l’Unità 2.4.13
Onida: mai revocato l’incarico al leader democratico
«Il
preincarico affidato a Bersani non è finito né è stato revocato». Così
Valerio Onida ha spiegato ieri sera a «Otto e mezzo». L’ex presidente
della Consulta è uno dei saggi che si insedieranno oggi al Quirinale.
«Dovremo facilitare ha proseguito lui la ricerca di indicazioni
programmatiche che possano essere condivise dai partiti». Il tema della
legge elettorale è secondo Onida prioritario, «perché si tratta di una
legislatura fragile, che potrebbe finire prima», mentre viene giudicata
«singolare e incredibile» l’ipotesi che «un governo per l’ordinaria
amministrazione possa varare un decreto sulla legge elettorale».
l’Unità 2.4.13
Bersani tiene il punto «No alleanze col Pdl»
Oggi il segretario incontra la stampa per ribadire le posizioni del Pd sulla crisi
Moretti: insistiamo per la nomina del leader democratico
Gentiloni: l’interesse di parte sia subordinato a quello generale
di Simone Collini
Governo
di cambiamento e Convenzione sulle riforme istituzionali. Oggi Pier
Luigi Bersani ribadirà la linea indicata prima che il Quirinale
insediasse i due gruppi di lavoro sulle riforme istituzionali e le
questioni economiche, sociali e riguardanti le politiche europee.
L’uscita del segretario del Pdl Angelino Alfano, che ha intimato ai
cosiddetti saggi di fare presto, sollecitato Giorgio Napolitano a
riprendere le consultazioni e messo nuovamente sul piatto l’aut-aut «o
grande coalizione o voto», favorisce il leader del Pd e fa tirare il
freno a quanti nel suo stesso partito sono pronti a criticare la linea
fin qui seguita e a chiedere che si apra all’ipotesi di un governo del
presidente sostenuto insieme a Pdl e Scelta civica.
Bersani lo sa e
sta lavorando per far confermare anche alla prossima Direzione, che
dovrebbe essere convocata per lunedì, la linea con cui è andato alle
consultazioni con le altre forze politiche finite venerdì scorso con un
nulla di fatto. Alla riunione del gruppo dirigente democratico
probabilmente non mancheranno critiche all’impostazione data fin qui. Ma
il segretario Pd ribadirà oggi pomeriggio ai giornalisti che incontrerà
alla sede del partito e poi nei prossimi giorni ai membri della
Direzione che resta necessario un «governo di cambiamento», che nessun
accordo è possibile con un Pdl che ha tentato un ricatto sul Quirinale
(via libera a Bersani premier solo se il prossimo Presidente sarà scelto
dal centrodestra) e che con l’inversione dei termini prima elezione del
nuovo Capo dello Stato e poi formazione del governo anche i rapporti di
forza tra gli schieramenti saranno modificati. E ci sarebbe anche
un’altra diversità, rispetto a questi giorni: il Presidente della
Repubblica sarebbe nel pieno dei poteri, compreso quello di sciogliere
le Camere e indire nuove elezioni.
A quel punto, è il ragionamento
che si fa in queste ore ai vertici del Pd, di fronte a un perdurare
della situazione di impasse il modello negoziale seguito nelle ultime
due settimane dovrebbe cedere il passo al modello parlamentare. Insomma
starebbe sempre al centrosinistra, che ha la maggioranza assoluta alla
Camera e quella relativa al Senato, la responsabilità di indicare una
soluzione di governo, e il premier indicato dovrebbe a quel punto non
più limitarsi a sondare il terreno in consultazioni extraparlamentari ma
dovrebbe misurarsi con il voto di fiducia direttamente a Montecitorio e
Palazzo Madama.
TENUTA DEL PARTITO ALLA PROVA
Bisognerà
vedere se gli argomenti saranno sufficienti a mantenere unito il gruppo
dirigente democratico e anche se rimarranno fuori dalla discussione
elementi attinenti più alla vita interna del partito che alla formazione
del prossimo esecutivo, visto che entro questo mese dovrà essere
convocato il congresso per eleggere il nuovo segretario (formalmente
dovrà svolgersi ad ottobre). Le due questioni per Bersani vanno tenute
separate, anche per non introdurre motivi di attrito che renderebbero
più complicato raggiungere l’obiettivo, ma solo nei prossimi giorni si
saprà se ciò che auspica si realizzerà.
Per ora Matteo Renzi,
unico possibile sfidante sul campo, si guarda bene da aprire una
discussione con il segretario. Parlamentari vicini al sindaco di Firenze
insistono però per non considerare tabù il sostegno a un cosiddetto
governo del presidente insieme anche a Pdl e Scelta civica.
DOPO I GRUPPI DI LAVORO
Gli
stessi gruppi di lavoro insediati dal Quirinale vengono interpretati in
maniera diversa. Per gli esponenti democratici più vicini al segretario
dovranno preparare il terreno per dar vita al «governo di cambiamento»,
per i renziani possono essere utili ad accorciare le distanze tra le
diverse forze politiche e favorire un’intesa anche a livello di
esecutivo. Dice Alessandra Moretti: «Noi insistiamo per un esecutivo di
tipo politico. L’elettorato si è espresso per questo esecutivo e per un
esecutivo di forte cambiamento. Abbiamo proposto Bersani per avviare una
fase di riforme economiche e istituzionali, vediamo se poi, terminato
il lavoro dei saggi, questa opzione tornerà a essere fattibile».
Delimitare
già ora il campo, però, porre paletti e dare per scontato che si debba
tornare all’opzione del «governo di cambiamento» non è opportuno per
altri esponenti del Pd. Paolo Gentiloni condivide il «no ad una
coalizione politica Bersani-Berlusconi» ma chiede di «difendere» il
lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica e «non renderlo
complicato, visto che già è difficile»: «Male che vada sarà un lavoro
istruttorio che utilizzerà il suo successore». Il deputato renziano, di
fronte all’aut-aut lanciato ieri dal segretario del Pdl Alfano tra
governo di larga coalizione o elezioni anticipate, fa notare che il Pd
ha dimostrato di saper subordinare l’intersse di parte a quello
generale. E aggiunge: «Il Pd non si metterà a discutere delle vicende
interne fin quando non sarà sciolto il nodo della legislatura e del
governo. Il punto di equilibrio nel Pd deve essere il sostegno “senza se
e senza ma” allo sforzo che sta facendo Napolitano».
l’Unità 2.4.13
Roberto Speranza
«I gruppi di lavoro possono creare le condizioni per questa soluzione. Alfano? No ad alleanze con chi ha prodotto la crisi»
«Non rinunciamo al governo di cambiamento»
intervista di Simone Collini
I
due gruppi di lavoro incaricati dal Quirinale? Il loro operato, dice
Roberto Speranza, può «creare le condizioni per l’avvio di un governo di
cambiamento che risponda alla profonda inquietudine emersa dal voto di
febbraio». E se il segretario del Pdl Angelino Alfano auspica invece che
esaurito il loro mandato si arrivi a un esecutivo «di larga
coalizione», il capogruppo del Pd alla Camera ribadisce il no del suo
partito a «formule politiciste» e alleanze «con chi ha prodotto la
crisi».
I saggi facciano presto e Napolitano riprenda le consultazioni, dice il Pdl: il Pd cosa dice, onorevole Speranza?
«Che
va mantenuto l’assoluto rispetto e il massimo sostegno rispetto alle
decisioni del Capo dello Stato. Il presidente Napolitano in questi anni
ha rappresentato uno dei pochi punti di tenuta veri nel rapporto tra
cittadini e politica, opinione pubblica e istituzioni. Ed è naturale che
il Pd oggi sia al suo fianco, che accompagni con responsabilità il
percorso che ci ha indicato».
Il percorso prevede due gruppi di
lavoro che si occupino di riforme istituzionali e di questioni
economico-sociali: cosa auspica possa produrre?
«Un terreno
condiviso per le riforme istituzionali, perché come noi abbiamo detto
proponendo lo strumento della Convenzione questo Paese ha bisogno di una
riforma profonda che porti al superamento del bicameralismo perfetto, a
una Camera delle autonomie, a un dimezzamento del numero dei
parlamentari. E poi auspico che l’operato di questi due gruppi di lavoro
crei le condizioni per l’avvio di un governo di cambiamento che
risponda alla profonda inquietudine emersa dal voto di febbraio».
Secondo
altri, di Scelta civica, del Pdl ma anche del suo partito, questi
gruppi di lavoro potrebbero servire ad accorciare le distanze tra le
forze parlamentari e dar vita a un governo di larghe intese: condivide?
«No,
io sono convinto che se alla domanda di discontinuità emersa alle
elezioni rispondessimo con formule politiciste, commetteremmo un grave
errore. Per una forza come il Pd non si può immaginare che l’uscita
dalla crisi si possa realizzare andando a braccetto con chi ci ha
portato a questa stessa crisi economica, sociale, politica».
C’è
però da tener conto dell’opinione espressa da una quota considerevole di
elettori che non ha votato Pd, non crede? «Noi rispettiamo tutti gli
elettori che hanno fatto una scelta diversa, ma dal nostro punto di
vista il Pdl ha una responsabilità enorme nel determinarsi di questa
crisi. Ora, per uscirne, c’è bisogno non di fare alleanze con la destra
ma di una forte discontinuità».
Così però vi esponete all’accusa di inseguire Grillo.
«Non
ci si può accusare di questo. Anche nel voto dato al Pd c’è una forte
domanda di cambiamento, e noi dobbiamo rispondere nel modo giusto. E
responsabilità senza cambiamento non lo è. Il Pd deve rispondere
attrezzando un governo all’altezza della domanda uscita dalle urne, e se
Grillo dovesse continuare a dimostrare l’irresponsabilità di questi
giorni sono convinto che pagherà un prezzo alto, perché finirà per
tradire quella stessa domanda di cambiamento venuta dall’elettorato».
Alfano dice: governo di larghe intese o voto. Il Pd dice governo di cambiamento o voto?
«In
questo momento noi dobbiamo mettere tutta la nostra forza e il nostro
impegno per dare il via al governo di cambiamento, non dobbiamo
ragionare su altro».
Gentiloni sottolinea che le posizioni di parte vanno subordinate all’interesse generale.
«E
la posizione del governo di cambiamento risponde proprio all’interesse
generale del Paese. Una soluzione politicista porterebbe a un’ulteriore
rottura tra politica e cittadini, rafforzerebbe le forze antisistema».
Sicuro che tutto il partito sia su questa linea?
«È la linea votata all’unanimità dalla nostra Direzione».
E lo sarà anche alla prossima riunione?
«Lavoreremo
da qui alla prossima Direzione per valorizzare questa proposta
unitaria. In una fase così delicata per la tenuta del rapporto tra
politica e cittadini, tutto possiamo permetterci tranne che un Pd
diviso».
Un Pd diviso sarebbe una bella gatta da pelare anche per lei che guida un gruppo parlamentare di 303 deputati...
«Ma
no, e comunque la generosità che i gruppi dirigenti hanno dimostrato
finora non va sottovalutata, non possiamo rimproverarci molto, anzi.
Quanto al gruppo, uno dei più ampi della storia repubblicana, è di
grandissimo valore, con esperienze consolidate che sono patrimonio
prezioso per il nostro partito e tante nuove energie che non aspettano
altro che essere sprigionate al servizio del Paese».
Tra un paio di settimane dovrete eleggere il successore di Napolitano: il possibile profilo?
«Dovrà
essere una figura di garanzia, all’altezza del compito delicato che
andrà a svolgere e dei predecessori straordinari avuti negli ultimi
anni».
l’Unità 2.4.13
Carla Cantone
«I saggi
sono una protesi della politica. Si affidi un mandato pieno a Bersani,
così il Paese vedrà chi vuole governare e chi distruggere»
«Per ricostruire l’Italia deve tornare la politica»
«Va dato il mandato pieno, non solo esplorativo, al leader della coalizione vincente»
intervista di Federica Fantozzi
Carla
Cantone, segretario generale dello Spi-Cgil, girano molte critiche sui
dieci saggi voluti da Napolitano. Secondo lei è un modo per facilitare
il dialogo tra le forze politiche o un modo di prendere tempo?
«Queste
due commissioni possono contribuire a superare lo stallo in cui si
trova il Paese. Sono nate per ricomporre il processo democratico, vanno
lasciate lavorare e aiutate fin dove si può. Hanno però il sapore di una
protesi alla politica, la quale deve assumersi lei l’onere di dare
risposte».
Per il momento, di risposte la politica non ne ha date.
I tre partiti principali usciti dalle urne non sono riusciti a sedersi
intorno a un tavolo. Per questo a Palazzo Chigi c’è ancora Monti. «Ecco,
se le commissioni possono agevolare un processo di unità, la proroga
data a Monti non mi convince. Anzi, mi preoccupa. Da sindacalista ho
dovuto affrontare molti disagi durante la crisi. E ho visto il premier
governare senza equità, né un’idea di crescita. I sacrifici li hanno
fatti sempre i soliti: anziani, giovani e famiglie».
Lei del
governo uscente fa un bilancio totalmente negativo. Non crede che Monti,
con i suoi limiti, ci abbia salvato dal rischio default?
«Dal
punto di vista sociale io vedo la sua azione in piena continuità con il
governo Berlusconi. Ha emarginato il sindacato confederale a cui non ha
mai riconosciuto un ruolo. E difatti le elezioni non hanno premiato la
sua formazione».
La proroga dell’esecutivo è questione di qualche settimana. Addirittura la preoccupa?
«Sì.
Per quello che Monti farà. Di certo non starà fermo. E poi non so
quanto durerà. È un fatto che non si può prevedere: dipenderà dal
prossimo presidente della Repubblica. Invece all’Italia serve subito un
governo di vero cambiamento»
Cosa potrebbe e dovrebbe fare un
governo di vero cambiamento? «Dovrebbe essere un esecutivo credibile che
non lasci il peso della crisi sempre sugli stessi. Bisogna fermare il
declino produttivo, investire nel lavoro, redistribuire la ricchezza per
combattere la spaventosa povertà. I pensionati stanno male, ai giovani
hanno rubato i sogni, i lavoratori sono spaventati dall’incerto futuro».
Di nuovo: con quali partiti camminerebbe il cambiamento, visto che manca la disponibilità?
