Institut du monde arabe (l’edificio in riva alla Senna disegnato da Jean Nouvel) dedica al libro che ha fatto conoscere in Occidente l’immaginario orientale.
Chi non è rimasto sedotto dalla figura di Shéhérazade, l’affascinante, astuta protagonista delle Mille e una notte? Chi non ha tifato per la sua salvezza davanti alla crudeltà del sovrano che, per una sorta di assurda vendetta di sua moglie, di cui aveva scoperto l’adulterio, aveva deciso di giacere ogni notte con una vergine diversa, facendola decapitare all’indomani? Shéhérazade – l’ultima vergine disponibile nel Regno, figlia del Visir – si salva, e fu la potenza della parola a salvarla. Anzi, stando allo scrittore arabo contemporaneo Ben Jalloun, Shéhérazade incarna la donna che lotta per emanciparsi: un simbolo di evidente e spesso drammatica attualità: interpretazione peraltro contestata da scrittici femministe. Certo è che, nel racconto, la forza della disperazione, unita alla capacità inventiva, fecero sì che la donna incatenasse il sovrano con mirabolanti racconti, uno per notte: e al sorgere dell’alba il racconto non era finito, sicché il re concedeva un a proroga a Shéhérazade, la quale appena conclusa la favola, dava inizio a un’altra. La dialettica signore/ servo, in certo modo: fu la schiava a soggiogare il padrone, che alla fine, al termine di questa lunghissima maratona si arrese, non solo rinunciando a uccidere la bella fanciulla, ma la prese in sposa, facendola regina del suo regno.
La vicenda di questa fiaba (in realtà si tratta quasi di un meta-testo, con una base e varie inserzioni, per cui i racconti che lo compongono cambiano notevolmente di numero con adattamenti a culture locali, dalla Persia all’Egitto…) è raccontata in una bellissima esposizione all’Institut du Monde Arabe di Parigi (un luogo che di per sé vale sempre la visita, nelle linee ardite e insieme solenni disegnate dall’architetto Jean Nouvel, tra il 1987 e il 1988). Vi si scoprono davvero mille risvolti, antefatti e conseguenti a questo che è una specie di Cunto de li cunti del nostro Gian Battista Basile che non ebbe altrettanto successo. Invece la fortuna de Le mille e una notte è stata prodigiosa, ma è interessante innanzi tutto la genesi dell’opera, che si colloca originariamente tra la Penisola Arabica e l’India, in un’epoca imprecisata, intorno al IX secolo: ma, in realtà, ebbe ragione Dino Buzzati a definirlo «Un monumento senza età e indiscutibile come le montagne». In realtà esiste una sorta di cornice base, nel quale nel corso dei secoli sono state fatte aggiunte o sottrazioni, ma – questo è quasi stupefacente – in qualche modo tutti concorrendo alla omogeneità del prodotto finale, e al suo fascino straordinario. Narrate in pubblico, subivano variazioni e ulteriori aggiunte, suscitando sempre l’entusiasmo degli ascoltatori come dei lettori: «Quanto sono belle queste parole» commentò uno dei narratori; «Esse sanno catturare i cuori più delle più melodiose delle musiche».
Il libro fu importato in Europa, ai primi del ‘700 grazie a un appassionato dilettante francese, Antoine Galland, bibliotecario a Caen, il quale, avendo ricevuto un’edizione araba in tre tomi, ne fece una versione assai ridotta (peraltro in 12 volumi), con non poche manipolazioni volte a rendere più appetibile il testo al gusto dei suoi connazionali. Di là ha inizio un’altra storia del libro, quella appunto della fortuna in Occidente, che deborda dalla vicenda delle edizioni pur con le sue infinite varianti e genera altre opere, dalla letteratura, al teatro, alle arti figurative, fino alla musica. Shéhérazade, nell’incipiente orientalismo della cultura europea, la quale spesso mescolò Le mille e una notte ad altre opere di origine mesopotamica o indiana, divenne la seducente protagonista di tanta produzione artistica, letteraria, musicale. Entrò nell’immaginario maschile come un inconfessato oggetto di desiderio, ma anche in quello femminile come il soggetto di un riscatto necessario (e possibile): significativo che, per converso, sia scomparso il nome del re crudele, che pure era stato a sua volta riscattato dalla sua perversione femminicidaria, grazie alla bella Shéhérazade. I suoi racconti popolati di geni, donne alate, tappeti volanti, ciclopi e uccelli mai veduti, ma anche di squarci di città favolose di per sé stesse (da Baghdad al Cairo) infiammarono dozzine di artisti, da Gustave Doré, con le incisioni di Simbad il marinaio, uno dei personaggi che ebbe maggior fortuna, insieme ad Aladino e la sua lampada magica. Fino al russo Rimsky Korsakov che alla donna intitolò una sua suite sinfonica da cui fu poi tratto un altrettanto famoso balletto. Per giungere al nostro Pasolini, che, a differenza di numerose altre versioni cinematografiche concentrate su avventure guerresche, firmò una pellicola improntata a un delicato erotismo, Il fiore delle mille e una notte. E si tratta di una storia che non ha fine, forse anche per l’eterno bisogno che abbiamo di sognare.

Repubblica 31.3.13
La vita e nient’altro
di Piergiorgio Odifreddi


Ela risposta che Watson e Crick avevano appena trovato era: “Niente!”. La vita risultava infatti non essere altro che il prodotto di normali processi fisici e chimici, e per spiegarla non era neppure stato necessario inventare una nuova scienza, come qualcuno aveva supposto o temuto: bastava quella che c’era già.
Per metabolizzare una simile risposta, che ci dovrebbe finalmente liberare dalla mitologia che per millenni ha avvolto nelle sue nebbie metafisiche il problema della vita, ci vorranno decenni. Lo dimostrano, per esempio, le parole con cui il presidente Clinton annunciò dalla Casa Bianca, il 26 giugno 2000, il completamento della prima bozza del genoma umano: «Oggi apprendiamo il linguaggio con il quale Dio creò la vita». E lo dimostrano le mille polemiche che accompagnano il Dna in ogni sua manifestazione, dagli Ogm alle staminali. In attesa che l’ora di Dna sostituisca, o almeno si affianchi, all’ora di religione nelle scuole, la storia delle conquiste teoriche di mezzo secolo di biologia molecolare, e il ventaglio delle applicazioni pratiche che la conoscenza del Dna ha reso possibili, si possono leggere in uno dei più bei libri di divulgazione scientifica di questi anni: Dna. Il segreto della vita (Adelphi, 2004), che Watson stesso ha scritto per celebrare il cinquantenario della sua scoperta, e ora ha aggiornato per celebrarne il sessantenario. Watson e Crick ricevettero il Nobel per la medicina nel 1962, e la doppia elica contribuì a portare il Dna alla ribalta. A scanso di equivoci, l’idea che la molecola fosse costituita da un’elica non era affatto nuova: il grande chimico Linus Pauling, vincitore di ben due Nobel (chimica e pace), aveva annunciato proprio nel 1953 un modello a tripla elica, poi risultato sbagliato. Anche Maurice Wilkins era convinto che si trattasse di un’elica, e cercò di determinarla non mediante model-li, come Watson e Crick, ma attraverso la diffrazione a raggi X: le foto del suo laboratorio fornirono una conferma della struttura, e Wilkins condivise con loro il premio Nobel nel 1962.
Ora, come direbbe Thomas Eliot, quella che sembra la fine della storia è invece soltanto un inizio. Ad attendere la biologia molecolare sono infatti i tre grandi progetti della
genomica (comprendere la funzione dei singoli geni e la loro azione congiunta), della
proteomica (sequenziare e studiare le proteine) e della trascrittomica (determinare quali geni siano attivi in una data cellula), con l’obiettivo di capire nei dettagli l’intero meccanismo della vita, dalla prima cellula all’intero organismo, per la maggior gloria dello spirito umano.

Repubblica 31.3.13
Craig Venter. L’uomo che verrà
Domani il Dna lo faremo al computer
Come si fa a non essere ottimisti?”
Oggi disponiamo di moltissimi strumenti per fare progressi
di Elena Dusi


