mercoledì 3 aprile 2013

l’Unità 3.4.13
Bersani apre sul Colle: ma no a governissimi
Il leader Pd: sì a presidente di garanzia per tutti, ma il governo deve essere
di cambiamento
«Se il problema sono io non ho difficoltà a fare passo indietro»
di Simone Collini


Un governo di cambiamento e un Presidente della Repubblica di garanzia. Pier Luigi Bersani aveva lasciato Roma, venerdì scorso, prendendo atto delle «preclusioni» sulla sua persona dimostrate dal Movimento 5 Stelle e delle «condizioni inaccettabili» poste dal Pdl per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Passati quattro giorni e con uno scenario modificato dall’arrivo dei due ristretti gruppi di lavoro sulle riforme istituzionali e le questioni socio-economiche, il leader del Pd incontra i giornalisti nella sede del partito accanto a un silente Enrico Letta e torna a mettere sul piatto la sua offerta, sapendo che il tempo e i numeri parlamentari giocano a suo favore: tra due settimane il Parlamento (e i delegati regionali) dovranno eleggere il nuovo Capo dello Stato e il centrosinistra con i suoi 345 deputati e 123 senatori arriva a quella partita da una posizione di evidente forza.
NO A LARGHE INTESE
Da qui la proposta che Bersani lancia a Berlusconi, dicendosi anche pronto a incontrarlo «nelle sedi istituzionali» («sarei stato contento di verderlo alle consultazioni, certo non lo andrei a incontrare ad Arcore»): il Pdl abbandoni la posizione larghe intese o voto, perché la prima opzione è impraticabile («c’è un’esigenza evidente di cambiamento, un governissimo Pd-Pdl-Scelta Civica sarebbe una risposta sbagliata perché finirebbe per raffigurare politica che si chiude nel fortino e si protegge») e la seconda «disastrosa», capisca che non c’è alternativa al governo di cambiamento e si assuma la sua quota di responsabilità lavorando insieme al Pd alle riforme istituzionali e alla scelta di un Capo dello Stato che sia di garanzia. «Si guardi meglio la proposta del doppio binario», dice Bersani ribadendo la formula del governo a guida Pd e di una Convenzione per le riforme istituzionali alla cui presidenza potrebbe andare un esponente del Pdl.
IL CONFRONTO SUL QUIRINALE
La risposta arriva dal Pdl a stretto giro, ed è di netta chiusura, ma Bersani lo aveva messo in conto. La vera partita in realtà si giocherà nei prossimi giorni e andrà avanti almeno fino a quando non terminerà il lavoro dei cosiddetti saggi (ci vorrà ancora poco più di una settimana). E sta a Berlusconi, è il ragionamento che si fa in queste ore ai vertici del Pd, decidere se «impedire» il governo di cambiamento e rischiare di non toccare palla quando si tratterà di eleggere il successore di Napolitano o se cambiare posizione. «Sulla presidenza della Repubblica noi rispettiamo in modo ligio la Costituzione, che chiama tutti noi a una soluzione di larga o larghi0ssima convergenza parlamentare, noi fino a prova contraria lavoriamo così, almeno finché sarà possibile».
Finché sarà possibile ovvero, sempre rimanendo «fedeli» alla Carta, fino alla terza votazione, che richiede una maggioranza qualificata degli aventi diritto al voto per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Alla quarta votazione sarà sufficiente però la maggioranza assoluta, e al centrosinistra basterà trovare un’intesa o con i montiani o con i Cinquestelle per scegliere il Presidente della Repubblica. Al quale spetterà, sottolinea il leader Pd riconoscendo che l’incarico ricevuto da Napolitano è «assorbito» dalla mossa dei saggi, «la ripartenza» per tentare di risolvere questa perdurante crisi. La palla passa dunque al Pdl, che non può puntare a un salvacondotto per Berlusconi, «non può dettare compiti», dice Bersani, non può pensare che «la destra designa il presidente e noi lo votiamo».
Dei canali di comunicazione, nonostante le dichiarazioni di fuoco dei berlusconiani, in realtà sono ancora attivi anche se continuano a non produrre risultati. In questa partita, nell’attuale fase, rischiano invece di rimanere fuori, per loro stessa volontà, i Cinquestelle. Quello che Bersani definisce «un disimpegno conclamato» non sembra fin qui subire modifiche: «Il M5S ha avuto il voto di 8 milioni di elettori e a quanto pare intende metterli in frigorifero», dice il leader Pd bollando come «depistaggio» l’ipotesi grillina che le commissioni possano lavorare anche prima che si insedi l’esecutivo. «Senza un governo il Parlamento non può andare avanti e non c’è insulto o acrobazia che cancelli questa drammatica verità».
LA PARTITA INTERNA AL PD
L’accusa di aver voluto inseguire i Cinquestelle è quella che meno va giù a Bersani, insieme a quella di essere «ostinato»: «Ho fatto quello che dovevo fare», dice ribadendo le ragioni alla base dell’ipotesi «governo di cambiamento»: «Se Bersani serve per aiutare questa strada, Bersani c’è. Se fosse un ostacolo, Bersani è a disposizione. Prima di tutto c’è l'Italia». Prefigura un passo indietro? In realtà il leader del Pd ribadisce: «Non intendo essere un ostacolo ma ci sono. Non vado al mare». Un messaggio lanciato anche all’interno del partito.
La nuova chiusura a qualunque ipotesi di governo col Pdl, anche nella formula tecnica («Non credo che un governo Monti senza Monti possa essere la risposta») non piace all’area dei renziani. «Dopo il voto unanime di oggi dice Giorgio Tonini riferendosi allo sblocco dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione è incomprensibile l’indisponibilità a un governo di tutti, con un programma circoscritto a economia e riforme». E Matteo Richetti: «Non si può buttare via la legislatura, serve un cambio di passo. Gli artigiani in difficoltà non hanno tempo di inveire su Twitter contro un governissimo. Bisogna ascoltare il Paese che chiede di dare un governo all’Italia».
Per il momento la tregua interna al Pd regge. E continuerà così almeno fino alla riunione della Direzione, che verrà convocata non prima della prossima settimana. Qualcuno vuole un governo di scopo insieme al Pdl? Lo dica apertamente, è la linea di Bersani. Che ha già dato mandato di trasmettere in diretta streaming anche la prossima Direzione.

Corriere 3.4.13
Il leader ritenta la sfida dell'Aula
Il segretario vuole andare in Aula Ma i renziani spingono per le urne
Bersani rilancia la sfida: ci vuole un passaggio parlamentare
di Maria Teresa Meli


Il messaggio di Bersani al Cavaliere è: a noi va bene una soluzione condivisa per il Quirinale, ma tu non porre ostacoli per far nascere il governo del centrosinistra, altrimenti c'è Prodi sullo sfondo.

ROMA — Pier Luigi Bersani rilancia la sua sfida a Silvio Berlusconi. Il segretario del Pd invia al Cavaliere questo messaggio: per noi va bene una soluzione condivisa per il Quirinale, ma tu accetta di far nascere il governo del centrosinistra senza porre ostacoli, altrimenti... Altrimenti c'è sempre Romano Prodi sullo sfondo.
Stufo delle voci che lo davano ormai in disarmo, chiuso a Bettola e poco propenso a tornare e a parlare prima di domani, il leader del Pd ha voluto chiarire qual è la sua posizione. A scanso di equivoci. «La nostra proposta di governo è l'unica alternativa al voto». Non che Bersani ufficialmente si auguri le elezioni. «Sarebbero una sciagura», dice in favore di telecamere. Semplicemente, il segretario non può ammettere che «si accantoni il piano del Pd senza alcun voto parlamentare». Insomma, Bersani è pronto, quando vi sarà un presidente della Repubblica nuovo, e nel pieno delle sue funzioni, a riprovarci. «Tra l'altro — dicono i suoi — con un capo dello Stato che ha il potere di scioglimento, vi saranno pochi parlamentari maldisposti verso un governo guidato dal nostro leader». Il responsabile organizzativo del partito, Nico Stumpo, assiso su un divanetto nel Transatlantico di Montecitorio, spiega a un amico che gli chiede lumi: «La nostra posizione è semplice: o andiamo al governo con Bersani, o al voto sempre con lui». E Matteo Orfini afferma: «Sono pienamente d'accordo con tutto quello che ha detto il segretario, solo su una cosa dissento: sul fatto che le elezioni anticipate sarebbero una sciagura».
Bersani, dunque, ci spera ancora e vuole far capire a tutti, soprattutto agli esponenti del Pd che non sono d'accordo con la sua linea, che lui è ancora in campo. «In tutti i Paesi normali — spiega il segretario — il leader del partito che ha più voti e più parlamentari governa. Non si capisce perché qui dovrebbe essere diverso e soprattutto non si comprende perché i voti del Pd dovrebbero contare meno degli altri».
L'iniziativa dei dieci saggi non è piaciuta a Bersani, ma è chiaro che non può dirlo pubblicamente. Sarebbe come attaccare Napolitano. Però quello che pensa di questa mossa del Colle, il segretario lo spiega ai suoi: «Io non ho indicato nessun nome al Quirinale, i saggi che hanno come riferimento la nostra area sono autonomi da noi e noi da loro. Comunque queste due commissioni non hanno certo il compito di fare un governo, scriverne il programma e decidere chi lo deve guidare. Quello che possono fare, e che sarebbe utile facessero, è un progetto di riforma elettorale condiviso, così potremmo liberarci del Porcellum».
Il segretario, comunque, è convinto che se il suo governo andasse alla prova delle Aule parlamentari potrebbe prendere il via. Sennò, ripetono per l'ennesima volta, gli esponenti del «tortello magico», c'è solo il voto perché con il Pdl non si può proprio governare. E se si andasse alle urne in estate, i bersaniani sostengono che non ci sarebbe tempo per avere un candidato del Pd alternativo a Bersani. Già, il tempo stringe e non ce n'è abbastanza per votare una seconda norma transitoria in deroga allo Statuto che consenta anche ad altri Democrat di scendere in campo contro il segretario e poi organizzare le primarie. In questo modo i supporter del segretario ritengono di poter bruciare Renzi.
Ma è veramente così? Il sindaco di Firenze la pensa diversamente e ai suoi in gran segreto ha confidato che per lui prima si vota e meglio è. A ottobre, persino a giugno. Tutto purché non parta il treno di una legislatura di lunga durata. Il che sarebbe pur sempre possibile. Infatti, una volta instradato sui binari un nuovo governo, del presidente o di Bersani che sia, sarebbe difficile fermarlo: se arrivasse all'anno prossimo, gli sarebbe facilissimo giungere a quello dopo ancora. Sì, perché il primo luglio del 2014 l'Italia assumerà la presidenza del semestre europeo, il che vuol dire che c'è bisogno di un governo nella pienezza dei suoi poteri. Ciò significa che prima del 2015 non si va a votare. Ma è un orizzonte temporale troppo lontano per Renzi: rischierebbe di non prendere l'ultimo treno a sua disposizione.

Corriere 3.4.13
Una rosa di nomi per il Cavaliere. I leader verso il faccia a faccia
Il Pdl e la carta Napolitano
Possibile contromossa: proporre a Bersani un bis al Quirinale
di Francesco Verderami


Quirinale in bilico tra un presidente di «garanzia» e un presidente «per caso». Perciò Bersani e Berlusconi devono vedersi o rischiano di uscire entrambi politicamente sconfitti.

ROMA — Il Quirinale è in bilico tra un presidente di «garanzia» e un presidente «per caso», tra un capo dello Stato espressione di una larga maggioranza parlamentare, e un inquilino del Colle subìto più che scelto da Pd e Pdl, eletto di misura dopo estenuanti votazioni, e frutto di deboli patti maturati nel segreto dell'urna. Il Quirinale è in bilico, e in bilico sono anche loro: perciò Bersani e Berlusconi devono vedersi o non ne escono, anzi rischiano di uscire entrambi politicamente sconfitti dalla corsa. Perciò è scontato che il Cavaliere accetterà l'invito del leader democratico, un faccia a faccia che peraltro aveva proposto al capo del centrosinistra all'indomani del risultato elettorale, quando lo chiamò per invitarlo al governo di grande coalizione.
Da allora però le loro posizioni non sono cambiate, semmai si sono cristallizzate. Certo, il rendez vous che Napolitano auspicava può essere un segnale, sebbene la mossa di Bersani sembri avere un obiettivo tattico e a uso interno: sbarrare il passo alle trattative parallele di quella parte del Pd — da D'Alema a Franceschini a Enrico Letta — che si oppone alla sua linea e vorrebbe invece aprire il dialogo con Berlusconi sul Quirinale (e poi sul governo). Insomma, sarebbe l'incontro tra due debolezze, tra chi — come il Cavaliere — teme sul Colle la saldatura di una maggioranza giustizialista, e chi — il leader democrat — non vuole consegnarsi alle elezioni senza passare da Palazzo Chigi.
E non c'è dubbio che la corsa per il Quirinale avviene nel pantano, «siamo impantanati — dice il centrista Cesa — e temo che non sarà come il Conclave». D'altronde, attorno alla presidenza della Repubblica si gioca la vera sfida di questa legislatura nata moribonda, e le cui condizioni sono peggiorate dopo le schermaglie tattiche sulla formazione del governo. Ce n'è traccia nella forte irritazione di Napolitano dopo le consultazioni, nei commenti che — venerdì scorso — sono seguiti ai suoi incontri con le delegazioni dei partiti: con il Pd additato perché «si è fatto mettere nell'angolo dal Pdl», con il Pdl criticato perché «mi hanno raccontato di avere un programma economico simile a quello del Pd», con i Cinquestelle definiti «inaffidabili» perché «dicono una cosa in privato e un'altra in pubblico».
La sorprendente soluzione dei «saggi», che «viola la Costituzione» secondo il democratico Emiliano (e non solo secondo lui), ha posto fine alle manovre dilatorie dei partiti, che ipocritamente avevano continuato a duellare sul governo avendo in mente l'obiettivo del Colle. Ora che lo schema si è ribaltato, la prima vittima è Berlusconi. Se c'è un punto fermo, infatti, è che l'opzione di un candidato di centrodestra al Quirinale è di fatto già esclusa. Non che avesse molte chance, due settimane fa Bersani aveva respinto le richieste del Pdl: «Gianni Letta? Anche volessi, come riuscirei a far convergere quattrocento voti del Pd su questo nome? Non è possibile».
Il leader democrat ieri ha chiuso definitivamente la pratica, avanzando in cambio l'offerta di una rosa di nomi di «area centrosinistra» da cui scegliere il futuro presidente. L'identikit del candidato «bipartisan» — tracciato dal bersaniano Gotor — sarebbe quello di una «personalità dalla forte sensibilità istituzionale, con buona dose di conoscenza politica e abilità negoziale». Di nomi ne sono stati fatti tanti, da Amato a Marini, se non fosse che il Cavaliere non accetta di far partire il governo Bersani, «in attesa, tra un anno, quando la Convenzione delle riforme sarà partita e il clima politico sarà migliorato, di governare insieme», come ha promesso il segretario del Pd.
La minaccia altrimenti è quella di portare Prodi al Colle, dentro uno schema che prevede i voti di un pezzo di centro e di una schiera di Cinquestelle, pronti a votare per il fondatore dell'Ulivo, siccome nell'urna Dio li vede Grillo no. A meno che lo stesso Grillo, conscio che il suo gruppo è il ventre molle in Parlamento, non giochi d'anticipo. È questo un rischio per Berlusconi ma anche per Bersani: cosa farebbe il Pd se M5S dovesse iniziare a votare subito per personalità come Rodotà e Zagrebelsky? Riuscirebbe, senza intese su altri candidati e dopo numerose votazioni a vuoto, a resistere all'attrazione fatale?
Ecco perché nell'incertezza, in molti nel Pd come nel Pdl ritengono che — senza un accordo — Napolitano sarebbe la soluzione di emergenza. Non a caso Berlusconi la tiene come carta di riserva. A quel punto, se formalizzasse la proposta, come potrebbe Bersani dire di no? Non è chiaro se la vivrebbe come un'opportunità o una minaccia, ma una cosa è certa: come raccontano gli sherpa di Pdl e Scelta civica, «negli incontri con noi, gli emissari di Bersani non fanno mai il nome di Napolitano».

Corriere 3,4,13
Un vicolo cieco che fa nascere strane tentazioni
di Massimo Franco


Ormai sembra chiaro che l'incarico per formare il governo sarà dato dal prossimo presidente della Repubblica. Un Pier Luigi Bersani non ancora rassegnato a farsi da parte, su questo punto ieri è apparso privo di dubbi. «Osservo le affermazioni e le decisioni del capo dello Stato», ha detto il candidato del Pd a Palazzo Chigi alludendo ai limiti temporali dei «10 saggi» designati dal Quirinale e in scadenza poco prima della metà di aprile. Dando a queste personalità fra gli otto e i dieci giorni di tempo per svolgere il loro lavoro, «mi pare che Napolitano alluda al fatto che la ripartenza sarà consegnata al nuovo presidente».
Insomma, per tentare di avere una maggioranza che risolva il rompicapo del risultato elettorale del 24 e 25 febbraio bisognerà aspettare almeno un altro mese: le Camere e i delegati regionali chiamati a scegliere il capo dello Stato saranno convocate a partire dal 15 aprile. E probabilmente saranno le dinamiche parlamentari a plasmare anche le alleanze successive. Il problema che si comincia a delineare riguarda il vuoto decisionale delle prossime settimane. Il governo di Mario Monti è dimissionario, e per ora non ci sono reazioni troppo negative dei mercati finanziari. Ma i partiti sono inquieti, e le tentazioni elettorali serpeggiano quanto i sospetti di manovre dilatorie.
Si attribuisce a Silvio Berlusconi l'intenzione di ottenere garanzie sulla figura del prossimo capo dello Stato; e una voglia crescente di forzare i tempi e andare al voto anticipato entro fine giugno o perfino ai primi di luglio. Teme infatti non solo l'ingorgo istituzionale ma quello fra votazioni per il Quirinale e processi che riguardano Berlusconi. Il 18 aprile la Corte di Cassazione deciderà sullo spostamento del suo processo da Milano a Brescia.
E subito dopo, il 20 aprile, si riaprirà il processo su Ruby, la minorenne marocchina per la quale il capo del Pdl è imputato. E il 22 continuerà quello che riguarda presunti reati commessi da Mediaset. In teoria, la coincidenza con la riunione delle Camere potrebbe far concedere il legittimo impedimento a Berlusconi. Ma la tensione è comunque destinata a crescere. Per questo gli si attribuisce una certa fretta di sottrarsi a quella che vede come una tenaglia giudiziaria; e di puntare subito alle elezioni. In teoria, se per il Quirinale si trova rapidamente la soluzione, i tempi ci sarebbero: tra l'altro, Napolitano appare deciso ad accelerare al massimo. Ma ci si arriverebbe a luglio, più che a giugno: in piena estate.
Se non decolla una «collaborazione forzosa» fra Pdl e Pd, insistono i berlusconiani, meglio le urne. Però bisognerebbe spiegare perché ci si torna senza cambiare una legge elettorale sinonimo di ingovernabilità. «Nell'ipotesi più probabile di andare al voto a luglio» ha spiegato ieri per il Pd Dario Franceschini, «occorre introdurre un correttivo per evitare che, chiunque vinca, si trovi nella stessa situazione di stallo». Insomma, l'ipotesi non si esclude neanche a sinistra. L'accusa a Bersani di essere interessato più al proprio destino che a quello dell'Italia può fare presa. Se però il Pdl passasse da un atteggiamento responsabile alla scelta di far saltare il tavolo, crescerebbe il rischio di regalare altri voti al Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo o all'astensionismo: da un vicolo cieco all'altro.

Corriere 3.4.13
La partita di Prodi e il rapporto «atipico» con Grillo
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Cosa hanno in comune Romano Prodi e Beppe Grillo, se si esclude il (casuale) dettaglio che entrambi hanno affrontato le rispettive campagne elettorali «on the road»: il Professore con il famoso pullman nel '95, il guru 5 Stelle con il camper nel febbraio scorso? Nulla hanno in comune, a prima vista. Prodi è un pezzo organico dello Stato, «una risorsa» come dicono gli esperti di elezioni al Colle: uno che ha guidato l'Iri (2 volte), il governo (altrettante), la Commissione europea e ai tempi di De Mita è stato pure ministro (per poco), ritenuto da molti uno dei referenti dei sempre evocati «poteri forti», di certo uomo abituato a crocevia economici importanti. Difficile trovare qualcuno più agli antipodi del Beppe sfascia tutto, che della distruzione della partitocrazia ha fatto una religione online. Eppure è stato proprio Grillo, due giorni fa sul suo blog, a spezzare una (mezza) lancia in favore della candidatura al Quirinale del Professore bolognese, indicato, alla pari di Pertini, come uno dei nomi più sgraditi alla casta partitica («Cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche») e quindi — nell'ottica rovesciata dei 5 Stelle — potenzialmente votabile.
La sortita grillesca, non si sa quanto dal sen sfuggita, ha ridato benzina alla vulgata (alimentata soprattutto negli ambienti berlusconiani, terrorizzati all'idea di un Prodi sul Colle) secondo la quale tra Grillo e il Professore «c'è da sempre simpatia». Silvio Sircana, stretto collaboratore di Prodi in entrambi i governi, ride: «Simpatia? Se c'era, non me ne sono accorto. I due, negli ultimi 20 anni, hanno avuto pochissimi contatti e non facilmente decifrabili…». Sircana ricorda un incontro casuale all'aeroporto di Roma tra il '94 e il '95: «Romano era ancora presidente dell'Iri, con lui c'era Giuliano Urbani, da poco ministro nel primo governo Berlusconi. Grillo si rivolse a quest'ultimo con toni piuttosto ironici e sprezzanti, mentre con Prodi fu molto cordiale». Non c'era invece Sircana all'incontro a Palazzo Chigi, giugno 2006, tra Prodi, premier da poco, e il comico, già in versione profeta. Era presente però l'allora ministro Giulio Santagata: «Grillo era nella fase ecologista». Illustrò una serie di progetti in tema di rinnovabili: «Romano ascoltò con interesse». Aggiunge Sandra Zampa, allora capo ufficio stampa: «Grillo fu cortese e simpatico…». Salvo poi, all'uscita, accusare «Prodi-valium» di essersi addormentato durante l'incontro. «Quello fu l'ultimo contatto tra i due» assicurano gli intimi del Professore. E allora come mai questa mezza apertura sul Quirinale? «Forse perché Grillo, nonostante le differenze, percepisce in Prodi qualcosa di diverso rispetto al Palazzo — afferma Sandra Zampa —. Sarà che è stato cacciato 2 volte dai partiti. O che è stato il primo ad affrontare in concreto il tema dei costi della politica…». È però anche vero, ricorda Sircana, che «non c'è stato spettacolo, a partire dal "Vaffa Day" del 2007 a Bologna, senza una tirata di insulti contro Prodi». Eppure il 24 gennaio 2008, quando i berlusconiani festeggiarono la caduta di Prodi con mortadella e champagne, «Grillo — come ricorda Rodolfo Brancoli nel libro "Fine Corsa" —: scrisse sul suo blog: "Per qualche ora il Senato è stato la più grande discarica d'Italia"…».