«Bisogna
fare quello che avviene in ogni democrazia. Consegnare il mandato non
esplorativo ma pieno al leader della coalizione vincente. Questo prevede
la Costituzione. Le commissioni sono un fatto anomalo, con la strada in
salita. In parallelo è necessario andare avanti con una soluzione
politica».
Non crede che, al termine di consultazioni formali e
informali che nulla hanno concluso, lo stallo sia radicato e
difficilmente risolvibile da Bersani che si presenti alle Camere per
chiedere la fiducia?
«Sì, il problema è più profondo. Ma solo così
i partiti si assumeranno le loro responsabilità. E si vedrà chi vuole
governare, chi vuole distruggere e chi cerca soltanto salvacondotti
personali. Bisogna mettere il Paese di fronte alla verità».
E se anche questa via fallisse?
«Il nuovo presidente della Repubblica avrà tutti gli strumenti per decidere il da farsi».
Secondo
lei, in seconda battuta, una larga coalizione tra Pd e Pdl sarebbe
fattibile? Per un tempo determinato e con una mission circoscritta a
questioni economiche e riforme istituzionali?
«Io sono contraria.
Non ne vedo le condizioni. Non numeriche, perché non si governa con la
matematica. Sul piano politico, le posizioni sono inconciliabili. E con
questa destra non vanno fatte alleanze».
Allora non resterebbe che tornare al voto? A questo punto, presumibilmente, in autunno.
«Se
la coalizione che ha vinto le elezioni non ottenesse la fiducia dal
Parlamento non resterebbe che ridare la parola agli elettori. Ma non
sarebbe una bella notizia per l’Italia. Non è quello che l’Europa ci sta
chiedendo».
l’Unità 2.4.13
La soluzione resta una sola: il voto di fiducia del Parlamento
Senza il passaggio alle Camere, il governo Monti potrebbe gestire nuove elezioni anticipate
Sarebbe grave se qualcuno pensasse che ora è il programma informale dei saggi a darsi un eventuale capo del governo
di Michele Prospero
Èvero
che laconica è la Costituzione sui poteri presidenziali nella
risoluzione della crisi e nella gestione dei passaggi formali che vanno
dalla designazione alla nomina del presidente incaricato. È altrettanto
appurato che il ruolo del Capo dello Stato negli anni è transitato da
una statica garanzia passiva ad una più dinamica garanzia attiva, con
una maggiore influenza nel procedimento di formazione dei governi.
E
tuttavia alcuni solidi paletti resistono. In uno studio sulla natura
giuridica dell’incarico, Pietro Virga già nel 1948 ammoniva: «È da
escludersi che il Capo dello Stato debba fissare alcuni punti
programmatici e risolvere le crisi in base all’adesione o meno dei vari
candidati ai principi da esso predeterminati. È pure da escludere che il
presidente della Repubblica possa prefissare all’uomo incaricato per la
formazione del gabinetto limiti di programmi e di struttura».
Il
presidente «programmante» immetterebbe nel sistema istituzionale dei
vincoli di natura sostanziale, in contrasto con il regime parlamentare.
La decisione di istituire due informali gruppi di esperti, con il
compito di negoziare un programma destinato al futuro incaricato di
formare il governo, si presta per questo a valutazioni critiche.
Se
il comitato è solo ricognitivo, il ricorso ai saggi rischia di
intralciare la risoluzione di nodi che spetta solo alla politica
sciogliere. Il Quirinale ha considerato «non risolutivo» l’incarico a
Bersani, che però non ha mai rinunciato al (pre) mandato ricevuto. E del
resto, nei suoi confronti (e dell’opinione pubblica), non è stato
adottato alcun formale atto. L’ambiguità della non decisione non può
però dominare nelle inderogabili scelte presidenziali, che sono
indispensabili per assicurare la piena funzionalità degli organi
costituzionali della Repubblica.
L’impedimento nel tragitto più
efficace (la verifica dei numeri di Bersani in Parlamento) rischia di
produrre alterazioni illogiche e rigidità politiche. I tempi per la
nascita del governo non possono diventare oggetto di contese,
contrattazioni, giochi, rinvii. Non si è mai verificato nella vicenda
repubblicana che trascorressero mesi dal voto senza che alcun incarico
venisse conferito. E non è un caso. Tutti hanno sempre ritenuto
pericolosi gli inadempimenti di essenziali obblighi di natura
costituzionale.
Il tripolarismo paralizzato uscito dal voto non
può affossare i tempi stringenti per dare vita al governo. La gravità
del momento si evince dal fatto che, mentre con la convocazione degli
esperti il nuovo governo viene consegnato al futuro, c’è il bisogno di
rimarcare l’operatività residua dell’ex governo tecnico, diventato nel
frattempo politico (con la partecipazione di Monti al voto) e, seppure
non sfiduciato, in minoranza al Senato, per la fine del sostegno del
Pdl. Mentre gli osservatori demonizzano il governo di minoranza a guida
Bersani, proprio il governo di minoranza e di partito (Monti) opera già.
Si rischia persino il paradosso, in caso di evenienze e mancati
incarichi, che questo governo possa gestire le seconde elezioni
anticipate consecutive.
Rischiosa può essere anche l’inversione
rispetto al circuito costituzionale normale, quello per cui l’incaricato
si procura il sostegno dei partiti e dà senso ad un programma
condiviso. Questo non è certamente nelle intenzioni del presidente, ma
non vorremmo che qualcuno pensasse che ora è il programma, predefinito
sia pure informalmente dai «saggi», a darsi un eventuale capo del
governo. Oppure che si possa proseguire a lungo con il non-governo
attuale (che non può presentare disegni di legge, attuare leggi delegate
con decreti legislativi, promuovere riforme, trattati).
La via
maestra per tentare di dipanare la matassa rimane l’invio di Bersani in
aula, per verificare proprio lì il senso di responsabilità della classe
politica. È solo in Parlamento che si snidano le opposizioni antisistema
e si scoprono le strane convergenze in maggioranze negative dei poli
estremi. Una eventuale sfiducia a Bersani, peraltro, non porterebbe
all’automatico scioglimento delle Camere.
Anche nel 1953 De
Gasperi, ad inizio legislatura, non ottenne i voti e però non furono
convocate nuove elezioni. Il temuto carattere raccogliticcio dei numeri a
Palazzo Madama non può diventare un pretesto preventivo per bloccare la
incerta dialettica parlamentare. Solo dopo la fiducia è prevedibile la
difficile maturazione di condizioni politiche più solide. Il ripristino
della regola continua a sembrarci più efficace dell’avventurarsi nel
sentiero dell’eccezione.
Corriere 2.4.13
Bersani, la carta di Prodi per evitare le larghe intese
Il segretario cerca di uscire dall'angolo e punta sull'ex premier per il nuovo Quirinale
di Maria Teresa Meli
ROMA — Pier Luigi Bersani è convinto: «La priorità ora è l'elezione del presidente della Repubblica», annuncia ai suoi. E aggiunge: «Dopo la scelta del nuovo capo dello Stato ci saranno ancora più elementi che giustificheranno l'esigenza di un governo di cambiamento, e che chiariranno che le ipotesi delle larghe intese o di un nuovo esecutivo tecnico retto da una strana maggioranza sono impraticabili».
Già, perché se l'elezione del presidente avvenisse senza l'aiuto del Pdl ma con l'apporto dei grillini e, magari, di qualche montiano, sarebbe veramente difficile mettere di nuovo insieme attorno a un tavolo il Pd e il Pdl. Ed è proprio questa l'idea che sta accarezzando Bersani per uscire dall'angolo e rilanciare. Un capo dello Stato di rottura nei confronti di Berlusconi scriverebbe la parola fine sul tormentone delle «grandi intese», come su quello di un governo modello Monti.
Il nome vincente in questo senso potrebbe essere quello di Romano Prodi. Ai più è sfuggito il post pubblicato sul blog di Grillo sabato scorso. Ma al Pd lo hanno letto con attenzione e grande interesse. E' vero, il leader del "Movimento 5 Stelle" sostiene di non voler vedere un politico già usato al Quirinale, però poi accusa Partito democratico e Pdl che «vorrebbero un presidente "quieta non movere et mota quietare", non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe dalle carte geografiche Berlusconi».
Sì, Prodi sarebbe l'uomo giusto al posto giusto (anche se si parla pure di Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky). Al Pd pensano che l'ex premier dell'Ulivo potrebbe ridare l'onore al centrosinistra e l'incarico a Bersani.
Ma per ora nessuno vuole bruciare né tappe né nomi, perciò la raccomandazione è: «Prudenza».
Anche perché Silvio Berlusconi ha subodorato che c'è qualcosa che non torna. E si è insospettito non poco anche delle mosse di Giorgio Napolitano che a suo avviso servono «a prendere tempo e rendere impraticabile la strada delle elezioni in estate» e rischiano di «metterci fuori dai giochi sul Quirinale». «Stiamo attenti — ripete incessantemente ai suoi il leader del centrodestra — perché come ai tempi di Monti è in atto un'operazione contro di noi, questa volta per eleggere il capo dello Stato senza che i nostri voti siano determinanti».
Il Cavaliere è convinto di essere al cospetto di «una trappola» e come i bersaniani guardano con un certo sospetto Enrico Letta, Massimo D'Alema e Matteo Renzi, perché pensano che stiano lavorando di sponda con il Quirinale, per dare vita a un governo che non sia presieduto dal segretario, così lui teme che riparta dentro il Pdl il tentativo di parricidio. «Se c'è qualcuno che nel centrodestra pensa di approfittarne per mettermi da parte, sta facendo male i suoi calcoli, perché io rovescio il tavolo», è il ritornello che più di un suo interlocutore si è sentito ripetere da Berlusconi. Ma in queste stesse ore, quasi fossero predestinati a cadere insieme, anche Bersani fa riflessioni analoghe: «I saggi non possono preparare il terreno per le larghe intese, se c'è qualcuno nel partito che invece ha in mente questo obiettivo lo dica chiaramente». E a sentire certe affermazioni, in mente, quell'opzione, la hanno in diversi. Paolo Gentiloni, per esempio, che dice: «Sto dalla parte di Enrico Letta che ha dato sostegno e fiducia a Napolitano». Mentre un altro renziano, Angelo Rughetti, propone: «Si potrebbero stabilizzare i gruppi di lavoro in un nuovo governo».
Per questa ragione Bersani si è reso conto che è quanto mai necessario uscire dall'angolo e non assecondare il tentativo di chi nel Pd vuole prendere tempo e, magari, sfruttare l'allungarsi dei giorni per lavorare all'insaputa del segretario su una candidatura al Quirinale che non guardi solo a sinistra. «Io — spiega ai suoi Bersani — rimango in campo e non mi ritiro. La linea resta quella del governo di cambiamento: non si possono fare le larghe intese solo perché i saggi dicono che c'è l'accordo su due, tre punti».
Del resto, continuano a ripetere i bersaniani del giro stretto, il presidente della Repubblica non ha dato l'incarico a nessun altro, quindi... Quindi, avanti ancora sulla linea di sempre. Ne è convinto uno come Matteo Orfini, secondo il quale «la soluzione proposta da Bersani è la più forte anche perché non ci sono nomi nuovi per la premiership». E quindi, per dirla con Alessandra Moretti: «Noi vogliamo un governo di cambiamento e Bersani deve esserne a capo».
La Stampa 2.4.13
Bersani conserva l’incarico esplorativo
Le colombe del Pd si schierano con il Colle
Si allarga il fronte di chi appoggerebbe un «governo di scopo» per evitare le elezioni
Gentiloni: sostegno senza se e senza ma allo sforzo di Napolitano
di Carlo Bertini
Il
fronte meno barricadero del Pd, più propenso a sostenere quando sarà il
momento un «governo di scopo» che eviti al paese nuove elezioni a
breve, preme su Bersani e i suoi per non mettere i bastoni tra le ruote
al tentativo messo in moto dal capo dello Stato. In questo senso si
spiegano uscite come quella del renziano doc Paolo Gentiloni, che ieri
ha provato a riportare il partito sulla linea espressa da Enrico Letta
al termine delle consultazioni; e sintetizzata in una battuta già
venerdì sera, «siamo come corazzieri».
«Il Pd - dice Gentiloni -
non si metterà a discutere delle vicende interne fin quando non sarà
sciolto il nodo della legislatura e del governo. Il punto di equilibrio
nel Pd deve essere il sostegno “senza se e senza ma” allo sforzo che sta
facendo Napolitano». Un’uscita dettata dalla preoccupazione che le
grida al «golpe» da parte del pdl e una certa freddezza dimostrata dai
bersaniani possano indebolire questo tentativo: da qui l’esigenza di
«difendere il lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica che
non va reso complicato, visto che già è difficile. Male che vada sarà un
lavoro istruttorio che utilizzerà il suo successore». Insomma i
renziani subordinano la tregua di facciata che ancora vige nel partito,
che forse dovrà convocare una direzione nei prossimi giorni,
all’atteggiamento benevolo nei confronti dei «saggi» e del loro compito.
E anche un veltroniano doc, come Walter Verini si muove sulla stessa
lunghezza d’onda, a riprova che le acque nel Pd si muovono sotto la
superficie più di quanto appaia. Perché Verini parla al Pdl perché anche
i pasdaran del suo partito colgano il messaggio: «Ipotizzare di
precipitare verso le elezioni senza cambiare la legge elettorale, come
fanno in coro gli esponenti del partito di Berlusconi, è un
atteggiamento irresponsabile. Tornare a votare con il porcellum
riprodurrebbe infatti, con molta probabilità, la stessa situazione di
paralisi e di stallo. E il sistema istituzionale potrebbe davvero
collassare».
Bersani attende di sciogliere ancora il nodo del suo
profilo istituzionale. Anche uno dei saggi, Onida, dice che «il
preincarico affidato a Bersani non è finito né è stato revocato». Tanto
che i suoi ancora non mollano la trincea di un possibile mandato al
segretario per una verifica in Parlamento da parte del prossimo capo
dello Stato. Alessandra Moretti, portavoce del leader durante la
campagna delle primarie e capofila delle «giovani turche» alla Camera,
ieri intervistata da Sky ha tenuto duro, perché «senza il Pd non si va
da nessuna parte e il Pd è in campo con il suo segretario». Con il Pdl?