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Ci dia un indizio.
«Non posso dirle di più. Ci siamo sempre chiesti se fosse possibile progettare un essere vivente al computer, partendo da zero. Il Dna architettato dal calcolatore poi andrebbe assemblato in laboratorio. E alla fine non resterebbe che vedere se quel genoma fa funzionare un essere vivente. Una cellula per esempio».
La vita nata dal silicio. E nel frattempo dove è finita Synthia?
«In frigorifero. Per noi rappresentava un esperimento pilota. È stata importante per dimostrare che il metodo funziona, ma era solo un risultato preliminare per passare alla fase successiva».
Immaginiamo di trovare vita su Marte. Si aspetta sia basata sul Dna?
«Tutta la vita, così come la conosciamo, è basata sul Dna. E la composizione chimica dell’universo è simile a quella della Terra. Mi aspetto senz’altro di trovare vita altrove nell’universo. Non credo che sia evoluta come la nostra, perché il percorso dell’uomo ha seguito tappe rapide. Probabilmente sarà solo vita microbica, ma la sua chimica la immagino effettivamente basata sul carbonio e su informazioni contenute e trasmesse
dal Dna».
Quindi sapremmo interpretare una eventuale vita extraterrestre.
«Non sarebbe neanche necessario portare sulla Terra dei campioni di Dna marziano. Organizzare un trasporto simile richiederebbe razzi da miliardi di dollari, noi invece potremmo usare apparecchi per il sequenziamento genetico direttamente su Marte o sul pianeta in questione, per poi spedire le informazioni in forma digitale sulla Terra. A quel punto nulla ci impedirebbe nemmeno di ricreare un marziano in laboratorio».
Sessant’anni fa abbiamo osservato per la prima volta il Dna. Da allora la sua struttura a doppia elica è diventata l’icona della vita. Riusciremmo a immaginare una forma diversa?
«Non credo che una tripla o quadrupla elica funzionerebbero. E penso che la scienza abbia vissuto negli ultimi sessant’anni il periodo più straordinario dell’umanità. Nel 1953, quando Watson e Crick (anche sulla base dei dati di Rosalind Franklin) pubblicarono lo studio sulla doppia elica, l’idea che il Dna fosse il responsabile dell’eredità genetica non si era ancora affermata del tutto. La scoperta era avvenuta una decina di anni prima, ma non tutti gli scienziati erano convinti. Alcuni credevano che le informazioni biologiche passassero attraverso le proteine».
Il Dna è stato usato per immagazzinare libri, musica, immagini. Nel genoma di Synthia avete inserito dei passi dell’Ulisse di Joyce. La molecola della vita potrà essere usata come una biblioteca di Alessandria in miniatura?
«La natura usa il Dna da quattro miliardi di anni per immagazzinare informazioni. Il metodo non ha rivali. Il genoma però ha permesso l’evoluzione delle specie viventi attraverso mutazioni che, occasionalmente, creano un cambiamento in un organismo. Per questo è necessario che il Dna non sia completamente stabile e consenta ogni tanto degli errori. Non vorrei che il codice del mio conto in banca fosse conservato in una molecola simile».
La biologia sintetica, ovvero la capacità di creare Dna artificiale in laboratorio, potrà risolvere alcuni dei problemi dell’umanità?
«Ci consentirà di continuare ad avere acqua pulita, nuove fonti di nutrimento ed energia, vaccini, medicine e metodi per riciclare l’anidride carbonica. Abbiamo iniziato dalle alghe. Lavorando sul loro Dna riusciamo a indurle a produrre proteine, acidi grassi omega tre, antiossidanti più potenti degli attuali. Per affrontare il problema dell’inquinamento, possiamo aumentare la capacità delle alghe di catturare anidride carbonica dall’atmosfera, o spingerle a produrre combustibili puliti. Abbiamo allo studio una nuova biologia che ci permetterà di produrre bottiglie di plastica partendo dall’anidride carbonica anziché dal petrolio».
Non avremo più bisogno di agricoltura, pesca o allevamento?
«Fra dieci anni la popolazione mondiale sarà aumentata di un miliardo di persone. Immaginiamo di aggiungere un’altra Cina al nostro pianeta. Ci accorgeremo che non riusciremo a produrre cibo per tutti senza esaurire le risorse naturali. Già gli oceani sono in sofferenza per l’eccesso di pesca. Dobbiamo inventare altre tecniche per nutrirci, altrimenti cancelleremo tutte le altre forme di vita dal pianeta».
Tre anni fa avete avviato una collaborazione da 600 milioni di dollari con Exxon Mobil per produrre biocarburante dalle alghe. I risultati però non sono stati quelli sperati. Come mai?
«Abbiamo perso tempo a dimostrare quel che poteva essere intuito fin dall’inizio: la quantità di carburante prodotto dalle alghe per via naturale è troppo bassa. La tecnica non diventerà mai economica. Da quando abbiamo iniziato a usare la biologia sintetica per modificare il Dna degli organismi vegetali i passi avanti si stanno vedendo. Siamo riusciti a migliorare l’efficienza tre volte rispetto alla fotosintesi naturale. Abbiamo testato le nostre alghe sia nella serra dell’Istituto sia in alcuni laghetti che abbiamo creato all’aperto».
Una delle applicazioni sta invece rivoluzionando i vaccini.
«Il primo vaccino nato dalla genetica è stato approvato pochi mesi fa in Europa.
Lo ha ottenuto per la Novartis proprio uno scienziato italiano, Rino Rappuoli. Serve a combattere un ceppo di meningite e ci abbiamo lavorato insieme a partire dal 1997. Quell’anno il nostro team completò il sequenziamento del genoma del batterio che causa la malattia, il meningococco B. Usando gli strumenti della bioinformatica, individuammo quali frammenti del genoma sono meno soggetti alla pressione evolutiva. Essendo porzioni di Dna stabili, possono fornire un bersaglio fisso per il farmaco. Rappuoli e i suoi ricercatori hanno creato e testato un vaccino capace di colpire questi bersagli. Per la prima volta nella storia un vaccino è stato prodotto partendo non dal microrganismo responsabile della malattia, ma solo dalla sequenza del suo Dna. Stiamo applicando la stessa tecnica contro l’influenza. Siamo in grado di produrre un agente immunizzante in meno di dodici ore, mentre con il metodo tradizionale occorrono alcuni mesi».
Allora non è vero che la genetica non è utile alla vita quotidiana.
«Questo dimostra però quanto il tempo sia importante. I passi avanti non avvengono nel giro di una notte. Sono passati quindici anni da quando abbiamo sequenziato il meningococco all’introduzione del farmaco in Europa».
Lei crede che l’eredità genetica conti di più rispetto all’ambiente?
«Lo credo per una cellula, non sono convinto che sia così anche per un essere umano».
Tredici anni fa, quando fu completato il sequenziamento del Dna umano, ci venne promessa una cura per molte malattie. Perché non è avvenuto?
«Alcuni scienziati hanno fatto troppe promesse a quel tempo».
Sequenziati i geni dell’uomo, ci avete detto che c’era da capire il ruolo del Dna non racchiuso nei geni. Poi avete studiato cosa accende e spegne i geni. Ora dite che anche il Dna dei batteri che vivono in simbiosi con noi gioca un ruolo importante per la salute. Non finirete mai di spostare l’asticella più in alto? Non si rischia così di illudere chi ha bisogno di cure?
«Proviamo a pensare ai numeri della vita umana. Cento trilioni di cellule, duecento trilioni di batteri. Possiamo sperare un giorno di reincarnarci in un’ameba o in un batterio, e in questo caso la vita sarebbe più semplice. Ma non credo che l’idea ci tenterebbe. Svelare la complessità è il mestiere della scienza. Se pensiamo ai progressi degli ultimi cento anni c’è da restare stupefatti. Un secolo fa medicina e biologia quasi non esistevano. Oggi più conosciamo, più disponiamo di strumenti per fare progressi. Come si fa a non essere ottimisti?».

Repubblica 31.3.13
Una questione privata
La moglie morta, il figlio disabile, la figlia violentata, il ragazzo paraplegico
Ecco perché il dolore, anche se ha grande successo in libreria, non si può chiamare letteratura
di Massimo Recalcati


Tra la vita e il libro esiste un salto, una discontinuità che nessuna scrittura è in grado di assorbire Un libro non può mai essere una semplice trascrizione Leggere le confessioni di un autore è spiarne le turbolenze più intime in un movimento di empatia sottile e di voyeurismo Accade anche per i fatti di cronaca nera

Lo psicoanalista di mestiere ascolta storie, narrazioni singolari della vita più intima degli esseri umani. Ascolta senza arrogarsi mai il diritto di giudicare o di misurare le vite che si raccontano. Dal divano dell’analista sorge uno sforzo sincero di poesia sebbene la sola regola che l’analista comunica al paziente sia quella di dire tutto ciò che passa per la mente senza operare censure logiche o morali. I pazienti che così si raccontano non sono — almeno per ciò che dicono — poeti o scrittori. Essi parlano per provare a dire la loro vita e le sue ferite.
Anche nella poesia e nella letteratura “vera” — non quella che viene fatta dal divano — si pone il problema del rapporto tra il vissuto e la parola. Per un verso è facile constatare come le vicissitudini biografiche dell’autore alimentino da sempre l’arte della scrittura. Si potrebbe addirittura affermare che ogni scrittore non faccia altro che scrivere e riscrivere ininterrottamente la sua biografia. La mano dello scrittore è sempre una mano dove si concentra un’intera vita. Esistono, tuttavia, opere che più di altre stringono il nodo tra vissuto biografico e parola. La scrittura assume in questi casi il valore di una vera e propria testimonianza. Abbiamo esempi illustri e sublimi: pensiamo alle Confessioni di S. Agostino, al Sergente nella nevedi Mario Rigoni Stern, a Se questo è un uomo di Primo Levi, ma anche a L’interpretazione dei sogni di Freud dove addirittura i sogni più intimi del suo autore diventano materia viva esposta senza veli al lettore e oggetto di elucubrazione scientifica.
Da qualche tempo assistiamo alla tendenza diffusa a ridurre l’esercizio della scrittura a quello della compilazione di un diario privato o, se si preferisce, a trasformare il proprio diario privato in un libro. Sorge allora una domanda: è sufficiente la biografia — l’intimità privata, il tormento e il dolore, il trauma, l’eros e la passione di una vita particolare — a giustificare l’esistenza di un libro? È evidente come non sia sufficiente parlare del proprio dolore per generare un’opera degna di questo nome, come ben sanno i pazienti impegnati nelle loro analisi.
Una vita ricca, appassionata, rocambolesca o tragica, non costituisce in sé un libro. Tra la vita e il libro c’è un salto, una discontinuità che nessuna scrittura è in grado di assorbire. Un libro non può mai essere la semplice trascrizione immediata della vicende della vita anche quando il suo intento è ispirato da un criterio massimamente “realistico”. Non può mai essere la trascrizione alfabetica del vissuto pre-linguistico della vita del suo autore come se il magma lavico dell’esperienza potesse travasarsi direttamente sul foglio (sulla tela, su di una partitura musicale o altro) saltando il medium inaggirabile della parola.
Sappiamo come questo trasferimento della vita sulla pagina scritta non possa avvenire se non attraverso l’imbuto stretto del linguaggio. Questo è il punto. Non a caso quando i surrealisti invocavano Freud come loro padre spirituale teorizzando la scrittura automatica come trascrizione senza filtri intellettuali dell’inconscio sulla pagina bianca, il padre della psicoanalisi ricordava loro la differenza che esiste tra un sogno e un’opera d’arte. Se entrambe possono essere considerate delle produzioni simboliche che scaturiscono dal vissuto più profondo del soggetto, un’opera d’arte, diversamente da un sogno, esige la mediazione calcolata del linguaggio, l’esistenza di una forma, un’attività di sublimazione che sia in grado di trasformare la dimensione informe del vissuto nel miracolo di un’opera.
Se la biografia alimenta certamente l’opera, solo la mediazione del linguaggio è in grado di elevare il suo materiale grezzo e privatissimo in una nuova organizzazione testuale.
La propria vita privata non è mai un libro così come un sogno non è mai un quadro. Vivere non è scrivere, così come sognare non è dipingere o scolpire. Basta soffrire per essere un poeta? Basta vivere un grave lutto o una grave malattia per essere uno scrittore? O, ancora, più semplicemente, basta scrivere per generare scrittura? E quando il diario privato di un racconto biografico assume la dignità di un’opera? A mio giudizio solo quando la scrittura ha saputo trasfigurare il vissuto passionale più privato in una forma che attribuisce a quella esperienza singolare un valore universale.
Il problema non è sterilmente intellettualistico o formalistico. Ci può essere potenza della forma — miracolo della forma — anche nella poesia di un adolescente, ma è certo che l’esistenza di questa potenza non potrà mai essere assicurata dal pathos da cui sgorga. Altrimenti il rischio è che la nota più intima della biografia si dia in pasto al lettore seguendo uno schema fatalmente narcisistico che alimenta nei fruitori fantasmi voyeuristici. Accade anche per i fatti di cronaca nera o per i grandi disastri. Cosa accomuna e cosa mantiene differenziati il turismo voyeuristico dei luoghi divenuti tristemente celebri dai picchi di vendita che riscuotono i romanzi che espongono senza veli le vicende più intime e drammatiche del loro autore? Farsi fotografare vicino al rudere abbandonato della Costa crociera è entrare illusoriamente dentro la scena dell’evento catastrofico dal punto di vista di chi ne è rimasto illeso e può paradossalmente godere dell’idea di esserne stato risparmiato gioiendo della cattiva sorte toccata ad altri. In questo senso si tratta di un esorcismo collettivo della morte che esige delle vittime sacrificali.
Leggere le confessioni biografiche di un autore è spiare le turbolenze più intime di chi scrive in un movimento di empatia sottile. L’umano è profondamente attratto dal mistero della verità che si cela sotto la maschera. Questa attrazione è alla base di ogni autentica ricerca, ma è anche l’espressione di una certa sete di vendetta nei confronti della perfezione dei nostri modelli che, proprio in quanto ideali, sono sempre oggetti non solo di ammirazione ma anche di odio invidioso. Per questa ragione il crollo, come si dice in questi casi, di un mito, la caduta dei potenti nella polvere, non genera solo sconforto nei loro ammiratori, ma si accompagna anche, in modo ambiva-lente, ad un sottile senso inconscio di rivincita. È la brace antica del rapporto del bambino con il padre che si riaccende: sotto la maschera del padre- eroe si cela sempre quella di un povero cristo. Lo smascheramento dell’ideale che si rivela un impostore porta sempre con sé una quota maligna di godimento.