La Stampa 3.4.13
Bersani pronto a incontrare Berlusconi
Il segretario Pd rilancia il governo del cambiamento Sul Quirinale: “Cercheremo larga condivisione”
di Carlo Bertini


«Sono prontissimo a incontrare Berlusconi, certo non ad Arcore o a Palazzo Grazioli, ma in una sede istituzionale sì». Pierluigi Bersani sta rispondendo alle domande dei giornalisti nella sua prima conferenza stampa dopo la tornata di consultazioni finita in un vicolo cieco e lascia cadere questa frase come se fosse cosa ovvia. Anzi, il leader Pd fa sapere che gli avrebbe fatto «piacere» se fosse venuto il Cavaliere in persona nel colloquio con la delegazione del Pdl la scorsa settimana. In camera caritatis i suoi uomini raccontano che quando Alfano fece il suo ingresso nel salone della Camera dove si tenevano le consultazioni per formare un governo, fu lo stesso Bersani a domandargli come mai non fosse venuto pure Berlusconi.
«E con chi dovrebbe trattare ora se non con lui? », ammettono i suoi, schivando la domanda se sia stata individuata una data per un incontro tra i due contendenti, «è ancora presto, chissà se si farà mai... ». Certo Bersani rompe un tabù della sinistra, dicendosi disposto a trattare a tu per tu col nemico (con una chiara frecciata a Renzi con quel «mai ad Arcore»). E non dispera di dar vita al «governo del cambiamento», perché «la ripartenza è affidata al nuovo Capo dello Stato».
Nella sua prima uscita dopo la mossa di Napolitano, prende atto che il suo pre-incarico è di fatto «assorbito» dal compito affidato ai «saggi», ma non molla e guarda avanti: quando al Colle siederà un Presidente che avrà in mano anche l’arma dello scioglimento delle Camere. Per questo fissa tre punti: primo, la sua proposta di governo, legata alla «corresponsabilità» con le altre forze politiche in una «Convenzione» per le riforme costituzionali, è «l’unica possibile», dunque ancora valida e per questo lancia un appello a «valutarla meglio»; secondo, nessuno si illuda che possano esserci margini per un «governissimo che vorrebbe dire paralizzarsi e chiudere la politica in un fortino». Terzo, andare a votare sarebbe «disastroso» per il paese. Con una quarta precisazione, più ad uso interno: Bersani non si presenterà dimissionario, ma guiderà il partito fino al congresso previsto in autunno e le cui procedure partiranno appena sarà risolta la pratica del governo. Quindi, se pure si votasse a giugno, il candidato premier potrebbe ancora essere lui, con tutte le incognite del caso: primarie da fare in fretta e furia, Renzi in campo e forse anche altri candidati. Ma anche se Bersani ripete che «la ruota deve girare» e che non si ricandiderà alla guida del Pd, fino a ottobre il leader resterà lui.
Ma il vero nodo sul tappeto è la scelta del prossimo Capo dello Stato e per questo Bersani fa mostra di voler aprire una trattativa con il Pdl sul Quirinale, pur fissando precisi paletti: «Prendetemi in parola. Noi siamo in modo ligio fedeli alla Costituzione, che chiama tutti noi a lavorare, onestamente, per una soluzione che sia di larga o larghissima convergenza parlamentare. Noi, fino a prova contraria, lavoriamo così. Ma non ci si detti il compito, cioè che la destra designa il nome e noi lo votiamo. Questo è stato un atteggiamento inaccettabile», avvisa Bersani. Assicurando, magari solo per doveroso bon ton, magari per suggerire a Berlusconi di non lasciarsi scappare questa occasione, che «faremo una ricerca onesta di un punto di equilibrio e siamo pronti a discutere». Più esplicito Franceschini quando dice che se non si troverà un ampio accordo, il Pd procederà senza il Pdl. Ecco questi sono i termini della questione. E a chi vede tutte le scelte di Bersani in un’ottica proGrillo, lui risponde di non aver inseguito i grillini perché gli otto punti del programma sono del Pd». E il Movimento 5 Stelle «ha un disimpegno conclamato, vuole mette in frigorifero i suoi otto milioni di voti. Non si preserva così la legislatura: non c’è insulto che cancelli questa elementare realtà». Invia un messaggio anche al partito: «Rimarrò alla guida fino all’autunno» No al «governissimo» Ricorrere a un governissimo vorrebbe dire chiudere la politica in un fortino senza rispondere all’esigenza di cambiamento Il voto anticipato La considero un’ipotesi disastrosa. Purtroppo l’incrocio con il semestre bianco è stata un’ulteriore difficoltà perché può lasciare spazio a tatticismi.

La Stampa 3.4.13
Il bivio del segretario Il Colle come prova di forza
Il centrosinistra ha i numeri per eleggere un Presidente “di parte”
di Federico Geremicca


Avrebbe dovuto essere la partita numero due, da cominciare subito dopo la partita numero uno, quella per la formazione del governo: ma essendo quest’ultima stata sospesa per evidente impraticabilità del campo, si invertono i fattori, si comincia dalla scelta del nuovo inquilino del Quirinale e non è detto - giunti al punto cui si è giunti - che per Pier Luigi Bersani questo non sia meglio: perché la coalizione di centrosinistra non ha certamente i numeri (al Senato) per formare un governo, ma quegli stessi numeri sono stati sufficienti a eleggere i presidenti di Camera e Senato. E potrebbero esserlo anche per la battaglia del Quirinale.
Ma questa seconda partita, ieri, Pier Luigi Bersani l’ha aperta in maniera politicamente (e istituzionalmente) impeccabile: «La Costituzione - ha annotato - chiama tutti noi a lavorare onestamente per una soluzione che sia di larga o larghissima convergenza parlamentare: fino a prova contraria, lavoriamo così». E quale potrebbe essere la «prova contraria»? Che Berlusconi insistesse sulla rotta fin qui tenuta: «Nelle consultazioni - ha raccontato Bersani - di fatto chiedeva che la destra designasse il presidente e noi lo votassimo». Irricevibile. Ma anche l’insistenza sulla linea «o governissimo o elezioni a giugno» potrebbe costituire - come si diceva una «prova contraria». E diciamoci la verità: di fatto qualunque cosa potrebbe esser considerata «prova contraria» dal leader di una coalizione che si presenterà alle votazioni per il nuovo Capo dello Stato con un pacchetto certo di circa 500 voti: già quasi sufficienti a eleggere il successore di Napolitano fin dalla quarta votazione.
Siamo in una di quelle situazioni che si potrebbero - a semplificare - definire così: Bersani ha il coltello dalla parte del manico. Il che, in sostanza, vuol dire che il leader dei democratici (e i democratici tutti, naturalmente) ha davanti a sé un bivio: ricercare «una larghissima convergenza parlamentare» oppure non ricercarla affatto. È da dare per scontato che, in partenza, la via non potrà che essere quella della ricerca di ampie convergenze. Ma a cosa è disposto Berlusconi per aver un Capo dello Stato che lo «garantisca»? Si impegna a permettere la partenza - almeno la partenza - del governo-Bersani? Mette da parte nomi indigeribili per la coalizione giunta prima alle elezioni? Rispondesse no, si tratterebbe di due belle «prove contrarie»: dopo le quali il leader Pd potrebbe abbandonare il vicolo cieco delle «larghissime convergenze» e imboccare quello meno occluso di un «Presidente di parte» (ma anche qui bisogna intendersi: Napolitano nacque come «Presidente di parte»: ma già dopo qualche mese nessuno ricordava più che parte fosse...).
Un Presidente di parte potrebbe essere Romano Prodi. Un altro Massimo D’Alema. Appena appena meno di parte apparirebbero Giuliano Amato o Franco Marini. E poi, naturalmente, ci sono le donne e le possibili sorprese: ma insomma, non sono i possibili Presidenti di parte quelli che mancano. Il punto, in realtà, è definire il quadro di questa scelta. E il quadro - azzardiamo - potrebbe essere questo: così come un Presidente eletto con larghe intese sarebbe (potrebbe essere) l’apripista per la partenza di un governo-Bersani (o di un esecutivo più ampio) così un Capo dello Stato di fatto scelto dal leader Pd potrebbe essere il segnale che si corre verso le elezioni. O comunque verso un approdo non sgradito al segretario dei democratici (la cui linea continua a essere: impossibile un altro governo con Berlusconi, perfino meglio tornare al voto).
Sarà una partita come sempre complicata. Bersani e Berlusconi preparano da giorni le mosse avendo sulla scrivania gli stessi numeri: quelli con i quali fu eletto Giorgio Napolitano al quarto scrutinio: 543 voti su 990 votanti. La maggioranza richiesta era 505 voti: già, appena 505 voti. Bersani li rilegge spesso, e qualche volta - magari - gli capita di pensare: cinquecentocinque voti, praticamente noi li abbiamo già...

Repubblica 3.4.13
Pierluigi apre la gara del Colle Camere riunite il 18 aprile “Poi si riparte dalla mia proposta”
Napolitano pronto a dimettersi appena eletto il successore
di Goffredo De Marchis


ROMA UN PASSAGGIO decisivo anche per l’esecutivo del futuro e che «il Pd giocherà da azionista di maggioranza », dicono a Largo del Nazareno, cercando di piegarla a favore del «governo del cambiamento », ossia del progetto del segretario. La trattativa ora si sposta su un altro tavolo. E i tempi per il voto sul Quirinale cominciano a essere stretti, lo stallo impone un’accelerazione. Il presidente della Camera Laura Boldrini, d’intesa con la presidenza del Senato, convocherà il Parlamento in seduta congiunta per la prima votazione giovedì 18 aprile.
La strategia nasce dall’attuale inquilino del Colle Giorgio Napolitano. Le procedure per l’elezione del nuovo presidente partono il 15 aprile. Di solito, il voto dei grandi elettori subisce qualche slittamento per i ritardi nell’indicazione dei delegati regionali. Stavolta non sarà così, la situazione non consente rinvii. Già la scorsa settimana il segretario generale della presidenza della Repubblica Donato Marra ha sondato le assemblee regionali per avere garanzie sui loro delegati. Il problema del Friuli, che va alle urne il 21 giugno, è superato: sarà il vecchio consiglio a eleggere i suoi rappresentanti. Dopo questo giro, Marra ha avvertito Boldrini e Grasso. Tocca alla prima convocare le Camere visto che gli elettori si riuniscono in seduta congiunta a Montecitorio. Marra ha spiegato che Napolitano vuole fare presto e non appena sarà eletto il nuovo capo dello Stato, il presidente uscente lascerà il Quirinale. Sarà un cambio della guardia rapidissimo, non si arriverà alla scadenza naturale del settennato che è il 15 maggio. Si chiamano “dimissioni di cortesia”: non lasciano appeso il nuovo presidente ed evitano all’ex una scomoda coabitazione.
Su queste basi e con questo calendario, Bersani inizia il rush finale intrecciando Quirinale e il suo destino da premier. Lo fa aprendo alle larghe intese, a un incontro con Silvio Berlusconi «nelle sedi istituzionali», che ha accuratamente evitato durante le consultazioni. Ma soltanto per il nome da mandare al Colle e in cambio di un’adesione del Pdl al suo progetto: una Costituente con tutti dentro per varare le riforme e un esecutivo che si appoggia sulle astensioni, cioè un governo di minoranza che avvii la legislatura. I due cerchi. O il doppio binario.
Sul piatto il Pd è disposto a mettere in gioco le cariche istituzionali. Il nuovo capo dello Stato lo sceglierebbe il centrosinistra in una rosa di nomi non sgraditi al centrodestra. In questo caso i favoriti sono Giuliano Amato, Franco Marini e Massimo D’Alema. E se il Pdl grida comunque all’occupazione militare delle poltrone istituzionali? A Largo del Nazareno sono convinti di avere una soluzione, anche scompaginando gli assetti attuali. In cambio della garanzia sul governo, infatti, Pietro Grasso potrebbe finire nell’esecutivo alla casella ministro della Giustizia. Liberando così la poltrona di Palazzo Madama, mettendola a disposizione dell’intesa “costituente” con Berlusconi. La vera arma finale contro le resistenze del Cavaliere sono i numeri per eleggere il presidente della Repubblica. Il Pd avrà, il 18 aprile, circa 490 grandi elettori sul quorum della maggioranza assoluta (505) che scatta dalla quarta votazione. È sufficiente un patto con Mario Monti per scegliere in solitudine, escludendo il Pdl, il dominus della politica italiana per i prossimi sette anni. E potrebbe salire al Colle una personalità che avrebbe il potere di sciogliere le Camere o di mandare il governo Bersani in Parlamento a cercarsi la fiducia anche senza numeri certi. È un rischio che Berlusconi si può permettere? Nel caso di una decisione “solitaria”, i candidati Romano Prodi o Stefano Rodotà (gradito ai 5stelle) avrebbero la pole position e rappresentano un incubo per l’uomo di Arcore atteso da parecchie scadenze giudiziarie.
Da segretario del Pd con pieni poteri, Bersani cerca la via per affermare la sua proposta di governo attraverso l’elezione del presidente della Repubblica. Aprendo alle larghe intese per il Quirinale, il segretario pensa di aver “congelato” anche il dibattito interno al Pd. La direzione slitta e nei prossimi 15 giorni sarà lui a condurre il gioco. Matteo Renzi però non sta a guardare. Tra una riunione del patto di sindacato dell’aeroporto di Firenze e una visita istituzionale, il sindaco ha seguito la conferenza stampa del segretario. «Pierluigi si è preso altre due settimane. E ancora non abbiamo capito se è per la larghe intese o per il voto», è stato il velenoso commento espresso parlando con i suoi fedelissimi. Renzi è nervoso, non condivide la strategia di Bersani «che ha un senso solo se punta alla riforma della legge elettorale. Se fosse così me ne starei bonino perché l’interesse del Paese viene prima di tutto. Ma non so se è questo l’obiettivo ». Dopo un silenzio di alcuni giorni, è tornato a parlare pubblicamente battendo sul tasto che fa più male a Bersani: il finanziamento pubblico. Sul suo sito, Renzi ha pubblicato l’elenco dei sostenitori della Fondazione Big Bang chiosando: «Si può fare politica anche senza soldi dello Stato». A Montecitorio i renziani sono ancora più espliciti. «Se Bersani pensa di scegliersi il capo dello Stato per avere un incarico purchessia, questa non è la nostra posizione ». E pesano non poco i 51 parlamentari scelti dal sindaco di Firenze, in una partita in cui i franchi tiratori hanno sempre fatto e disfatto trame apparentemente perfette.
Le prossime settimane sono dunque decisive anche per la tenuta del Partito democratico. Come nella Prima repubblica, la solidità delle forze politiche viene messa alla prova quando si vota il capo dello Stato.

l’Unità 3.4.13
Nel Pd renziani e veltroniani per il governo del presidente
Morando: «Sconfitta la linea e la leadership di Bersani, al partito serve un cambio»
Per Walter Verini lo sforzo del Capo dello Stato va incoraggiato per arrivare a un esecutivo «con competenze riconosciute e un alto profilo etico»
Tonini: «Serve un governo di scopo circoscritto nel progetto e nel tempo per fare le riforme»
di Vladimiro Frulletti


Che la strada sia stretta, anzi poco più di un pertugio, è un dato oggettivo. Ma che ci sia anche la possibilità di dare un governo al Paese è più di una speranza. Almeno così il senatore Giorgio Tonini legge il voto unanime («hanno detto sì tutti sottolinea dai 5Stelle al Pd, da Sel al Pdl alla Lega ») con cui ieri il Parlamento ha approvato la variazione al Dpef firmata Monti. La prova cioè che su obiettivi concreti l’intesa è possibile. «E se provassimo a tentare lo stesso risultato anche sulle riforme fondamentali, a cominciare da quelle istituzionali?» si domanda Tonini.
Che poi sarebbe un esempio di come potrebbe funzionare un eventuale governo di scopo limitato nel tempo. E questa non è esattamente la proposta che ieri ha di nuovo avanzato il segretario del Pd Bersani. Il ragionamento che accomuna una parte del Pd (un po’ veltroniana e un po’ renziana) è che, preso atto che non ci sono spazi per un governo Bersani-5Stelle e tanto meno per un governissimo Pd-Pdl, e appurato che al voto non si può andare immediatamente, allora è meglio sfruttare l’occasione offerta da Napolitano con le due commissioni di saggi.
«Non l’abbiamo detto prima non vedo perché dovremmo dire ora o Bersani o elezioni» sintetizza Enrico Morando, già senatore democratico e legatissimo (fin dalla comune militanza migliorista nel Pci) al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Per Morando il Pd dovrebbe saper cogliere il senso della scelta fatta dal Capo dello Stato e quindi «pronunciarsi rispetto al lavoro dei saggi per fargli alzare l’asticella programmatica» perché questa «potrebbe essere l’occasione per fare quello che non abbiamo mai fatto». E cioè una riforma vera del sistema politico che Morando sintetizza in semipresidenzialismo, monocameralismo e riduzione dei parlamentari. «Allora sì che si capirebbe cosa vuol dire veramente quel cambiare tutto che fin qui ha alimentato solo Grillo». Quanto al futuro del Pd l’invito è di aprire le procedure per il congresso perché «dopo la sconfitta della linea politica e della leadership di Bersani serve un nuovo progetto e nuovi protagonisti».
Forse non è intenzionale ma il riferimento pur indiretto conduce a Renzi. Il quale però ieri era impegnato a fare il sindaco (riunioni sui nuovi assetti societari dell’aeroporto di Firenze) e quindi non ha potuto seguire direttamente la conferenza stampa di Bersani. Al momento l’indicazione data ai suoi rimane la stessa: tenersi pronti. Sia per elezioni immediate (giugno o luglio) sia (ed è questa la strada che preferirebbe) per il voto in autunno. Il che potrebbe far inserire anche il sindaco fra i sostenitori della soluzione governo di scopo. «Un governo di brevissima durata è la sintesi che offre il senatore Andrea Marcucci, renziano della prima ora che faccia le cose essenziali ad esempio risolvere il problema degli ammortizzatori sociali che a fine maggio saranno senza copertura e la riforma elettorale perché certo non possiamo tornare a votare col Porcellum. Ecco perché va verificato seriamente il lavoro dei saggi. Perdere tempo senza fare niente non solo sarebbe sbagliato, ma anche pericoloso».
Insomma come dice Walter Verini (vicinissimo a Veltroni) «lo sforzo» fatto da Napolitano «va incoraggiato». Tanto più che quando Bersani dice di essere pronto a fare un passo indietro se fosse lui il problema non si riferisce certo alla sua persona, ma al «ruolo di leader di partito» togliendo così «alibi a Grillo e spazio ai mercanteggiamenti di Berlusconi». «Bersani ha detto traduce Verini che il Pd mantiene un ruolo centrale, ma senza arroganza». . Insomma, «se non ci sono le condizioni per un governo di Pierluigi, e mi pare che non ci siano», e esclusa qualsiasi trattativa col Pdl e il ricorso al voto («sarebbe una iattura con questa legge») , ecco un governo di scopo o del Presidente con una compagine «con competenze riconosciute e un alto profilo etico e morale» che porti in Parlamento 7-8 punti qualificanti e trovi lì una larghissima intesa. « Perché i 5Stelle non lo dovrebbero votare?» è la domanda che si fa il deputato Pd.
«Primo passo» di questa stretta via per Tonini è l’elezione di «un Presidente di convergenza». Che ovviamente non vuol dire indicato dal Pdl, ma eletto «dalla più ampia maggioranza possibile». Proprio, ricorda il senatore Pd, come avvenne per Napolitano che fu eletto senza che il centrodestra gli votasse contro. Perché, è il ragionamento di Tonini, il Pd che pure coi montiani avrebbe i numeri per scegliere il capo dello Stato, deve «avere un senso del limite visto che alle elezioni non ha avuto la maggioranza». Poi toccherà al nuovo Presidente vedere se c’è la possibilità di un governo «di scopo circoscritto nel progetto e nel tempo, in grado di fare le riforme a cominciare da quella elettorale. Ma certo io non rinuncerei a priori alla possibilità di togliere l’Italia dalla secche».

Repubblica 3.4.13
Lo sfogo del deputato: il segretario ora deve coinvolgere i gruppi parlamentari, finiamola di corteggiare i grillini
Il renziano Richetti: “Basta, cambiamo rotta”
di G. C.


