giovedì 4 aprile 2013

l’Unità 4.4.13
Bersani apre canali col Pdl «Matteo che gioco fa?»
Si accende la partita per il Quirinale
Il segretario del Pd parla con Alfano e Monti e si prepara all’incontro con Berlusconi
di Simone Collini


Ci sono due partite che Bersani vuole giocare in parallelo e ce ne sono altre due che invece per il leader del Pd sarebbe sbagliato mettere in connessione. Le prime sono quelle riguardanti il nuovo governo e il prossimo Capo dello Stato. Le altre due riguardano il nuovo governo e il prossimo congresso Pd. E in entrambi i casi, Bersani vuole andare subito al confronto con chi si sta ponendo come la sua controparte: Berlusconi da una parte e Renzi dall’altra.
Sul fronte esterno, il leader del Pd sta lavorando perché il centrodestra «guardi meglio» la sua proposta riguardante il «governo di cambiamento» e la «corresponsabilità» sul piano istituzionale. Che vuol dire una Convenzione per le riforme costituzionali, la cui presidenza verrebbe lasciata al Pdl, e anche un ampio confronto per scegliere come successore di Napolitano un presidente «di garanzia».
Nonostante le uscite infuocate di diversi dirigenti Pdl, canali di comunicazione per cercare un’intesa tra i due schieramenti sono aperti, con Gianni Letta e Denis Verdini da una parte e Vasco Errani e Maurizio Migliavacca dall’altra. E ieri, per fare il punto della situazione e sondare il terreno, si sono parlati direttamente Bersani e Alfano. Il leader democratico ha ribadito la linea del «doppio binario» governo a guida Pd e Convenzione per le riforme a guida Pdl e ribadito la disponibilità a cercare un’intesa sul Quirinale. Mettendo però anche in chiaro che dopo le prime tre votazioni, che richiedono una maggioranza qualificata per dare fumata bianca, sarà sufficiente il sì su un nome da parte della maggioranza semplice, e il centrosinistra con i suoi 345 deputati e 123 senatori sarebbe poco distante dal traguardo.
Il colloquio tra il segretario del Pd, che oggi dovrebbe vedere anche Mario Monti per discutere della questione, e quello del Pdl non è stato però risolutivo. Le trattative continueranno ma il Pd sta anche lavorando per organizzare un appuntamento formale, nelle sedi istituzionali, e dopo la disponibilità mostrata l’altro ieri da Bersani a incontrare direttamente Berlusconi, da ambo le parti non si esclude che i due si possano effettivamente vedere. Solo così si potrebbe uscire dall’impasse, viene spiegato, che dura ormai da diversi giorni.
Finora le trattative si sono incagliate sul metodo da seguire nel tentativo di arrivare a una convergenza, col Pd che ha proposto di discutere del profilo del prossimo Capo dello Stato e il Pdl che ha voluto parlare di nomi, il Pd che ha proposto una rosa di personalità tra cui scegliere e il Pdl che ha preteso di partire da una terna di centrodestra.
A chi gli domanda se il Pd stia mettendo Berlusconi di fronte al ricatto o governo di cambiamento o Prodi al Quirinale, Bersani risponde con un secco «Oh mamma mia!». Però è vero che il leader democratico punta a «riaprire» la partita sull’esecutivo a guida Pd, nel caso dall’impasse non si uscisse prima, dopo che sarà eletto il successore di Napolitano, che sarà nel pieno dei poteri, compreso quello di sciogliere le Camere. Nel caso un’intesa con il Pdl venisse trovata, i nomi più probabili per il prossimo Capo dello Stato sarebbero quelli di Franco Marini e di Giuliano Amato. In caso contrario, il nome di Prodi non sarebbe da escludere, anche se tra i parlamentari Pd non tutti sono convinti che sia la scelta giusta: saprebbe di scontro aperto con Berlusconi e il rischio elezioni anticipate sarebbe troppo elevato, sostengono soprattutto i sostenitori dell’ipotesi governo di scopo.
E qui si arriva alla seconda partita che dovrà giocare Bersani nei prossimi giorni. Finora le contestazioni alla linea del «governo di cambiamento» sono state contenute, e provenienti solamente dal fronte renziano. Il leader del Pd vuole far uscire allo scoperto eventuali altri sostenitori del governo di scopo un «Monti senza Monti» sostenuto da Pd, Pdl e Scelta civica e vuole capire se quel «stiamo perdendo tempo» di Renzi sia l’apertura di un’offensiva di tipo congressuale.
Per questo sarà convocata all’inizio della prossima settimana la Direzione Pd, trasmessa in diretta streaming, in cui Bersani ribadirà che di congresso si inizierà a discutere una volta sciolto il nodo del governo e in cui dirà che chi vuole un governo sostenuto insieme al Pdl lo deve esplicitare negli organismi dirigenti. C’è però anche un altro ragionamento fatto di fronte all’uscita di Renzi sulla «perdita di tempo». Primo: i tempi sono dettati da Costituzione e Capo dello Stato. Secondo: bastavano pochi minuti per avere Bersani premier e Berlusconi al Quirinale, ma in quel caso la velocità sarebbe stata troppa e ci sarebbe stato un brutto deragliamento.

Corriere 4.4.13
L'intervista «In sei mesi si può cambiare la legge elettorale e anche abolire le Province»
Renzi: «Ora patto con il Pdl oppure alle urne
Bersani si è fatto umiliare dagli arroganti M5S»
Il sindaco di Firenze: basta vivacchiare, bisogna avere le idee chiare. Riuniamo i gruppi e lanciamo una proposta forte
intervista di Aldo Cazzullo

qui

Repubblica 4.4.13
Pd, parte l’offensiva di Renzi
“Se Bersani fa il governo, bene. Altrimenti urne a giugno”
di Claudio Tito


MATTEO Renzi rompe gli indugi. La tregua che era stata siglata dopo le primarie dello scorso autunno è ormai saltata. La battaglia è tornata in campo aperto. E il duello è ancora con Pierluigi Bersani. Che, a suo giudizio, ha deciso di «surgelarsi» dopo la “non-vittoria” alle ultime elezioni. La “nuova” corsa per la premiership sembra allora riaprirsi: «Io mi voglio candidare».
Il patto di non belligeranza con il segretario pd dopo il voto dello scorso febbraio è dunque già archiviato. La crisi di governo che al momento si sta rivelando senza sbocco è per il sindaco di Firenze una «perdita di tempo» che sospinge il Paese «sull’orlo della fine». Soprattutto è stata gestita in modo sbagliato. «Pierluigi — insiste scandendo le sillabe — prenda una decisione. Non si può stare fermi in attesa che ottenga l’incarico». Prima il tentativo del leader democratico, poi l’istituzione dei “saggi”, quindi l’attesa per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Tutti elementi che l’ex rottamatore non riesce a digerire: «La clessidra è agli sgoccioli, serve credibilitàpolitico- istituzionale». Così, subito dopo aver partecipato alla cerimonia organizzata dalla Cgil della “avversaria” Susanna Camusso per i 120 anni della Camera del lavoro, si lascia andare ad un lungo sfogo. Anche con i militanti dello stesso sindacato. Pure con loro non nega nulla delle sue intenzioni. «Bersani decida. Vogliono fare un accordo, lo facciano. ma prendano una decisione».
La situazione però sembra in stallo a causa dei risultati elettorali. Perché punta il dito contro il segretario? «Non possiamo dire un giorno “Berlusconi in galera” — scuote la testa — e il giorno dopo proporgli la guida della Convenzione per le riforme o come l’hanno chiamata. Che messaggi lanciamo? Incomprensibili. La sensazione è un’altra: che si continua a traccheggiare. Ma il Paese non se lo può permettere ».
Lei ha una ricetta diversa? «O facciamo accordo o si vota. Ma evitiamo di perdere altro tempo. Se si decide di votare, si vada a votare. Ma non possiamo assistere al teatrino del più grande partito italiano che chiede a qualcuno di dargli i voti per far nascere il governo e poi precisa alla stessa persona “ma io con te non parlo”».
Scusi, ma crede davvero che si possa votare a giugno? «Certo, si può votare a giugno. Se poi Bersani riesce a fare un governo, bene. Se riesce a fare le larghe intese, bene. Ma si faccia qualcosa». E se le urne si indicono a giugno c’è il tempo per organizzare le primarie? Il calendario non sembra darle ragione. «Ma se si vuole, si possono convocare anche in tempi brevi. Se si vuole, certo. E io sono pronto a candidarmi alle primarie. Il punto, però, è un altro».
Quale? Il Sindaco di Firenze ricorre alle le stesse parole usate nella sua città con gli iscritti della Cgil e anche con la Camusso con la quale ha parlato riservatamente al termine della manifestazione di ieri mattina. «C’è un Paese che sta morendo. Mi chiedo: le vedono le aziende che chiudono? Li vedono i giovani disoccupati. Eppure anche il tanto odiato New labour inglese aveva quella parola, “Lavoro”, al centro del suo programma. Oggi rischiamo con questa indecisione di far affondare la Repubblica democratica fondata sul lavoro sulle rendite o su chi pensa di potersi permettere altri ritardi». «Io so — ammette — che così facendo sto mettendo un paletto negli occhi del Pd. Lo so che sarebbe meglio stare in silenzio, me lo dicono tutti. Ma io non faccio politica per questo. Sono stato zitto e buono fino ad ora, ma non posso nascondere che esiste un problema-Paese. E non posso nascondere che il mio partito deve chiarire un percorso. Ma vi rendete conto che stiamo ancora con il governo Monti che deve rinviare il decreto per i debiti della Pubblica Amminstrazione? È possibile? Per me no». Ne ha parlato anche con il segretario della Cgil? «Certo, e mi ha detto che avevo ragione». «Anche se — aggiunge sorridendo — ho messo il maglioncino blu come Marchionne». La Camusso, in realtà, non è mai stata una sua sostenitrice. «Lo so, ma questo non cambia i termini dell’emergenza. Che deve impegnare tutti. Per questo io ho detto: Signori cari, basta anche con il finanziamento pubblico dei partiti. Poi ho tirato fuori l’elenco di chi mi ha finanziato, l’ho reso pubblico. Non l’ha fatto nessun altro. E su questo discorso molti bersaniani sono disponibili, ne sono sicuro. Il mio è un discorso molto semplice: bisogna recuperare un minimo di serietà. Non si può stare fermi in attesa che Bersani ottenga l’incarico. In attesa del nuovo presidente della Repubblica. È ridicolo rimanere con un incaricato surgelato. Facciamo qualcosa: il governo del presidente, le larghe intese, o si vada a votare».
E se il sindaco fiorentino si rilancia nella corrida delle primarie, quale alleanza proporrà? «Quella di centrosinistra, non c’è dubbio». Ma perché ha deciso di chiedere le urne a giugno? «Berlusconi vuole il voto a giugno proprio per non dare spazio a me. Noi possiamo sfidarlo. Se corro io, lui è difficoltà. Basta vedere i sondaggi. Allora mettiamo la palla a terra e ragioniamo. Individuiamo un percorso serio per il Paese. Altrimenti ci fottono. Ma quando dico queste cose, mi sembra di sognare. Anzi di vivere un incubo. Mi sembra incredibile che non si capisca la crisi terribile che vivono gli italiani. Solo i sindaci se ne accorgono? E allora non me ne frega niente di stare zitto, io non sto zitto se l’Italia va a rotoli ». Quando si parla di centrosinistra si intende anche Scelta Civica di Monti? «No. I voti non si trasferiscono, non te li regalo nessuno. O li pigli o non li pigli. La gente o vota Renzi o vota Berlusconi». O Beppe Grillo. «E infatti non ho proposto l’abolizione del finanziamento pubblico per caso. L’avevo già fatto e ora sembra che sia stato lui a chiederlo. Ma mica possiamo stare qui ad aspettare che Grillo ci prenda per il sedere. A me non va che sia lui a dirci cosa dobbiamo fare. Non mi faccio dettare l’agenda da lui». E quindi? «Quindi diciamo cosa abbiamo già fatto. Ho scritto un tweet con i risparmi del comune: meno 8 milioni per l’affitto delle sedi, giunta dimezzata, meno Irpef, Imu al minimo». Però lei fino allo scorso anno ha condotto la campagna elettorale sulla “rottamazione”. Cambierà registro? «Questo Paese ha bisogno di cambiare, di crescere. Sto preparando un “Job act”, un piano per l’occupazione. Il lavoro è al primo posto».

Repubblica 4.4.13
Fassina, responsabile Economia dei democratici: i tempi sono dovuti alla necessità di varare un governo all’altezza dei problemi dell’Italia
“Pierluigi non tergiversa, Matteo offende anche il Colle”
Se avessimo voluto un esecutivo a prescindere avremmo detto sì al Pdl e a quest’ora saremmo già a Palazzo Chigi
intervista di Giovanna Casadio


ROMA Fassina, la politica perde tempo, come dice Renzi?
«No. È irrispettoso nei confronti del presidente della Repubblica parlare di perdite di tempo: Napolitano ha cercato soluzioni e ha trovato difficoltà vere per fare un governo di cambiamento. Né Bersani, né gli altri leader dei partiti in Parlamento perdono tempo. Si cerca una soluzione a un problema».
Qual è il problema se non i veti incrociati dei partiti che hanno portato a uno stallo?
«Il problema non è fare un governo quale che sia, perché questo avremmo potuto farlo due ore dopo la chiusura delle urne. Il problema è avere un governo di cambiamento all’altezza delle sfide che l’Italia ha davanti sul terreno della politica e dell’economia».
Un governo di larghe intese sarebbe a portata di mano?
«Se avessimo voluto un governo a prescindere, avremmo raccolto l’offerta interessata del Pdl: Bersani a questo punto sarebbe già a Palazzo Chigi».
Nelle file di voi democratici comunque cresce il numero di chi è in dissenso dalla rotta di Bersani. E però il segretario insiste.
«Bersani insiste perché è l’unica strada che può dare al paese il cambiamento di cui ha bisogno. Le altre strade avrebbero una capacità minimale di misurarsi con i problemi».
Renzi esprime un sentire comune, oltre alla rabbia degli amministratori contro il patto di stabilità.
«Perfetto. Questo lo andiamo dicendo da almeno tre anni, alcuni di noi in splendida solitudine, anzi criticati perché ripetevamo che il patto di stabilità non funzionava e avrebbe aggravato la recessione e allontanato gli obiettivi di finanza pubblica. Uno degli scogli sul quale incontra difficoltà Bersani è proprio la modifica del patto di stabilità».
Rinviare la formazione del governo a dopo l’elezione del successore di Napolitano, intanto aspettare il lavoro dei saggi, non è dilazionare?
«È fare fronte alle difficoltà in cui oggettivamente siamo, con i mezzi a disposizione».
Esclude quindi che il Pd possa abbandonare la linea Bersani e puntare a un governo “istituzionale” o di scopo?
«Il Pdl stesso si è detto disponibile solo a un governo politico, escludendo governi tecnici. Se andiamo oltre le battute, emergono difficoltà vere. L’ipotesi-Bersani rimane l’unica praticabile per dare un senso a questa legislatura ed evitare di allargare la frattura tra cittadini e istituzioni. Ricordo che è ancora quella approvata all’unanimità dal partito».
È un inedito che una corrente di partito depositi un disegno di legge come quello dei renziani contro il finanziamento ai partiti?
«Mi aspetto sempre che il Pd si muova come soggetto unitario».
Il ritorno alle urne è dietro l’angolo?
«Il voto subito non è auspicabile, ma se accadesse, la responsabilità non sarebbe solo del Pd. E un governo di piccolo cabotaggio aggraverebbe tutti i problemi».

Repubblica 4.4.13
Il leader si sente in trincea “Ormai è nata una corrente ma creano soltanto problemi”
Frecciate ai deputati del sindaco: sabotatori
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Basta mettere in fila le mosse degli ultimi giorni. Renzi vuole creare problemi a Pierluigi e i suoi si muovono come una corrente». A Largo del Nazareno, Bersani e i suoi collaboratori scrutano con fastidio e sospetto le ultimi uscite del sindaco di Firenze. «Non è il momento di mettere ostacoli» sul cammino del segretario. Non saranno «macigni», dicono, ma la partita del Colle richiede la massima unità del Pd, tanto più se si dovesse arrivare a votare il nuovo capo dello Stato senza le larghe intese. C’è adesso l’ombra dei franchi tiratori renziani che ieri si è allungata di molto quando i senatori legati al primo cittadino, muovendosi come una falange, hanno presentato un disegno di legge per l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Un segnale chiaro. Un modo per dire: noi ci siamo e possiamo essere determinanti. «Sta marcando il campo », dice il capogruppo al Senato Luigi Zanda. Secondo il quale è stato un errore quel ddl. «E i giuramenti di Renzi sulla corrente che non sarebbe mai nata sono andati a farsi benedire».
Si confrontano due oggettive difficoltà. Quella del segretario che punta ad arrivare a Palazzo Chigi attraverso il suo schema bocciato nel primo giro di consultazioni. E quella di Renzi, per il quale la nascita di un governo che dura anche solo due anni «segnerebbe un arretramento, potrebbe diventare un treno perso», ammette uno dei suoi deputati. Ecco perché scatta l’operazione sabotaggio, spiegano a Largo del Nazareno. Matteo Richetti, tra i più vicini a Renzi, si è già guadagnato l’appellativo scherzoso di «sabotatore». Così lo chiama Dario Franceschini ogni volta che lo incrocia alla Camera. «Il possibile successo del segretario rovina i piani al rottamatore», dicono i bersaniani. E la rottura della tregua significa che oggi le chance del segretario sono in ascesa, che aver ribaltato l’ordine dei lavori mettendo al centro l’elezione del Colle dà a Bersani i margini di manovra che non ha avuto finora.
Renzi perciò deve uscire dall’angolo, ostacolando questa trattativa. E seminando il panico nel partito. Lo chiamano in tanti in queste ore. Telefonate che arrivano anche dal gruppo che sostiene (o ha sostenuto) il leader fino a questo momento. Ai suoi interlocutori il sindaco ha fatto capire di voler giocare il match a tutto campo. Senza escludere alcuna opzione. Aveva detto di non essere interessato alla segreteria del Pd,
che la sua unica mission erano le primarie per Palazzo Chigi, vincerle e candidarsi alla guida del Paese. Ma se Bersani va fino in fondo, la strategia può cambiare. «Sono pronto ad affrontare il congresso e a presentarmi come segretario», ha detto stupendo un “amico”. Creando una coabitazione con Bersani complicata e pericolosa. La premiership del resto è in bilico. «C’è la sfida del Quirinale, ci sono le sentenze di Milano. L’atteggiamento di Berlusconi nei confronti dello schema Bersani potrebbe cambiare», ammette Richetti.
Il segretario ha appena cominciato le sue manovre per la scelta del presidente: oggi vede Monti e organizza l’incontro con il Cavaliere. Deve potersi muovere senza intralci. Per questo, i suoi non accettano l’aut aut di Renzi. «Cosa vuol dire “fate le larghe intese”? Se fossimo in Germania la Grande coalizione sarebbe già nata. Con il risultato elettorale di febbraio il partito che è arrivato primo guida il governo e il secondo prende il ministero degli Esteri o la vicepresidenza del Consiglio. Ma non siamo in Germania, qui c’è Berlusconi. Matteo non lo sa?». Insistere sull’alternativa tra “armistizio” come lo ha chiamato ieri Francesco Boccia, uno di quelli che sente più spesso il sindaco, e il voto significa fare un piacere al Cavaliere. Ma anche il segretario ha un problema: la sua maggioranza congressuale regge di fronte a certi nomi che circolano per il Colle (Prodi in primis)? E i Giovani Turchi, favorevoli al voto a giugno, non sono pronti a siglare loro una tregua generazionale con Renzi lasciandogli la guida della “ditta”?

l’Unità 4.4.13
Antonio Misiani: «Niente rimborsi? Proposta legittima ma non è del Pd»
Il tesoriere democratico: «Dai renziani un contributo al dibattito ma vanno tenuti fermi alcuni principi: la politica non diventi un fatto per miliardari»
intervista di M. Z.


