lunedì 8 aprile 2013

Una lettera di Pierluigi Bersani a La Repubblica
Roma, Marino vince le primarie
Un milione di licenziamenti
Calano le assunzioni, più penalizzati i giovani. Sabato Pd in piazza a Roma contro la povertà


Repubblica 8.4.13
“Basta piccolo cabotaggio”
di Pierluigi Bersani


CARO direttore, nell’articolo domenicale di Eugenio Scalfari, insieme con tante considerazioni che mi trovano d’accordo, c’è un passaggio che mi offre l’occasione di una precisazione. Scalfari scrive: «Non condivido la tenacia con cui Bersani ripropone la sua candidatura». L’osservazione è inserita, al solito, in un contesto amichevole e rispettoso di cui ringrazio Scalfari. Devo registrare tuttavia che una valutazione simile si fa sentire anche in contesti ben meno amichevoli. Nelle critiche aggressive e talvolta oltraggiose di questi giorni, nelle inesauribili e stupefacenti dietrologie, e perfino nelle analisi psicologiche di chi si è avventurosamente inoltrato nei miei stati d’animo, non è mai mancata la denuncia verso una sorta di puntiglio bersaniano.
Ecco dunque l’occasione per precisare. La proposta che ho avanzato assieme al mio partito (governo di cambiamento, convenzione per le riforme) non è proprietà di Bersani. Ripeto quello che ho sempre detto: io ci sono, se sono utile. Non intendo certo essere di intralcio. Esistono altre proposte che, in un Paese in tumulto, non contraddicano l’esigenza di cambiamento e che prescindano dalla mia persona? Nessuna difficoltà a sostenerle! Me lo si lasci dire: per chi crede nella dignità della politica e conserva un minimo di autostima, queste sono ovvietà! È forse meno ovvio ribadire una mia convinzione profonda, cui farei fatica a rinunciare. Il nostro Paese è davvero nei guai. Si moltiplicano le condizioni di disagio estremo e si aggrava una radicale caduta di fiducia. Ci vuole un governo, certamente. Ma un governo che possa agire univocamente, che possa rischiare qualcosa, che possa farsi percepire nella dimensione reale, nella vita comune dei cittadini. Non un governo che viva di equilibrismi, di precarie composizioni di forze contrastanti, di un cabotaggio giocato solo nel circuito politico-mediatico. In questo caso, predisporremmo solo il calendario di giorni peggiori.

l’Unità 8.4.13
Bersani: «La nostra è l’unica proposta»
«A chi dice Grande coalizione chiedo come terrebbero in piedi un esecutivo bloccato da posizioni contrapposte»
Sabato a Roma il leader Pd sarà alla manifestazione contro la povertà
di Maria Zegarelli


