martedì 2 aprile 2013

l’Unità 2.4.13
Onida: mai revocato l’incarico al leader democratico


«Il preincarico affidato a Bersani non è finito né è stato revocato». Così Valerio Onida ha spiegato ieri sera a «Otto e mezzo». L’ex presidente della Consulta è uno dei saggi che si insedieranno oggi al Quirinale. «Dovremo facilitare ha proseguito lui la ricerca di indicazioni programmatiche che possano essere condivise dai partiti». Il tema della legge elettorale è secondo Onida prioritario, «perché si tratta di una legislatura fragile, che potrebbe finire prima», mentre viene giudicata «singolare e incredibile» l’ipotesi che «un governo per l’ordinaria amministrazione possa varare un decreto sulla legge elettorale».

l’Unità 2.4.13
Bersani tiene il punto «No alleanze col Pdl»
Oggi il segretario incontra la stampa per ribadire le posizioni del Pd sulla crisi
Moretti: insistiamo per la nomina del leader democratico
Gentiloni: l’interesse di parte sia subordinato a quello generale
di Simone Collini


Governo di cambiamento e Convenzione sulle riforme istituzionali. Oggi Pier Luigi Bersani ribadirà la linea indicata prima che il Quirinale insediasse i due gruppi di lavoro sulle riforme istituzionali e le questioni economiche, sociali e riguardanti le politiche europee. L’uscita del segretario del Pdl Angelino Alfano, che ha intimato ai cosiddetti saggi di fare presto, sollecitato Giorgio Napolitano a riprendere le consultazioni e messo nuovamente sul piatto l’aut-aut «o grande coalizione o voto», favorisce il leader del Pd e fa tirare il freno a quanti nel suo stesso partito sono pronti a criticare la linea fin qui seguita e a chiedere che si apra all’ipotesi di un governo del presidente sostenuto insieme a Pdl e Scelta civica.
Bersani lo sa e sta lavorando per far confermare anche alla prossima Direzione, che dovrebbe essere convocata per lunedì, la linea con cui è andato alle consultazioni con le altre forze politiche finite venerdì scorso con un nulla di fatto. Alla riunione del gruppo dirigente democratico probabilmente non mancheranno critiche all’impostazione data fin qui. Ma il segretario Pd ribadirà oggi pomeriggio ai giornalisti che incontrerà alla sede del partito e poi nei prossimi giorni ai membri della Direzione che resta necessario un «governo di cambiamento», che nessun accordo è possibile con un Pdl che ha tentato un ricatto sul Quirinale (via libera a Bersani premier solo se il prossimo Presidente sarà scelto dal centrodestra) e che con l’inversione dei termini prima elezione del nuovo Capo dello Stato e poi formazione del governo anche i rapporti di forza tra gli schieramenti saranno modificati. E ci sarebbe anche un’altra diversità, rispetto a questi giorni: il Presidente della Repubblica sarebbe nel pieno dei poteri, compreso quello di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.
A quel punto, è il ragionamento che si fa in queste ore ai vertici del Pd, di fronte a un perdurare della situazione di impasse il modello negoziale seguito nelle ultime due settimane dovrebbe cedere il passo al modello parlamentare. Insomma starebbe sempre al centrosinistra, che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, la responsabilità di indicare una soluzione di governo, e il premier indicato dovrebbe a quel punto non più limitarsi a sondare il terreno in consultazioni extraparlamentari ma dovrebbe misurarsi con il voto di fiducia direttamente a Montecitorio e Palazzo Madama.
TENUTA DEL PARTITO ALLA PROVA
Bisognerà vedere se gli argomenti saranno sufficienti a mantenere unito il gruppo dirigente democratico e anche se rimarranno fuori dalla discussione elementi attinenti più alla vita interna del partito che alla formazione del prossimo esecutivo, visto che entro questo mese dovrà essere convocato il congresso per eleggere il nuovo segretario (formalmente dovrà svolgersi ad ottobre). Le due questioni per Bersani vanno tenute separate, anche per non introdurre motivi di attrito che renderebbero più complicato raggiungere l’obiettivo, ma solo nei prossimi giorni si saprà se ciò che auspica si realizzerà.
Per ora Matteo Renzi, unico possibile sfidante sul campo, si guarda bene da aprire una discussione con il segretario. Parlamentari vicini al sindaco di Firenze insistono però per non considerare tabù il sostegno a un cosiddetto governo del presidente insieme anche a Pdl e Scelta civica.
DOPO I GRUPPI DI LAVORO
Gli stessi gruppi di lavoro insediati dal Quirinale vengono interpretati in maniera diversa. Per gli esponenti democratici più vicini al segretario dovranno preparare il terreno per dar vita al «governo di cambiamento», per i renziani possono essere utili ad accorciare le distanze tra le diverse forze politiche e favorire un’intesa anche a livello di esecutivo. Dice Alessandra Moretti: «Noi insistiamo per un esecutivo di tipo politico. L’elettorato si è espresso per questo esecutivo e per un esecutivo di forte cambiamento. Abbiamo proposto Bersani per avviare una fase di riforme economiche e istituzionali, vediamo se poi, terminato il lavoro dei saggi, questa opzione tornerà a essere fattibile».
Delimitare già ora il campo, però, porre paletti e dare per scontato che si debba tornare all’opzione del «governo di cambiamento» non è opportuno per altri esponenti del Pd. Paolo Gentiloni condivide il «no ad una coalizione politica Bersani-Berlusconi» ma chiede di «difendere» il lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica e «non renderlo complicato, visto che già è difficile»: «Male che vada sarà un lavoro istruttorio che utilizzerà il suo successore». Il deputato renziano, di fronte all’aut-aut lanciato ieri dal segretario del Pdl Alfano tra governo di larga coalizione o elezioni anticipate, fa notare che il Pd ha dimostrato di saper subordinare l’intersse di parte a quello generale. E aggiunge: «Il Pd non si metterà a discutere delle vicende interne fin quando non sarà sciolto il nodo della legislatura e del governo. Il punto di equilibrio nel Pd deve essere il sostegno “senza se e senza ma” allo sforzo che sta facendo Napolitano».

l’Unità 2.4.13
Roberto Speranza
«I gruppi di lavoro possono creare le condizioni per questa soluzione. Alfano? No ad alleanze con chi ha prodotto la crisi»
«Non rinunciamo al governo di cambiamento»
intervista di Simone Collini


I due gruppi di lavoro incaricati dal Quirinale? Il loro operato, dice Roberto Speranza, può «creare le condizioni per l’avvio di un governo di cambiamento che risponda alla profonda inquietudine emersa dal voto di febbraio». E se il segretario del Pdl Angelino Alfano auspica invece che esaurito il loro mandato si arrivi a un esecutivo «di larga coalizione», il capogruppo del Pd alla Camera ribadisce il no del suo partito a «formule politiciste» e alleanze «con chi ha prodotto la crisi».
I saggi facciano presto e Napolitano riprenda le consultazioni, dice il Pdl: il Pd cosa dice, onorevole Speranza?
«Che va mantenuto l’assoluto rispetto e il massimo sostegno rispetto alle decisioni del Capo dello Stato. Il presidente Napolitano in questi anni ha rappresentato uno dei pochi punti di tenuta veri nel rapporto tra cittadini e politica, opinione pubblica e istituzioni. Ed è naturale che il Pd oggi sia al suo fianco, che accompagni con responsabilità il percorso che ci ha indicato».
Il percorso prevede due gruppi di lavoro che si occupino di riforme istituzionali e di questioni economico-sociali: cosa auspica possa produrre?
«Un terreno condiviso per le riforme istituzionali, perché come noi abbiamo detto proponendo lo strumento della Convenzione questo Paese ha bisogno di una riforma profonda che porti al superamento del bicameralismo perfetto, a una Camera delle autonomie, a un dimezzamento del numero dei parlamentari. E poi auspico che l’operato di questi due gruppi di lavoro crei le condizioni per l’avvio di un governo di cambiamento che risponda alla profonda inquietudine emersa dal voto di febbraio».
Secondo altri, di Scelta civica, del Pdl ma anche del suo partito, questi gruppi di lavoro potrebbero servire ad accorciare le distanze tra le forze parlamentari e dar vita a un governo di larghe intese: condivide?
«No, io sono convinto che se alla domanda di discontinuità emersa alle elezioni rispondessimo con formule politiciste, commetteremmo un grave errore. Per una forza come il Pd non si può immaginare che l’uscita dalla crisi si possa realizzare andando a braccetto con chi ci ha portato a questa stessa crisi economica, sociale, politica».
C’è però da tener conto dell’opinione espressa da una quota considerevole di elettori che non ha votato Pd, non crede? «Noi rispettiamo tutti gli elettori che hanno fatto una scelta diversa, ma dal nostro punto di vista il Pdl ha una responsabilità enorme nel determinarsi di questa crisi. Ora, per uscirne, c’è bisogno non di fare alleanze con la destra ma di una forte discontinuità».
Così però vi esponete all’accusa di inseguire Grillo.
«Non ci si può accusare di questo. Anche nel voto dato al Pd c’è una forte domanda di cambiamento, e noi dobbiamo rispondere nel modo giusto. E responsabilità senza cambiamento non lo è. Il Pd deve rispondere attrezzando un governo all’altezza della domanda uscita dalle urne, e se Grillo dovesse continuare a dimostrare l’irresponsabilità di questi giorni sono convinto che pagherà un prezzo alto, perché finirà per tradire quella stessa domanda di cambiamento venuta dall’elettorato».
Alfano dice: governo di larghe intese o voto. Il Pd dice governo di cambiamento o voto?
«In questo momento noi dobbiamo mettere tutta la nostra forza e il nostro impegno per dare il via al governo di cambiamento, non dobbiamo ragionare su altro».
Gentiloni sottolinea che le posizioni di parte vanno subordinate all’interesse generale.
«E la posizione del governo di cambiamento risponde proprio all’interesse generale del Paese. Una soluzione politicista porterebbe a un’ulteriore rottura tra politica e cittadini, rafforzerebbe le forze antisistema».
Sicuro che tutto il partito sia su questa linea?
«È la linea votata all’unanimità dalla nostra Direzione».
E lo sarà anche alla prossima riunione?
«Lavoreremo da qui alla prossima Direzione per valorizzare questa proposta unitaria. In una fase così delicata per la tenuta del rapporto tra politica e cittadini, tutto possiamo permetterci tranne che un Pd diviso».
Un Pd diviso sarebbe una bella gatta da pelare anche per lei che guida un gruppo parlamentare di 303 deputati...
«Ma no, e comunque la generosità che i gruppi dirigenti hanno dimostrato finora non va sottovalutata, non possiamo rimproverarci molto, anzi. Quanto al gruppo, uno dei più ampi della storia repubblicana, è di grandissimo valore, con esperienze consolidate che sono patrimonio prezioso per il nostro partito e tante nuove energie che non aspettano altro che essere sprigionate al servizio del Paese».
Tra un paio di settimane dovrete eleggere il successore di Napolitano: il possibile profilo?
«Dovrà essere una figura di garanzia, all’altezza del compito delicato che andrà a svolgere e dei predecessori straordinari avuti negli ultimi anni».

l’Unità 2.4.13
Carla Cantone
«I saggi sono una protesi della politica. Si affidi un mandato pieno a Bersani, così il Paese vedrà chi vuole governare e chi distruggere»
«Per ricostruire l’Italia deve tornare la politica»
«Va dato il mandato pieno, non solo esplorativo, al leader della coalizione vincente»
intervista di Federica Fantozzi


Carla Cantone, segretario generale dello Spi-Cgil, girano molte critiche sui dieci saggi voluti da Napolitano. Secondo lei è un modo per facilitare il dialogo tra le forze politiche o un modo di prendere tempo?
«Queste due commissioni possono contribuire a superare lo stallo in cui si trova il Paese. Sono nate per ricomporre il processo democratico, vanno lasciate lavorare e aiutate fin dove si può. Hanno però il sapore di una protesi alla politica, la quale deve assumersi lei l’onere di dare risposte».
Per il momento, di risposte la politica non ne ha date. I tre partiti principali usciti dalle urne non sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Per questo a Palazzo Chigi c’è ancora Monti. «Ecco, se le commissioni possono agevolare un processo di unità, la proroga data a Monti non mi convince. Anzi, mi preoccupa. Da sindacalista ho dovuto affrontare molti disagi durante la crisi. E ho visto il premier governare senza equità, né un’idea di crescita. I sacrifici li hanno fatti sempre i soliti: anziani, giovani e famiglie».
Lei del governo uscente fa un bilancio totalmente negativo. Non crede che Monti, con i suoi limiti, ci abbia salvato dal rischio default?
«Dal punto di vista sociale io vedo la sua azione in piena continuità con il governo Berlusconi. Ha emarginato il sindacato confederale a cui non ha mai riconosciuto un ruolo. E difatti le elezioni non hanno premiato la sua formazione».
La proroga dell’esecutivo è questione di qualche settimana. Addirittura la preoccupa?
«Sì. Per quello che Monti farà. Di certo non starà fermo. E poi non so quanto durerà. È un fatto che non si può prevedere: dipenderà dal prossimo presidente della Repubblica. Invece all’Italia serve subito un governo di vero cambiamento»
Cosa potrebbe e dovrebbe fare un governo di vero cambiamento? «Dovrebbe essere un esecutivo credibile che non lasci il peso della crisi sempre sugli stessi. Bisogna fermare il declino produttivo, investire nel lavoro, redistribuire la ricchezza per combattere la spaventosa povertà. I pensionati stanno male, ai giovani hanno rubato i sogni, i lavoratori sono spaventati dall’incerto futuro».
Di nuovo: con quali partiti camminerebbe il cambiamento, visto che manca la disponibilità?
«Bisogna fare quello che avviene in ogni democrazia. Consegnare il mandato non esplorativo ma pieno al leader della coalizione vincente. Questo prevede la Costituzione. Le commissioni sono un fatto anomalo, con la strada in salita. In parallelo è necessario andare avanti con una soluzione politica».
Non crede che, al termine di consultazioni formali e informali che nulla hanno concluso, lo stallo sia radicato e difficilmente risolvibile da Bersani che si presenti alle Camere per chiedere la fiducia?
«Sì, il problema è più profondo. Ma solo così i partiti si assumeranno le loro responsabilità. E si vedrà chi vuole governare, chi vuole distruggere e chi cerca soltanto salvacondotti personali. Bisogna mettere il Paese di fronte alla verità».
E se anche questa via fallisse?
«Il nuovo presidente della Repubblica avrà tutti gli strumenti per decidere il da farsi».
Secondo lei, in seconda battuta, una larga coalizione tra Pd e Pdl sarebbe fattibile? Per un tempo determinato e con una mission circoscritta a questioni economiche e riforme istituzionali?
«Io sono contraria. Non ne vedo le condizioni. Non numeriche, perché non si governa con la matematica. Sul piano politico, le posizioni sono inconciliabili. E con questa destra non vanno fatte alleanze».
Allora non resterebbe che tornare al voto? A questo punto, presumibilmente, in autunno.
«Se la coalizione che ha vinto le elezioni non ottenesse la fiducia dal Parlamento non resterebbe che ridare la parola agli elettori. Ma non sarebbe una bella notizia per l’Italia. Non è quello che l’Europa ci sta chiedendo».

