sabato 6 aprile 2013

Corriere 6.4.13
Thorne elogia Boldrini: porterà la trasparenza


ROMA — Laura Boldrini riceve a Montecitorio David Thorne e, alla fine dell'incontro, l'ambasciatore americano le fa i complimenti: «Porterà un vento di cambiamento e trasparenza nell'istituzione che presiede». Spiega la presidente della Camera: «Siamo stati d'accordo nel ritenere che chi rappresenta le istituzioni deve assumersi la responsabilità di rispondere a questo bisogno di cambiamento». Nel faccia a faccia durato un'ora, senza interpreti, «con una donna — ha commentato Thorne — dotata di charme e serietà», si è parlato soprattutto delle iniziative da prendere per uscire dalla crisi. Come ha spiegato più tardi la stessa Boldrini su Facebook: «L'ambasciatore degli Stati Uniti confida sulla capacità dell'Italia di superare il difficile momento che sta vivendo il nostro Paese». Ed entrambi hanno convenuto sull'importanza del ruolo svolto dai social media «per stimolare la partecipazione dei cittadini e garantire maggiore trasparenza».

l’Unità 6.4.13
Andrea Orlando
«Per allargare il perimetro del Pd occorre recuperare una dimensione popolare
Non servono le tradizionali ricette socialdemocratiche ma il modello della sinistra liberista ha fallito»
«Il rinnovamento non può fermarsi ai gruppi dirigenti»
Quando sosteniamo la proposta Bersani non lo facciamo per affetto ma perché è l’unica in campo
intervista di Maria Zegarelli


Andrea Orlando, Vendola apre ad un rimescolamento con il Pd. Sarebbe un arricchimento o un ostacolo a future alleanze con il centro?
Il responsabile Giustizia Pd, sorride. «Solo quando riguarda il centrosinistra ci si arrovella in questo modo», risponde.
Be’, Monti in campagna elettorale non era tenero con Vendola...
«Non penso che un allargamento rappresenti un ostacolo. Non ci si può arroccare intorno a categorie politologiche. Grillo è stato votato da persone di destra, di centro e di sinistra a dimostrazione del fatto che siamo in una nuova fase. La sinistra credo abbia bisogno, se vuole allargare il suo perimetro, di recuperare una dimensione popolare, partendo da un presupposto: le tradizionali ricette socialdemocratiche non sono più sufficienti a interpretare l’attuale questione sociale, ma allo stesso tempo dobbiamo riconoscere che è fallito il modello della sinistra liberista. C’è bisogno di un progetto diverso, iniziando ad allargare gli orizzonti, non basta rinnovare i gruppi dirigenti, è necessario rinnovare la cultura politica. Non mi spaventa un nuovo contenitore in grado di accogliere i contributi del centro e di Sel, a patto che si superino quelle resistenze, di carattere minoritario, ad una cultura di governo».
Cambiamo argomento, Renzi dice di dar voce al 95% degli italiani quando sostiene che si sta perdendo tempo e bisogna fare in fretta. Le sembra una frase priva di senno?
«Non ho voglia di alimentare polemiche che rischiano produrre scontri interni e di farci apparire lontani dalla drammatica situazione del Paese ma ..».
Ma?
«Il problema è che noi, cioè chi viene eletto e chi ha responsabilità politiche, a differenza del 95% degli italiani, sappiamo perché si è arrivati a questo punto e abbiamo il dovere di spiegarne i motivi e trovare una soluzione. Come hanno dimostrato queste elezioni ci sono regole che non funzionano più, a cominciare dalla legge elettorale perché non esiste più il bipolarismo ma tre blocchi distinti e distanti che hanno reso ancora
più evidente l’esigenza di riforme istituzionali. Avremmo potuto percorrere strade più brevi, accedendo allo scambio che ci proponeva il Pdl, Quirinale contro governo, ma sarebbero state oscene. Quando abbiamo sostenuto che l’unica proposta in campo era quella di Bersani non lo abbiamo fatto per affetto verso il segretario ma perché convinti che, pur essendo una strada molto complicata, era l’unica percorribile. Sarebbe stato veloce anche chiedere le elezioni subito dopo il 24 febbraio senza esplorare questa vita oppure accedere alla proposta delle larghe intese, dubito che su entrambe le ipotesi avremmo avuto il 95% di consensi».
Ma il tentativo è fallito. In questo ha ragione Renzi?
«Il senso della proposta che abbiamo fatto è stato giusto e i risultati si sono visti: dentro il M5S si è aperta una dialettica che prima non c’era, anche se gli esiti non sono stati quelli auspicati. Mi chiedo: se avessimo detto preventivamente “mai con voi”, avremmo dato ascolto al messaggio arrivato da tutti quei milioni di italiani che ci chiedevano un segnale forte di cambiamento? Da un leader politico, quale è Matteo, mi aspetto che arrivino non critiche da cronista, ma proposte e idee su come superare una fase delicata come quella che stiamo attraversando, a partire dall’elezione del Presidente della Repubblica».
Una volta eletto il presidente della Repubblica cosa succede? Riprende quota il governo Bersani o si passa al piano B? «Non c’è un automatismo tra l’elezione del Presidente della Repubblica e il governo, anche se un Capo dello Stato nel pieno dei suoi poteri è in grado di smussare più angoli. Di sicuro può generarsi un clima diverso in grado di creare le condizioni per cui ciò che non è stato possibile fino ad oggi può esserlo domani, ma nulla è scontato perché credo che alcuni capisaldi debbano rimanere fermi, come il nostro no ad un governo di larghe intese».

Corriere 6.4.13
La riunione di sinistra e Sel in un correntone del ministro
Torna la profezia dalemiana
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non accade tanto spesso, però stavolta le premesse sono buone: la profezia di Massimo D'Alema potrebbe avverarsi. «I giovani turchi — spiegava a un amico l'ex premier — sono pronti ad aiutare Renzi a dare la scalata al partito perché in cambio sperano di formare un correntone del 40 per cento».
È passato un mesetto da quando D'Alema ha pronunciato questa frase. Da allora pare che anche l'ex presidente del Consiglio abbia cambiato idea sul conto del sindaco di Firenze e che tutto sommato non ritenga poi nocivo per il Pd il fatto che nel partito si muovano le acque, visto che nemmeno lui è soddisfatto della gestione Bersani: colpa delle troppe «incertezze» nelle alleanze, della «rincorsa» ai grillini e della mancanza di una salda direzione politica.
Ma tornando alla profezia dalemiana: è chiaro che un'impresa del genere — ossia la nascita di un correntone — per trattare con Renzi ad armi pari quando verrà il suo turno, necessita di un leader da contrapporre al sindaco di Firenze (magari anche alle primarie) per poi meglio trattare. L'altro pomeriggio non era quindi per niente casuale l'incontro tra un gruppo di giovani turchi alla Camera: Andrea Orlando, Matteo Orfini, e altri. Con loro Gianni Cuperlo. Oggetto della riunione l'avvento del ministro Barca che ha scritto un corposo documento sul ruolo dei partiti nel futuro e che non nasconde la tentazione di muovere i suoi primi passi in politica.
«Lui — è la teoria di Orfini — può essere la cerniera tra noi e Sel». Sì, perché come ha rivelato al Manifesto, Orfini ha un piano ben preciso in mente: aprire le porte del Pd a Sel per ingrossare le fila della componente di sinistra. Anche così, del resto, si costruisce un correntone. L'idea non è dispiaciuta a Nichi Vendola, che dalle colonne dell'Huffington Post, propone: «Mescoliamoci». Obiettivo a cui Barca potrebbe contribuire, perché come spiega lo stesso ministro agli amici: «Io mi muovo tra Pd e Sel».
Del resto, un profondo conoscitore delle cose di sinistra, l'ex deputato Pd Peppino Caldarola, è convinto che sarebbe cosa saggia e giusta se «di fronte all'eventuale avanzata di Renzi, la sinistra si accingesse, per esempio guidata da Barca, a fare la sinistra interna». Certo, a questa prospettiva se ne aggiungono altre due. La prima, evocata dallo stesso Caldarola, è quella della scissione. In questo caso il ministro per la Coesione territoriale potrebbe diventare il leader di un grande partito di sinistra composto da Sel, dai fuoriusciti del Pd e da altri mondi che gravitano in quell'area politica. La seconda prospettiva è di segno opposto. E consisterebbe in un accordo tra Renzi e Barca per assegnare al primo la candidatura a premier del centrosinistra e al secondo la segreteria del partito. Ma il sindaco di Firenze quando qualcuno gli chiede di questa ipotesi che gira da qualche tempo, risponde secco: «Tutte stupidaggini».
Comunque, questi movimenti — e questi discorsi — lasciano chiaramente intendere che la fase del «dopo Bersani» di fatto si è già aperta. D'altra parte, è stato proprio il leader del Partito democratico a dire che la «ruota gira» e che non tutti possono rimanere all'infinito al loro posto. Insomma, i sintomi dell'avvio di un processo nuovo nel Pd ci sono tutti. Lo dimostra anche il movimentismo dei renziani. Nella sola giornata di ieri i parlamentari che fanno riferimento al sindaco di Firenze hanno lanciato due iniziative. La prima, in mattinata, di conserva con i «giovani turchi» e i lettiani. Tanto per far capire al segretario che la maggioranza interna al partito sta cambiando. L'iniziativa in questione consiste in una lettera al capogruppo della Camera e allo stesso Bersani per chiedere, contrariamente alla linea ufficiale del partito, che vengano formate le commissioni, così come chiedono anche i grillini e Sel. Un modo per avvertire il leader che non potrà usare quegli organismi parlamentari — e le loro presidenze — per trattare con le altre forze politiche e ottenere il via libera per il suo governo di minoranza. Tra i firmatari, i renziani Rughetti e Nardella e il «turco» Orfini.
La seconda iniziativa l'ha presa un altro renziano, il vice presidente della Camera Roberto Giachetti: ha convocato una conferenza per annunciare ai giornalisti che basta un terzo dei deputati per istituire il 16 aprile una commissione speciale per la riforma elettorale e costringere i partiti a confrontarsi con questo tema. Un'ennesima bomba sulla via di un Bersani, che i suoi detrattori interni dipingono «più malleabile» nei confronti di Berlusconi. Impressione ricavata dall'aver visto le lunghe — e frequenti — passeggiate di Verdini e Migliavacca che camminano a braccetto su e giù per via del Corso, confabulando tra di loro. Ma Bersani non ci sta a farsi dipingere in questo modo e a essere quasi archiviato: «Vogliono delegittimarmi e questo è inammissibile, non si fa battaglia politica così».

l’Unità 6.4.13
Barca prepara un manifesto «Voglio impegnarmi nel Pd»
di Caterina Lupi


Sulle sue intenzioni è ben attento a non sembrare «arrogante». Ma certo Fabrizio Barca vede il Partito democratico nel suo orizzonte ed è lì che, come dice lui, vuole portare la sua esperienza. «In questo momento non sono iscritto a nessun partito. Quello che può fare uno come me è di mettere sul tavolo un ragionamento. Così ho sempre lavorato». E per questo il ministro alla Coesione territoriale conferma la prossima pubblicazione di un «manifesto politico». «Mi auguro di riuscire a mettere insieme e a giustificare le affermazioni che ho fatto in questi sedici mesi in cui ho detto che serve un partito».
Al momento, Barca parla di un impegno politico di qualche anno. «La politica come è essenziale al buongoverno è fatta di periodi della propria vita, due-tre anni, in cui decidi: sapete cosa c’è, voglio lavorare in un partito. Ho imparato delle cose e adesso le porto in un’associazione libera che sono i partiti, perché lì penso che possa essere più utile che nell’esercizio dell’azione di gover-
no», dice l’economista intervistato dalla tv del Fatto Quotidiano sulle voci riguardo una sua candidatura alla segreteria del Pd, sul quale ha un’idea precisa: «È l’unico partito del cambiamento che c’è in Italia, il partito cui una persona di sinistra come me guarda».
Sarebbe però ben arrogante che una persona che in questo momento non è iscritta a nessun partito, come lui, pretendesse di ambire ad avere una funzione, ci tiene a precisare. Però l’esperienza maturata «mi consegna alcune riflessioni. Non ci può essere buongoverno di questo Paese senza la ricostruzione di un partito che sia un luogo che incalzi lo Stato, che torni a rappresentare la società in un mondo diversificato», sostiene. E di fronte a chi gli chiede se farà il curatore fallimentare del Partito democratico, taglia corto: «I curatori fallimentari servono quando ci sono aziende fallite, io vedo dei partiti e dei non partiti in circolazione. Il Pd è un partito».
Ed ecco, per Barca «un partito deve mobilitare persone che esprimono soluzioni, deve incutere la voglia di venire a dire “il mio bisogno è questo e queste sono le mie soluzioni”». Perché è sbagliata l’idea che la conoscenza sia «concentrata in pochissime teste ed è altrettanto sbagliata l’illusione che tutti possono votare attraverso internet, che le decisioni pubbliche sono così semplici che possiamo dire sì o no».
Quanto a Pier Luigi Bersani, il ministro assicura di avere «grande ammirazione per quello che ha fatto dopo le elezioni». Il tentativo di formare il governo «non era solo un atto dovuto», ha spiegato, «credo abbia attivato un canale importantissimo tra le forze politiche che sta dando effetti. Di là dell’esito che non ha condotto alla formazione di un governo, ha condotto a un confronto sulle cose in parlamento».
Ma come si porrà rispetto alle varie anime del partito? «Credo che dal pantano in cui sta il nostro Paese, un pantano prima di tutto culturale, in cui il Paese sembra non essere più convinto di non volercela fare, da questo contesto si esce si dice convinto Barca solo se funziona un’operazione di squadra. Abbiamo avuto troppi Orazi e Curiazi in questo Paese».

il Fatto 6.4.13
Tra Bersani e Renzi
“Ecco il Pd che vorrei”: il manifesto di Barca per il nuovo partito
Uscirà prima del 18
Il passo verso la guida del partito annunciato alla web tv del Fatto
di Patrizia De Rubertis


Mio padre non sarebbe stato d’accordo sulle scelte che sto per fare. Ha sempre ritenuto che io dovessi lavorare per le istituzioni. Ma, arrivati a questo punto, sarò costretto a tirare fuori molto presto quelle quattro cose che ho ritenuto di scrivere”. Così Fabrizio Barca, ministro della Coesione Territoriale, durante la diretta streaming negli studi della webtv de il  fattoquotidiano.it   (con Peter Gomez, Antonello Caporale e Lorenzo Galeazzi) fa un passo avanti verso la guida del Pd. Per la prima volta dopo settimane di trattative mancate all’interno del Pd e di bordate da parte di Matteo Renzi, Barca dice la sua.
“Il Pd - afferma Barca (che non è mai stato iscritto) - è quello cui corre la mente di una persona di sinistra come me quando proietta la sua idea di cosa deve essere un partito. Adesso bisogna capire quale partito serve e se abbiamo bisogno di un confronto”. Un ‘adesso’ che sarà certamente prima di giovedì 18 aprile, ovvero il giorno in cui inizieranno le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica. “Durante la commemorazione dedicata a mio padre Luciano (partigiano e dirigente del Pci scomparso lo scorso novembre) non aprirò bocca - spiega infatti Barca - Sono dispiaciuto per l’accostamento che è stato fatto tra i due eventi. Lì vorrò solo ricordare mio padre e spiegare cosa significhi per un giovane fare politica”.
LIMPIDISSIMA l’idea che ne ha il ministro della Coesione Territoriale e che riassumerà nelle memorie di prossima pubblicazione: “Il Pd è l’unico partito del cambiamento che c’è in Italia, l’unico a cui una persona di sinistra come me guarda. Io però - prosegue - non farò il suo curatore fallimentare, perché non vedo aziende fallite. Ma un partito che deve mobilitare persone che esprimono soluzioni e non bisogni”.
Un’affermazione che si trasforma in una bordata al Movimento 5 stelle quando Barca sottolinea che “è sbagliata l’idea che la conoscenza sia concentrata in pochissime teste ed è altrettanto sbagliata l’illusione che tutti possono votare attraverso Internet”, perché le decisioni pubbliche non possono ridotte a semplice ‘sì’ o ‘no’. Ma a questa democrazia diretta di stampa grillina il Ministro trova un’altra pecca: l’impossibilità di “potersi guardare in faccia e annusarsi con gli altri politici per risolvere questioni complesse. Un canale importante di annusamento - dice - delle forze che non si vede e che ha condotto invece molto bene Pier Luigi Bersani in questi giorni”. Ma all’elogio del segretario del Pd, si affianca un’attenta analisi: “Se servono i partiti per un buon governo, bisogna chiedersi come finanziarli”. E, dal momento che il finanziamento pubblico non è tra te soluzioni di Barca, spunta un’indicazione: “Serve tornare a una forte alimentazione finanziaria degli iscritti”.
Ricominciare, insomma, da dove aveva finito il vecchio partito comunista, anche perché Barca vede “troppe persone che arrivano dalla borghesia urbana e troppe poche dalla classe operaia. Perché c’è un elettorato da riconquistare, così come è riuscito a fare Beppe Grillo. E poi bisogna rivoluzionare il Pd che “deve uscire dal pantano e funzionare come una squadra lasciandosi alle spalle i troppi scontri tra Orazi e Curiazi dal momento che è diviso tra renziani e vecchia guardia”.
Ma la riflessione sul futuro del Pd del ministro Barca passa anche per la richiesta di “una sinistra moderna e non di dirigenti e quadri a vita”. Tanto che Barca si definisce “un maratoneta e non un centrometrista”. Proprio il fattore tempo però è fondamentale per “salire” in campo (la battuta è sua), sostituire Bersani alla guida del Pd e confrontarsi con Renzi, che al partito non è interessato, ma vuole la premiership.

Corriere 6.4.13
Pd, guerra renziani-Unità E Barca lancia la sua sfida
Il progetto: ricostruire il partito, basta con Orazi e Curiazi
di Monica Guerzoni

ROMA — Matteo Renzi e Fabrizio Barca. Il sindaco e il ministro. Sono loro il futuro prossimo del Pd e la giornata di ieri lo ha confermato, prefigurando un duello (o un ticket?) che sta ridisegnando la geografia interna del partito. Il responsabile della Coesione territoriale è uscito allo scoperto confermando la voglia di impegnarsi per rilanciare il centrosinistra. «Il Pd è l'unico partito del cambiamento che c'è in Italia, il partito a cui una persona di sinistra come me guarda», ha detto alla tv del Fatto quotidiano. E se non è una discesa in campo, pochissimo ci manca.
La stima che Pier Luigi Bersani nutre per Barca è nota, ma il tempismo della sua uscita non è piaciuto al Nazareno. Nello staff del leader sottolineano come il ministro non sia iscritto al Pd e dunque, per ora, non possa candidarsi né alla leadership, né alla premiership: «Se poi preferisce fare il papa straniero...».
Il segretario lavora all'incontro con Berlusconi in vista dell'elezione del nuovo capo dello Stato e dunque del governo, un faccia a faccia strategico che potrebbe tenersi venerdì. Ma intanto la battaglia congressuale è iniziata. Matteo Orfini, intervistato dal Manifesto, ha proposto esplicitamente la riunificazione della sinistra e molti ritengono che, se mai la Sel di Vendola dovesse traslocare armi e bagagli dentro il Pd, Barca sarebbe il candidato naturale alla guida del nuovo partito. «Non ci può essere un buon governo senza la ricostruzione di un partito che incalzi lo Stato e ricompatti la società» è il progetto del ministro, che sta lavorando a un suo manifesto politico: «È ora di ricostruire un partito che metta fine alla guerra tra Orazi e Curiazi». Basta con la spaccatura fra «renziani e vecchia guardia», serve «un'operazione di squadra».
Dopo l'intervista di Renzi al Corriere i democratici hanno i nervi a fior di pelle, la sintesi che L'Unità ne ha offerto in prima pagina ha innescato un nuovo casus belli. «No di Renzi al governo Bersani» strillava ieri il quotidiano fondato da Gramsci, un titolo che ha irritato non poco il primo cittadino di Firenze. «Messa così sembra che boicotto il segretario», avrebbe detto il sindaco ai suoi.
L'onorevole Matteo Richetti ha chiesto le dimissioni del direttore, Claudio Sardo e, a stretto giro, diversi parlamentari renziani, tra cui Ernesto Carbone, sono intervenuti per rafforzare il concetto. «Ricomincia la vergognosa propaganda dell'Unità e di Youdem contro Matteo Renzi — attacca Roberto Reggi —. Matteo non ha parlato di governissimo, ma di un patto costituente di 6 mesi da cui far nascere la Terza Repubblica».
Finché Sardo ha telefonato a Richetti per un chiarimento, ha lanciato un editoriale online e, a sera, mandato in stampa un commento in edicola oggi. «Magari la mia sintesi è stata brutale — spiega il direttore — ma ho detto la verità. Non avevo alcuna intenzione polemica. Ritengo però un infortunio l'idea che, se non condividi un titolo, chiedi le dimissioni del direttore». Nella «cordiale telefonata» Richetti si è scusato con Sardo per i toni, ma i bersaniani chiamano in causa la libertà di stampa e il portavoce del leader, Stefano Di Traglia, scolpisce un analogo concetto su Twitter: «Chiedere le dimissioni di un direttore perché non si concorda con un titolo è un atto grave. Sì a critiche, no a censure».
Richetti ha smentito il rischio di una scissione della componente renziana e lo stesso Matteo, che pure scalpita per andare al voto, rassicura: «Uscire e farsi un partito non ha senso, perché ce ne sono già troppi». Parole che però non hanno placato gli animi dei bersaniani. A preoccupare la sinistra, oltre ai sondaggi che premiano l'ex sfidante delle primarie con il 36 per cento, è anche l'intesa tra il sindaco e Veltroni, che qualche giorno fa si sono visti riservatamente.