SEGUONO GLI SPOGLI DAL CORSERA E DA LA LETTURA - L'ALLEGATO DOMENICALE - DI IERI, NON DISPONIBILI SULLA RETE FINO A QUESTA MATTINA:

Corriere 31.3.13
Tregua angosciosa
di Ernesto Galli della Loggia


Diranno i prossimi giorni quale esito avrà l'estremo tentativo del capo dello Stato di dare un governo al Paese attraverso la complessa e irrituale procedura da lui illustrata ieri. La cui riuscita dipenderà necessariamente anch'essa, peraltro, dalla possibilità di costituire quella maggioranza trasversale che finora non si è riusciti a costituire. E che nulla lascia credere potrà mai essere messa in piedi tra una settimana.
In realtà sulle spalle e sulle decisioni del presidente Napolitano si stanno scaricando in modo sempre più pesante le contraddizioni senza uscita in cui il recente risultato elettorale ha posto i partiti tradizionali. Un risultato che ha accentuato in modo parossistico non solo e non tanto i loro reciproci e già assai aspri conflitti, ma che — mostrando la sostanziale fragilità di tutte le formazioni politiche — ha ridotto al massimo le possibilità di manovra per ciascuna di loro. Le ha legate in un viluppo inestricabile di timori per il proprio futuro, di pregiudiziali, di scelte ritenute obbligate, di veti reciproci. E così, pur in una situazione in cui nessuna di esse aveva la maggioranza, e quindi per formarne una il compromesso avrebbe dovuto apparire inevitabile, in realtà proprio ogni spazio di compromesso è venuto a mancare. A parte, rinchiuso in un isolamento più che splendido insolente, il Movimento 5 Stelle, convinto che tale isolamento fosse pegno di chissà quali successi futuri e non già, come invece è di giorno in giorno più probabile, il preannuncio di un memorabile flop politico.
In questo scenario tormentatissimo il presidente Napolitano per giorni e giorni ha esercitato con equilibrio ammirevole un ruolo di moderazione, di consiglio, anche di ammonimento. Inutilmente. In specie contro l'inerzia autoreferenziale e a tratti inspiegabilmente autocompiaciuta dell'apparato del Partito democratico, ogni sforzo si è infranto. Per non offendere la suscettibilità del suo segretario ha accettato perfino di non esigerne la formale rinuncia all'incarico, dopo che per ben una settimana egli aveva inutilmente cercato una maggioranza che non c'era. E così, di consultazione in consultazione, di colloquio in colloquio, la crisi si è trascinata senza sbocchi fino ad oggi: sotto gli occhi sempre più perplessi dell'opinione pubblica internazionale e dei mercati, mentre la tenuta economica del Paese dava segni continui di cedimento, la discesa dei redditi si aggravava, l'inquietudine circa il futuro si stava trasformando in un'incipiente disperazione.
Verremmo meno a un dovere di sincerità verso i lettori e verso un uomo dell'onesta intellettuale di Giorgio Napolitano se dicessimo che la decisione presa ieri dal presidente della Repubblica ci lascia pienamente convinti. Ci sono troppe cose che non ci appaiono chiare circa i lavori e lo scopo delle due commissioni di saggi istituite. A cominciare da chi dovrà utilizzarne i risultati, e come e quando; e se dovrà trattarsi di una maggioranza parlamentare e di un governo futuri. A proposito dei quali, però, l'orizzonte appare oscuro oggi come lo era ieri. A che pro dunque quell'areopago di valentuomini?
Una cosa invece sentiamo chiarissima: l'Italia comincia ad avere paura, sì paura. Nel marasma generale essa avverte tuttavia che la Presidenza della Repubblica è rimasta ormai la sola sede possibile di identificazione della compagine nazionale, la sola fonte autorevole di decisioni libere e disinteressate per quanto possono esserlo decisioni umane. Tutto ciò si deve a Giorgio Napolitano. Possiamo allora chiedere sottovoce: perché rinunciare a un simile presidente?

Corriere 31.3.13
Soluzione eccentrica scenario èossibile
di Michele Ainis


Diceva Craxi: quando un problema non ha soluzioni, si nomina una bella commissione. Siccome il nostro problema è doppio (non c'è accordo sul governo, né sul nuovo capo dello Stato), ieri Napolitano di commissioni ne ha nominate due. Una trovata eccentrica, senza precedenti. Ma anche un po' paradossale: dopo un giro estenuante di consultazioni, ne usciamo battezzando un organismo consultivo. Dove per giunta le parti si rovesciano, come in una pièce pirandelliana.
Perché i partiti da consultati si trasformeranno in consultanti, e perché il loro consulente avrà casa al Quirinale, sotto lo stesso tetto del Grande Consultatore.
Eppure il pasticcio ci difende da un bisticcio, quello ingaggiato da tre minoranze armate. Che alternative c'erano? Primo: le dimissioni di Napolitano. Avrebbero accorciato i tempi per eleggere il suo successore, ma intanto avremmo perso l'unico timone istituzionale che ci resta, consegnando all'esterno l'immagine di un Paese spaesato. Secondo: un governo tecnico. Peccato che un governo così reclami il sostegno del capo dello Stato, specie quando muove i primi passi; e Napolitano è ai suoi ultimi passi. Peccato che i partiti, chi più chi meno, avessero già fatto sapere di non volerne sapere. Peccato infine che tale soluzione, dopo il suo ineluttabile naufragio, ci avrebbe fatto galleggiare in mare aperto. Senza carte di riserva sul governo, senza un presidente di riserva fino a maggio inoltrato.
Ecco allora a cosa serve l'espediente: a prolungare la fase di decantazione, sperando che i saggi inducano i partiti alla saggezza. D'altronde il presidente è come un'ostetrica: può far nascere i governi, ma solo se c'è una gravidanza. Invece fin qui la politica è stata capace unicamente di gravidanze isteriche. Tuttavia il campo resta libero, giacché Napolitano non ha mai conferito un incarico pieno. Al Quirinale rimane in sella un presidente, anziché un supplente. E a palazzo Chigi c'è pur sempre un governo, che le Camere non hanno mai sfiduciato.
Sicché prendiamolo sul serio, Napolitano. Ma anche Monti. E chiediamo a quest'ultimo d'aprire un paracadute, mentre la crisi ci spinge giù nel precipizio. Sappiamo che presto o tardi si tornerà a votare. Sappiamo altresì che a rivotare con la legge vigente rischiamo un altro stallo. Però una soluzione c'è: abrogare il Porcellum per decreto. Rimettendo in circolo la vecchia legge elettorale, perché l'esecutivo non può sovrapporre la sua scelta alla non scelta dei partiti, può solo riesumare la loro scelta precedente. Dunque il Mattarellum, ossia il sistema che nel 2011 raccolse un milione e 200 mila firme per un referendum mai votato.
È la soluzione che avevamo proposto l'anno scorso, per reagire a una situazione disperante. Monti la giudicò fattibile, ma i partiti risposero all'unisono: «Ghe pensi mì». S'è visto. E allora lasciamoli pensare, e domandiamo al governo d'agire.

Corriere 31.3.13
Bersani: il mio tentativo non è morto Pd al bivio nella corsa al Quirinale
O un patto con i Cinque Stelle su Prodi o un nome gradito al Pdl
di Maria Teresa Meli


ROMA — Poteva esplodere subito, il Pd, posto alla scelta del governo. La deflagrazione ora è rinviata ed è un altro il motivo per cui nel Partito democratico si accenderà la miccia. Ora che Napolitano ha preso tempo è l'elezione del presidente della Repubblica il primo punto all'ordine del giorno nell'agenda dei partiti, Pd incluso, ovviamente.
Il segretario ha parlato con il capo dello Stato, ha accolto la sua proposta di cui non sapeva niente perché non poteva fare altrimenti (raccontano i bene informati che Massimo D'Alema, invece, fosse stato allertato e consultato in tempo), tant'è vero che ci tiene a ribadire: «Noi non abbiamo fornito nessun nome, anche quelli di esponenti del Pd non sono stati scelti da noi ma dalla presidenza della Repubblica».
Insomma, Bersani non capisce, ma si adegua, con una clausola: «Il mio tentativo non è morto. Non perché io sia un irresponsabile come va dicendo in giro Berlusconi: il Cavaliere sa bene che un governo tra noi e il Pdl farebbe scoppiare la rivoluzione in Italia, perciò rifiutarlo è da responsabili. Tra l'altro, nonostante quello che lui ha detto al Quirinale, se io gli avessi dato la presidenza della Repubblica lui avrebbe detto di sì al mio governo. E allora chi è l'irresponsabile?».
Il leader del Pd ha capito che il Cavaliere punta a farlo passare come la causa dell'attuale situazione. Però Bersani non ci sta: «Io sono stato sin troppo responsabile. Tutti sanno che il governo a guida Pd era l'unico in grado di governare questo Paese. E io non ho mai posto pregiudiziali personali, ho sempre solo pensato e detto che un governo politico poteva evitare il collasso della democrazia in Italia e lo penso ancora».
Già, lo pensa ancora ma mette la sordina su ogni polemica perché sa qual è il gioco degli avversari: «Berlusconi mi vuole far passare come quello che manda l'Italia alle elezioni in queste condizioni. Proprio me che sull'altare della responsabilità mi sono sacrificato tante e troppe volte». È una partita ad altissimo rischio quella del Cavaliere in cui Bersani rifiuta di entrare e infatti lascia cadere ufficialmente nel vuoto quella frase che Grillo scrive nel suo blog: «Prodi farebbe scomparire Berlusconi dalle carte geografiche». Un'apertura enorme. Che il leader del Pd fa finta di non cogliere per continuare a ripetere all'infinito lo stesso mantra: «Noi proveremo a eleggere il capo dello Stato con i due terzi del Parlamento». Tradotto dal politichese all'italiano: siamo pronti a un compromesso con il Pdl sul Colle. Ma poi appena le telecamere scompaiono e i taccuini vengono riposti nelle tasche dei cronisti, Bersani con i suoi aggiunge: «Sia chiaro che se il centrodestra pensa di fare scherzetti noi ci eleggiamo chi vogliamo senza di loro». Il che è vero fino a un certo punto perché anche su questo terreno il Pd è destinato a spaccarsi. Tra chi caldeggia l'accordo con il Pdl e Scelta civica, e quindi vorrebbe vedere al Quirinale Napolitano stesso, Amato, Marini o Monti (a questa scuola appartengono Letta e Franceschini) e chi invece punta a un aggancio con il «Movimento 5 stelle» e per questo non disdegna l'ipotesi Prodi (tra questi ci sono i «giovani turchi»).
Bersani sta in mezzo ed è amareggiato perché sa bene che si è già aperta la fase congressuale. Secondo lo statuto del Pd, come ricorda il veltroniano Vassallo, entro il 24 aprile la presidente del Pd Rosy Bindi dovrà indire l'elezione del nuovo segretario. Renzi, che gioca in casa ad «Amici» fa finta di niente: l'altro ieri ha parlato con Napolitano, ieri ha discusso con Errani, ma continua a tenersi defilato. E non partecipa nemmeno al tentativo di convincere Bersani a una «gestione collegiale» di qui al Congresso, come ieri ha proposto Fioroni e come Franceschini aveva già ipotizzato qualche mese fa. Sì, perché c'è chi pensa di mettere un informale comitato di reggenza attorno al segretario, il quale, anche ieri, ha negato di avere in animo di dimettersi. Lo ha fatto con sdegno, pur sapendo che ormai nella partita politica che è costretto a giocare dovrà guardarsi dagli amici del Pd piuttosto che dai nemici esterni.