«Discuteremo ancora di questo, ma il problema è l’inaffidabilità di
Berlusconi comprovata negli anni. Vedremo cosa concluderanno le due
commissioni e decideremo in Parlamento». Insomma, i bersaniani sanno di
essere forti nei gruppi parlamentari dove hanno la maggioranza e non
temono dunque un braccio di ferro interno nel partito.
«Noi -
aggiunge la Moretti insistiamo per un esecutivo di tipo politico.
L’elettorato si è espresso per questo esecutivo e per un esecutivo di
forte cambiamento. Abbiamo proposto Bersani per avviare una fase di
riforme economiche e istituzionali e vediamo se poi, terminato il lavoro
dei saggi, questa opzione tornerà a essere fattibile». E sullo sfondo
già si discute sul criterio da seguire per l’elezione del prossimo
presidente: «Visto che tra dieci giorni dobbiamo dialogare sul Colle,
meglio evitare le barricate in questa fase», dice uno dei moderati del
Pd.
I Giovani Turchi. «Orfini: se Renzi crea le
condizioni giuste, sarà lui il leader di tutti. Altrimenti, troveremo
un’altra candidatura per le primarie»
Repubblica 2.4.13
Pd, sale il governo del presidente Bersani ora regista della partita Quirinale
Da D’Alema a Renzi l’area dei contrari al voto subito
di Goffredo De Marchis
ROMA
— La resa dei conti è nei fatti, forse proprio per questo la direzione
del Pd slitterà alla prossima settimana. Nessuno vuole un confronto
pubblico in tempi brevi. Del resto, la riunione non è mai stata
convocata e a Largo del Nazareno si fa notare che il Partito democratico
«è l’unica forza politica a cui si chiede di convocare in continuazione
gli organismi dirigenti». Non è il momento di confronti in diretta
streaming, di fronte alla fine del settennato di Giorgio Napolitano e al
voto per il suo successore. Non lo vogliono né Pierluigi Bersani né il
fronte del suo partito che è pronto a contestarne tutti i passaggi
compiuti nel periodo che va dalla mezza vittoria del 25 febbraio al
congelamento di Giorgio Napolitano. Fronte che si allarga ogni giorno di
più: l’ipotesi del governo del presidente rimane in piedi anche dopo
l’elezione del nuovo capo dello Stato. Ed è questa l’opzione che
registra un’alleanza traversale tra Matteo Renzi, Dario Franceschini,
Veltroni, D’Alema e il vicesegretario Enrico Letta nella versione di un
esecutivo che abbia solo un obiettivo: cambiare la legge elettorale.
I
bersaniani rimangono aggrappati al preincarico mai revocato del loro
leader solo pro forma. In realtà Bersani è pronto a svolgere il ruolo di
regista per le tappe future (a cominciare dalla scelta del presidente
della Repubblica) con le mani libere «del segretario del Pd», spiega uno
dei suoi fedelissimi. Quel ruolo non è in discussione. E non vuole
metterlo in discussione il diretto interessato, con un passo indietro o
di lato. Soprattutto, in vista della partita per il Quirinale. Sarà lui
stesso a guidare le trattative per il Colle, a dire l’ultima parola.
Ecco perché la direzione può aspettare: le procedure per l’elezione del
nuovo capo dello Stato cominciano il 15 aprile, non è ora di un
dibattito interno.
Questa linea espone certo il segretario al
vento dei sospetti, dei veleni e delle interviste. Di un fuoco
incrociato, cioè, sulla condotta tenuta fin qui. E se la direzione può
essere posticipata, molti dei suoi critici organizzano la battaglia nei
gruppi parlamentari. Chiedendone la convocazione il prima possibile, per
una discussione vera, a cuore aperto. I numeri dei gruppi parlamentari
sono diversi da quelli della direzione e le mosse sulle presidenze delle
Camere non favoriscono l’unità intorno a Bersani. Quindi la
“sospensione” decisa dal Colle e il voto sul presidente lasciano aperta
la porta a un governo istituzionale. «I saggi preparano una soluzione
anche per chi verrà dopo Napolitano», spiega un deputato Pd che
considera indispensabile un’intesa con il centrodestra. La pensa così
anche Paolo Gentiloni, deputato renziano. «È necessario difendere il
lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica e non renderlo
complicato, visto che già è difficile. Male che vada sarà un lavoro
istruttorio che utilizzerà il suo successore». Il punto è non far
precipitare la crisi verso le elezioni anticipate. «Abbiamo avuto un no
da parte di Berlusconi e dal Movimento 5 Stelle e abbiamo giustamente
detto no ad una coalizione politica Bersani-Berlusconi.
In questa
situazione Napolitano il presidente della Repubblica non poteva fare
altro, anche perchè il voto nell’immediato sarebbe una follia».
Gentiloni
considera prematura dunque una discussione interna al Pd. «Lasciamo
lavorare Napolitano», è la sua parola d’ordine. Ma anche i sostenitori
del governo del presidente temono il confronto, al pari degli altri.
Perché la conta su «voto subito o no» può riservare delle sorprese. I
Giovani Turchi di Orlando, Fassina e Orfini sono contrari a qualsiasi
intesa con il Pdl. A costo di correre verso le urne. «In quel caso —
spiega Orfini — se Renzi crea le condizioni giuste, sarà lui il leader
di tutti. Altrimenti, troveremo un’altra candidatura per le primarie».
Repubblica 2.4.13
Il fratello del leader archivia l’illusione “Pierluigi premier? Forse in un’altra vita”
ROMA
— «Pierluigi premier? Sì, in un’altra vita...». Mauro Bersani non crede
più alla possibilità che suo fratello, segretario del Pd, possa
diventare capo del governo. Formalmente il pre-incarico assegnato da
Napolitano non è ancora stato revocato, ma illusioni - se è vero quel
che racconta il fratello - Bersani non se ne fa più. «A Pasqua ci siamo
incontrati per un aperitivo - ha detto Mauro Bersani a “Un giorno da
pecora” su Radio Due -. Come l’ho trovato? Sereno, certo non
felicissimo, un pò meno allegro del solito. Certamente era un po’
deluso, ma lui riesce a mascherare bene». E in famiglia come hanno preso
questa sconfitta di Pierluigi? «La pensano come me, sono dispiaciuti
perchè sanno che si è persa l’occasione per vedere all’opera un buon
amministratore». Ma il segretario ha rinunciato definitivamente al
pre-incarico ricevuto per tentare di formare un governo? «Su questo
credo non abbia voluto prendere posizioni nette per non interrompere
strade e volontà del Quirinale». Il che non significa che la strada di
Palazzo Chigi sia ancora aperta: «Mio fratello premier? Sì, forse in
un’altra vita...» è la realistica conclusione.
Repubblica 2.4.13
Cacciari: il segretario è incastrato, proponga un altro candidato premier
“Non cadano nella trappola della grande coalizione un nome per aprire a Grillo”
intervista di Andrea Montanari
MILANO — Professor Massimo Cacciari, il Pd deve appoggiare i lavoro
dei saggi o rivendicare un proprio ruolo?
«Cosa
vuole che le dica, il Pd finora le ha sbagliate tutte. Non si possono
dare consigli a vanvera. Francamente mi sono stancato di continuare a
dare consigli che non vengono mai ascoltati e che mi hanno solo reso
antipatico a questa classe dirigente».
Che cosa intende dire?
«Da
una parte mi sembra che ormai sia chiaro a tutti che se il Pd avesse
operato un maggior rinnovamento della propria classe dirigente non
saremmo arrivati a questo punto. Dopo una sconfitta così tremenda come
quella che ha subito il Pd alle ultime elezioni Bersani avrebbe dovuto
farsi da parte. In questo modo la classe dirigente del suo partito
avrebbe potuto andare alle consultazioni dal presidente Napolitano
proponendo un altro nome».
L’errore dunque è stato di Bersani?
«Ormai
il latte è versato, ma sono stati commessi anche troppi errori. Conosco
Bersani e sono sicuro che la sua scelta è stata dettata dalla volontà
di difendere la sua classe dirigente. Del resto, aveva portato la croce
per tutta la campagna elettorale. Mi auguravo che Napolitano scegliesse
una strada diversa, ma non l’ha fatto. E il Pd si trova incastrato».
Perché?
«La
mossa del Capo dello Stato ha un chiaro senso nemmeno tanto recondito.
Un governo che abbia l’appoggio sia del Pd che del Pdl. Le persone che
sono state scelte non sono dei saggi, ma degli esponenti politici a
tutti gli effetti. Di centrodestra e di centrosinistra».
Un esecutivo di scopo o delle larghe intese?
«Per
il Pd, il governissimo sarebbe una trappola. Il partito si sfascerebbe.
Ma certo se Bersani si fosse fatto da parte e avesse candidato una
personalità come Stefano Rodotà magari il Movimento Cinque Stelle
avrebbe reagito diversamente. Un’altra strada poteva essere quella di
dare l’incarico a una personalità neutra. Il presidente della Corte
Costituzionale».
Invece?
«In questo scenario, al momento,
non vedo soluzioni possibili per il Pd. Credo che lo scopo di Napolitano
sia quello di ottenere che i saggi consegnino al prossimo Capo dello
Stato un possibile programma condiviso almeno da Pd e Pdl. Il Pd non può
permettersi di appoggiare un governo Violante- Quagliariello. Se
cadesse in questa trappola, il Pd sarebbe morto. E si capisce benissimo
allora il perché il Pdl sia disposto ad appoggiare qualsiasi candidato
del Pd pur di andare al governo».
Il suo consiglio?
«Essere
rigorosi sulla stesura del programma e sperare che Beppe Grillo si
sganci dall’immobilismo nel quale si è cacciato sulla base di un
programma innovativo».
Che cosa le fa pensare che Grillo potrebbe cambiare idea?
«Non
voglio fare il profeta, ma ancora una volta voglio mandare un avviso a
tutti. Guardate che se le cose non cambiano e si va subito alle elezioni
le vince ancora una volta Silvio Berlusconi».
Ne è convinto?
«Ma
Beppe Grillo è veramente convinto che potrebbe prendere di nuovo il
venticinque per cento? Mi sembra che non esista un italiano che sia
convinto che l’Italia possa essere governata da un esecutivo monocolore
grillino. Quanto al centrosinistra, mi sembra chiaro che non si
ripresenterebbe con Bersani. Il mio appello lo rivolgo proprio a Grillo.
Se si rivota subito l’esito delle elezioni potrebbe essere come quello
del secondo voto in Grecia. Se Grillo pensa di prendere ancora più voti,
se lo sogna».
C’è un’alternativa?
«Che il lavoro dei saggi
possa produrre un programma che possa essere appoggiato anche dai
grillini. Allora il nuovo Capo dello Stato potrebbe aprire un nuovo
scenario dando un nuovo incarico. Ma non voglio nemmeno pensare a cosa
potrebbe succedere nelle prossime settimane senza un governo e nemmeno
un Presidente della Repubblica. Che Dio ci salvi».
l’Unità 2.4.13
Muti «disgustato» da Grillo. I 5 Stelle: parliamone
Il Maestro: «Vogliono ottenere il cento per cento dei voti, mi ricordano il fascismo...»
Il comico paragonato a Iago. «Criticare senza dare soluzione ai problemi lo sanno fare tutti»
di Giuseppe Vittori
ROMA
Riccardo Muti preoccupa i deputati e i senatori del Movimento 5 Stelle.
«Apprendiamo dai giornali che il maestro Riccardo Muti avrebbe espresso
delle perplessità sul Movimento 5 Stelle, sui valori che lo animano e
su quelli che è in grado di esprimere», per questo «lo invitiamo a
venirci a trovare, alla Camera dei Deputati o al Senato della
Repubblica, per un incontro che sviluppi un momento di riflessione
comune sui temi che sono a tutti noi cari».
Perplessità? Altro che
perplessità. Le parole del direttore d'orchestra, uno dei migliori al
mondo e della storia della musica classica, vanno ben oltre e non
manifestano «perplessità» bensì allarme e disgusto per il «turpiloquio»
costante.
In un lungo colloquio col Corriere della Sera il musicista, alla
domanda su cosa pensa di Grillo, risponde: «Mi ricorda Iago, che
nell’Otello dice: "Io non sono che un critico...". Criticare senza dare
soluzioni credibili possono farlo tutti. Se dirigessi un’orchestra
dicendo solo quello che non va, non risolverei nulla. Gli italiani si
sono stancati della vecchia politica, ma ora hanno bisogno di vedere una
luce in fondo al tunnel, e di qualcuno che li guidi verso la luce.
Invece sento invocare dittature, "il 100% dei voti": un’avventura che
abbiamo già conosciuto, finita malissimo. E poi questo turpiloquio mi fa
orrore. Un segno di abbrutimento».
Altro che «perplessità». Per
Muti quel «100% dei voti» vuol dire invocare dittature, gli ricorda il
fascismo, Mussolini. «Io sono profondamente grato al mio Paese.
All'Italia devo tutto. Per questo aggiunge mi fa male vederla così. E
avverto la necessità di alzare la voce, per segnalare qualche pericolo e
qualche opportunità».
I gruppi di Camera e Senato invitano allora
Muti a incontrarli «anche per formulare insieme nuove proposte che
possano aiutare la cultura a riprendersi i suoi spazi, restituire agli
artisti il ruolo centrale che in qualsiasi società non decadente
meritano e rilanciare l'immenso patrimonio artistico del nostro Paese
nel mondo». E su quel 100% dei voti? «Per noi, affermare di voler
raggiungere il 100% è una metafora che vuole rappresentare la necessità
di riconsegnare la politica al 100% ai cittadini».
A questo punto
bisogna ricordare un altro punto fermo che Grillo e i suoi hanno
formulato con chiarezza: via i partiti. Come sono chiarissime le parole
di Muti: quella che per i parlamentari del M5S è una “metafora” al
maestro pugliese ricorda nettamente una presa totale del potere che si
traduce in dittatura.