Repubblica 6.4.13
Matteo e Fabrizio, la strana coppia che punta a dividersi governo e partito
Ma il segretario spera ancora di arrivare a Palazzo Chigi
di Giovanna Casadio


ROMA — «In campo? Veramente io non userei mai quest’espressione, comunque...». La corsa alla segreteria del Pd sembra già partita. E Fabrizio Barca anticipa i tempi: «Non sono interessato a fare il premier ma sono interessato al partito». Ammissione uguale e contraria a quella di Matteo Renzi. «Non sono interessato a fare il segretario del Pd ma il premier». A bordo campo - mentre Bersani si dedica a tessere l’accordo per il Quirinale - ora sono in due a scaldare i muscoli. La strana coppia, diversi eppure complementari.
Barca è l’anomalo “tecnico” del governo Monti, perché la politica l’ha respirata e appresa dal padre, Luciano, uno dei leader del Pci. Di Bersani è amico personale, tanto che quando fu nominato ministro della Coesione territoriale, nel novembre del 2011, a complimentarsi con lui per primi furono proprio il segretario democratico e il presidente Napolitano. Eppure, ora che il ministro ed economista ha lanciato una Opa sul partito, il sindaco lo osserva a distanza con molto interesse e una punta di preoccupazione. Ma un “collante” di questa strana coppia c’è: il superamento della fase attuale del Pd. L’uno per rilanciare partito («io non mi senti portato per la guida del governo»), l’altro per guidare l’esecutivo.
Una strana coppia che sembra mirare a due obiettivi diversi, con visioni divaricate su molti punti . Renzi per cominciare, vuole rottamare l’apparato del Pd, convinto com’è che i partiti della Terza Repubblica debbano essere “leggeri” e rinunciare
al finanziamento pubblico. Barca sul finanziamento pubblico fa un ragionamento che - annuncia - spiegherà bene nella «memoria politica» quasi pronta. Prima del 18 aprile, commemorazione della scomparsa del padre, dirà esattamente cosa pensa anche dei soldi pubblici ai partiti: «Prima di dire da chi i finanziamenti devono arrivare, occorre spiegare per fare cosa», precisa. I bersaniani accolgono bene l’annuncio di Barca. Il terreno della novità finora è stato occupato solo da Renzi, e nel partito è scontro aperto sulla melina per il governo, di cui il paese ha necessità assoluta. Il rischio di una scissione del Pd è il fantasma evocato da tutti. Mentre con Barca in campo, il gioco cambia. «Barca in politica con il Pd è un fatto molto positivo»: fa sapere il segretario.
Bisogna però aspettare le mosse di Bersani. E i riposizionamenti in corso. Il leader del Pd, prima di partire per Piacenza per il fine settimana, ieri era più ottimista. Innanzitutto, sull’«ampia condivisione» per il successore di Napolitano. L’incontro con Monti e l’apertura di Berlusconi, che ha anche stoppato il ritorno alle urne, lasciano ben sperare. «Facciamo un passo avanti alla volta»: afferma Bersani. Alla fine della strada, il segretario vede sempre Palazzo Chigi. «Il mio incarico non è svanito », avverte. Gli emiliani, cioè i fedelissimi bersaniani Migliavacca e Errani, sono convinti che, dopo l’elezione del presidente della Repubblica, si ripartirà dalle cose più semplici. E la più semplice di tutte è affidare l’incarico al leader della coalizione che è arrivata prima alla Camera e anche al Senato, pur non avendo qui i numeri sufficienti. «Io ci sono», è il mantra di Bersani. E anche se poi tutto dovesse precipitare, tenterà la “ricandidatura”.
Ma la strategia attendista del leader Pd, aspramente criticata da Renzi, è presa di mira anche in un documento firmato da una trentina di deputati democratici. Sono renziani, “giovani turchi”, ma un po’ di tutte le correnti. Chiedono di far partire subito le Commissioni parlamentari, e di correggere quel “no” iniziale detto dal capogruppo Roberto Speranza ricordando la prassi parlamentare. «Non importa se il governo non c’è, non possiamo aspettare: i bizantinismi non vanno più bene, va fatta una correzione», insiste Matteo Orfini, uno dei firmatari. La frase politicamente efficace dell’appello - sottolinea il renziano Dario Nardella - è là dove si dice: «È evidente che un governo è necessario e dovrà farsi il prima possibile». I trenta - da Civati a Ginefra, da Rughetti a Raciti - si spalleggiavano in Transatlantico, ribadendo: «Un segnale va dato, e subito». Fuori, e dentro il Pd.

l’Unità 6.4.13
Da Micromega appello a Pd e M5S: società civile al Colle


La rivista Micromega ha lanciato una raccolta di firme-appello al Pd e al Movimento 5 Stelle, perché trovino un accordo per mandare sul Colle una personalità che sia «garante della Costituzione e fuori dalle logiche di spartizione dei partiti». Si legge nel testo dell’appello: «Bersani e Grillo, un Presidente fuori dalla Casta e dalle nomenklature dei partiti dipende da voi. Il 18 aprile avrete largamente i numeri per portare al Quirinale una personalità della società civile, che sia custode intransigente della Costituzione repubblicana e dei suoi valori di giustizia e libertà. Che traghetti l’Italia fuori dalla morta gora del berlusconismo e dell’inciucio. E aiuti il Paese a rinascere dalle macerie in cui il “quasi ventennio” l’ha ridotto. Bersani e Grillo, parlamentari del Pd, di Sel e del M5S, non tradite il voto degli italiani».
Avviata la raccolta delle sottoscrizioni in rete, l’appello ha già raccolto quasi tremila firme, accompagnate in molti casi dai commenti dei lettori, che si esprimono anche su vari nomi. Ricorrenti, tra le «candidature» del web, i nomi di Barbara Spinelli, Gustavo Zagrebelsky, Milena Gabanelli, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Emma Bonino. Tra i più vari i commenti: «Riusciremo a convincerli che la situazione richiede cambiamenti fuori dalle regole partitiche» scrive Francesco Vargiu, «La nostra Costituzione è stata più volte vilipesa ed offesa e noi, italiani di peso, offesi con essa», posta Grazia Pavanello; «Il presidente della Repubblica sia superpartes, niente politica, finanza, professoroni, e finti salvatori della patria», scrive Pompeo Micheletti. «Dopo vent’anni persi tra inciuci e bunga bunga è ora di ripartire avendo come bussola la nostra costituzione che non piace agli autoritari perché non gli permette l’arbitrio, è il commento di Adriano Miazzi».

il Fatto 6.4.13
Due strade nella Cgil: la Camusso guarda a Renzi

E all’appello di Landini rispondono solo i 5Stelle
di Salvatore Cannavò


Nella burrasca politica post-elettorale può succedere che la Cgil di Susanna Camusso si riappacifichi con Matteo Renzi – definito ai tempi delle primarie un “problema” – mentre un’altra parte della Cgil, se non apre al Movimento Cinque Stelle, per lo meno si pone il problema del voto grillino. Dopo il torpore che ha colpito il sindacato nei giorni successivi alle elezioni, qualcosa ha cominciato a muoversi negli ultimi giorni. Cgil, Cisl e Uil manifesteranno in piazza Montecitorio, il prossimo 16 aprile, per chiedere il rifinanziamento della cassa integrazione. Poi i tre sindacati si troveranno ancora uniti per il 1 maggio che quest'anno si terrà a Perugia. Ma l'appuntamento clou potrebbe essere quello reso noto ieri da Maurizio Landini, segretario della Fiom, che ha indetto un manifestazione nazionale a Roma per il prossimo 18 maggio con l'obiettivo, ancora non ufficializzato, di “riconquistare” piazza San Giovanni. Crisi industriale, blocco dei licenziamenti, democrazia nei luoghi di lavoro sono i temi annuncia-ti ma, tenendosi in un sabato pomeriggio, la piazza assumerà un significato più ampio. Soprattutto, dopo l'asse reso visibile ieri, al convegno per ricordare Claudio Sabattini, tra la segretaria generale dello Spi, Carla Cantone e Maurizio Landini. “Dire che saremo solo presenti alla vostra manifestazione, mi sembra freddo” dice Cantone, “in realtà ci mescoleremo a voi”. La Cgil ha dei riti inossidabili e un impegno così importante preso a un convegno dedicato a un dirigente della Cgil che ai suoi tempi “fece fuori” dalla Fiom proprio Susanna Camusso, ha qualcosa di simbolico. Soprattutto se il segretario della Cgil non figura tra gli invitati. Ma al di là degli scontri interni al sindacato quella che sembra essere la nuova sinistra si è ritrovata d'accordo sull'analisi politica. “Se non vogliamo essere travolti – ha detto ancora Carla Cantone – dobbiamo puntare al cambiamento e al rinnovamento perché il voto parla anche a noi”. “Sarebbe una follia” se non avessimo l'atteggiamento giusto. Il sommovimento grillino deve far interrogare il sindacato, è il messaggio. E non a caso, nel corso del dibattito, il tema ricorrente sarà quello della democrazia, nei luoghi di lavoro e a tutti i livelli.
Nel rapporto con Grillo, poi, si inserisce un altro elemento. La lettera inviata lo scorso 22 marzo da Maurizio Landini a tutti i gruppi parlamentari, per un incontro sui temi sociali, ha finora avuto una sola risposta: quella di Roberta Lombardi, capogruppo alla Camera del M5S. Niente da Pd, né da Sel né tanto meno da Pdl e Scelta Civica. E un incontro analogo potrebbe svolgersi, territorialmente, a Pomigliano. Altra simbologia.
C'È PERÒ un altro abbraccio che fa discutere la Cgil, quello del 3 aprile scorso tra la stessa Camusso e Matteo Renzi in occasione del 120° anniversario della Camera del Lavoro di Firenze. “Perché festeggiare il 120° anniversario e non il 121°?” spiega sornione un dirigente della Cgil presente al convegno dove l'impatto del convegno fiorentino non è sfuggito a nessuno. La Cgil di Firenze ha avuto diversi scontri con Renzi ma ora sembra prevalere una certa collaborazione di fronte alla crisi. I contrasti avuti sui trasporti o sul Maggio fiorentino oggi sembrano soppiantati dalla necessità “di non perdere tempo” di fronte alle crisi aziendali. Ma i segnali di dialogo sono più ampi. Una parte del sindacato non vuole elezioni anticipate e se nei giorni immediatamente successivi alle elezioni Camusso dichiarava che “ci vuole un governo del cambiamento”, facendo proprio lo slogan di Bersani, nell'intervista rilasciata ieri al Sole 24 Ore di questa impostazione non c'è più traccia. Anzi, “rompendo un tabù”, come scrive il quotidiano confindustriale, la Cgil apre alla riduzione dell'Irap, storico cavallo di battaglia berlusconiano. Un atteggiamento speculare a quello che Renzi sta assumendo nel dibattito politico.

il Fatto 6.4.13
De Filippi battezza Renzi: “È un vero comunicatore”
Nell’arena di “Amici” Maria ha toni messianici e rivolge critiche agli altri del Pd.
“Qui c’è un pubblico diverso, è stupido ignorarlo”
di Domenico Naso


È una Maria De Filippi quasi messianica, quella che presenta il serale di Amici, al centro dello studio che ospiterà le esibizioni dei ragazzi. Al suo fianco, su altrettanti sgabelli, i due pezzi forti di questa edizione: Emma Marrone, che all'inizio sembra annoiarsi molto, e Miguel Bosé, che indossa un pantalone scozzese da denuncia penale e tutto il resto della squadra di giurati e professori. Lei, Nostra Signora della Televisione, comincia a snocciolare dati importanti sulla raccolta pubblicitaria, ringraziando Publitalia (“In un periodo di crisi come questo, sono loro a dettare legge”) per aver permesso al programma di tornare anche in questa stagione televisiva. Anche Amici, a sentire Maria, ha dovuto attuare la sua spending review: via tre mesi di strisce quotidiane, via l'orchestra di 42 elementi, via la finale all'Arena di Verona, che da sola costava 750 mila euro. Se austerity deve essere, che austerity sia.
A QUALCUNO, però, la De Filippi non ha voluto e dovuto rinunciare, l'ospite tanto atteso che aprirà la puntata di stasera. È Matteo Renzi, fortemente voluto dalla conduttrice che lo apprezza, e molto, anche per le belle parole che ha speso per il pubblico che guarda i suoi programmi: “Non è un caso se ho scelto lui. Trovo che abbia un linguaggio in grado di comunicare con le persone”. Ed è uno, soprattutto, che con la sua partecipazione al talent show di Canale 5 ha fatto arrabbiare molti, a sinistra. Maria non dimentica, e apprezza: “È una persona che non vive con i paletti intorno, come parte del gruppo politico a cui appartiene. Ha ragione quando dichiara al Corriere della Sera che gli italiani che guardano Amici non sono più sfigati degli italiani che guardano Ballarò”. Le critiche dell'intellighenzia di sinistra la fanno arrabbiare molto e si vede. Ma Maria De Filippi conosce (e convince) i giovani molto più di Pier Luigi Bersani: “È stupido da parte di alcuni non prendere queste opportunità perché consentono di parlare a un pubblico diverso. Quando da sinistra criticano Renzi non capiscono che in quel momento lui parla a un pubblico pregiato. Finché va avanti la convinzione che prima i ragazzini guardano Amici e dai 18 ai 30 anni si spostano su Ballarò, perderanno gran parte di quell'elettorato. Sono folli e vanno avanti nella loro follia”. Nessuno, in tv, può vantare una maggiore penetrazione nel pubblico giovanile e lei è sempre pronta a ricordarlo, snocciolando dati mostruosi sugli accessi al suo sito web: “Il sito mariadefilippi.it   ha raggiunto 23 milioni di pagine viste nel mese di marzo, con 4,7 milioni di video visti in streaming”. Maria sfonda anche sullo strumento preferito dai più giovani, insomma. Anche se in tv si difende più che bene. I suoi programmi, dal trash di Italia's Got Talent a Uomini e Donne, passando per C'è posta per te e lo stesso Amici, hanno una costanza di rendimento all'Auditel che fa paura (soprattutto ai concorrenti diretti ). E adesso che pare aver finalmente capito di essere diventata, piaccia o meno, un opinion leader per i giovani italiani, Maria De Filippi ha deciso di utilizzare questo potenziale.
L'OPERAZIONE “Lasciate che i giovani vengano a me” non si limita solo a Matteo Renzi: la settimana prossima sarà ospite in studio don Luigi Ciotti e stasera vedremo Fabri Fibra duettare con l'allievo-rapper More-no. Fibra è forse il fenomeno più importante nella cultura giovanile degli ultimi anni e lei è riuscita a farlo cantare in televisione, nel tempio del nazionalpopolare. E il resto del pacchetto De Filippi, che fa arrabbiare così tanto critici e intellettuali, a cominciare dai tronisti di Uomini e Donne, che fine farà se Maria deciderà di alzare l'asticella della qualità televisiva? Ai giornalisti che la incalzano, confessa che sì, qualche dubbio sull'opportunità di riproporre corteggiatori e corteggiati in futuro c'è, eccome. Intanto si prepara a incollare al televisore milioni di teenager. Gli stessi che non sono andati a votare alle primarie di quel Partito democratico che la critica ferocemente. Loro li ignorano. Lei no. Ed è così padrona del proprio destino che, nonostante le sue simpatie politiche non certo di sinistra, ha detto chiaro e tondo che per adesso non è prevista alcuna presenza di centrodestra per bilanciare il sindaco di Firenze. Vorrebbe in studio Pier Silvio Berlusconi, però: “Anche lui sa parlare alla gente e ai giovani, come Renzi”. E il padre non lo invita? “No”. Punto. Perché Maria può.