«Il problema non è Pier Luigi Bersani, il problema è politico e se ci fosse stata una proposta alternativa più forte della mia già sarebbe venuta fuori». Pier Luigi Bersani si esprime in modo netto con i dirigenti del Pd con i quali continua a condividere ogni passo di questa lunga via Crucis post-elettorale. Ne ha parlato con Dario Franceschini ed Enrico Letta: «La mia non è ostinazione. A quelli che sostengono la Grande coalizione vorrei chiedere come pensano di poter tenere in piedi un esecutivo che nascerebbe bloccato, come quello di Monti, da posizioni contrapposte».
Ecco perché, spiega, la possibilità più concreta per dare un governo al Paese è far sì che le forze politiche «con responsabilità facciano partire la legislatura, con un esecutivo affidato al centrosinistra, e contemporaneamente si lavori tutti insieme alla Convenzione per le riforme istituzionali». Questa resta la posizione del segretario Pd che oggi è probabile incontri anche Matteo Renzi per discutere proprio della strategia dei Democratici. Dal Nazareno poi, tornano a sottolineare che non c’è differenza di veduta tra il leader e quanto sostenuto da Franceschini nell’intervista che ha aperto il dialogo con il Pdl e ipotizzato un governo di transizione. «È quello che ho detto sin dal primo momento in direzione: noi parliamo a tutto il Parlamento nel chiedere la fiducia, la linea non è mai cambiata ma questo non vuol dire un governo con il Pdl. Il governissimo non è nelle cose», ha ribadito il segretario Pd. Un concetto che ribadirà sabato prossimo nel corso di una manifestazione contro la povertà per un «governo di cambiamento» che si terrà a Roma con i circoli Pd di Scampia, San Salvario, Corviale, Torbellamonaca, Laurentino e San Basilio. Anche in quell’occasione pubblica ribadirà che un governo di larghe intese è impraticabile per molti motivi, non ultimo il fatto che se questo avenisse «allora sì che Grillo farebbe il pieno di voti».
Dunque, dal quartier generale dei democratici respingono con fermezza la tesi di chi vede un segretario sempre più solo nella sua convinzione di poter dare vita ad un governo una volta eletto il presidente della Repubblica: «Chi alimenta queste voci lo fa perché ha interesse a che salti ogni possibile intesa». Ma Bersani non ce l’ha con il sindaco di Firenze, benché Renzi abbia espresso la propria preferenza per il voto anticipato e, in tutta evidenza, consideri debole il «piano A» del segretario. Bersani è molto attento, e preoccupato, per i movimenti del Pdl, che cerca di insinuarsi nelle aperture del Pd sulla necessaria convergenza per il Quirinale e per le riforme, con l’obiettivo di riproporre l’aut aut: o governo di Grande coalizione, o voto anticipato. Una alternativa alla quale il leader Pd vuole sottrarsi. Ieri, a favore di un governo di un governo Pd-Pdl si è espresso apertamente, «da ex comunista», Sandro Bondi in una lettera pubblicata da «Libero». «La politica scrive è l’arte del possibile e non il sogno del desiderabile. Il Pdl è una realtà popolare e democratica al pari di quella rappresentata dal Pd. Silvio Berlusconi è un leader politico legittimato dal voto democratico e dal sostegno di milioni di elettori. Chissà che da una crisi che oggi appare senza via d' uscita uno scatto non ci permetta di entrare in una fase nuova, finalmente di normalità, in cui la politica discuta finalmente di contenuti e di problemi piuttosto che alimentarsi di incomprensibili polemiche».
Per il leader Pd lo «scatto» non può che passare attraverso un lavoro comune e condiviso per le riforme (non a caso è stata offerta al Pdl la presidenza della Convenzione) e la convergenza su un nome o una rosa di nomi per la presidenza della Repubblica. Questa la cornice del «dialogo». Quanto al governo, però, «nessuno speri che si possano fare operazioni poco trasparenti». Fabrizio Cicchitto puntualizza: «Se qualcuno pensa, usando la parola dialogo che vuol dir tutto ma in effetti non vuol dire nulla che il Pdl possa fare il portatore d'acqua a chi ci chiede di far passare un governo Bersani senza una intesa politica e programmatica fra i due partiti perché siamo “impresentabili”, fa un incredibile errore di arroganza e in effetti vuole andare dritto alle elezioni». Cicchitto si riferisce soprattutto ai Giovani Turchi, l’ala più dura e intransigente del partito verso il Pdl, senza mancare di sottolineare che tuttavia nota gli «elementi di differenza» tra il capogruppo Roberto Speranza (bersaniano) e Matteo Orfini.
Beppe Fioroni invita a «non rovinare tutto. Eleggiamo il presidente con una larghissima maggioranza e poi su quella pietra costruiamo il governo». Il Pd sa che se vuole far nascere un governo non potrà piazzare paletti troppo rigidi né respingere in blocco la discussione sugli otto punti (definiti «choc» dal Cavaliere) che il Pdl ha lanciato sul tavolo. Fondamentale, in questa complessa tessitura, sarà capire a cosa porterà il lavoro dei dieci saggi che domani dovrebbero riferire al Capo dello Stato. «Si è trattato di un lavoro importante e che ha dato i suoi frutti», racconta una fonte molto informata.