Antonio Misiani, dica la verità, non le è piaciuta l’ultima iniziativa dei renziani sul finanziamento pubblico ai partiti?
Il tesoriere Pd non perde il suo tono calmo e misurato. I fronti aperti nel suo partito sono così tanti che non ci si può permettere il lusso di creare altre linee di frattura. Ovvio che non ha fatto piacere ai piani alti del Nazareno sapere che un gruppo di senatori ha presentato una propria proposta di legge per abolire il finanziamento dei partiti, ovvio che sarebbe stato meglio discuterne negli organismi del partito e poi arrivare ad una posizione comune, ma anche questi sono lussi di altri tempi. «La considero un contributo al dibattito, ce ne saranno altri, si discuterà e alla fine il Pd presenterà la sua proposta», risponde il tesoriere.
Insomma, questa dell’abolizione è la “loro” proposta e lei ne prende le distanze?
«Quella proposta depositata da un gruppo di senatori riflette una posizione nota, ce ne sono altre, se ne dovrà parlare.
La proposta del Pd, come ha ribadito più volte Pier Luigi Bersani, dovrà affrontare il tema del finanziamento, rivedendo l’attuale sistema, ma anche quelli della democrazia interna e della trasparenza dei partiti».
Il tema del finanziamento ai partiti vede l’attacco di Grillo e quello di Renzi. Siete circondati, direbbe l’ex comico... «Affatto. Noi vogliamo intervenire su un tema che è molto sentito dai cittadini ed è un tema delicato di democrazia. Nel momento in cui un Paese decide come si finanziano i partiti decide su un pezzo importante della sua democrazia, stiamo guardando con interesse a quello che succede al riguardo nel resto d’Europa convinti, però, che sia necessario tenere fermi alcuni principi come la garanzia che la politica non diventi un fatto per miliardari».
Renzi, proprio alla vigilia della presentazione della proposta di legge che prevede l’abolizione, ha pubblicato l’elenco dei finanziatori delle sue primarie. Come a dire che se si vuole si può fare. «L’autofinanziamento dei partiti deve avere un ruolo determinante, tutti siamo convinti che debba essere valorizzata esaltata e incentivata la libera scelta dei cittadini di finanziare o meno le forze politiche a cui si sentono vicini. Per fare questo, però, è necessario trovare degli opportuni incentivi fiscali perché oggi nel nostro Paese la propensione a donare ai partiti politici è bassissima rispetto ai costi delle stesse campagne elettorali».
C’è chi dice che in realtà il Pd prende tempo perché senza i finanziamenti non potrebbe sopravvivere vista la struttura su cui si tiene.
«Qui non stiamo parlando del destino dei singoli partiti, non possiamo ridurre la discussione a questo. Quello di cui c’è bisogno è di una democrazia con partiti liberi da condizionamenti e per avere ciò c’è bisogno di strumenti che garantiscano parità di condizioni di partenza in campagna elettorale, come avviene negli altri Paesi, e quindi di incentivi alle piccole donazioni che non condizionano la vita dei partiti che le ricevono. Discutiamone insieme, nel partito, e individuiamo un percorso che ci porti a raggiungere questo obiettivo». Le è sembrata una provocazione quella dei senatori del suo partito?
«No, tutti i parlamentari hanno pieno diritto a presentare proposte di legge. Mi limito a segnalare che quella contenuta nella proposta di cui stiamo parlando non rappresenta la posizione del Pd».
Solo una coincidenza l’iniziativa dei senatori e poi la dichiarazione di Renzi sulla politica che sta perdendo tempo o c’è ormai un’altra partita che si aprendo nel Pd?
«Siamo in una stagione politica molto complessa ma non credo ci siano disegni preordinati. Preferisco pensare che nelle prossime settimane arriveranno molti contributi alla discussione per arrivare ad una proposta organica che risponda sì all’esigenza di rivedere il finanziamento pubblico ai partiti ma determini anche garanzie di democrazia nei partiti e trasparenza. Vorrei ricordare che su questi temi non dobbiamo rincorrere nessuno, siamo sempre stati per il cambiamento, come dimostra la legge 96 del 2012 (che ha ridotto i finanziamenti a 91milioni di euro l’anno, ndr), approvata su spinta del Pd. Siamo i primi a volere una politica rinnovata e sobria».

Corriere 4.4.13
La proposta anti rimborsi ai partiti fa litigare i Democratici
Mossa del sindaco di Firenze. E Bersani rilancia con le sue «consultazioni»
di Monica Guerzoni


ROMA — In un mondo che corre «a velocità doppia» stare fermi è una follia e così Matteo Renzi accelera, parla a Firenze e, pur senza nominare Bersani, fa a pezzi la linea del segretario: «Viviamo in una situazione politico-istituzionale in cui stiamo perdendo tempo». Un solo concetto, che piomba sul vertice del Pd come una dichiarazione di guerra. Anche per il tempismo (ritenuto sospetto) di una iniziativa parlamentare sul finanziamento pubblico che ha riacceso lo scontro tra bersaniani e renziani, rendendo evidente come il sindaco punti a rientrare in gioco da candidato premier. «È un'ipotesi che si fa...», ammette Alessandra Moretti, già portavoce di Bersani.
Con Renzi alle costole il segretario è costretto a muoversi. Chiama Mario Monti e fissa per oggi un appuntamento a Palazzo Chigi, tratta per incontrare Berlusconi e cerca agganci sperando in un faccia a faccia con Grillo: quasi un nuovo giro di consultazioni per cercare un accordo «largo» sul capo dello Stato e provare a tenere il partito.
Proprio ieri i senatori vicini al sindaco hanno depositato una proposta di legge per abrogare «interamente» il rimborso elettorale ai partiti. Dieci le firme, da Andrea Marcucci a Mario Morgoni, che chiedono di «studiare meccanismi alternativi che prevedano il contributo diretto dei cittadini». È il cavallo di battaglia di Renzi e i suoi parlamentari cercheranno un sostegno trasversale, il che allarma i bersaniani. La replica della segreteria è brusca. Il primo stop arriva dal tesoriere Antonio Misiani: «È una iniziativa legittima, che non riflette la linea del segretario Bersani. Ne verranno altre e ne discuteremo nel partito». Dove quel «discuteremo» è stato letto dai renziani come la minaccia di una conta dolorosa. «Stiamo facendo quello che detta il presidente della Repubblica — rincara Gianclaudio Bressa —. Il finanziamento pubblico? È necessario». Che il clima non sia fraterno lo conferma Stefano Fassina quando dice che «i renziani ogni tanto si dimenticano di appartenere allo stesso partito». Sembra che Bersani non voglia riunire la Direzione se non dopo l'elezione del presidente della Repubblica, ma i renziani scalpitano e chiedono di «cambiare rotta» per un «governo di scopo» con il Pdl.
Si dice che Luca Lotti, braccio destro del sindaco in Parlamento, stia faticando non poco a placare i bollenti spiriti di diversi deputati, che ragionano ad alta voce di ipotetiche «rotture» e di una futuribile «lista Renzi». Il ritorno in scena del sindaco rischia di saldare il fronte di quanti faticano a riconoscersi nella linea di un «governo del cambiamento» guidato dal segretario. Un fronte ampio, al quale vanno via via approdando veltroniani, dalemiani, lettiani, franceschiniani... «Renzi ha ragione — si smarca il lettiano Francesco Boccia —. O si firma un armistizio collettivo per un esecutivo credibile, o si va al voto subito. È come se fossimo inchiodati alla notte del 25 febbraio...». La spaccatura è così evidente che a sera Enrico Letta tenta la mediazione: «Ha ragione Renzi», ma i colpevoli dello stallo sono Pdl e 5 Stelle «perché hanno bloccato il tentativo di Bersani». La guerra è appena iniziata e Beppe Fioroni prova a placare gli animi: «La vera innovazione è eleggere un capo dello Stato condiviso, perché una divisione innescherebbe il big bang, anche nel Pd».

Corriere 4.4.13
I Democratici si dividono su Prodi al Quirinale
Quelle 120 firme per fermare la corsa di Prodi verso il Colle
di Maria Teresa Meli


Il piano B di Bersani ha molti oppositori e l'ipotesi di votare Prodi per il Quirinale, coinvolgendo almeno una parte dei grillini, rischia di non funzionare. Ben 120 parlamentari pd sono pronti a sottoscrivere una lettera per bloccare questa operazione.

ROMA — L'incontro ci sarà, su questo non dovrebbero esserci dubbi: Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi si incontreranno a breve. D'altra parte, nonostante le polemiche e le incomprensioni, il Partito democratico non ha mai chiuso i canali di comunicazione con il Pdl. Maurizio Migliavacca colloquia spesso con Denis Verdini. Vasco Errani in questi giorni ha parlato sia con Gianni Letta sia con Verdini. E dicono che ieri sera ci sia stato un primo contatto diretto tra Bersani e Arcore.
Insomma, la saracinesca del Pd non si è mai completamente chiusa nemmeno nei momenti peggiori. Ma le carte che Bersani ha in mano per convincere Berlusconi a un accordo sul Quirinale che sia propedeutico alla nascita del suo governo sono sempre meno. I nomi di Franco Marini, Giuliano Amato e Massimo D'Alema non piacciono nemmeno agli esponenti del Pd. «Ormai — ha detto Matteo Renzi ai suoi deputati e senatori — è guerra e quindi a Pier Luigi non sarà tanto facile fare giochini sul Quirinale». Per dirla in parole povere, sull'elezione del nuovo presidente della Repubblica i 51 parlamentari renziani non garantiscono nulla. Certamente, non sono disposti a votare per esponenti politici che secondo loro sono degni di essere rottamati.
Ma non basta. Anche tra i «giovani turchi» ci sono perplessità, tanto per usare un eufemismo. Matteo Orfini, che non è uno che le manda a dire, spiega: «Va bene il candidato condiviso, ma non può essere Marini, né un altro nome come quelli che girano. Ci vuole qualcosa di nuovo, ci vuole il metodo Boldrini e Grasso anche qui». Già, raccontano che i rapporti tra i «giovani turchi» e Bersani si siano deteriorati. Il segretario è sempre più portato a rinchiudersi nel «tortello magico» e a escludere l'ala sinistra del Pd che pure ha contribuito non poco alle sue primarie. Nel frattempo gli ex Ppi sono invece impegnati a far passare la candidatura Marini. In prima linea c'è Dario Franceschini. Ma anche Beppe Fioroni muove le sue truppe. Per entrambi non sarebbe giusto se l'area cattolica non avesse un suo rappresentante ai vertici delle istituzioni: non al Quirinale, non alle presidenze delle Camere e nemmeno a palazzo Chigi.
Come se non bastasse, anche il piano B di Bersani ha molti oppositori. L'ipotesi di andare a votare Prodi, coinvolgendo così almeno una parte dei grillini, rischia di non funzionare. Ben 120 tra senatori e deputati del partito sono pronti a sottoscrivere una lettera pubblica per bloccare questa operazione. Ovviamente, non si tratterebbe di un'iniziativa per dire «Prodi non passerà». Perché una cosa del genere nei confronti del padre dell'Ulivo non può farla nessuno. Sarebbe piuttosto una presa di posizione per esprimere contrarietà all'ipotesi di un candidato «divisivo». L'iniziativa partirà solo nel caso in cui il segretario intenda veramente buttare sul tavolo da gioco del Quirinale la carta Prodi. Del resto, che certe candidature non siano opportune lo pensano in tanti: «Non si può candidare Prodi perché divide troppo», spiegava l'altro ieri Orfini.
E dunque? Dunque adesso nel Partito democratico è forte la sensazione (e in alcuni anche la preoccupazione) che Berlusconi approfitti delle divisioni interne per riuscire a strappare un candidato non del Pd. «Se ci presenta una donna, una come Emma Bonino, ci spiazza», era il commento generale di un capannello di deputati, ieri sera. «Sarebbe una iattura», osservava Fioroni. «Non potremmo non votarla», gli replicava il veltroniano Walter Verini.

il Fatto 4.4.13
E ora un Presidente antiberlusconiano
di Paolo Flores d’Arcais


Al Quirinale deve andare un Custode della Costituzione e dei suoi valori, unico pegno perché nei prossimi sette anni siano garantiti in modo eguale i diritti di tutti i cittadini. Accadesse diversamente sarebbe un’indecenza. È perciò doveroso che sul Colle più alto venga insediato un Presidente ostile a Berlusconi, visto che della nostra Costituzione repubblicana Berlusconi è un nemico dichiarato e sfacciato: ha cercato di calpestarla e sopprimerla, l’ha aggirata infinite volte (senza trovare al Quirinale i necessari “altolà! ”), ha vilipeso i magistrati ligi solo alla “legge eguale per tutti” come mafiosi e metastasi, ha santificato i grassatori che derubano con l’evasione fiscale i cittadini onesti, ha esaltato come eroi i suoi stallieri/capicosca, ha riempito il Parlamento per quasi un ventennio di lenoni e prostitute, trasformandolo in una suburra, umiliando tale istituzione oltre ogni limite quando ha ottenuto che la sua maggioranza dichiarasse solennemente una meretrice “nipote di Mubarak” e dunque caso diplomatico.
Nell’attuale Parlamento ci sono ampiamente i numeri per un Presidente di svolta, di restaurazione democratica, prodromo necessario perché l’Italia esca dal quasi ventennio di abiezione che l’ha ridotta a macerie. Berlusconi pretende invece un Presidente d’Immunità, l’opposto di un Presidente “giustizia e libertà” che i valori della Costituzione e il voto degli italiani esigono. Bersani e Grillo si assumerebbero una responsabilità imperdonabile, se – per opere o per omissioni – non eleggessero un tale Presidente, visto che ne hanno i numeri.
L’eletto al Quirinale condizionerà almeno due legislature, oltre che le scelte immediate (il governo, e il se e quando di elezioni anticipate). Senza arrivare a definirli Presidenti d’Immunità (i potenti oggi hanno la querela facile, e tutti i nomi che faremo sono di gentiluomini) risulta lapalissiano anche ai bambini e ai sassi, che i prossimi sette anni sarebbero diversissimi per la vita civile, politica, sociale, se al Quirinale andassero Grasso anziché Caselli, Marini anziché Zagrebelsky, Veltroni anziché Laura Boldrini, Amato anziché Rodotà, Violante anziché Cordero, o un riconfermato Napolitano anziché Barbara Spinelli. E non dimentichiamo D’Alema anziché Prodi. Il Pd e il M5S hanno le carte di molti nomi per far vincere la prima mano all’Italia che vuole la rivoluzione morale della legalità e della lotta ai privilegi e alla corruzione. Non ascolti il Pd le sirene delle “larghe intese”, non ascolti il M5S le sirene dell’autoreferenzialità.

l’Unità 4.4.13
Il Cav pensa al voto, Carfagna vuole Bonino sul Colle
Gli sherpa al lavoro per favorire l’incontro con il leader dei Democratici
di Federica Fantozzi


Per Silvio Berlusconi si prepara una serie di apparizioni tv tra aprile e maggio. E quattro manifestazioni di piazza: si parte con Bari, sabato 13, poi una al Nord, e altre due da definire. Il Pdl è in campagna elettorale. Calendario alla mano, non vuole rinunciare al pur difficile voto estivo.
Tamburi di guerra. Anche se, dietro le quinte, i pontieri lavorano per concretizzare un incontro tra il Cavaliere e Bersani. Un faccia a faccia sarebbe il primo dal momento del voto e dopo che Silvio ha lamentato di «non aver ricevuto nemmeno una telefonata» per stemperare le diffidenze e cercare un’intesa. I nomi della rosa piddina per il Quirinale, al momento, restano gli
stessi: Franco Marini e Giuliano Amato. Mentre in serata Mara Carfagna spiazza tutti con un endorsement a Emma Bonino: «Da lei mi sentirei garantita e sarebbe un cambiamento». La neo-portavoce azzurra chiarisce però che è un punto di vista personale. E difficilmente condivisibile dal Cavaliere.
E dunque, canale ancora aperto con il Pd. Oltre al solito Gianni Letta, a tenere i contatti con Vasco Errani è anche Denis Verdini. Berlusconi è ad Arcore dove dovrebbe rimanere tutta la settimana. Ma non si escludono cambi di programma all’ultimo momento.
Ieri i capigruppo Schifani e Brunetta hanno convocato separatamente i loro parlamentari per comunicare la linea emersa dal vertice ad Arcore (dove il Cavaliere è rimasto). Questa, appunto: «Avanti verso le urne. Non si vede nessuno spiraglio per un accordo. Il Pd non vuole le larghe intese né alcuna forma di collaborazione, a partire dal Quirinale». Nel Cavaliere la voglia di elezioni è forte, nel partito meno. Ma il duello tra falchi e colombe, mai come in passato, sta polarizzando le posizioni. Anche il Pdl ormai ha il suo «cerchio magico»: Brunetta, Santanché, Verdini, Biancofiore.
Non sono certo le colombe ad avere presa sul leader in questi tempi. Ne è prova l’autodafè di Quagliariello, che per essere entrato nella commissione quirinalizia ha suscitato gelosie e ire funeste. Da chi lo accusa di essere troppo filo-montiano a chi, come Schifani, si duole dell’assenza di Brunetta. Così ieri, dopo aver partecipato alla riunione, il senatore ha precisato: «Non sono un saggio ma un uomo di partito». Insomma, sui «saggi» non spira un venticello favorevole. Anche se l’invito è a perorare la causa del presidenzialismo come riforma ineludibile.
A via dell’Umiltà si lavora con grande impegno sulle manifestazioni. Centralini bollenti, coordinatori regionali di nuovo allertati, pullman da prenota-
re. Non sono ammessi flop. Fitto è in trincea: dalla sola Puglia dovrebbero confluire nel capoluogo 60mila persone. In trincea anche i governatori della Calabria Scopelliti e del Molise Iorio. Per il Nord Italia si pensa a Milano, ma dipenderà anche dall’atteggiamento della Lega. Di certo, nel campo azzurro c’è solo Berlusconi. È stato tutto lo stato maggiore, da Alfano in giù, nella riunione di mercoledì a chiedergli di tornare in tv. Per «dare una spinta ulteriore ai sondaggi».
LA PAURA DELLE URNE A LUGLIO
Eppure, la crociata contro il Pd «che occupa militarmente tutte le cariche istituzionali» non convince tutto il partito. Intanto perché il rischio come sa bene anche il Cavaliere è quello di ritrovarsi un nome sgradito sul Colle e poi un governo Pd (magari guidato dallo stesso Bersani), con tanti saluti alla finestra elettorale di giugno. Anche perché nel Pdl stanno facendo i conti e sono consapevoli che si finirebbe alla prima metà di luglio. E il voto balneare, l’ultima volta nel 1983, allora costò cinque punti alla Dc. Con Grillo alle porte non si muore dalla voglia di tentare di nuovo l’esperimento.
Insomma, dietro la facciata di intransigenza, qualcosa si muove. Ieri la capigruppo a Montecitorio non ha dato via libera alle commissioni parlamentari. «Non partiranno finché non c’è un governo» ha sintetizzato Brunetta. Il Pdl ha dato lo stop a Sel e grillini che premevano per l’avvio. «Ma su questo siamo in sintonia con il Pd spiega un deputato Si tratta di aspettare e vedere che cosa succede. Del resto, ancora non sappiamo se saremo opposizione o maggioranza». Segno che le speranze non sono del tutto tramontate. Gli ultimi rumors del Transatlantico ipotizzano addirittura il varo di commissioni «transitorie» per cominciare i lavori mentre la politica non ha ancora deciso chi guiderà il Paese.