Corriere 31.3.13
«È un pasticcio istituzionale: così si instaura il presidenzialismo»
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Se durerà solo tre giorni diremo: evviva l'originalità. Ma se andremo alle elezioni del nuovo presidente con questo ibrido istituzionale rischieremo grosso». Paolo Cirino Pomicino, da politico navigato della prima Repubblica, mette in guardia sulla soluzione escogitata dal capo dello Stato per tentare di uscire dallo stallo istituzionale.
Cosa teme?
«Se noi sommiamo un pasticcio istituzionale a una guerra politica, il Paese rischia di esplodere».
In realtà il presidente ha solo istituito due commissioni di saggi per formulare proposte utili.
«Sì. Ma questo prefigura un presidenzialismo di fatto alla francese. So, per certo, che ci ha pensato molto a lungo. E riconosco la bontà d'intenti. Ma così uniamo un'altra anomalia alla situazione di impazzimento generale».
Quale?
«Un governo che resta in carica malgrado non abbia la fiducia né del vecchio né del nuovo Parlamento».
La sfiducia non è mai stata votata.
«Ma c'è stato lo scioglimento anticipato delle Camere. E il governo sfiduciato diventa semplice esecutore delle spinte a convergere del presidente e dei suoi saggi. Un'anomalia che deve durare qualche giorno».
Altrimenti?
«Se il presidente che fa l'esploratore allunga questa fase, finisce per fare anche il governo. E se arriva al 15 aprile intercetta le elezioni presidenziali e il pasticcio si fa ancora più grosso».
L'alternativa di Napolitano erano le dimissioni?
«Sarebbe la soluzione migliore. Il nuovo presidente avrebbe la legittimazione che Napolitano, in scadenza, non ha più. Magari si potrebbe pensare a una sua rielezione, come soluzione temporanea nei fatti: lui ha già detto di voler lasciare».
Non crede si sia voluta evitare una nuova crisi dei mercati?
«Certo. Ma non esageriamo a compiacere i mercati. Abbiamo già attraversato crisi simili».
A quando si riferisce?
«Nel 1976 dovemmo dare l'oro della Banca d'Italia, come impegno alla Bundesbank, per ottenere un prestito per pagare gli stipendi mentre il terrorismo lasciava ogni giorno morti e feriti sulle strade. Ma, in piena guerra fredda, Pci e Dc trovarono un'intesa».
Non è un po' lontano come riferimento?
«Non voglio passare per un nostalgico. Dico che quelle forze popolari non potevano non trovare un'intesa per non mandare il Paese alla malora. È accaduto anche 10 anni fa in Germania quando la crisi rischiava di incancrenirsi e hanno fatto la Grande Coalizione. Anche la Grecia sta tentando di uscirne con la ricerca di un minimo comun denominatore».
È un ultimo appello al Pd per allearsi con il Pdl?
«Ma certo. Non è che se c'è uno impazzito debbano impazzire tutti. Bersani avrebbe dovuto fare ciò che fece Moro: un governo monocolore Dc con accordo per l'astensione di Berlinguer».
Se la leadership pdl fosse stata diversa?
«Se mio nonno avesse le ruote... Non c'è dubbio che la presenza di Berlusconi ha complicato l'accordo. Ma il dato di realtà è questo. Il Pd ora rischia di dover dare la fiducia a una personalità individuata dal presidente, che per formare un governo dovrà avere la fiducia del Pdl. Quindi gli concederà ciò che non ha concesso al suo segretario Bersani. Non è ora di smetterla con questa sorta di cupio dissolvi?».

Corriere 31.3.13
Muti: «Basta con l'Italia del turpiloquio Grillo è come Iago, soltanto un critico»
«Si invoca il 100% di voti: un'avventura che abbiamo conosciuto, finita malissimo»
intervista di Aldo Cazzullo


«Io sono profondamente grato al mio Paese. All'Italia devo tutto. Per questo mi fa male vederla così. E avverto la necessità di alzare la voce, per segnalare qualche pericolo e qualche opportunità».
Riccardo Muti, dopo il successo del concerto verdiano di Roma e prima di partire per Chicago, sta passando qualche giorno in montagna. A chiedergli se abbia sciato, sorride. «Io non so sciare. I miei figli si divertono molto, il mio nipotino di 5 anni sta imparando. Ma io appartengo a una generazione di italiani per cui sciare non entrava nel novero delle cose possibili. Se ripenso alla mia giovinezza, nella Puglia degli anni 50, mi sembra di essere vissuto secoli addietro. Non c'era la tv; anche quando nacque la Rai, nessuno a Molfetta aveva il televisore, per vedere Lascia e raddoppia si andava al cinema. Ma era un Paese laborioso, in senso latino: "labor". Vigoroso, forte, disponibile alla fatica, al sacrificio, pieno di speranza».
«La mia era una famiglia numerosa. Non eravamo poveri, papà era medico, ma dovette lavorare molto per farci studiare. Alle elementari il maestro era mio nonno, direttore della scuola Alessandro Manzoni: inflessibile, rigoroso, severo; un esempio di decoro, dignità, lealtà. Davanti alla villa comunale, dove portavamo le ragazze a passeggiare, c'era l'orologio con la scritta: "Mortales vos esse docet quae labitur hora"; in sostanza, ricordati che devi crepare. La scritta è sempre lì, ma nessuno ci fa più caso. Per noi era davvero un richiamo etico, ci ricordava il dovere di comportarci in modo civile, anche con le donne. Al liceo, dove aveva studiato Salvemini, le nostre serate erano il seguito delle lezioni: le passavamo a conversare con gli insegnanti di letteratura, latino, filosofia. Mio fratello maggiore è diventato neuropsichiatra, il secondo ha fatto l'università navale di Napoli, i gemelli nati dopo di me sono ingegneri elettronici. Mio padre volle che ognuno avesse una cultura musicale, a ingentilire una formazione così rigida; anche se il massimo che ci si poteva attendere, nella provincia del Sud, era diventare direttore della banda del paese. A 7 anni mi misero in mano un violino, che ovviamente ho detestato con tutte le mie forze; anche perché avrei voluto un fucile di legno con il tappo, all'epoca il più bel regalo possibile. Papà si era già arreso: "Riccardo non è portato per la musica". Fu mia madre a dire: "Diamogli ancora un mese". Un mese proficuo. Decisivo è stato poi l'incontro con Nino Rota, il mio padre musicale, cui sono rimasto vicino sino alla morte. Però la cosa più importante è stata crescere in un'Italia piccola ma seria. Un Paese dalle radici poderose. Per questo oggi non ho difficoltà a stare accanto all'uomo più semplice della terra come alla regina Elisabetta. Parte del mio percorso si è svolta all'estero, ma io mi sento profondamente italiano, ho dato ai figli i nomi dei nostri grandi santi — Francesco, Chiara, Domenico —, e mi ribello nel vedere il mio Paese ridotto così».
«L'Italia di oggi non sa più soffrire e non sa più sorridere. Ha smarrito non solo il senso degli enormi sacrifici dei padri, ma anche la loro gioia di vivere. La Spagna è messa peggio di noi, però ha ancora vitalità, joie de vivre, quell'attitudine che un tempo ci rendeva simpatici al mondo e ora abbiamo perduto. A Chicago vedo tanti ragazzi italiani, gente in gamba, che è dovuta fuggire. Non voglio fare il "laudator temporis acti", ho sempre detestato chi diceva: "Ai miei tempi". Ma questo è un Paese malato, molto diverso da quello che sognavamo da ragazzi. Persino i profumi sembrano spariti: i profumi che uscivano dalle finestre d'estate, quando nelle case ancora si cucinava, e si rideva. Ora viviamo in una società grigia. L'Italia sembra aver tirato i remi in barca. Non crede più nel futuro e in se stessa. Non si fida più di nessuno; e con qualche motivo».
«Non voglio dare giudizi sui politici; ma il livello di questi anni è sconfortante. Per mestiere mi capita di seguire dieci linee musicali, che si intersecano e si contrappuntano, ma tendono all'armonia. Invece se metti anche solo tre politici in tv subito si gridano addosso, e non si capisce più nulla. Io credo nella dialettica, nel confronto, nel rispetto. È evidente che per non precipitare verso il voto anticipato occorre fare un governo di larghe intese, anche se, più dell'aggettivo, mi interessa il sostantivo: intese. Una soluzione non populista, in cui i migliori esponenti delle diverse culture politiche si applicano ai problemi del Paese, si occupano delle famiglie che già alla seconda settimana del mese sono in difficoltà. Ricordo Berlinguer e Almirante: ideologie sbagliate; ma personaggi strepitosi. I tagli alla cultura, al cinema, ai teatri, alle orchestre, sono vergognosi, ma non mi stupiscono: ai concerti, i politici non vengono mai. Quelli davvero interessati li conti sulle dita di una mano: come Ciampi e Napolitano, che vedevo a Salisburgo anche prima che diventasse capo dello Stato. A quasi tutti gli altri, della musica e della cultura non importa nulla».
E Grillo? «Mi ricorda Iago, che nell'Otello dice: "Io non sono che un critico...". Criticare senza dare soluzioni credibili possono farlo tutti. Se dirigessi un'orchestra dicendo solo quello che non va, non risolverei nulla. Gli italiani si sono stancati della vecchia politica, ma ora hanno bisogno di vedere una luce in fondo al tunnel, e di qualcuno che li guidi verso la luce. Invece sento invocare dittature, "il 100% dei voti": un'avventura che abbiamo già conosciuto, finita malissimo. E poi questo turpiloquio mi fa orrore. Un segno di abbrutimento». E gli artisti saliti sul carro di Grillo? «Ognuno è libero di seguire quel che ritiene giusto. Faccio notare però che noi abbiamo una idea un po' distorta, per cui si "fa" l'artista, mentre nella realtà si "è" artista. Essere artista non significa fare lo scapigliato, un po' folle, con la barba e i baffi lunghi e le parole in libertà, sempre ad agitare le mani con violenza e a insultare gli interlocutori. Non pretendo che tutti debbano essere come Bach, solennemente seduto al suo organo a comporre opere da consegnare a Dio e all'umanità, concependo nelle pause un sacco di figli. Un modello di artista per me è Toscanini, uomo di grande semplicità, eleganza, coscienza civile. O come Verdi. Uomini per cui la forma è contenuto».
A Verdi, Muti ha dedicato un libro e parte della stagione dell'Opera di Roma, con lavori considerati minori che però esprimono l'identità italiana, da Genova — con il Simon Boccanegra — a Venezia, con I due Foscari. «Il ritorno del sentimento nazionale può essere la premessa per la rinascita. Negli anni 70 l'inno, il tricolore, la patria erano parole sospette. Io ci credevo già allora, ho sempre fatto l'inno, e soffrii quando si tentò di creare una polemica con Ciampi: dirigevo alla Scala il Fidelio, che considero una sorta di inno del mondo, per questo rinunciai a Mameli; la cosa non fu spiegata al presidente che ci rimase male, i media avevano già allestito il rogo, per fortuna ci chiarimmo subito». Alla guida della Scala, Muti ha passato 19 anni. E quella di oggi? «Il punto non è privilegiare Wagner rispetto a Verdi: due geni che hanno avuto il solo torto di nascere nello stesso anno. Il punto è che la Scala rappresenta storicamente la nostra nazione. È la voce dell'Italia all'estero. La nostra anima. Se a un teatro togli l'anima, gli hai tolto tutto. Sarebbe un tradimento. È ovvio che la Scala può mettere in scena i grandi musicisti austriaci e tedeschi. Ma dev'essere consapevole che a Vienna, a Berlino, a Bayreuth sono attrezzati — per tradizione, lingua, cultura — a farlo meglio di noi. Mentre se perdiamo la capacità di mettere in scena meglio degli altri Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti, Rossini, allora il danno sarebbe gravissimo, perché quella è la nostra cultura, siamo noi. In Cina ogni anno aprono teatri, conservatori, orchestre che la studiano, e se non teniamo il loro passo ne saremo sommersi. Questa era la linea che prima di me aveva seguito il mio predecessore Abbado». Ma con Abbado non siete rivali? «Queste sono cretinate messe in giro da chi ha sempre bisogno di rappresentare gli italiani divisi, come Coppi e Bartali. Ma Coppi e Bartali facevano la stessa corsa. Abbado e io no, e per fortuna, altrimenti ci renderemmo ridicoli, visto che non abbiamo più vent'anni. Apparteniamo a generazioni diverse, ma abbiamo sempre avuto rapporti cordiali e ci stimiamo, perché condividiamo lo stesso amore per il nostro Paese e per quel linguaggio universale che la musica italiana parla a tutti gli uomini».