Tra le altre cose il Corsera, domanda: «E
gli artisti saliti sul carro di Grillo?» «Ognuno è libero di seguire
quel che ritiene giusto. Faccio notare – risponde ancora il direttore
d'orchestra però che noi abbiamo una idea un po’ distorta, per cui si
"fa" l’artista, mentre nella realtà si "è" artista. Essere artista non
significa fare lo scapigliato, un po’ folle, con la barba e i baffi
lunghi e le parole in libertà, sempre ad agitare le mani con violenza e a
insultare gli interlocutori. Non pretendo che tutti debbano essere come
Bach, solennemente seduto al suo organo a comporre opere da consegnare a
Dio e all’umanità, concependo nelle pause un sacco di figli. Un modello
di artista per me è Toscanini, uomo di grande semplicità, eleganza,
coscienza civile. O come Verdi. Uomini per cui la forma è contenuto».
l’Unità 2.4.13
Il Grande Megafono ha una strana idea di democrazia
Grillo rilancia sul blog un vecchio brano di Chomsky mentre nega al suo movimento autonomia e capacità decisionale
di Toni Jop
Gli
piace Chomsky. O almeno lo ha scoperto, ci è arrivato. Oppure
Casaleggio gli ha intimato che se non leggeva il vecchio Noam, non lo
avrebbe portato alle giostre.
Nessun problema, si affronta con
rispetto anche questo processo di formazione. Con una quarantina d'ani
di ritardo. Grillo ha firmato, ieri, un pezzetto estratto dalla
presentazione di «La democrazia del Grande Fratello», pubblicato in
Italia nel 2005. Gli deve essere piaciuta la lapide: «La democrazia è
una scatola vuota» in testa a un mazzolino di concetti. Il primo è che
non siamo liberi, il secondo è che i poteri forti hanno organizzato un
sistema di condizionamento di massa per cui, tra tv sport e altre
amenità, siamo tutti convinti di vivere nel migliore dei mondi
possibili; poi, che il sistema informativo è il veicolo assoluto di
questa visione drogata dell'esistenza mentre assopisce l'intelletto e
disattiva la partecipazione. Dice quel testo che il sistema sarebbe
«perfetto».
E già, pur sconvolti dalla riesumazione «a notizia» di
una quantità di frammenti del nostro ossario didattico che davamo per
assodati, qualche osservazione critica ci starebbe su questa presunta
perfezione. Diffidenti per natura, apparteniamo a quella corrente di
pensiero convinta ragionevolmente della imperfezione del potere e dei
suoi sistemi di controllo.
CALZA DI NYLON
Il potere, per
usare un esempio vigliacco, è una sexy calza di nylon con le sue belle
smagliature sempre presenti. Contiamo su quelle, nel nostro piccolo, per
fare ciò che spiace al potere e piace a noi; Grillo confida nella
perfezione di una intelligenza in grado razionalizzare l'esistente,
muove, cioè, da un assunto che tende ad ammazzare resistenze e progetti
non allineati, la «lotta», in altre parole. E si vede: perché non c'è
atto da lui compiuto sulla strada della salvezza universale applicata
invece che con l'acqua santa, con il napalm, che non testimoni il
fascino subito dal leader maximo dei Cinque Stelle dal potere.
Difficile
sostenere che non stia seguendo esattamente lo schema che attribuisce
alle forze responsabili di rendere la democrazia «una scatola vuota». Ha
sistematicamente tolto dalle mani del movimento la sua, da provare,
capacità auto-decisionale; mentre gli negava autonomia, ha provveduto a
fare due cose: la prima, è aver negato al movimento una piattaforma web
alternativa al Blog di cui è titolare, almeno fino a questo momento;
l'altra iniziativa ha teso a dare ai suoi fedeli l'impressione di
contare nella formazione delle decisioni; ha, cioè, allestito un
fomicaio in cui ciascuno sia convinto di fare la sua parte decidendola
coralmente ma del tutto al di fuori dell'area di pensiero che attiene
alla strategia generale, al confronto con i temi della politica
internazionale, dei grandi temi economici e, in parte, di quelli etici.
L’ORDINE COSTITUITO
A
tutto questo, al campolungo, pensa lui, con Casaleggio, quello che gli
presta i libri da leggere. È lui l'ordine costituito, all'interno del
suo movimento; per questo, espelle le difformità, sanziona le
deviazioni, non accetta alcun controllo su di sé e neppure su
Casaleggio, che altrimenti non gli presta più i libri. Non solo: si
premura che le riunioni dei suoi parlamentari avvengano lontano dalla
web-democrazia, se non quando pensa che la pubblicità di quegli atti in
corso d'opera sia una garanzia rispetto alla tenuta dei suoi ordini.
Intanto,
allestisce, e tiene in vita, una soap opera senza fine in cui è l'unico
interprete, sia quando fa il nuotatore, sia quando invoca l'urlo della
folla. In altre parole, eccolo impugnare proprio quella dinamica di
potere che intende cassare al suo esterno, ma a parole, perché la bella
spinta anti-sistema di Grillo puzza forte di neo-corporativismo. Ciò che
ci interessa è la qualità delle letture che sta affrontando in queste
ore di relax. Ora deve solo aspettare, dopo settimane in cui pareva, ed
era proprio così, che le cose, le scelte, riposassero quasi per intero
nelle sue manine. Al momento assolto, legge in una delle sue ville vista
mare.
il Fatto 2.4.13
Democrazia diretta? I Cinque Stelle leggano Aristotele
La grecista Eva Cantarella e la politica di oggi
“I nostri rappresentanti non hanno più parole perché non hanno idee: sfoglino l’Odissea, farebbe bene a tutti”
di Antonello Caporale
Manca
l’impegno, l’approfondimento, l’applicazione quotidiana. Manca lo
studio, dilaga l’ignoranza. “La politica non ha più parole perché non
possiede idee. Che nascono se si dispone al pensiero, allo studio
sistematico, alla fatica. Secondo lei hanno mai letto Omero? ”. Eva
Cantarella è una grecista di fama internazionale, i suoi libri, i suoi
studi sul diritto romano e la Grecia antica sono noti in tutto il mondo,
e si inquieta all’idea dei senza idee. Professoressa, almeno cento sui
mille del Parlamento avranno letto, altri cento avranno solo sfogliato
il suo libro preferito. “Non chiedo di leggere tutta l’Odissea, che pure
è uno strepitoso libro sulla vita, sull’esistenza, un viaggio alla
ricerca di se stessi mescolato alla potenza della fantasia. Almeno lo
tenessero sul comodino e lo sfogliassero qualche volta. E lo
alternassero con un volume fondamentale di John Rawls: La teoria della
giustizia. Basterebbero solo alcuni passi per capire di più il mondo e
persino il nostro tempo”.
SPERIAMO che almeno i saggi di
Napolitano abbiano avuto questa fortuna in gioventù. “E agli amici di
Grillo, ai suoi deputati del Movimento 5 Stelle consiglio fermamente un
libretto facile e agevole, ma decisivo per la loro formazione culturale.
Discettano di democrazia diretta? Allora e prima di tutto leggano La
Costituzione degli Ateniesi di Aristotele. Temo infatti che abbiano
gravemente frainteso il senso di quel modo di vivere la vita e il
diritto”. Ah, il loro famigerato uno vale uno! “Ecco, sì. Nella Grecia
effettivamente ogni cittadino aveva diritto di andare nell’agorà per
contribuire alla gestione della cosa pubblica. Ma aveva l’obbligo di
sostenere attivamente la gestione, il governo. Pesava su quel cittadino
l’etica della responsabilità, l’obbligo di dare risposte e l’assoluto
dovere di farsi carico del proprio ufficio”. È rimasta delusa dal loro
comportamento? “Ho idee dichiaratamente di sinistra, e non smetterei mai
un secondo di pensare che i partiti sono insostituibili e vitali alla
democrazia. E sono afflitta da questo nostro tempo, e afflitta dalle
domande che continuamente mi rivolgono quando mi trovo all'estero: ‘Come
è stato possibile, cosa vi è successo, perché Berlusconi? ’. Come se la
domanda degli amici parigini e di New York non fosse la stessa,
identica mia. Com’è possibile che ci siamo ridotti così, che siamo
finiti in questo vicolo cieco. Mi viene da dire: colpa della nostra
afasia, della mancanza di un briciolo di memoria, di un minimo di etica.
Vent’anni sono passati e ora assisto all'esplosione del Movimento 5
Stelle. Non avevo idea che fosse così partecipato, e certo è stata
sentita la voglia di buttare via questo mare di politicanti. Ho
conosciuto stimatissime persone che mi hanno confessato di aver dato il
voto al simbolo di Grillo. Non che non veda l’aspetto positivo: volti e
modi di pensare finalmente connessi con la società civile. Ma mi
aspettavo un minimo di preparazione in più, di adeguatezza in più
rispetto alla crisi che ora è sfociata in uno stallo pericoloso. Perciò
dico ai deputati: leggete Aristotele e poi parlate”. Si fanno chiamare
cittadini. “Cittadini è una bella parola, ma non la voglio usare. Dico
deputati e mi convinco che sia la parola adeguata. Essi parlano di
democrazia diretta. Dunque hanno l’obbligo di conoscere almeno i
fondamentali e di sapere, per esempio, che gli ateniesi partecipavano
alla discussione pubblica con consapevolezza di causa”. Ma sono giovani,
alcuni di essi anche impreparati, tutto è cascato sulle loro spalle in
modo così improvviso. Non è una esimente importante? “L’impreparazione e
l’ignoranza non è una esimente, mi spiace. Non basta dire sono
casalinga per essere assolta. Sei casalinga e deputata e devi
contribuire a trovare uno sbocco alla crisi. Contribuisci con la tua
forza e le tue idee, ma non disertare per favore”. Dovessimo andare
indietro nel tempo, quali similitudini troverebbe e quale periodo
indicherebbe? “La fine della Repubblica romana. A Roma si combattevano
fazioni intransigenti mentre il potere era eternamente instabile. Finì
che arrivò Cesare. Grande personaggio che però spalancò le porte
all’Impero. I miei occhi guardano e la memoria va sempre all'indietro.
Continui flashback che mi fanno chiedere: ma questi governanti hanno
memoria? Ma gli italiani hanno memoria? Ma come è stato possibile
offrire ancora a Berlusconi tutti questi voti? Chiedo: ma ci vedete
bene? Vedete anche voi quel che vedo io? Questa crisi non è solo
economica, intreccia le basi morali della nostra società, è figlia di
una caduta di massa dell’etica, di una volgarizzazione generalizzata.
Infatti il turpiloquio è l’approccio consueto nella discussione pubblica
e televisiva. Non desta scandalo, c’è ormai assuefazione. È solo una
curva di acuti che si confrontano: uno dà sulla voce all’altro. Parlano e
di cosa? Hanno sterminato la scuola, che è l’alfabeto della nostra
società. Pensi solo alle poesie che si imparavano a memoria. Certo, non
era il massimo. Ma hanno creato per generazioni un fondo comune di
conoscenza. E ora cosa c’è? ”.
il Fatto Lettere 2.4.13
Solo un governo a cinque stelle
risponde Furio Colombo
CARO
COLOMBO, c’è una cosa che non mi spiego. È vero che il Presidente della
Repubblica assegna l'incarico di formare un governo a un rappresentante
del partito più votato, ma non è obbligatorio. E infatti a questo
principio vi sono state molte deroghe. In questo caso perché non dare
l'incarico di un secondo giro a un Cinque Stelle? Certo, quel Movimento
avrebbe dovuto indicare un nome, oppure accettare il nome di uno di loro
fatto dal Presidente della Repubblica. Non sarebbe stata una verifica
interessante? E subito dopo si sarebbe potuto constatare se avevano “i
numeri”. Perché perdere una occasione così utile, così importante?
Nicola
È
UN FATTO che se fossi stato il Presidente della Repubblica avrei
trovato irresistibile andare al punto: chi mi indicate? Se pensate che,
dei 156 deputati eletti del Movimento Cinque Stelle, solo due sono
autorizzati a parlare, che uno è al Senato, ma che la delegazione più
numerosa è alla Camera, sarebbe stato inevitabile dare l'incarico alla
signora Roberta Lombardi. Da quel momento la deputata Cinque Stelle
avrebbe sperimentato per la prima volta uno dei passaggi più
interessanti e importanti della vita democratica: spiegare il proprio
programma di governo, confrontarlo con il punto di vista degli altri e
accettare o respingere punto per punto fino a ottenere un numero di “sì”
sufficienti per tornare dal Presidente e, come si dice, “sciogliere la
riserva”. A questo punto sarebbe stato importante conoscere
l’organigramma del nuovo governo, se e quali ministeri nuovi ci
sarebbero stati, se e quali ministeri tradizionali sarebbero stati
accorpati o aboliti. E non vorreste sapere i nomi dei designati, anche
per imparare, assieme ai nuovi eletti, se e quale rapporto si stabilisce
o si dovrebbe stabilire fra vita, esperienza e incarico politico? Per
chi non ha mai pensato che, prima del Movimento Cinque Stelle, ci fosse
qualcosa da rimpiangere, tutta questa fase di lavoro, in parte contro il
passato, e in parte in collaborazione con coloro che, sia pure a
diverso titolo, fanno parte del presente, sarebbe stata importante,
rivelatrice, un vero debutto del Movimento in un mondo finora non
frequentato e non sperimentato. Difficile dire che cosa lo abbia
impedito, e come il Capo dello Stato abbia resistito alla sfida: “Un
governo nuovo? Cinque Stelle o nessuno”. Prima di nessuno, proviamo
Cinque Stelle. Non sarebbe facile, e non sappiamo se sarebbe possibile.
Una ragione in più per provare subito.
Corriere 2.4.13
«Potevamo dialogare» Le critiche (interne) alla strategia 5 stelle
E Crimi: Napolitano esautora le Camere
di Emanuele Buzzi
MILANO — Una riunione ieri — a ranghi ridotti, nel tardo pomeriggio — e una oggi: i Cinque Stelle tornano a confrontarsi dopo la Pasqua per affrontare il nodo dei «saggi» decisi dal Quirinale e il rebus dello stallo politico. L'orizzonte del Movimento per ora registra solo perplessità. «Si tratta di una scelta totalmente irrituale quella adottata da Giorgio Napolitano», afferma Vito Crimi. Per il capogruppo al Senato c'è il rischio ulteriore «di esautorare un Parlamento già zoppo». E per ribadire il concetto, Crimi sottolinea il fatto che non siano ancora state create le commissioni e che «manchi» anche la giunta per le elezioni. «Ci sono, secondo i nostri calcoli, circa una trentina di parlamentari che forse non potrebbero sedere né a Montecitorio né a Palazzo Madama: dopo un mese dal voto, è una situazione insostenibile», sbotta.