Repubblica 8.4.13
Bersani: “Dico no al governissimo altrimenti arriveranno giorni peggiori Lascio solo se intralcio il cambiamento”
Barca: ecco il mio manifesto, non corro da segretario
di Silvio Buzzanca


«Non intendo certo essere di intralcio». E se ci sono altre proposte di cambiamento «nessuna difficoltà a sostenerle». Pier Luigi Bersani non ci sta a passare come affetto da «una sorta di puntiglio» che lo porterebbe a volere ad ogni costo la guida del governo. A bloccare soluzioni alternative, facendo perdere tempo prezioso al Paese.
Allora prende carta e penna e scrive una lettera a Repubblica che prende spunto da un passaggio dell’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari che ha scritto: «Non condivido la tenacia con cui Bersani ripropone la sua candidatura». «L’osservazione è inserita, al solito, in un contesto amichevole e rispettoso di cui ringrazio», osserva il segretario del Pd. Ma, continua, ci sono state altre «critiche aggressive e talvolta oltraggiose», «inesauribili e stupefacenti dietrologie », e «perfino analisi psicologiche di chi si è avventurosamente inoltrato nei miei stati d’animo ». Allora, sottolinea Bersani, «ripeto quello che ho sempre detto: io ci sono, se sono utile. Non intendo certo essere di intralcio. Esistono altre proposte che, in un Paese in tumulto, non contraddicano l’esigenza di cambiamento e che prescindano dalla mia persona? Nessuna difficoltà a sostenerle!».
La conferma della disponibilità ad un passo indietro. A favore di un altro governo. Ma non di uno qualsiasi. L’idea è quella di un esecutivo che «possa agire univocamente, che possa rischiare qualcosa, che possa farsi percepire nella dimensione reale, nella vita comune dei cittadini ». Qualcosa di diverso da «un governo che viva di equilibrismi, di precarie composizioni di forze contrastanti, di un cabotaggio giocato solo nel circuito politico-mediatico. In questo caso, predisporremmo solo il calendario di giorni peggiori».
Dunque il segretario del Pd insiste nella sua proposta. E prepara per sabato prossimo a partecipare a Roma ad una delle manifestazioni del Pd contro la povertà. Bersani va avanti, nonostante le divisioni all’interno del partito e le diverse interpretazioni della strategia. Sulla stessa linea il “Giovane turco”, Matteo Orfini: «Il dialogo con il Pdl sulle riforme e nella chiave della Convenzione è in linea con il mandato della direzione. Se cambia qualcosa rispetto a un governo per il cambiamento basato sugli otto punti bisogna fare una direzione ma questo non è ancora successo. Non si cambia linea con una intervista».
Di certo, assicura il bersaniano Davide Zoggia, «il segretario non è isolato». Il popolare Beppe Fioroni, però, ripropone la tesi della necessità di un accordo sul Quirinale da trasferire poi sul governo. Ma nega anche le divisioni. «La spaccatura del Pd - dice - è più un desiderio di molti che realtà». Noi stiamo percorrendo la strada per la scelta di un presidente della Repubblica largamente condiviso». Ma un’altra parte del Pd continua no a qualsiasi condivisione con Berlusconi. «Voglio dire a che ci si confronta con tutti. Ma in maggioranza con chi l'ha distrutta non si salva l’Italia», spiega il deputato democratico. E Laura Puppato aggiunge: «La scelta di un governo programmatico sarebbe una scelta rovinosa».
Nel frattempo si apre un altro fronte interno. Ieri Fabrizio Barca ha confermato, intervistato da Lucia Annunziata l’intenzione di lanciarsi nell’agone politico con i democratici, Ma respinge l’etichetta del candidato alternativo a Matteo Renzi. Anche perché precisa: «Non ambisco a fare il segretario del Pd, ambisco essere parte del gruppo dirigente ». E annuncia però per la prossima settimana la presentazione di una «memoria», l’agenda delle cose da fare per rilanciare il ruolo del Pd.