Corriere 4.4.13
La portavoce del Pdl alla Camera
Mara Carfagna: «Per il Quirinale mi piacerebbe una donna come la Bonino»

qui

Repubblica 4.4.13
Ora Berlusconi propone D’Alema al Colle “È meglio di Prodi e il suo nome divide il Pd”
Nella rosa anche Amato e Marini. Si lavora all’incontro con Bersani
di Carmelo Lopapa


ROMA — È il colpo di coda per uscire dall’angolo. Per scuotere la palude nella quale si ritrova a quaranta giorni dal voto e alla vigilia dell’elezione per il Colle. Silvio Berlusconi è deciso a sostenere e sponsorizzare la candidatura di Massimo D’Alema per la successione di Giorgio Napolitano. Lo farà nell’incontro col segretario Pd Bersani che con molta probabilità si terrà la prossima settimana.
«Se faccio quel nome getto il Partito democratico nello scompiglio, da Massimo mi sento più garantito che non da Prodi o da altri nomi che vorrebbero imporci» è la strategia da “Piano B” che il capo Pdl ha illustrato ad Arcore solo alla cerchia più ristretta. L’ipotesi “A”, portare un uomo del centrodestra al colle più alto, non è mai decollata, sprovvista di numeri a sufficienza. E allora c’è l’incubo Romano Prodi da cacciare, come pure quello di candidati non politici che i grillini potrebbero alla fine sponsorizzare, da Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky. Il ragionamento che Berlusconi propone in queste ore ai suoi ruota perciò, ancora una volta, attorno ai suoi conti irrisolti con la giustizia, la sentenza Ruby forse a settembre, quella definitiva Mediaset tra meno di un anno. È da una figura come quella di D’Alema, va ripetendo, che si sentirebbe «più garantito: di certo non è un giustizialista come tanti altri».
Destinata a slittare l’udienza fissata per il 18 aprile in cui la sesta sezione della Cassazione avrebbe dovuto decidere se trasferire da Milano a Brescia i processi Mediaset e Ruby: quel giorno infatti sia l'ex premier sia i suoi legali parlamentari Ghedini e Longo saranno impegnati nella sedute a camere riunite per l’elezione del capo dello Stato. Boccate d’ossigeno, giorni in più, in ogni caso il cielo su Arcore si fa plumbeo. Berlusconi non si dà per vinto: «Ormai è chiaro che si tornerà a votare presto, se non strappiamo giugno sarà ottobre, e l’elezione di D’Alema ci consente di piazzare comunque al Colle un politico ostile a Renzi, che sarà con molta probabilità il mio avversario». Il sindaco di Firenze, insomma, nella visione del Cavaliere non avrebbe vita facile anche in caso di vittoria.
Le diplomazie di Pdl e Pd sono già al lavoro per il faccia a faccia. Anche se fonti ufficiali e lo stesso portavoce Paolo Bonaiuti smentiscono che qualcosa si muova: «Il Pd ha portato tutto nella palude». Una tela tuttavia sembra tuttavia che Errani e Letta, da un parte, Alfano e Verdini, dall’altra, la stiano tessendo. Anzi, quel che risulta al fronte democratico è che a un incontro ufficiale il Cavaliere gradirebbe affiancarne uno, per dire così, più coperto e perciò proficuo per un’intesa. A quel tavolo Berlusconi intende presentarsi con una terna di nomi, della quale l’ex presidente della Bicamerale sarebbe il «capolista». A seguire, figurano quelli di Giuliano Amato e di Franco Marini. Con l’ex premier di cultura socialista, il leader Pdl ha sempre intrattenuto ottimi rapporti, così anche con l’ex presidente del Senato Pd. Figure che comunque rispondono all’identikit del «male minore». In ogni caso, per dirla con una fedelissima come Michaela Biancofiore, «Berlusconi non si farà mettere nell’angolo» in questa partita. Il resto è schermaglia. Come l’idea Emma Bonino lanciata nel frattempo da Mara Carfagna, portavoce del gruppo, subito stroncata con stizza dal capogruppo Brunetta: «Opinione personale». Sebbene nelle chiacchiere da buvette a Palazzo Madama, in questi giorni, anche Augusto Minzolini non escludeva la carta Bonino da contrapporre a Prodi. L’ex presidente della Commissione europea in realtà è una pedina che il Partito democratico intende muovere solo in un’ottica d’intesa con il Movimento cinque stelle. I rapporti personali, il pranzo mai smentito tra Prodi e Grillo di qualche tempo fa, dovrebbero andare in quella direzione, ma nulla è scontato. Nell’incontro in programma oggi con il premier Monti a Palazzo Chigi, Pierluigi Bersani affronterà il nodo Quirinale, per definire anche con Scelta civica una strategia condivisa. Berlusconi avverte l’accerchiamento. Ecco perché ha già pianificato la nuova prova di forza, la manifestazione di piazza, stavolta a Bari, di sabato 13 aprile. Alla quale farà seguire quella del 27 a Brescia. E un’altra ancora, in via di organizzazione due settimane dopo, a Catania o Palermo. Ritmo da campagna elettorale, non a caso: per il Cavaliere è già cominciata.

l’Unità 4.4.13
Michele Di Salvo
«Così guadagna il partito-azienda di Grillo»
«Il suo reddito conosciuto è quintuplicato dopo il 2004 e raddoppiato negli ultimi tre anni ed oggi è tra i 4 e i 5 milioni netti di euro annui»
intervista di Roberto Rossi


Nelle democrazie occidentali il partito-azienda è un'invenzione italiana. Nasce ufficialmente il 18 gennaio 1994, quando alla presenza di un notaio Silvio Berlusconi e gli altri soci fondatori (Antonio Tajani, Luigi Caligaris, Antonio Martino, Mario Valducci) danno vita al “Movimento” politico Forza Italia. Pochi giorni dopo, l’annuncio, con la videocassetta registrata consegnata ai Tg, della discesa in campo per il bene dell’Italia. Vent'anni dopo, come ci spiega Michele Di Salvo, esperto in comunicazione, blogger e autore di un libro sul comico genovese (Chi e cosa c’è dietro Grillo e al Movimento 5 Stelle) lo schema sembra ripetersi. L'intreccio tra politica e affari come ragione sociale di una nuova formazione politica che, oggi come allora, sta scuotendo dalle radici le istituzioni italiane.
La domanda più ovvia è come guadagna Grillo dal suo blog?
«Le fonti di reddito del blog sono molte e sfruttate al massimo. Basta fare un semplice esperimento visivo, eliminando «i contenuti» e vedere quanto resta come spazi destinati alla pubblicità. Come quella diretta, ovvero vendita di gadget e di prodotti marcati Grillo (libri, dvd etc), alla quale va poi sommato il guadagno indiretto, attraverso le partnership che generano royalty, come ad esempio per ogni utente che si registra e acquista su Amazon partendo dal blog di Grillo».
Ma i gadget rendono tanto?
«Fino a poco fa la vendita di libri e dvd era l’unica forma di finanziamento del blog. A gestire il “merchandasing” è un altro portale, GrilloRama (grillorama. beppegrillo.it). Sono in vendita magliette, dvd e libri di Beppe Grillo. Qualsiasi campagna, tour, comizio, battaglia del comico-politico, ma anche i dvd di Marco Travaglio (tra l'altro venduti a Current Tv per 100mila euro a stagione) è diventata un prodotto di GrilloRama». E la pubblicità?
«Secondo il «Il Sole24Ore» traffico stimato raggiunge una media tra i 150 e i 200mila utenti ogni giorno e circa 1 milione di pagine viste. La scelta di affidarsi alla pubblicità Google è piuttosto recente da parte della Casaleggio Associati. Con la crescita del Movimento il blog di Grillo è finito nella categoria top-site degli Ad-Sense di Google: la pubblicità sul blog del comico ora può essere stimata fino a un massimo di 2,49 euro per ogni click e 5 euro ogni mille visualizzazioni. Partendo da questi dati il Sole24Ore ha calcolato per Beppegrillo.it un ricavo annuo che oscilla tra i 5 e i 10 milioni di euro, anche se ci sono analisi (come quella di Webnews) che riducono la forchetta tra 1,5 e i 2,2 milioni».
E poi?
«Poi ci sono le campagne dirette, quelle strutturate in offerta, come ad esempio quelle proposte su beppegrillo.it/adv in cui vengono proposte alle aziende campagne a tema su più canali. E questo dà un significato concreto alla considerazione per cui la vera forza e capacità attrattiva è il network».
In che senso?
«Il blog di Grillo può essere visto come l’elemento centrale di un network che genera accessi e condivide contenuti. Intanto il network diretto, ad esempio il canale Youtube, il sito del Movimento, e la webtv “La Cosa”, cui si è aggiunto il canale streaming dei gruppi parlamentari, in cui ogni video viene visualizzato dopo uno spot di 20 secondi. Poi ci sono i siti “indiretti”, ovvero quelli apparentemente non collegati (come Tze-Tze o Cadoinpiedi). Partendo dal blog e dai corrispettivi account sui social network (ufficialmente 1,3 milioni di fan su Facebook, 1,2 milioni di follower su Twitter), questo traffico viene spostato e condiviso su una serie di siti satellite (anche questi con pubblicità a pagamento) che, comunque, appartengono alla gestione della Casaleggio». Quanto si è arricchito Grillo in questi anni di attività politica?
«Possiamo parlare solo di stime, tenendo conto di quanto si sa dalle sue dichiarazioni dei redditi, e di per sé non è la fonte più attendibile, se consideriamo i tre condoni tombali ed due edilizi cui ha aderito Grillo. Bene, se consideriamo queste informazioni mediamente il suo reddito conosciuto è quintuplicato dopo il 2004 e raddoppiato negli ultimi tre anni ed oggi è tra i 4 e i 5milioni netti di euro annui».
Che legame c'è con la Casaleggio Associati?
«Casaleggio Associati è l’azienda-motore, specializzata in comunicazione virale e in e-commerce e gestione di rete. Grillo ci mette il nome e la visibilità e Casaleggio il know-how per far “rendere economicamente” la presenza in rete. È Casaleggio che sceglie e che cura tutti i contenuti. Quindi il primo problema che si pone è sino a che punto ciò che “firma” Grillo lo pensa, è
il suo pensiero, è la linea politica del Movimento, e dove invece comincia la necessità virale di creare contenuti provocatori a tutti i costi per “stimolare” la partecipazione di rete dei lettori tenendo costantemente ed a qualunque costo alta l’attenzione e i toni. Come si fece con le false notizie come la finta lettera del Papa, o del Presidente Cinese, o la Biowashball, o quella sull’olio di colza nelle auto, o la presunta lettera dell’economista Stiglitz».
Grillo-testimonial e leader di un movimento politico e Casaleggio spin doctor e proprietario di un'azienda di marketing. Non esiste un conflitto di interessi sui contenuti tra l'azione politica e l'attività commerciale?
«Certo, si pone il problema del “chi finanzia chi” e per fare cosa. Ad esempio: mettiamo che il Movimento 5 Stelle proponga l’uso nelle pubbliche amministrazioni di auto elettriche e proponga una certa casa automobilistica, chi assicura che quell’azienda non sia cliente della Casaleggio o che quella azienda non faccia una campagna tematica sul network di Grillo? Nessuno vuole dubitare della buona fede di tanti, ma in assenza di regole chiare e di policy trasparenti, è per primo Grillo che afferma essere buona norma porci dei dubbi».
Come viene finanziato il Movimento 5 Stelle?
«Nello stesso modo del blog. Il Movimento risulta giuridicamente una “Associazione non riconosciuta”. Nello statuto viene spiegato che il Presidente è Grillo che “in qualità di titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo www.beppegrillo.it, nonché di titolare esclusivo del contrassegno di cui sopra” – ovvero quello del Movimento – spettano “titolarità, gestione e tutela del contrassegno, titolarità e gestione della pagina del blog www.beppegrillo.it”. Non solo, al presidente Grillo compete “amministrazione e gestione di eventuali fondi dell’Associazione”. Di quali fondi si parla? “Di una quota annuale versata dagli associati; di contributi volontari di persone fisiche, di Enti Pubblici e Privati; di sovvenzioni dello Stato, delle Regioni o di Enti; di eventuali proventi derivanti dalla fornitura di servizi; di donazioni e lasciti testamentari”». Che cosa comporta l'essere associazione non riconosciuta?
«Non è soggetta al vincolo della trasparenza di bilancio, nemmeno in forma semplificata. Non è prevista la figura del tesoriere, e quindi di un soggetto “terzo” delegato alla raccolta e spesa dei fondi ed alla relativa rendicontazione. Dobbiamo aggiungere che questa associazione esiste dal dicembre 2012, il che pone il problema di chi, come e a che titolo abbia versato i soldi delle raccolte on line e di quelle nelle piazze, come abbia gestito questi fondi, con quali poteri, come abbia documentato gli incassi e le spese, e soprattutto “dove sono finiti questi soldi” e a quanto ammontano».
Il che crea un problema di trasparenza contabile?
«Qui si pone la domanda posta a Grillo da anni senza che nessuno nemmeno nel Movimento si sia posto lo stesso quesito. Il M5S ha aperto un conto su “Pay Pal” (una società che offre pagamenti on line). Questo conto risulta intestato a “Movimento 5 Stelle Genova”. Non è un conto “personale” quindi... ma Pay Pal per aprire un conto non personale (di un associazione, ad esempio) richiede il codice fiscale o partita iva, nonché i documenti ufficiali del soggetto collettivo intestatario del conto, nonché la sede legale ed i dati del responsabile legale. Ora non risulta che i M5S locali abbiano un codice fiscale, una partita iva, una sede legale, così come non risulta siano costituiti in struttura formale con un responsabile legale. Quindi quel conto a chi è intestato? Chi lo gestisce, come, perché, a chi rende conto, quali sono i documenti contabili?
Già, chi lo gestisce?
«E chi lo sa. L'M5S non prevede organi di controllo interni; viene tutto lasciato alla discrezione di una sola persona. E così anche nella gestione dei fondi.Vede, se casi scandalosi come quelli di Lusi o Fiorito sono emersi, è proprio perché esisteva un tesoriere, esistevano delle regole cui attenersi nella spesa dei fondi e una precisa tenuta contabile. Senza regole tutto è più opaco. Faccio un esempio: i partiti devono dichiarare a chi pagano un affitto di una sede, registrare il contratto, esibire una ricevuta fiscale e dimostrare dove prendono quei soldi per pagare quel canone. Nella rendicontazione parziale del Movimento si evince solo “dati x euro a tizio per pagare affitti” non meglio precisando alcun ulteriore elemento. Ciascuno ha la propria idea di trasparenza. Che cosa ci guadagna invece Casaleggio?
«Tanto. Intanto in termini di visibilità e di vera o presunta autorevolezza, e in Rete sappiamo che conta più la percezione che la sostanza. Da questa autorevolezza nasce un enorme potenziale in termini di lobbing, ovvero nella capacità di mettere insieme e fare incontrare interessi privati e interlocutori politici. Chiariamo, tutto legittimo. Ma il punto è il limite, e la trasparenza dei rapporti. Da ultimo resta l'interrogativo: chi gestirà i circa dodici milioni di euro che andranno ai gruppi parlamentari 5 Stelle?»

Corriere 4.4.13
Mistero triste a cinque stelle
di Gian Antonio Stella


Tutti nemici, moltissimo onore? Dopo avere espresso il loro disprezzo per tutti i partiti («Noi vogliamo una cosa nuova. Una iper-democrazia senza i partiti. Che non contempla i partiti»: Beppe Grillo), per tutti i giornalisti italiani («Mi stanno tutti sul c...»: il capogruppo al Senato Vito Crimi), per tutti gli accordi («Noi non faremo mai accordi coi partiti»: la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi), nel mirino dei pentastellati sono finiti tutti gli intellettuali.
«Abbiamo sottolineato che nel nostro Movimento non ci sono intellettuali», ha spiegato come se rivendicasse l'assenza di ladri o stupratori il portavoce a Montecitorio Enrico Massimo Baroni raccontando dell'incontro all'ambasciata americana, «E quando loro hanno citato il nome di Fo abbiamo fatto notare che non è un intellettuale perché ha scritto Mistero Buffo dove dà voce alla gente comune». Tesi interessante perché escluderebbe dalla repellente categoria Charles Dickens (scrisse dei bassifondi londinesi) o Victor Hugo (si occupò di miserabili) lasciando però un dubbio: e Montale, Sciascia, Calvino? Gente da evitare?
Ora, che si possano attaccare molti intellettuali è legittimo. Fu durissimo, tra gli altri, Indro Montanelli ricordando che «la cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse e non poteva essere altrimenti visto che il principe era, in un paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato il suo unico committente». Ma da qui a fare di ogni erba un fascio, ne corre. E sarebbe troppo facile ricordare i precedenti agghiaccianti di chi a destra e a sinistra mostrò lo stesso spregio sommario per gli intellettuali in quanto tali.
Dice Beppe Grillo: «Ma noi siamo boy scout, senza di noi verrebbero avanti le camicie brune!». È vero. Ed è giusto dargliene atto, in questi momenti di sbandamento, con sollievo. C'è però un abuso di manicheismi, insulti e giudizi sommari, nei dintorni del leader genovese, che offusca le buone ragioni e mette inquietudine. Di qua i buoni, di là i cattivi. Di qua «quelli con noi», di là «quelli contro di noi». Tra i quali è facilissimo scivolare agli occhi dei più accigliati guardiani della rivoluzione grillina alla prima perplessità o ironia che lasci uno schizzetto (si pensi a Fiorello) non sui bersagli soliti ma sulla purezza adamantina del Movimento.
È rischioso giocare con la parola «tutti». Ed è rischioso scommettere, come sembra fare il M5S anche al di là delle volontà dei singoli eletti e di tanti elettori, sui fallimenti altrui. Alla larga dall'idea delle virtù magiche e salvifiche di una alleanza che tenga dentro tutti meno il Grande Intruso. Anzi, potrebbe essere perfino una scelta pessima. Ma il punto non è questo: è che fare il tifo perché tutto si impantani e i «nemici» siano costretti a mettersi tutti insieme in una ammucchiata «inciucista» nella convinzione che finirebbe poi in una rissa disastrosa alla quale il Paese si ribellerebbe chiedendo d'essere salvato al Movimento 5 Stelle, è una brutta scommessa. Già vista, purtroppo, nella nostra storia. Dove spesso quei partiti detestati dai grillini, in nome del «tanto peggio tanto meglio», hanno badato agli interessi di bottega prima che a quelli dell'Italia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Vogliamo ricominciare?

l’Unità 4.4.13
Perché Grillo non risponde a Marine Le Pen?
di Toni Jop


Fino a questo momento, la notizia è che non c’è notizia. L'altro giorno, Grillo è stato raggiunto da un pressante invito condito da encomi sottoscritto dalla signora Marine Le Pen, leader della destra-destra francese. Chiedeva di essere chiamata, di parlare con lui. Perché molto li unisce: l’anti-europeismo, l’intrattabilità istituzionale, una certa orgogliosa purezza, una critica fondamentale, dotata di sentenza già bella e fatta, all’intero quadro politico. Di questa «letterina» profumata, sul blog di Grillo non c’è traccia. Magari non l’abbiamo vista. Come mai? Se è in qualche sottoscala, perché si è scelta una posizione tanto in ombra per una questione di politica internazionale che tocca il M5S? Marine Le Pen ha detto di
condividere la scelta di Grillo di non accettare promiscuità con le forze corresponsabili dell’attuale stato di cose. E lui, da bravo, ieri ha ribadito il concetto giusto mentre i suoi parlamentari stavano valutando che pesci pigliare a proposito, anche, del governo. Se volevate vederci sostenere un esecutivo Pd, avete sbagliato, la prossima volta cercatevi un altro partito, così ha trasmesso in sostanza. La notizia è che Grillo non ha ancora fatto sapere la sua risposta a Marine Le Pen. O non lo ha fatto sapere fuori dal suo salottino, e sarebbe peggio. Come mai? Non merita risposte? Casaleggio non ha ancora trovato il tempo? Non è pronta la piattaforma web in cui i grillini dovrebbero esprimere la loro opinione?