Corriere 6.4.13
«Basta complessi, dialogo con Berlusconi»
Franceschini: esecutivo di transizione che dia ossigeno e faccia le riforme Scissione? Ognuno si morda la lingua
intervista di Aldo Cazzullo


«Siamo entrati in una stagione del tutto nuova, e continuiamo a ragionare con gli schemi di una stagione finita».
Che cosa intende, Dario Franceschini?
«Dal bipolarismo siamo passati al tripolarismo. Spero e credo che il Movimento 5 Stelle sia transitorio, e si torni presto alla normalità del confronto tra progressisti e conservatori; ma nel frattempo gli schieramenti sono tre. Nessuno supera il 30%. Se si vuol dare un governo al Paese, in questa fase si debbono accettare forme di collaborazione».
Bersani ci ha provato con i grillini. Pensa anche lei, come Renzi, che sia stato umiliato?
«No. Penso sia stato generoso. Grazie alla diretta streaming, gli italiani hanno visto una certa volgarità, e il rifiuto di qualsiasi forma di dialogo. Abbiamo provato a capire se lo schema era imperforabile; ma mi pare ormai chiaro che loro si collocano fuori. Non c'è nessuno spazio su nulla: si scelgono addirittura il candidato al Quirinale online. O scegliamo di tornare al voto, con l'ulteriore paradosso che chiunque vinca alla Camera quasi certamente non avrà la maggioranza al Senato...».
Si potrebbe e dovrebbe fare una nuova legge elettorale.
«Ma neppure con i collegi uninominali uscirebbe una maggioranza assoluta. Non resta che un'altra strada: uscire dall'incomunicabilità. E abbandonare questo complesso di superiorità, molto diffuso nel nostro schieramento, per cui pretendiamo di sceglierci l'avversario. Ci piaccia o no, gli italiani hanno stabilito che il capo della destra, una destra che ha preso praticamente i nostri stessi voti, è ancora Berlusconi. È con lui che bisogna dialogare».
Lei di Berlusconi ha detto cose orribili.
«Da segretario del Pd sono stato accusato di essere troppo antiberlusconiano. Ma una cosa è lo scontro politico, che resta sano. Un'altra è pensare di scegliersi l'avversario. So che è altamente impopolare, so che si rischia di scatenare le reazioni negative del proprio stesso campo, ma voglio dirlo: se noi intendiamo mettere davanti l'interesse del Paese, dobbiamo toglierci di dosso questo insopportabile complesso di superiorità, per cui se l'avversario ti piace ci parli, altrimenti non ci parli nemmeno. Il leader della destra è ancora Berlusconi, e la sua sconfitta deve avvenire per vie politiche. Non per vie giudiziarie o legislative».
Dunque la tentazione di votare con Grillo l'ineleggibilità di Berlusconi è sbagliata?
«È un dibattito molto approssimativo. Si possono fare norme nuove per il futuro. La norma vigente è del 1957. Già due volte il centrosinistra è andato al governo, nel '96 e nel 2006, e Berlusconi non è stato dichiarato ineleggibile. Non vedo cosa sia cambiato».
Il Pdl vi propone di fare un governo insieme. Oppure di sostenere un vostro governo, ma a patto di portare un suo uomo al Quirinale.
«Proposte respinte al mittente. Non si può scambiare la nascita di un governo con la scelta di chi sta al Quirinale per sette anni che si annunciano burrascosi. Il prossimo capo dello Stato deve essere in ogni caso una persona di garanzia eletta con una intesa più larga possibile. Per sua natura, non può essere eletto con un mandato. Deve essere libero fin dalla prima scelta: assegnare l'incarico di formare il nuovo governo».
L'incaricato potrebbe essere ancora Bersani? Il vostro segretario esclude intese con il Pdl.
«Credo sia logico che il leader del partito di maggioranza possa ancora tentare. Bersani si è sempre rivolto all'intero Parlamento. Non ha escluso nessuno».
Ha sempre detto di non volere un governo di larghe intese.
«E io sono d'accordo con lui. Non ci sono in Italia le condizioni per una grande coalizione come c'è stata in Germania. Ma tra un governo in cui siano insieme La Russa e Vendola e nessun governo ci sono vie di mezzo».
Quali?
«Un esecutivo di transizione, che prenda le misure necessarie per dare ossigeno all'economia mentre in Parlamento si fanno le riforme istituzionali: Senato federale, con conseguente riduzione dei parlamentari, e legge elettorale».
E al Quirinale chi va?
«Niente nomi. Immagino che serva una persona con un'esperienza politica e parlamentare. Non possiamo fare un'operazione di immagine, scegliere uno scienziato o un attore che piaccia ai blog o alla Rete. Il prossimo presidente dovrà difendere il ruolo del Parlamento che lo eleggerà, aiutandolo a ritornare per i cittadini da palazzo della casta a tempio della democrazia repubblicana».
Il Pd rischia una scissione?
«Vedo con grande preoccupazione la leggerezza con cui si evocano scenari di scissione, da "destra" o, se dovesse prevalere Renzi, da "sinistra". Siamo in una tale crisi istituzionale e sociale che ci manca pure questo. Con tutta la fatica che abbiamo fatto per costruirlo, il Pd... Ognuno si morda la lingua e si metta in testa che il Partito democratico deve restare unito e stringersi attorno a chiunque vinca le primarie, quando ci saranno».
E se si andasse a votare subito?
«Si farebbero le primarie lo stesso. Indietro non si torna. Siamo in grado di organizzarle in una settimana».
Che effetto le fanno le parole di Renzi e le repliche che ha ricevuto?
«Vedo che praticamente tutti nel Pd dicono di volere a ogni costo un governo, ma poi si accusano reciprocamente di essere pronti ad accettare i voti del Pdl. Vorrei dire a tutti che la situazione è abbastanza confusa per confonderla ancora di più, tacendo una semplice verità: chiusa la possibilità di un rapporto con Grillo, per sua scelta, i numeri dicono che o si accetta un rapporto con il Pdl, o non passerà nessun governo».

l’Unità 6.4.13
Roma, svastiche e volantini fascisti davanti al Liceo
Succede al Tasso: simboli dei regimi e linguaggio di Terza posizione
Lo sdegno dell’Anpi
di Felice Diotallevi


C’è un via vai di ragazzi perduti attorno al Liceo Tasso di Roma, uno dei più noti della Capitale. Scritte naziste e fasciste, graffiti con simboli che pescano nella peggiore storia dell’umanità. Propaganda antisemita a cielo aperto.
Due episodi, uno di pochi giorni fa, l’altro di questa mattina, nello stesso solco, sulla stessa brutta strada. La scritta «Compagno stupido» seguita da una svastica è comparsa in settimana sul muro del liceo. E ieri mattina questa scritta è stata doppiata da un volantinaggio con simboli neonazista fatto dall’estrema destra cittadina e dai ragazzi di Lotta studentesca. L’indignazione si è diffusa, la prima reazione è stata la denuncia di Elena Improta, vicepresidente romana dell’Anpi Roma e Lazio. «I gruppi di destra Lotta Studentesca e Forza Nuova erano davanti al Tasso e distribuivano», ha scritto su internet Improta, «un volantino con proposte politiche e sullo sfondo il simbolo di Terza Posizione con la runa Wolfsangel nazista: un simbolo fuorilegge dal settembre 1980».
Terza Posizione è stato un gruppo di estrema destra attivo negli anni ’70 che combatteva per la lotta armata neofascista, mentre la Runa Wolfsangel è uno storico simbolo tedesco che fu utilizzato da moltissime unità militari durante il nazismo, parte dello stemma di Terza Posizione. Scrive ancora Improta: «il ritorno di questo simbolo, utilizzato dal gruppo terroristico di estrema destra è un atto gravissimo, soprattutto davanti a una scuola; è come volantinare in pubblico con il simbolo delle Brigate Rosse».
«Condanno nella maniera più forte il volantinaggio davanti al liceo Tasso, così come condanno con altrettanto vigore la mano scriteriata che ha imbrattato i muri dell`istituto. Scritte, simboli e anche il volantinaggio sono idiote provocazioni nonché atti gravissimi, oltraggiosi e offensivi per tutta la città», dichiara in una nota il sindaco Gianni Alemanno. Però la città è debole verso questo protagonismo: nelle mura di quel liceo già in alter occasioni (l’ultima, a fine gennaio nel giorno della Memoria) sono comparse scritte ignobili« Quanto è accaduto al Tasso dice Nicola Zingaretti, presidente della Regione è un episodio grave e inqualificabile che deve essere condannato e farci riflettere ancora una volta. Il fascismo purtroppo è vivo nelle nostre strade, nelle scuole e noi tutti abbiamo il dovere morale di non abbassare la guardia. Roma, la città della Resistenza e Medaglia d’oro al valor militare tutto questo non dovrebbe accadere, anche se da troppo tempo assistiamo al riproporsi di vecchie ideologie e antichi valori sconfitti dalla storia».

l’Unità 6.4.13
Graziato il militare Usa del rapimento Abu Omar
La clemenza di Napolitano per il colonnello Romano, condannato a 7 anni
Il provvedimento concesso sulla base del principio che si segue per i Marò
di Marcella Ciarnelli


È probabilmente il provvedimento di grazia firmato ieri l’ultimo atto ufficiale del presidente della Repubblica che, nel solco del dettato costituzionale, ha graziato il colonnello Joseph L. Romano III, condannato alla pena della reclusione e alle pene accessorie con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La vicenda, su cui i governi italiani che si sono succeduti nel tempo, Prodi, Berlusconi, Monti, hanno messo e mantenuto il segreto di Stato, riguarda il rapimento dell’iman Abu Omar, sequestrato a Milano nel febbraio del 2003 da agenti della Cia con la collaborazione dei servizi segreti italiani. Il caso del colonnello Romano, l’unico militare del gruppo dei 23 americani coinvolti nell’azione, responsabile della sicurezza della base di Aviano da dove partì l’aereo privato che portò l’imam dall’Italia in Egitto dove fu torturato e arrestato, è stato sempre ritenuto più delicato di tutti gli altri. Se gli altri imputati sono sempre stati definiti «presunti» agenti, Romano era certamente un colonnello americano. La decisione di concedere la grazia è stata assunta dal Qurinale dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, nonostante le osservazioni contrarie del Procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del Ministro della Giustizia. Dalla presidenza della Repubblica è stata diffusa una lunga e articolata motivazione della decisione. Ed è stato anche spiegato che Napolitano si è ispirato nella concessione della grazia al militare Usa allo stesso principio che si cerca di far valere per i nostri due marò detenuti in India.
OLTRE LA TRAGEDIA
Dunque, a fondamento della concessione della grazia, il Capo dello Stato «ha, in primo luogo, tenuto conto del fatto che il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, subito dopo la sua elezione, ha posto fine a un approccio alle sfide della sicurezza nazionale, legato ad un preciso e tragico momento storico e concretatosi in pratiche ritenute dall’Italia e dalla Unione Europea non compatibili con i principi fondamentali di uno Stato di diritto». D’altra parte della peculiarità del momento storico viene dato conto nella stessa sentenza della Cassazione che «pur escludendo che il Romano come gli altri imputati americani potesse beneficiare della causa di giustificazione dell’avere obbedito all’ordine delle Autorità statunitensi, ha però ricordato “il dramma dell’abbattimento delle torri gemelle a New York e il clima di paura e preoccupazione che rapidamente si diffuse in tutto il mondo”; ed ha evidenziato “la consapevolezza che ben presto maturò di reagire energicamente a quanto accaduto e di individuare gli strumenti più idonei per debellare il terrorismo internazionale e quello di matrice islamica in particolare”», consapevolezza alla quale conseguì l’adozione da parte degli Stati Uniti di «drastici» provvedimenti.
In secondo luogo, il Capo dello Stato ha tenuto conto della mutata situazione normativa introdotta nel marzo 2013 che ha adeguato al codice di procedura penale del 1988 le modalità e i termini per l’esercizio da parte del Ministro della Giustizia della rinuncia alla giurisdizione italiana sui reati commessi da militari NATO, consentendo tale manifestazione di volontà in ogni stato e grado del giudizio. In particolare «il sopravvenire di tale nuova disciplina costituisce sicuramente un fatto nuovo e rilevante il quale avrebbe fatto emergere un contesto giuridico diverso, più favorevole all’imputato».
Si può quindi concludere che con il provvedimento di grazia, «il Presidente della Repubblica nel rispetto delle pronunce della Autorità giudiziaria ha inteso dare soluzione a una vicenda considerata dagli Stati Uniti senza precedenti per l’aspetto della condanna di un militare statunitense della Nato per fatti commessi sul territorio italiano, ritenuti legittimi in base ai provvedimenti adottati dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York dall’allora Presidente e dal Congresso americani. L’esercizio del potere di clemenza ha così ovviato a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle relazioni bilaterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzione dei comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza».

il Fatto 6.4.13
Cosa c’è dietro
L’ultima trattativa per l’impunità prima dell’addio
di Marco Lillo


La decisione di Giorgio Napolitano di concedere la grazia al colonnello Joseph Romano è una scelta meditata a lungo che ha subito un’improvvisa accelerazione giovedì scorso. Solo ieri mattina la richiesta di grazia è stata presentata dai legali di Romano, via mail, dopo un input dell’ambasciata americana. Il via libera informale del Quirinale è arrivato giovedì ma dietro c’è stata una lunga trattativa durata due mesi con al centro una piccola norma ad hoc.
La grazia comunque non è una resa agli Stati Uniti ma un tentativo di trovare un compromesso tra l’eguaglianza di fronte alla legge e un’alleanza con la prima potenza mondiale. Il Fatto aveva scritto il 22 febbraio scorso che durante l’incontro a Washington del 15 febbraio il presidente degli Stati Uniti aveva chiesto espressamente la grazia al nostro Capo di Stato. Non solo per il colonnello dell’esercito americano in servizio presso la base NATO di Aviano, Joseph Romano. Obama voleva la grazia anche per gli altri 22 agenti della CIA già condannati in via definitiva. E voleva che Napolitano risolvesse il problema alla radice anche per l’ex capo della Cia in Italia Jeff Castelli e per gli altri due agenti condannati in appello in un separato procedimento. Napolitano ha concesso ad Obama solo una grazia che, alla luce dei precedenti, gli americani consideravano scontata. Il colonnello Romano, quando fece passare il convoglio che trasportava Abu Omar nell’aeroporto di Aviano, era un militare NATO in servizio, proprio come i piloti che tranciarono il cavo della funivia del Cermis uccidendo 20 persone nel 1998. “Il principio che fu fatto valere allora”, spiega l’avvocato di Romano, Cesare Graziano Bulgheroni, “è quello NATO-SOFA, cioé status of forces agreement, che impone ai paesi che fanno parte della NATO di permettere agli alleati di processare nel paese di appartenenza i militari in servizio all’estero. Se è stato applicato in un caso come il Cermis - spiega Bulgheroni - non c’era alcuna ragione per non applicarlo al colonnello Romano”. Ben diversa è la situazione per gli agenti della CIA che non sono coperti dal principio NA-TO-SOFA e che possono ora solo sperare nel prossimo Capo dello Stato. Napolitano motiva il provvedimento di clemenza per Romano richiamando “la mutata situazione normativa introdotta dal D. P.R. 11 marzo 2013, n. 27”. Ed è questo il maggiore segno di attenzione agli americani. Quella norma, spiega il Colle, “ha adeguato... i termini per l’esercizio da parte del Ministro della Giustizia della rinuncia alla giurisdizione italiana sui reati commessi da militari NATO, consentendo tale manifestazione di volontà in ogni stato e grado del giudizio”. Questo è, prosegue il comunicato della presidenza il “fatto nuovo e rilevante che avrebbe fatto emergere un contesto giuridico diverso, più favorevole”. Grazie a questa norma, in futuro, l’Italia potrà rinunciare fino al terzo grado alla propria giurisdizione sui militari Nato in un ipotetico nuovo caso Abu Omar. La nuova norma di tre settimane fa, passata inosservata ai più, è stato il grimaldello che ha permesso di salvare, più che il colonnello Romano, i rapporti tra Italia e Usa. Per un caso la deliberazione che ha introdotto la norma è stata approvata dal consiglio dei ministri il 15 febbraio, proprio quando Napolitano era negli Usa. Il Capo dello Stato ha fatto il suo. Ora, però, la vera patata bollente passa al nuovo presidente.

Repubblica 6.4.13
Quando vince la realpolitik
di Liana Milella


«PERCHÉ». Una, due, tre, infinite volte. «Perché» Napolitano grazia, a freddo e in chiusura del suo mandato, uno degli uomini del sequestro Abu Omar?
Questo si chiedono i magistrati che, a Milano, hanno lavorato su questa storia per dieci anni sfidando i vertici degli 007, i vertici del governo, gli Stati Uniti. Dire che il loro stato d’animo è sotto terra è un eufemismo. Dire che sono indignati è poco. Dire che sono furibondi è la verità. Rivelare che la prima parola che esce dalle loro labbra è «ma non è possibile» è solo attenersi alla cronaca di un pomeriggio foschissimo, in cui alla sorpresa per le prime indiscrezioni si mescola lo sconcerto quando la nota del Quirinale diventa disponibile in agenzia. Quella lunga pagina scritta sul Colle demoralizza chi ha speso anni per ricostruire, tra mille ostacoli, il puzzle del sequestro. Certo – è l’obiezione prevedibile – questa è la reazione di chi ha lavorato sulle carte e non capisce, o si rifiuta di comprendere, la sottile diplomazia internazionale - la realpolitik - che avrebbe spinto Napolitano a firmare quella grazia, i rapporti con l’attuale presidente degli Stati Uniti, autore di un’esplicita richiesta di grazia a Napolitano fatta in un faccia a faccia. Chi sta a Milano, si dice tra Quirinale e ministero della Giustizia, non si rende conto che la grazia per Joseph L. Romano è la via aperta per processare in Italia i nostri marò.
Ma regge davvero questo teorema se dall’altra parte c’è un sequestro come quello di Abu Omar? Mettiamo subito un punto fermo, per evitare che possa passare inosservato, triturato dall’alta politica e dalle strategie internazionali. Abu Omar, sequestrato, sbattuto in un aereo, trasferito in Egitto. Lì è stato torturato. Scosse elettriche ovunque. Sodomizzazione. Waterboarding. Ecco perché è faticoso leggere quelle prime righe della nota ufficiale del Colle laddove è scritto che «Obama, subito dopo la sua elezione, ha posto fine a un approccio alle sfide della sicurezza nazionale legato a un preciso e tragico momento storico e concretatosi in pratiche ritenute dall’Italia e dalla Ue non compatibili con i principi fondamentali di uno Stato di diritto». Innegabili le condanne sui sequestri del Parlamento europeo, del Consiglio Ue, della Corte di Strasburgo. La condanna di quelle pratiche è ormai storia della politica e del diritto europei. Erano «pratiche incompatibili con la democrazia».
Indietro da qui non si può tornare. E non lo ha fatto la Cassazione in Italia quando ha confermato le condanne equiparandole «a crimini contro l’umanità » perché il sequestro di Abu Omar altro non era, come lui stesso ha confermato, che l’anticamera della tortura.
C’è una debolezza nei puntelli che il Quirinale cita per supportare la grazia a Romano. Il ragionamento suona carente in un passaggio fondamentale.
Il Colle non motiva a fondo sulla base di quale assunto una dichiarazione politica – anche se a farla è il presidente degli Usa – possa trasformarsi in un pieno salvacondotto. Si può mai far accettare a tutti coloro che, come Abu Omar, sono stati torturati, o peggio ai familiari delle vittime, che una svolta d’indirizzo politico, anche se a 360 gradi, cancella i gravi crimini commessi? E vale la pena di ricordare che il militare Nato Romano è rimasto lontano dal processo nella sua latitanza come tutti gli altri agenti Usa e che la lotta al terrorismo praticata con la tortura ha fatto solo proseliti e si è rivelata perdente. Non fosse che per questo s’è deciso di voltare pagina.
Ma il delitto, documentato, accertato nei minimi dettagli, quello resta. Non può essere cancellato, né dimenticato. Il Quirinale motiva con chiarezza le sue ragioni. Scrive che adesso, con il decreto dell’11 marzo 2013 numero 27, cambiano le regole. Se prima il ministro della Giustizia poteva chiedere ai magistrati di rinunciare alla giurisdizione per inviare l’indagato nel suo paese natio, adesso la stessa richiesta può essere fatta in qualsiasi grado del processo. Per chi avesse memoria corta ricordiamo che l’ex Guardasigilli Alfano ha chiesto per due volte a Milano di fare un passo indietro e ha incassato un no. Ricordiamo anche che i ministri che si sono succeduti – Castelli, Alfano, Severino – non hanno mai inoltrato la richiesta di estradizione. Lo ha fatto solo Severino per Bob Lady. Non fossero i conflitti di attribuzione sollevati a ripetizione da palazzo Chigi (Prodi, Berlusconi, Monti) a provare gli ostacoli che il governo ha frapposto alle indagini opponendo il segreto di Stato all’accertamento della verità.
Ma la contraddizione più forte è in coda alla nota del Quirinale, laddove è scritto che i fatti commessi da un militare della Nato sul territorio italiano in quel momento erano «ritenuti legittimi in base ai provvedimenti adottati dopo gli attentati alle Torri gemelle di New York». E allora di cosa stiamo parlando? Di un crimine commesso in Italia, che grazie a una nuova norma, si vuol far giudicare nel paese natio dell’indagato nel quale però quel medesimo delitto non è ritenuto tale?
È difficile, a volte, tenere insieme giustizia e politica. I buoni rapporti di Napolitano con Obama non giustificano, agli occhi di chi ha processato i sequestratori di Abu Omar, il salvacondotto concesso a Romano. In pochi giorni Napolitano ha sconcertato due volte la magistratura. Quando, con il Pdl che arringava sotto il palazzo di giustizia di Milano, ha parlato di «missioni improprie» delle toghe e adesso questa grazia che rende felici gli americani, ma delude chi considera il sequestro a scopo di tortura un crimine contro l’umanità.

il Fatto 6.4.13
Condanna in appello
Pollari è colpevole: violò la sovranità nazionale
di Davide Milosa