Corriere 31.3.13
Al 3% delle famiglie più ricche un quarto dei patrimoni italiani
I conti di Varese pari a Molise, Abruzzo e Calabria insieme
di Roberto Bagnoli


ROMA — In Italia ci sono quasi ottomila famiglie (7.896) che hanno ognuna un patrimonio finanziario di oltre 10 milioni di euro per un totale di 134 miliardi di euro. E ben 164 mila e 781 quelle che posso vantare un tesoretto tra 1 e 5 milioni di euro. In tutto le famiglie che valgono oltre 500 mila euro ciascuna sono esattamente 606 mila e «controllano» 897 miliardi di euro, più della metà del Prodotto interno lordo (Pil). Le cifre complessive della ricchezza famigliare (di tutte non solo quelle con 500 mila euro) sono ovviamente più ampie: si tratta di 22 milioni di famiglie che si spartiscono una torta finanziaria (tra titoli, conti correnti, azioni) di 3.500 miliardi di euro. Ma il «cuore», la ricchezza dei ricchi, rivela che il 3% delle famiglie possiede circa un quarto di tutto il patrimonio finanziario (esclusi gli immobili) in circolazione.
A livello territoriale le sorprese maggiori. Solo a Brescia, capitale del tondino, ci sono 17 mila famiglie ricche (sempre sopra i 500 mila euro) con un patrimonio complessivo di 25 miliardi di euro, più dell'intera Liguria dove le famiglie ricche sono 19 mila e si fermano a 24 miliardi di euro. Così solo a Varese ci sono 11 mila famiglie con un patrimonio da 18 miliardi di euro, pari a quello accumulato da tutte le famiglie benestanti di tre regioni come l'Abruzzo, il Molise e la Calabria. E ancora: le 4.900 famiglie della provincia di Lecco hanno una ricchezza pari a quella di tutta la Sardegna. Naturalmente Milano fa la parte del leone con 71 mila famiglie che hanno accumulato beni finanziari per 148 miliardi di euro. E con il record di 2 milioni di euro in media per famiglia.
Ecco solo alcune delle inedite curiosità rivelate in un rapporto sul mercato del risparmio per imprese e famiglie realizzato da Prometeia per conto dell'associazione italiana del private banking (Aipb). Una delle sintesi che colpisce di più, come prova della grande disuguaglianza, è l'aumento della ricchezza anche nel corso del 2012 quando il Pil del Paese è sceso del 2,4%. Il patrimonio complessivo delle famiglie ricche (ripetiamo sono quelle con oltre 500 mila euro tra contanti e titoli vari) è infatti aumentato di circa il 2% anche se la crescita è quasi tutta imputabile alla rendita mentre la raccolta è scesa. «È la prima volta negli ultimi 4 anni che questo accade - commenta uno dei ricercatori Fabio Girotto di Prometeia - e questo si spiega con la decisione di molti imprenditori di mettere nelle aziende in crisi una parte delle risorse finanziarie».
I grandi patrimoni sono quasi tutti concentrati al Nord, un fenomeno che si è accentuato negli ultimi due anni. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna da soli detengono il 68% del totale del mercato. Ma dove mettono tutti questi soldi i fortunati Paperoni italiani? Secondo un sondaggio Aipb il 30% circa finisce nella raccolta amministrata (di cui il 15% in Titoli di Stato), il 21% in risparmio gestito, il 20% in prodotti assicurativi e fondi pensione, 15% in obbligazioni bancarie e 14% in contanti. La crisi in qualche modo sta cambiando anche i comportamenti dei facoltosi imprenditori del Nord. «I prodotti assicurativi e nei fondi pensione, quelli considerati di "protezione" - spiega Girotto - stanno diventando sempre più prevalenti con una crescita del 15%».
Tutte queste cifre non tengono naturalmente conto dell'evasione, delle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali. Nel 2008, per fare un esempio, cioè l'anno successivo all'ultimo scudo fiscale il private è cresciuto di oltre 30 miliardi di euro.

Corriere 31.3.13
Castellitto psichiatra in tv indaga i segreti dell'anima
Arriva «In treatment». Il regista Costanzo: ci riguarda tutti
di Laura Martellini


Ad arrovellarsi attorno alla psiche umana era abituato, In memoria di me, La solitudine dei numeri primi. Adesso, però, è diverso. Saverio Costanzo torna a scandagliare l'anima e i suoi labirinti, ma per Sky, e in forma di serial televisivo. Da domani, dal lunedì al venerdì alle 20.30 su Sky Cinema 1 HD (in contemporanea su Sky Cinema +24 HD; i cinque episodi di ogni settimana disponibili ogni lunedì in anteprima su Sky on demand, e nei prossimi mesi in chiaro su La7) partiranno le 35 puntate di In treatment. 5 storie. 5 segreti: la versione italiana della serie americana siglata HBO, premiata con due Emmy e un Golden Globe. Come quella, ispirata al format israeliano ideato da Hagai Levi e ripreso in 13 Paesi.
Due in una stanza, nessuna scena in esterno, sguardi concentrati, lunghi silenzi, enfasi su ogni frase: non c'è azione, se non di pensieri, nello studio di uno psicoanalista. Non ve n'è neanche qui. Ed è la particolarità dell'esperimento, benedetto da Hagai Levi: «L'adattamento italiano è il migliore che io abbia visto finora!». «L'impianto è teatrale, ma con un cast e una squadra tecnica che provengono dal cinema e con il pensiero rivolto alla televisione — riassume Costanzo —. Un analista ospita nel suo studio pazienti che gli rovesciano addosso tutti i loro problemi, ed è come se ciascuno di loro incarnasse un aspetto della sua stessa vita: il lavoro, la sessualità, il rapporto con sua moglie e con i figli». Prosegue Costanzo: «Avevamo l'esigenza di trovare attori in grado di recitare con ciak lunghissimi, anche di 20-25 minuti consecutivi. Interpreti capaci di tenere alta la tensione per quasi mezz'ora».
Nei panni dello psicoterapeuta Giovanni Mari c'è Sergio Castellitto. Nella poltrona di fronte alla sua sprofonda ogni giorno con i suoi traumi irrisolti una persona diversa: Sara (Kasia Smutniak) è una bellissima ragazza dalla vita scapestrata che spiazza il dottore confessandosi innamorata di lui; Dario (Guido Caprino) un militare che si sente in colpa perché dorme «sonni da bambino» nonostante abbia sparato durante un regolamento di conti della 'ndrangheta; Pietro e Lea (Adriano Giannini e Barbora Bobulova), coppia in crisi dopo una gravidanza a lungo cercata. E c'è Alice (Irene Casagrande), ragazzina con istinti suicidi, forse. Mari, in crisi a sua volta («qualche volta avrei voglia di cacciarli via tutti») va a sfogarsi di venerdì con l'amica terapista Anna, interpretata da Licia Maglietta. Nel cast anche due Valerie: Golino, e Bruni Tedeschi.
«In treatment è un'esperienza fuori dall'ordinario televisivo — osserva Costanzo — perché in ogni storia c'è qualcosa che ci riguarda, e in qualche modo la visione diventa terapia. La struttura, però, resta quella della soap opera. Ogni puntata offre un "gancio" fortissimo al pubblico: la molla per tornare la settimana dopo a seguire lo sviluppo di un personaggio».
Rivendica lo sforzo di aver lavorato su «primati assoluti» Lorenzo Mieli, produttore della serie con la sua Wildside insieme a Mario Gianani: «Il primato della messa in scena, della recitazione, della scrittura: sono stati impiegati due anni per adattare il testo». Sono pronti gli italiani a farsi psicoanalizzare in tv? Andrea Scrosati, vicepresidente programmi Sky, è sereno: «Se gli ascolti saranno alti tanto meglio, ma non puntiamo a questo. La serie si presta ad una visione non lineare, è ideale per una pay tv».