l’Unità 2.4.13
La soluzione resta una sola: il voto di fiducia del Parlamento
Senza il passaggio alle Camere, il governo Monti potrebbe gestire nuove elezioni anticipate
Sarebbe grave se qualcuno pensasse che ora è il programma informale dei saggi a darsi un eventuale capo del governo
di Michele Prospero


Èvero che laconica è la Costituzione sui poteri presidenziali nella risoluzione della crisi e nella gestione dei passaggi formali che vanno dalla designazione alla nomina del presidente incaricato. È altrettanto appurato che il ruolo del Capo dello Stato negli anni è transitato da una statica garanzia passiva ad una più dinamica garanzia attiva, con una maggiore influenza nel procedimento di formazione dei governi.
E tuttavia alcuni solidi paletti resistono. In uno studio sulla natura giuridica dell’incarico, Pietro Virga già nel 1948 ammoniva: «È da escludersi che il Capo dello Stato debba fissare alcuni punti programmatici e risolvere le crisi in base all’adesione o meno dei vari candidati ai principi da esso predeterminati. È pure da escludere che il presidente della Repubblica possa prefissare all’uomo incaricato per la formazione del gabinetto limiti di programmi e di struttura».
Il presidente «programmante» immetterebbe nel sistema istituzionale dei vincoli di natura sostanziale, in contrasto con il regime parlamentare. La decisione di istituire due informali gruppi di esperti, con il compito di negoziare un programma destinato al futuro incaricato di formare il governo, si presta per questo a valutazioni critiche.
Se il comitato è solo ricognitivo, il ricorso ai saggi rischia di intralciare la risoluzione di nodi che spetta solo alla politica sciogliere. Il Quirinale ha considerato «non risolutivo» l’incarico a Bersani, che però non ha mai rinunciato al (pre) mandato ricevuto. E del resto, nei suoi confronti (e dell’opinione pubblica), non è stato adottato alcun formale atto. L’ambiguità della non decisione non può però dominare nelle inderogabili scelte presidenziali, che sono indispensabili per assicurare la piena funzionalità degli organi costituzionali della Repubblica.
L’impedimento nel tragitto più efficace (la verifica dei numeri di Bersani in Parlamento) rischia di produrre alterazioni illogiche e rigidità politiche. I tempi per la nascita del governo non possono diventare oggetto di contese, contrattazioni, giochi, rinvii. Non si è mai verificato nella vicenda repubblicana che trascorressero mesi dal voto senza che alcun incarico venisse conferito. E non è un caso. Tutti hanno sempre ritenuto pericolosi gli inadempimenti di essenziali obblighi di natura costituzionale.
Il tripolarismo paralizzato uscito dal voto non può affossare i tempi stringenti per dare vita al governo. La gravità del momento si evince dal fatto che, mentre con la convocazione degli esperti il nuovo governo viene consegnato al futuro, c’è il bisogno di rimarcare l’operatività residua dell’ex governo tecnico, diventato nel frattempo politico (con la partecipazione di Monti al voto) e, seppure non sfiduciato, in minoranza al Senato, per la fine del sostegno del Pdl. Mentre gli osservatori demonizzano il governo di minoranza a guida Bersani, proprio il governo di minoranza e di partito (Monti) opera già. Si rischia persino il paradosso, in caso di evenienze e mancati incarichi, che questo governo possa gestire le seconde elezioni anticipate consecutive.
Rischiosa può essere anche l’inversione rispetto al circuito costituzionale normale, quello per cui l’incaricato si procura il sostegno dei partiti e dà senso ad un programma condiviso. Questo non è certamente nelle intenzioni del presidente, ma non vorremmo che qualcuno pensasse che ora è il programma, predefinito sia pure informalmente dai «saggi», a darsi un eventuale capo del governo. Oppure che si possa proseguire a lungo con il non-governo attuale (che non può presentare disegni di legge, attuare leggi delegate con decreti legislativi, promuovere riforme, trattati).
La via maestra per tentare di dipanare la matassa rimane l’invio di Bersani in aula, per verificare proprio lì il senso di responsabilità della classe politica. È solo in Parlamento che si snidano le opposizioni antisistema e si scoprono le strane convergenze in maggioranze negative dei poli estremi. Una eventuale sfiducia a Bersani, peraltro, non porterebbe all’automatico scioglimento delle Camere.
Anche nel 1953 De Gasperi, ad inizio legislatura, non ottenne i voti e però non furono convocate nuove elezioni. Il temuto carattere raccogliticcio dei numeri a Palazzo Madama non può diventare un pretesto preventivo per bloccare la incerta dialettica parlamentare. Solo dopo la fiducia è prevedibile la difficile maturazione di condizioni politiche più solide. Il ripristino della regola continua a sembrarci più efficace dell’avventurarsi nel sentiero dell’eccezione.

Corriere 2.4.13
Bersani, la carta di Prodi per evitare le larghe intese
Il segretario cerca di uscire dall'angolo e punta sull'ex premier per il nuovo Quirinale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani è convinto: «La priorità ora è l'elezione del presidente della Repubblica», annuncia ai suoi. E aggiunge: «Dopo la scelta del nuovo capo dello Stato ci saranno ancora più elementi che giustificheranno l'esigenza di un governo di cambiamento, e che chiariranno che le ipotesi delle larghe intese o di un nuovo esecutivo tecnico retto da una strana maggioranza sono impraticabili».
Già, perché se l'elezione del presidente avvenisse senza l'aiuto del Pdl ma con l'apporto dei grillini e, magari, di qualche montiano, sarebbe veramente difficile mettere di nuovo insieme attorno a un tavolo il Pd e il Pdl. Ed è proprio questa l'idea che sta accarezzando Bersani per uscire dall'angolo e rilanciare. Un capo dello Stato di rottura nei confronti di Berlusconi scriverebbe la parola fine sul tormentone delle «grandi intese», come su quello di un governo modello Monti.
Il nome vincente in questo senso potrebbe essere quello di Romano Prodi. Ai più è sfuggito il post pubblicato sul blog di Grillo sabato scorso. Ma al Pd lo hanno letto con attenzione e grande interesse. E' vero, il leader del "Movimento 5 Stelle" sostiene di non voler vedere un politico già usato al Quirinale, però poi accusa Partito democratico e Pdl che «vorrebbero un presidente "quieta non movere et mota quietare", non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe dalle carte geografiche Berlusconi».
Sì, Prodi sarebbe l'uomo giusto al posto giusto (anche se si parla pure di Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky). Al Pd pensano che l'ex premier dell'Ulivo potrebbe ridare l'onore al centrosinistra e l'incarico a Bersani.
Ma per ora nessuno vuole bruciare né tappe né nomi, perciò la raccomandazione è: «Prudenza».
Anche perché Silvio Berlusconi ha subodorato che c'è qualcosa che non torna. E si è insospettito non poco anche delle mosse di Giorgio Napolitano che a suo avviso servono «a prendere tempo e rendere impraticabile la strada delle elezioni in estate» e rischiano di «metterci fuori dai giochi sul Quirinale». «Stiamo attenti — ripete incessantemente ai suoi il leader del centrodestra — perché come ai tempi di Monti è in atto un'operazione contro di noi, questa volta per eleggere il capo dello Stato senza che i nostri voti siano determinanti».
Il Cavaliere è convinto di essere al cospetto di «una trappola» e come i bersaniani guardano con un certo sospetto Enrico Letta, Massimo D'Alema e Matteo Renzi, perché pensano che stiano lavorando di sponda con il Quirinale, per dare vita a un governo che non sia presieduto dal segretario, così lui teme che riparta dentro il Pdl il tentativo di parricidio. «Se c'è qualcuno che nel centrodestra pensa di approfittarne per mettermi da parte, sta facendo male i suoi calcoli, perché io rovescio il tavolo», è il ritornello che più di un suo interlocutore si è sentito ripetere da Berlusconi. Ma in queste stesse ore, quasi fossero predestinati a cadere insieme, anche Bersani fa riflessioni analoghe: «I saggi non possono preparare il terreno per le larghe intese, se c'è qualcuno nel partito che invece ha in mente questo obiettivo lo dica chiaramente». E a sentire certe affermazioni, in mente, quell'opzione, la hanno in diversi. Paolo Gentiloni, per esempio, che dice: «Sto dalla parte di Enrico Letta che ha dato sostegno e fiducia a Napolitano». Mentre un altro renziano, Angelo Rughetti, propone: «Si potrebbero stabilizzare i gruppi di lavoro in un nuovo governo».
Per questa ragione Bersani si è reso conto che è quanto mai necessario uscire dall'angolo e non assecondare il tentativo di chi nel Pd vuole prendere tempo e, magari, sfruttare l'allungarsi dei giorni per lavorare all'insaputa del segretario su una candidatura al Quirinale che non guardi solo a sinistra. «Io — spiega ai suoi Bersani — rimango in campo e non mi ritiro. La linea resta quella del governo di cambiamento: non si possono fare le larghe intese solo perché i saggi dicono che c'è l'accordo su due, tre punti».
Del resto, continuano a ripetere i bersaniani del giro stretto, il presidente della Repubblica non ha dato l'incarico a nessun altro, quindi... Quindi, avanti ancora sulla linea di sempre. Ne è convinto uno come Matteo Orfini, secondo il quale «la soluzione proposta da Bersani è la più forte anche perché non ci sono nomi nuovi per la premiership». E quindi, per dirla con Alessandra Moretti: «Noi vogliamo un governo di cambiamento e Bersani deve esserne a capo».

La Stampa 2.4.13
Bersani conserva l’incarico esplorativo
Le colombe del Pd si schierano con il Colle
Si allarga il fronte di chi appoggerebbe un «governo di scopo» per evitare le elezioni
Gentiloni: sostegno senza se e senza ma allo sforzo di Napolitano
di Carlo Bertini


Il fronte meno barricadero del Pd, più propenso a sostenere quando sarà il momento un «governo di scopo» che eviti al paese nuove elezioni a breve, preme su Bersani e i suoi per non mettere i bastoni tra le ruote al tentativo messo in moto dal capo dello Stato. In questo senso si spiegano uscite come quella del renziano doc Paolo Gentiloni, che ieri ha provato a riportare il partito sulla linea espressa da Enrico Letta al termine delle consultazioni; e sintetizzata in una battuta già venerdì sera, «siamo come corazzieri».
«Il Pd - dice Gentiloni - non si metterà a discutere delle vicende interne fin quando non sarà sciolto il nodo della legislatura e del governo. Il punto di equilibrio nel Pd deve essere il sostegno “senza se e senza ma” allo sforzo che sta facendo Napolitano». Un’uscita dettata dalla preoccupazione che le grida al «golpe» da parte del pdl e una certa freddezza dimostrata dai bersaniani possano indebolire questo tentativo: da qui l’esigenza di «difendere il lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica che non va reso complicato, visto che già è difficile. Male che vada sarà un lavoro istruttorio che utilizzerà il suo successore». Insomma i renziani subordinano la tregua di facciata che ancora vige nel partito, che forse dovrà convocare una direzione nei prossimi giorni, all’atteggiamento benevolo nei confronti dei «saggi» e del loro compito. E anche un veltroniano doc, come Walter Verini si muove sulla stessa lunghezza d’onda, a riprova che le acque nel Pd si muovono sotto la superficie più di quanto appaia. Perché Verini parla al Pdl perché anche i pasdaran del suo partito colgano il messaggio: «Ipotizzare di precipitare verso le elezioni senza cambiare la legge elettorale, come fanno in coro gli esponenti del partito di Berlusconi, è un atteggiamento irresponsabile. Tornare a votare con il porcellum riprodurrebbe infatti, con molta probabilità, la stessa situazione di paralisi e di stallo. E il sistema istituzionale potrebbe davvero collassare».
Bersani attende di sciogliere ancora il nodo del suo profilo istituzionale. Anche uno dei saggi, Onida, dice che «il preincarico affidato a Bersani non è finito né è stato revocato». Tanto che i suoi ancora non mollano la trincea di un possibile mandato al segretario per una verifica in Parlamento da parte del prossimo capo dello Stato. Alessandra Moretti, portavoce del leader durante la campagna delle primarie e capofila delle «giovani turche» alla Camera, ieri intervistata da Sky ha tenuto duro, perché «senza il Pd non si va da nessuna parte e il Pd è in campo con il suo segretario». Con il Pdl? «Discuteremo ancora di questo, ma il problema è l’inaffidabilità di Berlusconi comprovata negli anni. Vedremo cosa concluderanno le due commissioni e decideremo in Parlamento». Insomma, i bersaniani sanno di essere forti nei gruppi parlamentari dove hanno la maggioranza e non temono dunque un braccio di ferro interno nel partito.
«Noi - aggiunge la Moretti insistiamo per un esecutivo di tipo politico. L’elettorato si è espresso per questo esecutivo e per un esecutivo di forte cambiamento. Abbiamo proposto Bersani per avviare una fase di riforme economiche e istituzionali e vediamo se poi, terminato il lavoro dei saggi, questa opzione tornerà a essere fattibile». E sullo sfondo già si discute sul criterio da seguire per l’elezione del prossimo presidente: «Visto che tra dieci giorni dobbiamo dialogare sul Colle, meglio evitare le barricate in questa fase», dice uno dei moderati del Pd.