Repubblica 4.4.13
Decisi i posti nelle Camere, i grillini vicino al Pdl
Il M5S sarà seduto tra la Lega e Scelta civica

qui

il Fatto 4.4.13
Comunicazione 5 stelle
Nik il nero, Favia e la fitta al bicipite


È appena passata mezzanotte, sera di giugno di tre anni fa, quando Nicola Virzì si mette davanti al computer e butta giù le 40 righe che lo separano dal Movimento. Un durissimo grido di accusa contro le persone con cui ha condiviso anni di battaglie. Poi, niente più riunioni, addio meetup. Fino all’altro ieri quando Nicola, ovvero Nik il nero, fa il suo rientro dal portone di ingresso principale: responsabile video per il gruppo 5 Stelle del Senato. In mezzo, ci sono un migliaio di giorni e un’espulsione, quella di Giovanni Favia. Per capire cosa leghi queste faccende apparentemente lontanissime bisogna tornare a quella sera del 18 giugno del 2010. Nicola Virzì, fino a quel momento, è una delle colonne dei grillini bolognesi. Ha fondato il Movimento nel 2007, con sua moglie ha sfamato decine di ragazzi cresciuti a pane e Beppe Grillo. Riunioni continue, niente sabati né domeniche. Nik – titolare di una ditta che si occupa di segnaletica stradale – vive per il Movimento, sua moglie, Serena Saetti, pure. Tanto che oggi è consigliera di quartiere a Bologna. Poi arriva la crisi. E nel 2010 bussa anche a casa Virzì. I conti non tornano, la ditta chiude. Nel frattempo però gli affari del Movimento cominciano ad andare bene. A marzo si è votato, i 5 Stelle hanno preso il 7 per cento. E Giovanni Fa-via, cresciuto a pane, Grillo e Nik, è diventato consigliere regionale.
BRINDISI E FESTE, poi si comincia a lavorare. Servono collaboratori e Favia ha un amico disoccupato che gli chiede aiuto. I video, Nik, li ha imparati a fare nelle giornate passate con gli attivisti: interviste a politici, a giornalisti: “Con una telecamerina – diceva – si può abbattere il muro delle ingiustizie”. Ma in Regione servono professionisti. E poi il Movimento che fa del merito una bandiera, che chiede il curriculum anche a Zagrebelsky, non può scegliere un collaboratore solo perché è un amico di vecchia data. Favia, comunque, un contratto di prova a Nik lo fa. Lo avverte però che si tratta di una situazione temporanea, che nel frattempo farà colloqui con altre persone. E alla prima scadenza, un paio di mesi dopo, non gli rinnova più il contratto. È lì che Nicola Virzì si mette davanti al computer e butta giù tutto il suo rancore, scusandosi per il suo “pessimo italiano”: “Ultimamente avrete notato il mio pessimo umore alle riunioni, ma cazzo io non mi ci ritrovo più (...) in Regione mi sento un estraneo, non me l’immaginavo così, pensavo di rivedere le nostre faccie in quegli uffici a lavorare come un tempo, con gli scazzi e le risate che si sarebbero sentite fino all'atrio di quel triste palazzo della Regione, avremmo rinfrescato l'ambiente (…) li è tutto blu petrolio e grigio con persone tristi e incravattate e noi ci stiamo adattando (…) Per fare politica a quanto pare ci vogliono dei tecnici e non il cuore delle persone, bisogna sottostare a delle regole che io non accetto, io sono libero e voglio esprimermi come so fare, semplicemente, in modo diretto senza paura, non voglio essere un professionista voglio rimanere Nik, con i miei difetti con il mio entusiasmo. (…) in Regione hanno deciso giustamente di fare una sorta di bando per un video operatore e altre figure che collaborino con loro chiedendo il curriculum, io non potrei farlo per tre motivi: non ho studiato per fare il video operatore, non voglio soldi dal movimento, non potrei mai e poi mai snaturare il mio modo di riprendere e montare i video per seguire un targhet che a me non piace”. È da lì che il “caso Favia” comincia a montare. La campagna di Nik contro il consigliere regionale è feroce. Su Face-book, su Twitter e poi dalla cabina del suo camion – che nel frattempo è diventato il suo nuovo lavoro – manda “editoriali” di fuoco: “I panni sporchi – dice – li lavano in casa solo i vecchi partiti”. A novembre del 2012, durante una riunione del Movimento bolognese, è lui che aizza gli attivisti a gridare “Vergogna” contro i giornalisti. Un consigliere di quartiere, Pasquale Rinaldi, cerca di calmare la situazione. Lui gli fa capire che è meglio che stia zitto: “Ad un certo punto – raccontò all’epoca Rinaldi – sento una fitta lancinante al bicipite sinistro e voltando la testa mi accorgo che Nik il nero mi ha afferrato per il braccio, stringendo con una forza inaudita. A quel punto mi trascina per tutta la sala, mi avrà trascinato per una decina di metri credo, e nel frattempo continuava ad insultarmi dicendomi che mi dovevo fare i cazzi miei e che non dovevo rompergli i coglioni, ecc. Siamo ostaggio dei violenti – proseguiva Rinaldi – e non abbiamo strumenti per distinguerci da costoro. Stiamo diventando fascisti ed ho paura”. Martedì Nik è arrivato al Senato. Lo ha voluto Casaleggio in persona. (pa.za.)

Corriere 4.4.13
«Chi vuole accordo col Pd ha sbagliato a votarci»
Beppe Grillo lancia l'anatema contro gli elettori del M5S che insistono per un'intesa con Bersani

qui

l’Unità 4.4.13
M5S, dissenso vietato. Scoppia caso Mangili
Dopo un’altra giornata di tensione, il comico avverte: «Mai col Pd»
Il Senato boccia le dimissioni della grillina lombarda
Spaccatura nei gruppi 30 eletti vogliono «proporre qualcosa»
di Claudia Fusani


Alla fine di un’altra giornata di disastri due deputati rimproverati per strada dai passanti stufi dei «no» a Cinquestelle -, lacrime quelle della deputata Giulia Sarti smentite dalla stessa -, interviste dal sen fuggite ma forse no quella del senatore Lorenzo Battista e le dimissioni respinte dall’aula della senatrice Mangili, gli tocca postare un altro messaggio. Per tenere la linea politica che sbanda ogni giorno. Questa volta Grillo se la prende direttamente con i cittadini-elettori, la base elettorale, quella che mugugna e non da oggi sul blog contro l’inerzia Cinquestelle. «Se volevate l’accordo con il Pd, allora avete sbagliato a darci il voto, dovevate darlo al Pd» scrive il comico alla fine di una serie infinita di interrogativi polemici del tipo: «Perché hai votato il MoVimento 5 Stelle? Per fare un governo con i vecchi partiti? Per votare in Parlamento i meno peggio? Per discutere con il pdmenoelle di programma quando quello del M5S è il suo esatto contrario? Per spartire poltrone e posti di comando a partire dalle presidenze di Camera e Senato?». È l’ennesima porta in faccia al Pd. Questa volta il comico decide di far sentire il rumore direttamente ai suoi elettori, se avete capito male, la prossima volta sapete come fare. Ed è anche la negazione di ogni forma di dissenso e di confronto interno.
Ogni giorno ha la sua pena. Quelle di Grillo stanno diventando croci enormi. I capi comunicatori si sforzano a dire che va tutto bene, che i «dissensi» sono invenzioni dei giornalisti, le «fratture» il risultato di visioni del terzo tipo. Il coordinatore dei comunicatori, il Byoblu Claudio Messora, mostra le stimmate della politica reale cicatrici di herpes da stress intorno alla bocca e se la prende perché la sala registrazioni video al secondo piano di palazzo Madama «non è stata ancora insonorizzzata».
La verità è che i Cinquestelle fanno in tempo a tappare un buco e subito se ne apre un altro. Ormai siamo oltre i casi isolati. Dei 163 eletti, 80 sono contrari a fare almeno i nomi di un governo a Cinquestelle come stabilito dalla Trinità Grillo-Casaleggio-Becchi, ma 30 sono a favore di un minimo di interlocuzione con Bersani e Napolitano e un’altra decina si astiene. Segno che è come minimo incerto. Dopo venti giorni in Parlamento, i grilli sono sempre meno compatti. E attraversati dai dubbi. «Abbiamo perso un’occasione» dice il senatore Lorenzo Battista, triestino, «dovevamo portare almeno un nome per il candidato premier. Avere proposte, dimostrarsi incisivi, essere capaci di concretezza non sono mai azioni criticabili». Davanti alle parole in chiaro di Battista lo staff dei comunicatori allarga le
braccia, non possono controllare tutti. Davanti alle lacrime di Giulia Sarti fanno trapelare che «la ragazza è sotto stress», in ogni caso la diretta interessata smentisce di aver versato lacrime. Di fronte al post della deputata bolognese Mara Mucci -«occorre fare un passo concreto verso una reale proposta di governo» lo staff dei comunicatori al secondo piano ammette: «Non sarà mai data libertà di coscienza nel voto. Questo il Pd e Bersani se lo possono scordare. Noi siamo qui per stare all’opposizione. Detto questo, diamo per scontato di poter perdere qui al Senato 5-6 voti».
L’ultima grana arriva nel primo pomeriggio. Intorno alle sedici l’aula del Senato respinge le dimissioni della senatrice grillina Giovanna Mangili. E lo fa costringendo il Movimento ad uscire allo scoperto su uno dei punti cardine di ogni democrazia rappresentativa: la libertà di coscienza, l’assenza di vincolo di mandato, il rispetto dell’articolo 67 della Costituzione («ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») che infatti Grillo ha additato fin dall’inizio come una delle prime cose da modificare. La senatrice Mangili non ha mai messo piede al Senato perché appena eletta sul web apparvero insinuazioni circa quella che Benedetto Della Vedova (Sc) ha definito ieri in aula «inciuci di parentopoli brianzole». In pratica avrebbe raccolto le preferenze grazie al marito assessore. Ieri l’aula era chiamata, da regolamento, a votare sulle dimissioni, voto imposto proprio a tutela del parlamentare. Pd, Pdl, Scelta Civica, nessuno ha avuto dubbio: «La senatrice venga in aula a spiegare e la ascolteremo ricordando la libertà di coscienza di ogni eletto» ha detto Anna Finocchiaro, «in attesa respingiamo». Che non può certo essere la Rete, ha aggiunto la Mussolini, «a dire cosa deve o non deve fare un senatore». Crimi ha replicato che la decisione era già stata presa dal gruppo. Poi ha potuto solo raccogliere i suoi fogli, tornare in ufficio e sopportare l’ennesimo sfogo di Grillo. Via web.
Il comico-padrone non ammette smagliature. Ha detto no anche ad ogni interlocuzione con i saggi di Napolitano. E i ragazzi nel pomeriggio obbediscono e verbalizzano con tanto di comunicato. Uno vale uno, era il motto. Tra i Cinquestelle non lo dice più nessuno.

La Stampa 4.4.13
Lo strappo del deputato Currò
“Serve un confronto con il Pd”
”Non siamo automi, se Beppe vuole parlarci venga qui”
di Andrea Malaguti

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il Fatto 4.4.13
Alla Camera. Parla Mara Mucci
La deputata ribelle: linea da rivedere


Due sere fa, quando nella sala dei gruppi a Montecitorio si discuteva la possibilità di proporre una rosa di nomi per il governo, lei si è trovata in una parte scomoda e, a sio dire, sofferta. A fianco di coloro che della linea ufficiale non sono più così convinti e che cominciano a maturare il pensiero di una proposta alternativa a quella che propone Grillo. Lei è Mara Mucci, deputata di Imola. Trent'anni, una laurea in informatica in tasca e un bambino piccolo a casa, Mucci ha deciso di metterci la faccia e di scostarsi apertamente dal fronte degli ortodossi, quelli del no a tutti i costi. La sua posizione l'ha sostenuta prima di fronte al gruppo di parlamentari a 5 stelle, e poi online, mettendo tutto nero su bianco sul suo blog. “Credo sia giunto il momento di fare un passo concreto verso una reale proposta di governo, attraverso una serie di personalità a noi gradite”, ha scritto ieri sulla sua pagina. Senza arretrare di un passo ha chiesto di andare incontro alle aspettative di una parte della base. “La linea sarebbe coerente con l’attesa degli elettori che ritengono giusto influenzare le scelte della politica, soprattutto in un momento così difficile. Abbiamo visto che la nostra presenza sta producendo cambiamenti positivi e credo che per poter continuare a influenzare la politica sia necessario provare a giocare le nostre carte”.
Le agenzie di stampa, nei giorni scorsi, l'hanno descritta in lacrime all'uscita da un summit, molto teso, con gli altri eletti del Movimento. Lei però, al Fatto Quotidiano, assicura di sentirsi ancora in piena sintonia con il suo gruppo, e smentisce di aver lasciato l'assemblea sconvolta. “Nessuno è uscito piangendo, abbiamo semplicemente votato la linea politica, così come facciamo sempre”, racconta. “Ha prevalso la maggioranza, che non ha voluto fare dei nomi per il Governo, ed io come altri ci siamo adeguati”. Anche sulle divisioni smorza: “Auspico però che però la discussione riprenda”. e.l.

Repubblica 4.4.13
L’imolese Mara Mucci: c’è stata tensione in assemblea, ma non è vero che ho pianto
“Ma il Paese ci chiede una svolta una proposta di governo ci vuole”
di Caterina Giusberti


BOLOGNA — «Ho solo chiesto di uscire da quella riunione con una proposta concreta di governo. Chi vorrà, la appoggerà. Se il Pd deciderà di appoggiarla, bene. Ma dentro non potranno esserci politici». La deputata imolese Mara Mucci, trent’anni (ex mamma precaria licenziata in tronco mentre era incinta), è tra i pochissimi parlamentari del M5S che ci hanno messo la faccia fin dal primo giorno, sfidando le scomuniche del leader. Martedì sera è stata tra le maggiori promotrici dell’assemblea in cui gli eletti di Camera e Senato hanno votato la possibilità di presentare a Napolitano una rosa di nomi per un governo a Cinque Stelle. I fautori del dialogo ne sono usciti sconfitti (80 no a 30 sì) e hanno incassato («Come succede in democrazia »). Non era sola, insieme a lei c’era buona parte della pattuglia emiliana. Hanno alzato la mano il deputato Paolo Bernini e il collega Michele Dell’Orco, fino alla senatrice Adele Gambaro.
Cosa pensa dell’ultimo post di Grillo “Se ci avete votato pensando a un accordo col Pd avete sbagliato”?
«Intanto non penso si riferisse a me, né all’assemblea dell’altra sera. Io ho solo fatto una proposta di governo in linea con i nostri principi. Se sarà il Pd ad appoggiarla, credo si debba andare avanti».
Perché a differenza dei suoi colleghi crede sia necessaria una vostra proposta?
«Al Movimento 5 Stelle gli italiani hanno dato il 25% dei voti. Un segnale molto forte che credo non sia stato colto da Napolitano. La società chiedeva alla politica un cambiamento radicale, una svolta. Ora ci ritroviamo con dieci saggi. Dobbiamo
fare di più per il bene del Paese. Stiamo andando nella direzione giusta, siamo qui solo da venti giorni, lasciateci lavorare».
Ma martedì sera cos’è successo in quella riunione? È vero che è uscita in lacrime?
«Niente affatto, non ha pianto proprio nessuno. È solo che siamo costantemente sotto pressione, c’era tensione. Prendiamo delle decisioni molto importanti e, come da tutte le parti, c'è chi è d'accordo e chi non è d'accordo. Ma alla fine si rispetta il verdetto dell'assemblea».
In particolare cosa proponevate?
«Una parte degli eletti del Movimento riteneva che fosse il caso di fare una proposta per un governo di altissimo profilo, civico, fuori dai partiti».
Avevate già in mente qualche nome?
«Io personalmente ho sempre tutto preparato, non parlo a vanvera
nel momento in cui faccio una proposta. Avevo in mente delle personalità super-partes».
Quali?
«Non lo dico, per rispetto dell’assemblea»
E cosa vi è stato risposto?
«Abbiamo discusso molto sulla linea da tenere. I capigruppo hanno riferito che Napolitano non aveva neanche preso in considerazione l'eventualità di affidare a noi il mandato di formare un governo e quindi non aveva senso, in questo momento, andare da lui con delle proposte».
Adesso cosa succederà?
«Io ho molte speranze nell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Vorrei fosse una donna, e come me nel Movimento lo sperano in tanti. Insomma, se tutto andrà bene la trattativa potrebbe ripartire e noi potremmo mettere sul tavolo la nostra proposta».

Repubblica 4.4.13
"Accordo in nome della legalità. C'è una fronda tra i Cinque Stelle"
L'eurodeputata Idv Sonia Alfano fa da pontiera con Pd e Sel: "Davanti alle proposte del movimento non potranno tirarsi indietro"
di Tommaso Ciriaco

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l’Unità 4.4.13
Sinistra, non si cavalca uno tsunami
di Mario Tronti


Vediamo. Intanto riassumiamo. Perché c’è un percorso da ricostruire: molto eloquente e che fa chiarezza. C’è stata una lunga campagna elettorale, durata per tutto il tempo del governo Monti in carica. Le elezioni, anticipate, erano infatti all’ordine del giorno al momento della caduta rovinosa del governo Berlusconi. Non furono concesse.
Da quelle sarebbe uscita con tutta probabilità una maggioranza certa, con governabilità assicurata per cinque anni. Magari con una manovra di salvataggio senza massacro sociale. Cominciò invece un balletto, con una musica in crescendo fino al 24 febbraio ultimo scorso. Lo scenario: da una parte una forza politica destinata ad assumere il governo del Paese, dall’altra tutte le altre forze politiche, e annessi moVimenti, intente a impedire, o a limitare, o ad azzoppare, con tutti i mezzi, quella soluzione. Operazione infine riuscita.
Operazione, però, riuscita a metà. Perché dalle elezioni esce un centro-sinistra con una maggioranza assoluta alla Camera e una maggioranza relativa al Senato. Il pericolo dunque, di una sinistra in qualche modo al governo, era ancora presente. Di qui, la seconda fase della manovra di ostruzione da opporre a questa eventualità. Un governo di minoranza era possibile. I precedenti ci sono e la Carta costituzionale non chiede una maggioranza assoluta per la fiducia al governo. La coalizione di centro-sinistra aveva diritto e dovere di andare in Parlamento a presentare la sua proposta di governo. E bene ha fatto Bersani a chiedere con determinazione questo passaggio. Non è stato concesso. A mio parere la proposta del governo di minoranza, monocolore, non di legislatura, ma nemmeno di emergenza, in carica solo per mettere mano ad alcune urgenze politico-istituzionali ed economico-sociali, andava presentata da subito all’intero arco delle forze politiche, con la premessa di un accordo sulle cariche istituzionali, la presidenza di Commissioni, e il progetto, giusto, del doppio registro.
Questa era l’iniziativa che spettava a chi, indicato dalle primarie, aveva condotto la campagna elettorale e vinto appena di misura nel voto. A mancare l’obiettivo pieno non è stato Bersani. L’abbiamo mancato tutti: in primo luogo, collegialmente, un partito, privo di antenne in grado di cogliere lo stato d’animo diffuso nel Paese reale. E che, qui veramente come tutti gli altri, si affida alla falsità, manovrata, dei sondaggi. Bersani ha mostrato all’Italia la faccia della politica seria, responsabile, competente, pulita, di impronta popolare e capace di governo. Il messaggio è calato in un contesto malato, inquinato da demagogie populiste, lasciate crescere e accarezzate fino all’ultimo minuto. Ma con questo contesto, era esattamente quella faccia che si voleva oscurare. Tanto più che dietro di essa c’era una storia, che tutto quanto sta avvenendo è incaricato adesso di portare alla fine. Tutto, compresa quella verità sul voto, da tutti riprovata, che ha pronunciato, in libertà, un socialdemocratico tedesco: in Italia hanno vinto due clown. Vittoria, appunto, non spontanea, ma costruita, con una comunicazione di scopo.
Poi, qualcosa non è andata nel verso giusto, anche nella nostra iniziativa. Può darsi che non sia così, ma quanto si è percepito è che, nella proposta, si è voluto privilegiare la parte meno disponibile a qualsiasi tipo di accordo, mirando su questo versante alcune proposte di programma, e risolvendo in quel senso le figure delle cariche istituzionali. Ora, io penso che alle pulsioni antipolitiche non bisogna concedere niente, mai. All’irruzione grillina, la risposta era quella di uno scatto di orgoglio politico. Quello è un vento, forte, un’onda anomala. Lo tsunami arriva, distrugge e passa. Lascia sul terreno solo macerie. Tentare di cavalcarlo è impossibile, e ci si fa solo male. Va semmai previsto, in modo da prendere le misure necessarie per ridurre i danni. Starei attento a darne la lettura corrente: un evento che, comunque, opportunamente scuote e costringe a cambiare. Da quella sponda non si cambia, si abbatte. Qualcuno ricorda queste espressioni? E come non vederci l’altra faccia della rottamazione? È lo stesso vento. Questo plebeismo nichilista arriva, ripeto, non a caso, ma come esito naturale di un’intera stagione.
Tolleranza zero sul linguaggio. Non si parla con chi parla in quel modo. Il linguaggio politico è importante. Lì si specchia sempre, anche senza volerlo, quel che si è. E starei attento a vederci, anche qui, la rappresentazione di domande giuste: ad esempio l’espressione di una comprensibile rabbia. Se si rappresentano così, quelle domande, non sono giuste, sono sbagliate. Non vanno assunte, vanno corrette. Prenderle per buone come tali, porta a risposte subalterne. Esempio: la rabbia oggi diffusa è sacrosanta, e però male indirizzata. Ecco, qui luoghi e tempi dell’azione politica. Se per salire a una carica pubblica si deve presentare al concorso il titolo di non essere stato, di non essere, di non voler essere un «politico», si innesca una deriva senza fondo. Se il quarto di nobiltà che devi portare nella sfera pubblica consiste nel pronunciare la frase liberatoria: non sono mai stato iscritto a un partito, guardate, qui non c’è il finale di partito, c’è la fine della Repubblica. Sono molto preoccupato. Non vorrei essere tornato in Parlamento per assistere, con angoscia, alla distruzione dell’edificio costituzionale-popolare, di rappresentanza e non di mandato, a tutti i livelli, che i nostri padri hanno costruito, combattendo e pensando. Bisogna reagire, indignarsi da questa parte, dare battaglia. Insisto su questo: spetta alla politica, e in prima persona alla politica della sinistra, chiarire il punto.
E il punto, drammatico, è che il disagio sociale, fortissimo, vera e propria eccezionale emergenza, non si esprime oggi con la politica, ma con l’antipolitica. Come, perché? Ecco la prima cosa da capire. E da rimediare. La condizione oggettiva è quella di un disorientamento politico di massa. Il brodo di coltura viene da lontano, non contrastato, anzi benevolmente accompagnato, per tutta la vicenda di questa devastante cosiddetta seconda Repubblica. Di nuovo, c’è un esito finale, che arriva a colpire le fondamenta del sistema istituzionale. Alla base c’è il patto di sindacato stretto tra le élites economico-finanziarie al governo della globalizzazione neoliberista e, appunto, il populismo antipolitico gestito dalla grande comunicazione. Esattamente il blocco dominante da combattere e da sconfiggere. Un lavoro, pratico, ricostruttivo, e di cultura, di lunga lena. Abbiamo bisogno di tempo. Non farei precipitare la situazione. In questo frangente è il nostro campo che è stato prima di tutto disordinato. Bisogna riorientarlo, riorganizzarlo, rimotivarlo. Non ci serve un’offerta pubblicitaria, superpersonalizzata, formattata secondo i canoni del mercato elettorale, che ti permetta di competere meglio, subito, sul terreno dell’avversario. L’ultima cosa da fare adesso è mettersi a cercare un grillo per la sinistra. Anzi, la penultima. Perché l’ultima è la pretesa di averlo già trovato, pronto lì a scattare dai nastri di partenza. Come si dice spesso, per motivi più futili: non scherziamo!
Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo se valga la pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno per un pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso, democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme, nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità, degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a rimorchio del dominante spirito del tempo. Raccomanderei ai trenta/quarantenni, giustamente emergenti, meno giustamente scalpitanti, di badare, con scrupolosa attenzione, a non far coincidere il ricambio generazionale con una mutazione genetica. Dietro la fine di una storia c’è sempre il pericolo di un cambio di campo. Responsabilità e cambiamento devono valere per noi, prima che per gli altri. E ricordarsi sempre di stare, anzi di mettersi, sotto gli occhi del nostro popolo.