L’ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari, ha consentito agli uomini della Cia “che venisse concretizzata una grave violazione della sovranità nazionale” dell’Italia, fornendo “appoggio” al sequestro di Abu Omar”. Si chiudono così le 143 pagine con cui i giudici della Corte d’appello di Milano motivano i 10 anni di condanna per l'ex capo del servizio militare italiano. Si tratta dell'appello bis conclusosi il 12 dicembre scorso, dopo che la Cassazione aveva dichiarato parzialmente illegittimo il segreto di Stato fatto calare sulla vicenda dell'ex imam della moschea milanese sequestrato il 17 febbraio 2003. Oltre a Pollari, condannati l'ex numero due del Sismi Marco Mancini (9 anni) e altri tre 007 italiani (6 anni). La corte ha disposto anche un risarcimento di 1,5 milioni di euro per Abu Omar e sua moglie. Nelle motivazioni depositate ieri, il collegio della quarta sezione spiega che Pollari ha “promosso la cooperazione nel reato” da parte dei “compartecipi”, cioè gli altri appartenenti al Sismi imputati, e ha fornito “appoggio” al “progetto” di extraordinary rendition di Jeff Castelli, l’ex capo della Cia in Italia. “Appoggio - scrivono i giudici - concretizzatosi con la diramazione dell’ordine ai propri sottoposti, che hanno poi aderito al piano criminoso e cooperato alla sua esecuzione”.
SECONDO IL TRIBUNALE, “la lista dei nomi che rientravano nel progetto americano di renditions, in cima alla quale vi era il nome di Abu Omar, era stato consegnata da Pollari che l'aveva ricevuta da Castelli”. Due fogli appena. Questa la documentazione per tutta la vicenda. Da qui, ragionano i giudici, la sorpresa di Pollari per le responsabilità dei suoi. Insomma, per i giudici è dimostrato che Pollari e Mancini ben sapessero di partecipare a un'operazione illegale, che tale resta anche se viene commessa da uomini dello Stato. Non appare, poi, un caso come durante tutto l'iter del processo ci sia stato il tentativo di fornire ai magistrati “versioni concordate”. Tentativo smascherato dalle intercettazioni. Particolarmente “grave”, secondo i giudici, è “la partecipazione al reato di soggetti che, per la loro posizione soggettiva di appartenenti a un’istituzione dello Stato, avrebbero dovuto garantire che simili violazioni non venissero commesse”, come quella nei confronti di una persona, Abu Omar, che aveva anche lo “status di rifugiato politico” in Italia. Pollari e gli altri imputati, scrive la Corte, avrebbero dovuto “tutelare la sovranità del nostro Paese” e invece hanno “permesso” una “grave violazione della sovranità nazionale”.

l’Unità 6.4.13
Grillo «sequestra» i suoi: vietato dividersi
Trasparenza addio. Dallo streaming ai buttafuori
Metamorfosi della truppa nata su Internet: asserragliati in un hotel come i notabili
di Todo Modo, gli agenti in borghese contro i media
di Andrea Carugati


Per essere quelli della trasparenza, non scherzano. Nella pur tormentata vita politica italiana di pullman pieni di parlamentari con destinazione ignota alla maggior parte dei passeggeri non se n’erano mai visti. Eppure questo è successo ieri mattina alle 9, a piazzale Flaminio, centro di Roma, dove gli onorevoli grillini erano stati convocati via mail per incontrare il Capo supremo in una destinazione top secret. Firenze, l’Abruzzo, i Castelli? Fino a quando i pullman non partono, seguiti da stuoli di cronisti, ogni bus con un percorso diverso per depistare la «casta dei giornalisti», pochi sanno che la meta è un piccolo resort, La Quiete, a Tragliata, un borgo sulle colline a pochi chilometri dal mare di Fregene. La diretta dell’inseguimento, trasmessa da Tgcom 24, si colloca a metà tra quelle cronache di fuggiaschi made in Usa e una gita di parrocchiale di Pasquetta con tanto di sosta all’autogrill.
Ma il bello viene all’arrivo alla Quiete, i cui edifici con i mattoncini a vista si trasformano in una sorta di “zona rossa”, con i parlamentari asserragliati, la polizia in borghese pronta ad allontanare anche con modi spicci i giornalisti (alcuni vengono identificati), fughe tra gli ulivi, appostamenti dietro le siepi, addirittura minacce di denunce.
Una giornata surreale, con Beppe attovagliato in una sala destinata ai matrimoni con i suoi in pellegrinaggio per una stretta di mano, e fuori decine di cronisti cui vengono passati panini attraverso le sbarre della cancellata dai gestori del resort, la famiglia Valente, stupiti da tanta ressa e imbarazzati per il trattamento riservato agli ospiti dei mass media: «Vi posso almeno offrire un amaro?». E quando qualcuno riesce ad avvicinarsi alle finestre inumidite dalla pioggia per udire il “verbo grillino”, ecco spuntare gli uomini comunicazione, quelli che si riempiono la bocca ogni minuto di “rete e trasparenza e democrazia orizzontale”, comportarsi come buttafuori da discoteca, e chiedere il rinforzo degli agenti: «Questa è una riunione privata, mandateli via!».
Dello streaming, neanche parlarne, quella è solo una polpetta avvelenata da offrire a Bersani e agli altri leader di partito per tentare di incastrarli.
Ma è paradossale osservare questi contestatori, queste truppe di No Tav, No Inceneritore, No a tutto, questi contestatori di professione trasformati in poche settimane nei notabili di Todo Modo di Sciascia, chiusi nei loro esercizi spirituali in un albergo-eremo-prigione (nel libro però i coltelli volavano fuori da ogni metafora).
È istruttivo, e a suo modo desolante, osservare la metamorfosi di questa pattuglia di maniaci di Internet e biologico rinchiusi nell’albergo tra finte statue e vere oche che pascolano liberamente, terrorizzati da ogni spiffero, ossessionati da quella opinione pubblica che li ha premiati alle urne, e ora assiste perplessa ai loro contorcimenti. Ed è ancora più divertente udire la signora Lombardi, quella che in streaming sfotteva Bersani («Sembra di essere a Ballarò») arrampicarsi sugli specchi quando a fine giornata si concede alla stampa. «E lo streaming che fine ha fatto?». «Ci sono anche momenti conviviali in cui uno vorrebbe...», bofonchia. Poi si corregge: «Ci sono dei momenti in cui decidiamo la linea che non possiamo rendere pubblici, per non dare ai nostri avversari un vantaggio competitivo». «Ma abbiamo un regolamento anche per lo streaming, prima di ogni assemblea si vota se farlo o no». «E oggi?». «Non ci siamo neanche posti il problema...».
Fine della pantomima, dal 25 febbraio ad oggi i 5 stelle hanno trasmesso solo qualche innocua briciola del loro estenuante reality show, nessun intervento di Grillo e Casaleggio, nessuna discussione politica sensata. Tutte chiacchiere, mentre il distintivo l’hanno lasciato alla polizia.

l’Unità 6.4.13
Alla rivoluzione fuoriporta, cantando «Un mazzolin di fiori»
La base è eterogenea intonare «Bandiera Rossa» e «Primavera di Bellezza» insieme non si può
Grillo ha convocato i suoi per la grigliata battesimale abbracciandoli uno a uno
di sara Ventroni


STAVAMO COSÌ TRANQUILLI IN COMPAGNIA DEI SAGGI. ALL’IMPROVVISO TUTTO DIVENTA ECCITANTE. Nell’aria c’è odore di ortodossia. Pronti, si parte. I giornalisti inseguono i torpedoni da piazzale Flaminio. Gli storici sono avvisati: questa gita fuori porta è già agli annali. Dopo la Svolta di Salerno, siamo pronti per la Scampagnata della Tragliatella.
Zaino in spalla, trolley alla mano e una bandiera No Tav a coprire le spalle dall’umidità. I parlamentari cinquestelle sono convocati di prima mattina. Destinazione ignota. È la tecnica della compartimentazione. Io non so chi sei tu. Tu non sai chi sono io. Noi non sappiamo dove stiamo andando. L’autista non può impostare il navigatore. Anche
Crimi è all’oscuro di tutto, ma fa l’appello con le dita e sorride ai paparazzi, concedendosi una timida parentesi di protagonismo. Commenta, sornione, le foto on line delle sue nozze e le simpatiche gag di Fiorello. Vito è un personaggio, ma ancora non lo sa. È già passato alla cronaca satirica come l’uomo che smentiva se stesso. Crimi è un Sancho Panza senza Don Chisciotte. Un umile servitore. Un rivoluzionario di poche pretese. Preferirebbe Bersani a Monti, ma è pronto a inghiottirsi le parole, dopo un’occhiata fulminante dell’onorevole Lombardi o dopo una scomunica ufficiale dal blog di regime.
Crimi ha già conquistato i nostri cuori, come un eroe dostoevskiano. Caotico, confuso, impacciato, sempre fuori luogo. In una parola: inadeguato. L’unico, finora, tra i fedelissimi al capo (un non-frondista, sia chiaro) che mostra di avere una vita interiore.
L’unico davvero pronto, in caso di eresia conclamata, a sacrificarsi con una dimissione rituale in diretta tv; l’unico disponbile a chiedere scusa alla stampa intera, piuttosto che saltare al gruppo misto o unirsi alla schiera di quanti, nella base, vorrebbero un nome per il Quirinale; eretici che predicherebbero, addirittura, un dialogo con il Pd.
Dopo le auto blu e dopo i camper, torniamo all’epica dei pulmann. I nuovi viandanti della democrazia assomigliano a un’allegra brigata di pensionati, sequestrati per l’acquisto di una batteria di pentole mentre si va, in buona fede, a un santuario, in cerca di una parola di conforto. Donne e uomini assaliti da sinceri dubbi di fede: che fine ha fatto lo streaming? Come è successo che dalle piazze gremite siamo passati alle catacombe periferiche di Roma nord? Abbiamo crocifisso i partiti e ora, ai nostri elettori, sembriamo impermeabili e cinici come una qualsiasi anonima «nomenklatura». Che fare?
Gli assilli dei neoeletti sono molti. Ma non vanno detti. In fondo, ci si incontra per scongiurare il pluralismo. Per allontanare il sospetto che vi sia libero pensiero in libero movimento.
Nel tragitto forse si mangia un panino, forse si schiaccia una pennica. Possiamo immaginare che nel percorso che li separa dall’incontro con il santone taumaturgico in giacca di pelle, ai parlamentari venga impedito addirittura di cantare. Potrebbe essere pericoloso. La base è troppo eterogenea. Bandiera rossa e Primavera di Bellezza non vanno d’accordo. Si può solo confidare in un mazzolin di fiori. Ma non è detto.
La verità è che, al netto del successo elettorale, c’è il leader ma non c’è la base.
Per questo Grillo li ha convocati, abbracciandoli uno per uno all’ingresso dell’agriturismo, prima della grigliata battesimale. Lui ha il regno in mano, come a Risiko. L’obiettivo non è fermare le fronde ma compattare i fedeli. Ripassare il precetto utopistico del cento per cento. Lo scopo non è convertire al bene quella sporca dozzina di giuda traditori, ma rinnovare il non-giuramento di fedeltà al non-statuto.
Non ci sono mezze misure. Per questo occorrono i buttafuori, come il mastino camionista Nick il Nero, o il buttadentro, come il professor Becchi, che non osa definirsi ideologo, preferendo la semplice dicitura di «grillino».
L’importante è che si torni tutti a Roma fedeli alla linea.
È una data storica. Non c’è dubbio. Gli analisti del caos e gli esperti di comunicazione un giorno ci spiegheranno come accadde che i rivoluzionari cinquestelle scoprirono il fascino discreto del centralismo democratico. Non capisco ma mi adeguo.
Finalmente oggi le cose si fanno più chiare. Il Movimento 5 Stelle ha due punti di forza che solo casualmente coincidono con il peggio della rete e il peggio dei partiti: l’insulto stereofonico del web e il personalismo autoritario, da tenutario di marchio, di fine Novecento.
Non c’è dubbio: siamo a un momento di grande ciclo e riciclo storico. Una discarica dove volano i gabbiani, persi sugli scarti di una democrazia che fu.

l’Unità 6.4.13
Dissidenti assenti o silenti. E a Bologna scoppia il mail-gate
Tra le voci fuori dal coro quelle di Petrocelli e Liuzzi
Rizzetto: «Non siamo mica dei bambini dell’asilo»
di Toni Jop


Magari non basta una gita fuoriporta per far digerire i rospi. Fatto sta che mentre i pullman carichi di parlamentari grillini si infilavano gioiosi in un percorso di fuga da Roma e dai giornalisti che pareva copiato da un film anni Settanta, qualcuno, violando l’aria di festa rubata, su quelle poltroncine irrequiete e verginali leggeva e rileggeva un’intervista in aria di eresia. L’aveva rilasciata, al Secolo XIX, il senatore Cinque Stelle Walter Rizzetto, friulano, poco incline a lasciarsi infagottare da quell’aria da educande in vacanza che la regia aveva creato per l’occasione. Perché l’occasione aveva un titolo: serrare le file, ritrovare sintonia e rispetto per le scelte delle due badesse del convento, Grillo e Casaleggio. Quell’intervista diceva, invece, più o meno «col cavolo che io ci sto a fare la mammola». Rizzetto era su uno di quei pullman ma a quanto pare non ha aperto bocca, ma che doveva aggiungere? «Non siamo all’asilo, non siamo bambini», lamentava il senatore che rifletteva sulla storia recente in questi termini: «Se uno come Bersani, uno con una storia politica di 20 anni alle spalle, e che certo non è uno sprovveduto, ha fatto tutti quei passi in avanti, ci ha dato segnali concreti, ha passato l’iniziativa nelle nostre mani, almeno gli dobbiamo portare rispetto. Vediamo cosa ha da dire, cerchiamo punti di contatto. Invece ha prevalso la chiusura». Fortuna che lo dicono loro, ma buon segno per i tempi a venire.
Rizzetto prosegue denunciando una «paranoia asfissiante sull’informazione» promossa dai vertici e poi difende il collega siciliano Tommaso Currò, anche lui dissidente e all’indice per aver vuotato il sacco in una intervista alla Stampa, paventando possa diventare il possibile oggetto di una «caccia alle streghe» che a lui non piacerebbe. Currò non c’era, su quei pullman. Come pochi altri parlamentari. Mancava Emanuela Corda, eletta in Sardegna e in Sardegna era rimasta a fare cose che attengono ai suoi nuovi compiti. Dice che ha preferito evitare lo choc dell’inseguimento dei cronisti, sarà vero? Certo, se ci credi e sei d’accordo come fai a perderti una gita in compagnia di un milionario che sa far ridere e ti dà uno scopo nella vita? La perdi se pensi che accettare l’invito equivalga a partecipare così ha precisato «a un tormentone mediatico» oppure a «un reality show». C’è sempre questa visione secondo cui è il mondo dell’informazione a essere isterico, ma se i fatti vengono pilotati con arguzia e sapienza da showman, è ben vero che raccogli esattamente ciò che hai programmato: non è un errore del sistema; il successo di attenzione conquistato da Grillo per il fuoriporta di ieri, è la conferma che lui sa usare quel sistema. Fuori dal mucchio anche Vito Petrocelli, senatore, geologo nato in Basilicata, uno di quelli che hanno votato Grasso: mentre gli altri facevano bei cori, lui se ne stava in Parlamento, a lavorare, in silenzio.
Intanto, la deputata Mirella Liuzzi si aggirava nei corridoi della Camera, molto occupata: racconta che aveva molto da fare e che è stata sequestrata in diverse riunioni utili. Si faranno raccontare, poco male. Così come sta avvenendo per quel che è accaduto in Emilia Romagna qualche tempo fa, sempre in casa Cinque Stelle. A Bologna, un hacker ha violato il sito del meet-up 14 della città e ha reso pubblico il contenuto di una serie di messaggi privati intercorsi tra Marco Piazza e Massimo Bugani, consiglieri comunali, Serena Saetti e Werter Danielli, consiglieri di quartiere, il cameraman Nicola Virzì (Nick il Nero) e due collaboratori dei consiglieri comunali. Lo scambio risale al novembre scorso, mentre bruciavano i casi di Favia e di Salsi. E soprattutto su Favia si concentrano parole e progetti utili alla defenestrazione di quel «nano di merda», così lo chiamano con affetto, e dei suoi estimatori. Uno bellissimo spaccato che i militanti grillini su Facebook hanno apprezzato: «Un contesto scrivono peggiore di quello delle correnti di un partito». Al solito: se lo dicono loro, tutto bene.

il Fatto 6.4.13
Crimi: nella legge elettorale la “sfiducia” all’eletto


SARÀ una delle prime proposte di legge che presenteranno: riforma della legge elettorale. E ieri, il capogruppo al Senato Vito Crimi, ha spiegato quali saranno alcune delle linee guide della progetto del Movimento. Prima di tutto il ripristino delle preferenze. E poi il “sistema del recall”, ovvero il potere di togliere la delega all’eletto. Spiega Crimi che occorre introdurre “la possibilità del cittadino di sfiduciare l’eletto qualora non adempia al suo mandato: un sistema già adottato in altri paesi e dove c'è non è molto usato, è un deterrente, è un faro sull'eletto che porti a compimento il programma per cui è stato eletto”.

il Fatto 6.4.13
Dissidenti senza parole “Condividono la linea”
Una quarantina le assenze al raduno Cinquestelle
I parlamentari minimizzano: “Solo dialettica interna”
di Beatrice Borromeo


Alle 9 e 15 di ieri mattina i gruppi di grillini che in piazzale Flaminio, a Roma, aspettavano gli autobus (senza sapere dove li avrebbero portati), erano due: da una parte i parlamentari circondati dai cronisti, dall’altra quelli che si riparavano dalla pioggia (e dai microfoni) al bar. E proprio questi ultimi, nei tre quarti d’ora di attesa prima della partenza, hanno commentato e scherzato su tutti i temi più caldi. Ribelli in testa. E così, mentre passava un camion dei rifiuti, qualcuno (ridendo) l’ha indicato: “Raga’, è arrivato il pullman dei dissidenti! ”. Poi un po’ di raffreddore fa preoccupare un deputato Cinque Stelle: “Che schifo, mi attacchi la dissidentite! ”. Tutti comunque di ottimo umore, a parte qualche ansia ricorrente (“secondo me i giornalisti ci intercettano i telefoni”, “attenzione ai microfoni direzionali! ”, sussurra qualcuno, questa volta senza ridere).
L’entusiasmo non dura però tutto il giorno. O, almeno, la spontaneità. Perché finito l’incontro con Beppe Grillo, camminando velocemente verso gli autobus che riporteranno alcuni di loro a Roma e altri a L’Aquila, i grillini sono abbottonati. Qualcuno ammette: “Abbiamo ritrovato l’unità”. Altri chiudono: “Non c’era nulla da ricompattare”. Tancredi Turco, gentile e timido, invita a girare le domande ai capigruppo e si limita a dire che “è stato un modo simpatico per riunirci”. Sebastiano Barbanti, felice di aver trascorso “un’altra giornata al lavoro, anche se in modo diverso” minimizza le voci di rotture interne: “Dissidenti? Non esistono. Si tratta di semplice dialettica”. Tutti, poi, giurano che il nome di Tommaso Currò, onorevole siciliano che ha pesantemente criticato il Movimento nei giorni scorsi, non è stato nemmeno pronunciato (lo sostiene anche la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi). Tra i colleghi di Currò - che ha parlato di puzza di fascismo tra i Cinque Stelle–c’è chi è amareggiato e chi lo capisce. Azzurra Cancellieri è tra le più dure: “Tutti noi condividiamo la linea dell’assemblea. Tommaso è diverso. È libero di farlo ma, certo, ci ha dato un dispiacere. Questi scatti di rabbia sono una bella delusione”. Ammette invece Maria Marzà che, “anche se i momenti per esprimere le nostre opinioni sono tanti, quella di Currò non è stata ascoltata abbastanza”. E se il deputato ribelle ha deciso di non presentarsi (assieme a una quarantina di colleghi, assenti per vari motivi) ieri, al conclave, i pochi grillini dissidenti hanno preferito non prendere la parola davanti a Grillo. L’ha chiarito la Lombardi: “Né Walter Rizzetto né Mara Mucci sono intervenuti. Direi che eravamo tutti d’accordo”. Più imbarazzata la risposta sulla diretta streaming chiesta da molti elettori del Movimento. La Lombardi ammette: “Dobbiamo farle, questa volta non so chi abbia deciso che fosse a porte chiuse” (mentre Laura Castelli spiega così il mancato streaming: “Non c’è campo, non vanno neanche i cellulari”).
Recepita poi la richiesta di stare attenti ai social network, Facebook in testa. Lo stesso Grillo, aprendo la riunione, ha insistito tra gli applausi sul fatto che “il nostro problema è la comunicazione. Dovete stare attenti a quello che dite, attentissimi ai profili Facebook, non cascateci! ”. E mentre il leader non rinuncia all’ironia (“Crimi! Dove cazzo sei! Che poi Crimi si smentisce anche prima di parlare. Prima dice “sto per dire una stronzata”, e poi la dice), una deputata si fa seria: “Beppe, dicci dove siamo e soprattutto dove andiamo”. Ma la riunione era solo all’inizio.

il Fatto 6.4.13
Il leader. “Nulla da ricompattare”
Beppe contro i dissidenti: “Currò? E chi è?”