Corriere La Lettura 31.3.13
Il grafene, più sottile dell'aria
Le formidabili virtù di un nuovo materiale Spesso come un atomo, resistente come l'acciaio
di Massimo Inguscio


Il mondo degli oggetti che ci circondano è a tre dimensioni e nemmeno tanto tempo fa le previsioni teoriche escludevano che alle temperature dell'ambiente in cui viviamo potessero esistere materiali stabili in due dimensioni. Ma le sorprese, si sa, sono spesso ingrediente cruciale per le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche: nel grafene, materiale con proprietà tali da stimolare ricerca e investimenti in tutto il mondo, atomi di carbonio si dispongono in un solo strato bidimensionale, secondo esagoni regolari con una struttura a nido d'ape: un foglio spesso quanto un solo atomo! L'Unione Europea ha deciso di investire un miliardo di euro in un programma di ricerca decennale volto a indirizzare le politiche degli Stati membri verso lo studio di questo «materiale che non doveva esistere» per lo sviluppo di nuove tecnologie nell'ambito dell'informazione, della comunicazione e dell'energia. Ma cosa ha di speciale questa nuova forma di carbonio?
Le simmetrie e la disposizione degli atomi nello spazio sono la chiave per comprendere le proprietà della materia: nel diamante, trasparente e duro, atomi di carbonio sono disposti in un reticolo cristallino a forma di ottaedro. Nella grafite delle matite — opaca, grigia ed estremamente duttile — gli atomi di carbonio si legano, invece, secondo tanti piani paralleli. Uno solo di questi strati costituisce il grafene e la sua struttura a nido d'ape era stata studiata sin dagli anni Quaranta, ma quasi per curiosità intellettuale o come punto di partenza per meglio comprendere l'intera grafite. D'altra parte le proprietà potenziali di un ipotetico singolo strato si annunciavano talmente strabilianti da stimolare l'uso di tecnologie sofisticate per la sua produzione in laboratorio, con insuccessi che portavano a dubitare che il «nuovo» materiale potesse davvero esistere stabilmente.
La soluzione del problema sarebbe venuta, sorprendente per la sua efficace semplicità, nel 2004 quando a Manchester Andre Geim e Kostantin Novosëlov strapparono strati di grafene da un blocchetto di grafite con un normale nastro adesivo. I due scienziati russi, premiati con il Nobel per la fisica nel 2010, misurarono nel nuovo materiale a disposizione in laboratorio un'incredibile facilità di far passare corrente elettrica.
In un cristallo il comportamento elettrico può risentire in modo drammatico del fatto che gli elettroni, non più particelle libere, per muoversi devono «saltare» da un atomo all'altro e la loro energia è variamente confinata in bande che, di nuovo, dipendono dalla simmetria. Per rimanere al carbonio, se il diamante è un isolante elettrico, la grafite è invece un buon conduttore di elettricità anche se comunque il moto degli elettroni è come appesantito dalla presenza del fondo cristallino. Non è così per il grafene: la struttura esagonale fa sì che gli elettroni abbiano una mobilità molto alta, comportandosi addirittura come se non avessero massa e l'equazione che ne descrive il moto è simile a quella che Einstein usa per descrivere il moto di particelle con velocità prossime a quelle della luce. Il grafene è il materiale esistente con la più alta conducibilità elettrica a temperatura ambiente, quindi con un «consumo» di energia enormemente ridotto.
Grande può essere l'impatto per l'industria di circuiti e sensori microelettronici, tant'è che anche in laboratori Cnr presso STMicroelectronics a Catania si studia come produrre grafene di alta qualità su larga scala con una nuova tecnica che, partendo dai singoli mattoncini, consente di «crescere» il nuovo materiale con controllo a livello di singolo atomo. Se da un lato si pensa a una nuova generazione di dispositivi a bassissimo consumo energetico, è facile immaginare che una nuova architettura dei materiali, con controllo a livello di un milionesimo di millimetro, possa portare a importanti applicazioni dal campo del fotovoltaico a quello delle comunicazioni.
Ma per la tecnologia il grafene può essere molto di più: è leggerissimo, trasparente e flessibile, ma al tempo stesso molto più resistente dell'acciaio. Touchscreen flessibili vengono subito in mente, ma un nuovo fertilissimo terreno è a disposizione per la fantasia di fisici, chimici, ingegneri e non solo. Costruito con atomi di carbonio, il grafene è compatibile col mondo biologico e anche scenari per la biomedicina fanno parte dei dibattiti che lo riguardano, come quello al convegno internazionale tenutosi lo scorso 18 marzo all'Accademia dei Lincei.
È questo un mondo dove è necessario il confronto senza steccati di saperi diversi e complementari: non a caso in Italia un ruolo importante per la Flagship europea «Grafene», insieme ad altri enti e università, viene svolto dal Cnr, che dall'inizio ha creduto in un'avventura che si è rivelata vincente anche grazie alla spinta creativa di due giovani ricercatori, un chimico e un fisico, Vincenzo Palermo e Vittorio Pellegrini.
Nel libro La chiave a stella del 1978, Primo Levi, chimico e scrittore, scriveva che noi scienziati della materia siamo come «dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste, anche coi microscopi più potenti; e allora abbiamo inventato diversi trucchi per riconoscerle senza vederle. Tante volte, poi, noi abbiamo l'impressione di essere non solo dei ciechi, ma degli elefanti ciechi davanti al banchetto di un orologiaio, perché le nostre dita sono grossolane di fronte a quei cosetti che dobbiamo attaccare o staccare. Non abbiamo quelle pinzette che sovente ci capita di sognare di notte e che ci permetterebbero di prendere un segmento, di tenerlo ben stretto e dritto, e di incollarlo nel verso giusto sul segmento che è già montato. Se quelle pinzette le avessimo (e non è detto che un giorno non le avremo) saremmo già riusciti a fare delle cose graziose che fin adesso le ha fatte solo il Padreterno».
Adesso abbiamo le «pinzette» sognate da Levi. Si produce grafene, si vede ogni singolo atomo di carbonio come in alcune recenti immagini prese con uno speciale microscopio elettronico sviluppato per una infrastruttura sui nuovi materiali realizzata dal Cnr tra Catania, Cosenza, Lecce e Napoli. Si sostituiscono qua e là atomi di carbonio con atomi di silicio, per creare quella rottura di simmetria che sempre è alla base di nuovi fenomeni nel mondo della natura e di nuove proprietà della materia. Si indaga su come meglio modificare la struttura con molecole di interesse biologico per lo sviluppo di nuove terapie mediche. A guardare lontano si può immaginare una nuova elettronica mille volte più veloce o dispositivi medici rivoluzionari (come per esempio retine artificiali).
Penso, però, che le prospettive più rivoluzionarie potrebbero ancora una volta non essere frutto di programmazione. Un singolo foglio di grafene può essere usato come un nanolaboratorio dove osservare fenomeni fondamentali e complessi che a volte sfuggono anche agli apparati più grandi e costosi e che non si riesce a calcolare nemmeno con i computer più potenti: tra l'altro, l'equazione che spiega il comportamento degli elettroni «relativistici» nel grafene prevede anche l'esistenza di un mondo speculare fatto di antimateria. Quella di simulare la natura con sistemi quantistici in laboratorio è un'idea che, introdotta da Feynman negli anni Ottanta, inizia ora la sua stagione più fertile.

Corriere La Lettura 31.3.13
Gallio, indio, tantalio: lo scontro sotterraneo tra le potenze globali
Si moltiplicano le guerre per le risorse
Per la prima volta a partire dal 2001 l’emergenza sulle risorse naturali va anteposta allo spettro del terrorismo
di Michele Farina