l’Unità 4.4.13
Roma, il centrosinistra torna ai gazebo
Domenica battaglia a sei per scegliere il candidato alle amministrative del 26 e 27 maggio Favoriti Sassoli, Marino e Gentiloni
Possono votare tutti, anche i sedicenni L’elenco dei seggi on line in «Roma bene comune»
di Jolanda Bufalini


A domanda rispondono. Dalle 16 di oggi sul sito dell’Unità troverai le video interviste virtuali (ma molto reali) ai sei candidati che si sfideranno domenica alle primarie di Roma: scegli la domanda e clicca sul candidato di cui vuoi ascoltare la risposta.
Èla seconda volta che Roma vota dopo che le elezioni politiche sono andate come sono andate. L'altra volta, l'impasto di delusione e rabbia miracolò Gianni Alemanno, concorrente riluttante al Campidoglio che per cinque anni è stato un sindaco riluttante, eletto senza un programma vero e senza una visione della città, ha governato sotto il dominio dei gruppi di interesse di partito, delle parentopoli, mentre si allunga l'ombra delle inchieste sugli appalti gestiti da Riccardo Mancini. Sta concludendo il mandato con il regalo elettorale di «tavolino selvaggio» ai ristoratori del centro storico degradato. Vorrebbe fare le nomine Acea fuori tempo massimo. Il sindaco riluttante è riuscito persino a sbagliare il palco per la manifestazione di solidarietà ai marò. Fa sapere la soprintendente archeologica di Roma, Mariarosaria Barbera: «La struttura, a ridosso delle arcate del Colosseo e dell'ingresso dei visitatori, non è autorizzata ed è in contrasto con la sicurezza dell'area esterna all'Anfiteatro, generando una situazione di gravissimo disagio e rischio per il pubblico».
Il 26 e 27 maggio, il mix rabbia-depressione potrebbe favorire il Pizzarotti romano: l'avvocato Marcello De Vito, 38 anni, selezionato da 500 preferenze on line del M5S, le cui idee sulla città risultano non pervenute dal giorno in cui si è presentato alla stampa. Aspetta la calata a Roma di Beppe Grillo.
È, invece, la prima volta che a Roma la coalizione di centro sinistra sceglie il candidato al Campidoglio attraverso le primarie, aperte a tutti i cittadini che abbiano compiuto i 16 anni di età. Si vota domenica, dalle 8 alle 20, e la prova per i sei candidati di «Roma bene comune» inizia proprio dalla partecipazione al voto: sarà festa della partecipazione o conta di partito? L'obiettivo minimo è portare 100.000 romani a “scegliere il sindaco”. I candidati: due donne, la consigliere comunale Gemma Azuni (Sel), che ha disobbedito a Vendola, restando in corsa quando Luigi Nieri ha rinunciato in favore di Marino; Patrizia Prestipino, ex presidente del XII municipio, renziana, la cui candidatura risale a quando a Roma si puntava a Nicola Zingaretti; David Sassoli si è candidato l'8 ottobre, solo per Roma, senza cercare un seggio alla Camera o al Senato. Ignazio Marino è sceso in campo dopo la tornata delle politiche. Sono le due candidature su cui si sono polarizzate le anime storiche del Pd romano. Con Sassoli, che ha come capo staff un grande conoscitore della macchina capitolina come Pietro Barrera, l’area dalemiana e quella di Dario Franceschini. Con Ignazio Marino il gruppo storico del governo di Roma, da Goffredo Bettini a Gianni Borgna. L’ex giornalista del Tg1 è capodelegazione al Parlamento europeo e, come Crocetta in Sicilia, guarda all’Europa per i progetti su cui deve puntare la capitale. Marino, che ieri ha pubblicato on line le spese sostenute per la sua campagna, ha fatto, da senatore, battaglie di minoranza sulla trasparenza e sulla competenza nelle nomine. Paolo Gentiloni, ex assessore di Rutelli ed ex ministro alle telecomunicazioni, si chiama fuori dalle divisioni che «hanno indebolito il Pd romano». Quella di Renzi, dice, «è una carta completamente nuova». Anche Patrizia Prestipino spera di «sparigliare, perché solo una donna lo può fare». C’è, infine, a rappresentare il partito socialista, un ragazzo nato nel 1985, Mattia Di Tommaso, da Cinecittà, figlio «d’arte», laureato in giurisprudenza, ha lavorato un anno al Parlamento europeo. È stato lui a chiedere e ottenere che il voto delle primarie fosse aperto ai sedicenni.
Sul piano programmatico, l’impegno sottoscritto dai candidati a sostenere chi vince, è credibile: per tutti a Roma è il tempo della riqualificazione e non della espansione edilizia. Sassoli punta di più sulla manutenzione e sul lavoro delle imprese artigiane, Gentiloni su alcuni progetti a lungo termine e alla fine dello sprawl (degli spruzzi di cemento sul territorio) ma anche su alcuni progetti a lungo termine, Marino sul decoro urbano e sulla valorizzazione del patrimonio storico. Gemma Azuni sulle case vuote che devono incontrare la domanda delle famiglie. Per tutti fondamentale è la mobilità sostenibile, il trasporto pubblico, la coesione sociale, la fine degli sprechi, la riduzione dei CdA, dei consulenti «non si sa di che», come dice Gemma Azuni. La sicurezza è un tema su cui ha clamorosamente fallito Alemanno mentre, dice Ignazio Marino, «Roma deve diventare così sicura che i bambini possano andare a scuola a piedi da soli».
L’offerta si diversifica sul piano politico, Marino prende voti a sinistra, può incunearsi nel voto grillino, che a Roma si è differenziato fra le politiche (27%) e le regionali (17%), ha il sostegno di Idv o Rivoluzione civile, ha persino l’endorsement, oltre che di Alessandro Gassman, di Andrea Alzetta, detto Tarzan, consigliere comunale eletto dai movimenti per la casa. Sassoli e Gentiloni guardano ad una alleanza per Roma che vada oltre il centro sinistra. Il primo ha cercato il dialogo con Alfio Marchini (che si candida a sindaco ma voterebbe Pd se dovesse scegliere al ballottaggio), ha il sostegno del capogruppo capitolino Umberto Marroni. Il renziano punta sulle liste civiche e anche sull’area che fa capo a Monti, fra i suoi sostenitori ambientalisti (Cogliati Dezza) e urbanisti (Domenico Cecchini). Ha risposto positivamente all’appello per Roma di Umberto Croppi (ex assessore alla cultura defenestrato da Alemanno).
Ma ci sono parti della città ancora silenziose, che probabilmente usciranno dopo le primarie, come quella che fa capo a Sant’Egidio e al ministro Riccardi.

Paolo Gentiloni, Deputato Pd, già ministro delle Comunicazioni con Prodi
Ignazio Marino, Senatore del Pd, chirurgo, già presidente commissione Sanità
Patrizia Prestipino Candidata Pd, già presidente del XII Municipio e assessore provinciale
David Sassoli, Eletto europarlamentare per il Pd nel 2009, giornalista
Gemma Azuni Esponente di Sel, consigliere del Comune di Roma dal 2005
Mattia Di Tommaso, Candidato del Partito socialista, laureato in legge, si occupa di diritti

il Fatto 4.4.13
Pd, correnti contro: primarie a Roma
Domenica nei gazebo si scieglie il candidato sindaco del centrosinistra
Sei in corsa, paura del flop
di Enrico Fierro


L’ultimo grande sindaco di Roma l’hanno pianto in tantissimi ieri al Campidoglio. Ugo Vetere, il sindaco delle borgate, che guidò la città eterna dopo la morte di un altro grande primo cittadino, Gigi Petroselli, Joe Banana per la sua faccia da pugile gentile. Giganti di un’altra epoca politica che non tornerà mai più. Nella Roma di oggi si dibatte sul suo declino con poche speranze. Torna tavolino selvaggio, i campi rom, le periferie abbandonate: sono questi i titoli delle cronache locali dei quotidiani. Sempre gli stessi, da anni.
E POI gli scandali di quell’impasto di clientele e fascismo all’amatriciana che ha segnato l’era di Gianni Alemanno. Una vorace corte di amici piazzati in tutte le municipalizzate, implacabili macchine divora soldi con i loro cda che macinano ogni anno 4,7 miliardi di stipendi. Sullo sfondo, il potere vero di Roma, che non abita nell’antica stanza del sindaco con vista sul Marco Aurelio a cavallo, ma vive e progetta affari in asettici uffici. Costruttori che impastano cemento e carta stampata, proprietari di cliniche con un occhio rivolto alle convenzioni da strappare alla Regione e l’altro puntato sul business immobiliare. E poi la Curia. Uno sguardo storto, il rammarico di un alto prelato, un titolo di un giornale vaticano, da tutto ciò può dipendere la sorte di qualsiasi politico. Ecco, è questa la Roma che il 25 e 26 maggio sceglierà il suo nuovo sindaco. La partita politica è nazionale. Il Pdl misurerà nella realtà la sua ripresa, il Pd, che rivuole il Campidoglio, la tenuta del voto politico, Grillo punta al colpo del secolo, conquistare la Capitale. Ma è nel partito di Pier Luigi Bersani che si gioca la partita più impegnativa. Domenica, dalle 8 alle 20, si vota per le primarie. Sei i candidati in lizza, David Sassoli, Ignazio Marino, Paolo Gentiloni, Patrizia Prestipino, tutti con tessera Pd, Gemma Azuni, Sel, e Mattia De Tommaso dei Socialisti. La partita vera, però, è a tre, e tutta interna alle correnti che da anni si scontrano nel partito. Da una parte David Sassoli, ex mezzobusto del Tg1 e deputato europeo, sostenuto da Dario Franceschini, da Enrico Letta e dai dalemiani, dall’altra Ignazio Marino, appoggiato da Goffredo Bettini, da Nicola Zingaretti e da quel che resta delle truppe veltroniane. Infine Paolo Gentiloni, ex portavoce del sindaco Rutelli, poi assessore comunale, infine ministro, ben visto dai rottamatori di Matteo Renzi. Tanti candidati, poche proposte per la città.
A FARE notizia è la “guerra dei manifesti”. Con Sassoli che ha tappezzato Roma con la sua faccia di bravo ragazzo un po’ ingrigito. Il sindaco Alemanno lo ha già multato per 43 mila euro, i suoi competitor lo attaccano. Lui si difende: abbiamo dato disposizioni precise alle ditte che si occupano di affissioni. E il senatore Marino attacca: “È come Scajola, tutto avviene a sua insaputa”. Solo schermaglie, la partita vera è sulle alleanze, con i partiti, ma soprattutto con i poteri forti della città. Marino, che ha ricevuto l’appoggio di Andrea Alzetta, leader di Action, di artisti e intellettuali, giura che scriverà la parole fine “all’era del cemento nell’Agro Romano”. Gentiloni, invece, apre al centro e ad Alfio Marchini, l’erede della dinastia di costruttori vicini al Pci, “perché non si vince solo con Ingroia”. Sassoli aspetta, delle alleanze parlerà solo dopo aver vinto. Un allarme, però, unisce i contendenti: il rischio che le primarie siano un flop. “Sotto i 100mila elettori è un disastro”, ammette un dirigente del Pd romano, ricordando che per la sfida Bersani-Renzi votarono al primo turno in 170mila, 140mila al secondo e per le parlamentarie andarono ai gazebo in 45mila.

Repubblica 4.4.13
Il sacerdote - manager
Idi, arrestato padre Franco Decaminada
"Appropriazione indebita per 14 milioni"
Il frate  tre anni fa s’era comprato una villa di 18 stanze con piscina a Capalbio in Toscana circondata da 23 mila metri quadrati di terreno e prati

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La Chiesa senza mondo prepara il mondo senza Chiesa. Non per la prima volta nella bimillenaria parabola del cattolicesimo risuonano le profezie sulla sua scomparsa
Repubblica 4.4.13
L’atlante della Chiesa
di Lucio Caracciolo


La Chiesa senza mondo prepara il mondo senza Chiesa.
Non per la prima volta nella bimillenaria parabola del cattolicesimo risuonano le profezie sulla sua scomparsa. Perfino nelle gerarchie ecclesiastiche. Per questo l’abdicazione di Benedetto XVI è apparsa a molti fedeli il sigillo della rassegnata impotenza del pastore supremo rispetto alla sua missione: convertire il mondo. La spirale regressiva scaturisce da una crisi di fede, sfocia in una crisi di comunicazione e produce la crisi dell’identità cattolica che insterilisce l’istituzione ecclesiastica.
Crisi di fede significa laicamente crisi di fiducia. Quella che un fine teologo come il professor Joseph Ratzinger sperava di guarire riconiugando fede e ragione. Ricetta intellettuale, calligrafica ma algida, dunque incongrua alla funzione di un pescatore d’anime. Frutto di fin troppo ragionevole pessimismo, giacché scaturiva dalla convinzione che specie in Europa “non esiste più un’atmosfera cristiana diffusa”. Di qui l’imperativo di una “Chiesa di minoranza”, avanguardia militante forgiata da “piccoli gruppi di persone veramente convinte e credenti che agiscono di conseguenza”. Ma può la Chiesa che si determina universale affidarsi ai carismi di un pugno di eletti?
Per riconquistare il mondo, per obbedire alla missione ad gentes, radice della geopolitica religiosa del papato e specifico stigma gesuitico, Francesco invita a respingere la tentazione elitista.
Secondo il Pew Research Center, nel 2010 i cattolici erano 1 miliardo e 94 milioni, la metà abbondante dei cristiani, più di un settimo dell’umanità. La curva di crescita dei cristiani — fedeli di Roma inclusi — non è distante da quella che segnala l’aumento della popolazione globale. Il baricentro della Chiesa, in termini di anime affiliate, è slittato dall’Europa alle Americhe e all’Africa. Nel 1900 si stimavano 266,5 milioni di cattolici nel mondo, di cui oltre 200 in Europa. Nel 2000, su oltre un miliardo di cattolici gli occidentali erano solo 350 milioni, metà della somma di africani, latinoamericani e asiatici (leggi: filippini). I pastori, però, cambiano più lentamente del gregge. Di qui uno squilibrio geopolitico: vi sono meno sacerdoti dove ne occorrerebbero di più e diocesi demograficamente declinanti a forte incidenza clericale. La maggioranza dei cardinali pertiene tuttora all’Occidente (113 europei, 52 americani, 20 asiatici, 18 africani e 4 oceanici), come quella dei vescovi (1.914 americani e 1.606 europei contro 758 asiatici, 697 africani e 129 oceanici) e dei sacerdoti (190 mila europei, 122 mila americani, 57 mila asiatici, 37 mila africani e 5 mila oceanici). Per la Chiesa di Roma perdere l’Europa equivale a sentirsi tremare la terra sotto i piedi. Difficile immaginare una cattolicità a rete, un universalismo a-centrico.
La battaglia più aspra sarà per Francesco quella ad intra: ripulire e riordinare il cortile di casa, la curia romana e la Chiesa italiana, nel segno conciliare della collegialità e della trasparenza. Tuttavia, il papa sa bene che il successo nella quasi impossibile missione domestica dipenderà in buona parte dal raccolto che saprà mietere nel mondo. Per rianimare e riunire il gregge cattolico, così evitandone la frammentazione lungo linee di faglia locali o nazionali, dal forte sapore settario. In gioco è l’universalità della Chiesa di Roma.
Hic Petrus hic salta.

Repubblica 4.4.13
Le primarie dei massoni sotto le logge di Siena
di Alberto Statera


SI È fatto un Papa, si è eletto un Parlamento ingovernabile, si disputa sull’esecutivo e sul prossimo presidente della Repubblica. E, tanto per complicare il mosaico, parte la campagna elettorale per l’elezione del nuovo Gran Maestro della Massoneria, che si autodefinisce “Istituzione”, ed è crocevia di potere.