I Giovani Turchi. «Orfini: se Renzi crea le condizioni giuste, sarà lui il leader di tutti. Altrimenti, troveremo un’altra candidatura per le primarie»
Repubblica 2.4.13
Pd, sale il governo del presidente Bersani ora regista della partita Quirinale
Da D’Alema a Renzi l’area dei contrari al voto subito
di Goffredo De Marchis


ROMA — La resa dei conti è nei fatti, forse proprio per questo la direzione del Pd slitterà alla prossima settimana. Nessuno vuole un confronto pubblico in tempi brevi. Del resto, la riunione non è mai stata convocata e a Largo del Nazareno si fa notare che il Partito democratico «è l’unica forza politica a cui si chiede di convocare in continuazione gli organismi dirigenti». Non è il momento di confronti in diretta streaming, di fronte alla fine del settennato di Giorgio Napolitano e al voto per il suo successore. Non lo vogliono né Pierluigi Bersani né il fronte del suo partito che è pronto a contestarne tutti i passaggi compiuti nel periodo che va dalla mezza vittoria del 25 febbraio al congelamento di Giorgio Napolitano. Fronte che si allarga ogni giorno di più: l’ipotesi del governo del presidente rimane in piedi anche dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato. Ed è questa l’opzione che registra un’alleanza traversale tra Matteo Renzi, Dario Franceschini, Veltroni, D’Alema e il vicesegretario Enrico Letta nella versione di un esecutivo che abbia solo un obiettivo: cambiare la legge elettorale.
I bersaniani rimangono aggrappati al preincarico mai revocato del loro leader solo pro forma. In realtà Bersani è pronto a svolgere il ruolo di regista per le tappe future (a cominciare dalla scelta del presidente della Repubblica) con le mani libere «del segretario del Pd», spiega uno dei suoi fedelissimi. Quel ruolo non è in discussione. E non vuole metterlo in discussione il diretto interessato, con un passo indietro o di lato. Soprattutto, in vista della partita per il Quirinale. Sarà lui stesso a guidare le trattative per il Colle, a dire l’ultima parola. Ecco perché la direzione può aspettare: le procedure per l’elezione del nuovo capo dello Stato cominciano il 15 aprile, non è ora di un dibattito interno.
Questa linea espone certo il segretario al vento dei sospetti, dei veleni e delle interviste. Di un fuoco incrociato, cioè, sulla condotta tenuta fin qui. E se la direzione può essere posticipata, molti dei suoi critici organizzano la battaglia nei gruppi parlamentari. Chiedendone la convocazione il prima possibile, per una discussione vera, a cuore aperto. I numeri dei gruppi parlamentari sono diversi da quelli della direzione e le mosse sulle presidenze delle Camere non favoriscono l’unità intorno a Bersani. Quindi la “sospensione” decisa dal Colle e il voto sul presidente lasciano aperta la porta a un governo istituzionale. «I saggi preparano una soluzione anche per chi verrà dopo Napolitano», spiega un deputato Pd che considera indispensabile un’intesa con il centrodestra. La pensa così anche Paolo Gentiloni, deputato renziano. «È necessario difendere il lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica e non renderlo complicato, visto che già è difficile. Male che vada sarà un lavoro istruttorio che utilizzerà il suo successore». Il punto è non far precipitare la crisi verso le elezioni anticipate. «Abbiamo avuto un no da parte di Berlusconi e dal Movimento 5 Stelle e abbiamo giustamente detto no ad una coalizione politica Bersani-Berlusconi.
In questa situazione Napolitano il presidente della Repubblica non poteva fare altro, anche perchè il voto nell’immediato sarebbe una follia».
Gentiloni considera prematura dunque una discussione interna al Pd. «Lasciamo lavorare Napolitano», è la sua parola d’ordine. Ma anche i sostenitori del governo del presidente temono il confronto, al pari degli altri. Perché la conta su «voto subito o no» può riservare delle sorprese. I Giovani Turchi di Orlando, Fassina e Orfini sono contrari a qualsiasi intesa con il Pdl. A costo di correre verso le urne. «In quel caso — spiega Orfini — se Renzi crea le condizioni giuste, sarà lui il leader di tutti. Altrimenti, troveremo un’altra candidatura per le primarie».

Repubblica 2.4.13
Il fratello del leader archivia l’illusione “Pierluigi premier? Forse in un’altra vita”


ROMA — «Pierluigi premier? Sì, in un’altra vita...». Mauro Bersani non crede più alla possibilità che suo fratello, segretario del Pd, possa diventare capo del governo. Formalmente il pre-incarico assegnato da Napolitano non è ancora stato revocato, ma illusioni - se è vero quel che racconta il fratello - Bersani non se ne fa più. «A Pasqua ci siamo incontrati per un aperitivo - ha detto Mauro Bersani a “Un giorno da pecora” su Radio Due -. Come l’ho trovato? Sereno, certo non felicissimo, un pò meno allegro del solito. Certamente era un po’ deluso, ma lui riesce a mascherare bene». E in famiglia come hanno preso questa sconfitta di Pierluigi? «La pensano come me, sono dispiaciuti perchè sanno che si è persa l’occasione per vedere all’opera un buon amministratore». Ma il segretario ha rinunciato definitivamente al pre-incarico ricevuto per tentare di formare un governo? «Su questo credo non abbia voluto prendere posizioni nette per non interrompere strade e volontà del Quirinale». Il che non significa che la strada di Palazzo Chigi sia ancora aperta: «Mio fratello premier? Sì, forse in un’altra vita...» è la realistica conclusione.

Repubblica 2.4.13
Cacciari: il segretario è incastrato, proponga un altro candidato premier
“Non cadano nella trappola della grande coalizione un nome per aprire a Grillo”
intervista di Andrea Montanari


MILANO — Professor Massimo Cacciari, il Pd deve appoggiare i lavoro
dei saggi o rivendicare un proprio ruolo?
«Cosa vuole che le dica, il Pd finora le ha sbagliate tutte. Non si possono dare consigli a vanvera. Francamente mi sono stancato di continuare a dare consigli che non vengono mai ascoltati e che mi hanno solo reso antipatico a questa classe dirigente».
Che cosa intende dire?
«Da una parte mi sembra che ormai sia chiaro a tutti che se il Pd avesse operato un maggior rinnovamento della propria classe dirigente non saremmo arrivati a questo punto. Dopo una sconfitta così tremenda come quella che ha subito il Pd alle ultime elezioni Bersani avrebbe dovuto farsi da parte. In questo modo la classe dirigente del suo partito avrebbe potuto andare alle consultazioni dal presidente Napolitano proponendo un altro nome».
L’errore dunque è stato di Bersani?
«Ormai il latte è versato, ma sono stati commessi anche troppi errori. Conosco Bersani e sono sicuro che la sua scelta è stata dettata dalla volontà di difendere la sua classe dirigente. Del resto, aveva portato la croce per tutta la campagna elettorale. Mi auguravo che Napolitano scegliesse una strada diversa, ma non l’ha fatto. E il Pd si trova incastrato».
Perché?
«La mossa del Capo dello Stato ha un chiaro senso nemmeno tanto recondito. Un governo che abbia l’appoggio sia del Pd che del Pdl. Le persone che sono state scelte non sono dei saggi, ma degli esponenti politici a tutti gli effetti. Di centrodestra e di centrosinistra».
Un esecutivo di scopo o delle larghe intese?
«Per il Pd, il governissimo sarebbe una trappola. Il partito si sfascerebbe. Ma certo se Bersani si fosse fatto da parte e avesse candidato una personalità come Stefano Rodotà magari il Movimento Cinque Stelle avrebbe reagito diversamente. Un’altra strada poteva essere quella di dare l’incarico a una personalità neutra. Il presidente della Corte Costituzionale».
Invece?
«In questo scenario, al momento, non vedo soluzioni possibili per il Pd. Credo che lo scopo di Napolitano sia quello di ottenere che i saggi consegnino al prossimo Capo dello Stato un possibile programma condiviso almeno da Pd e Pdl. Il Pd non può permettersi di appoggiare un governo Violante- Quagliariello. Se cadesse in questa trappola, il Pd sarebbe morto. E si capisce benissimo allora il perché il Pdl sia disposto ad appoggiare qualsiasi candidato del Pd pur di andare al governo».
Il suo consiglio?
«Essere rigorosi sulla stesura del programma e sperare che Beppe Grillo si sganci dall’immobilismo nel quale si è cacciato sulla base di un programma innovativo».
Che cosa le fa pensare che Grillo potrebbe cambiare idea?
«Non voglio fare il profeta, ma ancora una volta voglio mandare un avviso a tutti. Guardate che se le cose non cambiano e si va subito alle elezioni le vince ancora una volta Silvio Berlusconi».
Ne è convinto?
«Ma Beppe Grillo è veramente convinto che potrebbe prendere di nuovo il venticinque per cento? Mi sembra che non esista un italiano che sia convinto che l’Italia possa essere governata da un esecutivo monocolore grillino. Quanto al centrosinistra, mi sembra chiaro che non si ripresenterebbe con Bersani. Il mio appello lo rivolgo proprio a Grillo. Se si rivota subito l’esito delle elezioni potrebbe essere come quello del secondo voto in Grecia. Se Grillo pensa di prendere ancora più voti, se lo sogna».
C’è un’alternativa?
«Che il lavoro dei saggi possa produrre un programma che possa essere appoggiato anche dai grillini. Allora il nuovo Capo dello Stato potrebbe aprire un nuovo scenario dando un nuovo incarico. Ma non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe succedere nelle prossime settimane senza un governo e nemmeno un Presidente della Repubblica. Che Dio ci salvi».

l’Unità 2.4.13
Muti «disgustato» da Grillo. I 5 Stelle: parliamone
Il Maestro: «Vogliono ottenere il cento per cento dei voti, mi ricordano il fascismo...»
Il comico paragonato a Iago. «Criticare senza dare soluzione ai problemi lo sanno fare tutti»
di Giuseppe Vittori


ROMA Riccardo Muti preoccupa i deputati e i senatori del Movimento 5 Stelle. «Apprendiamo dai giornali che il maestro Riccardo Muti avrebbe espresso delle perplessità sul Movimento 5 Stelle, sui valori che lo animano e su quelli che è in grado di esprimere», per questo «lo invitiamo a venirci a trovare, alla Camera dei Deputati o al Senato della Repubblica, per un incontro che sviluppi un momento di riflessione comune sui temi che sono a tutti noi cari».
Perplessità? Altro che perplessità. Le parole del direttore d'orchestra, uno dei migliori al mondo e della storia della musica classica, vanno ben oltre e non manifestano «perplessità» bensì allarme e disgusto per il «turpiloquio»
costante. In un lungo colloquio col Corriere della Sera il musicista, alla domanda su cosa pensa di Grillo, risponde: «Mi ricorda Iago, che nell’Otello dice: "Io non sono che un critico...". Criticare senza dare soluzioni credibili possono farlo tutti. Se dirigessi un’orchestra dicendo solo quello che non va, non risolverei nulla. Gli italiani si sono stancati della vecchia politica, ma ora hanno bisogno di vedere una luce in fondo al tunnel, e di qualcuno che li guidi verso la luce. Invece sento invocare dittature, "il 100% dei voti": un’avventura che abbiamo già conosciuto, finita malissimo. E poi questo turpiloquio mi fa orrore. Un segno di abbrutimento».
Altro che «perplessità». Per Muti quel «100% dei voti» vuol dire invocare dittature, gli ricorda il fascismo, Mussolini. «Io sono profondamente grato al mio Paese. All'Italia devo tutto. Per questo aggiunge mi fa male vederla così. E avverto la necessità di alzare la voce, per segnalare qualche pericolo e qualche opportunità».
I gruppi di Camera e Senato invitano allora Muti a incontrarli «anche per formulare insieme nuove proposte che possano aiutare la cultura a riprendersi i suoi spazi, restituire agli artisti il ruolo centrale che in qualsiasi società non decadente meritano e rilanciare l'immenso patrimonio artistico del nostro Paese nel mondo». E su quel 100% dei voti? «Per noi, affermare di voler raggiungere il 100% è una metafora che vuole rappresentare la necessità di riconsegnare la politica al 100% ai cittadini».
A questo punto bisogna ricordare un altro punto fermo che Grillo e i suoi hanno formulato con chiarezza: via i partiti. Come sono chiarissime le parole di Muti: quella che per i parlamentari del M5S è una “metafora” al maestro pugliese ricorda nettamente una presa totale del potere che si traduce in dittatura.
Tra le altre cose il Corsera, domanda: «E gli artisti saliti sul carro di Grillo?» «Ognuno è libero di seguire quel che ritiene giusto. Faccio notare – risponde ancora il direttore d'orchestra però che noi abbiamo una idea un po’ distorta, per cui si "fa" l’artista, mentre nella realtà si "è" artista. Essere artista non significa fare lo scapigliato, un po’ folle, con la barba e i baffi lunghi e le parole in libertà, sempre ad agitare le mani con violenza e a insultare gli interlocutori. Non pretendo che tutti debbano essere come Bach, solennemente seduto al suo organo a comporre opere da consegnare a Dio e all’umanità, concependo nelle pause un sacco di figli. Un modello di artista per me è Toscanini, uomo di grande semplicità, eleganza, coscienza civile. O come Verdi. Uomini per cui la forma è contenuto».