Non c’era proprio nulla da ricompattare”. Finito l’incontro con i suoi parlamentari, circondato da cinque poliziotti in borghese che organizzano la fuga dalle decine di giornalisti che lo aspettano fuori, Beppe Grillo, giubbotto di pelle nera e camicia a quadrettoni, ha l’aria soddisfatta di chi c’è riuscito: a tranquillizzare gli indecisi, a convincere i suoi ragazzi che la linea non può che essere una, a isolare i dissidenti.
Come Tommaso Currò, deputato a Cinque Stelle che l’altroieri, sulla Stampa, ha raccontato frustrazioni e paure, come quella di diventare uno “schiaccia bottoni per conto terzi”, senza autonomia. E addentando una fetta di crostata alla marmellata, il leader M5S spiega a voce bassa che l’assemblea al ristorante La Quiete, alle porte di Roma, “è andata benissimo”.
Grillo, di cosa avete discusso?
Soprattutto delle commissioni. E poi dei lavori parlamentari che devono riprendere, delle nostre previsioni.
Cos’ha risposto alle critiche dei dissidenti?
Veramente non ce n’erano, è stata una cosa carina, molto distesa.
Unità ritrovata?
Ripeto, non c’era nulla da ricomporre.
Si è dispiaciuto per le accuse fatte al Movimento dal deputato Tommaso Currò, che ha detto “a me la propaganda puzza di fascismo”?
Currò? E chi è Currò?

Corriere 6.4.13
Il tentativo di M5S di condizionare i giochi per il Quirinale
di Massimo Franco


Le prime voci che arrivano dalla riunione politico-conviviale dei parlamentari del movimento 5 stelle di ieri trasmettono una sensazione di eccitato sbandamento. E per paradosso, la confusione arriva dall'alto, da una leadership asserragliata intorno al comico Beppe Grillo, incapace tuttavia di trasmettere certezze alle proprie truppe. Il leader, riferisce la capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi, ha detto: «Siete liberi di definire la linea politica». E un giovane deputato, Stefano Vignaroli, ha dichiarato trionfante: «Grillo ci ha detto che c'è libertà di pensiero». Sono frasi che inducono a pensare o ad una ribellione strisciante destinata a piegare la disciplina paramilitare dei vertici, inclini in precedenza a scomuniche ed espulsioni verso i dissidenti; o ad un caos incipiente da arginare con un atteggiamento più tollerante, almeno per camuffarlo.
Sono segnali provenienti da un movimento, o un partito, che ha raccolto circa un quarto dei voti. E dunque vanno registrati con attenzione in vista di scadenze determinanti come l'elezione del presidente della Repubblica e poi la formazione del governo. Avere di fronte due tronconi, Pd e Pdl, che stentano a parlarsi, e un terzo blocco schierato sul fronte del «tanto peggio tanto meglio» non è rassicurante. Se poi si tratta di una formazione che presenta un'agenda strampalata, addita «la gente coi bastoni» qualora si formasse una maggioranza Pd-Pdl-Monti e usa la trasparenza a piacimento, c'è da preoccuparsi. Grillo ha fatto sapere che d'ora in poi andrà in Parlamento una volta al mese. E assicura che saranno gli altri a dividersi, non i suoi.
Ha capito che deve passare in rassegna deputati e senatori per tenerli uniti. Deve farsi vedere, parlare con loro, se possibile orientarli e convincerli. La domanda è se basterà questa epifania mensile a stroncare sul nascere la voglia di alcuni esponenti grillini di entrare nei giochi politici, di pronunciare dei «sì» e non soltanto dei «no». La miscela di attese rivoluzionarie, eterogeneità, incompetenza dei meccanismi istituzionali e «libertà di linea politica» può produrre effetti imprevedibili. Le critiche che affiorano proprio sulla Rete, culla e cassaforte dei consensi del M5S, sono un indizio da non sottovalutare. È significativo che ieri il grande capo si sia dovuto difendere dall'accusa di offrire pretesti ai partiti con i suoi dinieghi: accusa isolata arrivatagli però dall'interno, non da qualche nemico. Quanto all'illusione, seminata da Grillo a piene mani, che sia possibile andare avanti anche senza il governo, lasciando lavorare le Camere, è un'altra prova della mancanza totale di conoscenza del funzionamento dello Stato; oppure di un tentativo maldestro e furbesco di piegare la realtà alle proprie convenienze, legittimate dalla «rivoluzione» di cui si sente portatore. La smentita indiretta ma immediata è venuta ieri dalle parole amare del presidente del Senato. Pietro Grasso ha spiegato che non si possono formare nemmeno le commissioni parlamentari fino a che non sarà possibile «distinguere tra maggioranza e opposizione». La stasi dovuta dall'assenza di un governo blocca anche il Parlamento. Resterà tutto fermo per settimane, spiega Grasso. Per sbloccare le cose sarà necessaria una maggioranza che abbia «la fiducia del Parlamento». Non è ancora sicuro se e come questa coalizione si solidificherà. Probabilmente, lo spartiacque sarà il Quirinale. Ma le truppe grilline alle Camere rischiano di candidarsi a massa di manovra per operazioni nelle quali sarà più difficile che in altre controllare il comportamento e le preferenze dei gruppi parlamentari. Eppure, quell'elezione è uno degli atti più «di governo» che deputati, senatori e delegati regionali compiranno. Grillo si limita a ribadire che vuole l'incarico per formare un governo; e che il prossimo capo dello Stato «sarà molto diverso da questo». È la trincea tattica di chi sa di non avere altra strategia oltre quella del rifiuto; e che adesso teme di dover registrare diserzioni a catena da un'armata rivelatasi troppo grande non per le sue ambizioni ma per le sue capacità di leadership.

La Stampa 6.4.13
Cresce l’ala del dialogo “Basta muri di gomma così perdiamo tempo”
Il deputato Pisano: la penso come Currò nel Palazzo servono soluzioni condivise
di A. Mala.


«Ma perché farsi condizionare dalla parola alleanza? Qui si trattava di scegliere una rosa di nomi per mettere il Pd con le spalle al muro. Non è successo. Ma io la penso come Tommaso Currò: le rivoluzioni si fanno fuori dal Palazzo. Sei stai dentro devi cercare soluzioni condivise». Il pullman del Movimento 5 Stelle che in questa realtà parallela costruita da Beppe Grillo comincerà la sua corsa verso l’ignoto inseguito da un plotone di giornalisti, è ancora fermo a piazzale Flaminio e a Montecitorio il transatlantico è semideserto. L’uomo con le mani in tasca, che cammina solitario davanti alla buvette, è uno di quelli che tra poco parteciperanno alla scampagnata. Lo farà controvoglia. Come se lo avessero precettato per i tre giorni quando ancora la leva era obbligatoria. Tergiversa. «Mi piacerebbe anche incontrarlo qualcuno del Pd, ma si guardi attorno. Questo posto è vuoto». Ha unvolto pallido e pensieroso, una camicia rosa su cui ha deciso di non mettere la cravatta, ed è evidentemente agitato da sentimenti nuovi con cui fatica a fare i conti.
Si chiama Girolamo Pisano, ha 39 anni, una laurea in ingegneria e viene da una famiglia di imprenditori. Ramo ascensori. Mercato florido. Tecnicamente è uno di quelli che in questa avventura parlamentare ci rimettono dei soldi. Neppure pochi. «Non è questo il punto. Il problema è che qui stiamo perdendo tempo. Ormai siamo alienati». Chi? Voi? Il vostro gruppo? «Già».
Parla informalmente perché non ha intenzione di rompere, ma è come se avesse un grave enigma posato sull’anima. Non è aggressivo. Piuttosto scoraggiato. All’interno del MoVimento è considerato, assieme a un’altra trentina di colleghi, un «dialogante», parola che per i «talebani» - i fedelissimi alla linea imposta dal papa ligure e da Gianroberto Casaleggio - è sinonimo di bestemmiatore. «Non mi spaventa. Nelle riunioni alzo la mano e dico la mia. Credo che sia questo il modo giusto di muoversi. Parlo di cose concrete. Non siamo in tanti a farlo. Poi mi adeguo al voto. Generalmente finisco in minoranza. Ma mi chiedo se abbiamo una visione politica». E che cosa si risponde? «Che alcuni di noi non hanno proprio idea di che cosa voglia dire».
Non ce l’ha con Grllo - «perché dovrei?, lui dice sempre la stessa cosa» - ma contro il muro di gomma contro il quale gli sembra di sbattere. E più che con i talebani se la prende con gli svizzeri, con i neutrali, una cinquantina di cittadini-parlamentari che non aprono mai bocca, vanno a rimorchio, si astengono al momento delle infinite votazioni quotidiane. Mentre Crimi e Lombardi, i portavoce, continuano a inseguire ordini del giorno che a Pisano sembrano lunari. «Qui scoppia la terza guerra mondiale e noi facciamo ancora le presentazioni tra deputati e senatori. Senza capire che se si fa l’inciucio tra Pd e Pdl finiamo fuori da ogni gioco. E che se si torna a votare vince Renzi. Ci penserà lui a fare fuori Bersani, mica noi. Eppure la Lombardi non fa altro che parlare di commissioni e se chiamo Crimi neppure mi risponde al telefono», si lascia scappare. Il suo cellulare suona. Lo ignora. È come se avesse la testa altrove. Ancora puntata su un’idea che gli si sta sgretolando tra le dita. «Nei territori abbiamo fatto delle cose strepitose. In Campania, in Sicilia (non era quello il modello?), in Emilia. Dove costruisci la gente ti segue. E ti premia col voto. Qui invece? Non è possibile essere sempre contro». E dunque? «Qualcosa dovremo fare. Vedremo». La sua suoneria è un jazz raffinato e triste. Insistente. Decide di rispondere. Si allontana e cerca di nascondere il disagio. Ma è come se dentro gli occhi gli lampeggiasse una luce rossa.

il Fatto 6.4.13
Il guru del guru
Il furbo Artom arpiona pure Casaleggio
di Giorgio Meletti


Il colpaccio lo ha fatto l’altroieri nel ristorante Bagutta di Milano, mettendo sette imprenditori a tavola con Gianroberto Casaleggio. Ma il sospettoso guru del Movimento 5 Stelle non poteva sospettare che, giusto il tempo del caffè, e Arturo Artom avrebbe sparato la notizia sulle agenzie di stampa, accreditando in modo definitivo la sua ennesima reincarnazione: l’imprenditore grillino, che si appresta a vantarsi dell’ultimo successo lobbistico in occasione del “brunch di primavera” organizzato nella sua lussuosa casa nel centro di Milano per il prossimo 21 aprile.
AI PARTECIPANTI alla colazione di lavoro Artom è riuscito a dare l’impressione che conta, quella di una sua antica consuetudine con Casaleggio. Dando così consistenza all’idea di aver posto le basi per le prossime leggi a sostegno della piccola industria, a cominciare da una taglio dell’odiata imposta Irap del 20 per cento. E sì, perché l’abolizione dell’Irap, cavallo di battaglia grillino, costerebbe almeno 35 miliardi di minori entrate fiscali per lo Stato, ma Artom ha fatto sapere, a Casaleggio prima e all’universo mondo poi, che secondo lui ce la caviamo con soli 20 miliardi di mancate tasse. E quindi Casaleggio, ragionevole, avrebbe detto che con un taglio del 20 per cento sono solo 4 miliardi e se ne può parlare.
Tutti, Casaleggio compreso, hanno creduto di partecipare a un’iniziativa della Confapri, l’associazione di Treviso che il 9 febbraio scorso ha organizzato l’importante incontro tra gli imprenditori del Nord-Est e i due fondatori di M5S, Casaleggio e Beppe Grillo. Artom, completo marrone e cravatta marrone ha rievocato il grande successo dell’iniziativa di Tre-viso, confondendo il guru. Ma il presidente di Confapri, l’imprenditore Massimo Colomban, a Milano non c’era. E sul sito della Confapri si parla di un centinaio di imprenditori presenti quel giorno a Treviso ma si pubblica la foto di Grillo e Casaleggio seduti a un tavolo con non più di una decina di persone. Artom è citato come rappresentante di due associazioni “simpatizzanti”, Rinascimento Italiano e il Club della Meritocrazia.
Sulle multiformi autorappresentazioni di “Arturo il ballista”, autentico Zelig a 360 gradi, il riferimento resta l’articolo di Malcom Pagani “Ecco a voi il nuovo Conte Max” (Il Fatto, 26 giugno 2012). Ma da allora la carriera di Artom si è quotidianamente arricchita di nuove acrobazie. Sapendosi vendere bene, ha infestato i talk show per mesi, prima come tonitruante esponente di un “Forum per la meritocrazia” che si avvicinava alle elezioni con tonalità montiane spinte. Poi ha fondato Rinascimento Italiano, movimento che si è proposto come alleato di Berlusconi con la sua lista.
POCO PRIMA DELLE ELEZIONI Artom ha scoperto con raccapriccio che, a suo dire, nel Pdl la meritocrazia non la faceva proprio da padrona, e si è messo in proprio. Ma non ha raccolto le firme. Adesso è grillino: “Parlo spesso con Beppe”, ha detto in collegamento dal Veneto al programma di La7 Piazza pulita. A quel punto il coordinatore di Rinascimento Italiano, Fabio Diadati, ha smentito il presidente con tono minaccioso: “A seguito della partecipazione del presidente Arturo Artom alla trasmissione Piazza Pulita di La7 e della sua posizione di sostegno a M5S, comunichiamo che tale azione è del tutto personale e non rappresenta la linea di Rinascimento Italiano. Nei prossimi giorni sarà fatto un chiarimento con Artom”.
Sulle attività imprenditoriali di Artom incombono alcuni interrogativi. Sono quattro le società riconducibili al suo nome registrate da Infocamere: Arturoartom&c Productions, Artom Innovazione, Muvis e Netsystem. Due di queste sono classificate inattive. Altre due non presentano un bilancio da anni. Cionondimeno, essendo la Muvis associata all’Assolombarda, la Confindustria di Milano, Artom si spinge fino a presentarsi come membro del comitato di presidenza. Ma i portavoce dell’Assolombarda precisano che la cosa è semplicemente falsa: Artom non ha alcun incarico.

il Fatto 6.4.13
Lettera al M5S
Cittadina Mucci il silenzio è inutile
di Roberta De Monticelli


Onorevole Mucci, o se preferisce, Cittadina Mara Mucci, “È assolutamente prioritario far partire le Commissioni Parlamentari”, leggo sul suo sito. In effetti da giorni mi chiedo che cosa i parlamentari stiano aspettando, precisamente, a mettere in atto il loro sacrosanto diritto di iniziativa. Mi fa piacere che abbia messo in vista nel suo sito le semplici regole, che consentono a ciascun parlamentare di presentare un'iniziativa legislativa in modo che le Commissioni parlamentari possano cominciare a funzionare per la fase dell’istruttoria, in cui si acquisiscono le informazioni utili per la decisione. Non aveva lo stesso Presidente del Senato presentato una serie di iniziative importanti? Non avete sottolineato tante storture da correggere e infamie da eliminare, in campagna elettorale? E dunque la ringrazio di ricordarle ai suoi colleghi. Ma se qualcuno frena sull’istituzione delle Commissioni, cosa aspettate a farlo sapere al mondo? Ma se, invece, vi si offre via libera per proporre “nomi a voi graditi” per guidare un governo che attui le misure da voi suggerite, perché dire di no?
RICORDI che nulla è più atrocemente contrario a quella “Cittadinanza” che pure Grillo mi pareva preconizzare e promuovere, che l'impersonalità, l'anonimato, in definitiva quello sparire dei volti nella massa del collettivo, quel tacersi delle voci nell'urlo di uno solo, che oggi il capo del vostro Movimento sembra non tanto chiedervi, e neppure esigere, quanto dare per scontata, per ovvia, per indiscutibile: e chi non la pensa così ha sbagliato a votare M5S. Dunque evidentemente ritiene che una discrepanza di opinione con se stesso equivalga a una contrarietà al M5S. Dunque – per proprietà transitiva – ritiene il M5S identico a se stesso. Questo è il contrario di quanto ha sostenuto durante tutto il periodo precedente al vostro sbarco in Parlamento: e mi chiedo chi avrebbe potuto seguire quel movimento – se non forse alcuni animali gregari – se tale fosse veramente stata la regola. La nostra Costituzione, Lei lo sa bene, non prevede affatto vincolo di mandato per il Parlamentare, che rappresenta la Nazione. Estendere al Parlamento un vincolo che può al massimo, se uno lo accetta, valere per un uomo di partito, e per di più farlo proclamando di non appartenere a un partito, è semplicemente incomprensibile al cittadino non deputato. Che è cittadino come lei, e non farebbe il suo dovere se non chiedesse ai suoi rappresentanti in Parlamento di rendere pubblica ragione delle loro scelte e decisioni. Che cosa significa un Parlamento di muti? Niente altro che la tremenda degenerazione partitocratica prima, banditesca, collusa e corrotta dopo, del sistema parlamentare: quella degenerazione che voi volevate correggere. Almeno quando un duce tacita un'assemblea legislativa, chi vi si sottomette ha subito, e infine accettato, una violenza: non ha egli stesso volontariamente destituito se stesso, la sua libertà.
NON HA CHINATO il suo proprio capo senza neppure chiedersi perché lo fa. Questa si chiama libido serviendi. Non siete i soli, se chinate il capo. Grandi e anziani, antichi cittadini, grandi costituzionalisti perfino, hanno in questi giorni chinato il capo: e, quello che è ancora più incomprensibile, non a un uomo l’hanno chinato, ma all'insieme di infondate e viziose consuetudini che hanno ridotto il Parlamento italiano come è ora, uccidendone l'autonomia sotto lastre di piombo di negoziati, mediazioni, compromessi. Uno di loro, un “Saggio”, non solo ha accettato di essere cooptato in una compagnia triste di oligarchi potenziali tratti da un cappello costituzionalmente inesistente “per mettere d'accordo”, parole sue, le parti su un programma di minima – ma, vittima di uno scherzo crudele come l'infanzia, ha mostrato al mondo quanto scetticismo possa crescere dentro a un uomo che dichiara inutile ciò che egli stesso accetta di fare. Ma lo scetticismo può accecare a tal punto, che non si riesce più a vedere il cittadino che grida, fuori dal Palazzo. Perché bisogna trovare un compromesso fra la parte di uomini che disprezzano a voce alta le leggi e la Magistratura, e la parte di uomini che con enorme dispiego di tempo, di energia, di passione, abbiamo mandato in Parlamento perché finisca, e finisca per sempre, l'epoca del disprezzo delle leggi e della magistratura, l'epoca della compravendita dei deputati, delle leggi ad personam, delle leggi non applicate anche quando ci sono? Non li ho io cittadina mandati in Parlamento, quegli uomini e donne, proprio perché non si facessero più simili accordi sciagurati? E a quale cielo dovrò appellarmi se anche voi, uomini saggi e dotti, cooperate a tacitare e infine uccidere il Parlamento? Questo diremo agli uomini saggi e antichi. Ma a voi cosa diremo, Cittadini? A voi che avevamo mandato in Parlamento perché esprimeste le vostre voci, e che tacete, e tacendo date agli oligarchi ragione, dato che bisogna pure che qualcuno prenda una qualche iniziativa? Perché parlare, perché discutere, perché chiedere ragione di questa particolare infamia, di quella particolare ingiustizia? Mettiamoci prima d’accordo, e poi vedremo. Un piccolo scambio utile, un piccolo compromesso, si trova sempre. E noi questo chiamiamo “responsabilità”. Lo strisciante accettare da parte di ognuno di rinunciare alla propria responsabilità, e alla propria faccia. È questa, la nostra neolingua. Ma questa forma di coscienza consortile fuori dal Palazzo prende il nome di omertà. Il vostro silenzio la giustifica e la perpetua. Svegliatevi, Cittadini parlamentari. Vi abbiamo affidato la nostra voce – non zittitela, anche voi. Se non ora, quando?