Repubblica 8.4.13
L’ultimo scontro tra i democratici “Se salta Pierluigi si vota a giugno”
I fan del leader minacciano le urne. Ma il piano B fa nuovi proseliti
di Goffredo De Marchis


ROMA — Le elezioni a giugno possono diventare la miccia che fa esplodere il Pd. «Il punto è sempre quello», dicono a Largo del Nazareno. Dal 26 febbraio, in fondo, la situazione non è cambiata. Ma sono cambiate le forze in campo. Perché il “partito” del no al voto sta crescendo e tiene dentro un fronte trasversale con Veltroni, Franceschini, Letta, D’Alema e Renzi che ha anche il suo piano B: tornare alle urne e conquistare la candidatura a Palazzo Chigi senza grandi avversari. Il braccio di ferro interno sembra però inevitabile. Perché i giovani turchi sono fermi da settimane: «O Bersani ce la fa o si dà di nuovo la parola ai cittadini». Anche i bersaniani non vedono alternative: «Governicchi con il Pdl non esistono. E se esistono, quanto durano? Sei mesi, otto mesi? Quello sì sarebbe perdere tempo. Ci va di mezzo il Paese».
L’eco di questo bivio cruciale si avvertirà già domani nella riunione dei gruppi parlamentari. Dario Franceschini ha tracciato la strada: se fallisce il “governo del cambiamento” guidato da Bersani, non si può andare a votare subito. Serve comunque un esecutivo di transizione che faccia la riforma elettorale cancellando il Porcellum e affronti l’emergenza sociale. Fino a qualche giorno fa, questa era anche la posizione del sindaco di Firenze. Poi, la rotta è stata modificata. Renzi non sa se può permettersi di aspettare troppo “il suo momento”. Vede i tentativi che si consumano a Roma per fermarne la corsa o rallentarla con lo stesso obiettivo finale: logorarlo. Per questo ha rotto gli indugi chiedendo una scelta secca al segretario: o governissimo o voto. L’alternativa di un accordo con il Pdl continua a non dispiacergli. «Quello che io voglio evitare a tutti i costi è apparire un leader cooptato dal gruppo dirigente », ripete a tutti quelli che lo consultano. E non sono pochi, anche tra i dirigenti più vicini a Bersani. Dunque, la sua strada passa per primarie vere, aperte, non fatte in fretta e furia, davvero competitive, che non lascino il sospetto di un risultato già scritto grazie a un apparato convertito sulla via di Damasco.
Franceschini chiama Renzi sempre più spesso, i lettiani hanno un filo diretto, persino D’Alema ne sonda gli umori attraverso alcuni “ambasciatori” autorizzati che scambiano due chiacchiere con il sindaco davanti a un caffè a Firenze o nell’albergo romano dove dorme quando viene nella Capitale. Questa diplomazia è un’arma in più per il primo cittadino, che nelle primarie precedenti scontò anche la sua distanza dal partito. Gli danno la sicurezza di poter vincere la battaglia interna senza problemi. “Adesso” resta il suo slogan anche nel passaggio delle prossime settimane, quelle in cui si decide il destino della legislatura. Ma anche le ragioni del “no al voto subito” possono diventare le sue. Si tiene aperte le due vie d’uscita.
Bersani è concentrato sulla partita del Quirinale, che giovedì o venerdì giocherà guardando negli occhi Silvio Berlusconi in un vertice atteso. Eppure a Largo del Nazareno guardano al dopo voto sul capo dello Stato. «Le elezioni a giugno sono un’opzione», dicono. Il leader dei Giovani Turchi Matteo Orfini non ha dubbi: «Sapevamo fin dall’inizio che si sarebbe tornati al punto di partenza. Noi non molliamo». Perciò la corrente di Orfini e Fassina avverte «tutti quelli che stanno cercando di attuare una tattica più morbida verso il centrodestra». Se Bersani fallisce, si deve riunire la direzione e ci si conta sulle elezioni anticipate ». In quest’ottica, appare come una coincidenza singolare la manifestazione contro la povertà convocata dal Pd a Roma per sabato. Lo stesso giorno in cui Berlusconi sarà a Bari per un appuntamento che molti considerano ambiva-lente: o l’inizio della campagna elettorale o un semplice comizio. Dipende da come andrà il colloquio con Bersani. È una lettura che vale anche per l’iniziativa dei democratici? Il ritorno alle urne era una posizione largamente maggioritaria nel Pd fino a dieci giorni fa. Oggi molto meno. Una posizione che rischia di uscire sconfitta nella “conta” sia in direzione sia nei gruppi parlamentari. Basta leggere attentamente anche le parole di Nichi Vendola. Che difende il tentativo Bersani, non vede altri governi all’orizzonte, rifiuta qualsiasi intesa con Berlusconi. Ma dice che le elezioni subito «sarebbero una follia» e che la «gente inseguirebbe coi forconi i politici se non ci fosse un governo». Una linea che la presidente della Camera Laura Boldrini ha subito sposato.