James Clapper, direttore della National Intelligence e capo di tutte le spie d'America, non è appassionato di geologia e ha mille problemi: Iran, Nord Corea, droni, hacker cinesi. Eppure di questi tempi Clapper si preoccupa anche di gallio, indio, tantalio. Pure di niobio e di litio, con un occhio alle nuove trasformazioni della grafite (da cui si ricava il grafene) oltre che al vecchio uranio.
Materie secondarie, rispetto a gas e petrolio che spingono il mondo. Commodity scomode, quelle che si recuperano in piccole quantità setacciando la Terra, dalle Ande alle foreste africane. Pochi giorni fa, racconta alla «Lettura» l'esperto di resource wars Michael Klane, mister Intelligence ha fatto una relazione al Congresso in cui nella lista dei rischi per la sicurezza nazionale «per la prima volta» ha anteposto allo spettro terrorismo l'emergenza «risorse naturali». Con un riferimento particolare agli elementi chiamati «esotici». Vengono definiti anche cruciali (critical minerals) e per alcuni vale l'etichetta conflict minerals (tantalio e niobio si ritrovano uniti nel famigerato coltan, che alimenta la guerra nell'Est del Congo). Si tratta per la maggior parte di metalli poco diffusi in natura, recuperabili (come ogni sostanza preziosa) in modiche quantità. Dalle cosiddette «terre rare» (di cui la Cina detiene il monopolio controllando il 95% della produzione mondiale) al platino, dal palladio al tantalio di cui ogni anno vengono estratte soltanto 700 tonnellate (contro le 54 mila dell'uranio e i 7 miliardi del carbone). A volte sono materiali semi sconosciuti, con nomi spaziali (e infatti li hanno scoperti di recente anche su Marte). Eppure spesso sono componenti essenziali del nostro (nuovo) mondo, dagli smartphone alle auto ibride ai moderni sistemi di difesa (laser, radar...). Secondo il ministero dell'Energia Usa, per esempio, il 20% delle terre rare è impiegato nelle applicazioni dell'energia verde. Sostanze davvero un po' esotiche ma sicuramente strategiche, visto che il Pentagono ha cominciato a ricostruire le loro riserve smantellate al termine della guerra fredda.
Fino al 1995 il governo Usa manteneva depositi in 85 luoghi diversi che facevano capo al Defense National Stockpile Center, dove erano custodite scorte di 90 materie considerate cruciali per la sicurezza nazionale. Quindici anni dopo, spiega Michael Klane nel suo nuovo libro, i depositi si sono ridotti a dieci e le materie conservate una ventina. Anche la Commissione europea ha adottato lo stesso approccio allarmato, identificando un gruppo di 14 minerali il cui «esaurimento scorte» causerebbe danni gravi all'economia dell'Unione. Nella lista non mancano il gallio, l'indio, il cobalto, il germanio, la grafite, il magnesio, il tungsteno. Non è un caso che Europa e Stati Uniti abbiano aperto l'anno scorso un contenzioso con la Cina in seno all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), dopo che Pechino aveva ridotto l'esportazione di terre rare. Nel 2010 la crisi diplomatica scoppiata per la sovranità su un remoto arcipelago ha portato la Cina a sospendere per rappresaglia i rifornimenti di rare earth elements (Ree) al Giappone che ne è il principale consumatore. Le varie sfide aperte nell'Oceano Pacifico per il controllo di piccole isole riguardano in realtà la partita futura sullo sfruttamento dei grandi giacimenti sottomarini di gas e petrolio. Ma è significativo che i cinesi abbiano usato la stretta sulle nuove pietre preziose come arma per colpire i rivali. Questo precedente, dice Klare, ha molto preoccupato Washington. Gli Stati Uniti importano il 99% del gallio e il 100% dell'indio e del vanadio impiegato nella produzione di leghe metalliche speciali (anche nel settore nucleare). Da chi lo comprano? Il 37% del gallio e il 4% dell'indio usato in America arriva dalla Cina. È ipotizzabile che per questi e altri materiali si arrivi in futuro a uno scontro Pechino-Washington? Di certo le tensioni in questo campo sono destinate ad aumentare, spiega Klare, che insegna all'Hampshire College di Amherst, Massachusetts, dove è direttore del Five College Program in Peace and World Security Studies. Il suo ultimo libro, The Race for What's Left, è arrivato un decennio dopo Resource Wars. The New Landscape of Global Conflict, che uscì l'anno dell'11 settembre: allora la guerra per le risorse finì sepolta sotto le Torri gemelle e la guerra al terrorismo. Oggi, mentre Osama è stato scoperto, il niobio non si trova. Certo, «la corsa a ciò che è rimasto» si gioca soprattutto sulle risorse maggiori, per esempio il gas e il petrolio che aspettano sotto il ghiaccio che si scioglie nell'Artico, o i cosiddetti idrocarburi non convenzionali estratti dalle sabbie canadesi o spaccando le rocce delle montagne con l'acqua (il controverso procedimento chiamato fracking, fratturazione idraulica). Ma una tappa importante riguarda proprio gli elementi esotici. Il dio delle commodity scomode si è divertito a spargerle senza seguire sempre le classifiche dei Paesi per peso geopolitico o pedigree democratico. Così il litio, che dà la carica alle auto ibride ed elettriche, oggi si trova principalmente sulle Ande, tra Cile e Argentina, mentre le maggiori riserve ancora intatte (quasi il 50% del totale mondiale) sono nascoste sotto la crosta salata del Salar de Uyuni in Bolivia, governata dal leader indio Evo Morales, mentre tra le montagne a ovest di Kabul a guerra ancora in corso è già cominciata (tra americani e cinesi) la gara per il litio afghano. Così lo Zimbabwe dell'autoritario Robert Mugabe è il paradiso futuro del platino, per ora lasciato in sfruttamento agli amici cinesi e alle compagnie sudafricane che in casa propria già estraggono il 75% della produzione mondiale. La disastrata Repubblica democratica del Congo è al primo posto per il cobalto (45 mila tonnellate, lo Zambia secondo con 11 mila). Il Kazakhstan del dittatore Nazarbayev è corteggiato da ogni parte per il suo uranio (33% dell'offerta globale).
Le rare earth sono un po' meno rare in Cina, anche se Pechino sembra fare di tutto per nasconderlo. Da una parte c'è una progressiva stretta strategica (per sviluppare le proprie imprese high-tech a scapito della concorrenza), dall'altra le fluttuazioni del mercato che dal dicembre 2012 al marzo 2013 hanno visto calare le esportazioni di Ree del 60%. Negli anni la superpotenza asiatica ha conquistato il monopolio del settore, con i competitor schiacciati dai costi di estrazione. Ora Australia e Usa provano a riprendere la produzione, mentre il Giappone cerca di aggirare il nodo cinese, investendo in ricerca e puntando su nuovi fornitori come Vietnam e Kazakhstan.
Le guerre per le risorse, dice Michael Klane, fanno parte della storia dell'uomo. Rispetto al passato, però, oggi diminuiscono le risorse, mentre aumentano i Paesi cacciatori. Klane è appena stato in Spagna e racconta la storia di Las Médulas, situata nei pressi dell'attuale Ponferrada, la più importante miniera d'oro dell'impero romano conquistata e difesa a fil di spada. Plinio il Vecchio descrive la tecnica della Ruina Montium, che ha modellato quelle montagne perforandole a forza di schiavi e introducendovi grandi quantità d'acqua (in pratica, il fracking degli antichi). A millenni e migliaia di chilometri di distanza, nelle foreste del Nord Kivu contese da milizie armate, gli schiavi del Congo spaccano a mano le rocce del coltan da cui secondo Klane proviene sottobanco un quinto del tantalio mondiale, l'oro bluastro che, ridotto in polvere, fa funzionare i nostri telefonini.

Corriere La Lettura 31.3.13
Quando i buddhisti sono cattivi
di Marco Del Corona


Del sangue e della cenere di Meiktila la Birmania non aveva bisogno, come non servivano il sangue e la cenere sparsi all'inizio dell'estate scorsa nel suo Stato occidentale del Rakhine. Assalti, roghi, massacri. Dispute scaturite da crimini gravi o futili motivi e diventate una minaccia per la tenuta di un Paese che si mostra al mondo voglioso di democrazia, aperture e riconoscimenti. Pogrom, per usare una parola d'altri luoghi e altri contesti: qui però devoti buddhisti aggrediscono musulmani. Una quindicina di monaci avrebbero incendiato la casa di una famiglia islamica, ha riportato anche la Bbc. I linciaggi stanno lacerando, oltre a una Birmania dove l'etnia principale costituisce i due terzi della popolazione, anche la visione di una religione universalmente percepita come pacifica, ingenuamente distante dall'idea stessa di conflitto. Invece no. Le notizie da Meiktila ma anche da zone non lontane da Rangoon, e oltre, mettono in crisi la rassicurante classificazione delle religioni in «buone» e «cattive». Il Buddha sorridente rischia di ritrovarsi in cattiva compagnia, insieme con i fanatici della jihad armata. Un Buddha talebanizzato suo malgrado.
Le religioni sono fatte dagli uomini. E uomini sono i monaci che in Birmania protestano contro la sola ipotesi che ai rohingya (etnia musulmana del Rakhine che il governo relega alla condizione di apolidi) vengano concessi alcuni diritti. Altrove nelle pagode si ascoltano sermoni ostili ai musulmani, presenti da secoli in un Paese che apparteneva alla Corona britannica come l'India, India da dove l'amministrazione coloniale pescava quadri e personale per la Birmania. A pronunciare certe parole è lo stesso clero che nel 2007 e in altre occasioni aveva marciato in faccia alle baionette dell'esercito, chiedendo democrazia in nome di Aung San Suu Kyi. Le religioni, peraltro, non abitano il cielo ma la terra, e in Birmania il mosaico di minoranze, che non necessariamente condividono il credo buddhista della maggioranza bamar, prova una diffidenza verso il potere centrale nutrita da antiche discriminazioni e dalle efferatezze di mezzo secolo di giunte militari.
La sorpresa davanti ai monaci buddhisti che incitano a regolamenti di conti poco misericordiosi non è che una metamorfosi dell'eterno orientalismo, visione dell'Asia (e dell'altro) attraverso aspettative e stereotipi (nostri). Come se dai buddhisti, da chi ha così sete di Nirvana, non ci potessimo aspettare nulla di brutto: non che un bonzo uccidesse nel 1959 Solomon Bandaranaike, primo ministro dello Sri Lanka; non che i lama a Lhasa o in qualche contea tibetana scagliassero pietre contro i soldati cinesi nelle periodiche fiammate d'irredentismo ed esasperazione. Stiamo ancora a quanto scriveva un qualunque capitano che col suo mercantile solcasse le acque del Sudest asiatico negli anni Trenta del secolo scorso, un Alexander Hamilton qualsiasi: i buddhisti «considerano che siano buone tutte le religioni che insegnano a essere buoni» (A New Account of the East Indies, 1930). Ovvero un esempio di tolleranza ed ecumenismo assassinati a Meiktila.
La storia del buddhismo è piena di esempi che contraddicono la lettura orientalista di una religiosità univocamente placida, e quindi puntata verso una rappresentazione dei fedeli come «buoni selvaggi». Non occorre essere eruditi per scovare, dal Giappone al Tibet, profili di monaci guerrieri vuoti di sé — come l'Illuminato insegna — eppure ben armati. Perché, in fondo, la meta finale del buddhista trascende il bene e il male che si possono compiere con la spada. E se, come annotava lo studioso Trevor Ling, «non esistono prove nette che in Paesi dove il buddhismo sia religione di Stato le guerre vengano considerate attività non-buddhiste» (Buddhism, Imperialism and War, 1979), l'armamentario di pratiche e liturgie è persino tornato utile ai soggetti più improbabili: chi assisteva ai seminari rivoluzionari di Pol Pot, il leader dei khmer rossi responsabile dello sterminio di 1.700.000 cambogiani fra il 1975 e il '79, li riconosceva molto simili per toni e struttura agli insegnamenti ascoltati nelle pagode. In un contesto meno cruento — la Birmania britannica degli anni Venti — il percorso verso l'indipendenza concepito dall'ideologo U Ottama (un monaco, non a caso) veniva assimilato, nel procedere a stadi, proprio alla via che conduce all'illuminazione.
Universo contraddittorio, il buddhismo (o meglio: i buddhismi). Metabolizza i comportamenti che contraddicono la nostra visione di una fede serena, senza spigoli. Il Dalai Lama, la cui causa venne vanamente difesa da guerriglieri sostenuti dalla Cia nel Tibet occupato da Mao Zedong, oggi tenta di dissuadere i suoi connazionali dalle auto-immolazioni per protesta contro la Cina, atti la cui giustificazione impegna i dotti buddhisti in acrobatiche disquisizioni teologiche e morali. Proprio il Tibet, per secoli una teocrazia feudale, offre solidi argomenti a chi sostenga che di per sé essere buddhisti non significa essere buoni: una posizione entusiasticamente abbracciata dalla Cina nel rivendicare la «giusta liberazione» di una regione tuttora non domata.
Lassù sull'altopiano la sovrapposizione fra Stato e religione si è mostrata in tutta la sua ingombrante presenza. Le monarchie asiatiche tradizionalmente hanno cooptato il clero per assicurarsi le sue competenze, che si trattasse di stilare documenti, fornire consigli, guidare ambasciate, insegnare: un meccanismo di interdipendenza destinato a produrre religiosi spesso collaborazionisti e amministrazioni bigotte e compiacenti. E a generare un sistema in cui nazione, purezza etnica e fede coincidono. Eppure, a ben guardare, i pogrom dei buddhisti birmani contro i musulmani parlano alle nostre aspettative pigre, alle nostre facili letture. Se i monaci e i loro fedeli che pochi anni fa protestavano a Rangoon contro i generali sono gli stessi che giustificano l'assalto alle moschee e ai bazar nella valle dell'Irrawaddy, i colpevoli sono gli uomini. E Buddha è innocente.