ROMA — «Ma Bersani ritiene di essere ancora in campo oppure no?». Matteo Richetti, renziano, si sfoga nel Transatlatico di Montecitorio, dopo la conferenza stampa del segretario del Pd.
Richetti, secondo lei dovrebbe restare ancora in campo Bersani?
«Evidente che spetta a lui decidere se rimanere in gioco o meno. Però, dal momento che un governo non è riuscito a farlo, ipotizzare che si trovi ora una maggioranza su un governo Bersani, sembra difficile. Se ci fosse stata, avrebbe avuto un incarico pieno. Noi abbiamo sostenuto il segretario, il quale ha riferito a Napolitano che le condizioni per formare un nuovo governo non c’erano. D’altra parte, Bersani ha sempre detto: prima l’Italia e poi gli interessi di parte, e quindi deve prevedere anche ipotesi diverse. Continuando così, non si dà un senso a questa legislatura».
Il Pd deve correggere la rotta?
«Sì. Aggiungo che abbiamo appreso da voi cronisti le decisioni del partito...».
Sarà convocata una Direzione del partito la prossima settimana?
«Bisogna convocare la Direzione certo, la cui composizione risale al 2009 e quindi è preistoria politica rispetto a quanto è accaduto negli ultimi mesi. Bisogna perciò coinvolgere in pieno i gruppi parlamentari. Se vogliamo inaugurare un protagonismo parlamentare, di cui tanto si parla, questa è l’occasione buona, da non perdere».
Quindi come andrebbe ritoccata la linea democratica?
«Realisticamente, ciò su cui il Pd dovrebbe puntare è un’intesa di scopo. Un governo di scopo nascerebbe assumendosi davanti al Parlamento l’impegno di varare poche riforme - quattro o cinque - in tempi certi. Se questo avvenisse, e le riforme fossero costruite con il contributo dei saggi indicati dal presidente Napolitano, sarebbe ovviamente più facile trovare intese parlamentari che le sostengano. I terreni d’intervento restano due. Quello istituzionale - legge elettorale, numero dei parlamentari, Senato delle Regioni e sistemazione dei pasticci sulle Province. L’altro terreno sono i provvedimenti urgenti a sostegno di imprese e famiglia. La durata del governo di scopo potrebbe essere di sei-otto mesi».
Sarebbe comunque un governo di larghe intese?
«Non si può parlare di larghe intese e di governissimo se c’è la condivisione di un’agenda parlamentare che ha un tempo limitato e una forte valenza istituzionale. Evitiamo di discutere sulle sfumature di grigio: una cosa è un governo Bersani-Alfano, Letta- Sacconi... qui stiamo parlando di condivisione delle regole, non di un accordo politico. Aggiungo che non mi sono piaciute le critiche a Napolitano sulla nomina dei saggi».
Bersani ha rinnovato l’apertura a Grillo. La convince?
«Ci si deve rivolgere di certo a tutte le forze parlamentari. Però c’è un limite a tendere la mano a chi un giorno, e l’altro pure, definisce noi democratici i puttanieri della politica».
Sul Quirinale però una intesa va cercata?
«Bersani ha detto bene. Le figure di garanzia, soprattutto quelle di così alto profilo, come il presidente della Repubblica, debbono essere il frutto della più larga condivisione».

l’Unità 3.4.13
Da Serra a Fresco, Renzi mette in rete i finanziatori
Tra i sostenitori più generosi anche l’industriale Ghisolfi
Il 28 per cento dei sottoscrittori non hanno autorizzato il sindaco a rendere noti i loro nomi
di Tommaso Galgani


Il più generoso è Davide Serra, quello delle Cayman e delle polemiche alle ultime primarie del centrosinistra, a pari merito con l’industriale chimico Guido Ghisolfi: 100mila euro. A seguire, Paolo Fresco e consorte (25mila euro a testa), esponenti del mondo dell’industria, parlamentari (Andrea Marcucci del Pd), assessori fiorentini (Massimo Mattei) fino addirittura al Cral del Comune di Napoli. La Fondazione Big Bang, cassaforte e braccio operativo delle iniziative di Matteo Renzi, pubblica sul sito i nomi dei propri finanziatori, nel nome di quella trasparenza da sempre invocata dal sindaco di Firenze sui finanziamenti alla politica. «L’elenco dei finanziatori del comitato per le primarie e della Fondazione Big Bang è online. Un impegno che avevo preso e che ho mantenuto tiene a precisare il rottamatore su Facebook -. Spero che questo esempio sia seguito da altri. Nel frattempo abbiamo dimostrato che si può fare politica anche senza finanziamento pubblico ai partiti. Prima lo aboliamo, rispettando il referendum e dunque il volere dei cittadini, meglio è». Tuttavia, la lista dei finanziatori fornita dalla Fondazione Big Bang comprende solo quelli che hanno autorizzato la pubblicazione del proprio nome, come da legge sulla privacy.
Per la precisione, ammonta a 814.502,23 euro il totale dei finanziamenti arrivati alla “renziana” Fondazione Big Bang. Tra i finanziatori, che hanno autorizzato la pubblicazione del nome, spiccano appunto i 100mila euro versati da David Serra e dalla moglie Anna Barasi, e da Guido Ghisolfi e Iva-
na Tanzi, ma anche i 25mila euro ciascuno di Paolo Fresco e Marie Edmée Jacquelin in Fresco. Serra è il finanziere che ha fondato il fondo Algebris, che ha sede nel paradiso fiscale delle Isole Cayman: alle ultime primarie del centrosinistra si schierò dalla parte di Renzi (era presente anche alla famosa cena milanese del rottamatore col gotha della finanza italiana a porte chiuse) e finì al centro delle polemiche con i bersaniani. Ma quanti sono i finanziatori di Renzi che non hanno dato il nulla osta alla pubblicazione del proprio nome? Complessivamente, è il 72% dei finanziatori della Fondazione Big Bang ad aver dato il via libera. «Quelli che mancano spiega l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della Fondazione non sono i più grossi, la media complessiva è di circa 3.800 euro ciascuno». Lo stesso Bianchi (il cui fratello, Francesco, è da poco commissario straordinario dell’ente lirico di Firenze, il Maggio Musicale) ha dato un contributo di 5.400 euro.
Nella lista ci sono poi tutti i nomi delle società che non sono soggette alla privacy. Tra queste la Isvafim Spa (60mila euro), che fa riferimento ad Alfredo Romeo; 25mila euro dalla Karat; 20mila euro ciascuna da Simon Fiduciaria e da Blau Meer e Cimis, così come la stessa cifra è stata versata anche da Giancarlo Lippi. «La trasparenza totale che usiamo per i finanziatori spiega ancora Bianchi sarà poi trasferita anche nel resoconto delle spese della Fondazione con il bilancio che sarà pubblicato il 30 aprile e che sarà certificato da una società di revisione». Tra i maggiori finanziatori, con 10mila euro, anche Filippo Landi, Jacopo Mazzei, Carlo Micheli, Giorgio Colli, Renato Giallombardo. Ma non finisce qui.
Nell’elenco dei finanziatori di Renzi c’è anche il Cral del Comune di Napoli che ha versato 1.100 euro, probabilmente frutto di una raccolta comune. Non manca poi qualche politico, come il senatore Democratico Andrea Marcucci (5mila euro) e l’assessore fiorentino, fedelissimo da anni del sindaco, Massimo Mattei (1.600 euro). Altri nomi noti, tra gli altri, sono quelli di Guido Roberto Vitale (5mila euro), Giovanna Folonari (2mila euro) e l'ex presidente di Confindustria Firenze Sergio Ceccuzzi (mille euro).
Renzi aveva già fatto pubblicare online la lista dei finanziatori dell’ultima convention alla Leopolda e quella della campagna elettorale delle primarie. Il Consiglio direttivo della Fondazione Big Bang è composto da Alberto Bianchi, Marco Carrai, Giuliano da Empoli, Federico Berruti (sindaco di Savona) e gli onorevoli del Pd Ernesto Carbone e Luca Lotti. Che ribadisce: «La pubblicazione dei finanziatori è la dimostrazione che si può fare politica senza il finanziamento pubblico ai partiti».

il Fatto 3.4.13
“Big bang” da 814 mila euro pagato da molti (soliti) noti
Affaristi, manager e avvocati: ecco chi finanzia Matteo Renzi
di Marco Lillo


Certo è ancora lontano dal suo modello americano, ma come inizio Matteo Renzi non si può lamentare. Il candidato sconfitto delle ultime primarie del Pd ha messo on line i conti della sua Fondazione Big Bang. Si scopre così che ha raccolto 814 mila euro dai suoi finanziatori. Nulla al confronto del miliardo e 80 milioni di euro racimolato da Barack Obama per le ultime presidenziali, ma comunque un buon incasso. Renzi è stato di parola e ha pubblicato nomi e importi delle donazioni alla sua Fondazione, anche se con un ritardo di pochi giorni rispetto al termine di tre mesi annunciato. In testa alla lista troviamo il finanziere del fondo Algebris, Davide Serra. Celebre per le polemiche sulla sede della holding di Algebris alle isole Cayman, Serra ha donato 100 mi-la euro a Renzi assieme alla moglie Anna Barassi, con la quale ha creato molti anni fa anche una Ong che aiuta i bambini in Tanzania, la Hakuna Matata. Anche il patron della società chimica Mossi e Ghisolfi, Guido Ghisolfi ha donato con la moglie Ivana Tanzi 100 mila euro. Subito dopo questa doppia coppia da 100 mila troviamo il munifico Alfredo Romeo, arrestato nel 2009 con accuse gravi e condannato in primo grado a due anni per un episodio minore di corruzione. Romeo prima dell’arresto ha elargito finanziamenti a destra e a sinistra, da Alemanno a Rutelli. La sua Isvafim, che aveva finanziato nel 2008 anche il comitato per Zingaretti presidente della Provincia, ha donato nel 2012 - quindi dopo la condanna - 60 mila euro alla Fondazione Big Bang di Matteo Renzi. SCORRENDO la classifica delle donazioni più generose, troviamo l’ex presidente, fino al 2002, della Fiat Paolo Fresco che ha donato con la moglie Marie Edmée Jacquelin 50 mila euro. Restando a Torino troviamo i 20 mila euro donati da Simon Fiduciaria della famiglia di Franzo Grande Stevens, l’avvocato 85enne della famiglia Agnelli, già presidente della Juventus e tuttora presidente della Fondazione San Paolo nonché consulente della banca del Vaticano, lo IOR. Franzo Grande Stevens, dopo la donazione, è stato condannato il 21 febbraio scorso a 1 anno e 4 mesi in appello dopo l’assoluzione in primo grado per l’aggiotaggio informativo sul caso Ifil-Exor. Sempre a quota 20 mila euro troviamo una società di impiantistica che lavora anche con Eni e altre società ed enti pubblici, la Cimis Srl di Sannazzaro della famiglia Fiorani. Mentre 25 mila euro sono arrivati dalla Karat Srl dei fratelli Bassilichi, titolari di imprese immobiliari e informatiche, da molti anni finanziatori e amici di Matteo Renzi. Nell’elenco dei donatori figura anche Giancarlo Lippi con 20 mila euro, probabilmente dovrebbe essere il manager del gruppo Targetti. Altri 20 mila euro sono arrivati dalla Blau Meer Srl, una società che sta costruendo un residence a Pietra Ligure e che appartiene ai re della frutta, i fratelli Orsero. Poi c’è una sfilza di soggetti che hanno donato 10 mila euro ciascuno: Carlo Micheli, consigliere di Banca Leonardo e figlio del finanziere Francesco Micheli; la Eva Energie Spa dell’ex presidente dell’Enel Chicco Testa; l’avvocato Renato Giallombardo, partner dello studio Gianni, Origoni, Grippo & partners; il presidente dell’ente Cassa di Risparmio di Firenze Jacopo Mazzei; Giorgio Colli, un imprenditore di Lecco promotore del sito internet ‘Renzipianob’. Non poteva mancare la società israeliana Telit Communications di Oozi Cats che, dopo avere donato 20 mila euro a Gasparri nel 2006 e 10 mila a Bersani nel 2008 ha elargito 10 mila euro alla Fondazione di Renzi nel 2012. Altri 10 mila euro arrivano anche da Fabrizio Landi, amministratore della società Esaote e dalla Sinefin del gruppo Giannanti di Pisa. Poi ci sono i contributi elargiti dai partecipanti alla cena di Milano organizzata ad ottobre nella chiesa sconsacrata di via Sant’Eufemia dal finanziere Davide Serra. Tra questi troviamo, con 5 mila euro, Guido Roberto Vitale, presidente della Vitale & Associati e socio di Chiarelettere e, con altri 5 mila, il presidente di Allianz Italia Carlo Salvatori e il Calzaturuficio Gabriele, il senatore Andrea Marcucci, eletto in quota Renzi. Altri 5mila euro sono arrivati alla Fondazione dall’impresa Capaccioli di Sinalunga e dalla società di cacciatori di teste Key 2 People Executive Search. Circa 29 mila euro sono arrivati dal Comitato per la candidatura di Matteo Renzi, che a sua volta ha pubblicato sul suo sito le singole donazioni per importi molto piccoli che concorrono a formare la cifra totale. Scorrendo l’elenco dei nomi sul sito del Comitato si scoprono alcune curiosità. C’è per esempio il vicedirettore di Libero Franco Bechis, in passato poco tenero con Matteo Renzi nelle sue cronache sul caso Lusi. Bechis ha spiegato su twitter di avere voluto donare i 50 euro per testare il funzionamento del sistema di rendicontazione messo in piedi dai Renzi boys. Il giornalista poteva donare anche solo 5 euro, ma ha largheggiato per dare un segnale distensivo al politico che minacciava querele, mai presentate. Sempre con una donazione di 50 euro (stessa quota dell’ex membro del board della Bce, Lorenzo Bini Smaghi e del direttore dell’Opinione, Alberto Mingardi) figura nella lista una ‘Emanuela Romano’, probabilmente solo omonima dell’ex assessore al comune di Castellammare di Stabia, più nota come cofondatrice del comitato ’Silvio ci manchi’ insieme all’attuale fidanzata ufficiale di Berlusconi, Francesca Pascale. AL FATTO risulta però che alcuni finanziatori presenti alla cena di Milano organizzata da Davide Serra non figurano nell’elenco. Si tratta di donazioni di piccolo importo che assommano a circa 25 mila euro. Il Fatto è riuscito a visionare solo una lista dei cognomi dei finanziatori con i nomi indicati solo con la lettera iniziale. Si va dalle donazioni di 2.000 euro di S. Abbro e di tal Vivado ai 500 euro di tal Scrocco. I finanzieri non sono stati molto generosi con Renzi quella sera. Per esempio Federico Lalatta di Boston Consulting Group, stando alla lista dei cognomi, risulta aver donato solo 300 euro. Mentre S. Rossore (sarà la società San Rossore?) ha elargito ben 5 mila euro. Nell’elenco dei cognomi c’è anche un certo Draghi che ha donato in quella sera di ottobre ben 1.000 euro. L’iniziale del nome però è la F., non la M di Mario.

l’Unità 3.4.13
Il lato oscuro della trasparenza a 5 Stelle
di Francesco Cundari


DAL SUO CAPO INDISCUSSO AI SUOI MENO INDISCUSSI CAPIGRUPPO, il partito che ha fatto della trasparenza la sua bandiera il Movimento 5 Stelle mostra una spiccata intolleranza verso giornalisti, microfoni e domande non concordate. E se ne capisce anche il motivo, vedendo la fatica che fa il suo capogruppo al Senato, Vito Crimi, a non smentire se stesso dopo ogni dichiarazione che gli capiti di rilasciare. Come nel caso della dichiarazione di ieri sul fatto che sarebbe stato meglio avere a Palazzo Chigi Pier Luigi Bersani invece di Mario Monti. Questa volta la precisazione è venuta direttamente dal blog di Beppe Grillo: «Bersani non è meglio di Monti». Crimi, evidentemente, non se l’è sentita di polemizzare anche con le vili deformazioni del suo pensiero a opera della sua personale pagina Facebook. Il passaggio più interessante del suo lungo e articolato «status» non era però quello smentito, ma quello in cui difendeva la scelta di non fare nessun nome per Palazzo Chigi con queste parole: «Qualunque personalità avessimo suggerito sarebbe servita soltanto a sfamare gli ingordi trangugiatori di gossip, e a fomentare la speculazione giornalistica che da tempo adombra la nostra attività parlamentare». È chiaro dal contesto che con «adombra» Crimi non intende «lascia intravedere», ma proprio «mette in ombra». Ed è altrettanto chiaro chi sono gli «ingordi trangugiatori di gossip» che con le loro speculazioni e i loro pettegolezzi oscurano la più seria attività del suo partito: i giornalisti.
Diciamo la verità, non è che sulla stampa italiana scarseggino gossip e «speculazioni». È indubbio che spesso le dichiarazioni dei politici siano mal riportate, a volte forzate, altre addirittura manipolate. Il problema è che sulla base di simili imprecise e a volte strumentali ricostruzioni, che tendono a mettere sempre tutto e tutti sullo stesso piano, i cinquestelle hanno fatto la loro fortuna. La stessa parola d’ordine del loro movimento, la lotta contro «la casta», non è nata mica da un blog, ma da una campagna martellante del Corriere della sera. Basta sfogliare un qualsiasi quotidiano, o farsi un giro per una qualsiasi libreria, per verificare come i titoli contro la «casta» della politica che rovinerebbe il Paese siano ormai, nel campo dell’attualità, il principale prodotto del nostro mercato editoriale. Dunque, se davvero gli italiani sono oppressi da una «casta» di intoccabili che vive a loro spese, delle due l’una: o si tratta di un regime ben singolare, in cui il sistema della comunicazione è graziosamente lasciato alla resistenza, oppure al vertice del regime c’è qualcun altro, ben felice di indirizzare la collera popolare contro i partiti. Ma questa seconda ipotesi è davvero inammissibile, perché porterebbe alla conturbante conclusione che gli stessi grillini non ne siano che le ultime marionette.

l’Unità 3.4.13
Le Pen: «Beppe, incontriamoci». La destra xenofoba tifa 5 Stelle
La neofascista francese apprezza la linea di separatezza dei grillini
La leader del Fronte nazionale francese a Grillo: «Uniamo le forze euroscettiche»
di Toni Jop


Ciapaquà: il povero Grillo si industria a spiegare ai suoi discepoli come fare per evitare il richiamo delle sirene, poi però deve cavarsela da solo, perché le sirene, quelle di destra lui le attira con il potente afrore della sua linea politica. Tocca a Marie Le Pen, leader della destra-destra francese, figlia di una delle ombre nere di questa Europa, intonare il canto malioso, ed è tutto rivolto a questo sedicente, svagato figlio di Chomsky sinistra sinistra in questi giorni appollaiato in una delle sue ville, occupato a smaltire gli ozi di Pasqua.
Marie Le Pen ha avuto la felice idea di individuare nel gran rebus della politica italiana il suo referente naturale, il suo interlocutore privilegiato. La signora della destra non si è rivolta, almeno non ne abbiamo traccia, a quelli di Casa Pound e nemmeno ha scritto un biglietto al fiero Storace o a Borghezio. Nel corso di una conferenza stampa si è rivolta a Beppe Grillo in persona per dirgli che vorrebbe tanto parlare con lui, perché molto, e di molto forte, li unisce sulla scena continentale.
Intanto, va notato come Marie Le Pen sia caduta nel tranello in cui cadiamo spesso anche noi: non ha chiesto di incontrare il Movimento Cinque Stelle, ma Grillo, e cioè un banale megafono. «Se Grillo vuole incontrarmi, può chiedermelo» ha affermato davanti ai microfoni, dimostrando di essere una sirena ma di carattere; ha informato il nostro che lei ha il telefono pronto a ricevere. Orgoglio lepennista. E precisa: «Dobbiamo prendere coscienza che le forze euroscettiche che vogliono il cambiamento (sull'Europa) devono incontrarsi».
MESSAGGIO ALLE ESTREME
Va bene: e come mai non ha ribadito lo stesso concetto a quei frammenti, che pure esistono, di una sinistra non di governo che nutre nei confronti dell'Europa fin qui concepita riserve pesanti? La risposta sta nella domanda: perché da Grillo può attendersi una risposta meno sfacciata e liquidatoria. Perché, ancora, il megafono ha provveduto a cementare male secondo noi culture diverse nelle sue file, dall'estrema destra all'estrema sinistra e non può non tenerne conto programmando il piano di navigazione.
Perché, infine, si può e si deve rendere merito sempre a quel megafono di aver recentemente rifiutato pubblicamente di prendere in carico l'antifascismo nella dote fondativa del suo movimento. O vogliamo immaginare che si sia rivolta a Grillo perché è un bel macho che non perde il gusto di deridere gli omosessuali? Illazioni prive di sostanza, come no. Ma non c'è solo l'anti-europeismo ad unire la sirena francese al suo Ulisse nuotatore. Per esempio, Marie Le Pen ha voluto rivolgere a Grillo un encomio per il regime di separatezza adottato a schiaffoni dai Cinque Stelle nei confronti di tutto il quadro politico italiano. «Penso che non si possano risolvere le cose con quelli che le hanno create», riflette benevola Marie affidando al padrone dei Cinque Stelle i segni delle sue piene, entusiaste, stima e condivisione.
EUROSCETTICISMO
Se ne deduce, quindi, che i due sono d'accordo sull'ipotesi che il cambiamento possa essere unicamente il frutto di maggioranze assolute intestate in Italia alle legioni del Megafono e, in Francia, alle falangi della signora della destra. Nessuna trattativa, nessun accordo, nessuna fiducia: ecco, finalmente qualcuno che non disapprova la scelta strategica di Grillo di non far nascere alcun governo da queste elezioni e di riconsegnare, molto probabilmente, il paese alla destra berlusconiana, tanto per gradire. Mentre si va a fondo, grazie a Berlusconi e al suo fine intuito.
La figlia di Le Pen confida nell'esito del referendum, crede che in Italia ora la maggioranza sia nei fatti euro-scettica. E Grillo, che aveva cercato di sminuire il ruolo e il peso politico della sua proposta di consultazione popolare in merito, si vede ora restituire, magari con qualche imbarazzo, in tutta la sua brillantezza, in tutto il suo sapore strategico quel punto programmatico che nessun cinque stelle è mai stato chiamato a votare. Se questo non è amore.

il Fatto 3.4.13
Bertinotti: “Diamo il mandato ai grillini”


L’EX PRESIDENTE della Camera Fausto Bertinotti, propone sull’Huffington Post di dare un mandato pieno al Movimento Cinque Stelle. Lo motiva così: “Una nuova forza politica, il M5S, è stata portata dal voto al centro della scena della democrazia rappresentativa, in primo luogo, proprio perché portatore della critica e dell’opposizione a questo sistema. Perché non la mettono alla prova cercando di farsi forza con ciò che altrimenti loro non hanno?”. E spiega: “C’è un solo modo per farlo: chiedere che venga conferito l’incarico di Presidente del Consiglio a un esponente del M5S indicato dallo stesso movimento. Un incarico forte e incondizionato. (...) Esso passerebbe così da oggetto della consultazione al suo soggetto, quello con le cui proposte di governo tutte le altre forze politiche dovrebbero confrontarsi”.

il Fatto 3.4.13
Dissidenti e processi Il giorno nero del M5S
“Meglio il Pd di Monti”: Crimi sotto accusa, minaccia dimissioni
Il assemblea vince la linea dura, nessuna apertura
Un gruppo chiede a Grillo di venire a Roma
di Paola Zanca


“Non ce la faccio più, se è così mi dimetto”. Chiuso nella stanza al quarto piano del Senato, Vito Crimi ha davanti a sé il plotone dei comunicatori del Movimento 5 Stelle. Claudio Messora, accompagnato dalla sua squadra di collaboratori (c’è anche “Nik il nero” al suo primo giorno di lavoro) non capisce come sia venuto in mente al capogruppo di scrivere quel post su Facebook. Lo ha buttato giù la sera di Pasquetta, poco dopo le 22. Un fiume di parole, per spiegare le ragioni dei grillini eletti, per condividere la scelta di non proporre nomi al Quirinale, per confessare la paura di cadere nelle trappole del Pd. E aggiungere il suo personalissimo rammarico: “Forse – scrive Crimi sul suo profilo – poteva essere intrapresa una strada mai percorsa prima, e cioè di affidare il governo a Bersani che con i suoi ministri poteva presentarsi al Parlamento e qualora non avesse ricevuto la fiducia poteva continuare, alla stregua dell’attuale governo Monti, senza la fiducia ma solo per gli affari ordinari. Almeno sarebbe stato rappresentativo di una maggioranza relativa e non di una strettissima minoranza come il governo Monti in regime di prorogatio”. La traduzione è presto fatta: Bersani meglio di Monti, una bestemmia per il Movimento nato per ribaltare la logica del meno peggio. Così, negli uffici dello staff cominciano ad arrivare mail inferocite: “Ma cosa sta dicendo Crimi?”. Arrivano a Roma, a Genova, a Milano, nei tre quartier generali dei Cinque Stelle. Le leggono Messora, Grillo, Casaleggio. Mentre il leader prepara “i puntini sulle i” da mettere sul blog più letto dalla base (“Bersani non è meglio di Monti – scrive Grillo alle 14.25 – è semplicemente uguale a Monti, di cui ha sostenuto la politica da moto-falciatrice dell’economia”), Cri-mi è costretto a prendersi una lavata di testa. Sanno che non era quello che il capogruppo voleva dire, comprendono che sia stato frainteso, ma non possono non dirgli che stavolta ha sbagliato: “Quello che hai scritto è gravissimo, è contrario a tutto quello che abbiamo detto finora. Come ti è venuto in mente? ”. Crimi finisce sotto processo. E lui, già provato da questo primo stressantissimo mese da capogruppo, per un attimo ha pensato di mollare.
   IL GRUPPO DEL SENATO, però, è tutto dalla sua parte. Vito Cri-mi è quello che ha evitato che si tirassero i piatti sulla storia del voto a Grasso, è quello che è riuscito a costruirsi autorevolezza anche con i deputati, l’uomo che, nei momenti più duri, li ha confortati attingendo direttamente alle parole di Beppe. Così, pare che l’ipotesi di lasciare, sia balenata solo in un attimo di debolezza. “Sarebbe stato eccessivo”, commentano i colleghi, convinti che “Vito è stato frainteso”. Come sta il capogruppo? chiediamo ai senatori che alle 18, uno a uno, salgono la scalinata che li porta al palazzo dei gruppi di Montecitorio. “Nel fisico bene”, risponde Vito Petrocelli. E nel morale? “Quello non lo dà a vedere”, aggiunge il senatore che consiglia a Crimi di non dare troppa importanza a quello che si dice in rete: “Face-book è una fogna. Io mi sono cancellato due anni fa”.
In assemblea si parla di nuovo di linea politica. E stavolta la mozione che chiede ai Cinque Stelle di uscire dall’isolamento finisce ai voti. Il gruppetto di una ventina di eletti, senatori e deputati, uniti dalla paura che, avanti di questo passo, il Movimento vada a sbattere contro un muro, però esce sconfitto. Vince chi non vuole nemmeno fornire una lista di nomi per un governo “a 5 Stelle”. La riminese Giulia Sarti esce in lacrime. E i dissidenti chiedono che Grillo venga a Roma, presto, perché non si può lavorare 12 ore al giorno e poi essere smentiti da quattro righe sul blog.
È UN PROBLEMA di linea politica, ma anche di comunicazione. Mentre al Senato si è messo su uno staff di tutto rispetto, alla Camera, dopo l’epurazione di Martinelli, ci si arrangia ancora. “Non sta uscendo nulla di quello che stiamo facendo”, dicono i deputati, ora alle prese con l’arrivo (sempre al Senato) di Nicola Virzì, Nik il nero appunto, poco gradito agli emiliani. Paure, “diffidenza”. La stessa che ieri hanno ritrovato anche negli occhi dell’ambasciatore americano David Thorne. A Villa Taverna, sono stati ricevuti i due capigruppo, Crimi e Lombardi, accompagnati dalla senatrice Michela Montevecchi e dal deputato Massimo Baroni: “Erano incuriositi dal nostro modello - spiega Baroni - Anche in America qualcuno ha provato la strada dei meetup ma non ha funzionato. Ci considerano all’avanguardia, ma sanno che questo è un momento di stallo: dal voto è uscita una tripartizione a cui guardano con diffidenza”. Senza remore, invece, Marie Le Pen. La leader dell’estrema destra francese è convinta: insieme a Grillo, si può uscire dall’Europa.