l’Unità 2.4.13
Il Grande Megafono ha una strana idea di democrazia
Grillo rilancia sul blog un vecchio brano di Chomsky mentre nega al suo movimento autonomia e capacità decisionale
di Toni Jop


Gli piace Chomsky. O almeno lo ha scoperto, ci è arrivato. Oppure Casaleggio gli ha intimato che se non leggeva il vecchio Noam, non lo avrebbe portato alle giostre.
Nessun problema, si affronta con rispetto anche questo processo di formazione. Con una quarantina d'ani di ritardo. Grillo ha firmato, ieri, un pezzetto estratto dalla presentazione di «La democrazia del Grande Fratello», pubblicato in Italia nel 2005. Gli deve essere piaciuta la lapide: «La democrazia è una scatola vuota» in testa a un mazzolino di concetti. Il primo è che non siamo liberi, il secondo è che i poteri forti hanno organizzato un sistema di condizionamento di massa per cui, tra tv sport e altre amenità, siamo tutti convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili; poi, che il sistema informativo è il veicolo assoluto di questa visione drogata dell'esistenza mentre assopisce l'intelletto e disattiva la partecipazione. Dice quel testo che il sistema sarebbe «perfetto».
E già, pur sconvolti dalla riesumazione «a notizia» di una quantità di frammenti del nostro ossario didattico che davamo per assodati, qualche osservazione critica ci starebbe su questa presunta perfezione. Diffidenti per natura, apparteniamo a quella corrente di pensiero convinta ragionevolmente della imperfezione del potere e dei suoi sistemi di controllo.
CALZA DI NYLON
Il potere, per usare un esempio vigliacco, è una sexy calza di nylon con le sue belle smagliature sempre presenti. Contiamo su quelle, nel nostro piccolo, per fare ciò che spiace al potere e piace a noi; Grillo confida nella perfezione di una intelligenza in grado razionalizzare l'esistente, muove, cioè, da un assunto che tende ad ammazzare resistenze e progetti non allineati, la «lotta», in altre parole. E si vede: perché non c'è atto da lui compiuto sulla strada della salvezza universale applicata invece che con l'acqua santa, con il napalm, che non testimoni il fascino subito dal leader maximo dei Cinque Stelle dal potere.
Difficile sostenere che non stia seguendo esattamente lo schema che attribuisce alle forze responsabili di rendere la democrazia «una scatola vuota». Ha sistematicamente tolto dalle mani del movimento la sua, da provare, capacità auto-decisionale; mentre gli negava autonomia, ha provveduto a fare due cose: la prima, è aver negato al movimento una piattaforma web alternativa al Blog di cui è titolare, almeno fino a questo momento; l'altra iniziativa ha teso a dare ai suoi fedeli l'impressione di contare nella formazione delle decisioni; ha, cioè, allestito un fomicaio in cui ciascuno sia convinto di fare la sua parte decidendola coralmente ma del tutto al di fuori dell'area di pensiero che attiene alla strategia generale, al confronto con i temi della politica internazionale, dei grandi temi economici e, in parte, di quelli etici.
L’ORDINE COSTITUITO
A tutto questo, al campolungo, pensa lui, con Casaleggio, quello che gli presta i libri da leggere. È lui l'ordine costituito, all'interno del suo movimento; per questo, espelle le difformità, sanziona le deviazioni, non accetta alcun controllo su di sé e neppure su Casaleggio, che altrimenti non gli presta più i libri. Non solo: si premura che le riunioni dei suoi parlamentari avvengano lontano dalla web-democrazia, se non quando pensa che la pubblicità di quegli atti in corso d'opera sia una garanzia rispetto alla tenuta dei suoi ordini.
Intanto, allestisce, e tiene in vita, una soap opera senza fine in cui è l'unico interprete, sia quando fa il nuotatore, sia quando invoca l'urlo della folla. In altre parole, eccolo impugnare proprio quella dinamica di potere che intende cassare al suo esterno, ma a parole, perché la bella spinta anti-sistema di Grillo puzza forte di neo-corporativismo. Ciò che ci interessa è la qualità delle letture che sta affrontando in queste ore di relax. Ora deve solo aspettare, dopo settimane in cui pareva, ed era proprio così, che le cose, le scelte, riposassero quasi per intero nelle sue manine. Al momento assolto, legge in una delle sue ville vista mare.

il Fatto 2.4.13
Democrazia diretta? I Cinque Stelle leggano Aristotele
La grecista Eva Cantarella e la politica di oggi
“I nostri rappresentanti non hanno più parole perché non hanno idee: sfoglino l’Odissea, farebbe bene a tutti”
di Antonello Caporale


Manca l’impegno, l’approfondimento, l’applicazione quotidiana. Manca lo studio, dilaga l’ignoranza. “La politica non ha più parole perché non possiede idee. Che nascono se si dispone al pensiero, allo studio sistematico, alla fatica. Secondo lei hanno mai letto Omero? ”. Eva Cantarella è una grecista di fama internazionale, i suoi libri, i suoi studi sul diritto romano e la Grecia antica sono noti in tutto il mondo, e si inquieta all’idea dei senza idee. Professoressa, almeno cento sui mille del Parlamento avranno letto, altri cento avranno solo sfogliato il suo libro preferito. “Non chiedo di leggere tutta l’Odissea, che pure è uno strepitoso libro sulla vita, sull’esistenza, un viaggio alla ricerca di se stessi mescolato alla potenza della fantasia. Almeno lo tenessero sul comodino e lo sfogliassero qualche volta. E lo alternassero con un volume fondamentale di John Rawls: La teoria della giustizia. Basterebbero solo alcuni passi per capire di più il mondo e persino il nostro tempo”.
SPERIAMO che almeno i saggi di Napolitano abbiano avuto questa fortuna in gioventù. “E agli amici di Grillo, ai suoi deputati del Movimento 5 Stelle consiglio fermamente un libretto facile e agevole, ma decisivo per la loro formazione culturale. Discettano di democrazia diretta? Allora e prima di tutto leggano La Costituzione degli Ateniesi di Aristotele. Temo infatti che abbiano gravemente frainteso il senso di quel modo di vivere la vita e il diritto”. Ah, il loro famigerato uno vale uno! “Ecco, sì. Nella Grecia effettivamente ogni cittadino aveva diritto di andare nell’agorà per contribuire alla gestione della cosa pubblica. Ma aveva l’obbligo di sostenere attivamente la gestione, il governo. Pesava su quel cittadino l’etica della responsabilità, l’obbligo di dare risposte e l’assoluto dovere di farsi carico del proprio ufficio”. È rimasta delusa dal loro comportamento? “Ho idee dichiaratamente di sinistra, e non smetterei mai un secondo di pensare che i partiti sono insostituibili e vitali alla democrazia. E sono afflitta da questo nostro tempo, e afflitta dalle domande che continuamente mi rivolgono quando mi trovo all'estero: ‘Come è stato possibile, cosa vi è successo, perché Berlusconi? ’. Come se la domanda degli amici parigini e di New York non fosse la stessa, identica mia. Com’è possibile che ci siamo ridotti così, che siamo finiti in questo vicolo cieco. Mi viene da dire: colpa della nostra afasia, della mancanza di un briciolo di memoria, di un minimo di etica. Vent’anni sono passati e ora assisto all'esplosione del Movimento 5 Stelle. Non avevo idea che fosse così partecipato, e certo è stata sentita la voglia di buttare via questo mare di politicanti. Ho conosciuto stimatissime persone che mi hanno confessato di aver dato il voto al simbolo di Grillo. Non che non veda l’aspetto positivo: volti e modi di pensare finalmente connessi con la società civile. Ma mi aspettavo un minimo di preparazione in più, di adeguatezza in più rispetto alla crisi che ora è sfociata in uno stallo pericoloso. Perciò dico ai deputati: leggete Aristotele e poi parlate”. Si fanno chiamare cittadini. “Cittadini è una bella parola, ma non la voglio usare. Dico deputati e mi convinco che sia la parola adeguata. Essi parlano di democrazia diretta. Dunque hanno l’obbligo di conoscere almeno i fondamentali e di sapere, per esempio, che gli ateniesi partecipavano alla discussione pubblica con consapevolezza di causa”. Ma sono giovani, alcuni di essi anche impreparati, tutto è cascato sulle loro spalle in modo così improvviso. Non è una esimente importante? “L’impreparazione e l’ignoranza non è una esimente, mi spiace. Non basta dire sono casalinga per essere assolta. Sei casalinga e deputata e devi contribuire a trovare uno sbocco alla crisi. Contribuisci con la tua forza e le tue idee, ma non disertare per favore”. Dovessimo andare indietro nel tempo, quali similitudini troverebbe e quale periodo indicherebbe? “La fine della Repubblica romana. A Roma si combattevano fazioni intransigenti mentre il potere era eternamente instabile. Finì che arrivò Cesare. Grande personaggio che però spalancò le porte all’Impero. I miei occhi guardano e la memoria va sempre all'indietro. Continui flashback che mi fanno chiedere: ma questi governanti hanno memoria? Ma gli italiani hanno memoria? Ma come è stato possibile offrire ancora a Berlusconi tutti questi voti? Chiedo: ma ci vedete bene? Vedete anche voi quel che vedo io? Questa crisi non è solo economica, intreccia le basi morali della nostra società, è figlia di una caduta di massa dell’etica, di una volgarizzazione generalizzata. Infatti il turpiloquio è l’approccio consueto nella discussione pubblica e televisiva. Non desta scandalo, c’è ormai assuefazione. È solo una curva di acuti che si confrontano: uno dà sulla voce all’altro. Parlano e di cosa? Hanno sterminato la scuola, che è l’alfabeto della nostra società. Pensi solo alle poesie che si imparavano a memoria. Certo, non era il massimo. Ma hanno creato per generazioni un fondo comune di conoscenza. E ora cosa c’è? ”.

il Fatto Lettere 2.4.13
Solo un governo a cinque stelle
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, c’è una cosa che non mi spiego. È vero che il Presidente della Repubblica assegna l'incarico di formare un governo a un rappresentante del partito più votato, ma non è obbligatorio. E infatti a questo principio vi sono state molte deroghe. In questo caso perché non dare l'incarico di un secondo giro a un Cinque Stelle? Certo, quel Movimento avrebbe dovuto indicare un nome, oppure accettare il nome di uno di loro fatto dal Presidente della Repubblica. Non sarebbe stata una verifica interessante? E subito dopo si sarebbe potuto constatare se avevano “i numeri”. Perché perdere una occasione così utile, così importante?
Nicola

È UN FATTO che se fossi stato il Presidente della Repubblica avrei trovato irresistibile andare al punto: chi mi indicate? Se pensate che, dei 156 deputati eletti del Movimento Cinque Stelle, solo due sono autorizzati a parlare, che uno è al Senato, ma che la delegazione più numerosa è alla Camera, sarebbe stato inevitabile dare l'incarico alla signora Roberta Lombardi. Da quel momento la deputata Cinque Stelle avrebbe sperimentato per la prima volta uno dei passaggi più interessanti e importanti della vita democratica: spiegare il proprio programma di governo, confrontarlo con il punto di vista degli altri e accettare o respingere punto per punto fino a ottenere un numero di “sì” sufficienti per tornare dal Presidente e, come si dice, “sciogliere la riserva”. A questo punto sarebbe stato importante conoscere l’organigramma del nuovo governo, se e quali ministeri nuovi ci sarebbero stati, se e quali ministeri tradizionali sarebbero stati accorpati o aboliti. E non vorreste sapere i nomi dei designati, anche per imparare, assieme ai nuovi eletti, se e quale rapporto si stabilisce o si dovrebbe stabilire fra vita, esperienza e incarico politico? Per chi non ha mai pensato che, prima del Movimento Cinque Stelle, ci fosse qualcosa da rimpiangere, tutta questa fase di lavoro, in parte contro il passato, e in parte in collaborazione con coloro che, sia pure a diverso titolo, fanno parte del presente, sarebbe stata importante, rivelatrice, un vero debutto del Movimento in un mondo finora non frequentato e non sperimentato. Difficile dire che cosa lo abbia impedito, e come il Capo dello Stato abbia resistito alla sfida: “Un governo nuovo? Cinque Stelle o nessuno”. Prima di nessuno, proviamo Cinque Stelle. Non sarebbe facile, e non sappiamo se sarebbe possibile. Una ragione in più per provare subito.