Corriere 6.4.13
Grillo, la trasparenza a giorni alterni
di Pierluigi Battista


Un po' fanno sorridere. Ma un po' no, fanno spavento. Cosa prevale, l'immagine dell'allegra combriccola un po' fantozziana dei cittadini parlamentari del M5S, in gita con il pranzo a sacco, sui torpedoni a cantare «Quel mazzolin di fiori»? O quella un po' cupa di una setta che il capo stipa sui pullman per discutere in tutta segretezza, evitando la contaminazione avvelenata della stampa e dell'informazione?
Loro, i paladini della trasparenza, i maniaci dello streaming, gli alfieri della democrazia diretta, senza filtri, senza ombre, senza gerarchie, portati in una località segretissima, per ascoltare il Capo in tutta segretezza, per abbeverarsi alle parole del guru che teorizza la libertà della Rete e pratica il culto del conciliabolo segreto. Il segreto in streaming non è dato. Quello serve alla propaganda, all'umiliazione dell'interlocutore, al teatrino con Bersani che in diretta web implora l'appoggio al suo governo mentre i cittadini deputati rispondono beffardamente per la gioia dei seguaci. Mentre i cittadini deputati sono sigillati in una stanza, trasportati da un pullman altrettanto sigillato, i cittadini elettori che hanno scelto il movimento di Grillo apprendono che i fatti della politica sono di due tipi: quello delle cose che si possono sentire, dove il movimento mostra la sua compattezza, e quelli che devono essere celati agli occhi del pubblico. Perché quando i cittadini deputati grillini rischiano di dividersi e addirittura di litigare, allora cala il sipario, lo streaming non c'è più, la trasparenza si opacizza, la democrazia diretta è un po' meno diretta, fino a scomparire, fino a riflettere una sola parola, un solo comando: quello del Capo (e del suo fido e ombroso Consigliere).
Perciò c'è più da piangere che da sorridere. Ci sarebbe da sorridere per quella scena da italiani in gita, panino e acqua minerale, i canti della compagnia, l'autista del torpedone con accanto il capocomitiva che parla al microfono e loro dietro, disciplinati, spostati senza conoscere la località di arrivo, pronti per la trasferta, inseguiti da mute di giornalisti che, debitamente insultati a sangue dal Capo supremo e indiscutibile, in fondo fanno solo il loro onesto lavoro e vogliono sapere soltanto se il Movimento favorirà la formazione di un governo, bazzecole così, mentre i cittadini deputati fantasticano invece di complotti a mezzo stampa, cospirazioni mondiali, loschi traffici dei padroni dei media a loro danno. Una visione cupa e tragica del rapporto tra politica e informazione: altro che trasparenza e fine di ogni mediazione manipolatrice. Come se il dissenso non fosse il sale della democrazia, ma un peccato da nascondere, come se la discussione pubblica non pilotata, oscurata, ridotta dal Capo supremo a un giochino per «troll» malati, fosse un male da cancellare. E davvero non si capisce perché questi campioni della società civile non si ribellino alle intemperanze di un Capo che li tratta come una scolaresca da irreggimentare. Perché non capiscano che con quei portavoce, è l'immagine dello stesso Movimento a risultare compromessa, e forse addirittura ridicolizzata. Perché siano saliti su quel torpedone aziendale senza trasmettere al Capo il senso di un soprassalto di dignità. E perché, soprattutto, altre forze politiche si ostinino a tentare di cooptarli al governo prima che abbiano imparato l'abc della democrazia interna. La capogruppo Lombardi, in diretta streaming, ha detto che loro non parlano con le forze sociali, perché loro «sono» le forze sociali. Sono una parte del mondo, ma si vivono come un «tutto». Ma quel «tutto», concentrato e deportato su un pullman verso località segrete irraggiungibili dall'opinione pubblica, ieri ha fatto una figura francamente incredibile. Chissà se qualche ribelle non ha ripreso tutto di nascosto. Sarebbe un formidabile contrappasso per i maniaci della trasparenza a giorni alterni: cioè solo quando fa comodo a loro.

il Fatto 6.4.13
Eva Klotz.  Con Grillo è tornata democratica


Chi l’ha vista a Servizio pubblico giovedì sera, con la trecciona e il vestito tirolese, propugnare accorata la secessione dell’Alto Adige in tempi rapidi, prima che si affermi in Italia la dittatura grillina, può essere rimasto disorientato. Ma i più esperti avranno detto: “Klotz, questo nome non mi è nuovo”. L’indomita combattente per l’autodeterminazione del Sud Tirolo, che a Bolzano è parente stretta delle nostalgie di Grande Germania, è la figlia di Georg Klotz, “il martellatore della Val Passiria”, terrorista pluricondannato e tra i responsabili della strage di Malga Sasso (1966, tre finanzieri morti). Eva, che rivendica di non tagliarsi i capelli dal 1952, dice di suo padre: “Se mio padre era un terrorista, allora lo era pure Garibaldi”. Quindi: Garibaldi terrorista, Grillo nazista, Eva Klotz grande intellettuale di sinistra. È tutto chiaro.

l’Unità 6.4.13
I Pirati a Roma Reinhardt: «5 Stelle? Impensabile da noi»
di Rachele Gonnelli


È una sconfessione totale, quella dei pirati italiani e europei verso il Movimento Cinque Stelle. Fabio Reinhardt è un deputato tedesco, eletto dal Piratenpartei nel Land di Berlino ed è venuto a Roma per il lancio del Partito Pirata italiano, al suo debutto in una elezione, quella per il Comune di Roma. Ammette di aver osservato con interesse e curiosità al fenomeno Beppe Grillo, ma dice «c’è un elemento essenziale che ci divide, noi pirati siamo per una partecipazione dal basso mentre i Cinque Stelle hanno una struttura verticistica basata sulla leadership di una sola persona». Di più, aggiunge seccamente Reinhardt: «Sono contento che da noi in Germania non sarebbe neppure possibile a una struttura simile presentarsi alle elezioni, la legge tedesca lo impedisce, in quanto mancante di una struttura realmente democratica sarebbe illegale». Ma c’è anche un altra differenza tiene a precisare «noi siamo favorevoli all’euro, siamo casomai per migliorare l’integrazione dell’Europa, non certo per smembrarla».
I pirati italiani non sono più teneri. Felice Zingaretti, aka FeNix, capolista a Roma del Jolly Roger arancione, spiega che se è vero che per loro il metodo decisionale è non tutto ma quasi, la differenza è abissale. «Noi utilizziamo un sistema di assemblea permanente mentre i grillini hanno un board, dei portavoce, lobby e società che li finanziano e non usano nessuna delle piattaforme partecipative su internet». La parola magica qui è liquid feedback, la piattaforma di condivisione delle decisioni che il candidato Nicola Rossi mostra con orgoglio.
«Niente a che vedere con i loro meet up, che non sono altro che forum di discussione ma non hanno niente di decisionale, infatti le decisioni le prendono al massimo in tre persone», dice intendendo Grillo, Casaleggio e suo fratello. Rossi spiega che la professionalità e la mediazione sono previste «prevediamo una delega, attraverso catene di fiducia, e il metodo Schulz scegliamo la decisione non più votata ma più condivisa». Dove Schulz non è una soluzione per capelli ma un algoritmo per la ponderazione dei click. «Senza contare che i grillini non dimostrano molta sensibilità per le problematiche sociali, che invece per noi sono fondamentali», conclude. Persino lilo, ovvero Alessandra Minoni, una delle fondatrici italiane del partito degli hacker, che pure ammette di aver avuto iniziali simpatie e contatti con il movimento grillino, sostiene di essere rimasta «annichilita dopo il voto» per l’ingerenza del leader sulle discussioni in rete. «Il Cinque Stelle è stato un movimento di rottura dice lilo e la base di attivismo è la stessa a cui ci rivolgiamo noi, finora chi era a disagio con la vecchia politica li ha votati perché siamo stati troppo timidi e temevamo di non farcela a raccogliere le firme per la lista alle politiche ma adesso sono molti gli scontenti, ci aspettano».
Il partito Pirata italiano è uno dei più “vecchi” in Europa, nato nel 2006 insieme a quello svedese, il quale ha mandato poi anche due europarlamentari a Strasburgo, e si presenta però per la prima volta ad una elezione a Roma. Il simbolo della bandiera stilizzata in una pi era stato presentato al Viminale prima delle ultime politiche, per altro subito copiato da una lista civetta poi ricusata, ma spiegano gli “hacker doc” «allora volevamo solo per esserci, non candidarci». Ora è un’altra cosa, la loro lista, rigidamente scelta attraverso il web, è schierata a sostegno della candidatura a sindaco di Sandro Medici, ex giornalista del manifesto che da tanti anni presiede uno dei municipi più popolosi della capitale, il X, portando avanti battaglie di prima linea sul registro per le coppie di fatto anche omosex, il diritto alla casa, il testamento biologico e più recentemente la civil card, sorta di pre-cittadinanza data dall’anagrafe a tutti i bambini figli di immigrati nati nel municipio e lì residenti. «È stato un innamoramento» così viene descritto l’incontro tra Medici e il sindaco «ideale» dei pirati, Josef Yemane Tewelde, aka Jojo, candidato incandidabile visto che, pur essendo nato a Roma 32 anni fa da genitori eritrei e pur parlando un romanaccio peggiore di quello dei Cesaroni, non ha mai ottenuto la cittadinanza. «Perché i deputati non fanno la legge sulla cittadinanza, a costo zero, invece di rinchiudersi in stanze e agriturismi?», chiede Medici.

l’Unità 6.4.13
Bilancio, se la democrazia non è sovrana
di Paolo De Ioanna


NELLA LETTERATURA ECONOMICA CHE SI È SVILUPPATA NEGLI ULTIMI DECENNI, L’INTRODUZIONE di regole di bilancio numeriche permanenti (sulle entrate, sulla spesa, sul debito, sui saldi di bilancio) vengono giustificate con la necessità di limitare la discrezionalità del policy-maker (cioè di chi è responsabile delle scelte), il quale, a causa della sua struttura degli incentivi, tende a comportamenti non virtuosi nella gestione della politica di bilancio. Negli ultimi 25 anni vi è stata una proliferazione di regole di bilancio numeriche, soprattutto nei Paesi europei. Nell’ambito europeo, inizialmente esse riguardavano principalmente i livelli di governo sub-centrali, successivamente sono state introdotte a livello dell’intera pubblica amministrazione e/o del sotto-settore della previdenza. Il fenomeno si spiega sia con l’aumento della spesa previdenziale, sia con i requisiti del Patto di stabilità e crescita, che pone vincoli sul deficit della pubblica amministrazione e sul debito dell’intero settore pubblico. Le regole di bilancio, come detto, possono essere di tipo diverso, alcune possono avere un senso in un determinato contesto economico-istituzionale, altre no. La regola sul pareggio di bilancio nelle Costituzioni, a parere di chi scrive, non ne ha. È il frutto di un ideologismo dannoso, contestato da una ampia platea di autorevoli economisti.
L’argomento principe che utilizzano i sostenitori italiani delle regola del pareggio di bilancio in Costituzione è in sostanza questo; è vero che non c’è nessuna ragione teorica specifica a favore di una siffatta regola rigida e difficilmente modificabile (essendo in Costituzione) ma, visto il cattivo uso che la politica italiana ha fatto della discrezionalità, è bene rinunciarvi (sub specie di una regola costituzionale). Per ora, sostengono, non possiamo che piegarci alla dura realtà delle cose. È in sostanza questo lo stato d’animo che nel tratto finale del 2011, sulla base di una forte crisi finanziaria e della coeva lettera inviata dalla Bce, ha convinto tutte le forze politiche presenti in Parlamento ad imboccare risolutamente la strada dell’inserimento dei criteri del Fiscal Compact (un trattato internazionale) in Costituzione: equilibrio strutturale di medio periodo. E poi, si è detto, se non funzionano questi criteri, poco male: ci sono tante norme costituzionali inapplicate; una in più non sarà poi un gran problema. Coactus, tamen voluit, si potrebbe dire del nostro Parlamento.
Nell’agosto del 2011 mi era sembrato (insieme ad altri) opportuno invitare ad una riflessione meno affrettata e più pacata sui nessi che legano tempi ed esigenze della democrazia rappresentativa e regole numeriche di bilancio; prima di abbandonare un approccio di tipo procedurale era bene capire con cura che cosa ciò implicasse; che cosa aveva funzionato e che cosa invece era stato omesso nella applicazione delle regole già in essere, soprattutto a partire dalla nostra entrata nell’euro zona con i Paesi fondatori (1998). Ma ha prevalso una grande voglia di «virtù» teutoniche; curioso che quelli che scoprivano d’improvviso queste virtù erano in sostanza gli stessi che da venti anni, sotto diverse bandiere politiche, ma sempre in nome della tecnica, e con una certa arroganza verso i politici, avevano contribuito in modo sostanziale al disastro dei tempi presenti. Dunque non è un sofisticato argomento teorico che ha prevalso, ma solo un nodo pratico: dobbiamo redimerci di gravi «peccati» e omissioni commessi dalla politica nel passato. Non abbiamo saputo introiettare regole di equilibrio e allora ce le lasciamo imporre dall’esterno, anzi le scriviamo direttamente in Costituzione. Vale allora la pena tornare ancora sul tema.
Nel presente mi sembra che risultano in forte tensione tre forze che assumono all’interno del proprio agire il tempo come variabile cruciale: le forze della democrazia, gli investitori privati che scommettono sull’economia reale. i finanzieri globali. La democrazia deve dare risposte plausibili (lavoro, sviluppo, ecc) in un orizzonte ragionevole ai cittadini; gli investitori privati possono rischiare se vedono occasioni reali di guadagno in tempo idoneo (medio periodo) a recuperare il capitale investito; i finanzieri privati che giocano nel mondo globale devono tenere i capitali gestiti in continua tensione speculativa, a breve. Se le democrazie perdono la propria sovranità, anche monetaria, sono nelle mani delle altre due forze. Per non perdere la propria sovranità, anche monetaria, devono mantenere una rotta di equilibrio e di controllo delle proprie finanze; se perdono questa rotta e si consegnano ad un’altra sovranità rischiano il tracollo se questa nuova sovranità (nel nostro caso l’eurozona) non ha gli strumenti per difendere la democrazia dagli attacchi di chi ha un orizzonte del tempo che non include gli interessi e le esigenze dei cittadini e quindi della democrazia.
L’Europa è in questo dilemma. Coloro che sono interamente dentro la spiegazione delle cose propria degli investitori e dei finanzieri globali consigliano alle forze politiche nazionali silenzio, cautela, rigore e attesa, mentre lentamente le riforme di struttura dovrebbero fare il loro duro cammino sul lato della offerta (mentre nel frattempo la domanda aggregata crolla per l’imposizione del mantra dell’austerità nei paesi periferici). Per costoro la struttura ontologica è costituita dal tempo degli investitori privati e dei finanzieri. Per rompere questo gioco c’è, ad avviso di molti e di chi scrive, una sola via: un potere pubblico che investe e crea ricchezza dove non operano i privati. Ma perché ciò accada questo potere deve essere alla base del valore giuridico della moneta come strumento che fonda, stabilizza e regola le transazioni. L’esperienza storica presente torna a dirci che ciò è ben possibile vedi i nuovi target della Federal Reserve Usa, della Bank of England, della Nippon Central Bank della Banca centrale della Cina popolare ecc a condizione che si faccia tesoro degli errori del recente passato. E che si ragioni a scala europea, se l’Europa deve avere un avvenire democratico che si fa carico delle esigenze di tutti i cittadini dei Paesi membri.

l’Unità 6.4.13
La tentazione presidenzialista nell’Italia dello stallo
di Marco Olivetti


È ormai evidente che, fra le possibili conseguenze dell’attuale crisi politica e dello stallo in cui si trova il tentativo di dare un governo all’Italia, la ricerca di uno sbocco di tipo presidenziale non può essere ritenuta del tutto irrazionale. La crisi del sistema dei partiti sembrerebbe infatti trasmettersi, come un virus, al sistema istituzionale.
Imponendo l’abbandono del regime parlamentare e l’opzione per un’altra forma di governo, caratterizzata dall’elezione diretta del Capo dello Stato e dall’attribuzione a esso di rilevanti poteri di direzione politica, secondo le diverse varianti dello schema semipresidenziale o (meno frequentemente) presidenziale, oppure dall’elezione del Primo Ministro secondo lo schema del cosiddetto «sindaco d’Italia».
In questa direzione spingono due ordini di argomenti, per alcuni aspetti contraddittori fra loro, ma di indubbio rilievo. Il primo muove dalla constatazione della crescita dei poteri presidenziali verificatasi nella nostra prassi costituzionale e culminata nell’attuale Presidenza, soprattutto nella sua fase finale (dal 2011 a oggi). Di fronte alla crescita del ruolo presidenziale determinato prima dall’emergenza economica del 2011, poi dall’esistenza di un governo tecnico di iniziativa presidenziale e ora dalla crisi politica, molti credono che il Presidente della Repubblica abbisogni di una legittimazione diversa da quella che l’attuale sistema di elezione gli assicura. L’elezione diretta avrebbe in questa prospettiva la finalità di assicurare che l’accresciuto ruolo presidenziale (ormai non più rubricabile come una mera garanzia) sia supportato da una investitura popolare. Del resto anche alcune discutibili iniziative di questi giorni (come la scelta online del loro candidato alla Presidenza della Repubblica, annunciata dai deputati pentastellati o la petizione in favore di una donna al Quirinale), se appaiono del tutto irrituali, sono comunque il segno di un mood diffuso, non certo nuovo (si pensi alle iniziative pro-Bonino nel 1999), ma sempre più forte.
Il secondo ordine di argomento prende invece le mosse non dalla crescita in fatto dei poteri presidenziali, ma dalla situazione di crisi politica. Un sistema politico come quello italiano attuale, assoggettato a spinte fortemente centrifughe, non sarebbe in grado di assicurare la governabilità facendo leva sullo strumento cui punta il regime parlamentare: i partiti politici e la loro capacità di autoregolazione. In questo contesto, la crisi italiana del 2013 sarebbe una riedizione, con oltre mezzo secolo di ritardo, di quella francese del 1958, con i deputati pentastellati visti come generatori involontari del presidenzialismo allo stesso modo in cui lo furono i generali putschisti francesi che nel maggio 1958 volevano impedire l’indipendenza dell’Algeria. E come i generali francesi non riuscirono a impedire il superamento dell’Algerie française, i grillini dalla cultura assembleare sarebbero gli incubatori di una svolta para-presidenziale. Se nella prospettiva del primo argomento basato sul rafforzamento dei poteri presidenziali si dovrebbe reagire a un presidenzialismo di fatto (ancorché parziale e incipiente) con un sovrappiù di legittimazione democratica, la seconda linea argomentativa vede in una presidenzializzazione formale del sistema istituzionale la cura delle inefficienze del regime parlamentare.
Sarebbe riduttivo sottovalutare il peso dei due argomenti ora esposti, in quanto essi muovono da dati di fatto difficilmente contestabili (la crescita in fatto dei poteri presidenziali; la situazione di blocco in cui ci troviamo). Si può tuttavia dubitare che una svolta in senso presidenziale sia davvero la risposta più adeguata alle sfide lanciate dai due dati di fatto ora citati.
In primo luogo troppo spesso, in una parte della cultura giuridica e politica italiana, vengono sottovalutati la complessità del sistema francese e l’originalità che esso riveste in prospettiva comparata. Il semipresidenzialismo d’Oltralpe comunque lo si valuti è un caso unico: assetti formalmente analoghi dal punto di vista costituzionale producono assai più spesso regimi parlamentari corretti (ad esempio nell’est Europa) o regimi superpresidenziali squilibrati (in Russia e in Africa Nera). Cosa ci garantisce che innestare l’elezione diretta del Presidente su un assetto parlamentare (magari aggiungendovi il doppio turno di collegio) ci porterebbe necessariamente a Parigi (e non a Mosca o a Weimar)? Inoltre lo stesso sistema francese è troppo spesso sopravvalutato: esso produce un eccesso di concentrazione di poteri e di aspettative nel Presidente, il quale, soprattutto in regime di quinquennato, è facilmente sballottato dalla polvere agli altari, come le vicende di Sarkozy e di Hollande hanno ben dimostrato. Siamo sicuri che un meccanismo di questo tipo sarebbe davvero curativo rispetto alla situazione di crisi attuale?
In secondo luogo, c’è da chiedersi se l’azione riformatrice non debba in primo luogo assumere un’altra direzione: quella della legge elettorale, da un lato; e quella della riforma del bicameralismo, dall’altro. Mantenendo immutate le regole attuali su questi due profili, l’introduzione dell’elezione diretta risolverebbe ben poco. Con riforme adeguate di essi, non sarebbe, forse, necessaria.