La Stampa 3.4.13
Il Capo dello Stato più popolare
Donna e garantista, Bonino riprova la corsa al Colle
Quattordici anni dopo quel 1999, la candidatura ora potrebbe raccogliere nuovi consensi
di Fabio Martini


Sul momento quel fuori onda spiazzò tutti. I resocontisti del Senato fecero finta di non aver sentito. Oggi, quel precedente prende sapore. È il 20 giugno 2012, Emma Bonino ha appena concluso un intervento nell’aula di palazzo Madama, pronunciandosi a favore della richiesta di arresto per il senatore del Pd Luigi Lusi, ma al tempo stesso scagliandosi contro «l’assenza dello Stato di diritto», «una giustizia al collasso», «l’abuso della carcerazione preventiva». Dallo scranno più alto il presidente del Senato Renato Schifani, non essendosi accorto che il microfono si era riacceso, commenta: «Brava!». Resterà l’ultimo, importante intervento di Emma Bonino in un’aula parlamentare, ma l’apprezzamento di un notabile berlusconiano e quello dei senatori di tutti i gruppi parlamentari - dal Pd al Pdl rappresenta uno dei segnali meno noti che potrebbero lanciare la Bonino nella corsa verso il Quirinale.
Certo, a prima vista può apparire paradossale che possa farcela una donna, una personalità senza un grosso partito alle spalle e che oltretutto neanche fa più parte del Parlamento. Lei, da parte sua, non sta brigando per caldeggiare le sua candidatura nel giro dei notabili, vecchi e nuovi, che alla fine decideranno la partita. E infatti Emma - con le sue giacche dai colori accesi - se ne sta al Cairo, lì dove nel 2001 si prese una casa, studiò l’arabo e dove ha ancora tanti amici. Lontana dall’Italia, lontana dai politici che contano, eppure - ecco la sorpresa - «stavolta Emma ci crede». Questa è la confessione che trapela da chi la conosce bene. E se si chiede proprio alla Bonino se questa potrebbe essere la volta buona, lei risponde così: «Un detto di “Pari e dispare” dice: per una donna è più facile diventare cardinale che salire al Quirinale». Come dire: è un’impresa quasi impossibile, ma perché no?
E infatti - seconda sorpresa - in queste ore proprio l’associazione «Pari e dispare» sta preparando un video per il web, nel quale diverse famose donne della cultura e dello spettacolo chiederanno che al Quirinale vada Emma. Lei ovviamente è al corrente di iniziative di questo tipo,  anche se a se stessa e a tutti quelli che le vogliono bene, chiede «low profile». Una prova? Il cortese rifiuto opposto qualche giorno fa a Daria Bignardi, che avrebbe voluto la Bonino alle sue «Invasioni barbariche». E la terza sorpresa è che la Bonino è stata e resta il candidato preferito dagli italiani per il Quirinale. Sorpresa perché se è comprensibile che i sondaggi la dessero in testa nel 1999, dopo una campagna martellante a suo favore, era difficile immaginare che quattordici anni dopo, così lontana dalla ribalta, la Bonino fosse ancora in testa. Secondo un recente sondaggio Ipr Marketing la Bonino riscuote il consenso più alto (per lei è il 32% degli interpellati), seguita a distanza da Mario Draghi (26%), e da Stefano Rodotà (19%).
Certo, perché l’operazione-Bonino diventi fattibile, si devono determinare condizioni oggi inesistenti, ma in attesa che il quadro parlamentare si chiarisca, Emma sta preparando la «chimica giusta». Puntando a trasformare a suo favore quelli che potrebbero apparire handicap: l’esser donna, la sua anti-partitocrazia mai volgare, il suo garantismo mai tralignato in ostilità alla magistratura.
Classe 1948, nata a Bra in provincia di Cuneo, figlia di un contadino, radicale dai vent’anni, eletta per la prima volta alla Camera quando ne aveva 28, una larga esperienza internazionale, Emma Bonino ha lottato per i diritti delle donne più deboli e più lontane, ma è sempre stata contro le quote rose, ripetendo: «Se le donne vogliono cambiare qualcosa, nessuno glielo concederà gratis». Ecco perché è risultata più forte la sua critica al Capo dello Stato per non aver compreso neppure una donna tra i «saggi»: «Su 60 milioni di italiani, non c’è una competenza al femminile? Una composizione che non rappresenta la società, ma la partitocrazia». Ecco, quella militanza antipartitocratica potrebbe darle una spinta. Anche perché tra i notabili che decidono non è messa male. Per Bersani «Emma è una fuoriclasse», D’Alema la stima, Monti l’ha invitata al suo compleanno. Berlusconi, però, non la ama (ricambiato), ma ne conosce la passione per la «giustizia giusta». Ma se l’ascesa della Bonino si facesse fattibile, che farà Pannella? Pur non condividendo diverse scelte del leader radicale, con lui la Bonino ha sempre evitato scontri. E così, dopo aver osteggiato la decisione di Pannella di presentarsi alle elezioni, la Bonino ha acconsentito ad entrare nelle liste. Ad una condizione: che il suo nome fosse l’ultimo. Ovunque.

il Fatto 3.4.13
Emma Bonino for what?
risponde   Furio Colombo


CARO COLOMBO, non tanti anni fa c'è stato un tale movimento d'opinione in favore di "Emma Bonino for president" che sembrava sul punto di farcela. Poi i partiti si sono ripresi il controllo di tutto ed eccoci qui. Adesso qualunque nome anziano, purché maschio e partitico, va bene, ma di Emma non si parla più. E per le due misteriose “commissioni speciali”, niente Bonino e, per sicurezza, niente donne. Lo chiamiamo progresso?
Stefano

LA SEQUENZA dei fatti, come ricostruita dal lettore è esatta. Eppure io penso che non sia così facile, questa volta, fare finta che Emma Bonino, la leader radicale che ha più vite dei gatti, non esista. Trascuriamo il problema delle due commissioni istituite all'improvviso dal Capo dello Stato per prendere fiato, visto che nessun altro aveva uno straccio di idea. Sembra chiaro che si tratta di un espediente per tamponare pericolosi crolli di credibilità per il Paese. Queste commissioni, infatti, non solo non sono illustri, ma non comprendono, come si è già detto e ridetto, neanche una donna. Credo che sia un lapsus rivelatore. Cercare una donna voleva dire mettersi davvero a cercare nella realtà invece che scorrere la lista dei telefoni interni di alcuni partiti, e apriva un confronto di valore delle vite e dei curricula. Evidentemente non c'era modo e tempo di fare meglio. Ma fra poco, nella lista del Colle dopo Napolitano, diventerà impossibile non mettere il nome di Emma Bonino, tra i primi tre. Perché sa l'inglese (e anche l'arabo) perché conosce a fondo il Parlamento, le galere italiane e il mondo. Non si potrà far finta di niente anche a causa della sua notorietà e prestigio, dal-l'Europa all'America, dall'Africa all'Afghanistan, dai Talebani a Putin. Come se non bastasse è donna, lo stesso tipo di vantaggio/svantaggio (nella versione bianco /nero) che ha segnato la campagna, la battaglia e la vittoria di Obama. Nella corsa italiana al Colle, salvo due nomi (Prodi e Amato) il gruppetto in concorso non è molto dissimile dalle due “commissioni speciali” appena nominate. E subito sotto scorre, nascosto, potente, minaccioso, il peggio. I lettori di questo giornale conoscono i nomi pesanti e pericolosi, da scrivere qui. Ed è qui che conta il nome e la vita di Emma Bonino. Perché è cosmopolita, perché è Radicale, perché non può essere raggiunta dagli schizzi degli altri partiti. Perché è donna. Corre in una corsia speciale che potrebbe sfuggire alla zampata e al ruggito di ben più potenti animali della politica professionale. Insomma, non solo vale. Conviene.

Repubblica 3.4.13
L’amaca
di Michele Serra


Approfitto della confusione generale, e della rassicurante irrilevanza della mia opinione, per fare i miei nomi per il Quirinale. Barbara Spinelli o Emma Bonino, donne di grande intelligenza e totale indipendenza politica (a Bonino si perdonerà facilmente, nel nome del superiore interesse del Paese, l’ostinata fedeltà a Marco Pannella e alle sue stramberie; a Spinelli di essere, tra le altre cose, editorialista di questo giornale).
Lo stimolo proviene da un amico di penna che propone di lanciare la campagna “una Bergoglio per il Colle”, dicitura sapiente e anche molto maliziosa perché esclude la reperibilità di “un” Bergoglio e ne suggerisce, dunque, “una”. Se tifo per una donna Capo dello Stato non è per ruffianeria femminofila (sempre sospetta, tra l’altro, in un maschio). È perché davvero il segno di una così inedita e radicale diversità contribuirebbe non solo a segnare la fine del passato che non passa mai; ma anche a distrarre per un attimo le energie degli attori politici dalla loro rissa permanente, costringendoli a contemplare tutti insieme l’incredibile spettacolo di una femmina che regola e indirizza le ambizioni dei maschi. Ma poi pensate, l’ultimo dell’anno, sentire una voce di donna che ci accompagna e ci consiglia.

Repubblica 3.4.13
L’astrofisica Margherita Hack: il nostro Paese è pieno di donne serie, ma a volte diventiamo invisibili
“La cultura maschile non si cancella vale anche per gli uomini più aperti”
intervista di Caterina Pasolini


ROMA — «È desolante. Agli uomini non gli veniamo proprio in mente in questi casi, neanche fossimo trasparenti. É un brutto sintomo perché non c’è un motivo vero e reale nell’averci escluse dal gruppo di saggi». Un po’ come la canzone di Jannaci: «Vengo anche io, non tu no. Ma perche? Perché no». Margherita Hack, astrofisica annega nell’ironia la delusione per il fatto che non si sia trovata in tutto il paese neanche una donna da mettere tra i 10 saggi.
Donne così poco sagge?
«Io veramente vedo pochi saggi in giro in generale, donne o uomini che siano, ma parlando seriamente è assurdo. Il nostro paese è pieno di donne serie, competenti, che guidano aziende e città. Eppure, nonostante i fatti, resta più forte la cultura latina ».
La cultura più forte della realtà?
«Assolutamente sì, almeno da noi. Se anche un uomo aperto, democratico, intelligente e sicuramente non contro le donne come Napolitano se le dimentica quando deve decidere in fretta, è colpa delle cultura tradizionale, dei costumi. Se si dimentica che metà del paese è donna è proprio un brutto segno. Perché è una scelta inconscia, è quindi ancor più radicata».
Ci cancellano dall’inconscio?
«Beh, dico solo che questa dimenticanza, proprio perché accaduta mentre si prendeva una decisione se non di istinto sicuramente in velocità, è indice di un costume molto radicato nella mentalità, nell’inconscio maschile e collettivo. Che porta a non vedere quello che facciamo, le città che amministriamo con cura, attenzione e capacità».
Costumi sotto accusa?
«Non si cancellano in pochi anni secoli di cultura maschile che ci vede inadatte a certi ruoli, che proprio non ci immagina ai posti di comando nonostante ci siamo già nei fatti: vedi sindaci donna, le capitane di industria e leader dei sindacati. Insomma non solo cultura e accudimento come vorrebbe qualcuno».
Che fare per cambiare?
«Bisogna cominciare dai più piccoli, dall’educazione dei bambini. Ancora in troppe famiglie oggi c’è un’educazione diversa per maschi e femmine»
Educazione diversa?
«Alle donne non si chiede di puntare al massimo, di essere competitive, di mirare alla carriera. La capacità organizzativa ce l’abbiamo già in abbondanza, quello che manca alle donne oggi casomai un po’ di sana competitività, ma non gliel’hanno insegnata. Forse faceva più comodo tenerle buone».
Lei che sagge avrebbe voluto?
«Sicuramente Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia, ma capisco la difficoltà del presidente a decidere su due piedi, in velocità».
E come presidente della repubblica?
«La Finocchiaro mi andrebbe bene»

Repubblica 3.4.13
Confermata la condanna: “Deve intervenire prima e dopo”
La Cassazione: “Il medico obiettore non può negare le cure a chi abortisce”


ROMA — Un medico che si dichiara obiettore di coscienza non può rifiutarsi di curare la paziente che si è sottoposta ad aborto volontario in ospedale. Lo sottolinea la Cassazione, che ieri ha confermato la condanna per omissione di atti d’ufficio a una dottoressa della provincia di Pordenone che, pur essendo di guardia e nonostante le sollecitazioni del primario, non aveva voluto assistere una donna che aveva abortito e che era a rischio di emorragia.
Per la sesta sezione penale della Suprema Corte, il medico obiettore ha «il diritto di rifiutare di determinare l’aborto, ma non di omettere di prestare assistenza prima o dopo» in quanto deve «assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell’intervento di interruzione di gravidanza ».
Per gli ermellini l’obiezione di conoscenza «non esonera il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento».

Repubblica 3.4.13
Il fisco chiede 344 milioni a Mediolanum
Nel mirino dell’Agenzia delle Entrate i rapporti con la controllata irlandese
di Luca Pagni


MILANO — Tutta colpa della tigre celtica. Di un tentativo di patteggiamento non andato a buon fine. Nonché di un conto che continua a salire a causa degli interessi e degli accertamenti che non si sono ancora conclusi. Tutto questi elementi messi insieme potrebbero avere un costo di 324 milioni di euro. E che potrebbe lievitare se i ricorsi presentati da Mediolanum contro l’Agenzia delle entrate non si concluderanno con una vittoria per la società controllata alla pari dal banchiere Ennio Doris e dalla Fininvest della famiglia Berlusconi.
La storia, nelle sue linee fondamentali, si trascina da qualche anno. Da quando sono iniziati i controlli sulla società guidata dal manager che nelle pubblicità televisive si presenta sempre in doppiopetto, diffondendo ottimismo pure in questi ultimi anni di recessione. Anche perché la sua società non ne ha sofferto più di tanto (351 milioni di utile l’anno scorso). Soprattutto da quando la stragrande maggioranza delle attività di Mediolanum sono state trasferite in Irlanda. Aprendo, però, il contenzioso con il fisco italiano.
Ma andiamo con ordine. Nel bilancio 2012 appena depositato, è stato pubblicato l’aggiornamento della vicenda iniziata con i primi controlli datati ormai 2005 e proseguiti almeno fino al 2009. Nei conti dell’anno scorso si legge che Mediolanum si è vista recapitare avvisi di accertamento per il periodo 2005-2007 per 323,4 milioni, comprensivi di imposte non pagate e sanzioni, cui si aggiungono altri 20,8 milioni già contestati per il 2010.
Ma cosa è accaduto? Come altre società di gestione del risparmio anche Mediolanum ha trasferito all’estero buona parte delle sua attività “industriali”. La società di Doris e Berlusconi a inizio anni Duemila ha creato Mediolanum International Funds attiva in Irlanda, sfruttando la tassazione ridotta per le società concesse dal governo di Dublino. Da qui vengono confezionati i prodotti finanziari poi distribuiti e venduti dalla rete Mediolanum. L’Agenzia delle entrate contesta il livello di retrocessione delle commissioni - fatte pagare per il servizio - dall’Irlanda alla capogruppo in Italia. Il sospetto è che il gruppo tenga una parte dei ricavi sull’isola così da sfruttare la mano più leggera del fisco irlandese (il tax rate 2012 è del 29,9%).
Una prassi tenuta dalla maggioranza delle società di gestione del risparmio in Italia: secondo il dato del 2011, il patrimonio netto gestito da fondi di diritto estero collocati nel nostro paese da fondi italiani aveva un incidenza del 57 per cento sul totale delle masse. Soltanto nel 2005 era solo del 30 per cento.
Per il fisco italiano, però, Mediolanum avrebbe esagerato tenendo troppo basso il livello delle retrocessioni. La società contesta il fatto, sostenendo di rientrare «nel range di valori di libero mercato individuati da economisti indipendenti». Definisce l’analisi del fisco «illegittima» ed «errata». E ha deciso di attivare la procedura arbitrale europea sulle doppie imposizioni e rimettere la «soluzione della controversia alle autorità fiscali irlandesi e italiane», come si legge nel bilancio.

Repubblica 3.4.13
Ustica, l’inchiesta ora punta sul missile dal mare
Dopo le rivelazioni del supertestimone. La Francia risponde alla rogatoria, ma non sulla portaerei
di Federica Angeli


ROMA — Un missile partito dalla misteriosa portaerei che sostava nel mar Tirreno la notte del 27 giugno 1980 oppure un missile lanciato da un aereo da guerra che si è alzato in volo proprio da quella portaerei. Il cerchio comincia a stringersi attorno all’esecutore materiale della strage di Ustica. E, a 33 anni dalla morte degli 81 passeggeri del DC9 dell’Itavia, le indagini della procura di Roma — coordinate dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal pubblico ministero Erminio Amelio — si sono concentrate proprio su questa importante (e mai fino a oggi accertata) presenza. È per questo che al vaglio della magistratura ci sono segnali radar registrati dalle capitanerie di porto italiane, navi in mare che possono aver captato la presenza di quella portaerei e testimonianze di piloti civili che sorvolarono quei cieli nei giorni, e nei minuti, che hanno preceduto il disastro. I riflettori degli inquirenti sono puntati “a bassa quota”, a differenza del mastodontico lavoro portato avanti negli anni passati che puntò, principalmente, sugli spazi aerei e su quello che poteva essere avvenuto sopra il livello del mare.
Ma una svolta davvero importante potrebbe arrivare dall’esito delle rogatorie inviate, da due anni ormai, a Francia, Belgio, Stati Uniti e Libia. Proprio qualche giorno fa il governo francese ha trasmesso ai magistrati romani un dossier con una parziale risposta alla rogatoria inoltrata. Risposte sul traffico aereo del 27 giugno 1980 che ora i magistrati Monteleone e Amelio stanno studiando attentamente. Però sulla posizione della Clemenceau, la portaerei francese “sotto accusa” che quel giorno poteva trovarsi nei nostri mari, ancora nessuna risposta.
Nel 2007 Francesco Cossiga, che nell’anno della strage era presidente del Consiglio, rivelò ai magistrati che ad abbattere il DC9 fu un velivolo dell’Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau. Disse di aver appreso la notizia dai servizi segreti. Fondamentale diventa dunque per la magistratura italiana mettere le mani sulla portaerei in forza alla marina militare francese sulla quale aleggia un grande mistero. «La Francia — ricorda il giudice Rosario Priore, titolare della prima inchiesta su Ustica — ci ha sempre risposto che nessuna delle sue due portaerei (la Foch e la Clemenceau) si trovava nel mar Tirreno nel giorno del disastro, ma che erano in porto, probabilmente quello di Tolone. Una terza, sempre francese, la “De Gaulle” sulla quale indagai, era quella a propulsione nucleare dislocata nell’Atlantico. Volli verificare — prosegue il magistrato — se si era potuta spostare fino da noi: invece non si mosse da lì. All’epoca la procura di Palermo lavorò molto sulla Saratoga, la portaerei americana che era all’altezza del golfo di Napoli. Ma la certezza che un po’ più a sud e al largo si trovasse un’altra portaerei la avemmo grazie a una relazione della Nato, che si può leggere anche nella mia sentenza. La Nato accertò che esisteva un movimento di aerei impressionante nel mar Tirreno: velivoli che decollavano a pelo d’acqua e poi riatterravano. Certo è che quegli aerei non scendevano a picco nel mare ma per forza dovevano appoggiarsi a una portaerei ». La Clemenceau potrebbe essere la portaerei che il supertestimone — un comandante dell’Alitalia — ascoltato qualche giorno fa in procura dice di aver visto dopo il decollo dall’aeroporto di Palermo? «È un racconto attendibile e circostanziato quello del supertestimone — ha dichiarato il giudice Ferdinando Imposimato che della vicenda di Ustica si occupò tra il 1987 e il 1992, come membro del Copaco, Comitato parlamentare di controllo dei Servizi segreti — si integra perfettamente con quanto è stato accertato negli ultimi tempi ovvero con l’ipotesi di un missile partito da un aereo o una portaerei. Attendiamo le indagini dei magistrati romani e le verifiche. Spero solo che non vengano apposti segreti di Stato. Questo bloccherebbe ancora una volta le indagini per accertare la verità. Ustica è ancora una ferita aperta».

l’Unità 3.4.13
Pillola gratuita in Francia per le ragazze minorenni


Contraccettivi gratuiti per le ragazze francesi tra i 15 e i 18 anni.A partire dal primo aprile, saranno distribuite le pillole anticoncezionali di prima e seconda generazione, come promesso dal presidente Hollande durante la sua campagna elettorale. I farmaci potranno essere ottenuti nelle farmacie dietro la presentazione della prescrizione medica e della Carte Vitale, la tessera di assicurazione sanitaria francese. Tutti i costi saranno a carico del servizio sanitario e verrà garantito l’anonimato, cosa possibile con il precedente sistema solo facendosi individualmente carico delle spese per la visita specialistica.
L’intenzione del governo transalpino è di ridurre drasticamente il numero di aborti tra le adolescenti, che ora raggiungono quota 12mila ogni anno. Finora, il costo delle pillole anticoncezionali era rimborsato solo per il 65% del suo prezzo, con una carico per le casse dello Stato pari a circa 6 milioni di euro annui. La distribuzione gratuita comporterà una spesa ulteriore di 5 milioni di euro.
Sempre a far data dal primo aprile scatta anche la totale gratuità degli interventi di interruzione volontaria della gravidanza, come previsto da una legge approvata a fine 2012. La normativa precedente prevedeva una copertura pari all’80 per cento del costo della procedura, che può arrivare fino a 450 euro. Per le casse dello Stato si stima un ulteriore aggravio di 31,7 milioni di euro per il primo anno.
Sia contraccezione che aborto gratuito hanno l’obiettivo di garantire una maggiore tutela delle ragazze e delle donne. In particolare per le più giovani, l’intenzione del governo è di raggiungere quella fascia meno informata e meno abbiente e perciò più esposta al rischio di gravidanze indesiderate.
L’aborto è consentito in Francia fino alla dodicesima settimana di gestazione.