Corriere 2.4.13
«Potevamo dialogare» Le critiche (interne) alla strategia 5 stelle
E Crimi: Napolitano esautora le Camere
di Emanuele Buzzi


MILANO — Una riunione ieri — a ranghi ridotti, nel tardo pomeriggio — e una oggi: i Cinque Stelle tornano a confrontarsi dopo la Pasqua per affrontare il nodo dei «saggi» decisi dal Quirinale e il rebus dello stallo politico. L'orizzonte del Movimento per ora registra solo perplessità. «Si tratta di una scelta totalmente irrituale quella adottata da Giorgio Napolitano», afferma Vito Crimi. Per il capogruppo al Senato c'è il rischio ulteriore «di esautorare un Parlamento già zoppo». E per ribadire il concetto, Crimi sottolinea il fatto che non siano ancora state create le commissioni e che «manchi» anche la giunta per le elezioni. «Ci sono, secondo i nostri calcoli, circa una trentina di parlamentari che forse non potrebbero sedere né a Montecitorio né a Palazzo Madama: dopo un mese dal voto, è una situazione insostenibile», sbotta.
Nel Movimento c'è fermento. Se la maggioranza dei parlamentari insiste nel ripetere che fornire dei nomi per un eventuale premiership è inutile, perché la soluzione dei Cinque Stelle «non è mai stata presa in considerazione» e c'è solo «il rischio di killeraggio mediatico per un esponente estraneo alla politica», alcuni deputati manifestano altre idee. È il caso di Alessio Tacconi che, su Facebook, fa autocritica: «Personalmente, ritengo che il risultato della strategia adottata dal M5S in questa tornata di consultazioni poteva essere migliore». Tacconi rincara la dose: «Ritengo che si poteva ottenere qualcosa di più, se avessimo accettato di portare avanti un dialogo politico più serio e strutturato con le altre forze politiche». In serata è lo stesso Crimi che, indirettamente, con un lungo post, gli risponde: «A quanti oggi sostengono che avremmo dovuto offrire una possibilità a Bersani e al Pd, chiedo: quante possibilità gli sono state concesse in questi anni?». E sul nome per un presidente del Consiglio a Cinque Stelle, sostiene: «Mai ci è stata richiesta — da chi istituzionalmente avrebbe potuto farlo — un'eventuale proposta». Crimi ipotizza che un passaggio in Aula di Bersani sarebbe stato plausibile, anche nel caso il segretario pd non avesse avuto i numeri per la fiducia. Un governo Bersani per gli affari correnti «almeno sarebbe stato rappresentativo di una maggioranza relativa e non di una strettissima minoranza come il governo Monti». Sempre sul social network il deputato Luigi Gallo annuncia: «A breve avremo i nostri "saggi", legittimati dall'aver prodotto veri cambiamenti nella nostra società a vantaggio dei cittadini, degli esclusi e dei senza voce». E spiega: «Inviteremo esperti dell'economia all'assemblea dei portavoce 5 Stelle per definire nel dettaglio la politica economica del M5S». E proprio nelle stesse ore, il capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi, ha twittato il parere di Gaetano Troina, professore ordinario di Economia a Roma Tre sul provvedimento che dà il via libera allo sblocco dei pagamenti alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni.
Ma oltre al dibattito su personalità da proporre e impasse governativa, a tenere banco nelle riunioni del Movimento sono state (e saranno) le iniziative da prendere in Aula. Dopo aver preannunciato un'interrogazione parlamentare sulle perforazioni di Ombrina Mare al largo dell'Abruzzo (con conseguente scontro con il ministro Corrado Clini), i Cinque Stelle avrebbero allo studio provvedimenti per riformare la legge elettorale e norme anche anticorruzione. Tematiche da portare avanti insieme al taglio dei costi della politica e allo stop ai rimborsi elettorali. Intanto Beppe Grillo, sul blog, per l'editoriale dei post de «La Settimana», prende spunto da Noam Chomsky e titola «La democrazia è una scatola vuota». «La macchina da indottrinamento al servizio di potentissimi, e occulti, poteri finanziari — scrive il leader citando la prefazione di un libro dello studioso Usa — è per Noam Chomsky il vero Grande Fratello della società americana e occidentale».


Repubblica 2.4.13
Questo paese indeciso a tutto
di Ilvo Diamanti


NON è piaciuta la scelta del Presidente Napolitano, dopo il tentativo di Bersani – senza esito – di formare un governo. L’istituzione di due commissioni di Saggi. Non è piaciuta. Ai principali partiti. (Non solo e non tanto per ragioni di “pari opportunità). Come la ri-legittimazione del governo Monti.
Così, per la prima volta dopo il voto, fra le tre principali formazioni presenti in Parlamento, c’è accordo. Nel disaccordo. Contro la decisione del Presidente. Che, effettivamente, allunga questa fase “eccezionale”, per qualsiasi democrazia. Visto che l’Italia, da quasi un anno e mezzo, è governata da un gruppo di “tecnici”, non eletti, ma nominati dal Presidente. Sostenuti, fino a sei mesi fa, da una maggioranza eterogenea. Per necessità. E per emergenza. Per l’impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare intorno a un governo. Per la necessità di affrontare l’emergenza economica e politica, interna e globale. E di rispondere agli impegni, di fronte alle autorità finanziarie e alle istituzioni internazionali.
Oggi, però, abbiamo un Parlamento rinnovato. Profondamente. Per l’ingresso di nuovi parlamentari. E di una nuova forza politica: il M5S. Che ha occupato uno spazio molto ampio. Nei consensi e nei seggi. Nel dibattito politico e presso l’opinione pubblica. Tuttavia, le condizioni che avevano determinato – quasi imposto – l’incarico al governo tecnico non sembrano cambiate.
La crisi economica nazionale e internazionale: si è fatta più seria. Grave. Dopo le elezioni, il clima sociale interno è avvelenato. Mentre all’esterno, si respira un sentimento di scetticismo diffuso nei confronti dei nuovi e vecchi attori della scena politica italiana. Monti, l’unico di cui si fidassero i “mercati” e i leader internazionali, dopo l’avventura elettorale, è divenuto, anch’egli, poco credibile. Anzi: in-credibile.
Peraltro, nessuna fra le possibili soluzioni proposte dalle maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento, oggi, appare effettivamente praticabile.
Il Centrosinistra, guidato da Bersani, – o meglio: Bersani, alla guida del Centrosinistra – avrebbe voluto, comunque, verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare, intorno alle sue proposte. Contava, cioè, di conquistare il sostegno di una parte dei senatori del M5S, in dissenso con le indicazioni di Grillo. Com’è avvenuto
in occasione dell’elezione di Pietro Grasso a Presidente.
Operazione rischiosa. Perché, se anche avesse funzionato, avrebbe restituito una maggioranza precaria, sempre in bilico. Marchiata dal “tradimento”, come non esiterebbe a gridare Grillo. Affiancato da Berlusconi e dal PdL.
Il Centrosinistra, d’altronde, non ha alcuna intenzione di intraprendere, nuovamente, la Grande Coalizione. Che, invece, piacerebbe al PdL. Soprattutto a Berlusconi. Per uscire dall’angolo e condizionare l’agenda futura. Ma piacerebbe, ancor più, a Grillo e al M5S. Che potrebbero rilanciare la loro strategia di successo, in questa fase. La rivolta contro la partitocrazia e la classe politica. Contro il PdL e il PdLmenoL.
Elezioni a breve termine – inevitabili in un clima di confusione politica e parlamentare – avrebbero un esito imprevedibile.
Ma piacciono molto al M5S. Favorito da questo clima impolitico, amplificato dalla crisi della politica. Piacciono anche al PdL. Perché la “mancata vittoria” e l’incapacità di formare un governo farebbero del Pd il principale capro espiatorio, in caso di elezioni immediate.
Come se, paradossalmente, avesse governato — male – senza neppure governare. E gli altri avessero fatto opposizione – anche in assenza di un governo.
Con questa legge elettorale, tuttavia, difficilmente – e parlo in modo prudenziale – qualcuno riuscirebbe a conquistare la maggioranza dei seggi al Parlamento.
D’altra parte, perché mai questo Parlamento – appena eletto – dovrebbe varare una nuova legge elettorale, in fretta e furia, senza aver quasi cominciato la legislatura, se non vi è riuscito il precedente, con cinque anni a disposizione?
Infine, come potrebbe, come avrebbe potuto, il Presidente Napolitano, assumere una decisione vincolante per il prossimo futuro, proprio ora che è in uscita? Nominando – e imponendo al successore – un solo Saggio? Cioè, un altro Tecnico, super partes, a capo di un “governo di scopo”? Di durata comunque non breve? Per questo, a mio avviso, la scelta di nominare le Commissioni di Saggi è risultata inevitabile. Perché è una nondecisione.
Una in-decisione. Che riflette e sottolinea l’im-potenza di questo Parlamento, caratterizzato dall’irruzione di un non-partito. Di questo Paese. Privo di Autorità riconosciute e legittimate. Per prima, quella “paterna”, come ha suggerito Eugenio Scalfari, una settimana fa. Un Paese, dove, per utilizzare un’efficace metafora di Barbara Spinelli, il “trono è vuoto”. Ovvero: “il posto di comando è vacante”. Ed è questa la Questione. Che fatichiamo ad accettare. Noi, italiani, siamo diventati, ormai, un Paese di minoranze. Politiche. Irriducibili. Ciascuna incapace di imporsi sulle altre. Ciascuna gelosa del proprio potere di veto. Sugli altri. Indisponibile, per questo, ad accettare leggi che consentano a qualcuno di governare sugli altri. Per questo è tanto difficile modificare la legge elettorale, il Porcellum. E ci teniamo, quasi unici al mondo, un sistema bicamerale perfetto, che pone sullo stesso piano le due Camere, peraltro elette con leggi elettorali diverse. Rendendo complicata ogni scelta. Ogni maggioranza.
Così, Napolitano ha applicato l’unica soluzione possibile in un Paese eternamente in-deciso, come il nostro. Ha fatto ricorso a quella che il filosofo John Perry ha definito la “procrastinazione strutturata”. Cioè, l’arte di rinviare a domani ciò che “dovremmo” fare oggi stesso. Ma in modo, appunto, “strutturato”. Programmando “altre” cose utili. Ma meno importanti. Per prendere tempo. Perché più tempo “potrebbe” favorire il dialogo, far emergere soluzioni. Oggi non ancora visibili. Potrebbe. Ma potrebbe anche avvenire il contrario. Nuove divisioni e fratture. Più profonde e drammatiche. Fino a rendere inequivocabile quel che ancora non è abbastanza chiaro. A tutti. Che un Paese im-potente e senza autorità, senza padri né governi: non può durare a lungo. Non è uno Stato, ma uno “stato”. Un participio passato.
Rendersene conto, prenderne atto, costituirebbe la premessa di un cambiamento reale. Se i Saggi sono davvero tali, possono provare a spiegarlo. Al Parlamento e ai cittadini. In un modo esemplare. Per non concedere alibi a nessuno: lascino al più presto il Parlamento, i partiti – e i cittadini – da soli. Di fronte alle loro responsabilità.

il Fatto 2.4.13
Stagionali in Sicilia
Cassibile, lavorare senza esistere “Qui è peggio di Rosarno”
di Veronica Tomassini


Uscendo dal paese, lungo strette carraie, oltre la moschea e la vecchia ferrovia, brucia la terra degli schiavi, sono falò e incensi esotici. Seguendo le mulattiere e i muri a secco, ad ogni casa colonica franata, ad ogni rudere, che si alterna tra un podere e un giardino di agrumi, sul poggio roccioso sopra Cassibile, incalza l’Africa degli stagionali, con scritte su pareti grezze sbriciolate “W Sudan”, con abiti a stendere sopra le agavi e i rovi secchi.
BISOGNA inoltrarsi, dove soltanto i padroni possono, fuori dal paese, Cassibile, il più islamico della provincia, 14 chilometri a sud di Siracusa. Gli uomini che seguono le campagne attraversano le mulattiere, riparano in certi luridi pagliericci, vengono dal Sudan (moltissimi dal Darfour), Ghana, Eritrea. Sono già nella retrovia dei bivacchi, in attesa della raccolta (la patata novella), comincia a fine marzo inizi di aprile e fino a maggio, ma gli uomini che seguono le campagne arrivano prima, a febbraio, tolgono gramigna dai poderi, vengono da Paternò dove hanno esaurito la raccolta delle arance. Cassibile è sempre in emergenza, per qualcuno di loro. Detto tra i denti, Cassibile è peggio di Rosarno. Per Azibo Cassibile è peggio di Rosarno, sì. Lo incontro al cospetto del poggio, esce dalla casa colonica, con una tanica in mano piena di acqua sporca, mentre dietro di lui un rigagnolo maleodorante segna il terreno sconnesso. “Ti prego, no scrivi, noi dopo problemi”. Temono le ritorsioni, i rastrellamenti, più o meno coercitivi. Azibo è stato a Paternò, prima ancora a Lecce per il pomodoro, Andria e Campobello. Dopo Cassibile ripartono per Lecce, Azibo con i compagni di raccolta Banga e Badu. Azibo dice che è finita la pratica dei caporali, così la paga giornaliera è abbastanza buona, sono quaranta euro, per otto ore, contro le venti venticinque di qualche anno fa (su dodici ore anche). La mattina all’alba Azibo, Badu, Banga sono in piazza, in paese, e anche al tramonto, è lì che si concludono gli affari, lì arrivano i padroni, scelgono, contrattano.
BADU è arrivato a Cassibile con un grosso sacco sulle spalle, dentro nascondeva la bombola del gas: servirà per cucinare e finché dura la trascinerà da un pagliericcio all’altro, i piedi abituati alla fatica e la suola delle scarpe sollevata. I caporali non ci sono, promette Azibo Quando esploderà il caso Cassibile - ogni anno è “il caso Cassi-bile” in piena stagione - e monteranno le tende nello svincolo per l’autostrada (gestite dalla Croce Rossa), in quelle tende Azibo e i compagni non entreranno mai, quelle tende sono per i regolari, quanti sono i regolari: sei sette, quanti? Gli uomini della raccolta non chiedono altro, i residenti non affittano nemmeno i feretri agli stagionali. In fondo per il paese, il più islamico della provincia, quegli uomini non esistono. Ci sono stati gli anni delle levate di scudi, una guerra tra poveri tutto sommato, frange isolate di intolleranti crearono non pochi disagi. Eppure il paese, che ha una moschea, un paio di bazar, kebabberie sparse e macellerie islamiche, vanta una percentuale altissima di gente proveniente dal nord Africa. I ragazzini (seconda generazione di immigrati, di solito da Tunisia e Marocco) parlano persino in dialetto, una specie abbordabile di integrazione forse è già accaduta.
MA GLI STAGIONALI fuori le tende, fuori il paese, sono un’altra storia. Quegli uomini che seguono le campagne non esistono, sono braccia e basta e gambe solide. Prima del tramonto il Sudan si raccoglie a crocchio davanti la scuola media del paese. Il Sudan: sono tre, quattro giovani che non sorridono mai e guardano sempre a terra, ma parlano bene l’inglese. A qualche metro di distanza il drappello di cingalesi, parlano per fatti loro, loro non dormono nei pagliericci. Alla fontana signori in tarbush o con la shashia (copricapi) e le donne con l’hijab. Le donne non si vedono spesso, neanche quelle del posto, le italiane. Poi incontro Feiza, con i figli, davanti al pc nell’aula di informatica dell’istituto comprensivo dedicato a Falcone e Borsellino. Feiza di Tozeur (Tunisia) accompagna i figli a scuola con la sua automobile, ha l’hijab a coprirle il capo, ma sembra emancipata, libera in un certo senso. Vivono fuori dal paese, vicino i pagliericci, i rovi nelle case coloniche, con vecchi abiti ad asciugare. Feiza ha una casa normale, non conosce gli uomini delle campagne, si incrociano per strada al limite, gli uni sotto il sole verso i poderi, lei in station wagon. Anche il marito lavora in campagna, ma lui è uno regolare, lui esiste un poco per gli altri, gli indigeni.