Nel Movimento c'è fermento. Se la maggioranza dei parlamentari insiste nel ripetere che fornire dei nomi per un eventuale premiership è inutile, perché la soluzione dei Cinque Stelle «non è mai stata presa in considerazione» e c'è solo «il rischio di killeraggio mediatico per un esponente estraneo alla politica», alcuni deputati manifestano altre idee. È il caso di Alessio Tacconi che, su Facebook, fa autocritica: «Personalmente, ritengo che il risultato della strategia adottata dal M5S in questa tornata di consultazioni poteva essere migliore». Tacconi rincara la dose: «Ritengo che si poteva ottenere qualcosa di più, se avessimo accettato di portare avanti un dialogo politico più serio e strutturato con le altre forze politiche». In serata è lo stesso Crimi che, indirettamente, con un lungo post, gli risponde: «A quanti oggi sostengono che avremmo dovuto offrire una possibilità a Bersani e al Pd, chiedo: quante possibilità gli sono state concesse in questi anni?». E sul nome per un presidente del Consiglio a Cinque Stelle, sostiene: «Mai ci è stata richiesta — da chi istituzionalmente avrebbe potuto farlo — un'eventuale proposta». Crimi ipotizza che un passaggio in Aula di Bersani sarebbe stato plausibile, anche nel caso il segretario pd non avesse avuto i numeri per la fiducia. Un governo Bersani per gli affari correnti «almeno sarebbe stato rappresentativo di una maggioranza relativa e non di una strettissima minoranza come il governo Monti». Sempre sul social network il deputato Luigi Gallo annuncia: «A breve avremo i nostri "saggi", legittimati dall'aver prodotto veri cambiamenti nella nostra società a vantaggio dei cittadini, degli esclusi e dei senza voce». E spiega: «Inviteremo esperti dell'economia all'assemblea dei portavoce 5 Stelle per definire nel dettaglio la politica economica del M5S». E proprio nelle stesse ore, il capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi, ha twittato il parere di Gaetano Troina, professore ordinario di Economia a Roma Tre sul provvedimento che dà il via libera allo sblocco dei pagamenti alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni.
Ma oltre al dibattito su personalità da proporre e impasse governativa, a tenere banco nelle riunioni del Movimento sono state (e saranno) le iniziative da prendere in Aula. Dopo aver preannunciato un'interrogazione parlamentare sulle perforazioni di Ombrina Mare al largo dell'Abruzzo (con conseguente scontro con il ministro Corrado Clini), i Cinque Stelle avrebbero allo studio provvedimenti per riformare la legge elettorale e norme anche anticorruzione. Tematiche da portare avanti insieme al taglio dei costi della politica e allo stop ai rimborsi elettorali. Intanto Beppe Grillo, sul blog, per l'editoriale dei post de «La Settimana», prende spunto da Noam Chomsky e titola «La democrazia è una scatola vuota». «La macchina da indottrinamento al servizio di potentissimi, e occulti, poteri finanziari — scrive il leader citando la prefazione di un libro dello studioso Usa — è per Noam Chomsky il vero Grande Fratello della società americana e occidentale».
Repubblica 2.4.13
Questo paese indeciso a tutto
di Ilvo Diamanti
NON
è piaciuta la scelta del Presidente Napolitano, dopo il tentativo di
Bersani – senza esito – di formare un governo. L’istituzione di due
commissioni di Saggi. Non è piaciuta. Ai principali partiti. (Non solo e
non tanto per ragioni di “pari opportunità). Come la ri-legittimazione
del governo Monti.
Così, per la prima volta dopo il voto, fra le
tre principali formazioni presenti in Parlamento, c’è accordo. Nel
disaccordo. Contro la decisione del Presidente. Che, effettivamente,
allunga questa fase “eccezionale”, per qualsiasi democrazia. Visto che
l’Italia, da quasi un anno e mezzo, è governata da un gruppo di
“tecnici”, non eletti, ma nominati dal Presidente. Sostenuti, fino a sei
mesi fa, da una maggioranza eterogenea. Per necessità. E per emergenza.
Per l’impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare intorno a
un governo. Per la necessità di affrontare l’emergenza economica e
politica, interna e globale. E di rispondere agli impegni, di fronte
alle autorità finanziarie e alle istituzioni internazionali.
Oggi,
però, abbiamo un Parlamento rinnovato. Profondamente. Per l’ingresso di
nuovi parlamentari. E di una nuova forza politica: il M5S. Che ha
occupato uno spazio molto ampio. Nei consensi e nei seggi. Nel dibattito
politico e presso l’opinione pubblica. Tuttavia, le condizioni che
avevano determinato – quasi imposto – l’incarico al governo tecnico non
sembrano cambiate.
La crisi economica nazionale e internazionale:
si è fatta più seria. Grave. Dopo le elezioni, il clima sociale interno è
avvelenato. Mentre all’esterno, si respira un sentimento di scetticismo
diffuso nei confronti dei nuovi e vecchi attori della scena politica
italiana. Monti, l’unico di cui si fidassero i “mercati” e i leader
internazionali, dopo l’avventura elettorale, è divenuto, anch’egli, poco
credibile. Anzi: in-credibile.
Peraltro, nessuna fra le possibili
soluzioni proposte dalle maggiori forze politiche rappresentate in
Parlamento, oggi, appare effettivamente praticabile.
Il
Centrosinistra, guidato da Bersani, – o meglio: Bersani, alla guida del
Centrosinistra – avrebbe voluto, comunque, verificare l’esistenza di una
maggioranza parlamentare, intorno alle sue proposte. Contava, cioè, di
conquistare il sostegno di una parte dei senatori del M5S, in dissenso
con le indicazioni di Grillo. Com’è avvenuto
in occasione dell’elezione di Pietro Grasso a Presidente.
Operazione
rischiosa. Perché, se anche avesse funzionato, avrebbe restituito una
maggioranza precaria, sempre in bilico. Marchiata dal “tradimento”, come
non esiterebbe a gridare Grillo. Affiancato da Berlusconi e dal PdL.
Il
Centrosinistra, d’altronde, non ha alcuna intenzione di intraprendere,
nuovamente, la Grande Coalizione. Che, invece, piacerebbe al PdL.
Soprattutto a Berlusconi. Per uscire dall’angolo e condizionare l’agenda
futura. Ma piacerebbe, ancor più, a Grillo e al M5S. Che potrebbero
rilanciare la loro strategia di successo, in questa fase. La rivolta
contro la partitocrazia e la classe politica. Contro il PdL e il
PdLmenoL.
Elezioni a breve termine – inevitabili in un clima di confusione politica e parlamentare – avrebbero un esito imprevedibile.
Ma
piacciono molto al M5S. Favorito da questo clima impolitico,
amplificato dalla crisi della politica. Piacciono anche al PdL. Perché
la “mancata vittoria” e l’incapacità di formare un governo farebbero del
Pd il principale capro espiatorio, in caso di elezioni immediate.
Come
se, paradossalmente, avesse governato — male – senza neppure governare.
E gli altri avessero fatto opposizione – anche in assenza di un
governo.
Con questa legge elettorale, tuttavia, difficilmente – e
parlo in modo prudenziale – qualcuno riuscirebbe a conquistare la
maggioranza dei seggi al Parlamento.
D’altra parte, perché mai
questo Parlamento – appena eletto – dovrebbe varare una nuova legge
elettorale, in fretta e furia, senza aver quasi cominciato la
legislatura, se non vi è riuscito il precedente, con cinque anni a
disposizione?
Infine, come potrebbe, come avrebbe potuto, il
Presidente Napolitano, assumere una decisione vincolante per il prossimo
futuro, proprio ora che è in uscita? Nominando – e imponendo al
successore – un solo Saggio? Cioè, un altro Tecnico, super partes, a
capo di un “governo di scopo”? Di durata comunque non breve? Per questo,
a mio avviso, la scelta di nominare le Commissioni di Saggi è risultata
inevitabile. Perché è una nondecisione.
Una in-decisione. Che
riflette e sottolinea l’im-potenza di questo Parlamento, caratterizzato
dall’irruzione di un non-partito. Di questo Paese. Privo di Autorità
riconosciute e legittimate. Per prima, quella “paterna”, come ha
suggerito Eugenio Scalfari, una settimana fa. Un Paese, dove, per
utilizzare un’efficace metafora di Barbara Spinelli, il “trono è vuoto”.
Ovvero: “il posto di comando è vacante”. Ed è questa la Questione. Che
fatichiamo ad accettare. Noi, italiani, siamo diventati, ormai, un Paese
di minoranze. Politiche. Irriducibili. Ciascuna incapace di imporsi
sulle altre. Ciascuna gelosa del proprio potere di veto. Sugli altri.
Indisponibile, per questo, ad accettare leggi che consentano a qualcuno
di governare sugli altri. Per questo è tanto difficile modificare la
legge elettorale, il Porcellum. E ci teniamo, quasi unici al mondo, un
sistema bicamerale perfetto, che pone sullo stesso piano le due Camere,
peraltro elette con leggi elettorali diverse. Rendendo complicata ogni
scelta. Ogni maggioranza.
Così, Napolitano ha applicato l’unica
soluzione possibile in un Paese eternamente in-deciso, come il nostro.
Ha fatto ricorso a quella che il filosofo John Perry ha definito la
“procrastinazione strutturata”. Cioè, l’arte di rinviare a domani ciò
che “dovremmo” fare oggi stesso. Ma in modo, appunto, “strutturato”.
Programmando “altre” cose utili. Ma meno importanti. Per prendere tempo.
Perché più tempo “potrebbe” favorire il dialogo, far emergere
soluzioni. Oggi non ancora visibili. Potrebbe. Ma potrebbe anche
avvenire il contrario. Nuove divisioni e fratture. Più profonde e
drammatiche. Fino a rendere inequivocabile quel che ancora non è
abbastanza chiaro. A tutti. Che un Paese im-potente e senza autorità,
senza padri né governi: non può durare a lungo. Non è uno Stato, ma uno
“stato”. Un participio passato.
Rendersene conto, prenderne atto,
costituirebbe la premessa di un cambiamento reale. Se i Saggi sono
davvero tali, possono provare a spiegarlo. Al Parlamento e ai cittadini.
In un modo esemplare. Per non concedere alibi a nessuno: lascino al più
presto il Parlamento, i partiti – e i cittadini – da soli. Di fronte
alle loro responsabilità.
il Fatto 2.4.13
Stagionali in Sicilia
Cassibile, lavorare senza esistere “Qui è peggio di Rosarno”
di Veronica Tomassini
Uscendo
dal paese, lungo strette carraie, oltre la moschea e la vecchia
ferrovia, brucia la terra degli schiavi, sono falò e incensi esotici.
Seguendo le mulattiere e i muri a secco, ad ogni casa colonica franata,
ad ogni rudere, che si alterna tra un podere e un giardino di agrumi,
sul poggio roccioso sopra Cassibile, incalza l’Africa degli stagionali,
con scritte su pareti grezze sbriciolate “W Sudan”, con abiti a stendere
sopra le agavi e i rovi secchi.
BISOGNA inoltrarsi, dove soltanto
i padroni possono, fuori dal paese, Cassibile, il più islamico della
provincia, 14 chilometri a sud di Siracusa. Gli uomini che seguono le
campagne attraversano le mulattiere, riparano in certi luridi
pagliericci, vengono dal Sudan (moltissimi dal Darfour), Ghana, Eritrea.
Sono già nella retrovia dei bivacchi, in attesa della raccolta (la
patata novella), comincia a fine marzo inizi di aprile e fino a maggio,
ma gli uomini che seguono le campagne arrivano prima, a febbraio,
tolgono gramigna dai poderi, vengono da Paternò dove hanno esaurito la
raccolta delle arance. Cassibile è sempre in emergenza, per qualcuno di
loro. Detto tra i denti, Cassibile è peggio di Rosarno. Per Azibo
Cassibile è peggio di Rosarno, sì. Lo incontro al cospetto del poggio,
esce dalla casa colonica, con una tanica in mano piena di acqua sporca,
mentre dietro di lui un rigagnolo maleodorante segna il terreno
sconnesso. “Ti prego, no scrivi, noi dopo problemi”. Temono le
ritorsioni, i rastrellamenti, più o meno coercitivi. Azibo è stato a
Paternò, prima ancora a Lecce per il pomodoro, Andria e Campobello. Dopo
Cassibile ripartono per Lecce, Azibo con i compagni di raccolta Banga e
Badu. Azibo dice che è finita la pratica dei caporali, così la paga
giornaliera è abbastanza buona, sono quaranta euro, per otto ore, contro
le venti venticinque di qualche anno fa (su dodici ore anche). La
mattina all’alba Azibo, Badu, Banga sono in piazza, in paese, e anche al
tramonto, è lì che si concludono gli affari, lì arrivano i padroni,
scelgono, contrattano.
BADU è arrivato a Cassibile con un grosso
sacco sulle spalle, dentro nascondeva la bombola del gas: servirà per
cucinare e finché dura la trascinerà da un pagliericcio all’altro, i
piedi abituati alla fatica e la suola delle scarpe sollevata. I caporali
non ci sono, promette Azibo Quando esploderà il caso Cassibile - ogni
anno è “il caso Cassi-bile” in piena stagione - e monteranno le tende
nello svincolo per l’autostrada (gestite dalla Croce Rossa), in quelle
tende Azibo e i compagni non entreranno mai, quelle tende sono per i
regolari, quanti sono i regolari: sei sette, quanti? Gli uomini della
raccolta non chiedono altro, i residenti non affittano nemmeno i feretri
agli stagionali. In fondo per il paese, il più islamico della
provincia, quegli uomini non esistono. Ci sono stati gli anni delle
levate di scudi, una guerra tra poveri tutto sommato, frange isolate di
intolleranti crearono non pochi disagi. Eppure il paese, che ha una
moschea, un paio di bazar, kebabberie sparse e macellerie islamiche,
vanta una percentuale altissima di gente proveniente dal nord Africa. I
ragazzini (seconda generazione di immigrati, di solito da Tunisia e
Marocco) parlano persino in dialetto, una specie abbordabile di
integrazione forse è già accaduta.