l’Unità 8.4.13
Barca al Pd: ci sono ma con le mie idee
di Caterina Lupi

Prima l’annuncio del suo impegno nel Pd e di un documento con le sue proposte. Ora i puntini sulle «i», per smentire le voci riguardo una sfida tra lui e Matteo Renzi per la guida del partito. «Non ambisco a fare il segretario del Pd, ambisco essere parte del gruppo dirigente». Con queste parole ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca ha spiegato ieri la sua volontà di entrare a far parte della dirigenza del Pd.
Per farlo, ha scelto un’intervista televisiva, rispondendo alle domande di Lucia Annunziata a In mezz’ora. Trasmissione dalla quale ha precisato che presenterà la sua «memoria», la sua agenda già la prossima settimana. Come aveva già spiegato, l’intenzione sarebbe solo quella di fornire un contributo, in base alle sue esperienze. «Una persona come me può suggerire, ed è quello che farò, al Pd un partito che sia di mobilitazione cognitiva. Mobilitazione perché un partito lo è per definizione. Cognitiva perché mettiamo in comune le nostre idee per risolvere un determinato problema», spiega ulteriormente. E intanto a Lucia Annunziata, che gli si chiede se il suo ruolo possa essere un’alternativa a Renzi, taglia corto: «Non avendo neanche ancora detto cosa intendo fare sul piano politico in maniera articolata, sarebbe pretenzioso dire una cosa di questo genere».
Più volte, nel corso dell’intervista, Fabrizio Barca rimarca la centralità dei partiti. Questo, spiega, perché «le parti economiche sono importantissime, ma il partito è il crogiolo dove i bisogni delle persone, e soprattutto le soluzioni, arrivano a una decisione». E per questo, è il suo ragionamento, a una macchina dello Stato riformata deve corrispondere un sistema dei partiti che funzioni bene.
Rispetto alla situazione intanto, lancia un appello per l’unione del centrosinistra. «Il Pd, la sinistra e Sel hanno bisogno di fare squadra, non ovviamente a costo di un compromesso». Ma poi, più in generale, mette l’accento sul fatto che «serve il superamento di due cose: l’idea tecnocratica, cioè pensare che “il cosa fare” lo sappiano 15-20 persone, e l’altra secondo la quale ormai siamo in un mondo in cui tutti sanno cosa fare e veniamo convocati tutti davanti al computer e basta fare un referendum. Si tratta di due visioni sbagliate».
Rispetto al suo ruolo all’interno del governo uscente, il ministro è conciso: «Ognuno di noi è responsabile del governo Monti. Non me la sento però di dare un giudizio. Abbiamo comunque dato un segnale robusto: è finita epoca in cui allo Stato si può chiedere tutto. Secondo abbiamo rilanciato ruolo dell'Italia in Europa».

l’Unità 8.4.13
Prossimo incontro tra Renzi e D’Alema

A buttare lì l’ipotesi, nel tipico (e necessariamente stringato) linguaggio di Twitter, è Gianni Riotta, che sul web cinguetta: «E se giovedì a #Firenze cominciasse disgelo #D’Alema @matteorenzi @VeltroniWalter? Occhio». Il buon rapporto tra Renzi e Veltroni non è un mistero. La novità riguarda piuttosto Massimo D’Alema. Certo è che il presidente di Italianieuropei giovedì sarà all’università di Firenze per un seminario sui partiti politici. Probabile quindi che a margine del seminario faccia un salto a Palazzo Vecchio per incontrare il sindaco di Firenze. L’onorevole Nardella sarebbe al lavoro per organizzare l’incontro.