l’Unità 2.4.13
L’analfabetismo di ritorno fa male anche alla democrazia
Solo il venti per cento degli italiani comprende il senso di un testo complesso
di Fabrizia Giuliani


NELL’ERA DELLA COMUNICAZIONE IN TEMPO REALE, DELLA DEMOCRAZIA DIGITALE, DEL CHI NON SA O SI FERMA -, È PERDUTO, i dati sull’analfabetismo di ritorno emersi dall’indagine All -Adult Litercyand LifeSkills promossa dall’Ocse, aiutano a capire le radici della crisi politica italiana più di molti editoriali delle ultime settimane.
La ricerca conferma ciò che già da tempo si sa: più di due terzi della popolazione non è in grado di leggere e capire a fondo ciò che legge, solo il 20% degli italiani comprende il senso di un testo complicato dalla presenza di subordinate, cifre o grafici. Oltre le frasi elementari, l’italiano, per gli italiani, è una lingua in gran parte straniera, e i numeri, oltre le operazioni semplici, sono per molti un continente sconosciuto. Se la regressione delle competenze è un fenomeno che attraversa tutti i Paesi in quanti ricordano i residui alogenici o le irregolarità delle desinenze del latino usciti dai licei? in Italia la qualità e la quantità di questo arretramento ha avuto conseguenze catastrofiche, come da tempo afferma e argomenta De Mauro.
La dealfabetizzazione caratteristica dei Paesi più ricchi si somma da noi alla passata mancata scolarità, propria di un Paese segnato da un processo di modernizzazione senza sviluppo, come scriveva Franco De Felice. Questo nuovo analfabetismo ha caratteristiche inedite: chi oggi legge senza capire, non sempre ne è consapevole, mentre chi ieri firmava segnando era invece ben conscio della propria condizione, lottava per conoscere o per consentire ai propri figli di farlo. I nuovi analfabeti sono lontani dai cliché per età, appartenenza sociale e abitudine. Molti di essi hanno redditi elevati, accedono alla rete e usano i social network. Non sono dunque solo gli anziani privati delle opportunità, ma anche i giovani che stentano a trovarle, a sviluppare nel lavoro le conoscenze acquisite a scuola e all’università. Non stupisce che questo massiccio «analfabetismo funzionale» non venga vissuto, collettivamente ed individualmente, come problema. Gli inciampi dati da ciò che non si sa vengono superati delegando alle risorse tecnologiche. La rete aiuta ad orientarsi, offre appigli immediati e soprattutto semplifica. Il tempo necessario alla fatica della conoscenza fatica del corpo e della mente è respinto: superfluo rispetto alle necessità del qui e ora. Stupisce invece come quest’ordine di considerazioni da porre accanto alla verifica sul calo delle immatricolazioni, sui giovani con laurea ma senza lavoro, sul numero di libri e giornali letti in Italia resti sostanzialmente fuori dal ragionamento politico. Il nuovo analfabetismo non è un fenomeno circoscritto. Pesa nella formazione della vita associata, nella costruzione del senso comune, della cultura e della lingua. Condiziona le forme della comunicazione e della politica. Riduce la lingua all’osso e combatte l’argomentazione. Non capire cosa si legge significa essere privi degli strumenti per orientarsi in una società complessa, del controllo sulle decisioni pubbliche e sulle deliberazioni; in altre parole ancora, vuol dire affidarsi. Leggere senza capire vuol dire spesso comunicare senza ragionare.
Sta qui una parte cruciale della nostra crisi democratica, e da qui si dovrebbe partire, oggi, per distinguere tra le risposte doverose alle istanze di cambiamento e le illusioni regressive di un «nuovo» senza volto. La politica non può rassegnarsi allo spirito e alla lingua del tempo: ciò che oggi i cittadini richiedono, se si ha l’attenzione di considerare non solo le grida e i blog più seguiti, è un atto di responsabilità e di scelta. Combattere l’analfabetismo funzionale non vuol dire solo un robusto e finanziato programma per la scuola e l’università, vuol dire combattere il dileggio verso le forme strutturate e reali della vita associata, le istituzioni, l’informazione. La casta non c’entra: è in gioco il rifiuto per il dialogo, la mediazione tra diversi, il senso del limite, l’accordo senza il quale non c’è, prima ancora di ogni equilibrio politico, assetto civile che tenga.

l’Unità 2.4.13
Evasori: carcere e gogna sociale. Ma l’Italia frena
In Usa si ipotizza persino la cospirazione contro lo Stato
Identikit sul web in Irlanda e Regno Unito
Ocse e Fmi chiedono banche dati e incroci di notizie, ma da noi si invoca la privacy
di Bianca Di Giovanni


Quando è stata annunciata l’Anagrafe tributaria Attilio Befera si è beccato il soprannome di «Grande Fratello». I più cattivi hanno evocato la «spectre», i più sottili hanno invocato la privacy. Nessuno, purtroppo, ha sottolineato quello che per gli esperti è ormai un dato assodato: tutte le organizzazioni internazionali, dall’Ocse all’Fmi, chiedono la costituzione di banche dati, flussi, incroci e stoccaggi di informazioni. Questa è l’unica strada per ingaggiare una vera lotta all’evasione. Una guerra che si sta facendo sempre più feroce, soprattutto dopo l’esplosione dei debiti pubblici di qua e di là dell’Atlantico. Lo Stato va in «rosso» mentre i forzieri dei paradisi fiscali si gonfiano, le frodi carosello (meccanismi fraudolenti dell’Iva attuali attraverso vari passaggi) si fanno sempre più sofisticate, le società off shore si moltiplicano. per questo in tutti i Paesi le armi anti-evasione stanno diventando sempre affilate, in qualche caso feroci. In Irlanda si è scelta la strada della gogna sul web, con tanto di nomi e cognomi degli evasori dati in pasto alla rete. I sacerdoti della privacy hanno mugugnato, ma quando sono arrivati i risultati sono stati ridotti al silenzio.
Negli Usa, altra cittadella del diritto alla privacy, si fa anche di più: ultimamente ha fatto la sua comparsa il termine «cospirazione» contro lo Stato per chi evade. Un’imputazione che omologa un evasore a una sorta di terrorista, in quanto privando lo Stato delle sue risorse mette a rischio l’interesse nazionale. Il sistema americano ha anche inasprito le pene, che prevedono il carcere per una durata media di 36 mesi. Vista così, è chiaro che il diritto alla privacy passa automaticamente in secondo piano: a prevalere è comunque l’interesse pubblico. D’altro canto in tempi di fiscal cliff (il baratro fiscale in cui l’amministrazione Obama si è ritrovata per colpa dei Repubblicani), Barack Obama non può consentire un tax gap a quota 450 miliardi di dollari. A tanto è arrivata nel 2012 la differenza tra le entrate attese e il gettito effettivo. In un decennio gli Usa hanno visto dissolversi circa tremila miliardi di dollari. Una commissione parlamentare che studia il fenomeno parla di circa mille miliardi l’anno di elusione, dirottati all’estero. Magari proprio da quei manager banchieri, che nonostante i subprime hanno compensi in crescita del 60%. Somme pesanti per uno Stato con un deficit di un trilione di dollari.
L’ordinamento americano ha pensato tuttavia di eliminare le agevolazioni fiscali sulle stock option per quelle società che trasferiscono ingenti capitali in paradisi fiscali. E in ogni caso chi elude o froda viene perseguito da un pool di «agenti speciali», circa 2.300, il cui compito è seguire i casi più complessi. Quello di scuola ha riguardato la banca svizzera Wegelin, un istituto bancario storico che è stato accusato da Washington di aver persuaso, assistito e consigliato centinaia di contribuenti nel trasferire i loro capitali su conti all’estero, con l’unico intento di evitare la morsa fiscale. Il danno per l’Erario è stato stimato in un miliardo e 200 milioni di dollari. Proprio la Wegelin è stata condannata anche per «cospirazione» contro lo Stato: una condanna esemplare. I dati della guerra fiscale americana sono durissimi: nel 2012 su 3.701 procedimenti, il 93% sono stati conclusi con una condanna al carcere. Nel decennio, su oltre 31.600 casi aperti da un nucleo speciale di intelligence, 29mila si sono chiusi con la detenzione.
Non che la rigorosa Germania se la cavi tanto meglio, quanto a compliance fiscale. Dopo decenni di retorica della disciplina, Berlino «scopre» un tesoretto di 215 miliardi di evasione fiscale, almeno stando a una stima de minimis. Anche i tedeschi scelgono la strada del carcere dall’estate scorsa: così l’evasione esce dalla categoria di reato minore, ed entra nel girone infernale della pena detentiva. Berlino aveva tentato la strada dell’intesa con la Svizzera, stoppata poi in Parlamento. Ci ha pensato la Corte federale a trovare quest’altra strada, molto meno amichevole della prima.
SLOGAN MINACCIOSI
Persino i britannici perdono il loro aplomb, e decidono di perseguire con tutti i mezzi i «furbetti» del fisco, con buona pace della City che si credeva al riparo del suo «schermo» di segretezza finanziaria. Tra le molteplici strate-
gie messe in campo da Londra, anche quella di pubblicare online i volti, oltre all’identikit, degli evasori. Si è iniziato con i 32 maggiori evasori intercettati dal fisco di Sua Maestà, che dovranno scontare complessivamente 155 anni dietro le sbarre. Ma molto peggio per loro è la «pena» tecnologica, che li espone al «giudizio universale» della rete. Secondo gli esperti in questo modo le frodi carosello sull’Iva sono diminuite si un terzo. La strategia del fisco inglese è ad ampio raggio, e punta a seminare qualche preoccupazione tra i cittadini tentati di nascondere all’Erario il proprio reddito. Su cartelloni, banner, manifesti sui bus, gli slogan dell’Agenzia delle Entrate adombrano paurose minacce. «Ormai ci stiamo avvicinando ai redditi non dichiarati» si legge sotto la foto di una donna che fissa il lettore attraverso uno squarcio tagliato su un foglio di carta. Naturalmente Londra non rinuncia al politically correct. «Se hai riportato correttamente in dichiarazione i tuoi redditi si legge sotto lo slogan non hai nulla da temere».

l’Unità 2.4.13
Il Pd contro il sindaco
«Alemanno sta strumentalizzando il Papa»


«Non credo che il Papa sarebbe contento di sapere di essere finito in un video-spot elettorale. Alemanno ma che fai?». Così su Twitter il senatore Ignazio Marino, candidato alle primarie del centrosinistra per il Campidoglio, attacca il sindaco Gianni Alemanno per il video, pubblicato sul suo sito internet, nel quale il primo cittadino fa gli auguri ai romani con immagini girate durante la Via Crucis di Papa Francesco. Dure critiche al sindaco anche da un altro candidato alle primarie, David Sassoli: «Che l’incontro col Papa sia nel sito del Comune è normale, che sia usato nel sito elettorale di Alemanno è millantato credito».
Intanto Paolo Gentiloni, candidato alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Roma, lancia un appello a cinque giorni dal voto.
«Io chiedo al Pd romano, a tutti noi candidati e al partito di far sapere che per la prima volta a Roma si sceglie un candidato con le primarie. Se 100-200 mila romani ci aiuteranno è chiaro che il Pd partirà più forte rispetto, per esempio, a un candidato dei 5 Stelle scelto da 500 persone e da un sindaco che è in evidente difficoltà».
«È la prima volta che si fanno le primarie riferisce ancora il deputato occorre partire con il piede giusto. Non vorrei primarie conclude Gentiloni che riproducano contrapposizioni fra aree del Pd che hanno nuociuto al partito romano da dieci anni a questa parte».