il Fatto 6.4.13
Compassi e grembiulini: massoni in cerca di potere
A Rimini l’appuntamento del Grande Oriente
2500 delegati per capire chi comanda a Roma, in Vaticano e tra i fratelli
di Gianni Barbacetto


Duemilacinquecento persone con grembiulino, collare e guanti bianchi si aggirano per il Palacongressi di Rimini. Sono i delegati della Gran Loggia 2013 del Goi, il Grande Oriente d’Italia, la più numerosa delle obbedienze massoniche italiane (22 mila “fratelli”, 791 logge). Il tema di quest’anno è “Liberi di costruire”, la discussione è su “responsabilità, partecipazione e rinnovamento”, ma la crisi della politica ha sempre galvanizzato la massoneria: quando i partiti sono deboli, sono più forti le logge. Trasversali alla politica.
IL TEMPIO ricostruito nella grande sala del Palacongressi sembra uno studio televisivo pronto per un programma esoterico: musica soffusa celtico-irlandese di Enya, candele accese, ai lati dodici colonne doriche (in polistirolo) con i simboli dello zodiaco, sopra un cielo stellato e in fondo l’altare con i simboli massonici, la squadra, il compasso. Ma non è solo folclore: qui, tra compassi e grembiulini, si incrocia una parte del potere vero. Certo, è inutile cercare tra i delegati i nomi eccellenti della finanza, dell’industria, della politica; ma ci sono gli avvocati, i funzionari, i professori universitari, i medici, gli amministratori che costituiscono una parte del potere diffuso sul territorio, specialmente al Sud. Tutti alle prese con il rebus, per niente esoterico, di un momento storico in cui il Vaticano, vecchio avversario della massoneria laica e liberale, ha saputo rapidamente darsi un nuovo papa, mentre la politica non riesce neppure a darsi un governo.
Il Gran Maestro Gustavo Raffi continua a ripetere che la massoneria non fa politica. Ma la fanno i massoni, e mandano segnali. Ai tempi dello scontro elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, Raffi, avvocato romagnolo di cultura repubblicana, aveva detto che “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Poi aveva vinto Berlusconi e quell’affermazione era stata addomesticata. All’arrivo sulla scena politica di Mario Monti, grande apertura di credito per il “professore”. Credito ritirato: “Bisogna rinnovare la politica”, dice Raffi, “dal Paese sale un desiderio di cambiamento che dice: questi basta! ”. Il Gran Maestro è grillino? “Cogliamo il segnale che viene lanciato contro una politica malata”. Se è un abbraccio a Grillo, non è ricambiato. Proprio ieri il Movimento 5 Stelle del Friuli-Venezia Giulia ha annunciato che caccia dalle sue liste per le regionali Fulvio Di Cosmo, perché iscritto alla loggia di Trieste. La massoneria è invece più sorniona e inclusiva, non ha più pregiudizi ideologici. Ospite della Gran Loggia, qui a Rimini, un solo parlamentare della Repubblica: è Emma Petitti, deputata riminese del Pd. C’è lo scandalo del Montepaschi che proietta ombre da Siena fino a Rimini. In Mps, è stato scritto, funzionava un “Groviglio armonioso” che, nella città toscana ad altissimo tasso massonico, teneva insieme Giuseppe Mussari e Denis Verdini, Pd e berlusconiani. Con Raffi consulente del Montepaschi. Il Gran Maestro nega: dice di non sapere nulla di un Mussari massone; quanto a Verdini, appartiene semmai ad altre “parrocchie”, diverse dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani. “Io poi sono addirittura una vittima del Montepaschi: lo studio Raffi era consulente di una banca poi acquistata da Antonveneta, consulenza interrotta con l’arrivo dei senesi”.
FRATELLI COLTELLI: resta alto il tasso di conflittualità interno alla massoneria e l’opposizione al Gran Maestro che da ben 15 anni guida il Grande Oriente. Ma l’anno prossimo scade il suo terzo mandato e difficilmente riuscirà a inventarsi qualcosa per restare in pista. Qui a Rimini, nella moltiplicazione dei tre baci rituali tra i fratelli di tutt’Italia che s’incontrano, si cerca il successore. “Non è facile trovarlo”, dice Raffi, “perché la massoneria non è un'azienda, con relativi superstipendi: ci vuole un sognatore, che si dedichi all’Istituzione per passione morale”. Nell’attesa è già guerra aperta per la successione. Raffi approfitta dell’ultima Gran Loggia da Gran Maestro per lanciare grandi aperture, magari non proprio coerenti tra loro: alle donne, ancora confinate in un ruolo non paritetico dentro il Grande Oriente; a papa Francesco, con cui vorrebbe dialogare e che imita, accogliendo e salutando i fratelli all’uscita del Tempio, al termine dei lavori; ai valori laici, ribadendo che la massoneria è per la scuola pubblica e per leggi più avanzate sui temi etici, dalla procreazione all’eutanasia. Attorno a lui, Alessandro Cecchi Paone, l’ex segretario del partito liberale Valerio Zanone, il presidente emerito della Corte costituzionale Antonio Baldassarre, il professore ex Pci Aldo Masullo. E Ornella Vanoni, che canterà per i delegati.

Corriere 6.4.13
Il vento dell'antipolitica anche nella massoneria: ora etica e rinnovamento
di Francesco Alberti


RIMINI — Più che grembiulini e compasso, il maestro libero muratore, Gustavo Raffi, 69 anni, romagnolo da Bagnacavallo, anima repubblicana da 14 anni ai vertici della più grande e antica obbedienza massonica italiana (il Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, 22 mila affiliati, 720 logge), stavolta ha scelto il piccone, perché sarà anche vero, come scandisce a scanso di equivoci davanti ai 3 mila delegati del Palacongressi di Rimini, che «la massoneria regolare non ha scopi politici, né tantomeno entra nell'agone della competizione partitica», ma basta guardarsi intorno (e uno dei maggiori simboli massonici è, guarda caso, proprio l'Occhio di Dio) «per accorgersi con un certo sconforto che nell'azione delle nostre classi dirigenti la responsabilità è la grande assente, si preferisce il modello autoritario della deresponsabilizzazione senza rendersi conto che il potere senza responsabilità è marca distintiva della tirannide, non della democrazia».
Altro che atmosfere esoteriche e candelabri, comunque sempre fondamentali a queste latitudini, il dato nuovo è che i Liberi Muratori, «antichi costruttori di cattedrali», hanno deciso di calarsi fino in fondo tra le macerie reali e morali di un'Italia che, della crisi, respira gli umori più torbidi. Qualcuno, tra i tubi del Palacongressi, parla di «svolta», di un Grande Oriente di lotta (certo non di governo), deciso a farsi interprete del disagio che zavorra il Paese. «La fuga dei nostri migliori cervelli è indice di una morte annunciata» tuona Raffi dal palco. E aggiunge: «L'umanità è per noi infinitamente più importante dell'economia: la solidarietà è fondamentale e, per questo, le élites che hanno sbagliato devono pagare, ma non ci sembra tollerabile che popoli come quello greco o cipriota siano ridotti alla fame». Il titolo stesso di questa Gran Loggia 2013 — 3 giorni di dibattiti, musica (stasera il concerto di Ornella Vanoni) e libri — ha il sapore di una frustata alla politica ingessata: «Responsabilità, partecipazione, rinnovamento: l'etica del cittadino, il coraggio delle scelte». Raffi, è un caso o si respirano arie grilline? «Per carità — risponde il Gran Maestro —, il nostro è un grido di dolore verso una classe politica incapace di vedere l'interesse generale. Stavolta la rabbia della gente si è coagulata attorno ai 5 Stelle, ma avrebbe potuto prendere altre sembianze». Si farà un governo? «Il problema è la qualità dell'azione di governo». È una Gran Loggia senza pulsioni congressuali. Raffi ha ancora un anno di mandato, poi sarà battaglia per la successione. «È un momento di sofferenza della democrazia — dice Antonio Baldassarre, presidente emerito della Consulta durante il talk show condotto da Cecchi Paone —: bisogna ripartire dalla ricostruzione del ceto medio altrimenti avremo solo ricchi e straccioni». E Valerio Zanone, ex segretario del Pli: «Nel vuoto di oggi può succedere di tutto». In platea, anche i fratelli della Gran Loggia di Cuba: «Massoneria di popolo...» gonfia il petto Raffi.

La Stampa TuttoLibri 6.4.13
Discorsi e interviste del leader del Pci
Berlinguer, il vizio di sbattere contro la realtà
Dall’austerità al compromesso storico: il disperato tentativo di trovare un’applicazione democratica del socialismo sovietico
L’errore dei suoi eredi: farne un feticcio immune da critiche, firmando anche la loro sconfitta
di Mattia Feltri


Enrico Berlinguer «La passione non è finita» Einaudi pp. XXXVIII 174 € 12

Siamo ancora lì: al cocciuto tentativo di Enrico Berlinguer. Emerge questo, più che un’attualità di pensiero già scricchiolante trenta e trentacinque anni fa, se si leggono integralmente i discorsi e le interviste dell’ultimo grande leader del Partito comunista italiano, radunati da Miguel Gotor per Einaudi. Il cocciuto tentativo, che si parli di questione morale o austerità o compromesso storico, cioè dei capisaldi del pensiero politico di Berlinguer, era di trovare il pertugio che conducesse i comunisti al governo. Di trovare disperatamente un’applicazione moderna e democratica del socialismo sovietico. Qualcosa che in parte ricorda lo sforzo sterile di Michail Gorbaciov di lì a poco. Ma se, per esempio, partiamo dalla questione morale posta nella celebre conversazione con Eugenio Scalfari del 1981, bè vi si trova di tutto - lo nota lo stesso Gotor - tranne che una fremente accusa della corruzione, posta invece come sbrigativo preludio. La questione morale risiedeva piuttosto «nell’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi». Se gli allievi di Berlinguer avessero letto meglio, forse la Seconda repubblica avrebbe avuto sbocchi meno ossessivamente giustizialisti (al netto delle colpe di Silvio Berlusconi) ed esperimenti come quello di Siena con la sua banca, per dirne una, non sarebbero partiti. Dall’occupazione dello Stato, Berlinguer parte per fondare la famosa «diversità» quasi antropologica dei comunisti (facendo arrabbiare Giulio Natta e Giorgio Napolitano), e per trovare la causa «prima e decisiva» della deriva immoralistica: «La discriminazione contro di noi».
Sono giudizi che arrivano quando il compromesso storico è ormai fallito. Dc e Pci non concluderanno il percorso di avvicinamento che Berlinguer aveva un po’ ambiguamente fondato anche in un’intervista a Giampaolo Pansa, in cui (giugno 1976) disse di sentirsi «più sicuro stando di qua», cioè sotto il famoso cappello della Nato. Ma il discorso che Berlinguer aveva pronunciato pochi mesi prima (febbraio 1976) al XXV congresso del Pcus a Mosca è molto più contenuto, e neppure accenna alla questione. Non per viltà, si direbbe, quanto per la complicazione di confermarsi leninista e proporsi europeo, democratico, parlamentarista. Sul punto Scalfari addirittura ci impazzisce (altra intervista, agosto 1978). Chiede a Berlinguer in che modo sia leninista; il segretario ci mette due pagine a rispondere, due pagine sfiancanti sulla modernità e non modernità della Rivoluzione d’ottobre, dei soviet, i nuovi rapporti fra masse lavoratrici e popolari eccetera, e alla fine Scalfari si ribella: «Ma insomma, siete leninisti o non lo siete? ». Non è una curiosità, specifica il direttore, ma un rilievo politico. Altre due pagine e allora Scalfari non teme di essere liquidatorio: «Lei dunque non rinnega Lenin... ». «Ma per carità! », risponde Berlinguer.
Il terribile e apprezzabile tentativo di inserire il Pci in un contesto storico che andava da tutt’altra parte si scontrava con l’anima di un uomo immerso in un’idea già morente: è un peccato perché Berlinguer coglieva la necessità di compiere un passo che non gli riesce. E che forse non poteva riuscirgli senza strappi ben più sanguinosi. La differenza fra il Pci e i socialisti, dice ancora in quegli anni, è che i socialisti non sono «per il superamento del capitalismo». Dopo il golpe in Cile, denuncia negli Usa «lo spirito di aggressione» e «la tendenza a opprimere i popoli» che non vede nell’Urss, invece decisiva nel sostegno alla meravigliosa «Cuba socialista». È un articolo fondamentale nella teoria del compromesso storico, a cui il segretario aspira perché teme una saldatura tra fascisti e clericali; ma la sua terza via è tutta una curva e una buca, lo si evince a ogni riga.
E anche la belle pagine sull’austerità si rivelano senz’altro una lucida e tempestiva stroncatura del consumismo («l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali», «idola capitalistici: l’individualismo esasperato, l’edonismo, la rincorsa del guadagno facile, alto e immediato; la fuga dalle responsabilità e la ricerca del poco lavoro e del poco rischio; l’invidia del potere; l’assillo di pervenire a uno status sociale di successo... »), ma purtroppo sono i presupposti, una volta di più, non per correggere il capitalismo ma per abbatterlo. L’austerità salverà l’economia e naturalmente fonderà una «moralità nuova». Non serve a niente che Norberto Bobbio faccia notare a Berlinguer l’ovvietà che per molti il consumismo coincideva con la speranza. Anche questa strada - non riconducibile all’austerità di Mario Monti, immersa nella finanza - andrà a sbattere contro la realtà. E purtroppo gli eredi di Berlinguer non sapranno ripartire dai suoi ciclopici sforzi per superarne gli errori: di lui faranno un feticcio immune alla critica, di modo che i postcomunisti, come i comunisti, saranno attesi dalla sconfitta.

Repubblica 6.4.13
Il mistero del S. Giovannino di Caravaggio
di Claudio Strinati


L’arrivo a Siena, nella cripta dal Duomo, da 17 aprile al 18 agosto, del cosiddetto
San Giovannino della Pinacoteca Capitolina di Roma, ha un senso profondo perché tra Siena e il Caravaggio c’è un legame. Fu infatti un senese illustre, il medico Giulio Mancini, il primo in assoluto a scrivere la biografia di Michelangelo Merisi, da lui conosciuto personalmente. Mancini ha costruito l’immagine del Caravaggio che ancora domina la mente dei suoi estimatori e dei suoi detrattori. Ne racconta la giovinezza povera e disperata, ne mette in evidenza il carattere violento, intrattabile, iracondo, e spiega come questo mezzo matto avesse però inventato uno stile nuovissimo e incomparabile. Giulio Mancini fu clinico illustre e medico personale del papa Paolo V Borghese, zio di quel cardinale Scipione che del Caravaggio era stato ammiratore e nemico. Mancini ebbe in cura il Caravaggio all’Ospedale della Consolazione dove il Merisi fu ricoverato a seguito di un incidente. Forse in quell’occasione divennero amici e lo rimasero poi sempre.
Il San Giovannino fu dipinto dal Caravaggio presumibilmente proprio al tempo dell’incontro col Mancini. Rimase poi misconosciuto fino al 1953 quando Sir Denis Mahon, uno dei più grandi storici dell’arte del secolo scorso, lo riscoprì seminascosto nell’ufficio del Sindaco di Roma. È un capolavoro, bellissimo, carico di materia luminosa e tersa (oggi ben percepibile grazie a un magistrale intervento di restauro di Nicola Salini sotto la guida di Sergio Guarino), perfettamente a proprio agio, sorridente in atteggiamento di sfida chiara e esplicita, all’epoca e ancora oggi. Si ritiene che sia identificabile con un San Giovannino dipinto nel 1602 per il duca Ciriaco Mattei, riscontrando una serie di citazioni di un quadro di tale argomento negli antichi inventari. Ma il Caravaggio non sarebbe Caravaggio se non ci fosse sempre qualche mistero, dubbio o errore gigantesco dietro alle sue opere.
Che il quadro sia suo, non ci piove. Ma è veramente un San Giovannino?
L’esperto inglese Clovis Whitfield ha sostenuto che il soggetto di questo quadro sia, invece, un personaggio mitologico di cui parlano Teocrito, Virgilio e Ovidio, il pastore Coridone, perdutamente innamorato del suo compagno Alexis. In Ovidio Coridone salva la vita all’amico Batto estraendo dal suo piede una spina velenosa che lo avrebbe portato alla morte, delicata storia di amori omosessuali dall’antichità greca. Che il personaggio effigiato dal Caravaggio non abbia alcun carattere di santo sembra esplicito. C’è, poi, chi lo ha creduto un Isacco che sorride contento per essere scampato alla morte. San Giovanni Battista non ha l’ariete come suo attributo e invece nel quadro si vede un bel montone con tanto di corna, simbolo del primo segno zodiacale quando il mondo entra nella primavera di marzo. Quel che conta è che il personaggio sorride beato. Potrebbe essere un simbolo di vita, dunque, che si risveglia, di amore lieto, “gay”, come si dice oggi e si adombrava, a quanto pare, anche qualche tempo fa.