CROCEVIA tra alta burocrazia e finanza, gabinetti ministeriali e tribunali, vertici delle forze armate e università, grandi imprese e naturalmente politica.
Tra alte colonne in cartongesso, compassi, spadoni, talismani e occhi di Dio, nel palazzo dei congressi di Rimini trasformato in tempio massonico si apre venerdì la Gran Loggia del Grande Oriente d’Italia, principale obbedienza massonica d’Italia con 757 logge e circa 22mila “liberi muratori” sparsi in tutto il Paese, duemila dei quali parteciperanno all’evento. Il Gran Maestro Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo risorgimentale con un passato politico lamalfiano dopo slittamenti pacciardiani, conclude il suo terzo mandato nel 2014, ma le informali “primarie” per la sua successione sono già in ebollizione tra un popolo di “fratelli” tradizionalmente assai litigiosi.
I “papabili” si affollano e le polemiche, non sempre di alto profilo morale, covano sotto le insegne di quella che il professor Paolo Prodi, fratello dell’ex presidente del Consiglio, ha definito «una delle più importanti agenzie produttrici di etica nella storia dell’Occidente».
Solo etica e non politica? «Dal Tempio la politica resta fuori», ripete continuamente il Gran Maestro Raffi. Ma anche le piroette politiche hanno agitato la sua terza e ultima “Gran Maestranza”. «Guardi non sono io, ma la nostra storia stessa a dire che il nostro cuore batte a sinistra», ci informò Raffi ai tempi dell’ultimo breve governo di Romano Prodi. «Berlusconi — aggiunse — le sembra forse un uomo con aspirazioni pedagogiche, quelle che a noi stanno a cuore?». Denis Verdini lo aveva infastidito sostenendo, a quel che si disse, la candidatura contrapposta di Natale Mario Di Luca, medico legale ex socialista lombardiano, come il piduista Fabrizio Cicchitto. Poi il Cavaliere vinse di nuovo e venne il “contrordine fratelli”: la storia e il fratello Bakunin non dissero più che il cuore massonico pende a sinistra. Anzi.
Le battaglie per il controllo politico della Massoneria non stupiscono affatto Valerio Zanone, ex segretario del Partito liberale ed ex ministro, relatore abituale nelle Gran Logge e studioso, tra l’altro, di Agostino De Pretis e del suo trasformismo, termine con una cattiva fama, ma secondo lui «incontro patriottico della componente moderata e di quella democratica dell’Ottocento borghese». Di «incontri patriottici» nel parlamento spaccato in tre uscito dalle ultime elezioni sembra non se ne parli proprio, ma l’opposizione interna accusa il Gran Maestro quasi uscente di aver partecipato al “Groviglio armonioso” di Siena, dove la massoneria di sinistra vicina al Partito democratico ha cooptato anche quella di destra vicina al Popolo delle libertà. Giuseppe Mussari e Denis Verdini assisi insieme, pur con diversi gradi di potere, sulla Rocca del Monte dei Paschi. Raffi, che è stato consulente legale della banca senese, nega con forza, dice che la Massoneria «non ha le mani sul Monte, non controlla niente, né è interessata a farlo».
Ma la formula del “Groviglio armonioso”, che riassume plasticamente gli intrecci nella politica e nel capitalismo feudal- relazionale consolidati intorno al Monte prima dello scandalo, è stata coniata da Stefano Bisi, presidente del Collegio dei Maestri venerabili del Grande Oriente della Toscana. Ed è proprio Bisi il primo candidato “ufficioso” alla carica di Gran Maestro del GOI nel dopo Raffi. Da noi interpellato, ha risposto: «Ho dato la mia disponibilità». Ma la lista dei papabili è lunga. Si apre con Morris Ghezzi, Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia, professore di Sociologia del Diritto all’Università Statale di Milano, consigliere della Società umanitaria e della Società per la cremazione. La sua storia politica è piuttosto curiosa. Nel febbraio 1994, in una Milano che era come Coventry dopo le bombe di Tangentopoli, con Ottaviano Del Turco segretario-commissario del Psi e i ritratti di Nenni e Pertini al posto di quelli di Bettino, i craxiani di Francesco Colucci, Alma Cappiello e Bobo Craxi riescono a far eleggere segretario provinciale Ghezzi. Il quale dura in carica soltanto quattro giorni e poi si dimette. «Ho trovato persone che volevano salvare la propria sedia e non il partito», accusa andandosene. Quelli gli replicano: «È solo un miserabile che finge di non sapere da quale nuvola è caduto. I suoi precedenti accordi con Forza Italia lo costringono alla menzogna». Poi poco a poco con Berlusconi andranno quasi tutti i socialisti, della destra e della sinistra.
Oggi Ghezzi è molto sensibile ai temi della giustizia cari a Berlusconi. Nel saggio “L’immagine pubblica della magistratura italiana” ha sostenuto che il giudice ha perso «la sua sacralità in una politicità e politicizzazione data per scontata più che contestata». Sembra di sentire il Cavaliere. Oltre a Ghezzi, di ex socialisti papabili il Grande Oriente trabocca. Massimo Bianchi, attuale Gran Maestro aggiunto, simpatico personaggio toscano, ex vice-sindaco socialista di Livorno, aspira da tanto, ma non è considerato tra i favoriti, nonostante gli sforzi compiuti per accreditarsi come cultore di storia della Massoneria, che l’ha portato di recente a partecipare anche con esponenti locali del Pd a una giornata di studio su Adriano Lemmi, il banchiere che finanziò il Risorgimento.
Anche Giovanni Esposito, Gran Tesoriere Aggiunto, commercialista napoletano di simpatie ultra-berlusconiane, vorrebbe essere della partita. Ma da sud incalzano le truppe cammellate della Calabria, la seconda regione con il maggior numero di fratelli, capeggiate dal presidente del Collegio Antonio Seminario, che ha appena organizzato un seminario sulla vita di Loggia per spiegare ai Maestri Venerabili, agli Oratori e ai Maestri delle cerimonie come ci si comporta nei lavori massonici.
Di sinistra, socialista, keynesiano e roosveltiano, nella tradizione massonica progressista e persino sovversiva, contro masse “asinine” che non mancano neanche nelle Logge, si presenta nei suoi interventi Gioele Magaldi, l’oppositore di Raffi che ha fondato una sorta di obbedienza scissionista, il Grande Oriente Democratico, ed è inseguito da una selva di “tavole d’accusa”. Naturalmente non ha alcuna chance nella corsa che si apre al vertice dell’Istituzione dei legami e delle solidarietà trasversali. Ma farà un po’ di rumore il suo libro che sta per uscire con Chiarelettere nel quale, tra l’altro, rivela molti nomi di massoni più o meno coperti.
I veri competitori per la “Gran Maestranza” cominceranno a disvelarsi venerdì a Rimini, dove quest’anno nel Tempio va di moda la «cartella per grembiule pieghevole», prodotta dalla società Castellina di Adriana Patuelli e pubblicizzata su Erasmo Notizie, il bollettino d’informazione del GOI. In «nylon alta tenacità», ha una «tasca grande con cerniera più tre tasche piccole, imbottitura da entrambi i lati, fascia apribile portagrembiule ». E soprattutto «portanome esterno». Massoneria della «trasparenza », come rivendica il prossimo Gran Maestro “emerito”, Gustavo Raffi.

Repubblica 4.4.13
La “Bbc” realizza un’imponente inchiesta insieme alla London School of Economics e all’Università di Manchester
Oltre 160mila persone coinvolte in tutto il Paese. Agli estremi della nuova piramide ci sono l’“élite” e il “proletariato”
A Londra più classi (sociali) per tutti Dai precari ai nuovi ricchi, ora sono sette
di Alessandra Baduel


LONDRA Il signore con la lobbia, l’impiegato con la bombetta, il lavoratore con la scoppola: queste erano, finora eterne e incontrastate, le tre immagini delle classi sociali inglesi, distinte fin dal cappello in “upper”, “middle” e “working class”.
Ma ora in Gran Bretagna le classi sociali sono diventate sette, con l’élite seguita da due “middle class” e con i “worker” tradizionali sovrastati dai lavoratori arricchiti e seguiti dai lavoratori emergenti del terziario. L’analisi che lo certifica è autorevolmente prodotta dalla Bbc con i professori Mike Savage della London School of Economics e Fiona Devine dell’Università di Manchester, che hanno analizzato i dati forniti da 161mila persone. Lo studio non si è basato solo su occupazione, istruzione e reddito, ma sull’intrecciarsi di tre dimensioni differenti, economica, sociale e culturale, valutando i tre “capitali” che una persona può avere. Il primo, materiale, computa introiti, risparmi, valore dell’abitazione. Il secondo analizza quantità e status sociale delle proprie conoscenze. Il terzo, quali e quanti interessi e attività culturali esistono nella vita di una persona. Il risultato è una foto della Gran Bretagna del 21º secolo.
L’“élite” continua ovviamente ad avere il massimo dei tre capitali, fra belle case, buone e vaste amicizie, ma anche qualificati e approfonditi interessi culturali. Che sono invece ciò che fa un poco difetto al membro della “established middle class”, la classe media “arrivata”, ben messa per beni e conoscenze, molto ampia con il suo 25% della popolazione, ma che resta seconda in cultura, come di sicuro gli ex “upper class” ora “élite” non mancheranno di notare a ogni occasione. E invece piccolo e ben distinto il gruppo successivo della classe media “tecnica”, economicamente prospero, ma fuori dai riti del benestante classico, segnato com’è da una «marcata apatia culturale» e un netto «isolamento sociale».
Completamente diversi i “nuovi lavoratori benestanti”: giovani, socialmente e culturalmente attivi, ma quanto a soldi «a livelli mediocri». In un party o un’inaugurazione immaginari, è probabile che arrivino ben vestiti, però pronti a godersi più del normale tramezzini e cocktail. E questa fascia intermedia, non più “working class” né “middle class” tradizionale, è quella più interessante secondo Fiona Devine. «Sono gruppi», spiega, «che non vedono più se stessi come classe media o lavoratrice».
Finite le nuove distinzioni fra le ex lobbie e le ex bombette, si apre il capitolo del vero lavoratore, con la storica, orgogliosa “working class” ormai spezzettata. Il primo gruppo, “tradizionale”, è solo il 14% della popolazione. Punta più al pub e alla partita che all’inaugurazione e ha bassi punteggi in tutte le categorie, ma ha case di ragionevole valore. Con un’età media di 66 anni, è il gruppo più anziano. Sotto questi rappresentanti di un mondo passato, emergono i “lavoratori del terziario”. Giovani e nuovi abitanti urbani, vantano tasche vuote e capitali culturali e sociali in ottimo stato. Puntano anche loro alle inaugurazioni, magari di tipo diverso da quelle delle fasce alte. Ed è facile immaginare che siano la base di lancio per un nuovo artista, o gli artefici del successo di un nuovo quartiere.
Come spiega ancora Fiona Devine, loro e i «nuovi ricchi» saliti al quarto posto sono i figli della “working class” tradizionale ormai sessantenne. Ultimi, arrivano i “proletari precari”, coloro che, come le “élite”, non sono mai mancati: un 15% di poveri veri, con poco o niente di qualsiasi cosa, precari nel lavoro e nella vita. Esistevano anche ai tempi di scoppola, bombetta e lobbia, ma non c’era un cappello per distinguerli. Adesso hanno conquistato un posto in graduatoria, l’ultimo.

Repubblica 4.4.13
Parla Giuseppe De Rita, presidente del Censis: “Lo strumento quantitativo non basta”
“Ma i numeri non spiegano il disagio”


Giuseppe De Rita sembra scettico sull’utilità dell’indagine demoscopica britannica. Anche così, suggerisce il presidente del Censis, manca una comprensione profonda della società.
Professore, come valuta la nuova immagine di società delineata nel Great British Class Survey?
«Il punto di vista usato è sempre quello quantitativo, ma a volte non è sufficiente. Il disagio sociale, per esempio, andrebbe affrontato più con strumenti antropologici che sociologici. È come un taglio che attraversa tutte le classi e riguarda tutte le società occidentali».
Che ne pensa dell’introduzione di nuove classi?
«In realtà ci sono cinque diverse articolazioni di ceto medio, che registrano anche il movimento verso l’alto di alcune fasce sociali. Ma alla fine non mi sembrano articolazioni in grado di spiegare la società».
La ricerca inglese le sembra inutile?
«Guardi, la ricerca italiana già negli Anni ‘70, con i rapporti Censis, con gli studi di Sylos Labini, aveva indicato questo processo, la “cetomedizzazione”. È come la formazione di un lago di ceto medio, che comprende il 70-80 per cento della società».
Quali elementi restano al di fuori dell’analisi?
«I comportamenti, che nella nostra società sono sempre più individuali. Il disagio, la depressione, lo sbandamento giovanile, sono fenomeni che colpiscono tutte le classi».
Insomma, la descrizione di una società non può essere solo numerica.
«Nei dati manca il disagio del cittadino, che non si sente se stesso, ma solo lo spettatore di un paesaggio. La nostra società è in preda a una crisi di voyeurismo».
(g. cad.)

Repubblica 4.4.13
Ungheria, 500mila in fuga da Orbàn.
"Un esodo così neanche dopo il '56"
Impressionante dato sull'emigrazione diffuso dall'autorevole "Héti Vilàggazdasàg"
Se ne vanno soprattutto élites e giovani famiglie, spaventate dall'autoritarismo del governo
di Andrea Tarquini

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il Fatto 4.4.13
Olanda, una sentenza a favore della pedofilia


LA PEDOPORNOGRAFIA ha trovato sul web un “corridoio” per fare circolare foto e messaggi: il contrasto a questo sottobosco che si espande su canali che solo gli adepti conoscono non è semplice, le polizie di tutto il mondo di sono dotate di squadre speciali che cercano di stanare i responsabili anche con “infiltrati” on line. Dal-l’Olanda però è arrivata una sentenza che rischia di mettere in difficoltà gli investigatori. Una Corte d’appello olandese - ribaltando la sentenza di primo grado - ha stabilito che non deve essere vietata l’attività di una fondazione che promuove la pedofilia. Una decisione che di certo aprirà un dibattito anche in una nazione progressista. Lo scorso anno il tribunale civile di Assen aveva ingiunto lo scioglimento del gruppo Stitching Martijn rilevando che le sue proposte sui contatti sessuali tra adulti e bambini erano contrarie alle norme ed ai valori della società olandese. La corte d'appello di Leeuwarden ha affermato che i testi e le foto presenti sul sito web della fondazione non contravvenivano la legge. Aggiungendo che il fatto stesso che alcuni dei suoi membri siano stati condannati per reati sessuali, non andava connesso al lavoro della fondazione stessa.
La Corte d’appello ha rilevato che le proposte per la liberalizzazione della pedofilia sono “una seria contravvenzione di alcuni principi del sistema penale olandese”, in particolare per quanto concerne la minimizzazione dei “pericoli dei contatti sessuali con giovani”. Ma i giudici hanno sentenziato che la società olandese è sufficientemente “resistente” per affrontare “le dichiarazioni indesiderabili ed il comportamento aberrante” promosso dal gruppo fondato nel 1982 e sciolto lo scorso anno in seguito alla sentenza di primo grado. Una sentenza che non sembrerebbe aver avuto effetti immediati sui responsabili dell’associazione tanto che il suo ex presidente, Martijn Uittenbogaard, ha affermato che i sessanta soci non si riuniranno per decidere i prossimi passi. Tuttavia, non si può escludere che ciò avvenga in futuro, tanto che l’ufficio del procuratore sta valutando l’ipotesi di un ricorso in terzo grado di giudizio.

La Stampa 4.4.13
Sentenza choc in Olanda sulla pedofilia. Via libera al club che la promuove

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l’Unità 4.4.13
Basta classi miste Hamas islamizza le scuole di Gaza
Già imposti il velo e abiti lunghi alle ragazze, in «omaggio» alla cultura della comunità
Ma la separazione tra i sessi fa infuriare il web
Il tweet di Zahira: «Non ci battiamo contro l’occupazione israeliana per ritrovarci la sharia»
di Umberto De Giovannangeli


Non possono più correre insieme. Ed ora nemmeno studiare insieme. Separati per decreto. Un decreto firmato Hamas. Il Ministero dell’Educazione di Hamas separa gli studenti gazawi. Nei giorni scorsi è stata pubblicata una nuova legge che vieta a insegnanti maschi di lavorare in scuole femminili e che introduce classi separate per genere a partire dall’età di nove anni. La nuova normativa entrerà in vigore all’inizio del prossimo anno scolastico e sarà applicata a tutti gli istituti scolastici della Striscia, comprese le scuole gestite dalle Nazioni Unite, gli istituti cattolici e quelli privati dove le classi sono miste fino alle superiori. L’articolo 46 della nuova legge «proibisce» la mescolanza degli studenti dei due sessi dall’età di nove anni, e opera per «femminilizzare» le scuole per ragazze. Hamas aveva già imposto una serie di regolamentazioni di stampo conservatore come l’obbligo per le scolare adolescenti di indossare vesti lunghe e il velo. La nuova legge sull’istruzione proibisce anche «di ricevere regali o aiuti volti alla normalizzazione delle relazioni con l’occupazione sionista».
GIRO DI VITE
«Siamo musulmani ha commentato l’esperto legale del Ministero, Waleed Mezher, in un’intervista alla Reuters -. Non vogliamo convertire nessuno all’Islam, stiamo solo servendo il nostro popolo e la sua cultura». Inoltre, è prevista una pena fino a 10 anni di carcere per ogni responsabile individuale che promuova la normalizzazione dei rapporti con Israele e una multa di 20 mila dinari giordani (circa 22 mila euro) per ogni istituto coinvolto nell’organizzazione di programmi di scambio o di attività che includano gli israeliani.
«Questa legge è una valvola di sicurezza per i nostri principi nazionali. Un membro dello staff maschile tra 20 insegnanti di sesso femminile in una scuola femminile non avrebbe permesso alle nostre sorelle di sentirsi a proprio agio», sostiene deciso Yousef Al-Sherafi, deputato di Hamas e membro del comitato dell’istruzione».
Una decisione che ha subito scatenato le polemiche, che seguono ad una precedente iniziativa del governo islamista della Striscia che aveva deciso di vietare alle donne palestinesi la partecipazione alla maratona organizzata dalle Nazioni Unite. Un divieto che aveva provocato la reazione immediata dell’Onu che aveva preferito annullare l’evento sportivo. Da tempo Hamas è impegnata nella trasformazione della società gazawi: dal 2007, anno in cui il movimento islamista è salito al potere nell’enclave, separandola di fatto dalla Cisgiordania, sono state prese misure e approvate leggi volte ad applicare la legge religiosa nella gestione della vita sociale ed economica di Gaza. Si sono fatte frequenti le detenzioni di giovani palestinesi, accusati di essersi tenuti per mano in strada o di aver camminato insieme seppur non ufficialmente fidanzati.
Ci sono stati casi di leggi approvate dal governo di Hamas che promuovevano la separazione di genere parrucchieri uomini non possono tagliare i capelli di clienti donne, mentre a queste ultime è proibito fumare il narghilè ma nella pratica non sono state mai applicate. Diverso il caso della legge sul sistema scolastico, che nella realtà è già applicata alle scuole pubbliche.
LE PROTESTE
«Dire che la precedente legge sulla scuola non rispettava la tradizione della comunità e che Hamas vuole riformare lo stile di vita della gente è un insulto afferma alla Palestinian Radio Zeinab al-Ghoneimi, attivista per i diritti delle donne nella Striscia -. Invece di nascondersi dietro le tradizioni, perché non dicono chiaramente che sono islamisti e vogliono islamizzare la comunità?». «La società palestinese ha sempre fatto vanto, e a ragione, della sua pluralità. E il sistema dell’istruzione ne ha rappresentato un pilastro. L’imposizione di Hamas è un fatto gravissimo, proprio di chi sembra guardare ai più retrivi e sessuofobici regimi teocratici», dice a l’Unità Hanan Ashrawi, paladina dei diritti umani nei Territori, più volte ministra nei governi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
La protesta cresce nel web. «Non stiamo combattendo l’occupazione israeliana per veder nascere il regime della “sharia”», (la legge islamica, ndr), twitta Zahira, studentessa di Gaza City. Una denuncia condivisa da tante altre ragazze e ragazzi di Gaza, quelli che, sfidando la polizia di Hamas, avevano manifestato, agli albori della Primavera araba, a sostegno dei «fratelli e sorelli di Tunisi e del Cairo». «Sono fondamentalisti che credono che l’Islam dica che le donne dovrebbero stare a casa e non uscire senza l'hijab», rilancia Hala Qishawi, direttore del Centro per gli affari delle donne a Gaza -. Quello che preoccupa è che l’applicazione di queste restrizioni islamiche sulle donne sembra essere diventata una priorità».
Una deriva integralista che rende ancora più opprimente la vita in quella prigione a cielo aperto chiamata Gaza. E stavolta, il «nemico sionista» non c’entra.

Repubblica 4.4.13
Uccisi due ragazzi palestinesi.
Torna la tensione nei Territori
L'esercito israeliano reagisce ad attacchi con le moltov e colpisce a morte due giovani di cui uno diciassettenne
Scontri e sassaiole in diverse località della Cisgiordania
di Francesco Mimmo

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l’Unità 4.4.13
Siria. Seicento europei combattono con i ribelli


Almeno 600 combattenti di origine europea si sono uniti dal 2011 ai ribelli che si battono contro le forze del regime di Damasco, e di questi 441 sono ancora in Siria. Lo rivela uno studio dell’International centre for the study of radicalisation (Icsr) realizzato al King college di Londra. I miliziani dispiegati tra le fila delle forze dissidenti provengono da 14 paesi dell’Europa, prevalentemente dal Regno Unito (134), Paesi Bassi (107), Francia (92) e Belgio (85). Altri sarebbero invece di origine tedesca, danese, irlandese, finlandese. Nella lista anche combattenti spagnoli e provenienti da Svezia, Albania, Austria, Bulgaria e Kosovo.
«Tra i 140 e i 600 europei si sono recati in Siria dall’inizio del 2011 e circa 441 di loro sono ancora nel paese», ha spiegato il ricercatore Aaron Y. Zelin, precisando che non tutti gli stranieri che hanno imbracciato un fucile contro le truppe fedeli al presidente Bashar al-Assad sono dei fanatici islamisti. Lo studio dell’Icsr è stato realizzato attraverso la raccolta di dati relativi ad alcuni «avvisi di martirio» pubblicati in rete sui forum jihadisti e grazie ai resoconti di centinaia di testate giornalistiche arabe ed occidentali.
Gli europei rappresentano tra il 7 e l’11 per cento dei combattenti stranieri attivi in Siria, il cui numero oscilla tra le 2.000 e le 5.500 persone.