Repubblica 3.4.13
La farmacia dei poveri
La rivolta contro Big Pharma
Dopo l’ok dell’India all’anti-cancro low cost, i paesi emergenti sfidano le multinazionali. In nome del diritto alla salute
di Ettore Livini


La salute non ha prezzo. E i giganti della farmaceutica, dopo aver macinato profitti vendendo pillole e sciroppi (spesso a peso d’oro) ai ricchi del mondo, rischiano di vivere il loro Vietnam in quello che, ironia della sorte, doveva essere il nuovo Eldorado del farmaco: i paesi emergenti e quelli del Terzo mondo. Il via libera dell’India all’anti-cancro low-cost che farà concorrenza al Glivec della Novartis – prezzo 175 euro al mese contro i 2.600 del rivale “griffato” – è solo l’ultimo episodio. Davide si è ribellato a Golia. E dall’Indonesia alle Filippine, dal Brasile alla Thailandia fino all’Argentina, l’ex-Terzo Mondo ha ribaltato la logica: la salute, è vero, non ha prezzo. E visto che milioni di cittadini di questi paesi non hanno i soldi per pagare le medicine salva-vita (il 40% degli indiani vive con meno di 1,25 dollari al giorno) a metterceli d’ora in poi dovrà essere
Big Pharma. A suon di sconti o rinunciando ai suoi preziosissimi brevetti. Con le buone o, come succede sempre più spesso, con le cattive.
Le regole del gioco
La questione etica che sta dietro a questo braccio di ferro, vecchia come il capitalismo, è semplice. L’industria – che sostiene di spendere circa 60 miliardi l’anno nella ricerca di nuove molecole – pretende che i suoi investimenti diano profitti. I paesi più poveri (o gli ex-poveri) – supportati da decine di Ong – sventolano la bandiera del diritto alla salute. Quella legge non scritta secondo cui – per dirla con Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri – «non si può negare una medicina fondamentale per ragioni di prezzo». Come far convivere queste due esigenze opposte? Il mondo ha provato a dare una risposta con la Dichiarazione di Doha: i trattati del libero scambio del Wto riconoscono all’industria farmaceutica 20 anni di brevetto per i principi attivi che escono dai suoi laboratori di ricerca. Ma in casi particolari, nel nome della “difesa della salute pubblica” è consentito a singoli stati derogare a questa norma garantendo licenze per produrre farmaci-fotocopia in versione low-cost. Un diritto fatto valere con successo dal Sudafrica nel 2001 per fronteggiare l’Aids e persino dagli Stati Uniti quando lo stesso anno, in piena emergenza antrace, hanno minacciato la Bayer di dribblare il brevetto sul Ciproflaxin. Ottenendo dai tedeschi un super-sconto sulle forniture.
Chi vince e chi perde
Il quadro di regole scritto dal Wto ha dato però risultati in chiaroscuro.
Certo c’è stato qualche caso – come ad esempio quello dei farmaci per l’Aids – dove la “concertazione” tra aziende e paladini del diritto alle cure ha portato risultati importanti: l’Unitaid, nata sotto l’egida dell’Onu, ha ottenuto sconti fino all’80% sugli anti-Hiv da girare poi al Terzo Mondo («segno di come i prezzi di listino siano spropositati», dice Garattini).
A far davvero bingo però è stata Big Pharma: le primi cinque aziende del settore hanno guadagnato nel 2012 oltre 50 miliardi di dollari, qualcosa come 136 milioni al giorno. I colossi Usa hanno in cassa 100 miliardi di liquidità e Novartis, prima dello smacco di New Delhi, ha gratificato senza batter ciglio il suo presidente dimissionario Daniel Vasella con una buonuscita (rifiutata dal manager) da 60 milioni. L’attività di lobby, 100 milioni di spesa l’anno solo negli Usa secondo i dati del Center for public integrity, ha difeso bene lo scudo dei brevetti. Di più: molte aziende grazie a operazioni di banale “alchimia chimica” – dicono i critici – hanno ottenuto l’estensione dei monopoli su «medicine di cui c’è in realtà un bisogno disperato per i pazienti più poveri» come dice Unni Karunakara, presidente di Medici senza frontiere.
«La verità è che inventare un farmaco ci costa tantissimo – replica Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria –. Oltre un miliardo di euro. E uno solo su 10 arriva sul mercato. Il brevetto è il paracadute che ci consente di continuare a scoprirne di nuovi e il mondo ne ha bisogno come il pane, visto che il 90% delle medicine è prodotto da privati».
La “guerra dei poveri”
Il vento però sembra ora essere girato. Brasile, India e Cina hanno iniziato a mettere in piedi una fiorente industria di farmaci low-cost, i cosiddetti generici, che costano
un decimo degli “originali” di cui è scaduto il brevetto. Le Ong hanno imparato a muoversi tra i labirinti legali dei trattati sul libero commercio. E per Big Pharma sono iniziati i guai. A muovere le acque sono stati Brasile e Thailandia minacciando di concedere licenze straordinarie ai loro produttori per combattere il carofarmaci dell’Aids. Portando a casa buoni risultati: la Abbott, ad esempio, è stata costretta dalla sera alla mattina a dimezzare da 2.200 dollari a mille il prezzo di una dose annuale del suo Kaletra a Bangkok.
I primi successi hanno fatto scuola: Susilo Bambang Yudhoyono, presidente dell’In-
donesia, ha appena approvato sette nuove licenze per bypassare i brevetti farmaceutici in caso di Aids (solo 23mila dei 70mila malati di Hiv a Jakarta possono permettersi le cure di cui hanno bisogno). Idem le Filippine. L’Argentina ha varato un giro di vite sul rilascio di nuovi brevetti. E la sentenza indiana contro Novartis ha alzato ulteriormente l’asticella per Big Pharma negando in sostanza l’allungamento di un brevetto perchè il nuovo anti-cancro della Novartis era solo una copia quasi identica al suo predecessore. «La soluzione è il dialogo – dice conciliante Scaccabarozzi – L’industria non va demonizzata. Il problema dell’accesso ai farmaci per le nazioni più povere c’è e molte aziende, ad esempio, hanno rinunciato ai loro brevetti per dare una mano ai paesi africani».
I timori di Big Pharma
Ai piani alti di Big Pharma, però, la rivolta di Davide contro Golia ha fatto scattare l’allarme rosso. Tra oggi e il 2016 scadranno brevetti su medicine che generano 200 miliardi di ricavi, le vere galline dalle uova d’oro dei loro conti. India e Cina – le nuove regine dei farmaci low cost – forniscono da sole già l’80% dei principi attivi utilizzati poi dai giganti di settore negli Usa. E i generici (l’unico prodotto alla portata dei malati dei paesi più poveri, non a caso grandi clienti della farmaceutica a basso costo di Nuova Delhi) arriveranno a rappresentare il 65% dei ricavi nelle nazioni emergenti.
«La decisione della Corte suprema indiana è una sconfitta per i malati e Novartis sarà cauta nei suoi investimenti in quest’area», ha detto a caldo Ranjiit Shahani, numero uno dell’azienda svizzera nel subcontinente. Peccato che il mondo stia cambiando. E che con i bilanci sanitari dei paesi più ricchi sotto pressione, nessuno dei giganti della farmaceutica possa davvero permettersi di snobbare, malgrado le sberle legali di questi giorni, l’Eldorado di Bric e dintorni che da oggi al 2016 saliranno dal 20 al 30% del mercato della salute mondiale.
«L’arroganza delle multinazionali » – copyright di Garattini – si trasformerà con realismo in quel «negoziato con tutti i singoli governi » auspicato da Scaccabarozzi. Tradotto in soldoni, Big Pharma modererà le sue pretese. E «molti malati dei paesi più poveri – come ha commentato Leena Menghaney, legale di Medici senza Frontiere dopo la sentenza indiana – potranno davvero dormire in futuro sonni più sereni».

Repubblica 3.4.13
Davide sfida Golia. Il potere dei diritti conquista la scena
di Stefano Rodotà


Questa impostazione è stata rovesciata. Proprio dai diritti fondamentali bisogna prendere le mosse e le regole giuridiche sono lo strumento al quale è affidata la loro concreta realizzazione. I diritti fondamentali non sono più un’astrazione, ma la manifestazione nel mondo dei bisogni primari d’ogni persona. Non a caso parliamo di diritti di cittadinanza, dalla salute all’istruzione e al lavoro, che devono accompagnare la persona in ogni momento e in ogni luogo in cui essa si trovi.
Da dove sono partiti i giudici indiani? Dal diritto alla salute, divenuto davvero «il più fondamentale dei diritti fondamentali», dunque un diritto che non può essere sacrificato alle compatibilità economiche, ma diviene esso stesso misura e criterio per la legittimità della logica di mercato. In esso s’intrecciano eguaglianza e dignità. Quando la possibilità della cura, alla quale si lega lo stesso rimanere in vita della persona, dipende dalle risorse finanziarie che ciascuno è in grado di investire, ecco rinascere la cittadinanza «censitaria »: ho tanti diritti quanti ne posso comprare sul mercato.
Si può accertare questa certificazione della diseguaglianza, soprattutto quando essa si converte nella negazione del diritto alla vita? La risposta negativa venuta dalla Corte suprema dell’India, legittimando la produzione di un farmaco a un prezzo enormemente inferiore a quello imposto dalla Novartis sulla base di una sua interpretazione dei diritti di brevetto, consente di rimuovere un ostacolo di fatto, il prezzo del farmaco, che impediva alle persone di accedere a quel che è necessario per la stessa sopravvivenza. Non ho adoperato a caso le parole “rimuovere” un ostacolo, che vengono dritte dall’articolo 3 della nostra Costituzione, che in tal modo conferma la sua lungimiranza e attualità. Un compito non a caso affidato alla Repubblica, anticipando così quello che, a livello internazionale, è stato via via definito come un obbligo degli Stati di mettere le persone in condizione di accedere ai farmaci necessari.
La decisione indiana, tecnicamente, ha alcune peculiarità, ma deve essere considerata come parte di un movimento che da anni si è mosso proprio in questa direzione, sfidando la logica delle società farmaceutiche, e che ha avuto manifestazioni assai significative in un notissimo intervento della Corte suprema sudafricana, nelle diverse pratiche adottate dai governi brasiliano, argentino, colombiano. Una linea, dunque, elaborata nei paesi di quel che si continua a indicare come il “Sud del mondo”, ma che ormai non può più essere considerata come espressione di condizioni del tutto autoctone, non trasferibili in una più larga dimensione mondiale. In quell’area, che si distende dall’America latina fino all’India e alla Thailandia, è venuta progressivamente emergendo una elaborazione culturale e politica che ha diretto riferimento alla vita materiale, che può essere definita come “costituzionalismo dei bisogni” e che ormai è destinata ad incontrarsi con il classico costituzionalismo dei diritti occidentale.
L’intervento della Corte suprema dell’India dà evidenza a questa nuova situazione e impone di riflettere su alcune sue caratteristiche. Di fronte al potere delle grandi imprese transnazionali, Big Pharma o Big Data che siano, si manifesta la nuova potenza dei diritti, che dà fondamento alla possibilità di esercitare controlli supoteri altrimenti ritenuti del tutto autoreferenziali, produttori esclusivi di diritto, affrancati da ogni responsabilità e controllo. Sono sempre più spesso le corti supreme dei diversi Stati a dare concretezza a questi controlli, sulla base di nuovi principi comuni, come la dignità della persona, e di specifiche leggi approvate grazie alla spinta di concrete lotte per i diritti (è il caso indiano). Non a caso si parla di una “global community of courts”,
nella quale si riflette questo nuovo assetto dei poteri planetari.
Ma un punto essenziale è costituito dal modo in cui si stabiliscono le relazioni tra i diritti e i beni necessari per renderli effettivi. La sequenza è ormai chiara, e ci porta verso la individuazione delle caratteristiche di quei beni, che non possono essere accessibili solo attraverso la logica del mercato. Questi sono i beni “comuni”, tra i quali emerge con nettezza sempre maggiore la conoscenza, che non può essere “recintata” per impedirne l’utilizzazione diffusa, come accade con le pretese di estendere senza confini il brevetto e il diritto d’autore.

l’Unità 3.4.13
L’autore de «L’albero di limoni» racconta del popolare cantante palestinese arrestato con l’accusa di aver lanciato pietre agli israeliani
Canta il dolore palestinese, rischia dieci anni in cella
di Sandy Tolan


Oday al-Khatib, ventiduenne nato e cresciuto nel campo profughi di Al Fawwar nei pressi di Hebron, è stato arrestato il 19 marzo dai soldati israeliani sulle tracce di alcuni giovani lanciatori di pietre della zona. Oday è un cantante di Al Kamandjati la celebre scuola di musica con sede a Ramallah fondata nel 2005 da Ramzi Aburedwan e si è esibito assieme a vari ensemble di musica araba in Francia, Belgio, Libano, Norvegia, Italia, Palestina, Dubai, Algeria, e Austria. (Ramzi e Al Kamandjati costituiscono l'oggetto principale del mio nuovo libro, all'interno del quale anche la storia di Oday occupa un posto di rilievo).
Le circostanze in cui pare essersi svolto il suo arresto gettano un dubbio sulle accuse. Stando alle interviste rilasciate dai genitori, Oday stava aspettando un amico su una collina di Al Fawwar, e non faceva parte dei lanciatori di pietre. Jihad Khatib, il padre di Oday, ha riferito a un rappresentante di zona del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem: «Mentre Oday aspettava, alcuni ragazzi hanno lanciato delle pietre contro dei soldati che si trovavano nella zona. Quando i soldati si sono messi a inseguire i ragazzi, non gli è nemmeno passato in mente che se la potessero prendere con lui. Altrimenti sarebbe scappato».
Sia la madre di Oday, in una conversazione con Celine Dagher di Al Kamandjati, che suo padre, in un’intervista con la collega Anan Abu-Shanab, hanno sottolineato che Oday non credeva di essere l’obiettivo dei soldati. Ciò che fa apparire discutibili le accuse contro Oday è che, secondo quanto riferisce Celine, non era mai stato arrestato né incarcerato prima. Per molti palestinesi lanciare pietre contro i soldati che hanno invaso il loro territorio fa parte di una lunga tradizione di legittima resistenza contro 47 anni di occupazione militare illegale.
Benché a partire dal 2002 i fratelli di Oday si siano scontrati più volte con i soldati israeliani dopo che uno di loro, Rasmi, è stato colpito alla spalla nel cortile di una scuola di Al Fawwar e ha perso l’uso del braccio sinistro Oday ha esercitato la sua resistenza contro l’occupazione israeliana con il canto. «Oday non è come i miei altri figli», ha riferito Jihad alla corte militare. «Non gli interessa lanciare pietre né vuole essere coinvolto in cose di questo genere. Da quando ha nove anni, gli interessa solo la musica. Tenere Oday in carcere è un’ingiustizia pura e semplice».
Certo, Oday è solo uno tra le migliaia di palestinesi imprigionati da Israele. Secondo B’Tselem, a febbraio i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane erano 4713, tra i quali 169 in stato di «detenzione amministrativa», che permette a Israele di incarcerare i palestinesi per un periodo di tempo indefinito senza alcun capo d'accusa. In alcuni casi, la pena per aver lanciato pietre supera i dieci anni e, secondo quanto riporta un rapporto dell’Unicef, viene applicata anche a ragazzi di 14 anni.
Ad Al Fawwar, Oday ha dietro di sé una lunga fama come interprete di canzoni della resistenza palestinese. Nel 2003, è stato «scoperto» da Ramzi e da un gruppo itinerante di musicisti francesi che stavano tenendo dei workshop in Palestina, nel tentativo di preparare il terreno per la scuola di musica, che ha poi aperto nel 2005. Quell’anno, Oday inizia ad esibirsi in tourné con Ramzi e la sua band, i Dalouna, emozionando il pubblico francese con una presenza carismatica, una kefiah al collo e la sua potente voce di ragazzino soprano. Aveva solo 14 anni Oday quando è salito per la prima volta su un palco francese e da dietro la tenda ha preso a sbirciare quasi un migliaio di persone in attesa di sentirlo cantare. I colleghi del gruppo Dalouna ricordano che non aveva nessun problema a usare la voce come uno strumento per inserirsi tra percussioni, oud, clarinetto e buzouk. In quell’occasione, cantò «Lo straniero», il suo cavallo di battaglia, scrutando negli occhi della folla per entrare in sintonia con il pubblico. «Ramzi mi disse di cantare con il cuore», mi ha raccontato la scorsa estate Oday. «Volevo che capissero la mia vita. Ho guardato nei loro occhi con un’emozione particolare. Mi hanno ascoltato davvero. Dal modo in cui li guardavo, potevo capire se gli piaceva o no».
«Portò una calma sorprendente nella sala», ricorda Ramzi. «La gente se ne stava lì, con la bocca aperta. Quelli che capivano l’arabo, si misero a piangere. Persino una ragazza francese, che ne aveva colto la tristezza, cominciò a piangere».
Il 13 marzo, sei giorni prima del suo arresto, Celine ha visto Oday cantare in diretta tv da Nablus. L’occasione era il premio Mahmoud Darwish, dal nome del celebre poeta palestinese. «Io e Ramzi lo stavamo guardando in tv e ho detto a Ramzi che c'era qualcosa di strano, Oday non cantava come al solito», ricorda Celine.
Dopo il concerto, Oday è tornato a Ramallah. Ha detto a Ramzi di non essere riuscito a concentrarsi sul canto, perché continuava a pensare al suo amico Mahmoud Altiti, di Al Fawwar, ucciso da un soldato israeliano il giorno precedente durante degli scontri nel campo. Non molto prima, Mahmoud aveva notato che sia la sua famiglia che quella di Oday stavano aggiungendo un piano alle loro case. Mahmoud allora aveva detto a Oday che un giorno non lontano entrambi sarebbero divenuti padri. «Vedremo i nostri figli scorrazzare per il campo».
È stata quella l’ultima volta che Ramzi e Celine hanno sentito Oday cantare. Il suo processo militare è previsto per oggi. Il tasso di condanna per casi di questo genere, stando a un recente articolo del New York Times Magazine, è stato nel 2010 del 99,74 %; in altre parole, solo un imputato su 400 è stato dichiarato innocente. Se condannato per aver lanciato delle pietre a dei soldati impegnati in un'occupazione militare internazionalmente riconosciuta come illegale Oday Al Khatib, acclamato cantante noto in tutta la Palestina e in Europa, potrebbe passare più di dieci anni in una prigione israeliana.
Traduzione Dimitri Chimenti

Corriere 3.4.13
«Apocalisse dell'aria»
Un milione di cinesi uccisi dallo smog La quarta causa di morte
di Guido Santevecchi


PECHINO — Un milione e duecentomila cinesi sono morti prematuramente nel 2010 per malattie collegate all'inquinamento dell'aria. Il numero è impressionante, come tutti quelli che vengono dal Paese che conta poco meno di un quinto della popolazione mondiale. Ma questi sono particolarmente gravi, perché rappresentano il 40 per cento dei 3,2 milioni di morti premature causate dallo smog nel mondo.
La statistica è stata elaborata dalla University of Washington in collaborazione con l'Organizzazione mondiale per la sanità e presenta un'altra cifra apocalittica: quella dei 25 anni di vita in salute bruciati dalla cappa di aria malata che avvolge molte città della Cina. Lo studio è stato pubblicato per la prima volta a dicembre dalla rivista britannica The Lancet, che aveva fornito il numero complessivo dei decessi nel mondo. Ma gli autori adesso hanno deciso di sottolineare come i due Paesi più colpiti siano la Cina, con i suoi 1,2 milioni di vittime, e l'India con 620 mila morti premature: «Lo abbiamo fatto per richiamare l'attenzione dei leader di questi due grandi Paesi», ha detto al New York Times Robert O'Keefe, vicepresidente dello Health effects institute, che è venuto a Pechino a presentare il rapporto.
I ricercatori hanno spiegato che il degrado ambientale in Cina è al quarto posto tra i fattori di rischio mortale dopo una dieta alimentare sbagliata, la pressione del sangue alta e il fumo di sigaretta. Nel mondo l'inquinamento è invece «solo» il settimo fattore di rischio. In realtà la nebbia gialla composta da emissioni industriali, combustione di carbone e gasolio per riscaldamento, gas di scarico delle auto, polveri messe in circolazione dalle miriadi di cantieri, è diventata un argomento di dibattito in Cina proprio nell'inverno appena finito. Per settimane, tra dicembre e febbraio, il cielo di Pechino e di molte altre città delle province centro-meridionali è stato offuscato. Si è scoperto che la causa è il Pm 2,5: particelle di inquinamento del diametro di 2,5 micron, le più dannose per i polmoni. L'Organizzazione mondiale per la sanità raccomanda di non vivere in ambienti che superino il livello 20 per metro cubo di aria e sostiene che quota 300 è estremamente pericolosa: Pechino ha trascorso un gennaio stabilmente sopra 500 e ha toccato 755 di Pm 2,5 il 12 gennaio.
All'allarme per l'aria malata si è aggiunto quello per l'acqua: nel fiume che alimenta la rete idrica di Shanghai sono state trovate le carcasse di oltre 16 mila maiali. E quando la gente ha protestato, le autorità hanno risposto che non era il caso di allarmarsi, perché «lo stato dell'acqua non era peggiorato a causa dei suini in decomposizione». Poi è stata la volta della moria delle anatre: un migliaio sono state ripescate in un fiume del Sichuan. Senza che nessuno sapesse spiegare la causa della morte.
Il problema dunque è diventato centrale per la nascente opinione pubblica cinese. Tanto da essere incluso nel piano quinquennale del governo. E addirittura, un segnale di grave inquietudine per l'inquinamento è venuto dall'Assemblea del Popolo, abituata a mettere un timbro su tutte le scelte del gruppo dirigente del partito: a marzo, dopo aver accordato il 99,8 per cento dei consensi alle nomine a presidente di Xi Jinping e a premier di Li Keqiang, i circa 3 mila deputati hanno espresso 850 no e 140 astensioni sui membri della commissione ambientale.
Il premier Li Keqiang sembra sincero quando dice che «non dobbiamo più inseguire la crescita industriale a spese dell'ambiente, perché non è buono essere poveri in una natura meravigliosa, ma non è buono neanche essere ricchi in un ecosistema degradato. E in definitiva respiriamo tutti la stessa aria, poveri, ricchi e governanti». Ma alcuni milioni di cinesi saranno morti per l'inquinamento prima di sapere se Li avrà mantenuto l'impegno.
Per esorcizzare la paura, sul web cinese circola una barzelletta: «Che vogliamo di più? Basta aprire un rubinetto e esce zuppa di maiale, ne apri un altro ed ecco il brodo d'anatra».