Repubblica 6.4.13
La macchina che cattura i sogni “Leggere nella mente è possibile”
Così gli scienziati riportano a galla desideri e fantasie
di Alessandra Baduel


LONDRA — Inafferrabili e ingovernabili, ma buoni per il lotto come per lo psicoanalista, per l’amore come per la Cabala: inseguiti con ogni mezzo, i sogni restavano finora segreti. Bisognava poi ricordarseli, oppure rassegnarsi alla perdita di quel pezzo di vita che a volte sembra più reale di quella vissuta a occhi aperti. Ma l’inseguimento continua e il nuovo capitolo della caccia è l’esperimento di un gruppo di scienziati giapponesi appena pubblicato su Science.
Ben lontani dalle acrobazie dei protagonisti di Inception, il film con Di Caprio centrato sulla possibilità di condividere e anche innestare sogni, arrivando a vivere più vite in un incastro di scatole cinesi dove si sogna di essere svegli e addormentarsi sognando altri eventi, i ricercatori Tomoyasu Horikawa, Masako Tamaki, Yoichi Miyawaki e Yukiyasu Kamitani dell’Advanced Telecommunications Research Institute di Kyoto annunciano però la nascita di una macchina che i sogni li pesca. Le sue capacità sono ancora grossolane: siamo alla possibilità di prendere dal cervello del sognatore una serie di immagini semplici come una sedia, un’automobile, una casa, un essere umano. Ma il risultato è ugualmente importante. Come loro stessi scrivono, la scelta è stata quella di cercare di afferrare i sogni tramite un percorso di decodificazione neuronale nel quale una macchina arriva a vedere i contenuti attraverso il controllo dell’attività cerebrale. L’esperimento si è svolto in due parti, la prima già esplorata in passato e la seconda del tutto nuova. Tre volontari sono stati invitati a dormire ciascuno dentro una macchina per la risonanza magnetica con elettrodi applicati alla testa. Quando l’elettroencefalogramma indicava che il volontario stava sognando, veniva svegliato e invitato a raccontare.
In questo modo, precisano i ricercatori, si indagano solo le cosiddette “imagerie ipnagogiche”: quei sogni che si fanno appena addormentati o poco prima del risveglio. L’esperimento è continuato per vari giorni fino ad arrivare a circa 200 risvegli con relativo campionario ricco di sogni. A quel punto i volontari sono stati sottoposti a un flusso di centinaia di immagini, classificando le reazioni cerebrali davanti a ognuna. Il materiale raccolto è stato usato per mettere a punto un decoder “personalizzato” per ciascuno, in grado di collegare la reazione cerebrale di quel volontario all’immagine. A questo punto — e qui inizia la parte del tutto nuova dell’esperimento — i volontari sono stati messi di nuovo a dormire collegati alle macchine che registrano l’attività cerebrale.
Il momento della verità è arrivato quando il decoder è stato in grado di decifrare il tipo d’immagine sognata. Certo, precisano i ricercatori, la macchina acchiappasogni ha bisogno di stimolo umano e reagisce solo se sottoposta a due immagini diverse fra cui scegliere, come un tavolo e un albero. Né è in grado di “vedere” un’intera scena. Sa dire, per ora con una quota di riuscita del 60%, se nel sogno c’è una barca, ma non il tipo né l’azione che compie.
I primi commenti della comunità scientifica sono comunque positivi. Intervistato da Wired, il neuroscienziato dell’Università di California Jack Galliant si è complimentato: «Ci hanno mostrato che c’è una qualche corrispondenza fra quel che fa il cervello mentre sogniamo e quel che fa mentre siamo svegli». Quindi, come insegna Shakespeare, siamo proprio «fatti della materia di cui sono fatti i sogni»?

Repubblica 6.4.13
Il mostro dentro di noi
Nothomb: “Tutti viviamo con un nemico interiore”
intervista di Anais Ginori


L’autrice belga sarà ospite a Venezia di “Incroci di Civiltà”, il festival di letteratura internazionale Nel suo nuovo romanzo “Barbablù” riscrive la fiaba di Perrault, “ma la mia protagonista è più furba”

Amélie Nothomb ha trovato la chiave della sua stanza degli orrori. Un luogo dell’anima dal quale non rifugge, ma che anzi frequenta con assiduità. «Il mostro è qualcuno che ci assomiglia, solo più coraggioso. È una persona che ha smesso di essere addomesticata dallo sguardo altrui». Non stupisce dunque che Nothomb abbia scelto la fiaba di Barbablù, l’orco primitivo affetto da cannibalismo sentimentale, per festeggiare simbolicamente l’anniversario del suo esordio letterario. Dal 1992, quando all’età di ventitré anni pubblicò Igiene dell’assassino, la scrittrice belga, nata in Giappone, ha pubblicato un romanzo all’anno, con una precisione maniacale. «La scrittura continua a essere la mia ossessione, la mia salvezza », racconta Nothomb da mercoledì in Italia per una serie di incontri che si concluderanno sabato a Venezia, al festival “Incroci di Civiltà”.
Barbablù oggi non è più lo stupratore seriale Gilles de Rais né il sovrano poligamo Enrico VIII. È invece uno scapolo esteta, il nobile spagnolo don Elemirio Nibal y Milcar, che offre a prezzo stracciato l’affitto di una camera nel suo lussuoso appartamento parigino. Anche in questo caso c’è una giovane donna, Saturnine, che arriva dopo altre misteriose donne e si trova a convivere con il “mostro”, cercando di resistere alla tentazione di violarne i più inconfessabili segreti. Ma il nuovo romanzo di Nothomb, pubblicato come i precedenti da Voland e tradotto da Monica Capuani, capovolge la morale della storia.
Contrariamente alla fiaba di Charles Perrault, qui Saturnine non cede alla tentazione.
«Barbablù è la mia favola preferita anche se ha una trama assurda, ingiusta. Per esempio non si sa perché e come la prima moglie sia stata uccisa, che cosa sia successo dopo a tutte le altre. Barbablù viene trattato come un mostro tout court. Le donne sono semplicemente delle sceme. È una morale che trovo scioccante. Ho sentito il bisogno di offrire una versione alternativa».
La parte nascosta di Barbablù non è più indice di fragilità, ma di forza?
«Sono convinta che ognuno di noi abbia diritto ad avere una stanza inaccessibile agli altri. Viviamo in un’epoca in cui è difficile mantenere un segreto. Non utilizzo il computer e non frequento Internet. Una persona che svela tutto di sé non ha più nulla di affascinante. Essere completamente trasparenti equivale a essere invisibili. Ma non è solo una questione di immagine e strategie di seduzione. Credo davvero che il segreto sia una condizione per il rispetto dell’altro».
Come si convive, oggi, con un “mostro”?
«Basta guardare dentro di noi. È la cosa più naturale del mondo. Ho un dialogo mentale continuo con quello che chiamo il “nemico interno”. Una voce che mi ricorda, in ogni attimo, debolezze, errori e menzogne, una possibile pericolosità sociale. Come molte persone, ho un aspetto diurno e uno notturno. Nella parte oscura, il nemico interno è libero di esprimersi, non incontra alcuna resistenza. L’unico momento in cui riesco a placare questa voce è quando scrivo. È così che la mia parola diventa più forte della presenza ostile con la quale sono costretta a convivere».
Lei cerca di smentire il cliché secondo cui la curiosità è femmina?
«La fiaba di Perrault è profondamente ingiusta. L’ultima moglie di Barbablù è trattata come una poveretta, incapace di controllarsi. La mia Saturnine è più furba, complessa. Anche nella mia esperienza, il cliché di una curiosità morbosa delle donne è sbagliato. Io nutro un profondo rispetto per i segreti degli altri e so come evitare spiacevoli intrusioni, mentre mi capita spesso di subire l’invadenza di lettori maschi».
Eppure, nonostante la sua popolarità, riesce proteggere la sua vita privata, di cui
in fondo si conosce poco.
«Ho reagito alla notorietà continuando a fare una vita normale. Prendo il metrò per andare ogni mattina nel mio ufficio da Albin Michel, non passeggio con gli occhiali scuri come Greta Garbo. La corrispondenza che intrattengo con i lettori, così come gli incontri nelle fiere o nelle librerie, sono il mio unico spazio pubblico».
Quando scrive le capita di immaginare la reazione di chi la leggerà?
«La scrittura è un luogo privato, nel quale non per metto a nessuno di entrare. Non penso mai alla pubblicazione ed è per questo che ho così tanti manoscritti chiusi in un cassetto, quasi come la stanza segreta di Barbablù. La maggior parte della mia produzione letteraria non è stato pubblicata. Quando dico che la scrittura mi ha salvata non voglio usare una metafora vuota. Nel mio caso è tecnicamente vero. Penso che continuerei a scrivere anche se, per disgrazia, non avessi più un editore».
Finora la sua vena creativa non si è esaurita. Non pensa mai di prendersi un anno di pausa tra un titolo e l’altro?
«Non potrei farlo, rovinerei la mia salute. Da più di vent’anni ho lo stesso rito quotidiano. Sveglia alle quattro del mattino, tè nero a digiuno e almeno quattro ore di scrittura. Carta e penna, senza computer. Poi vado nel mio ufficio per rispondere alle lettere che mi arrivano. Senza questa routine sarei persa».
Barbablù è il suo ventunesimo romanzo. È riuscita a individuare un filo conduttore
in tutti i suoi libri?
«Di solito inizio pensando a due persone e a come si possono scontrare. Mi interessa il tema del conflitto, la relazione problematica all’altro che soggiace al desiderio e, in definitiva, anche al senso dell’esistenza».
Ispirarsi a una fiaba è anche un modo di riprendere un universo infantile?
«Come ci ha insegnato Bruno Bettelheim le favole non sono unicamente una lettura per bambini ma anche un mezzo per indagare percorsi umani. Mi auguro di non scrivere solo storie puerili ma nel mio processo creativo cerco sempre di ricreare un certo gioco infantile, una capacità di meraviglia e il rapporto diretto con il linguaggio che esiste nei primi anni di vita. Ho un ricordo nitido dei cinque anni passati in Giappone, spesso è mi proietto in quell’infanzia per cercare l’ispirazione».
A Roma presenterà anche il documentario che ha girato durante il suo ritorno in Giappone l’anno scorso.
«Erano sedici anni che non andavo nel paese dove sono nata e che è stato costitutivo della mia identità. Sono figlia di diplomatici belgi, ho viaggiato molto nella vita e dalla fine degli anni Novanta vivo a Parigi. Eppure crescendo mi sono accorta che è lì, in Giappone, che è rimasta la parte più importante di me. Dopo lo tsunami a Fukushima ho scritto il racconto Myrtilles per rendere omaggio a questa mia terra natale. Il Giappone ha una capacità di ricostruirsi dopo ogni distruzione che mi rassomiglia molto e mi permette di aver fiducia nel futuro».

Repubblica 6.4.13
Scalfari racconta un secolo di giornali
Cinque conversazioni con Antonio Gnoli sulla storia dell’informazione
di Nello Ajello


Vicende pubbliche o ricordi personali? Solo di rado questi due “generi” s’incrociano in maniera precisa e gustosa. È il caso di cinque conversazioni sulla storia del giornalismo che Eugenio Scalfari ha tenuto con Antonio Gnoli (aprono la serie “Testimoni del tempo” prodotta da Rai Educational). La prima uscita è in programma alle 12.55 di domani su Raitre. Il percorso si apre ai primi del Novecento, quando dominano fra i quotidiani due testate: il milanese Corriere della sera, liberale moderato, e a Torino La Stampa più vicina per forza di cose a un pubblico di estrazione operaia. I referenti politici sono per il Corriere Sonnino, Salandra, Orlando, fino a D’Annunzio, mentre La Stampa parteggia per Giolitti: il direttore Alfredo Frassati ne è un paladino. La distanza crescerà in vista della Grande Guerra: il quotidiano di Albertini soggiace a un’estasi interventistica.
La Stampa acuisce il suo neutralismo.
A quel punto c’è ancora tutto un secolo da raccontare. Sollecitato da Gnoli, Scalfari ispeziona sia le nozioni acquisite che la personale memoria. Eccoci al fascismo, che revoca il modello dei direttori-proprietari, come Albertini e Frassati, e si riserva, tramite alcuni padroni industriali, l’intero controllo delle testate. Poi il duo Gnoli-Scalfari si addentra nella “fronda” all’interno del regime, in un paio d’ore di trasmissione, entrano in campo i maggiori innovatori del mestiere, da Leo Longanesi a Mario Pannunzio, ad Arrigo Benedetti. Si ricordano Omnibus e di seguito L’Europeo, Il Mondo, i rotocalchi del rimpianto, da Oggi a Gente, che evocano Re e Regine. Poi ovviamente, L’Espresso e infine la Repubblica, frutto perfetto, per Scalfari, di lunghi decenni di professione. Si approda, per concludere, alle promesse e minacce del web. A Scalfari non appaiono poi tanto catastrofiche ai danni dell’informazione “su carta”.
La cavalcata è impegnativa. Vorrei tuttavia raccomandare agli spettatori di non perdersi, nella terza puntata, una vera chicca autobiografica. È ambientata nel tardo fascismo. Nato nel 1924, Scalfari, non ha potuto conoscere altra scuola che quella fascista: insegnanti, manuali, uniformi per adulti e bambini. E tuttavia quella cappa autoritaria presenta qualche traccia di “fronda”. Ne sono interpreti personaggi di spicco. Si chiamano Italo Balbo, ruvido nelle sue escandescenze, Roberto Farinacci, un fascista della prima ora. Perfino troppo compromissorio è invece Giuseppe Bottai, sulle cui riviste, da Critica fascista a Primato, si trovano firme di antifascisti veri e propri. Lo dimostreranno presto, sia nella guerra partigiana che dopo. Lui, il diciottenne Scalfari, scriveva su Roma fascista, l’organo del Guf agitato da obiezioni di marca generazionale. Durante un’improvvisa assenza del direttore, capitò ad Eugenio di pubblicare a sua firma tre di quei “neretti” che esprimevano la linea del giornale. Vi si criticavano alcuni ambienti colpevoli di organizzare speculazioni immobiliari a proprio vantaggio, sotto le ali del regime... L’autore di quei pezzi è convocato d’urgenza nell’ufficio del vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza. «Vieni in divisa», lo avvertono. E così il ragazzo si presenta: completo militare, spalline azzurre, cinturone, stivaloni. Scorza è un fascista integralissimo: sarà l’unico a votare per Mussolini nella fatale riunione del Gran Consiglio del fascismo, luglio 1943. Agita alcuni fogli di giornale. «I tuoi articoli », dice, «hanno infangato il regime. Senza prove». E prosegue: «I nomi, voglio i nomi». Scalfari improvvisa una difesa. «Sono voci che circolano. Roma fascista si limita a raccoglierle». A Scorza viene un’ultima idea. «Siamo in guerra. Perché non sei partito a difendere la patria?». «A noi universitari», è la risposta, «hanno concesso una proroga per motivi di studio…». È allora che il vicesegretario solleva dal pavimento il postadolescente che gli sta di fronte. Gli strappa le spalline, le calpesta. Infine urla: «Io ti avrei espulso dal fascio. Ma poi Vidussoni, il segretario del partito, ti ha salvato» Aldo Vidussoni — politicamente una mezza figura — è un vecchio amico dell’avvocato Pietro, il papà di Eugenio. Hanno partecipato insieme, da giovani, all’impresa di Fiume. Il perdono del ragazzo frondista ha dunque percorso un itinerario gerarchico: le dittature sono così. E anche questo, adesso, diventa storia del giornalismo.

Repubblica 6.4.13
Libri, riviste, film affrontano di nuovo il tema
In tempi di crisi la filosofia riscopre la felicità
di Roberto Esposito


È possibile, e che senso ha, in tempo di crisi strutturale, parlare di felicità? Si tratta di un tema scomparso dal nostro orizzonte di attesa o di una inesauribile riserva di senso di cui comunque non possiamo fare a meno? Una risposta positiva a queste domande viene adesso dalla rivista Filosofia politica, che dedica ben due fascicoli, curati rispettivamente da Carla De Pascale e da Laura Bazzicalupo, all’argomento. Il presupposto di partenza è che intanto l’inverno che ha congelato ogni aspettativa di benessere, prima o poi dovrà dare luogo a una nuova primavera. Ma, ancora di più, la circostanza che il concetto di felicità è emerso in superficie, o si è radicalmente rinnovato, proprio nelle situazioni di crisi. È quanto è accaduto nella stagione delle guerre di religione in Inghilterra, quando filosofi come Hobbes e Locke l’hanno posto al centro del proprio pensiero; e poi, ancora di più, durante la rivoluzione francese, allorché le riflessioni di Rousseau e Voltaire sembrano essersi realizzate in una pratica di felicità pubblica. È allora che, forse con un eccesso di ottimismo, Saint-Just ha ritenuto possibile non vedere più, in territorio francese, “né un infelice né un oppressore”. Quando Bentham, qualche decennio dopo, misurerà l’arte di governo sul parametro della “maggior felicità per il maggior numero di uomini”, l’incontro tra felicità e politica sembrerà cosa fatta.
In realtà quello che può apparire un percorso rettilineo si spezza in segmenti non sempre conseguenti e a volte contrastanti. Un solco profondo separa la felicità-sicurezza di Hobbes dalla felicità-libertà di Locke, così come dalla felicità sociale di Bentham e Mill. Una concezione relazionale della felicità si stabilizza solamente nella seconda metà del XIX secolo, lungo una linea che condurrà all’idea di Welfare in quello successivo. Per essere poi rimessa radicalmente in discussione nell’ultimo trentennio, quando in America come in Europa si sono affermate nuove politiche neoliberali, orientate al successo individuale. I processi di indebitamento che hanno condotto alla crisi non sono estranei all’idea che la felicità sia proporzionale alla quantità di piacere cui ciascuno, indipendentemente dagli altri e a volte anche a loro danno, riesce a conseguire. D’altronde il dichiarato diritto alla felicità, contenuto nel preambolo alla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, riguarda essenzialmente il singolo individuo piuttosto che la comunità nel suo insieme. È vero che esso, almeno in linea di principio, è attribuito a tutti, senza distinzione di genere, classe o razza. Ma proprio tale principio è stato troppe volte smentito dai fatti. È troppo facile ritenere che il black dream di Martin Luther King si sia pienamente realizzato nell’elezione di Obama. Raffaele Laudani nel suo saggio su “La felicità nera. Contro-storia di un mito americano”, compreso nei fascicoli richiamati, osserva che l’uragano Katrina, col suo impatto asimmetrico sulle vite degli abitanti di New Orlenas, ha rimarcato ancora una volta la soglia escludente che passa tra la condizione dei bianchi e quella dei neri.
Neanche l’epopea narrata da Chris Gardner nel suo The Pursuit of Happines, trasformato in grande successo hollywoodiano da Gabriele Muccino nel film La ricerca della felicità, riesce a perforare del tutto il velo della retorica del self made man. La struggente storia di amore di un padre nei confronti del figlio, che esso narra, resta interna al mito americano dell’uomo sempre in grado di modificare il proprio destino sociale, passando dal ghetto di San Francisco ai grattacieli di Wall Street. È vero che un nuovo filone di studi – di cui parla nel suo saggio Nadia Urbinati – interpretato da autori come Amartya Sen e Martha Nussbaum, sta forzando le griglie asfittiche della tradizione liberale con robusti innesti di filosofia sociale. Lo spostamento dell’attenzione dalle regole astratte alle reali condizioni di esistenza ha prodotto una conversione del concetto di happiness.
Esso, più che ai soli interessi materiali, è relativo al complesso delle prospettive e delle opportunità che danno senso alla vita delle persone.
Del resto già Richard Easterlin, secondo il paradosso che ha preso il suo nome, ha rilevato che la felicità personale dipende poco dal livello del reddito. Come quando si acquista un bene di consumo, essa aumenta fino ad un certo punto, per poi diminuire, delineando una curva ad U rovesciata. Acquisire sempre nuovi beni materiali è come correre su un tapis roulant, in cui si resta nel medesimo punto. Per mantenere il livello di soddisfazione raggiunto, si richiedono piaceri sempre più intensi, velocemente assimilati e così svuotati. Naturalmente ciò vale soltanto al di sopra di una certa soglia di benessere – che oggi spesso è divenuta di pura sussistenza. In simili condizioni l’idea di felicità è destinata a ruotare ancora una volta sul proprio cardine. Più che qualcosa cui tendere invano, essa diventa un dispositivo critico nei confronti dei vincoli, sempre più stretti, che ci vengono imposti dall’esterno. Anziché forma di adesione alla realtà, l’idea di felicità diventa terreno di elaborazione di nuove immagini di esistenza più confacenti all’incontro, sempre rimandato, tra libertà e giustizia.

LA RIVISTA
Filosofia politica dedica i suoi ultimi numeri (36 e 32 euro) al tema della felicità privata e pubblica