La Stampa 4.4.13
Sfida in topless nel nome di Allah
Quella mobilitazione per Amina
Via le t-shirt e sit in a oltranza davanti alle ambasciate tunisine di tutto il mondo per la blogger Amina, scomparsa dopo aver pubblicato le foto a seno nudo
di Francesca Paci
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Repubblica 4.4.13
La paranoia nucleare
di Ian Buruma


SE NON fosse per le armi nucleari che possiede, a nessuno importerebbe molto della Corea del Nord: un Paese di 24 milioni di abitanti, piccolo, isolato e governato da una dinastia grottesca che si definisce comunista. L’attuale leader, il trentenne Kim Jong-un, nipote paffuto del primo leader comunista della Corea del Nord Kim Il-song, non solo dispone di armi nucleari, ma minaccia di trasformare Seul, la ricca e vivace capitale della Corea del Sud, in un “mare di fuoco”. E la sua lista di obiettivi militari comprende inoltre le basi militari Usa dell’Asia e del Pacifico. Dal momento che Kim sa bene che una guerra contro gli Usa porterebbe alla distruzione del suo Paese, simili provocazioni andrebbero prese con un pizzico di sale. Perché insiste con questo atteggiamento belligerante? Il suo governo non è in grado nemmeno di sfamare il popolo.
La Corea del Nord infatti è uno dei Paesi più poveri del mondo: la sua popolazione è devastata a scadenze regolari dalle carestie, mentre a Pyongyang, la capitale, l’elettricità non basta nemmeno a tenere accese le luci nei pochi grandi alberghi. Minacciare un attacco contro la nazione più potente del mondo sembra quindi una dimostrazione di scelleratezza. Tuttavia, ritenere che Kim Jong-un e i suoi consiglieri militari siano folli non è né utile né molto plausibile. Di certo, nel sistema politico della Corea del Nord vi è qualcosa di folle. La tirannia della famiglia Kim si basa su una miscela letale di paranoia, fanatismo religioso e spietata realpolitik che merita di essere spiegata. La storia della Corea del Nord è breve e piuttosto semplice: nel 1945, dopo il crollo dell’impero giapponese — che dal 1910 aveva governato in maniera assai brutale sull’intera Corea —, il nord venne occupato dall’Armata rossa sovietica, e il sud dagli Stati Uniti. Da un campo militare di Vladivostok i sovietici presero un comunista coreano relativamente sconosciuto di nome Kim Il-song, e lo piazzarono a Pyongyang come leader della Corea del Nord. Sul suo eroismo e il suo stato divino iniziarono presto a diffondersi delle leggende inventate di sana pianta, che gettarono le basi di un culto della personalità.
La venerazione di Kim, di suo figlio e di suo nipote alla stregua di divinità coreane entrò a far parte della religione di Stato. La Corea del Nord è essenzialmente una teocrazia, e il culto che circonda i “divini” Kim, basato in parte su alcuni elementi presi in prestito dallo stalinismo e dal maoismo, si ispira soprattutto alle forme indigene dello sciamanesimo coreano, dove divinità umane promettono la salvezza (non a caso anche il reverendo Moon e la sua Chiesa dell’Unificazione vengono dalla Corea). Ma il potere del culto dei Kim, e la paranoia, affondano le proprie radici in un’epoca precedente al 1945. Stretta in una scomoda posizione tra Cina, Russia e Giappone, la Corea è da tempo teatro di sanguinose lotte di potere. I governanti coreani sono riusciti a sopravvivere aizzando le potenze straniere una contro l’altra, e offrendo (in particolare agli imperatori cinesi) la propria subordinazione in cambio di protezione. Da questo atteggiamento derivano oggi un’intensa paura e un’avversione nei confronti delle grandi potenze.
La principale rivendicazione ideologica alla base della legittimità della dinastia Kim risiede nella cosiddetta filosofia Juche, che significa autosufficienza. Kim Il-song e suo figlio Kim Jong-il sono stati dei tipici governanti coreani, in quanto misero una contro l’altra Cina e Unione Sovietica, assicurandosi la protezione di entrambe e dando a tutto ciò il nome di “autosufficienza”. La propaganda nordcoreana ha sempre accusato i sudcoreani di essere dei pavidi lacchè dell’imperialismo Usa.
La paranoia nei confronti dell’imperialismo Usa è dunque parte del culto dell’indipendenza, mentre la minaccia rappresentata dai nemici esterni è essenziale alla sopravvivenza della dinastia Kim. La caduta dell’Unione Sovietica fu disastrosa per la Corea del Nord, così come lo fu per Cuba, in quanto non solo la privò del sostegno economico sovietico, ma impedì ai Kim di continuare a opporre tra loro le due grandi potenze. Non rimaneva che la Cina, dalla quale oggi la Corea del Nord dipende quasi del tutto. La Cina potrebbe mettere in ginocchio la Corea del Nord in un solo giorno, interrompendo le forniture di cibo e di carburante.
C’è un solo modo per distogliere l’attenzione da questa situazione umiliante: esasperare la propaganda incentrata sull’autosufficienza e sull’imminente minaccia degli imperialisti Usa e dei loro lacchè sudcoreani. In assenza di una paranoia così orchestrata, i Kim perderebbero ogni legittimità. Nessuna tirannia può sopravvivere affidandosi solo alla forza bruta. Secondo alcuni, gli Usa potrebbero rendere la situazione nell’Asia nordorientale più sicura stringendo un patto con i nordcoreani e promettendo loro di non attaccare né tentare di rovesciare il regime di Kim. È improbabile che gli americani accettino una simile proposta, o che la Corea del Sud si auspichi che ciò accada. In ogni modo, motivi di politica interna impediscono a un presidente democratico Usa di dimostrarsi condiscendente. Con ogni probabilità inoltre la propaganda paranoica della Corea del Nord non si fermerebbe nemmeno di fronte a simili promesse. Dopo tutto, la paura del mondo esterno rappresenta il cardine della filosofia Juche.
La tragedia della Corea sta nel fatto che nessuno desidera realmente modificare lo
status quo: la Cina vuole che la Corea del Nord rimanga uno Stato cuscinetto, e teme che il crollo del regime possa tradursi nell’arrivo di milioni di rifugiati — dal momento che i sudcoreani non sarebbero in grado di “assorbire” la Corea del Nord così come la Germania dell’Ovest assorbì lo Stato comunista tedesco; infine, né il Giappone né gli Usa sono desiderosi di pagare le conseguenze del crollo della Corea del Nord. La situazione è esplosiva, e rimarrà tale. Il popolo nordcoreano continuerà a patire carestie e tirannia, e tra le due Coree continueranno a volare parole di guerra. Basta poco a scatenare una catastrofe — a Sarajevo bastò uno sparo. E intanto la Corea del Nord continua a disporre di quegli ordigni nucleari.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 4.4.13
Il ricorso agli esperti quando la politica è debole
di Marco Revelli


Una situazione simile si verifica se un medico curante convoca dei luminari per un consulto urgente sul malato
Situazioni che si ritrovano in certe fasi cruciali della storia. Come i passaggi di regime e le crisi di sistema

Ultimo viene il saggio, si potrebbe dire. Nel senso che se la politica, contigua solitamente più alla follia che alla saggezza, chiama al proprio capezzale il saggio – anzi, “i saggi” – significa che avverte di aver esaurito ormai le proprie residue risorse, di proposta e di tecnica. Un po’ come quando il medico curante richiede, con urgenza, un consulto tra “luminari”. O quando una coppia in crisi decide di rivolgersi al consulente matrimoniale… Si tratta comunque di occasioni infauste, di cui si farebbe volentieri a meno.
In effetti, nei settant’anni di vita della nostra Repubblica, si contano rarissimi casi di questo genere, con un Capo dello Stato che richiede il consulto di una commissione ad hoc.
Uno solo, a mia conoscenza. Forse due, a voler largheggiare, entrambi risalenti alla presidenza di Francesco Cossiga (un Presidente, come si ricorderà,
sui generis).
Entrambi riguardanti potenziali conflitti istituzionali gravi, in momenti storici e politici delicati, in qualche misura “di svolta”.
La prima volta fu nel 1986, ed i “saggi” furono chiamati a pronunciarsi sul quesito inquietante su “chi comanda in caso di guerra”. Si era a ridosso dei fatti di Sigonella, quando Bettino Craxi aveva gestito a modo suo il confronto con le truppe americane all’interno della base siciliana sfiorando lo scontro armato, e Cossiga pretese un chiarimento sui rispettivi poteri di comando. Fu costituita una commissione di giuristi e di esperti militari “di destra, di centro e di sinistra” – come annoterà lo stesso Cossiga – che in due anni di lavoro giunse a un verdetto per sfortuna del Presidente a lui ostile, escludendo che questi avesse “la competenza di interferire”.
La seconda volta risale al 1990, nella fase finale del mandato presidenziale di Cossiga, quando aveva già abbandonato il primitivo profilo di “custode della Costituzione” per inaugurare il ruolo di “picconatore”. E riguarda le competenze del Consiglio superiore della magistratura, prodromo del futuro conflitto istituzionale tra “politica e giudici”. Si era nel pieno delle indagini sull’organizzazione segreta Gladio. Si profilava all’orizzonte la crisi sistemica di Tangentopoli. Emergeva il volto di una magistratura determinata, almeno in alcune sue parti, ad affermare e difendere la propria indipendenza dal potere politico. E il Capo dello Stato (pare irritato per una presa di posizione del Csm sull’appartenenza dei giudici alla massoneria) procedette, questa volta con decreto presidenziale, alla formazione della cosiddetta “Commissione Paladin” (dal nome del presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin, chiamato a dirigerla) che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, ridimensionare le prerogative dell’organo di autogoverno dei giudici limitandone i poteri alla semplice gestione amministrativa. Ma anche questa volta gli andò male. I nove “saggi” che ne facevano parte, tutti giuristi di alto livello confermarono il “profilo costituzionale” del Csm e l’ampiezza delle sue funzioni, invitando il legislatore ad adeguare la normativa al dettato costituzionale.
Si tratta comunque di precedenti assai diversi dall’esperienza attuale, nella quale l’intervento dei “saggi” non è invocato tanto per rispondere a quesiti specifici, quanto per tentare di soccorrere in un vuoto lasciato aperto dalla politica e soprattutto dai partiti politici, incapaci di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e, per questo, potenziali portatori insani di una crisi sistemica dall’esito imprevedibile. Da questo punto di vista, se un precedente storico è dato riconoscere d’intervento di un collettivo di “sapienti” in un processo politico di svolta (pur in condizioni specularmente opposte a quelle attuali) questo potrebbe essere offerto dall’esperienza della Consulta Nazionale, agli albori della nostra Repubblica, quando in assenza di un parlamento eletto e in mancanza delle regole fondamentali, nel settembre del 1945 fu nominata con Decreto Luogotenenziale un’Assemblea di 304 membri (in parte indicati dai partiti, ma anche dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali, dalle libere professioni o scelti tra i reduci e tra gli ex parlamentari antifascisti), con il compito di fare le veci del Parlamento fino all’elezione della Costituente, e di istruirne i lavori preliminari.
A scorrerne oggi l’elenco dei membri, non può non colpire l’alto livello delle competenze lì rappresentate. La quantità di saperi, e l’elevato numero di “saggi”, nel senso proprio del termine, che vi lavorarono. Ne facevano parte filosofi come Benedetto Croce e Guido Calogero, storici come Adolfo Omodeo e Luigi Salvatorelli, giuristi come Piero Calamandrei e Vincenzo Arangio-Ruiz, uomini come Luigi Einaudi, Guido Carli, Enrico Mattei… oltre a tutti i grandi leader politici del tempo. Nessun’altra assemblea elettiva riuscirà più a concentrare tanta qualità, in tutti i settant’anni successivi. Ma si trattava, appunto, di un inizio. E i “saggi” erano chiamati allora a inaugurare un tempo nuovo per una politica nascente, non per permettere di guadagnar tempo a una politica in affanno. Il che non esclude che quell’esperienza aurorale possa ancora parlarci in questa fase crepuscolare.
Essa ci dice, infatti, quale supporto possa offrire la “saggezza” alla politica in quella particolare condizione che va sotto il nome di “stato d’eccezione”, quando un Paese si trova a dover affrontare un passaggio di regime (è il caso del ’45). O quando è costretto a gestire una crisi sistemica come l’attuale, nella quale lo stato d’eccezione rischia di diventare permanente. Allora davvero i saggi potrebbero aiutare a individuare la via per uscire dal labirinto (per usare un’immagine cara a Norberto Bobbio), se solo riuscissero a restar tali. E a condizione che il monopolio della vita pubblica da parte degli apparati di partito (degli antichi sovrani in crisi, trasformatisi da mezzo in fine), si allenti. Perché il Pensiero è incompatibile con le macchine disciplinari, come ha magistralmente mostrato Simone Weil in un breve, fulminante testo ripubblicato di recente. E se è discutibile che il saggio possa fare compromessi con la ragion di stato, di certo esso non può nascere né convivere con lo spirito di partito.

Il Libro Rosso di Jung
Repubblica 4.4.13
Un archetipo presente in tutte le culture
Quel bisogno del “Maestro”
di Romano Màdera


Un sentimento radicato, una costante necessità quella di avere qualcuno che rappresenta l’eccellenza esemplare, una fonte di ispirazione e soprattutto una guida che indichi la via

È mai esistita una cultura priva della figura di un saggio? La risposta è semplice: “no”. Miti e riti, favole, leggende, storie — modi diversi di tramandare saperi e atteggiamenti utili per orientare la vita di una popolazione — hanno evocato l’immagine di coloro che rappresentano l’eccellenza esemplare, la fonte d’ispirazione nelle prove, nelle crisi dell’esistenza collettiva e dei singoli. Questa costante, al di là delle pur enormi distanze culturali, è quello che Jung chiamò archetipo del “vecchio saggio”. Un esempio può essere Buddha, ma anche Mago Merlino. Insopprimibile è il bisogno di onorare figure che per qualche impresa straordinaria, per qualche sentimento radicato, per qualche idea trascinante diventino unità e simbolo del senso di un popolo, di una forma di vita. Perché l’archetipo non è mai presente, vive nella differenza delle sue immagini.
Il vecchio saggio — che può essere giovanissimo ma è sempre anche antichissimo, come dice Gesù di Nazareth, «prima che Abramo fosse, io sono» — è la guida che indica la via quando non si vede più nessuno sbocco, come il Mosé liberatore dalla schiavitù egiziana. Rappresenta il senso come orientamento, come gerarchia di valori, come interpretazione delle tradizioni e dei linguaggi in uso. La scoperta di Jung è quella di ritrovare, nell’ascolto analitico, come nelle mitologie e nelle religioni, l’emergere di una figura portatrice della funzione del senso, capace di rinnovare le energie necessarie a riprendere il cammino.
Nel Libro Rosso di Jung — scritto dopo la rottura con Freud, nel tormento di un’acuta crisi personale iniziata durante gli anni orribili della prima guerra mondiale — compare l’immagine del maestro-mago Filemone. Con lui si compie una sorta di trasmutazione per la quale il complesso superegoico, al di là del rapporto con il padre reale e con i suoi sostituti, si libera nella dimensione simbolica e sintetizza l’imago viva del magistero interiore. L’insegnamento diventa una realtà diversa dall’io, animata da una sua forza e da un suo sapere: Jung comprendeva queste funzioni personificate come immagini del Sé. Là dove Nietzsche proclama la morte di Dio, Jung raffigura la sua rinascita in anima. Filemone, dice Jung in Ricordi, sogni e riflessioni, è un pagano, circondato da un’atmosfera egiziano-greca, con una coloritura gnostica. Una figura di maestro erede della precedente personificazione di Elia, che non si contrappone ma rinnova la radice cristiana.
Shamdasani riporta nella sua “Introduzione” al Libro Rosso, gli appunti di conversazioni tra Jung e Cary Baines, una analizzante, amica e collaboratrice che aveva battuto a macchina parti del testo. Nel gennaio del 1923 Baines scrive che le figure di Elia e di Filemone, come altre, sembrano essere fasi delle manifestazioni di quello che Jung avrebbe chiamato “Il Maestro”. Secondo Baines, Jung era sicuro che era questo stesso Maestro ad aver ispirato Buddha, Cristo, Mani, Maometto… e che questi si erano identificati con l’immagine dell’archetipo. Identificazione dalla quale Jung era deciso a tenersi ben distante, perché convinto di essere soltanto lo psicologo che aveva capito quale era il processo in atto. Baines replicò a Jung che si doveva far capire al mondo la natura di questa rivelazione psichica del maestro, senza che altri credessero di poterlo mettere in gabbia e di averlo a loro disposizione.

Repubblica 4.4.13
Che cos’era la “sophìa” secondo i Greci
L’arte antica dei sapienti
di Maurizio Bettini


Nell’opera di Plutarco “Il Convito dei Sette” è lo spartano Chilone a sostenere che lo Stato ideale è quello in cui si dà più ascolto alle leggi e non a chi è più bravo a parlare in un simposio

Per esser ritenuti saggi bisogna possedere la “saggezza”. Ma in che cosa consiste propriamente questa virtù? I Greci la definivano sophìa, una parola che suscita immediatamente echi di dialoghi socratici e visioni di barbe filosofiche. Ma non è proprio così. La prima volta che incontriamo la parola sophìa, infatti, nell’Iliade di Omero, essa viene usata per definire l’abilità tecnica del carpentiere che grazie all’uso della squadra (e ai consigli di Atena) riesce a tagliar dritta la trave su cui lavora. La sophìa ha dunque la propria origine nella capacità pratica, e consiste in definitiva nel saper fare al meglio il proprio mestiere – tanto quello del carpentiere o del marinaio, quanto quello del filosofo o del legislatore. In questa visione antica della saggezza c’è indiscutibilmente una grande saggezza: il rifiuto di separare la profondità del pensiero dalla pratica delle cose concrete.
I Greci ebbero innumerevoli saggi di cui vantarsi, ma dato che amavano redigere elenchi, vollero comporne uno anche riguardo a costoro, individuandone i sette più grandi. I loro nomi variano nella tradizione, ma la profondità delle loro affermazioni rimane costante. Basta ricordare quelle che Plutarco riferisce in un immaginario dialogo che porta per l’appunto il nome di Convito dei sette sapienti.
Vi presero parte Solone, colui che dettò le leggi agli Ateniesi, Biante di Priene, oratore e poeta, Talete di Mileto, filosofo e matematico insigne, Anacarsi, il saggio Scita esperto del mondo, Cleobulo, tiranno di Lindo, Pittaco, tiranno di Mitilene e Chilone spartano. I temi affrontati al simposio, fra un enigma e una coppa di vino, furono molti, ma ce n’è uno che risulta oggi di straordinaria rilevanza. Dopo aver discusso su quali fossero le qualità più importanti per un re, infatti, i sette si posero il problema di quale fosse il miglior stato democratico. A questa cruciale domanda Solone rispose così: «Quello nel quale l’ingiustizia viene punita con la stessa severità da chi l’ha subita e da chi non l’ha subita». Biante: «Quello in cui si teme la legge alla stesso modo in cui si teme un tiranno ». Talete: «Quello in cui non ci sono né cittadini troppo ricchi, né cittadini troppo poveri». Anacarsi: «Quello in cui il rango più alto è assegnato in base alla virtù, il più basso in base al vizio». Cleobulo: «Quello in cui i cittadini temono il disonore più della legge». Pittaco: «Quello in cui i malvagi non possono ottenere alcuna magistratura, mentre gli onesti non possono esimersi dall’esercitarne una». E infine Chilone: «Quello in cui si dà più ascolto alle leggi che non a chi è bravo nel parlare».
Sembra peraltro che i celebri saggi lo fossero a tal punto, da sapere anche di non esserlo abbastanza. E anche questo risulta, nella circostanza che stiamo attraversando, di singolare attualità – o forse sarebbe meglio che non fosse così? Si narrava dunque che un giorno, a Mileto, nella rete di alcuni pescatori fosse comparso un tripode. Nacque perciò una discussione su chi dovesse possederlo, finché i Milesi (come c’era da attendersi) mandarono a consultare l’oracolo di Delfi. Apollo dette questo responso: il tripode sia assegnato a colui che eccelle nella sapienza. I Milesi lo consegnarono a Talete, ma costui a sua volta, ritenendo di essere indegno di tanto onore, lo diede a un altro sapiente, e questo a un altro ancora, fino a che esso fu assegnato a Solone. Ma Solone affermò che primo nella sapienza non poteva che essere il dio, Apollo, da cui tutto era cominciato. E lo rimandò perciò a Delfi.

l’Unità 4.4.13
Da oggi in libreria- La cultura? Si mangia
È il motore di sviluppo del nostro Paese ma c’è una classe dirigente disattenta
di Bruno Arpaia e Pietro Greco


Anticipiamo un brano dal pamphlet di Bruno Arpaia e Pietro Greco che propongono un progetto di sviluppo fondato sulla conoscenza