La Stampa 3.4.13
“Avventura nel cervello” Parte il progetto “Brain”
Obama dà il via allo studio per svelare i misteri della mente
«Una mappatura che parte dalle cellule e arriverà ai pensieri»
La strategia è quella di far interagire scienza, high tech e business
Lo stanziamento iniziale è di 100 milioni di dollari
di Maurizio Molinari


C’ è un enorme mistero che aspetta di essere svelato». Dalla East Room della Casa Bianca il presidente americano Barack Obama presenta l’iniziativa «Brain», il cui intento è consentire alla scienza di impossessarsi dei segreti del cervello al fine di sconfiggere malattie come l’epilessia, l’autismo e l’Alzheimer. Lo stanziamento iniziale da parte del governo federale è di 100 milioni di dollari, ma si tratta solo «dell’inizio di un percorso», destinato a durare decenni, perché l’obiettivo «ambizioso ma realistico» è arrivare a «comprendere in quale maniera le persone pensano, apprendono e ricordano», come dice il Presidente.
Si tratta di arrivare alla completa mappatura del cervello, seguendo e studiando i comportamenti delle cellule per arrivare alla genesi del pensiero e dei comportamenti dei singoli esseri umani. Una sfida che sa di fantascienza, ma che per Obama è oggi un orizzonte possibile da raggiungere grazie ai passi avanti compiuti nel settore delle nanotecnologie. Per riuscire nell’intento la «Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies» (di cui l’acronimo è Brain, cervello) punta infatti sullo sviluppo di una nuova generazione di strumenti ad alta tecnologia grazie alle sinergie fra mondo accademico, comunità scientifica, enti filantropici e il «Darpa», l’avveniristico ufficio studi del Pentagono.
La scommessa di Obama è di innescare un volano fra scienza, impresa e accademia, capace di «generare le idee che costituiscono la maggiore forza della nostra economia», seguendo il modello di quanto avvenuto con la ricerca sul Genoma, dove «ogni dollaro che abbiamo investito ne ha fatto tornare 140 nel sistema produttivo». Obama aveva annunciato il «Brain» in occasione del discorso sullo Stato dell’Unione ed ora spiega cosa ha in mente: «Puntiamo a scoperte significative relative a come è possibile curare malattie psichiatriche e neurologiche grazie ad una nuova generazione di strumenti che consentono di studiare i segnali emessi dalle cellule in quantità superiori, ed a velocità maggiore, di quanto finora avvenuto». Si tratta di progressi che nei laboratori americani sono stati già raggiunti e consentono ora di lanciare la prima delle «grandi sfide» che Obama vuole inaugurare per lasciare in eredità ai successori una nazione destinata a rimanere leader nella ricerca nel XXI secolo e, dunque, in grado di moltiplicare investimenti e posti di lavoro in questo settore dell’economia. I documenti diffusi dalla Casa Bianca per l’occasione descrivono l’approccio del Presidente: «Stiamo disegnando obiettivi che non possono essere raggiunti adesso ma che, perseguendoli, porteranno allo sviluppo di tecnologie all’intersezione fra la nanoscienza, l’ingegneria, l’informatica ed altri campi di studio che stanno rapidamente emergendo».

La Stampa 3.4.13
Il guerrigliero di oggi: un fanatico senza ideologia
di Domenico Quirico


Come è cambiata la «petite guerre» dal tempo dei vietcong alla jihad islamica: un saggio ripercorre un’arte vecchia come il mondo

«Arciere, vigliacco! Razza di donnetta, vieni a combattere con me a viso aperto! ». L’imprecazione dell’invincibile Diomede scagliata contro l’effeminato Paride che lo ha colpito da lontano con una freccia, si specchia nel rendiconto disperato, impotente, del generale Cann, comandante dei paracadutisti francesi vittime di un attentato di Hezbollah a Beirut, il 23 ottobre 1983: «Ho appena perso sessantuno dei miei ragazzi, uccisi da NESSUNO». Ecco: la guerriglia, la «petite guerre», la intermittente ma implacabile, eterna, molestia; più antica della guerra. Non una strategia militare, o una ideologia: un modo di vivere, «un’arte», come efficacemente ricorda Gastone Breccia che ne ha scritto, per il Mulino, una incalzante storia globale ( L’arte della guerriglia, 304 pag., 25 euro). Perché la guerriglia è la relazione tra il Forte e il Debole. E il guerrigliero, (che è anche l’insorto, il ribelle, «il terrorista») è più che un soldato. È il guerriero, ferocemente giovane: ovvero un tipo diverso di uomo (lo diceva Guevara un po’ enfaticamente «la più alta forma di specie umana») perché ha attraversato consapevolmente la linea invisibile oltre la quale la morte e non la vita è la principale certezza. Il soldato nella tenebra paurosa, in marcia verso le linee del fuoco conta i giorni che lo separano dal congedo, ha paura di morire, bestemmia: «accidenti alla guerra, perché questa vita da cani? ». Il guerrigliero è moralmente più forte, perché conosce le fatiche dei poveri, e non teme il sacrificio. La ruota del fato compie un altro giro, ma è ancora fatica, è pericolo, è stento. Le loro terre, la Cecenia, l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan, la Siria, il Sahel, sono luoghi in cui i morti superano i vivi. Dove i bimbi crescono nel vortice dei conflitti, si vive secondo un credo diverso, e si raccontano Storia e leggende che appartengono soltanto a loro: qui ci fu una imboscata riuscita, qui i soldati massacrarono un villaggio, là è caduto un compagno eroico. Paesaggi interiori, geografie del dolore e della gloria che appartengono solo a loro, che combattono come si combatte nelle leggende. E alla fine diventeranno miti.
Le guerriglie, la pensavamo retaggio dei tempi delle ideologie, in fondo una forma di lotta di classe: la Spagna ribelle a Napoleone, la Sierra Maestra e la Bolivia di Guevara, la Marcia dei centomila li di Mao e le giungle e le risaie di Giap. Epopee lontane, che sono già Storia. E invece: è capace ancora di turbarci i sonni, ogni giorno, questa volta animata da ben altro fuoco, il fanatismo religioso. Il narco-jihaidista saheliano Mokhtar Belmokthar e il talebano mullah Omar sono i nuovi guerriglieri: micidiali, nonostante non abbiano mai letto il miglior trattato; scritto nel 1957, con precisione elvetica, da un disciplinatissimo ufficiale svizzero e non da un comandante comunista, Hans von Dach, La resistenza totale: avviamento alla guerriglia per tutti .
«L’insorto innovativo» è l’ex soldato sconfitto che risorge come talebano, jihaidista, bandito. La sua identità, che era ieri una ideologia trascendente, il marxismo leninismo, oggi è l’islamismo radicale domani, forse un sincretismo New Age. Non ci sono più centri di gravità e neppure capi carismatici, sparite le gerarchie comuniste degli Anni 60. La guerra popolare è morta, viva la guerra nella Rete! Lo smantellamento di un gruppo non ha impatto, la liquidazione di un capo come Abu Zeid, feroce emiro di Aqmi in Mali, non provoca che un turbamento temporaneo.La dinamica guerrigliera ha paura solo del vuoto. Prevale nelle nuove guerriglie una logica darwiniana, i più feroci, i più abili resistono, gli altri scompaiono. I vietcong combattevano per compagnie e battaglioni, oggi basta un pugno di armati o di kamikaze per dimostrare, giorno dopo giorno, al Forte la permanente capacità di nuocere.
Dopo Falluja nel 2004 la guerriglia rifiuta di tenere un territorio e di occuparsi delle popolazioni che vivono nei loro santuari. Il guerrigliero, come Paride, combatte a distanza, è più che mai senza volto: sabotaggi, cecchini, booby traps, mine, autobomba. Il timore dell’attentato e dell’infiltrazione fa nascere un nuovo urbanismo militare che neppure l’apocalittico teorico della guerriglia urbana, l’italo brasiliano Carlos Marighella, aveva sognato. È il tempo dei check point, muri anti bomba, delle «zone di sicurezza», ghetti di lusso e di calma nel cuore della insurrezione; simbolo della impotenza dell’Occidente di fronte alla guerriglia nuova. Il ribelle voleva appunto separare l’occupante dalla popolazione: c’è riuscito.
La nuova guerriglia ha spezzato quella che si immaginava come l’era occidentale della vittoria permanente: non più umiliazioni dunque, l’Afghanistan russo, il Vietnam di francesi e americani, grazie a una supremazia militare fatta di spese senza limiti e innovazione permanente. Ma non sbagliava Nietzsche: «Niente è più logorante di una vittoria senza fine». I rapporti tra il Debole e il Forte sono in continua evoluzione; e nasce, ancora, la domanda insidiosa; sono loro davvero così deboli e siamo noi realmente così forti?
I nuovi Barbari, nel sud del mondo caotico e incontrollabile, composto da arcipelaghi di miseria e Terrae Incognitae, in preda una violenza senza regole, hanno iniziato a superare il Limes fatto di stati cuscinetto, e sono in grado di colpire il cuore dell’impero. Mentre noi discutevamo, oziosamente, dell’asimmetria della guerra, un pulviscolo di rivolte corre dall’Africa sub-sahariana fino all’Asia passando per il Medio Oriente, e posa la sua forza sul risentimento per l’arroganza occidentale: l’insurrezione globale, la guerriglia globale. La «nebbia della guerra» cara a Clausewitz non sembra mai essere stata così spessa; dalle sabbie del Sahara alle montagne dell’Afghanistan la perdita di efficacia della Potenza classica, la nostra, mal impiegata, si svela impietosamente, militare e politica. Eppure nulla è cambiato: nelle Silicon Valley della guerriglia globale, in Afghanistan in Libano nel Mali in Somalia, «gli insorti» continuano a rifiutare il combattimento che gli occidentali vogliono loro imporre, spostando la lotta dove la forza e la tecnologia diventano quasi inoperanti. I guerriglieri islamisti hanno ben imparato la lezione dei maestri: il loro momento è quello della stabilizzazione, quando nascono diverse forme di «resistenza molle» ma durevole contro l’occupante - liberatore. Il Debole cerca soprattutto di sopravvivere, poi di aggirare la potenza del Forte: non distruzione o conquista, ma perturbazione. I nuovi ribelli hanno fatto, anche loro, una rivoluzione militare, le armi portatili anticarro e antiaerei, ma soprattutto l’aggiramento, nel tempo, della potenza della avversario approfittando delle possibilità offerte dalla rivoluzione della informazione e della contraddizioni di una mondializzazione molesta. Opposti a democrazie avide di vittorie rapide, compromettere la stabilizzazione è già una vittoria. Politicamente la superiorità tattica diventa vana, anzi la sproporzione dei mezzi diventa fonte di disordine, nutre il sentimento di ingiustizia di frustrazione l’odio: tutte armi del guerrigliero. La famosa «conquista dei cuori e delle menti» non si adatta a un uso indiscriminato della forza. L’America, la Nato, Israele occupano senza controllare, senza avere i mezzi di sviluppare, rendere perenni l’azione di sicurezza iniziale che pure sembrava così agevole. Sono guerre «bastarde» che non possono che suscitare il rifiuto; in cui partire è impossibile, restare lo è quasi altrettanto. Le guerre per estendere la democrazia sembrano condannate a mutarsi in guerre di occupazione, nell’era della comunicazione globale c’è una condizione che è peggiore della sconfitta, è la non vittoria.
Il problema, oggi come ai tempi della Vandea o dei partigiani antinazisti, è l’impossibilità di adattare gli eserciti occidentali alla guerriglia. Eserciti costruiti su società dinamiche, preparati meccanicamente per la vittoria veloce e annientatrice. Il tempo della guerriglie è diverso: è lento, paziente, infinitamente sospeso. I soldati americani come dice uno dei loro strateghi Andrew Krepinevitch, «sono dei velocisti costretti a fare i maratoneti».

La Stampa 3.4.13
Così facevan tutti nel Medioevo. Anche i preti
Un libro sulla sessualità nell'Età di mezzo fa giustizia di molti miti: a partire dalla cintura di castità e dallo “ius primae noctis”
«Niente di quel che è naturale è vergognoso, poiché è un dono della creazione»
di Alberto Mattioli


All’epoca le case di piacere erano diffusissime e tollerate dalla Chiesa. Del resto, come informa Jacques Rossiaud nel suo saggio Sexualité au Moyen Age , nel XV secolo, in una città come Digione, il 20 per cento dei clienti erano ecclesiastici

Altro che Maggio ’68. La prima vera rivoluzione sessuale dell’Occidente risale al XIII secolo quando, contro la castità a oltranza predicata dagli eretici, catari in primis, anche i teologi più ortodossi riscoprono il corpo e i suoi piaceri. Già Guillaume de Conches, intorno al 1150, spiegava ai fedeli presumibilmente sollevati che «niente di quel che è naturale potrebbe essere vergognoso, poiché è un dono della creazione. Solo gli ipocriti lo ignorano». Risultato: se certi libri penitenziali carolingi moltiplicano i giorni interdetti al piacere arrivando fino a 250 all’anno, per i canonisti del Duecento ci si deve astenere solo a Natale, a Pasqua, alla Pentecoste e all’Assunzione. Per il sollievo dei frenetici, comunque, i bordelli restano aperti: chiudono unicamente il Venerdì santo.
Questo saggio su Sexualités au Moyen Age di Jacques Rossiaud ha davvero tutti i pregi, compreso quello della sintesi: 126 pagine per sapere quel che non avete mai osato chiedere su usi e costumi (e anche consumi, vista la diffusione della prostituzione) del Medioevo a letto. E per fare piazza pulita dei nostri luoghi comuni, oscillanti fra immagini di cupi predicatori ossessionanti perché ossessionati e di allegre partouze nei castelli come nei filmetti sexy molto vagamente ispirati dal Boccaccio. Fino a miti come la cintura di castità, inventata dal Rinascimento, o lo ius primae noctis, inventato dagli storici.
Certo, la religione è onnipresente e i suoi imperativi (rimasti da allora sostanzialmente gli stessi) condizionano la teoria sessuale. Quanto alla pratica, è forse un altro discorso. Il Medioevo resta comunque, come scrive sapidamente Libération, «il millennio del missionario». La relativa posizione è considerata quella giusta, consigliata sia dai preti perché più atta a procreare sia dai medici perché meno pericolosa. Non stupisce che in fabliaux e romanzi cavallereschi ci si sbizzarrisca con una varietà di amplessi (tipo «à pisse chien», ci asteniamo dalla traduzione) degna del Kamasutra.
La continenza è una virtù. Ma anche una precauzione medica: «L’abuso del coito - spiega Rossiaud citando le fonti - accorcia la vita, secca e debilita il corpo, affievolisce il cervello, danneggia gli occhi e conduce alla stupidità». Però si fa. Anzi, lo fan tutti, preti compresi. E forse pure di più. «Un giorno una donna si lamenta con il vescovo Hugues di Lincoln che suo marito non compie il dovere coniugale. “Vuoi che tuo marito ritrovi il suo ardore? Ne farò un prete”, le risponde Hugues: appena un uomo è prete, brucia». Uno statuto di Belluno del 1428 proclama che «non bisogna presumere vergine alcuna donna di più di vent’anni, a meno che la sua castità non possa essere provata». E Giordano da Pisa, intorno al Trecento, è categorico: «Ragazzi e ragazze di Firenze non arrivano mai vergini al matrimonio».
Matrimonio che si contrae, a differenza di quel che si pensa, piuttosto tardi. A Montaillou, verso il 1320, l’età media dei maschi che si sposano è di 25 anni. Fra gli artigiani di Digione, un secolo dopo, idem; fra i patrizi toscani, di 30. Nel XIV e XV secolo, un marito di vent’anni è una rarità. E allora, se le attese sono lunghe, sedurre una vergine pericoloso e i rapporti gay ancora di più (c’è il rogo), proliferano i bordelli. Le case chiuse sono apertissime, con l’assenso, o almeno la non condanna, della Chiesa: «Godere pagando è godere senza peccare» è un detto comune. Del resto, nel XV secolo, a Digione, il 20% dei clienti sono ecclesiastici. Però solo nei postriboli privati, non in quelli comunali, in omaggio alla vecchia gloriosa regola: «Nisi caste, tamen caute», se non casto, sii almeno cauto.
Le folgori di Chiesa e Stato si abbattono sulla «sodomia», peccato immondo in cui rientrano anche il sesso orale e la masturbazione. Il giro di vite arriva nel Duecento; per san Tommaso, il sesso fra uomini è grave come il cannibalismo. Tanto che gli europei se lo rinfacciano reciprocamente. Per i tedeschi, il male arriva dalla Francia, per i francesi dall’Italia o della Spagna, per tutti dall’Islam, anzi è la causa per cui i crociati hanno perso i luoghi santi. Di più, è contagiosa. Ma, scrive Rossiaud, tutte le testimonianze dimostrano che già allora c’era una bella differenza «fra quello che i moralisti impongono di fare e quello che la gente fa». Per fortuna.

La Stampa 3.4.13
I sogni infranti del parco del Gladiatore
Dovevano lanciare la Flaminia come l’Appia antica, ma i monumenti soffocano tra baracche e cemento
di Flavia Amabile


ROMA A fine di marzo era una stagione meravigliosa nella villa di Livia, moglie dell’imperatore Augusto. La villa era circondata da un paesaggio che non aveva eguali nei dintorni di Roma: colline, prati e il Tevere. Si trovava lungo la via Flaminia, l’arteria più importante tra la capitale dell’impero e le regioni settentrionali. Capitava che Livia si ritirasse lì e che l’imperatore andasse a trovarla quando si liberava dagli impegni. Dal centro di Roma era un piccolo viaggio ma la distanza era ripagata dalla bellezza del paesaggio costellato di importanti mausolei e distese di dolci prati.
L’anno prossimo saranno 2 mila anni dalla morte di Augusto: si sta mettendo a punto il programma delle celebrazioni ma quel pezzo della sua vita difficilmente potrà essere ricostruito se non con una buona dose di fantasia. Eppure la Soprintendenza Archeologica ha nel cassetto un progetto per trasformare la Flaminia in una nuova Appia antica. E’ un’idea talmente semplice da sembrare la scoperta dell’acqua calda. Sfrutta il vantaggio che la Flaminia ha rispetto alle altre rinomate strade consolari: la linea ferroviaria, la Roma-Viterbo. Avete mai provato a raggiungere l’Appia senza un’auto privata? Da perderci la testa. La via Flaminia, invece, ha un trenino con le fermate che sembrano studiate da un archeologo per quanto sono vicine agli antichi siti. Quando fu scritto il progetto, c’era anche qualcos’altro: un paesaggio ancora non troppo diverso da quello attraversato dall’imperatore. Bastava unire questi elementi per avere un Parco archeologico, affermarono i fautori del progetto, sostenuti da Italia Nostra.
Non bastava, invece. «Quel progetto era innanzitutto un sogno, perché noi archeologi siamo dei sognatori», racconta Marina Piranomonte, una delle responsabili degli scavi lungo la Flaminia per la Soprintendenza Archeologica di Roma che aveva ideato il Parco insieme con il collega Gaetano Messineo.
La realtà è diversa. Si sale sul treno a piazzale Flaminio, appena fuori piazza del Popolo. La Roma-Viterbo è seconda nella lista nera delle ferrovie italiane stilata da Legambiente: treni vecchi, sporchi, affollati a dismisura, corse che saltano di continuo. E per fortuna nella classifica non è contemplato il paesaggio, un’orgia di discariche, baracche di senzatetto, industrie abbandonate.
La prima fermata utile da un punto di vista archeologico è «Due Ponti». Si scende in un agglomerato compatto di case Anni 60. Alcuni anni fa su uno dei pochi terreni rimasti liberi il proprietario, il costruttore Bonifaci, decise di costruire altri tre palazzi: dovette fermarsi perché dagli scavi preventivi era emersa la Tomba del Gladiatore, il mausoleo di Marco Nonio Macrino, probabilmente il personaggio a cui era ispirato il film «Il Gladiatore». Era il 2008, la notizia fece il giro del mondo e la fermata conquistò un posto di rilievo che fino ad allora non aveva nel Parco Archeologico. Quattro anni dopo la Tomba è lì, coperta da un geotessuto, ma nessuno ha idea di quale futuro avrà. È stato speso un milione per tirare fuori la preziosa Tomba nascosta a sette metri di profondità e restaurarla, ma ne sarebbero necessari altri tre per creare un museo e renderla visitabile. «Si studia come recuperarli. Siamo aperti a qualunque possibilità» - chiarisce Daniela Rossi, responsabile per la Soprintendenza del sito.
La fermata successiva è Grottarossa. Un segnale indica la presenza di un sito archeologico, ma è più facile trovarlo seguendo la discarica lungo la ferrovia. Attraverso un cancello arrugginito si entra in una necropoli con due mausolei imponenti della fine del periodo repubblicano, un tratto della via Flaminia molto ben conservata, e una vasca. L’area è ampia ma l’erba è alta. I mausolei sono chiusi e coperti di muschio, i pannelli che raccontano la loro storia sono a terra e i resti di vestiti e cibo lasciano capire che di notte qualcuno dorme lì. «Non è trascuratezza, è una questione di priorità - racconta Marina Piranomonte - dopo anni abbiamo da poco ottenuto l’esproprio dell’area. I fondi per il 2013 verranno utilizzati per rimettere a posto il sito. Mi impegno a farlo rimettere a posto entro un anno».
Superata Saxa Rubra, si scende di nuovo a Labaro. Nascosto tra una selva di cavalcavia e discariche, c’è un ponte romano, lo stesso usato da Augusto quando andava a trovare la moglie nella sua villa e dalle truppe di Massenzio durante la battaglia contro Costantino. E’ stato liberato nel 2005 da una parte di rifiuti e l’Anas aveva promesso di creare un Parco archeologico. Parole finite nel nulla.
L’ultima fermata è La Celsa. Fuori dalla stazione, dal lato opposto rispetto al Tevere, non si può non vedere un enorme sperone di tufo, un Mausoleo dove i romani scavavano i loro monumenti funerari. Alla base ci sono delle fornaci dove veniva prodotta la terracotta. Due anni fa il sito - già in passato rifugio per clochard è stato rimesso a posto: costo dell’operazione 300 mila euro. Oggi, infatti, la parte alta della roccia è molto bella e ben visibile. All’interno delle grotte nella parte più bassa, però, sono tornati a vivere i senzatetto.
Sembra un gioco dell’oca, in cui si corre il rischio di tornare sempre alla casella di partenza e di rendere la via Flaminia solo la strada delle occasioni mancate. «Sono ottimista risponde Daniela Rossi - per me la Flaminia è la strada delle occasioni da recuperare. Lo faremo, anche con l’aiuto dei privati. Possiamo farcela, il progetto del Parco non è morto». «Tutte le nostre risorse e il nostro impegno sono dedicati a quest’obiettivo», conferma Marina Piranomonte.