Corriere La Lettura 31.3.13
La ragione non riesce a estirpare la crudeltà
di Carlo Bordoni


Quali origini ha il male? L'uomo non ha mai smesso di chiederselo, trovando sempre nuove spiegazioni, mai esaustive. Per rispondere è necessario completare la frase di Agostino e Severino Boezio, «Si Deus est, unde malum?». Se il mondo è stato creato da Dio, da dove viene il male? Qui si nasconde l'errore, perché da questa premessa non può che derivare un'interpretazione del male come eccezione, incidente di percorso. Qualcosa di estraneo al nostro mondo e che pertanto può essere delimitato e combattuto. Essendo difficile accettare l'idea di un male inscindibile dalla natura umana, gli Illuministi hanno provato a sconfiggerlo con la ragione, ma ogni tentativo si è rivelato vano: il male si alimenta della razionalità, anzi ne esce potenziato, tanto che l'idea che si annidi nell'ignoranza appare erronea. Il male può avvantaggiarsi della modernità, nata dal progresso e dalla tecnica: come ha scritto Jean-François Lyotard, il culmine della modernità ha coinciso con l'Olocausto, il più tragico ma perfezionatissimo esempio di istituzione razionale nella sua alienante lucidità distruttrice. La ragione ha fallito, benché uno studio recente, Il declino della violenza di Steven Pinker (Mondadori), dimostri come genocidi e conflitti siano diminuiti nel tempo. Un dato confortante, che tuttavia non spiega il massacro di oltre 100 milioni di civili, quasi tremila al giorno per ognuno dei 36.525 giorni del XX secolo, malgrado il processo di civilizzazione. La domanda è ancora: «Unde malum?». A cinquant'anni dalla pubblicazione de La banalità del male di Hannah Arendt, scritto in occasione del processo ad Adolf Eichmann, ci si sorprende ancora dell'inquietante «normalità» dei boia nazisti. Persone normali, rispettosi funzionari governativi che si sono macchiati dei più orrendi crimini, compiendo quello che ritenevano il loro dovere. In Le sorgenti del male (Erickson) Zygmunt Bauman indaga ora sullo scarto, all'apparenza incomprensibile, tra il comportamento di una persona perbene e il successivo compimento di un'azione scellerata, rilevando nuove tracce nel complesso di Prometeo di Günther Anders, cioè nel senso di inferiorità dell'uomo di fronte al potere distruttivo della macchina. Ma il male appare oggi sempre più vincolato a un'esigenza economica, al pari delle bombe scaricate su Würzburg (Germania) alla fine della guerra perché «non andassero sprecate». Il male è quasi un «danno collaterale» del progresso, perché conseguenza dell'avidità, del mantenimento delle disuguaglianze e, in ultima analisi, del cinismo e dell'impotenza dell'uomo.

Corriere La Lettura 31.3.13
Vide per primo gli orrori della Shoah Ma era troppo scomodo per Usa e Urss
La straordinaria parabola umana (ed editoriale) del polacco Jan Karski
Denunciò Olocausto e abusi sovietici, non venne ascoltato dagli Alleati
di Sergio Romano


Vi sono libri che hanno una storia e una sorte non meno interessanti delle vicende che descrivono e raccontano. Uno di questi appare ora presso Adelphi nella traduzione di Luca Bernardini con il titolo La mia testimonianza davanti al mondo. È stato scritto da Jan Karski, ma il suo autore nacque Jan Kozielewski e fu anche noto per qualche anno con il nome di Witold Kucharsky. È la storia della Resistenza polacca contro i tedeschi sino alla partenza del protagonista per una missione a Londra e a Washington nell'autunno del 1942. Ma è anche un lungo «libro nero», pubblicato a New York nel 1944, per far conoscere alle democrazie occidentali, distratte da altri problemi, le tragiche condizioni della Polonia occupata e spartita da tedeschi e sovietici nel settembre 1939.
È un'autobiografia, ma i fatti narrati, i molti personaggi descritti e i luoghi esatti delle numerose avventure del protagonista sono stati in buona parte camuffati per compiacere gli Alleati (era opportuno non infastidire i sovietici) ed evitare informazioni che avrebbero permesso alla Gestapo di smantellare lo Stato clandestino costruito dai patrioti polacchi. È un'opera di propaganda, ma anche un testo letterario con qualche coloritura voluta dall'editore americano per meglio conquistare l'attenzione dei lettori. È un bestseller (360 mila copie, un centinaio di recensioni, duecento incontri pubblici dell'autore), ma scompare immediatamente dal radar dopo la guerra, è ignoto in patria durante gli anni del comunismo e appare a Varsavia soltanto nel 1999, dieci anni dopo la fine della guerra fredda.
Non basta. È stato scritto per esaltare il coraggio dei resistenti polacchi, ma è stato ricordato in questi ultimi anni soprattutto per gli episodi in cui l'autore descrive le condizioni dell'ebraismo nei territori amministrati dal Terzo Reich. Prima di partire per la sua missione in Occidente, infatti, Karski aveva incontrato i leader clandestini della comunità ebraica di Varsavia e visitato il ghetto per due volte, pochi mesi prima della rivolta che vi scoppiò nell'aprile 1943. Più tardi, vestito nell'uniforme di un poliziotto lettone o ucraino, volle vedere un campo di sterminio, nei pressi di Lublino, dove non esistevano camere a gas, ma vagoni ferroviari in cui i pavimenti erano ricoperti da uno spesso strato di calce viva e gli ebrei, nudi e schiacciati l'uno contro l'altro, morivano bruciati e asfissiati dalle esalazioni della calce al contatto con i loro corpi.
Nei suoi incontri con i servizi occidentali e con molti uomini politici britannici e americani, fra cui Anthony Eden e il presidente Roosevelt, Karski descrisse la condizione degli ebrei, trasmise i messaggi disperati che gli erano stati affidati dai maggiori esponenti clandestini del Bund (il partito socialista degli ebrei polacchi e lituani) e del movimento sionista, cercò di perorare la loro causa. Ma si scontrò quasi sempre con la reticenza di interlocutori molto imbarazzati e riluttanti ad assumere impegni che non rientravano in quel momento nelle loro maggiori preoccupazioni strategiche.
Dopo la medaglia di «giusto fra le nazioni», che gli fu consegnata a Gerusalemme nel 1982, e una lunga intervista a Claude Lanzmann per Shoah, un grande film realizzato in Francia fra gli anni Settanta e Ottanta, Karski uscì dal cono d'ombra in cui aveva trascorso una tranquilla vita accademica ed ebbe nuovamente una certa notorietà. Ma fu conosciuto e letto, da quel momento, soprattutto per il suo ruolo di osservatore e cronista del genocidio ebraico. Nel libro, tuttavia, esistono altre parti non meno importanti.
Vi è anzitutto il personaggio dell'autore. Nella tarda estate del 1939, Jan Kozielewski aveva 25 anni, apparteneva alla migliore borghesia di Varsavia, aveva studiato all'estero, era tenente di cavalleria della riserva, frequentava i balli delle ambasciate, si preparava a una brillante carriera diplomatica. Quando un postino lo svegliò, nel mezzo della notte del 23 agosto 1939, per consegnargli una cartolina precetto, era reduce da una festa durante la quale tutti gli ospiti avevano spensieratamente ballato e bevuto. Nella caserma di Oswiecim (una piccola città che i tedeschi chiamavano e la storia ricorda con il nome di Auschwitz), dove il suo reggimento venne dislocato nei giorni seguenti, prevalevano l'entusiasmo e l'ottimismo. Gli ufficiali s'interrogavano sulle reazioni della Francia e della Gran Bretagna, ma erano convinti che «ce l'avrebbero fatta da soli». Pochi giorni dopo Karski e i suoi compagni avrebbero dovuto ritirarsi verso est e sarebbero caduti nelle mani dell'Armata rossa che avanzava da oriente.
Comincia così una storia nel corso della quale l'autore rivela doti e qualità di cui lui stesso, probabilmente, non era consapevole. Impara a fuggire, a travestirsi, a nascondersi e, non appena sarà stato ammesso nei ranghi della Resistenza nazionale (Armia Krajowa, Esercito della nazione), riuscirà a recitare, secondo le necessità del momento, personaggi diversi. È colto, abile, parla bene l'inglese, il francese, il tedesco e viene usato soprattutto per i collegamenti con i gruppi resistenti di altre città. Dopo due missioni in patria, viene inviato in Francia, agli inizi del 1940, per descrivere al generale Sikorski, capo del governo polacco in esilio, il lavoro della Resistenza.
Parte per una seconda missione all'estero qualche mese dopo, ma viene arrestato dai tedeschi in Slovacchia, interrogato, torturato e ridotto in fin di vita dalla Gestapo. Un medico slovacco e i compagni della Resistenza lo aiuteranno a fuggire, lo nasconderanno nelle vesti del giardiniere in una villa abitata da una famiglia di resistenti e gli assegneranno il compito di organizzare i servizi di propaganda dello Stato clandestino che si è nel frattempo costituito nella Polonia occupata. Di lì a qualche mese verrà incaricato di una nuova missione che lo porterà in Gran Bretagna e negli Stati Uniti attraverso Berlino, Parigi, Perpignano, Barcellona e Gibilterra.
Il libro si legge come un romanzo ed è forse qua e là arricchito dall'immaginazione dell'autore, ma è uno straordinario tributo allo spirito di un Paese che ha sempre riscattato le sue imprudenze e affrontato le sue spartizioni con l'indomabile patriottismo dei suoi cittadini. Dopo avere contribuito a una migliore conoscenza della tragedia ebraica in Polonia, il libro di Karski parla oggi al lettore di una Resistenza polacca che per molti anni ebbe il «vizio» di spiacere all'Urss, al regime comunista polacco e forse anche a parecchi intellettuali di sinistra in Occidente. Gustaw Herling, che si batté contro i pregiudizi degli ambienti comunisti italiani, sarebbe lieto di apprendere che il libro di Karski è finalmente arrivato nelle nostre librerie.