MA GLI STAGIONALI fuori le
tende, fuori il paese, sono un’altra storia. Quegli uomini che seguono
le campagne non esistono, sono braccia e basta e gambe solide. Prima del
tramonto il Sudan si raccoglie a crocchio davanti la scuola media del
paese. Il Sudan: sono tre, quattro giovani che non sorridono mai e
guardano sempre a terra, ma parlano bene l’inglese. A qualche metro di
distanza il drappello di cingalesi, parlano per fatti loro, loro non
dormono nei pagliericci. Alla fontana signori in tarbush o con la
shashia (copricapi) e le donne con l’hijab. Le donne non si vedono
spesso, neanche quelle del posto, le italiane. Poi incontro Feiza, con i
figli, davanti al pc nell’aula di informatica dell’istituto comprensivo
dedicato a Falcone e Borsellino. Feiza di Tozeur (Tunisia) accompagna i
figli a scuola con la sua automobile, ha l’hijab a coprirle il capo, ma
sembra emancipata, libera in un certo senso. Vivono fuori dal paese,
vicino i pagliericci, i rovi nelle case coloniche, con vecchi abiti ad
asciugare. Feiza ha una casa normale, non conosce gli uomini delle
campagne, si incrociano per strada al limite, gli uni sotto il sole
verso i poderi, lei in station wagon. Anche il marito lavora in
campagna, ma lui è uno regolare, lui esiste un poco per gli altri, gli
indigeni.
l’Unità 2.4.13
L’analfabetismo di ritorno fa male anche alla democrazia
Solo il venti per cento degli italiani comprende il senso di un testo complesso
di Fabrizia Giuliani
NELL’ERA
DELLA COMUNICAZIONE IN TEMPO REALE, DELLA DEMOCRAZIA DIGITALE, DEL CHI
NON SA O SI FERMA -, È PERDUTO, i dati sull’analfabetismo di ritorno
emersi dall’indagine All -Adult Litercyand LifeSkills promossa
dall’Ocse, aiutano a capire le radici della crisi politica italiana più
di molti editoriali delle ultime settimane.
La ricerca conferma
ciò che già da tempo si sa: più di due terzi della popolazione non è in
grado di leggere e capire a fondo ciò che legge, solo il 20% degli
italiani comprende il senso di un testo complicato dalla presenza di
subordinate, cifre o grafici. Oltre le frasi elementari, l’italiano, per
gli italiani, è una lingua in gran parte straniera, e i numeri, oltre
le operazioni semplici, sono per molti un continente sconosciuto. Se la
regressione delle competenze è un fenomeno che attraversa tutti i Paesi
in quanti ricordano i residui alogenici o le irregolarità delle
desinenze del latino usciti dai licei? in Italia la qualità e la
quantità di questo arretramento ha avuto conseguenze catastrofiche, come
da tempo afferma e argomenta De Mauro.
La dealfabetizzazione
caratteristica dei Paesi più ricchi si somma da noi alla passata mancata
scolarità, propria di un Paese segnato da un processo di
modernizzazione senza sviluppo, come scriveva Franco De Felice. Questo
nuovo analfabetismo ha caratteristiche inedite: chi oggi legge senza
capire, non sempre ne è consapevole, mentre chi ieri firmava segnando
era invece ben conscio della propria condizione, lottava per conoscere o
per consentire ai propri figli di farlo. I nuovi analfabeti sono
lontani dai cliché per età, appartenenza sociale e abitudine. Molti di
essi hanno redditi elevati, accedono alla rete e usano i social network.
Non sono dunque solo gli anziani privati delle opportunità, ma anche i
giovani che stentano a trovarle, a sviluppare nel lavoro le conoscenze
acquisite a scuola e all’università. Non stupisce che questo massiccio
«analfabetismo funzionale» non venga vissuto, collettivamente ed
individualmente, come problema. Gli inciampi dati da ciò che non si sa
vengono superati delegando alle risorse tecnologiche. La rete aiuta ad
orientarsi, offre appigli immediati e soprattutto semplifica. Il tempo
necessario alla fatica della conoscenza fatica del corpo e della mente è
respinto: superfluo rispetto alle necessità del qui e ora. Stupisce
invece come quest’ordine di considerazioni da porre accanto alla
verifica sul calo delle immatricolazioni, sui giovani con laurea ma
senza lavoro, sul numero di libri e giornali letti in Italia resti
sostanzialmente fuori dal ragionamento politico. Il nuovo analfabetismo
non è un fenomeno circoscritto. Pesa nella formazione della vita
associata, nella costruzione del senso comune, della cultura e della
lingua. Condiziona le forme della comunicazione e della politica. Riduce
la lingua all’osso e combatte l’argomentazione. Non capire cosa si
legge significa essere privi degli strumenti per orientarsi in una
società complessa, del controllo sulle decisioni pubbliche e sulle
deliberazioni; in altre parole ancora, vuol dire affidarsi. Leggere
senza capire vuol dire spesso comunicare senza ragionare.
Sta qui
una parte cruciale della nostra crisi democratica, e da qui si dovrebbe
partire, oggi, per distinguere tra le risposte doverose alle istanze di
cambiamento e le illusioni regressive di un «nuovo» senza volto. La
politica non può rassegnarsi allo spirito e alla lingua del tempo: ciò
che oggi i cittadini richiedono, se si ha l’attenzione di considerare
non solo le grida e i blog più seguiti, è un atto di responsabilità e di
scelta. Combattere l’analfabetismo funzionale non vuol dire solo un
robusto e finanziato programma per la scuola e l’università, vuol dire
combattere il dileggio verso le forme strutturate e reali della vita
associata, le istituzioni, l’informazione. La casta non c’entra: è in
gioco il rifiuto per il dialogo, la mediazione tra diversi, il senso del
limite, l’accordo senza il quale non c’è, prima ancora di ogni
equilibrio politico, assetto civile che tenga.
l’Unità 2.4.13
Evasori: carcere e gogna sociale. Ma l’Italia frena
In Usa si ipotizza persino la cospirazione contro lo Stato
Identikit sul web in Irlanda e Regno Unito
Ocse e Fmi chiedono banche dati e incroci di notizie, ma da noi si invoca la privacy
di Bianca Di Giovanni
Quando
è stata annunciata l’Anagrafe tributaria Attilio Befera si è beccato il
soprannome di «Grande Fratello». I più cattivi hanno evocato la
«spectre», i più sottili hanno invocato la privacy. Nessuno, purtroppo,
ha sottolineato quello che per gli esperti è ormai un dato assodato:
tutte le organizzazioni internazionali, dall’Ocse all’Fmi, chiedono la
costituzione di banche dati, flussi, incroci e stoccaggi di
informazioni. Questa è l’unica strada per ingaggiare una vera lotta
all’evasione. Una guerra che si sta facendo sempre più feroce,
soprattutto dopo l’esplosione dei debiti pubblici di qua e di là
dell’Atlantico. Lo Stato va in «rosso» mentre i forzieri dei paradisi
fiscali si gonfiano, le frodi carosello (meccanismi fraudolenti dell’Iva
attuali attraverso vari passaggi) si fanno sempre più sofisticate, le
società off shore si moltiplicano. per questo in tutti i Paesi le armi
anti-evasione stanno diventando sempre affilate, in qualche caso feroci.
In Irlanda si è scelta la strada della gogna sul web, con tanto di nomi
e cognomi degli evasori dati in pasto alla rete. I sacerdoti della
privacy hanno mugugnato, ma quando sono arrivati i risultati sono stati
ridotti al silenzio.
Negli Usa, altra cittadella del diritto alla
privacy, si fa anche di più: ultimamente ha fatto la sua comparsa il
termine «cospirazione» contro lo Stato per chi evade. Un’imputazione che
omologa un evasore a una sorta di terrorista, in quanto privando lo
Stato delle sue risorse mette a rischio l’interesse nazionale. Il
sistema americano ha anche inasprito le pene, che prevedono il carcere
per una durata media di 36 mesi. Vista così, è chiaro che il diritto
alla privacy passa automaticamente in secondo piano: a prevalere è
comunque l’interesse pubblico. D’altro canto in tempi di fiscal cliff
(il baratro fiscale in cui l’amministrazione Obama si è ritrovata per
colpa dei Repubblicani), Barack Obama non può consentire un tax gap a
quota 450 miliardi di dollari. A tanto è arrivata nel 2012 la differenza
tra le entrate attese e il gettito effettivo. In un decennio gli Usa
hanno visto dissolversi circa tremila miliardi di dollari. Una
commissione parlamentare che studia il fenomeno parla di circa mille
miliardi l’anno di elusione, dirottati all’estero. Magari proprio da
quei manager banchieri, che nonostante i subprime hanno compensi in
crescita del 60%. Somme pesanti per uno Stato con un deficit di un
trilione di dollari.
L’ordinamento americano ha pensato tuttavia
di eliminare le agevolazioni fiscali sulle stock option per quelle
società che trasferiscono ingenti capitali in paradisi fiscali. E in
ogni caso chi elude o froda viene perseguito da un pool di «agenti
speciali», circa 2.300, il cui compito è seguire i casi più complessi.
Quello di scuola ha riguardato la banca svizzera Wegelin, un istituto
bancario storico che è stato accusato da Washington di aver persuaso,
assistito e consigliato centinaia di contribuenti nel trasferire i loro
capitali su conti all’estero, con l’unico intento di evitare la morsa
fiscale. Il danno per l’Erario è stato stimato in un miliardo e 200
milioni di dollari. Proprio la Wegelin è stata condannata anche per
«cospirazione» contro lo Stato: una condanna esemplare. I dati della
guerra fiscale americana sono durissimi: nel 2012 su 3.701 procedimenti,
il 93% sono stati conclusi con una condanna al carcere. Nel decennio,
su oltre 31.600 casi aperti da un nucleo speciale di intelligence,
29mila si sono chiusi con la detenzione.
Non che la rigorosa
Germania se la cavi tanto meglio, quanto a compliance fiscale. Dopo
decenni di retorica della disciplina, Berlino «scopre» un tesoretto di
215 miliardi di evasione fiscale, almeno stando a una stima de minimis.
Anche i tedeschi scelgono la strada del carcere dall’estate scorsa: così
l’evasione esce dalla categoria di reato minore, ed entra nel girone
infernale della pena detentiva. Berlino aveva tentato la strada
dell’intesa con la Svizzera, stoppata poi in Parlamento. Ci ha pensato
la Corte federale a trovare quest’altra strada, molto meno amichevole
della prima.
SLOGAN MINACCIOSI
Persino i britannici perdono
il loro aplomb, e decidono di perseguire con tutti i mezzi i «furbetti»
del fisco, con buona pace della City che si credeva al riparo del suo
«schermo» di segretezza finanziaria. Tra le molteplici strate-
gie
messe in campo da Londra, anche quella di pubblicare online i volti,
oltre all’identikit, degli evasori. Si è iniziato con i 32 maggiori
evasori intercettati dal fisco di Sua Maestà, che dovranno scontare
complessivamente 155 anni dietro le sbarre. Ma molto peggio per loro è
la «pena» tecnologica, che li espone al «giudizio universale» della
rete. Secondo gli esperti in questo modo le frodi carosello sull’Iva
sono diminuite si un terzo. La strategia del fisco inglese è ad ampio
raggio, e punta a seminare qualche preoccupazione tra i cittadini
tentati di nascondere all’Erario il proprio reddito. Su cartelloni,
banner, manifesti sui bus, gli slogan dell’Agenzia delle Entrate
adombrano paurose minacce. «Ormai ci stiamo avvicinando ai redditi non
dichiarati» si legge sotto la foto di una donna che fissa il lettore
attraverso uno squarcio tagliato su un foglio di carta. Naturalmente
Londra non rinuncia al politically correct. «Se hai riportato
correttamente in dichiarazione i tuoi redditi si legge sotto lo slogan
non hai nulla da temere».
l’Unità 2.4.13
Il Pd contro il sindaco
«Alemanno sta strumentalizzando il Papa»
«Non
credo che il Papa sarebbe contento di sapere di essere finito in un
video-spot elettorale. Alemanno ma che fai?». Così su Twitter il
senatore Ignazio Marino, candidato alle primarie del centrosinistra per
il Campidoglio, attacca il sindaco Gianni Alemanno per il video,
pubblicato sul suo sito internet, nel quale il primo cittadino fa gli
auguri ai romani con immagini girate durante la Via Crucis di Papa
Francesco. Dure critiche al sindaco anche da un altro candidato alle
primarie, David Sassoli: «Che l’incontro col Papa sia nel sito del
Comune è normale, che sia usato nel sito elettorale di Alemanno è
millantato credito».
Intanto Paolo Gentiloni, candidato alle
primarie del centrosinistra per il sindaco di Roma, lancia un appello a
cinque giorni dal voto.
«Io chiedo al Pd romano, a tutti noi
candidati e al partito di far sapere che per la prima volta a Roma si
sceglie un candidato con le primarie. Se 100-200 mila romani ci
aiuteranno è chiaro che il Pd partirà più forte rispetto, per esempio, a
un candidato dei 5 Stelle scelto da 500 persone e da un sindaco che è
in evidente difficoltà».
«È la prima volta che si fanno le
primarie riferisce ancora il deputato occorre partire con il piede
giusto. Non vorrei primarie conclude Gentiloni che riproducano
contrapposizioni fra aree del Pd che hanno nuociuto al partito romano da
dieci anni a questa parte».
Repubblica 2.4.13
Così la speculazione si è mangiata Roma
Un libro-denuncia di Francesco Erbani sulla capitale depredata
di Alberto Asor-Rosa
Ci
sono libri-inchiesta documentatissimi e noiosissimi; e ce ne sono altri
poco documentati e altrettanto noiosi. Roma. Il tramonto della città
pubblica di Francesco Erbani appartiene a una terza categoria: quella
dei libri-inchiesta documentatissimi, che si leggono d’un fiato come un
romanzo d’avventure oppure, se si guarda al gioco stringente dei
drammatici rapporti di causa ed effetto che esso segue e rivela, come un
avvincente poliziesco. Mi spiego. L’oggetto dell’indagine, condotta con
dovizia di strumenti analitici e somma conoscenza della materia, è
ovviamente Roma: ossia, più esattamente, l’evoluzione del suo assetto
urbanistico nel corso, diciamo, degli ultimi trent’anni, ma con
frequenti e illuminanti carrellate all’indietro. Politicamente parlando,
il periodo corrisponde grosso modo alle Giunte Rutelli e Veltroni, poi,
dopo la dolorosa sconfitta del centrosinistra, a quella Alemanno.