Corriere 3.4.13
Costantino non fu il padre dell'intolleranza religiosa
Favorì il cristianesimo ma non perseguitò i pagani
di Paolo Mieli


Il 29 marzo 1913, nell'ambito del giubileo voluto da papa Pio X per celebrare i sedici secoli dall'editto di Milano, l'arcivescovo di Parma Guido Maria Conforti esaltò il «significato latissimo» di quella lontana concessione della libertà di culto ai cristiani che, disse, «segna la fine di un'epoca, il tramonto del mondo antico, del paganesimo, e l'inizio di un'era novella di splendore e di gloria pel cristianesimo». Lode dunque, ancorché implicita, all'autore di quel proclama, l'imperatore Costantino (in compagnia di Licinio, imperatore d'Oriente). Ma, a proposito di Costantino, l'arcivescovo Conforti si sentiva in dovere di puntualizzare, stavolta esplicitamente, che «la storia imparziale non può negare anche azioni punto commendevoli». Un'eco del severo giudizio di filosofi e storici del Sette e dell'Ottocento (in realtà già da molti secoli prima) sul sovrano che spalancò le porte al cristianesimo.
Una quarantina di anni fa, in Antico, Tardoantico ed Era Costantiniana (Dedalo), Santo Mazzarino — che pure considerava Costantino «un grande rivoluzionario» — diede risalto al fatto che in ambienti pietisti di Jena, già nel 1713, si parlava di quell'imperatore come di un «cristiano solo a parole, non nella vita… mosso esclusivamente da ragioni politiche». Voltaire lo raffigurò poi come un uomo «brutalmente attento alle questioni di potere», che aveva trasferito la capitale dell'impero a Bisanzio per sottrarsi al «meritato» odio dei romani. In Storia della decadenza e caduta dell'impero romano (1776), Edward Gibbon aveva fatto suo quel giudizio, descrivendolo sì come un buon principe, ma aggiungendo che negli anni si era trasformato in un «dispotico autocrate». Poco meno di un secolo dopo, in L'età di Costantino il Grande (1853), Jacob Burckhardt lo aveva rappresentato come un uomo «fondamentalmente non religioso», un «egoista con la porpora» che, a seguito di una «conversione solo esteriore», aveva praticato un «cristianesimo ipocrita» al solo scopo di «consolidare un impero in difficoltà».
All'inizio del Novecento, pur in un ambito celebrativo (il giubileo voluto da Pio X), in Germania Eduard Schwartz scrisse che Costantino aveva «una moralità non molto superiore a quella di un sultano orientale» e gli attribuì un «piano di dominazione della Chiesa». Nello stesso contesto, il patrologo cattolico di orientamento modernista, Hugo Koch, vide in lui «la vittoria di Roma, dell'impero romano, non di Nazaret né del Golgota»; e nel suo avvento «l'ora di nascita di un rapporto tra Stato e Chiesa, politica e religione, le cui conseguenze appaiono evidenti nei segni di crisi di tutte le confessioni cristiane». Ciò che induceva Koch ad auspicare «un ritorno alla Chiesa precostantiniana». In un pregevole libro che sta per essere dato alle stampe da Jaca Book, Costantino e il suo secolo. L'«editto di Milano» e le religioni, Massimo Guidetti fa osservare come traccia di questi giudizi severi sia già nelle fonti, a cominciare dallo storico Eutropio, contemporaneo dell'imperatore, che lo descrisse come «uomo pari ai prìncipi migliori nella prima parte del suo impero, ai mediocri nella seconda». Eberhard Horst, in Costantino il Grande (Bompiani), fa risalire a Giuliano l'Apostata, nipote e successore di Costantino, le prime gravi accuse contro l'imperatore dell'editto di Milano; e a Zosimo, storico greco del VI secolo, autore di una Storia nuova in sei libri, l'idea che egli si fosse addirittura macchiato di «empietà».
Dopodiché, osservava Horst, «non vi è stato sovrano d'Occidente che abbia attirato su di sé tanti rimproveri gravi e fatali». Prima di tutto per la sua presunta «donazione», cioè il conferimento alla Chiesa di potestà sull'Italia e sulle province occidentali dell'impero. Nel mondo medievale, quando la donazione di Costantino «legittimava la pretesa di potere temporale del papato», molti gli attribuirono la degenerazione della Chiesa e «lo maledirono». A partire da Dante, che lo citò nell'Inferno (canto XIX) proprio per «quella dote» che da lui avrebbe ricevuto «il primo ricco patre», cioè papa Silvestro I, il quale, secondo una leggenda, lo avrebbe battezzato avendone in cambio la suddetta «donazione». Quello della «donazione» — come ha ben raccontato Giovanni Maria Vian nell'esauriente La donazione di Costantino (Il Mulino) — fu per oltre sette secoli elemento costitutivo del diritto internazionale d'Occidente e delle pretese dei Papi. Anche se, sulla scia di Vian, Riccardo Fubini, nell'Enciclopedia costantiniana di cui parleremo tra breve, fa osservare che il ricorso a questo testo fu «saltuario» e di «ridotto impatto dottrinale» prima del XII e soprattutto del XIII secolo. Né mancarono, rileva Fubini, «le confutazioni, indissolubilmente dottrinali e storiche, dall'imperatore Ottone III al canonista Sicardo da Cremona (1180), secondo cui papa Silvestro non era stato insignito dei diritti del potere imperiale, ma aveva solo ricevuto dotazioni patrimoniali per la Chiesa». Come del resto ha ampiamente dimostrato Domenico Maffei nell'interessante La donazione di Costantino nei giuristi medievali (Giuffrè).
Fino a quando, nel Quattrocento, Nicola Cusano e Lorenzo Valla dimostrarono la falsità di quel documento attribuito a Costantino. Ma, a dispetto del trattato di Valla (1440, edito però solo nel 1517), che non lasciava adito a dubbi, settant'anni dopo l'impeccabile confutazione, su disposizione di Clemente VII, furono dipinti nella sala udienze in Vaticano grandi affreschi con la raffigurazione del battesimo impartito da Silvestro (falso) e della donazione di Costantino (falsa). E così, ha scritto Giovanni Maria Vian, proprio quando la questione sembrava risolta, nel Cinquecento si riaccese e divenne occasione di conflitto dapprima dei protestanti e poi degli anticlericali del Risorgimento contro la Chiesa di Roma. «La controversia si trasformò in un dibattito acceso sul problema del potere temporale del Papa e sulla sua presenza in Italia, e quindi durante l'Ottocento nella questione romana, nodo cruciale nella costruzione dello Stato unitario; che fu chiusa, ma non del tutto risolta, dai Patti lateranensi e, nell'Italia repubblicana, con il ripristino, dopo sessant'anni, di un minimo potere temporale», ha ricordato Vian.
Altra accusa a Costantino fu quella di aver trasferito il governo a Bisanzio, abbandonando Roma a se stessa, favorendone il declino, incoraggiando le invasioni dei barbari e indebolendo così l'intero Occidente. Anche Martin Lutero mosse questo rimprovero allorché, nella sua tesi Contro il papato di Roma, voluto dal demonio (1545), così puntò l'indice accusatorio: «Quando Costantino il Grande trasportò la sede imperiale da Roma a Costantinopoli… Roma sminuì di giorno in giorno, finché vennero i Goti e, sotto l'imperatore Onorio, Roma fu conquistata con tutti i territori italici». Ma l'imputazione più grande restava quella di aver posto le basi per il potere temporale della Chiesa.
In realtà — lo ha discolpato Horst — solo più tardi, nel 380, con il suggello legale dell'imperatore Teodosio, il cristianesimo assunse il ruolo di religione di Stato. E, con l'introduzione della religione di Stato, «Teodosio avviò un periodo di intolleranza che era in deciso contrasto con i princìpi della politica di conciliazione di Costantino». Ma era stato uno dei padri della Chiesa, Gerolamo, a indicare «l'avvio» di quel processo come riconducibile a Costantino. «Quando è venuto il regno di imperatori cristiani», sono parole di Gerolamo, «la Chiesa è divenuta più grande per potere e ricchezza, ma più piccola per virtù». E sarebbe stato poi Johann Gottfried Herder a mettere sul conto di Costantino la creazione di un «mostro a due teste» che «in era medievale si atteggiò a Chiesa cristiana». Per poi aggiungere: «E Bisanzio insegna dove porta un cristianesimo di Stato».
Quasi del tutto inattendibile, a detta degli storici, fu poi l'assai celebrata Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea. La «rivoluzione costantiniana», ha scritto Arnaldo Marcone in Costantino il Grande (Laterza), «considerata autonomamente, almeno in parte, rispetto alla grave questione della fine dell'impero romano, gode sicuramente oggi di una considerazione più equilibrata». Sono proprio i limiti, che sembrano ormai «indiscutibili», dell'azione politica di Costantino che giovano «a una migliore valutazione della sua figura». A ben guardare «la più grave falsificazione» della Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea è, secondo Marcone, «di natura ideologica». In che senso? Il destino dell'impero, sostiene Marcone, «non era nella monarchia»; il grande disegno di Costantino, con lo sguardo rivolto «verso l'alto», verso il suo modello celeste, di creare un regno terreno copia di quello divino, afferma Marcone, «ci appare tragicamente irrealizzabile».
Sono temi su cui si soffermerà in modo definitivo l'Enciclopedia costantiniana, un'opera monumentale voluta dal cardinale Angelo Scola e curata da Alberto Melloni (con voci scritte da 53 studiosi), che la Treccani manderà in libreria tra breve. «Qualunque riflessione su Costantino, a qualunque livello si collochi — parli essa la lingua della storia o dell'arte, del falso o della filologia, dell'agiografia o dell'erudizione, d'una apologetica cattolica o di una critica protestante, corra sul filo della parenesi o della demitizzazione — è portatrice di implicazioni generali, svela e plasma idee profonde sulla cultura e sulla sua esplicazione storiografica», scrive Melloni nell'introduzione; «il segno di Costantino è un ordigno storico irreparabilmente esploso, le cui schegge si sono conficcate ovunque in tutto quello che è la storia delle Chiese cristiane, senza eccezioni culturali o confessionali». Quanto alla «donazione», ha scritto Vian, «da un millennio è posta in dubbio, detestata, discussa e ora di fatto scomparsa». Anche se «resta paradossalmente un fatto: se oggi il Papa di Roma ha un'autorità mondiale riconosciuta non soltanto sul piano politico ma anche su quello morale», ha osservato il direttore dell'«Osservatore Romano», «dal punto di vista storico in parte lo deve proprio al falso documento attribuito al primo grande sovrano cristiano».
Ma torniamo al libro che sarà pubblicato da Jaca Book. Guidetti sottolinea come Massenzio, l'uomo battuto nella battaglia di ponte Milvio (312), non era quel che la storia ci ha tramandato e cioè un nemico dei cristiani, simile a Diocleziano, il grande vessatore del biennio 303-305. Anzi, Massenzio a Roma «si comportò in modo favorevole alla comunità cristiana, ponendo fine alle persecuzioni e disponendo la restituzione dei beni confiscati». Le raffigurazioni di segno diverso «sono inficiate dalla pratica di diffamare l'avversario», messa in atto da Costantino e dai suoi aedi. Non è vero nemmeno che Costantino fosse cristiano fin da giovane. Il fatto che, come sostiene Lattanzio, Costantino, fin da quando morì suo padre Costanzo Cloro e lui fu proclamato imperatore a York (306), aveva deciso di concedere ai cristiani la libertà di culto, non risponde a realtà. Anche questa notizia è, a detta di Guidetti, un prodotto «della successiva propaganda costantiniana». Sarebbe più giusto, scrive, «attribuire all'imperatore un generico atteggiamento favorevole nei confronti dei cristiani». E perfino per quel che riguarda l'editto di Milano (313), Guidetti ripropone le tesi dello storico tedesco Otto Seeck, che già a fine Ottocento sostenne non essersi trattato di una vera e propria autorizzazione al culto, bensì di provvedimenti di revoca di un precedente editto di persecuzione. Stesso discorso vale per l'editto di tolleranza di Galerio.
Può sembrare una sfumatura, ma non lo è. Timothy D. Barnes ha recentemente dimostrato (con un'ampia messe di prove) che si trattò di un provvedimento indirizzato a un'area specifica dell'impero, quella orientale dove aveva infierito Massimino Daia, mentre a Occidente le vessazioni a danno dei cristiani erano già cessate da tempo. Di più. Undici anni dopo quello di Milano, nel 324, a seguito della vittoria su Licinio, Costantino indirizza un editto alle province d'Oriente, in cui, scrive Guidetti, «traccia, questa volta in piena autonomia e senza alcuna necessità di compromessi, le linee portanti della propria politica religiosa». Dopo aver ricordato le persecuzioni degli anni precedenti, l'imperatore dichiara la sua scelta per il Dio dei cristiani e la sua Chiesa, «all'interno della pace imperiale», ed esprime il principio che «anche quanti si trovano nell'errore, allo stesso modo di coloro che hanno fede, godano con gioia dei benefici della pace e della serenità». Da notare che non si fa qui nessuna menzione dell'editto di Milano. Tra il 313 e il 324, mette in risalto Guidetti, si invertono le parti: «Inserimento del cristianesimo tra le religioni consentite nel primo (313); conferma al paganesimo e a tutte le religioni della legittimità della loro presenza nell'impero dove l'autorità dà la preferenza al Dio cristiano, nel secondo (324)».
Tuttavia «la conversione di un imperatore e il suo intervento attivo introdussero nella vita delle comunità cristiane un fattore dinamico di fronte al quale esse si trovarono impreparate, poco in grado di interloquire». Per oltre una generazione, «la politica unificatrice imperiale poté agire su questo nucleo originale e originario con grande potenza formativa, determinandone la forma storica e fissandola in alcuni casi per molto tempo a venire». Costantino non volle né poté «arrestarsi alla pace tra l'impero e i cristiani, lasciando che i suoi frutti maturassero nel tempo». Nella tradizione romana la religione «era parte essenziale della vita pubblica anzitutto in senso istituzionale; i sacerdoti del culto pagano godevano di privilegi e immunità, gli edifici di culto erano finanziati dallo Stato in diversi modi, anche con i bottini di guerra; le celebrazioni delle feste religiose erano organizzate dai funzionari e finanziate dalle curie urbane e dal Senato». La gestione del sacro era uno dei principali doveri pubblici per garantire continuità allo Stato; di conseguenza anche le comunità cristiane, in quanto parte dei culti riconosciuti, erano sottomesse all'imperatore che esercitava l'autorità di pontifex maximus».
Vari privilegi furono concessi ai chierici. Nel 321 si riconobbe al «santissimo e venerabile Concilio della Chiesa» il diritto di ricevere beni in eredità senza i vincoli di forma normalmente richiesti per atti del genere. Alle chiese erano stati fatti confluire i beni già espropriati e da restituire in base ai provvedimenti del 313, nel caso in cui il legittimo proprietario fosse defunto senza eredi. Anche donazioni ed elargizioni estemporanee contribuirono a dotare in breve tempo le comunità e i loro vescovi di patrimoni di notevole entità. Ma, fa osservare Guidetti, il favore dell'imperatore non si estese agli eretici né agli scismatici, ai quali non vennero riconosciuti i privilegi concessi a quanti osservavano la fede cattolica.
Gli eretici sono invitati a «riconoscere la menzogna della loro vanità», il «pericolo di morte eterna che costituiscono per quanti li seguono» e l'«enormità dei loro delitti». Fanno parte di questi eretici i seguaci di Ario, dei quali si dirà, a ridosso dell'editto di Tessalonica (380), che «non sono da ritenersi cristiani». Fu però in età costantiniana che si produsse una prima retorica antisemita. Anche se, scrive Guidetti, questa retorica non fu un'invenzione costantiniana, dal momento che se ne trovano i presupposti già nei secoli precedenti. Con quella che Guidetti definisce una «gentilezza eccessiva», questo uso di insultare gli ebrei viene chiamato dagli storici «radicalismo verbale»; sarebbe più corretto, scrive l'autore, «parlare di una retorica dell'ingiuria preludio ad azioni maggiormente lesive, che troviamo esercitata tanto in Costantino che nei discorsi e negli scritti dei cristiani dell'epoca». Nel merito «i provvedimenti di Costantino sono articolati ma si presentano ostili quando si tratta di tutelare le comunità cristiane, quindi proteggere chi si converte al cristianesimo e ostacolare quanti passano al giudaismo». Se un ebreo fa circoncidere un servo cristiano o di qualsiasi altra religione, questo diviene libero; un ebreo che voglia farsi cristiano non deve essere insultato né impedito in alcun modo. La conversione del servo segnala un modo di proselitismo che avveniva all'interno della casa, con il sospetto di una certa coercizione; le libere conversioni al giudaismo furono punite con il rogo.
Trascorse poi qualche decennio e fu dopo Teodosio e dopo l'editto di Tessalonica (di cui parleremo tra breve) che tutto cambiò. I primi a farne le spese furono nuovamente gli ebrei: ad Antiochia, una sinagoga dedicata ai martiri Maccabei passò alla Chiesa locale; sempre alla fine del IV secolo, a Stobi, in Macedonia, il tempio ebraico venne distrutto e sostituito da una basilica cristiana; a Roma, ai tempi del governo dell'usurpatore Massimo, una sinagoga venne devastata da un incendio doloso; a Callinico, sull'Eufrate, nel 388 la popolazione cristiana della città, istigata dal vescovo, mise a ferro e fuoco la sinagoga. Teodosio avrebbe voluto far osservare la legge e costringere la comunità cristiana a «ricostruire l'edificio a proprie spese»; ma cedette all'opposizione del vescovo di Milano, il quale gli ricordò con grande autorevolezza che «non conveniva all'imperatore difendere l'errore ebraico». Pochi anni dopo, tuttavia, precisa Guidetti, «egli tornò all'antico e ricordò al comandante militare per l'Oriente che non esistevano leggi che proibissero alla comunità ebraica di esistere e che ogni atto illegale contro le sinagoghe doveva essere represso, anche se compiuto sotto il manto della religione cristiana». E «nell'ostinata resistenza degli ebrei, che contraddisse tutte le aspettative», osserva l'autore, «ci fu qualcosa di stupefacente per i cristiani».
Sostanzialmente, invece, i pagani si lasciarono travolgere. Nel 392, con un unico decreto venne messo al bando l'intero loro mondo: il culto privato dei lari, del genio domestico e dei penati, le pratiche dell'aruspicina e della magia, anche se non attentavano alla salute del principe. Si puniva persino la costruzione di idoli e il culto reso a essi come il sacrificio in templi e tempietti pubblici, anche in campi e dimore di non pagani. Con i divieti di Teodosio ebbe fine la struttura che sosteneva i culti. La proibizione dei sacrifici a lungo andare fu il fatto decisivo, unita alla sottrazione delle risorse economiche ai templi che ancora ne avessero e allo svuotamento dei riti conseguente alla perdita del loro carattere ufficiale. Frammenti dei culti e delle divinità pagane «iniziarono il loro viaggio in un mondo ormai ostile, in una continuità carsica che lasciò sparsi indizi, come nel rimprovero ai cristiani per la loro partecipazione a banchetti con pagani di fronte a una statua, un altare o un tempio, che troviamo formulato a più riprese in Agostino e oltre». I culti antichi «si avviavano verso la marginalizzazione, l'esilio in province lontane dai centri dell'impero oppure si mimetizzarono».
Nei decenni che portano alla conclusione del quarto secolo, il progetto costantiniano è tramontato; l'azione dell'imperatore è stata sottoposta a critiche persino da parte cristiana, ma parallelamente corrono anche giudizi positivi, per la pacificazione portata alla Chiesa e la conseguente diffusione del cristianesimo. Per la risonanza delle azioni da lui compiute e per la propaganda imperiale che le sostenne, la figura di Costantino divenne sempre più nota in Oriente, dove l'imperatore trascorse l'ultima parte della sua vita.
Accanto alle «conoscenze su di lui che possiamo chiamare "storiche", perché derivate per varie vie da testimoni diretti dell'accaduto e da documenti da essi raccolti», scrive Guidetti, «si moltiplicavano frammenti di racconto che attingevano piuttosto al folclorico, all'immaginario devozionale, alla tradizione locale, esprimendo più le convinzioni della comunità in cui erano elaborati che non un contributo alla conoscenza storica delle vicende». Frammenti narrativi portati nella nostra penisola da pellegrini, che sarebbero stati rielaborati dal vescovo Ambrogio di Milano e dallo storico Rufino.
Oggi di Costantino la Chiesa discute senza remore o problemi. «Era un politico e ragionava solamente da politico; ritenne conveniente per l'impero avere i cristiani dalla sua parte piuttosto che contro, dal momento che l'impero aveva a quei tempi bisogno della concordia interna, a impedire fughe centrifughe su base nazionale», ha scritto Alberto Torresani, docente della Pontificia Accademia di Santa Croce, nella premessa a 313. L'editto di Milano (edizioni San Paolo) il volume curato dal Centro culturale cattolico San Benedetto in occasione della ricorrenza. Ma perché si temevano quelle fughe centrifughe? L'eresia di Donato a Cartagine e quella di Ario ad Alessandria, ricostruisce Torresani, furono individuate come tentativi di spaccare l'unica Chiesa in Chiese nazionali, come quella punica a Cartagine, quella copta in Egitto o quella aramaica in Siria.
Problemi nacquero quando Costantino negli ultimi anni di vita (dopo aver presieduto nel 325 il Concilio di Nicea, nel quale fu condannato l'arianesimo) fece riabilitare Ario e, poco prima di morire, si fece battezzare da un vescovo ariano. Ariano fu poi suo figlio Costanzo II. In seguito venne Giuliano che, sottolinea Guidetti, «volle smantellare la costruzione costantiniana; con lui le chiese cristiane perdettero il privilegio economico e sociale acquisito, il loro formidabile patrimonio immobiliare venne depauperato e i chierici furono privati delle loro immunità». La vicenda di Giuliano, malgrado la breve durata del suo regno, scrive Guidetti, «lasciò tra i cristiani una traccia indelebile», non a causa di alcune conversioni al paganesimo, quanto perché mostrava le potenzialità di un imperatore non cristiano e «rivelava la forza della critica pagana».
Fu solo nel 380 con l'editto di Tessalonica («Vogliamo che tutti i popoli retti dal governo della nostra clemenza si attengano a quella religione che proclama di essere stata trasmessa dal divino apostolo Pietro ai romani… Ordiniamo che si fregino del nome di cristiani cattolici quanti seguono questa legge; riteniamo che gli altri pazzi e insensati debbano sopportare l'infamia del dogma eretico, che i loro conciliaboli non ricevano il nome di chiese e che debbano essere condannati anzitutto dalla vendetta divina, poi dalla nostra autorità che ci viene dal giudice celeste», scrivevano Graziano, Valentiniano II e Teodosio), fu con questo editto, dicevamo, che la storia prese una piega diversa.
Ma allora cosa resta dell'«età costantiniana»? Il concetto di «età costantiniana», scrive Guidetti, «non ha forte validità storiografica, è troppo esteso e generalizzante per poter essere messo alla prova con la finezza di dettaglio che il lavoro storico richiede». Si tratta piuttosto di una «formula politico-culturale» e di «teologia della storia» che esprime «il tratto comune a una successione di epoche della vicenda europea, caratterizzate dall'alleanza tra trono ed altare, tra potere statale e potere ecclesiastico e dalla tendenziale identificazione tra Stato e Chiesa». «In parte giustamente e in parte arbitrariamente l'aggettivo riconduceva tutto a Costantino». Ma Costantino con tutto questo ebbe a che fare in modo assai relativo. E meno, assai meno dei suoi successori.