D’ACCORDO, NE SIAMO CONSAPEVOLI: È FIN TROPPO FACILE INIZIARE CON LE ORMAI CELEBRI DICHIARAZIONI DI GIULIO TREMONTI. Ma non è colpa nostra se, quando era ministro dell’Economia, il commercialista di Sondrio ha riassunto in una sola battuta i pregiudizi e le arretratezze di buona parte del Paese rispetto a tutto ciò che sa di pensiero, di riflessione, di elaborazione culturale, di sguardo lungo sui nostri destini. «Con la cultura non si mangia» ha dichiarato infatti Tremonti il 14 ottobre 2010. Poi, non contento, ha aggiunto: «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia». Che umorista. Che statista. Meno male che c’è gente come lui, che pensa ai sacrosanti danè. E infatti, con assoluta coerenza, Tremonti ha tagliato un miliardo e mezzo di euro alle università e otto miliardi alla scuola di primo e secondo livello, per non parlare del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo e altre inutili istituzioni consimili. Meno male. Sennò, signora mia, dove saremmo andati a finire?
In questi ultimi anni, però, l’ex socialista Tremonti non è stato il solo uomo politico a pronunciarsi sui rapporti tra cultura ed economia. Per esempio, l’ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi, ha sostenuto che per i laureati non c’è mercato e che la colpa della disoccupazione giovanile è dei genitori che vogliono i figli dottori invece che artigiani. Sapesse, contessa...
E il filosofo estetico Stefano Zecchi, in servizio permanente effettivo nel centrodestra, ha chiuso in bellezza, come del resto gli compete per questioni professionali: ha detto che in Italia i laureati sono troppi. Insomma, non c’è dubbio che la destra italiana abbia sposato la cultura della non cultura e (chissà?) magari già immagina un ritorno al tempo dell’imperatore Costantino, quando la mobilità sociale fu bloccata per legge e ai figli era concesso fare solo il lavoro dei padri. (Non lo sapeva, professor Sacconi? Potrebbe essere un’idea...).
E la sinistra o come diavolo si chiama adesso? Parole, parole, parole. Non c’è uno dei suoi esponenti che, dal governo o dall’opposizione, non abbia fatto intensi e pomposi proclami sull’importanza della cultura, dell’innovazione, dell’istruzione, della formazione, della ricerca e via di questo passo, ma poi, stringi stringi, non ce n’è stato uno (be’, non esageriamo: magari qualcuno c’è stato...) che non abbia tagliato i fondi alla cultura, all’innovazione, all’istruzione, alla formazione, alla ricerca e via di questo passo. Per esempio, nel programma di governo dell’Unione per il 2006 si diceva: «Il nostro Paese possiede un’inestimabile ricchezza culturale che in una società postindustriale può diventare la fonte primaria di una crescita sociale ed economica diffusa. La cultura è un fattore fondamentale di coesione e di integrazione sociale. Le attività culturali stimolano l’economia e le attività produttive: il loro indotto aumenta gli scambi, il reddito, l’occupazione. Un indotto che, per qualità e dimensioni, non è conseguibile con altre attività: la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico».
Magnifico, no? Poi l’Unione (o come diavolo si chiamava allora) vinse le elezioni e andò al governo. La prima legge finanziaria, quella per il 2007, tagliò di trecento milioni i fondi per le università. Bel colpo. Ci furono minacce di dimissioni del ministro per l’Università e la Ricerca, Fabio Mussi. Ma le minacce non servirono. Tant’è che, nella successiva legge di bilancio, furono sottratti altri trenta milioni dal capitolo università a favore... degli autotrasportatori. E inoltre, come scrivono Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, nel 2006 con il governo Prodi «c’è stato un calo del trenta per cento circa dei finanziamenti, cosicché il già non generoso sostegno alla ricerca di base è diminuito, da circa centotrenta a poco più di ottanta milioni di euro, proprio nel periodo in cui al governo si è insediato lo schieramento politico che, almeno a parole, ha sempre manifestato un grande interesse per la ricerca».
Certo, dopo quanto avevano scritto nel programma, non sarebbe stato chic e «progressista» avere la faccia tosta di dire che bisognava sottrarre risorse alla scuola e all’università, e allora non l’hanno detto. Però l’hanno fatto, eccome. Del resto, per apprezzare il grado di interesse verso la cultura dei rappresentanti del popolo schierati (per così dire) a sinistra, basta rivedere la puntata di Le Iene del 6 aprile 2012, nella quale la conduttrice Sabrina Nobile ha rivolto qualche domandina di cultura generale a deputati e senatori.
La prima intervista è all’onorevole Amalia Schirru, del Partito Democratico, componente della XI Commissione della Camera (Lavoro Pubblico e Privato), laureata in Pedagogia. «Che cos’è una sinagoga?» le chiede Sabrina Nobile. «È il luogo di culto che le donne musulmane... frequentano per pregare il loro Dio». «E che Dio si prega in sinagoga?» incalza la conduttrice. «Maometto oppure Allah... » «E dove si trova Gerusalemme? È capitale di quale Stato?» «Palestina...» afferma la dottissima deputata. Seconda intervista, con l’onorevole Marialuisa Gnecchi, sempre del Partito Democratico, anche lei componente della XI Commissione, maturità classica. «Chi è Netanyahu?» le chiede Sabrina Nobile. «Rappresenta l’Iran e quindi tutto quello che...» Già, l’Iran. Se, per quanto riguarda l’attualità, l’onorevole non è troppo ferrata, magari con la storia se la cava meglio, deve aver pensato la conduttrice. E allora le domanda: «Chi era Mao?» La sa, la sa... «Mao è stato il presidente della Cina e quindi ha avuto un ruolo in termini significativi nella storia del mondo». Visto che la sapeva? Ma la Nobile insiste, accidenti: «In che periodo è stato presidente Mao?» Questa è difficile, e infatti la Gnecchi vacilla, esita, si butta, fingendo insofferenza per una domanda fin troppo ovvia: «Ormai due secoli fa... ».

Bruno Arpaia e Pietro Greco pagine 176 euro 13 Fenici rosse Guanda

l’Unità 4.4.13
Quanta antimateria nel nostro universo
di Pietro Greco


C’È UNA SORGENTE RICCA E SCONOSCIUTA DI ANTIMATERIA, LASSÙ NELLO SPAZIO COSMICO.Produce un fiume inatteso di positroni e sembra essere isotropa: ovvero diffusa in maniera omogenea in tutta la volta celeste e costante nel tempo.
Questa antimateria anomala è costituita da positroni – la particella che ha le medesime caratteristiche fisiche dell’elettrone, salvo la carica elettrica opposta – ed è stata individuata dalla Collaborazione Ams-2, il gruppo di ricerca che ha collocato il suo Alpha Magnetic Spectrometer, uno strumento molto sensibile per la rilevazione dell’antimateria, sulla Stazione Spaziale Internazionale. La ricerca è stata pubblicata ieri sulla rivista Physical Review Letters e costituisce un buon indizio (non ancora una prova) dell’esistenza di «materia oscura». Per questo l’americana Nasa, il Cern di Ginevra e l’italiano Infn le hanno dato molto risalto. Sia pure invitando alla prudenza e rimandando a tempi futuri, quelli necessari a ottenere nuovi dati.
Non entriamo nei dettagli tecnici. Ma diciamo che in un certo intervallo energetico compreso tra 0,5 e 10 GeV, la frazione di positroni ottenuti da Ams-2 rispetto a quella di elettroni diminuisce costantemente al crescere dell’energia. Come prevedono le teorie note. Ma poi nell’intervallo di energia compreso 10 e 250 GeV lo spettrometro rileva un andamento opposto e imprevisto: la presenza di positroni aumenta con l’energia. Dopo i 250 e fino a 350 GeV lacurva sembra appiattirsi, ma l’analisi a questo punto non è statisticamente significativa.
Questa anomalia era già stata riscontrata negli anni scorsi da altri esperimenti (Pamela e Fermi, in particolare). Ora tuttavia è stata confermata con una statistica imponente. Ora è certo che l’anomalia c’è.
Non sappiamo però quale ne sia la causa. Le opzioni possibili sono due. O è «fisica normale» e i positroni sono prodotti da stelle pulsar, distribuite nella nostra galassia. Oppure quell’antimateria in eccesso è il prodotto di «nuova fisica». C’è infatti una teoria, la teoria supersimmetrica, che spiega come mai nel nostro universo noi «pesiamo» molta più materia di quanto «vediamo». Sappiamo quant’è questa «materia oscura» costituisce più di un quarto dell’universo (il resto è dato dalla materia visibile, più o meno il 5% e da «energia oscura», più o meno il 68%). Ma non sappiamo di cosa è fatta. Secondo la teoria supersimmetrica la «materia oscura» è costituita da particelle esotiche (esotiche perché mai rilevate). La teoria supersimmetrica non è stata ancora provata. Tuttavia essa fa precise previsioni. Una di queste è che le particelle che costituiscono la «materia oscura» quando si incontrano si annichilano. E il vuoto carico di energia prodotto dallo scontro genera una enorme quantità di positroni nell’intervallo di energia compreso proprio tra 10 e 350 GeV. Se la «materia oscura» è quella supersimmetrica, prima e dopo questi limiti i positroni devono essere presenti molto meno.
I rilievi di Ams-2, un esperimento cui partecipano Roberto Battiston e molti altri italiani dell’Infn, sono congruenti con le previsioni della teoria supersimmetrica. Ma non definitivi. Lo spettrometro dovrà lavorare ancora molto tempo per verificare cosa succede a energia più alte di 350 GeV. Tuttavia i positroni che ha rilevato costituiscono un indizio (ripetiamo, non una prova) dell’esistenza di particelle supersimmetriche. Un indizio che se dovesse essere corroborato da nuovi rilievi ci farebbe fare un salto oltre il Modello Standard della Fisica delle Alte Energie. Sbarcandoci, per la prima volta, in un nuovo mondo.

il Fatto 4.4.13
Un terapeuta quasi vero tra i commissari per fiction
di Nanni Delbecchi


Prima che la psicanalisi fosse inventata, pare che già le pazienti si innamorassero del loro psicanalista e, bando alla ciance, vagheggiassero di fare sesso con lui sul pavimento dello studio; finché, probabilmente per rendere possibile non solo l’interpretazione dei sogni ma anche la loro realizzazione, Sigmund Freud inventò la psicanalisi, della cui effettiva utilità ancora si dibatte (serve o non serve? le scuole di pensiero sono più di una). Questo per dire che l’esordio della versione italiana del celebre serial statunitense In treatment (da lunedì, e per tutta la settimana, in onda su Sky Cinema 1) non rifulge per originalità. Vi si vede infatti un’affannata Kasia Smutniak dichiarare il proprio transfert amoroso al terapeuta in ascolto. Il rispetto del format fondativo, prodotto nel 2008 dalla HBO, è evidente. Al posto di Gabriel Byrne anche qui abbiamo un fascinoso e flemmatico strizzacervelli, interpretato da Sergio Castellitto, che gronda ormoni e neuroni da ogni poro e che ritroviamo ogni giorno a dipanare una diversa matassa (finché il venerdì non va in terapia lui stesso, a riprova che c’è almeno una categoria di persone a cui la piscanalisi serve di sicuro, gli psicanalisti). Un’altra costante immancabile in tutte le versioni di In treatment, compresa questa nostrana, è la genialata produttiva; invece di mostrare drammi e colpi di scena, qui basta evocarli con le parole. Uno studio, un lettino, un figaccione, una giovane donna in crisi e il 99 per cento dei costi è coperto.
LA PRINCIPALE differenza riscontrabile nei primi episodi di questa versione italiana, diretta da Saverio Costanzo, è che qui c’è più azione, pure troppa. Per dire: la Smutniak non si accontenta di dichiararsi a Castellitto; gli piomba in studio di primo mattino ubriaca fradicia, dopo avere lasciato il fidanzato che le aveva dato un ultimatum (“O mi sposi o te ne vai”) e dopo avere “quasi scopato” nel bagno di un locale con uno sconosciuto che sapeva il fatto suo: “Mi alza il vestito e da come lo fa capisco che è un vero professionista... ”. Non sarà un po’ troppo? Ma Castellitto non si scompone, nemmeno quando la paziente gli confessa che, dopo aver masturbato quel professionista del sesso, non si è nemmeno lavata le mani.
Eppure la benefica sensazione di strania-mento che si ricava dalla visione di In treatment è un’altra, e deriva dallo scarto tra questa operazione non con il modello americano, ma con la quasi totalità delle fiction targate Rai o Mediaset. Già il fatto che ci sia un centro narrativo che non è un ispettore, un prete, una madre superiora, un mafioso sciupafemmine, una fanciulla povera innamorata di un principe, un principe innamorato di una fanciulla povera e nemmeno un medico in famiglia che fa le stesse battute di Carlo Conti, ma un terapeuta relativamente credibile; il fatto che nel paese più ottusamente cattolico al mondo si parli di psicanalisi e si apra una finestrella sugli inferni della psiche e delle relazioni interpersonali, tutto questo è di per sé un titolo di merito che conferma come Sky sia la nostra unica realtà produttiva di respiro internazionale. Per una fiction malata di provincialismo cronico come la nostra, ben venga questo pronto soccorso. E magari un giorno lontano, come scrive Zeno Cosini al suo psicanalista, si potrà provare a guarire dalla cura.

Repubblica 4.4.13
"In principio era il logos"
Scienza e fede a confronto Dialogo possibile?
Repubblica delle idee fa tappa in Puglia
Due giorni di incontri (20-21 aprile) con scienziati, filosofi e religiosi che si confronteranno su ragione e spiritualità
A chiudere un'intervista del direttore Ezio Mauro al Cardinale Camillo Ruini.
di Mauro Piccoli

qui

Repubblica 4.4.13
Il senso dell’uomo per la colpa
Perché abbiamo continuo bisogno di perdono
di Roger Scruton


Nel suo nuovo saggio, “Il volto di Dio”, Roger Scruton spiega come metafisica e religione possono ancora dare risposte alla nostra profonda condizione di solitudine

Gli esseri umani soffrono la solitudine in ogni circostanza della loro esistenza terrena. Possono sentirsi soli anche in compagnia; possono entrare in una stanza piena di persone amichevoli e scoprire che ciò aumenta il loro senso di solitudine; possono sentirsi soli perfino quando sono con un amico o con il coniuge. C’è quindi una solitudine umana che proviene da una sorgente diversa dalla mancanza di compagnia, un fatto che giustamente i mistici hanno formulato in termini metafisici. Lo iato tra l’essere autocosciente e il suo mondo non può essere superato da qualsivoglia processo naturale. Si tratta di un’inadeguatezza soprannaturale, che solo la grazia può correggere.
Sono arrivato con riluttanza a tale conclusione, e intendo completare le mie considerazioni dicendo qualcosa sulla presenza di Dio in questo mondo, e sul perché la nostra incapacità di trovarlo sia causa di un’inquietudine così profonda. Molti pensatori sono pervenuti a questa posizione, ma i tentativi di trovarle fondamento incorrono in difficoltà logiche e metafisiche. Forse non esiste un modo di affermarla che non sia viziato da imperfezioni fatali. Gli autori che vedono la solitudine esistenziale dell’uomo come la vedo io, cioè come l’aspirazione a dissolversi nella soggettività di Dio, ne hanno scritto in modo così oscuro da farmi dubitare di essere in grado di far meglio. Penso a Kierkegaard, Lévinas e Berdjaev, e anche a Hegel, la cui visione esce rinforzata proprio dai violenti attacchi che essi le hanno rivolto.
Hegel sosteneva che noi, creature autocoscienti, diventiamo ciò che essenzialmente siamo grazie a un processo di conflitto e soluzione. L’autocoscienza esiste in noi come una condizione da realizzare, e noi la acquisiamo attraverso l’Entäusserung, ossia la costruzione della pubblica arena in cui può aver luogo il dialogo tra il sé e l’altro. Il sé diventa reale grazie al riconoscimento dell’altro. Linguaggio, istituzioni, leggi sono i veicoli attraverso cui si perviene alla Selbstbestimmung, la certezza di sé, che è anche limitazione di sé e riconoscimento del confine tra il sé e l’altro. Vedermi come altro per l’altro mi situa anche in un rapporto di alterità a me stesso, e questo è il “momento”, per esprimersi come Hegel, dell’autoalienazione, in cui i soggetti diventano estranei a se stessi, vincolati da leggi esterne, impediti nella loro libertà e in rivolta contro le costrizioni esterne.
Una frattura fatale divide così il nostro mondo, la frattura tra soggetto e oggetto che si apre dentro di noi.
Riparare quella frattura significa conciliare il mio sguardo da qualche luogo con gli sguardi altrui da cui sono circondato, in modo che ciò che sono agli occhi degli altri diventi compatibile con ciò che sono per me. Secondo Hegel ciò accade oggettivamente tramite le leggi e le istituzioni e soggettivamente tramite l’arte e la religione. Sono questi i modi in cui torniamo a collegarci al mondo dal quale la nostra lotta per la libertà e la conoscenza di sé ci ha separati. Hölderlin ha in parte espresso questo modo di vedere con i suoi inni al luogo natio e al ritorno a casa — un andar via che è anche un tornare indietro. Questo suo viaggio spirituale è stato riproposto in epoca più recente, e nel contesto di una mutata geografia delle emozioni, nei Quattro Quartetti di T. S. Eliot. Per il credente il viaggio d’uscita, verso l’alienazione (espresso, nella tradizione ebraica e cristiana, dal racconto del peccato originale e della cacciata dal paradiso terrestre) richiede il viaggio opposto verso la redenzione. Sant’Agostino ha espresso questa esigenza con la famosa formula «inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te» (Confessioni I, 1). Lo stesso hanno fatto i mistici del sufismo con le loro invocazioni dell’Unità come fonte della luce concessa al murhid, la guida spirituale. Ed effettivamente molte grandi religioni sembrano avere la struttura della dialettica hegeliana:  un’innocenza originaria, in cui l’anima è unita al mondo e al suo creatore; una “caduta” o ribellione, in cui l’anima si “realizza” come li- bero individuo, ma è anche condannata all’insoddisfazione; un ritorno finale al luogo natio attraverso la disciplina e il sacrificio per riconquistare l’armonia con il cosmo (redenti dal Salvatore, liberati nel Nirvana, tra le braccia del Brahman, o semplicemente addormentati con gli antenati nel luogo dell’ultimo riposo).
La solitudine metafisica del soggetto non è una condizione storicamente passeggera, ma un universale umano. La creatura con pensieri-“io” è responsabile verso gli altri e vede se stessa da fuori, come un altro agli occhi degli altri. L’eterno tentativo di unire il sé che giudica e l’altro che è giudicato è il modo di vivere religioso: tutte le grandi religioni sono strategie per compiere questa impresa di tornare a «quel fuoco che affina /ove devi muovere in cadenza, come danzatore» (T. S. Eliot, Little Gidding). Ogni religione promette l’unificazione con il cosmo, indica in pietas e ubbidienza i mezzi con cui ottenerla, discrimina tra puro e impuro, ha tempi, luoghi e riti sacri grazie ai quali l’eterno può essere incontrato nel tempo e l’individuo può venir purificato e redento. Ogni religione dà all’individuo il conforto di una comunità stabile. Tutte queste caratteristiche della religione sono conseguenze di una imprescindibile condizione metafisica: quella di creature che devono dare conto di ciò che sono e fanno e che cercano di meritare e ricevere perdono e approvazione.
La religione ha perciò inizio nell’esperienza della comunità e nel desiderio di riconciliarci con coloro che ci giudicano, perché la loro benevolenza ci è necessaria. Colpa, vergogna e rimorso sono aspetti necessari della condizione umana. Sono il residuo dei nostri errori e il segno che siamo liberi di commetterli. Ma ci guidano anche a una più alta forma di riconciliazione; una riconciliazione in cui la nostra colpa è pienamente riconosciuta e perdonata. Per l’ateo questa aspirazione dev’essere negata o al limite rivolta in direzione dello stoicismo — la direzione di chi accetta il destino, conseguendo così un altro tipo di unità tra sé e il mondo. Per il credente, invece, la redenzione è un’emancipazione dalle cose di questo mondo e un’identificazione con un trascendente IO SONO. Per chi ha fede in Dio, questa è la consolazione delle afflizioni umane. Le sofferenze derivano dal carico di responsabilità che ci assumiamo come membri della nostra comunità. La colpa è il prezzo della nostra soggettività, e la soggettività di Dio è la sua cura.
Traduzione Stefano Galli © 2012 © 2013 Vita e Pensiero
Il volto di Dio di Roger Scruton (Vita e pensiero traduzione di Stefano Galli pagg. 200 euro 18)