Nel
Prologo che apre il libro (sì, detto bene così: Prologo, non
Presentazione né Prefazione, perché quel che segue è una vera e propria
“sacra rappresentazione”, un evento teatrale carico di significati e
conseguenze fondamentalmente drammatici, a cui si conviene un introibo
che non si limita a presentare ma è già parte costitutiva della
materia), Erbani non fa altro che porre una moltitudine d’interrogativi
angosciosi. Cosa vogliono dire questa fitta serie d’interrogativi e
questo modo di procedere nella “forma inchiesta”? Vogliono dire che
Erbani dispiega agli occhi del lettore sotto forma di domande l’intera
problematica relativa alla situazione urbanistica e ai rapporti civili e
sociali di una città come Roma (la Capitale della Repubblica, il centro
mondiale del Cattolicesimo, una delle città storicamente e
artisticamente più significative del globo terracqueo), prima di dar
corso alla vera e propria indagine conoscitiva.
Quest’ultima risponde poi, cammin facendo, a tutte le domande poste nel Prologo?
Saremmo
eccessivamente gratificanti se rispondessimo di sì in ogni caso. Questo
però non dipende dalla scarsità di documentazione o dalle insufficienti
capacità dell’autore, le quali invece sono, l’una come le altre, fuori
dal comune. Dipende dalle dimensioni gigantesche del problema, che
Erbani ha invece il merito di segnalare in tutte le sue tendenziali
forme di espressione, anche quando la ricerca del colpevole, o dei
colpevoli, richiederebbe un supplemento d’indagine.
Erbani,
entrando nel merito, divide la sua materia in otto capitoli, ognuno dei
quali la affronta da un diverso angolo visuale e/o da un diverso lato
della città: le periferie (i megacentri commerciali, gli agglomerati
urbani privi di ogni forma e persi nella solitudine delle campagne); il
centro storico (svuotato dei suoi vecchi abitanti, ferreamente
sottomesso alla logica del modello affaristico- turistico-gastronomico);
il traffico automobilistico, ovunque dominante (la carenza di mezzi
pubblici, la mancanza di un piano tranviario, la soffocazione degli
spazi e della vita); la devastazione dei luoghi storici e archeologici
(la diffusione del privato sull’Appia antica).
Su questa varia e
spesso sfuggente materia è tuttavia ben chiaro per Erbani quale sia lo
snodo decisivo dell’intero discorso: il predominio a Roma, storicamente e
oggi, della grande speculazione immobiliare, che consuma, dentro e ai
margini della città, quanto c’è ancora da consumare: per esempio, la
devastazione ininterrotta e ancora tutt’altro che dismessa dell’Agro
romano, un tempo splendido e oggi ridotto a semplice riserva di nuove, e
nella gran parte dei casi immotivate e inutili, intraprese edilizie. Il
quadro, visto in maniera così sistematica, è catastrofico. Vi si
aggiunga che, nel frattempo, il pubblico ha dismesso a favore del
privato gran parte del suo patrimonio (Capitolo 5): e che di conseguenza
Roma, da grande “città pubblica”, si è gradualmente trasformata sempre
di più in una “città privata” (fonte questa a sua volta di altre pesanti
tensioni).
E, appunto, il potere pubblico? E il Comune? Il
giudizio di Erbani, sempre circostanziato e attento a distinguere, è
tuttavia complessivamente severo, anzi molto severo. Se si esclude
qualche illuminazione della Giunta Rutelli (si veda nel merito la
conversazione avuta e qui riferita dall’autore con Walter Tocci, allora
Vice Sindaco, anche lui del resto sul lungo periodo uno sconfitto) e
della prima Giunta Veltroni, ovunque confusione, mancanza di idee
generali, e soprattutto una congenita debolezza nei confronti dei poteri
forti cittadini. È in questa fase, del resto, che nasce e si sviluppa
anche a Roma la sciagurata teoria e pratica dell’“urbanistica
concordata”, che significa mettere la programmazione nelle mani della
proprietà privata e far retrocedere il pubblico su posizioni di semplice
resistenza (nel migliore dei casi). Non parliamo della Giunta Alemanno,
che, dopo le fasulle dichiarazioni elettorali, si è meritata ampiamente
il titolo di Vestale della speculazione edilizia e del degrado urbano.
Tiriamo
le somme. Il tramonto della città pubblica s’inserisce da protagonista
in una lunga e nobile serie d’interventi e di opere sulla città di Roma,
che del resto Erbani puntualmente fa emergere e richiama là dov’è il
caso: dal leggendario I vandali in casa di Antonio Cederna (del resto
recentemente ripubblicato dallo stesso Erbani presso lo stesso editore) a
Roma moderna di Italo Insolera, da Roma da ieri a domani di Leonardo
Benevolo a Se questa è una città di Vezio De Lucia, fino al più recente
La città in venditadi Paolo Berdini. Con questa eletta compagnia,
«ultimo fra cotanto senno», il Francesco Erbani di Roma. Il tramonto
della città pubblica ci sta benissimo. Gli auguriamo cordialmente
miglior fortuna di quella che hanno avuto i suoi predecessori.
Roma Il tramonto della città pubblica di Francesco Erbani Laterza euro 12
l’Unità 2.4.13
Il Sunderland assume Di Canio e Miliband lascia
La protesta dell’ex ministro laburista, dirigente della squadra inglese, all’arrivo del mister «fascista»
L’ex calciatore italiano si dice offeso perché gli criticano i valori trasmessi dai genitori
di Gabriel Bertinetto
Per
Paolo Di Canio, ex-giocatore della Lazio e di altre squadre in Italia e
in Gran Bretagna, Mussolini non è il dittatore che rovinò l'Italia, ma
al contrario un genio incompreso. Altri invece comprendono molto bene
chi sia lui, Di Canio: un fascista convinto e dichiarato. Ed è motivo
valido e sufficiente per abbandonare ogni ruolo dirigente in una società
calcistica inglese, il Sunderland, nel momento stesso in cui Di Canio
viene chiamato ad allenarla. Decisione tanto più lineare ed onesta, se a
prenderla è David Miliband, ex-ministro degli Esteri laburista e
fratello di Ed, l’attuale leader dell’opposizione in Gran Bretagna.
«Auguro
al Sunderland Afc i migliori successi dichiara Miliband nell’annunciare
il ritiro dalla carica di vicepresidente e direttore non esecutivo -. È
una grande istituzione che fa tanto per il nord-est dell’Inghilterra, e
spero che la squadra vada bene nelle prossime cruciali sette partite di
campionato. Tuttavia alla luce delle passate dichiarazioni politiche
del nuovo manager, credo sia giusto dimettermi».
Sabato i Black Cats hanno perso in casa contro il Manchester United, ed ora so-
no
in piena zona retrocessione. Come accade spesso nel mondo del calcio, a
pagare è l’allenatore, Martin O'Neill, licenziato in tronco. Al suo
posto, con un contratto di due anni e mezzo, arriva il collega Di Canio,
disoccupato per essersi dimesso recentemente dal Swindon, un club della
serie B inglese. Anche la sua assunzione al Swindon nel 2011 aveva
suscitato polemiche, inducendo lo sponsor, il sindacato Gmb, a recidere
ogni legame con la società.
Per David Miliband è il secondo addio
alla vita pubblica in patria nel giro di pochi giorni. Aveva appena
annunciato di lasciare il seggio in Parlamento per dedicarsi alla sua
nuova attività in un’associazione umanitaria, l’International Rescue
Committee, a New York. Ma la sua scelta di abbandonare il Sunderland
viene criticata come una sorta di «riflesso condizionato» da Jeremy
Wray, che ha conosciuto da vicino Di Canio come ex-presidente del
Swindon, e dice di «non avere mai discusso con lui di politica».
Di
Canio invece nella sua carriera, di politica ne ha parlato spesso,
inanellando spropositi. Nel 2005 vestendo la maglia della Lazio, fece il
saluto romano rivolgendosi ai tifosi sugli spalti. Squalificato e
multato, si giustificò dicendo che quel gesto «per me è un segno di
appartenenza ad un gruppo che si rifà a valori veri, valori di civiltà
contro la standardizzazione che questa società ci impone». In un’altra
occasione definì il duce «persona di grandi principi etici, che è stata
profondamente non capita».
Per Piara Powar, direttore di «Football
against racism in Europe», è preoccupante che «in un clima di montante
intolleranza ci sia un allenatore in attività nel campionato più seguìto
a livello internazionale, che non vuole rinunciare alle sue opinioni
fasciste. Il fascismo è un’ideologia incentrata sull’intolleranza. Ci
sono tutte le migliori ragioni calcistiche per assumere Di Canio, ma le
ragioni calcistiche sono forse sufficienti quando qualcuno si porta
dietro un bagaglio ideologico di quel tipo?».
Di Canio non
capisce, o finge di non capire, la sostanza del problema. «La mia vita
parla per me - dichiarava ieri sera -. Mi offende il tentativo di
attaccare quello che i miei genitori mi hanno dato, i valori che mi
hanno insegnato».
Il dibattito impazza fra i sostenitori del
Sunderland. Sul sito online di una rivista legata al club («A love
supreme») molti si dicono «turbati» da questa connessione a posizioni di
estrema destra. Altri, racconta il direttore Martyn McFadden, vogliono
«tenersi fuori dalla politica» e sono solo «interessati a restare in
Premier League».
Di Canio ha 44 anni. Fra le squadre in cui giocò
sono, in Italia, Lazio, Milan, Juventus, Napoli, e in Gran Bretagna,
Celtic, Sheffield, West Ham, Charlton. Di lui si ricordano le buone
qualità tecniche, le frequenti intemperanze e un unico ma importante
gesto di lealtà sportiva, quando rinunciò a segnare un goal già quasi
fatto per soccorrere un avversario infortunato.
Repubblica 2.4.13
Majorana ritrovato
Stefano Roncoroni, parente del fisico racconta in un libro una nuova verità
Le indagini furono fermate. La sua morte, secondo un gesuita, avvenne nel 1939
“Ettore decise di sparire e la famiglia era d’accordo”
di Luca Fraioli
Ettore
Majorana è stato ritrovato. Inutile continuare a cercare tracce dei
suoi passaggi in Germania o in Argentina. Inutile scomodare le sue
presunte simpatie per il regime nazista. E si rassegnino coloro che
hanno creduto di riconoscere il geniale fisico siciliano nel senza tetto
di Mazara del Vallo o nel taciturno professore di Buenos Aires. Né ci
fu il suicidio, un tuffo in mare dalla nave postale che lo riportava in
continente da Palermo, ipotesi che indusse la polizia a perlustrare il
Golfo di Napoli alla ricerca del cadavere. Tutto da rifare. Ma è da
riscrivere anche la versione del ritiro in convento avanzata da Leonardo
Sciascia ne La scomparsa di Majorana.
È questa la tesi
dell’ultimo dell’infinita serie di libri dedicati al mistero dei misteri
italiani: Ettore Majorana, lo scomparso, in libreria per Editori
Internazionali Riuniti. Qual è la novità? Che a scriverlo è un parente
di Ettore. Stefano Roncoroni, 73 anni, una lunga carriera di critico
cinematografico e regista televisivo alle spalle, dal 1962 ha avuto
accesso ai documenti familiari relativi alla scomparsa di Ettore e alle
testimonianze dirette dei parenti che parteciparono alle ricerche.
Roncoroni, cominciamo dalla fine. Ettore Majorana fu ritrovato?
«Sì, intorno al marzo del 1939. Circa un anno dopo la scomparsa».
Chi lo ritrovò?
«Suo fratello maggiore Salvatore. Ma ebbe un ruolo fondamentale anche mio padre, Fausto Roncoroni».
Ci aiuti a capire la sua posizione nel complesso albero genealogico dei Majoriana.
«Mia madre ed Ettore erano cugini di primo grado. Per questo mio padre collaborò alle ricerche».
Lei come ha saputo del ritrovamento?
«Fu
mio padre a dirmelo a metà degli anni Sessanta. Mi raccontò di essere
stato uno degli artefici insieme a Salvatore. E Salvatore confermò.
Un’altra conferma mi arrivò da Angelo Majorana, anche lui cugino di
primo grado di Ettore».
Come e dove fu ritrovato?
«Nessuno
di loro volle dirmi di più. Mio padre aveva promesso ai Majorana che non
ne avrebbe parlato con nessuno. E all’epoca la parola data veniva
rispettata, tanto che anche con me non scese nei dettagli. Né lo fecero
mai gli altri membri della famiglia. C’è però una traccia di cui parlo
nel libro: mio nonno materno Oliviero Savini Nicci annota nel suo diario
di un improvviso viaggio in macchina nell’ottobre del 1938 di mio padre
e Salvatore fino a un vallone vicino Catanzaro dove è stata segnalata
la presenza di Ettore. Se già non è agevole oggi, si può immaginare
quanto fosse complicato andare e tornare dalla Calabria sulle strade
italiane del 1938. Dovevano avere un buon motivo per mettersi in
cammino, anche se nelle carte di mio nonno quel viaggio non è definito
risolutivo».
Riepiloghiamo: Ettore scompare il 25 marzo del 1938
mentre da Palermo torna verso Napoli dove lo attende una cattedra
universitaria. Tutta l’Italia che conta, polizia, Vaticano, mondo
accademico, si mette sulle sue tracce. Invece a trovarlo sono i
familiari più stretti circa un anno dopo. Poi che succede?
«Ettore
è irrevocabile nella sua decisione di sparire. Chi lo trova non riesce a
convincerlo a tornare sui suoi passi. I Majorana ne prendono atto. E da
quel momento fermano o depistano le indagini».
Ma questo non esclude le altre teorie sulla fuga di Majorana all’estero, in Germania o in Argentina.
«E invece le esclude. Perché sono convinto che Ettore sia morto nella tarda estate del 1939».
Come fa a dirlo?