Repubblica 3.4.13
La pastorale americana
di Massimo Recalcati


IN UN vecchio film di Woody Allen, “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, si raccontano le vicende rocambolesche di un rivoluzionario animato da un ideale di purezza che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un tiranno identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme.
Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere.
È il fantasma che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la recente consultazione di Bersani con i rappresentanti del M5S. È il dialogo tra un padre in chiara difficoltà e due figli in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico “svedese” – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente ad una banda di terroristi e poi di una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Da una parte gli sforzi di conciliazione di un padre che non nasconde la sua insufficienza, dall’altra l’arroganza irresponsabile di chi rivendica il possesso di una ragione assoluta. Il dialogo tra loro è impossibile. Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde dall’alto della sua innocenza: sei tu che mi hai messa al mondo non io; sei tu che hai creato questa situazione non io; sei tu che devi porvi rimedio non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso nei confronti dei propri genitori. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere cancellato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica è impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata.
Questo fantasma di purezza che ha origini in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce, o può condurre.
Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con forza? Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’“eccezione” secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo però ribadire la propria posizione personale di “eccezione”. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate prima dalla democrazia assoluta della Rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise, ma l’aggressione al Manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al M5S chiedendo che dialogasse con il centro sinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader il ruolo di incarnare una eccezione assoluta? Il culto demagogico della trasparenza nasconde questa presenza antidemocratica di un potere incondizionato. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e l’esistenza di un leader anarcoide che resta esterno al movimento che ha fondato e che esercita il suo diritto di parola in modo arbitrario? Egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù.
Una strana mescolanza di anarchia e tirannide sulla quale Pasolini avrebbe speso parole di fuoco.
Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento del suo insediamento mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una eredità. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. “Io ti ho fatta e io ti disfo”; così una madre psicotica ammoniva una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento, non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.
Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al 100 per 100 è un sintomo eloquente. Era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Dio sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze nel corpo compatto della “volontà generale”, darebbe luogo ad una tirannide.

Repubblica 3.4.13
Dietro “Imperium” l’incubo neonazista
Arriva in Italia il libro che in Germania ha scatenato polemiche
di Antonello Guerrera


La gobba di Oskar nel Tamburo di Latta di Günter Grass, simbolico fardello dei peccati mortali nazisti, è ancora oggi granitica e pesantissima in Germania. Non a caso, fino a poco tempo fa il governo Merkel voleva addirittura mettere fuori legge il partito di estrema destra tedesco Npd – idea poi accantonata per l’opposizione del Partito liberale, alleato della cancelliera. Ma sotto accusa per simpatie naziste o antisemite in Germania finiscono spesso anche libri e scrittori. L’ultimo spauracchio è da poco arrivato in Italia. È un romanzo e si chiama Imperium (Neri Pozza, traduzione di Alessandra Petrelli). L’autore è lo svizzero Christian Kracht, classe ’66, scrittore tra i più rinomati della sua generazione. Il libro, dalla prosa esotica e rigogliosa che a tratti(ma solo a tratti) riecheggia Conrad e Céline, parla dell’utopia di un giovane nudista vegano di inizio XX secolo, August Engelhardt. Il protagonista, folgorato dal mito colonialista tedesco, decide di fondare una comunità romantica e pura su un’isola del Pacifico, per cibarsi esclusivamente di cocco e conquistare l’immortalità: un viaggio verso “la sua Sion”, abbozza Kracht.
Imperium è finito sotto il fuoco di virulenti critiche dopo un’aspra recensione dello Spiegel firmata Georg Diez. Secondo il giornalista, la prosa di Kracht incarna il cavallo di Troia dei neonazi tedeschi, la banalizzazione del male e delle loro nefandezze, il dandy mellifluo di violenti e xenofobi. Diez se la prende soprattutto con alcuni passaggi di Imperium, effettivamente intinto di strane allusioni, come un oscuro paragone tra il protagonista August e il “romantico” Hitler, onirici templi pagani, vigorosi inni wagneriani et alia.
Tutte allusioni all’immaginario di estrema destra che Diez rintraccia anche in altri
libri dello svizzero.
Appena esplosa la polemica, Kracht è stato difeso da una schiera di importanti scrittori di lingua tedesca come il Nobel austriaco Elfriede Jelinek. In effetti, nel libro il protagonista August non le manda a dire neanche ai tedeschi, bollati come “pallidi, ispidi, volgari”. E quando un nuovo adepto tedesco violenta un giovane indigeno dell’isola, suo fedele aiutante, August non esita a ucciderlo per vendicare la povera vittima.
Il vero problema, tuttavia, sorge se Imperium viene contestualizzato in alcuni inquietanti aspetti della vita del suo autore. Kracht viene spesso accusato di dare adito a teorie razziste e ariane per uno specifico peccato originale, ossia alcune sue conversazioni e scambi di email con David Woodard, un controverso artista americano, dove i due apprezzano alcuni aspetti dei movimenti estremisti e l’utopica colonia ariana di Nueva Germania, fondata nel 1887 in Paraguay da Bernhard Förster, cognato di Nietzsche. Idee dalle quali l’oscuro Kracht è sempre rimasto pericolosamente affascinato, almeno dal punto di vista letterario e narrativo. Ma Kracht non è il solo a ridestare gli spettri più agghiaccianti dei tedeschi. L’ultimo caso che ha fatto molto scalpore è un romanzo goliardico di Timur Vermes, Er st wieder da, ovvero Lui è tornato.
“Lui” non è altri che Adolf Hitler. Che, come aveva già immaginato Walter Moers, rinasce nel futuro (qui nel 2011), diventando, seppur goffamente, un idolo su You-Tube, pronto a riprendersi la Germania. Satira divertente o mostruoso azzardo? Spiegel e Süddeutsche Zeitung hanno criticato severamente il romanzo per la sua sconsiderata spensieratezza nel riesumare Hitler. In passato diversi artisti, da Lubitsch a Levy con i loro film, hanno ironizzato sul Führer, spesso attirando critiche. Hirschbiegel, invece, era stato accusato di ritrarre un Hitler troppo umano in La Caduta.
Fatto sta che Lui è tornato, dopo la sua uscita a fine 2012, è diventato subito un bestseller, con oltre 400mila copie già vendute in Germania e traduzione in quasi 30 lingue (in Italia uscirà prossimamente per Bompiani). Solo qualche anno fa la Germania (dove tra l’altro dal 2015 potrebbe cadere anche il divieto di pubblicazione del Mein Kampf) era già stata terrorizzata dal ciclone Thilo Sarrazin, l’ex economista della Bundesbank in quota Spd (centrosinistra) e autore dell’esplosivo saggio La Germania si distrugge da sola, accusato di antisemitismo e xenofobia per i suoi duri attacchi agli immigrati, specialmente musulmani, che per l’autore rappresenterebbero un insopportabile fardello sociale ed economico. In scia a Sarrazin, qualche mese fa, un altro socialdemocratico da tempo scettico verso il multiculturalismo, Heinz Buschkowsky, ha scosso molti con il libro Neukölln è dappertutto, secondo cui molti figli degli immigrati residenti nel quartiere di Berlino che lui amministra sarebbero pigri. E persino un editorialista dello Spiegel, Jakob Augstein, è stato recentemente inserito dal centro Wiesenthal tra i peggiori antisemiti viventi per le sue critiche a Israele (come “Gaza è un lager”). Israele che a sua volta ha bollato come persona non grataGrass per alcuni recenti versetti al vetriolo contro la politica estera dello Stato ebraico. Quel Grass che solo qualche anno fa ha scioccato il Paese confessando un passato tra le SS. Anche per questo in Germania ora c’è la corsa al politically correct nei libri. E come con Mark Twain in America, si è iniziato a “purificare” famosi racconti per bambini da termini “poco multiculturali”. Lo scorso gennaio è accaduto a La piccola strega di Otfried Preussler, scritto nel 1957. Nell’originale c’erano termini scomodi, vedi “negro”. Ora non più. La decisione ha scatenato un putiferio sulla libertà di espressione in Germania, nonostante la revisione della Piccola strega fosse stata accordata con lo stesso Preussler. Che, ironia della sorte, è morto pochi giorni dopo.

Imperium di Christian Kracht (Neri Pozza pagg. 192 euro 16)

Repubblica 3.4.13
Escono i saggi politici del poeta “maledetto”, ma anche monarchico e ostile alle rivoluzioni
Le sue idee furono causa di violenti litigi con il compagno che lo chiamava “Loyola”
Verlaine. Quella furia conservatrice che lo separò da Rimbaud
di Giuseppe Montesano


Che siano state le dispute politiche a separare gli amanti e poeti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud? Verlaine chiamava l’adorato Rimbaud il suo “micetto biondo”, gli scriveva cose come: «ancora indegno striscio verso di te, montami sopra e calpestami…», si era fatto trafiggere il polso con un coltello da Arthur, aveva scritto con lui poesie oscene irriferibili, e, per mantenere il ragazzo dagli occhi azzurri che si rifiutava categoricamente di lavorare, il lussurioso Paul aveva costretto sua madre a dissipare in pochi anni qualcosa come settantamila euro di oggi: un amore così poteva finire per delle noiose discussioni sul suffragio universale e la Rivoluzione francese? Impossibile.
Ma a leggere Viaggio in Francia di un francese, un libro di Verlaine inedito in Italia, curato magnificamente da Giancarlo Pontiggia e pubblicato da Medusa, si direbbe proprio di sì: il soprannome di “Loyola” che Rimbaud dette a Verlaine non era affatto un gioco. In queste pagine accese e ritmate Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti; sostiene che la Rivoluzione del 1789 è la massima sciagura del Paese; sostiene che i comunardi sono pazzi; e predica non solo il “ritorno” alle radici cristiane, ma proprio alla monarchia cattolica e legittimista. Figurarsi che discussioni tra i due innamorati! Paul e Arthur, per la noia, facevano un gioco: coprivano due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, e poi si colpivano finché non usciva sangue, proprio come amanti sadomaso in anticipo sui tempi. Dopo, naturalmente, finivano a letto, e, con la regolarità di un orologio, Verlaine era afferrato dal pentimento. Rimbaud gli gridava allora che era solo un gesuita infame e ipocrita, Verlaine gli chiedeva di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli rispondeva con qualche atroce bestemmia, Verlaine lo accusava di essere un comunardo incendiario e un amico del suffragio universale, e alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornavano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portava il loro tentativo di trovare un luogo adatto ai loro sogni di poeti.
Una convivenza per niente facile, tra il ragazzo che voleva il massacro dei borghesi ricchi nella Comune e aveva elogiato i rivoltosi dell’89 per aver ucciso il Re e il Verlaine che sosteneva che la democrazia è il male assoluto della modernità e che si deve ritornare alla santità del passato. Senza qualche piccola ipocrisia come andare d’accordo con il ragazzo dagli occhi blu che la Francia ultracattolica sognata da Verlaine-Loyola la detestava al punto da andarsene tra gli arabi a vendere armi e a leggere il Corano? Verlaine scrisse il Viaggio in Francia solo quando Rimbaud partì per l’Africa, e probabilmente ci mise tutta la rabbia del deluso e del tradito, e tutto quello che da “Loyola” innamorato aveva in parte dovuto dissimulare per farsi accettare dal suo micio biondo e anarchico. Ma il manoscritto delle confessioni politiche di Verlaine restò tale, persino una rivista cattolica lo rifiutò, e il libro fu pubblicato dopo la morte di Verlaine: peccato, perché la prosa risentita e anomala di Verlaine, il suo furore dolce e la sua frivolezza retorica sono affascinanti. Del resto allora tutti sapevano che Verlaine, che scriveva poesie cristianissime e panegirici della Ver- gine, era però sempre l’uomo che conviveva con prostitute e ragazzi, e che pochi anni prima aveva sbattuto il figlio nato da poco con la testa sul muro e tentato di strangolare sua moglie perché si rifiutava di dargli i soldi da sperperare con Arthur.
Verlaine era questo, una contraddizione vivente e un cuore tortuoso, e a tratti un poeta che cantava come nessuno aveva cantato prima la vita “semplice e tranquilla” che è vicinissima ma che sempre sfugge, la leggerezza ebbra degli amanti vagabondi in fuga dal mondo, i trasalimenti magici e impercettibili della natura: «Nell’erba nera i Kobolds vanno; il vento profondo piange, si direbbe… ». E il suo inimitabile tono, come il brivido vocale di una Callas erotica, ci arriva al di là della sua catastrofe personale: e trafigge con dolcezza, ancora.

Viaggio in Francia di un francese di Paul Verlaine (Medusa, pagg. 80, euro 11).

Repubblica 3.4.13
La Francia repubblicana è rimasta senza Dio
Parigi 1871: ritratto di un Paese dopo la fine dell’Impero
di Paul Verlaine


Ahimè! tutto sembra finito, strafinito per la Francia di oggi! Le disfatte, così eloquenti, del 1870-71 sembrano aver parlato ai sordi ed è da allora che fa data questa recrudescenza del male e del peggio, che segnalerà la nostra epoca all’orrore della posterità. L’empietà fa progressi spaventosi, di concerto con l’idea repubblicana, come l’hanno intesa i più perduti uomini della prima rivoluzione; e mai la demagogia, per un attimo repressa – ferocemente e male – con la poca energia che restava alla borghesia, personificata da quel deplorevole Thiers, mai la bassa demagogia è stata sull’orlo di una tale vittoria. L’egoismo di chi ne gode attualmente al potere, in tutta l’irresponsabilità di un potere che disonora in primo luogo l’idea di autorità, la duplicità di giorno in giorno, la menzogna della moderazione e la sfrontatezza nelle contraddizioni (d’altronde tutte arbitrarie e dispotiche) che vanno sotto il nome impertinente di opportunismo, la violenza codarda, l’esitazione brutale, tutta la paccottiglia del machiavellismo, mentre terminano la distruzione degli ultimi avamposti di una società per tre quarti precipitata, snervando, stordendo, irritando un corpo elettorale formato tutto d’inferiori, mascherano per la massa degli stolidi, degli stanchi e degli infatuati, l’abisso ormai vicino, addormentano la memoria, uccidono la preveggenza, e infine perdono, corrompono, contaminano ogni facoltà, ogni spirito di condotta e ogni vestigio dell’antica virtù! Non c’è più rispetto, non c’è più famiglia, il piacere sfrontato – che dico, la deboscia è al vertice; nessun patriottismo, nessun ideale neppure negativo; nemmeno, se non presso certi diseredati, l’eroismo empio della barricata; lo studente “orgiastico”, l’operaio senz’altro “dissoluto”; la vile scheda elettorale che sostituisce, per le necessità della sommossa, il fucile infame, ma almeno franco; il denaro come unico argomento, come unica obiezione, come unica vittoria; la pigrizia e gli espedienti arraffano il pane dell’antico lavoro – e Dio tutti i giorni è bestemmiato, sfidato, crocifisso nella sua Chiesa, schiaffeggiato nel suo Cristo, espropriato, cacciato, negato, provocato! Che tribuna e che stampa! Che gioventù e che donne –, e che paese!
Tuttavia, dato che vive ancora questa Francia orribile che hanno creato per noi, questa Francia difficile, quasi impossibile da amare, finché c’è, perché vive ancora, anche con questi capi che non fanno una testa, anche con le membra in cancrena e il sangue marcio, anche in questa atmosfera pestilenziale che le fa male, perché ha ancora forma di nazione, perché il suo nome sussiste e la sua lingua è ancora la prima d’Europa, finché, grazie a Dio, c’è il cuore, e finché questo cuore batte, finché batterà, ci sarà una Francia che può tornare la beniamina tra le nazioni e il soldato di Dio, che le ha fatto promesse quasi altrettanto solenni come quelle alla sua Chiesa. Dunque si tratta di andare verso quel cuore, non solo con la memoria e l’immaginazione; al francese geloso dell’antico onore e della speranza sempre concessa, serve il coraggio di penetrare attraverso tutti gli ostacoli odiosi e crudeli, fino alla fonte pura e forte da cui esce questo bel sangue blu e rosso, nobili e popolo, la cui storia fu così bella, che batteva sulle tempie del genio come nei piedi della carità, come sul fianco del martire, e che poté scorrere su tutti i campi di battaglia e ovunque Dio voleva essere glorificato con una morte preziosa.
Traduzione di Luana Salvarani © 2013 by Edizioni Medusa

Repubblica 3.4.13
Se l’astronauta sbarca nella psiche
Viene ripubblicato “Lo sguardo dal di fuori” di Alberto Boatto
di Valerio Magrelli


Secondo il dizionario, il termine “satellite” proviene dalla parola latina “satelles”, cioè guardia del corpo. L’astronauta che scese sulla Luna, fu dunque il primo a toccare il silenzioso gregario del nostro pianeta, diremmo oggi, il suo bodyguard. Si avverava così il sogno di tanti scrittori, da Ariosto a Cirano de Bergerac, ma si avverava in modo assai diverso dal previsto. Lo mostrò Pier Paolo Pasolini, definendo l’impresa interplanetaria come un atto di propaganda imperialistica. Anche se proiettata in una dimensione siderale, la politica delle superpotenze rimaneva immutata: la logica della conquista era restata la stessa delle più arcaiche lotte tribali.
Tuttavia, a tale giudizio di taglio socio-politico, se ne affiancò almeno un altro assai diverso, esposto pochi anni prima da Martin Heidegger. «Non so se voi abbiate avuto paura, ma io mi sono piuttosto spaventato vedendo la terra inquadrata dalla luna». Per la prima volta nel corso della storia, l’abitante del globo aveva potuto vedere dall’esterno il proprio suolo, la propria casa, la propria immagine. È appunto lo sradicamento della visione ciò che atterriva il filosofo tedesco. Come davanti ad uno specchio astrale, il nostro sguardo scopriva uno sguardo dal di fuori.
Lo sguardo dal di fuori è appunto il titolo di un saggio in cui Alberto Boatto, nel 1981, analizzò questi temi con singolare, straniata acutezza. Rileggendolo oggi il piccolo classico conferma la sua originalità. Ispirandosi alla figura dell’operaio di Ernst Jünger, Boatto oppone, all’immagine dell’astronauta, quella dello psiconauta, ossia colui che sa trasformare il viaggio tra le stelle in un itinerario nella psiche. Ora, agli occhi di costui, la Terra appare radicalmente mutata. Manipolata, dislocata e sottomessa, essa è infatti diventata un oggetto, un super utensile, un bersaglio, una discarica, insomma, uno dei ready-made concepiti da Marcel Duchamp: «In quella inquadratura, i rapporti astronomici e mitici che orientarono l’uomo per un numero incalcolabile di anni, dall’individuo del paleolitico all’utente delle società urbane, sono apparsi d’improvviso completamente rovesciati ». Come spiega Massimo Carboni nella sua prefazione, Boatto ha saputo individuare «il cuore arcaico, mitico-mitologico che ancora batte nel progetto totalizzante della tecnoscienza».

Lo sguardo dal di fuori di Alberto Boatto (Castelvecchi euro 19,50)

Repubblica 3.4.13
Canal grande. Castellitto è al centro della serie di Sky In Treatment
di Antonio Dipollina


LO PSICOTERAPEUTA Castellitto non li regge più, i suoi pazienti. E allora il venerdì lo va a raccontare all’analista Licia Maglietta, e chissà se lei regge ancora lui. I pazienti intanto sono passati dal lunedì al giovedì, uno a sera (Sky Cinema 1, alle 20.30). E quindi eccola, la versione italiana di In Treatment, più che curioso esperimento di format internazionale: nato in Israele, transitato negli Usa (Gabriel Byrne protagonista), adattato ora per Italia (se in America c’era il reduce dall’Iraq qui c’è un carabiniere infiltrato nella criminalità ai massimi livelli — e sembra la storia più interessante). Diretto da Saverio Costanzo, destinato in futuro a La7, In Treatment- Italia è operazione degna: scatena controversie tra chi rimpiange le versioni straniere e chi invita a non farla tanto lunga e ad abbandonare il provincialismo tipico di queste occasioni. Ma per una controversia simile al mese sulla tv italiana, al posto di quelle che ci toccano solitamente, si farebbero follie.