Repubblica 2.4.13
Così la speculazione si è mangiata Roma
Un libro-denuncia di Francesco Erbani sulla capitale depredata
di Alberto Asor-Rosa


Ci sono libri-inchiesta documentatissimi e noiosissimi; e ce ne sono altri poco documentati e altrettanto noiosi. Roma. Il tramonto della città pubblica di Francesco Erbani appartiene a una terza categoria: quella dei libri-inchiesta documentatissimi, che si leggono d’un fiato come un romanzo d’avventure oppure, se si guarda al gioco stringente dei drammatici rapporti di causa ed effetto che esso segue e rivela, come un avvincente poliziesco. Mi spiego. L’oggetto dell’indagine, condotta con dovizia di strumenti analitici e somma conoscenza della materia, è ovviamente Roma: ossia, più esattamente, l’evoluzione del suo assetto urbanistico nel corso, diciamo, degli ultimi trent’anni, ma con frequenti e illuminanti carrellate all’indietro. Politicamente parlando, il periodo corrisponde grosso modo alle Giunte Rutelli e Veltroni, poi, dopo la dolorosa sconfitta del centrosinistra, a quella Alemanno.
Nel Prologo che apre il libro (sì, detto bene così: Prologo, non Presentazione né Prefazione, perché quel che segue è una vera e propria “sacra rappresentazione”, un evento teatrale carico di significati e conseguenze fondamentalmente drammatici, a cui si conviene un introibo che non si limita a presentare ma è già parte costitutiva della materia), Erbani non fa altro che porre una moltitudine d’interrogativi angosciosi. Cosa vogliono dire questa fitta serie d’interrogativi e questo modo di procedere nella “forma inchiesta”? Vogliono dire che Erbani dispiega agli occhi del lettore sotto forma di domande l’intera problematica relativa alla situazione urbanistica e ai rapporti civili e sociali di una città come Roma (la Capitale della Repubblica, il centro mondiale del Cattolicesimo, una delle città storicamente e artisticamente più significative del globo terracqueo), prima di dar corso alla vera e propria indagine conoscitiva.
Quest’ultima risponde poi, cammin facendo, a tutte le domande poste nel Prologo?
Saremmo eccessivamente gratificanti se rispondessimo di sì in ogni caso. Questo però non dipende dalla scarsità di documentazione o dalle insufficienti capacità dell’autore, le quali invece sono, l’una come le altre, fuori dal comune. Dipende dalle dimensioni gigantesche del problema, che Erbani ha invece il merito di segnalare in tutte le sue tendenziali forme di espressione, anche quando la ricerca del colpevole, o dei colpevoli, richiederebbe un supplemento d’indagine.
Erbani, entrando nel merito, divide la sua materia in otto capitoli, ognuno dei quali la affronta da un diverso angolo visuale e/o da un diverso lato della città: le periferie (i megacentri commerciali, gli agglomerati urbani privi di ogni forma e persi nella solitudine delle campagne); il centro storico (svuotato dei suoi vecchi abitanti, ferreamente sottomesso alla logica del modello affaristico- turistico-gastronomico); il traffico automobilistico, ovunque dominante (la carenza di mezzi pubblici, la mancanza di un piano tranviario, la soffocazione degli spazi e della vita); la devastazione dei luoghi storici e archeologici (la diffusione del privato sull’Appia antica).
Su questa varia e spesso sfuggente materia è tuttavia ben chiaro per Erbani quale sia lo snodo decisivo dell’intero discorso: il predominio a Roma, storicamente e oggi, della grande speculazione immobiliare, che consuma, dentro e ai margini della città, quanto c’è ancora da consumare: per esempio, la devastazione ininterrotta e ancora tutt’altro che dismessa dell’Agro romano, un tempo splendido e oggi ridotto a semplice riserva di nuove, e nella gran parte dei casi immotivate e inutili, intraprese edilizie. Il quadro, visto in maniera così sistematica, è catastrofico. Vi si aggiunga che, nel frattempo, il pubblico ha dismesso a favore del privato gran parte del suo patrimonio (Capitolo 5): e che di conseguenza Roma, da grande “città pubblica”, si è gradualmente trasformata sempre di più in una “città privata” (fonte questa a sua volta di altre pesanti tensioni).
E, appunto, il potere pubblico? E il Comune? Il giudizio di Erbani, sempre circostanziato e attento a distinguere, è tuttavia complessivamente severo, anzi molto severo. Se si esclude qualche illuminazione della Giunta Rutelli (si veda nel merito la conversazione avuta e qui riferita dall’autore con Walter Tocci, allora Vice Sindaco, anche lui del resto sul lungo periodo uno sconfitto) e della prima Giunta Veltroni, ovunque confusione, mancanza di idee generali, e soprattutto una congenita debolezza nei confronti dei poteri forti cittadini. È in questa fase, del resto, che nasce e si sviluppa anche a Roma la sciagurata teoria e pratica dell’“urbanistica concordata”, che significa mettere la programmazione nelle mani della proprietà privata e far retrocedere il pubblico su posizioni di semplice resistenza (nel migliore dei casi). Non parliamo della Giunta Alemanno, che, dopo le fasulle dichiarazioni elettorali, si è meritata ampiamente il titolo di Vestale della speculazione edilizia e del degrado urbano.
Tiriamo le somme. Il tramonto della città pubblica s’inserisce da protagonista in una lunga e nobile serie d’interventi e di opere sulla città di Roma, che del resto Erbani puntualmente fa emergere e richiama là dov’è il caso: dal leggendario I vandali in casa di Antonio Cederna (del resto recentemente ripubblicato dallo stesso Erbani presso lo stesso editore) a Roma moderna di Italo Insolera, da Roma da ieri a domani di Leonardo Benevolo a Se questa è una città di Vezio De Lucia, fino al più recente La città in venditadi Paolo Berdini. Con questa eletta compagnia, «ultimo fra cotanto senno», il Francesco Erbani di Roma. Il tramonto della città pubblica ci sta benissimo. Gli auguriamo cordialmente miglior fortuna di quella che hanno avuto i suoi predecessori.

Roma Il tramonto della città pubblica di Francesco Erbani Laterza euro 12

l’Unità 2.4.13
Il Sunderland assume Di Canio e Miliband lascia
La protesta dell’ex ministro laburista, dirigente della squadra inglese, all’arrivo del mister «fascista»
L’ex calciatore italiano si dice offeso perché gli criticano i valori trasmessi dai genitori
di Gabriel Bertinetto


Per Paolo Di Canio, ex-giocatore della Lazio e di altre squadre in Italia e in Gran Bretagna, Mussolini non è il dittatore che rovinò l'Italia, ma al contrario un genio incompreso. Altri invece comprendono molto bene chi sia lui, Di Canio: un fascista convinto e dichiarato. Ed è motivo valido e sufficiente per abbandonare ogni ruolo dirigente in una società calcistica inglese, il Sunderland, nel momento stesso in cui Di Canio viene chiamato ad allenarla. Decisione tanto più lineare ed onesta, se a prenderla è David Miliband, ex-ministro degli Esteri laburista e fratello di Ed, l’attuale leader dell’opposizione in Gran Bretagna.
«Auguro al Sunderland Afc i migliori successi dichiara Miliband nell’annunciare il ritiro dalla carica di vicepresidente e direttore non esecutivo -. È una grande istituzione che fa tanto per il nord-est dell’Inghilterra, e spero che la squadra vada bene nelle prossime cruciali sette partite di campionato. Tuttavia alla luce delle passate dichiarazioni politiche del nuovo manager, credo sia giusto dimettermi».
Sabato i Black Cats hanno perso in casa contro il Manchester United, ed ora so-
no in piena zona retrocessione. Come accade spesso nel mondo del calcio, a pagare è l’allenatore, Martin O'Neill, licenziato in tronco. Al suo posto, con un contratto di due anni e mezzo, arriva il collega Di Canio, disoccupato per essersi dimesso recentemente dal Swindon, un club della serie B inglese. Anche la sua assunzione al Swindon nel 2011 aveva suscitato polemiche, inducendo lo sponsor, il sindacato Gmb, a recidere ogni legame con la società.
Per David Miliband è il secondo addio alla vita pubblica in patria nel giro di pochi giorni. Aveva appena annunciato di lasciare il seggio in Parlamento per dedicarsi alla sua nuova attività in un’associazione umanitaria, l’International Rescue Committee, a New York. Ma la sua scelta di abbandonare il Sunderland viene criticata come una sorta di «riflesso condizionato» da Jeremy Wray, che ha conosciuto da vicino Di Canio come ex-presidente del Swindon, e dice di «non avere mai discusso con lui di politica».
Di Canio invece nella sua carriera, di politica ne ha parlato spesso, inanellando spropositi. Nel 2005 vestendo la maglia della Lazio, fece il saluto romano rivolgendosi ai tifosi sugli spalti. Squalificato e multato, si giustificò dicendo che quel gesto «per me è un segno di appartenenza ad un gruppo che si rifà a valori veri, valori di civiltà contro la standardizzazione che questa società ci impone». In un’altra occasione definì il duce «persona di grandi principi etici, che è stata profondamente non capita».
Per Piara Powar, direttore di «Football against racism in Europe», è preoccupante che «in un clima di montante intolleranza ci sia un allenatore in attività nel campionato più seguìto a livello internazionale, che non vuole rinunciare alle sue opinioni fasciste. Il fascismo è un’ideologia incentrata sull’intolleranza. Ci sono tutte le migliori ragioni calcistiche per assumere Di Canio, ma le ragioni calcistiche sono forse sufficienti quando qualcuno si porta dietro un bagaglio ideologico di quel tipo?».
Di Canio non capisce, o finge di non capire, la sostanza del problema. «La mia vita parla per me - dichiarava ieri sera -. Mi offende il tentativo di attaccare quello che i miei genitori mi hanno dato, i valori che mi hanno insegnato».
Il dibattito impazza fra i sostenitori del Sunderland. Sul sito online di una rivista legata al club («A love supreme») molti si dicono «turbati» da questa connessione a posizioni di estrema destra. Altri, racconta il direttore Martyn McFadden, vogliono «tenersi fuori dalla politica» e sono solo «interessati a restare in Premier League».
Di Canio ha 44 anni. Fra le squadre in cui giocò sono, in Italia, Lazio, Milan, Juventus, Napoli, e in Gran Bretagna, Celtic, Sheffield, West Ham, Charlton. Di lui si ricordano le buone qualità tecniche, le frequenti intemperanze e un unico ma importante gesto di lealtà sportiva, quando rinunciò a segnare un goal già quasi fatto per soccorrere un avversario infortunato.

Repubblica 2.4.13
Majorana ritrovato
Stefano Roncoroni, parente del fisico racconta in un libro una nuova verità
Le indagini furono fermate. La sua morte, secondo un gesuita, avvenne nel 1939
“Ettore decise di sparire e la famiglia era d’accordo”
di Luca Fraioli


Ettore Majorana è stato ritrovato. Inutile continuare a cercare tracce dei suoi passaggi in Germania o in Argentina. Inutile scomodare le sue presunte simpatie per il regime nazista. E si rassegnino coloro che hanno creduto di riconoscere il geniale fisico siciliano nel senza tetto di Mazara del Vallo o nel taciturno professore di Buenos Aires. Né ci fu il suicidio, un tuffo in mare dalla nave postale che lo riportava in continente da Palermo, ipotesi che indusse la polizia a perlustrare il Golfo di Napoli alla ricerca del cadavere. Tutto da rifare. Ma è da riscrivere anche la versione del ritiro in convento avanzata da Leonardo Sciascia ne La scomparsa di Majorana.
È questa la tesi dell’ultimo dell’infinita serie di libri dedicati al mistero dei misteri italiani: Ettore Majorana, lo scomparso, in libreria per Editori Internazionali Riuniti. Qual è la novità? Che a scriverlo è un parente di Ettore. Stefano Roncoroni, 73 anni, una lunga carriera di critico cinematografico e regista televisivo alle spalle, dal 1962 ha avuto accesso ai documenti familiari relativi alla scomparsa di Ettore e alle testimonianze dirette dei parenti che parteciparono alle ricerche.
Roncoroni, cominciamo dalla fine. Ettore Majorana fu ritrovato?
«Sì, intorno al marzo del 1939. Circa un anno dopo la scomparsa».
Chi lo ritrovò?
«Suo fratello maggiore Salvatore. Ma ebbe un ruolo fondamentale anche mio padre, Fausto Roncoroni».
Ci aiuti a capire la sua posizione nel complesso albero genealogico dei Majoriana.
«Mia madre ed Ettore erano cugini di primo grado. Per questo mio padre collaborò alle ricerche».
Lei come ha saputo del ritrovamento?
«Fu mio padre a dirmelo a metà degli anni Sessanta. Mi raccontò di essere stato uno degli artefici insieme a Salvatore. E Salvatore confermò. Un’altra conferma mi arrivò da Angelo Majorana, anche lui cugino di primo grado di Ettore».
Come e dove fu ritrovato?
«Nessuno di loro volle dirmi di più. Mio padre aveva promesso ai Majorana che non ne avrebbe parlato con nessuno. E all’epoca la parola data veniva rispettata, tanto che anche con me non scese nei dettagli. Né lo fecero mai gli altri membri della famiglia. C’è però una traccia di cui parlo nel libro: mio nonno materno Oliviero Savini Nicci annota nel suo diario di un improvviso viaggio in macchina nell’ottobre del 1938 di mio padre e Salvatore fino a un vallone vicino Catanzaro dove è stata segnalata la presenza di Ettore. Se già non è agevole oggi, si può immaginare quanto fosse complicato andare e tornare dalla Calabria sulle strade italiane del 1938. Dovevano avere un buon motivo per mettersi in cammino, anche se nelle carte di mio nonno quel viaggio non è definito risolutivo».
Riepiloghiamo: Ettore scompare il 25 marzo del 1938 mentre da Palermo torna verso Napoli dove lo attende una cattedra universitaria. Tutta l’Italia che conta, polizia, Vaticano, mondo accademico, si mette sulle sue tracce. Invece a trovarlo sono i familiari più stretti circa un anno dopo. Poi che succede?
«Ettore è irrevocabile nella sua decisione di sparire. Chi lo trova non riesce a convincerlo a tornare sui suoi passi. I Majorana ne prendono atto. E da quel momento fermano o depistano le indagini».
Ma questo non esclude le altre teorie sulla fuga di Majorana all’estero, in Germania o in Argentina.
«E invece le esclude. Perché sono convinto che Ettore sia morto nella tarda estate del 1939».
Come fa a dirlo?
«Lo prova la documentazione che espongo nel libro. Certo, non ci sono atti ufficiali di morte o tombe da esibire. Ma le carte parlano chiaro. Pochi giorni dopo la scomparsa di Ettore si mette in moto una macchina per le ricerche che in Italia non è mai stata allestita nemmeno per i peggiori criminali. I Majorana sono una famiglia potente e in ascesa: scienziati, professori universitari, politici, hanno entrature al ministero dell’Interno e in Vaticano. Chiedono e ottengono una mobilitazione senza precedenti. La polizia dirama bollettini di ricerca e avvisa i posti di frontiera. Il capo della polizia va di persona in un paesino del Salernitano con tanto di unità cinofile per fare un controllo. La Santa Sede setaccia tramite i suoi ordini religiosi i monasteri per sapere se Ettore ha trovato rifugio lì. Indaga anche il ministero per l’Educazione nazionale: la cattedra di Napoli è vacante e bisogna prendere una decisione. Poi, prima dell’estate del 1939, accade qualcosa che ferma tutto questo».
Cioè la macchina delle ricerche si blocca?
«Sì. La cattedra di Napoli viene riassegnata senza che la famiglia protesti. La polizia smette di diramare bollettini su Ettore Majorana e di cercarlo ai posti di frontiera. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano parte una lettera indirizzata alla famiglia in cui, con parole consolatorie, si spiega che “non vi è più alcuna ragione per le ricerche”».
Ma questo non necessariamente significa che Ettore sia morto.
«C’è un altro documento inequivocabile. Nel settembre del 1939 il gesuita padre Caselli scrive a Salvatore. Gli comunica di accettare la donazione che la famiglia Majorana fa per istituire una borsa di studio da intitolare all’estinto Ettore. Se un gesuita nel ’39 usa il termine estinto vuol dire che non ci sono dubbi sulla sorte di Ettore: è morto entro il settembre 1939. E questo toglie di mezzo anche l’ipotesi del suicidio. Non si dedica una borsa di studio religiosa a un suicida».
Si può obiettare che la sua teoria (ritrovamento e morte) sia solo frutto di testimonianze orali non verificabili e di deduzioni basate su documenti.
«Tutta la vicenda di Ettore ruota intorno alla famiglia. I Majorana sanno come sono andate le cose sin dal 1939. Il loro silenzio non ha fatto altro che alimentare le teorie più diverse: il suicidio dalla nave, la fuga in Germania per collaborare con gli scienziati nazisti, la seconda vita in Argentina».
Perché hanno scelto il silenzio?
«Fu una decisione di Giuseppe, zio di Ettore e indiscusso capofamiglia all’epoca dei fatti. Pochi anni prima i Majorana erano stati coinvolti in un caso di cronaca nera, un infanticidio. Una macchia intollerabile per l’onore di una famiglia che il fascismo stava celebrando tra i grandi di Sicilia e che annoverava già senatori, professori universitari e presidi di facoltà. Quando il giovante talento scompare nel nulla, nonostante la brillante carriera che si apre di fronte a lui, per Giuseppe esplode un nuovo scandalo che può compromettere definitivamente il buon nome e le ambizioni di famiglia. Sceglie dunque di far calare il silenzio sulla vicenda e lo fa con un documento che detta a tutti i parenti la verità ufficiale dei Majorana. Nel mio libro parto da quel documento finora inedito, per dimostrare come invece siano andate le cose nella realtà».
Ma se lei era al corrente della “verità” fin dagli anni Sessanta, perché la racconta solo ora?
«Mio padre, Salvatore il fratello di Ettore, mio nonno Oliviero Savini Nicci erano uomini di un’altra epoca. Avevano dato la loro parola al capofamiglia Giuseppe Majorana che non sarebbe trapelato nulla. Finché sono stati in vita io ho rispettato il loro patto. Poi però ho iniziato a fare ricerche per documentare ciò che mi avevano raccontato».
Il suo libro scrive la parola fine al mistero della scomparsa di Ettore Majorana?
«No. Mi limito a riferire ciò che mi fu detto da testimoni diretti e a esibire la documentazione che conferma il loro racconto. Ma manca ancora molto per una ricostruzione completa della vicenda. Si tratta però solo di aspettare: quando il Vaticano aprirà gli archivi relativi al pontificato di Pio XII sarà fatta luce completa sul caso. E si potrebbe fare ancor prima, se i Majorana attuali, i discendenti di quel Giuseppe che scelse di far calare il sipario su Ettore, decidessero a distanza di settant’anni di rompere quel muro di silenzio».