«Lo
prova la documentazione che espongo nel libro. Certo, non ci sono atti
ufficiali di morte o tombe da esibire. Ma le carte parlano chiaro. Pochi
giorni dopo la scomparsa di Ettore si mette in moto una macchina per le
ricerche che in Italia non è mai stata allestita nemmeno per i peggiori
criminali. I Majorana sono una famiglia potente e in ascesa:
scienziati, professori universitari, politici, hanno entrature al
ministero dell’Interno e in Vaticano. Chiedono e ottengono una
mobilitazione senza precedenti. La polizia dirama bollettini di ricerca e
avvisa i posti di frontiera. Il capo della polizia va di persona in un
paesino del Salernitano con tanto di unità cinofile per fare un
controllo. La Santa Sede setaccia tramite i suoi ordini religiosi i
monasteri per sapere se Ettore ha trovato rifugio lì. Indaga anche il
ministero per l’Educazione nazionale: la cattedra di Napoli è vacante e
bisogna prendere una decisione. Poi, prima dell’estate del 1939, accade
qualcosa che ferma tutto questo».
Cioè la macchina delle ricerche si blocca?
«Sì.
La cattedra di Napoli viene riassegnata senza che la famiglia protesti.
La polizia smette di diramare bollettini su Ettore Majorana e di
cercarlo ai posti di frontiera. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano
parte una lettera indirizzata alla famiglia in cui, con parole
consolatorie, si spiega che “non vi è più alcuna ragione per le
ricerche”».
Ma questo non necessariamente significa che Ettore sia morto.
«C’è
un altro documento inequivocabile. Nel settembre del 1939 il gesuita
padre Caselli scrive a Salvatore. Gli comunica di accettare la donazione
che la famiglia Majorana fa per istituire una borsa di studio da
intitolare all’estinto Ettore. Se un gesuita nel ’39 usa il termine
estinto vuol dire che non ci sono dubbi sulla sorte di Ettore: è morto
entro il settembre 1939. E questo toglie di mezzo anche l’ipotesi del
suicidio. Non si dedica una borsa di studio religiosa a un suicida».
Si
può obiettare che la sua teoria (ritrovamento e morte) sia solo frutto
di testimonianze orali non verificabili e di deduzioni basate su
documenti.
«Tutta la vicenda di Ettore ruota intorno alla
famiglia. I Majorana sanno come sono andate le cose sin dal 1939. Il
loro silenzio non ha fatto altro che alimentare le teorie più diverse:
il suicidio dalla nave, la fuga in Germania per collaborare con gli
scienziati nazisti, la seconda vita in Argentina».
Perché hanno scelto il silenzio?
«Fu
una decisione di Giuseppe, zio di Ettore e indiscusso capofamiglia
all’epoca dei fatti. Pochi anni prima i Majorana erano stati coinvolti
in un caso di cronaca nera, un infanticidio. Una macchia intollerabile
per l’onore di una famiglia che il fascismo stava celebrando tra i
grandi di Sicilia e che annoverava già senatori, professori universitari
e presidi di facoltà. Quando il giovante talento scompare nel nulla,
nonostante la brillante carriera che si apre di fronte a lui, per
Giuseppe esplode un nuovo scandalo che può compromettere definitivamente
il buon nome e le ambizioni di famiglia. Sceglie dunque di far calare
il silenzio sulla vicenda e lo fa con un documento che detta a tutti i
parenti la verità ufficiale dei Majorana. Nel mio libro parto da quel
documento finora inedito, per dimostrare come invece siano andate le
cose nella realtà».
Ma se lei era al corrente della “verità” fin dagli anni Sessanta, perché la racconta solo ora?
«Mio
padre, Salvatore il fratello di Ettore, mio nonno Oliviero Savini Nicci
erano uomini di un’altra epoca. Avevano dato la loro parola al
capofamiglia Giuseppe Majorana che non sarebbe trapelato nulla. Finché
sono stati in vita io ho rispettato il loro patto. Poi però ho iniziato a
fare ricerche per documentare ciò che mi avevano raccontato».
Il suo libro scrive la parola fine al mistero della scomparsa di Ettore Majorana?
«No.
Mi limito a riferire ciò che mi fu detto da testimoni diretti e a
esibire la documentazione che conferma il loro racconto. Ma manca ancora
molto per una ricostruzione completa della vicenda. Si tratta però solo
di aspettare: quando il Vaticano aprirà gli archivi relativi al
pontificato di Pio XII sarà fatta luce completa sul caso. E si potrebbe
fare ancor prima, se i Majorana attuali, i discendenti di quel Giuseppe
che scelse di far calare il sipario su Ettore, decidessero a distanza di
settant’anni di rompere quel muro di silenzio».
Ettore Majorana, lo scomparso di Stefano Roncoroni, Editori Riuniti, pagg. 256, euro 18
Corriere 2.4.13
Il peccato d'origine della laicità
Secondo Scola la neutralità dello Stato rischia di indebolire la libertà religiosa
di Aldo Cazzullo
«Assecondare le circostanze»: è il metodo di Angelo Scola per restare aderente a ciò che la realtà propone perché — come spesso ripete ai suoi fedeli — «quello che è dato ci corrisponde perché ci è dato». E la realtà è molto generosa, non manca di offrire spunti alla riflessione dell'arcivescovo di Milano, perché «attraverso di essa è la Verità che va incontro all'uomo».
Il saggio che Rizzoli manda domani in libreria, intitolato Non dimentichiamoci di Dio, amplia la riflessione dell'ultimo discorso di Sant'Ambrogio, che a sua volta approfondisce il concetto di «nuova laicità», uno dei fondamenti del pensiero del cardinale Scola, esposto per la prima volta in un'intervista al «Corriere della Sera» nel 2005 e ripreso in un saggio per Marsilio nel 2007. Si parte da una premessa: «Se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata, posta a capo della scala dei diritti fondamentali, tutta la scala è destinata a crollare».
Oggi la libertà religiosa è un'emergenza globale: tra il 2000 e il 2007 sono stati 123 i Paesi in cui si è verificata una qualche forma di persecuzione religiosa, e il numero è in aumento. Nell'Occidente europeo «appare urgente superare la latente diffidenza verso il fenomeno religioso». Il «neoliberalismo contemporaneo» vorrebbe fondare una neutralità dello Stato e della politica, senza accorgersi di giungere a teorizzare che coloro i quali credono in una verità debbano semplicemente essere esclusi dal dibattito politico liberale.
Si pensi al modello francese di laicité, che si basa sull'idea dell'«in-differenza» o neutralità delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso; come se solo questa neutralità fosse idonea a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Una concezione molto diffusa in Europa che, invece di proteggere una irriducibile distinzione, finisce per diventare un pregiudizio istituzionale negativo verso il fenomeno religioso. Perché si chiama neutralità, ma secondo Scola ha il profilo di qualcosa che tanto neutrale non è; anche perché non è applicabile alla società civile, la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, essendo deputato a governarla e non a gestirla.
Rispettare la società civile implica riconoscere un nuovo dato oggettivo: in Occidente le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non tra credenti di diverse fedi. La concezione dello Stato in senso neutralistico spinge a identificare laico con non-religioso, per cui lo spazio pubblico è sintonizzato con tutte le differenti visioni e pratiche fuorché quelle religiose. Si va diffondendo un pregiudizio culturale in base al quale, mentre tutte le diverse posizioni sono considerate parte legittima del variegato pluralismo contemporaneo, quelle religiose sono avvertite piuttosto come differenze partigiane. Così lo Stato che si definisce neutrale culturalmente non è imparziale, ma assume un orientamento secolaristico, che attraverso scelte legislative, soprattutto in materie antropologicamente sensibili, nella visione di Scola diviene ostile alle identità culturali di matrice religiosa.
Ma il secolarismo è solo una tra le molte visioni dell'uomo e del mondo: legittima, da accogliere come una delle voci di una società plurale; però lo Stato non può farla propria, perché rischia di finire con l'assumere una posizione limitatrice della libertà religiosa. Anche in un Paese come l'Italia, che nel proprio testo costituzionale e nella prassi della Corte non si riconosce nella laicité francese, ma propone una laicità collaborativa, non mancano segnali di una tale tendenza. La proposta alternativa di Scola è ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di una visione rinnovata della libertà religiosa: «È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come distacco, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all'edificazione del bene comune». Quanto ai cristiani, il loro dovere di testimonianza non deve essere mai la ricerca di egemonia, ma sempre una «confessione» che ha in sé l'elemento del martirio.
Come ha detto Benedetto XVI, la testimonianza «non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell'intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l'altro».
Corriere 2.4.13
La scienza non indaga l'assoluto
di Antonio Carioti
Il polemico dialogo tra Paolo Flores d'Arcais e Vito Mancuso su scienza e religione, nel libro Il caso o la speranza? (Garzanti, pp. 155, 14), offre diversi spunti di riflessione, a volte paradossali. Per esempio il credente Mancuso sostiene che «la vita è intrinseca alla materia», il che non solo sa molto di panteismo, ma porta a concludere che nel cosmo vi siano innumerevoli esseri intelligenti e perciò a minare l'unicità della rivelazione cristiana. A sua volta l'ateo Flores d'Arcais descrive la comparsa dell'uomo come un evento del tutto improbabile, dovuto a contingenze che potevano benissimo non verificarsi. Ma proprio questo potrebbe far pensare a un processo pilotato da qualche elemento arcano, che sfugge alle leggi fisiche e biologiche. Sembra quasi un'inversione delle parti. Forse però il difetto sta nel manico, nel senso che appare improprio chiedere alle scienze naturali di fornire indicazioni circa l'esistenza di una dimensione sovrannaturale.
Corriere 2.4.13
Il fratricidio come carattere nazionale
di Davide Ferrario
Caro direttore, l'odio fratricida è, per noi italiani, una pratica antica e quotidiana. È un odio che spesso prende le forme della contrapposizione politica, ma non è la politica che genera l'odio; semmai il contrario. Tanto è vero che l'odio più feroce non nasce per i nemici, ma per quelli che sono più prossimi. Basta pensare alla storia della sinistra italiana, per esempio, tutta segnata da dilanianti conflitti tra compagni: ognuno dei quali a un certo punto si è sentito depositario della verità e ha individuato nel vecchio amico l'avversario da distruggere con maggiore accanimento. Ma succede lo stesso a livello territoriale, a partire dalla vecchia consuetudine di avversare con più ferocia non lo straniero, ma quelli del paese limitrofo. E la storia del cattolicesimo è fatta di scismi, eresie, scomuniche. L'attuale vicolo cieco in cui si è impantanata la politica italiana ha radici antiche.
Chi, da poeta ma anche da lucidissimo pensatore, ha descritto tutto questo è Umberto Saba: «Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuto, in tutta la sua storia — da Roma ad oggi — una sola vera rivoluzione? La risposta — chiave che apre molte porte — è forse la storia d'Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... "Combatteremo — fece stampare quest'ultimo in un suo manifesto — fratelli contro fratelli". (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che — diventato chiaro a se stesso — finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio». È un odio, questo, che implica un pensiero: «Se le cose vanno male, è colpa di quell'altro». Teoria semplicistica, ma è da anni la posizione di principio che tengono tutti i partiti, anche di fronte all'evidenza contraria. E così le ultime elezioni non solo hanno confermato l'intuizione di Saba, l'hanno elevata al quadrato. Al di là di slogan e programmi che pochi leggono, ci si è prima di tutto schierati, come da troppo tempo accade, nel solito referendum pro o contro Berlusconi e pro o contro i «comunisti». Ma l'irruzione del Movimento 5 Stelle ha creato un ulteriore livello di divisione: quello del vaffa indiscriminato verso gli altri due schieramenti. «Tutti a casa», ripetono i grillini, senza differenze. Siamo così finiti nel vicolo cieco che ben conosciamo e che assomiglia tanto a uno dei labirinti verbali dell'antipsichiatria anni Settanta alla R.D. Laing: «Io odio te che odi me e vorrei distruggerti con l'aiuto di quegli altri, che però odiano entrambi». Ogni possibile accordo si arena davanti a un sentimento che misura il bene comune innanzitutto con l'annullamento dell'avversario.
Saba diceva anche un'altra cosa, nel suo ragionamento: che l'anomalia italiana, rispetto agli altri popoli europei, è che noi ci odiamo tra fratelli perché non abbiamo mai avuto il coraggio di uccidere il padre, liberandoci dal passato. Non abbiamo fatto rivoluzioni togliendo di mezzo re o papi (solo la morte di Mussolini porta un qualche peso catartico, nella nostra storia). Il padre resta la figura di riferimento per il cui favore i fratelli competono. In questo senso il ruolo di Giorgio Napolitano, al di là della funzione istituzionale, ha assunto in questa crisi un ruolo archetipico, da vecchio patriarca: ma, ahimè, e non per colpa sua, sempre più patologico. Incapaci di venire a capo del loro conflitto, i figli si appellano a un Padre che è l'unica figura a cui tutti (perfino Beppe Grillo, parrebbe) guardano con rispetto e speranza. E, in sottordine, ai «saggi», che ricordano tanto consessi tribali, più che democrazie avanzate (e, diciamo la verità, strutture culturali totalitariamente maschili). Comunque vada a finire, la soluzione della crisi avrà un carattere regressivo: non saremo noi figli a uscirne con le nostre forze. L'Italia è un Paese demograficamente vecchio ma allo stesso tempo immaturo. Paradosso che spiega certe idiosincrasie così difficili da capire per gli stranieri, abituati a una politica e a una cultura che muove verso il rinnovamento e non si fissa sul passato.
Riusciremo mai a guarire da una sindrome che trasforma non solo la politica ma qualsiasi assemblea condominiale in una faida tra guelfi e ghibellini? Chissà. Un altro grande interprete del carattere nazionale, Alberto Savinio, diceva che per quanto sembrino animati da feroci odi e passioni, «gli italiani sono incombustibili come il tegamino di coccio refrattario». Per noi, in fondo, nonostante lo strepito e le urla, tutto è immutabile. «La verità è che se gli Italiani dovessero vivere secondo la loro vera natura, essi vivrebbero inerti, impassibili e in istato di perfetta vegetatività...».
In perenne conflitto fratricida e insieme illusi di essere indistruttibili: l'effetto combinato di queste disposizioni del nostro carattere rischia, ormai, di essere fatale.
Regista e scrittore
Repubblica 2.4.13
Aldrovandi, il film si vede on line
Il
film sulla morte di Federico Aldrovandi È stato morto un ragazzo di
Filippo Vendemmiati (vincitore del David Donatello 2011) si può vedere
on line: htpp://vimeo.com/m/50963553