Ettore Majorana, lo scomparso di Stefano Roncoroni, Editori Riuniti, pagg. 256, euro 18

Corriere 2.4.13
Il peccato d'origine della laicità
Secondo Scola la neutralità dello Stato rischia di indebolire la libertà religiosa
di Aldo Cazzullo


«Assecondare le circostanze»: è il metodo di Angelo Scola per restare aderente a ciò che la realtà propone perché — come spesso ripete ai suoi fedeli — «quello che è dato ci corrisponde perché ci è dato». E la realtà è molto generosa, non manca di offrire spunti alla riflessione dell'arcivescovo di Milano, perché «attraverso di essa è la Verità che va incontro all'uomo».
Il saggio che Rizzoli manda domani in libreria, intitolato Non dimentichiamoci di Dio, amplia la riflessione dell'ultimo discorso di Sant'Ambrogio, che a sua volta approfondisce il concetto di «nuova laicità», uno dei fondamenti del pensiero del cardinale Scola, esposto per la prima volta in un'intervista al «Corriere della Sera» nel 2005 e ripreso in un saggio per Marsilio nel 2007. Si parte da una premessa: «Se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata, posta a capo della scala dei diritti fondamentali, tutta la scala è destinata a crollare».
Oggi la libertà religiosa è un'emergenza globale: tra il 2000 e il 2007 sono stati 123 i Paesi in cui si è verificata una qualche forma di persecuzione religiosa, e il numero è in aumento. Nell'Occidente europeo «appare urgente superare la latente diffidenza verso il fenomeno religioso». Il «neoliberalismo contemporaneo» vorrebbe fondare una neutralità dello Stato e della politica, senza accorgersi di giungere a teorizzare che coloro i quali credono in una verità debbano semplicemente essere esclusi dal dibattito politico liberale.
Si pensi al modello francese di laicité, che si basa sull'idea dell'«in-differenza» o neutralità delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso; come se solo questa neutralità fosse idonea a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Una concezione molto diffusa in Europa che, invece di proteggere una irriducibile distinzione, finisce per diventare un pregiudizio istituzionale negativo verso il fenomeno religioso. Perché si chiama neutralità, ma secondo Scola ha il profilo di qualcosa che tanto neutrale non è; anche perché non è applicabile alla società civile, la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, essendo deputato a governarla e non a gestirla.
Rispettare la società civile implica riconoscere un nuovo dato oggettivo: in Occidente le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non tra credenti di diverse fedi. La concezione dello Stato in senso neutralistico spinge a identificare laico con non-religioso, per cui lo spazio pubblico è sintonizzato con tutte le differenti visioni e pratiche fuorché quelle religiose. Si va diffondendo un pregiudizio culturale in base al quale, mentre tutte le diverse posizioni sono considerate parte legittima del variegato pluralismo contemporaneo, quelle religiose sono avvertite piuttosto come differenze partigiane. Così lo Stato che si definisce neutrale culturalmente non è imparziale, ma assume un orientamento secolaristico, che attraverso scelte legislative, soprattutto in materie antropologicamente sensibili, nella visione di Scola diviene ostile alle identità culturali di matrice religiosa.
Ma il secolarismo è solo una tra le molte visioni dell'uomo e del mondo: legittima, da accogliere come una delle voci di una società plurale; però lo Stato non può farla propria, perché rischia di finire con l'assumere una posizione limitatrice della libertà religiosa. Anche in un Paese come l'Italia, che nel proprio testo costituzionale e nella prassi della Corte non si riconosce nella laicité francese, ma propone una laicità collaborativa, non mancano segnali di una tale tendenza. La proposta alternativa di Scola è ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di una visione rinnovata della libertà religiosa: «È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come distacco, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all'edificazione del bene comune». Quanto ai cristiani, il loro dovere di testimonianza non deve essere mai la ricerca di egemonia, ma sempre una «confessione» che ha in sé l'elemento del martirio.
Come ha detto Benedetto XVI, la testimonianza «non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell'intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l'altro».

Corriere 2.4.13
La scienza non indaga l'assoluto
di Antonio Carioti

Il polemico dialogo tra Paolo Flores d'Arcais e Vito Mancuso su scienza e religione, nel libro Il caso o la speranza? (Garzanti, pp. 155, 14), offre diversi spunti di riflessione, a volte paradossali. Per esempio il credente Mancuso sostiene che «la vita è intrinseca alla materia», il che non solo sa molto di panteismo, ma porta a concludere che nel cosmo vi siano innumerevoli esseri intelligenti e perciò a minare l'unicità della rivelazione cristiana. A sua volta l'ateo Flores d'Arcais descrive la comparsa dell'uomo come un evento del tutto improbabile, dovuto a contingenze che potevano benissimo non verificarsi. Ma proprio questo potrebbe far pensare a un processo pilotato da qualche elemento arcano, che sfugge alle leggi fisiche e biologiche. Sembra quasi un'inversione delle parti. Forse però il difetto sta nel manico, nel senso che appare improprio chiedere alle scienze naturali di fornire indicazioni circa l'esistenza di una dimensione sovrannaturale.

Corriere 2.4.13
Il fratricidio come carattere nazionale
di Davide Ferrario


Caro direttore, l'odio fratricida è, per noi italiani, una pratica antica e quotidiana. È un odio che spesso prende le forme della contrapposizione politica, ma non è la politica che genera l'odio; semmai il contrario. Tanto è vero che l'odio più feroce non nasce per i nemici, ma per quelli che sono più prossimi. Basta pensare alla storia della sinistra italiana, per esempio, tutta segnata da dilanianti conflitti tra compagni: ognuno dei quali a un certo punto si è sentito depositario della verità e ha individuato nel vecchio amico l'avversario da distruggere con maggiore accanimento. Ma succede lo stesso a livello territoriale, a partire dalla vecchia consuetudine di avversare con più ferocia non lo straniero, ma quelli del paese limitrofo. E la storia del cattolicesimo è fatta di scismi, eresie, scomuniche. L'attuale vicolo cieco in cui si è impantanata la politica italiana ha radici antiche.
Chi, da poeta ma anche da lucidissimo pensatore, ha descritto tutto questo è Umberto Saba: «Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuto, in tutta la sua storia — da Roma ad oggi — una sola vera rivoluzione? La risposta — chiave che apre molte porte — è forse la storia d'Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... "Combatteremo — fece stampare quest'ultimo in un suo manifesto — fratelli contro fratelli". (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che — diventato chiaro a se stesso — finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio». È un odio, questo, che implica un pensiero: «Se le cose vanno male, è colpa di quell'altro». Teoria semplicistica, ma è da anni la posizione di principio che tengono tutti i partiti, anche di fronte all'evidenza contraria. E così le ultime elezioni non solo hanno confermato l'intuizione di Saba, l'hanno elevata al quadrato. Al di là di slogan e programmi che pochi leggono, ci si è prima di tutto schierati, come da troppo tempo accade, nel solito referendum pro o contro Berlusconi e pro o contro i «comunisti». Ma l'irruzione del Movimento 5 Stelle ha creato un ulteriore livello di divisione: quello del vaffa indiscriminato verso gli altri due schieramenti. «Tutti a casa», ripetono i grillini, senza differenze. Siamo così finiti nel vicolo cieco che ben conosciamo e che assomiglia tanto a uno dei labirinti verbali dell'antipsichiatria anni Settanta alla R.D. Laing: «Io odio te che odi me e vorrei distruggerti con l'aiuto di quegli altri, che però odiano entrambi». Ogni possibile accordo si arena davanti a un sentimento che misura il bene comune innanzitutto con l'annullamento dell'avversario.
Saba diceva anche un'altra cosa, nel suo ragionamento: che l'anomalia italiana, rispetto agli altri popoli europei, è che noi ci odiamo tra fratelli perché non abbiamo mai avuto il coraggio di uccidere il padre, liberandoci dal passato. Non abbiamo fatto rivoluzioni togliendo di mezzo re o papi (solo la morte di Mussolini porta un qualche peso catartico, nella nostra storia). Il padre resta la figura di riferimento per il cui favore i fratelli competono. In questo senso il ruolo di Giorgio Napolitano, al di là della funzione istituzionale, ha assunto in questa crisi un ruolo archetipico, da vecchio patriarca: ma, ahimè, e non per colpa sua, sempre più patologico. Incapaci di venire a capo del loro conflitto, i figli si appellano a un Padre che è l'unica figura a cui tutti (perfino Beppe Grillo, parrebbe) guardano con rispetto e speranza. E, in sottordine, ai «saggi», che ricordano tanto consessi tribali, più che democrazie avanzate (e, diciamo la verità, strutture culturali totalitariamente maschili). Comunque vada a finire, la soluzione della crisi avrà un carattere regressivo: non saremo noi figli a uscirne con le nostre forze. L'Italia è un Paese demograficamente vecchio ma allo stesso tempo immaturo. Paradosso che spiega certe idiosincrasie così difficili da capire per gli stranieri, abituati a una politica e a una cultura che muove verso il rinnovamento e non si fissa sul passato.
Riusciremo mai a guarire da una sindrome che trasforma non solo la politica ma qualsiasi assemblea condominiale in una faida tra guelfi e ghibellini? Chissà. Un altro grande interprete del carattere nazionale, Alberto Savinio, diceva che per quanto sembrino animati da feroci odi e passioni, «gli italiani sono incombustibili come il tegamino di coccio refrattario». Per noi, in fondo, nonostante lo strepito e le urla, tutto è immutabile. «La verità è che se gli Italiani dovessero vivere secondo la loro vera natura, essi vivrebbero inerti, impassibili e in istato di perfetta vegetatività...».
In perenne conflitto fratricida e insieme illusi di essere indistruttibili: l'effetto combinato di queste disposizioni del nostro carattere rischia, ormai, di essere fatale.
Regista e scrittore

Repubblica 2.4.13
Aldrovandi, il film si vede on line

Il film sulla morte di Federico Aldrovandi È stato morto un ragazzo di Filippo Vendemmiati (vincitore del David Donatello 2011) si può vedere on line: htpp://vimeo.com/m/50963553