Repubblica 8.4.13
“Non è l’ora delle divisioni dobbiamo salvare il Pd pensando al bene del Paese”
Irresponsabile chi parla di scissioni
di Walter Veltroni


CARO direttore, salviamo il Pd. È stato il sogno della mia vita politica e sono convinto che una crisi di quel progetto precipiterebbe il paese nell’egemonia di populismi vari, cioè lo avvicinerebbe alla sua crisi definitiva.
LA MIA posizione di oggi, lontana ormai dalle dinamiche della vita interna, mi consente di dire, con la necessaria serenità e il necessario allarme, che quando sento parlare di possibili scissioni penso che si stia irresponsabilmente, anche solo ventilando l’ipotesi, distruggendo un grande progetto politico. E considero alla stessa stregua l’ipotesi, circolata sui giornali, di machiavellici patti di potere che sanciscano una sorta di 'doppia natura' del Pd.
Perché è nato il partito Democratico? Credo si fosse fatta strada allora nei gruppi dirigenti del centrosinistra la lucida consapevolezza che senza un grande partito riformista che superasse gli steccati delle vecchie appartenenze sarebbe stato impossibile dare al paese un governo davvero riformista e una maggioranza di popolo che lo sostenesse. Il Pd non è nato per essere la somma di due storie del Novecento, stanche di se stesse. Tradizioni culturali importanti ma non sufficienti a interpretare le trasformazioni sociali e culturali di questo nuovo millennio. Per noi il Pd, l’ho sempre detto, non era il coronamento del “sogno” di Berlinguer e Moro. Che, peraltro, tutto sognavano fuorché di fondere i loro partiti o parti di essi. Per noi il Pd era qualcosa di davvero nuovo: non la giustapposizione del cattolicesimo democratico e della tradizione laburista ma un salto, una rottura. Essere democratici non era l’ultima soluzione delle innumerevoli trasformazioni dei partiti seguiti al triennio 89-92. Era una identità nuova per l’Italia, ma una identità non inventata, non sprovvista di radici.
Essere democratici non è “fare gli americani”, è attingere alla più vitale delle culture politiche del riformismo. Quella che si è manifestata con le grandi conquiste sociali e civili ,da Roosevelt a Obama. Essere democratici non è una definizione che va usata perché altre non sono, in Italia, più praticabili; è una identità post ideologica , fondata sulla convivenza di valori puri e di un riformismo realista. Essere democratici significa far parte di una tradizione culturale alla quale in Italia, pur con denominazioni diverse, nella storia hanno fatto riferimento personalità della politica e della società civile, partiti e singoli leader. Spesso sono stati sfortunati, spesso hanno dovuto aspettare che il tempo desse loro ragione ben dopo la loro scomparsa.
Non è solo l’importazione, peraltro non vietata, di tradizioni politiche appartenenti più alla cultura anglosassone, ma anche qualcosa che è esistito, spesso in forma minoritaria, come purtroppo fu l’Azionismo, nell’Italia ideologica del Novecento. Essere democratici significa considerare intangibili valori come la legalità e la giustizia sociale, avere una cultura aperta dei diritti e una idea della società come una comunità inclusiva. Significa coltivare una idea alta della priorità dell’interesse nazionale e una idea sobria e al tempo stesso orgogliosa della politica, significa sapere che la società civile non è solo un deposito di rabbia da usare elettoralmente come uno spot del momento ma una risorsa di organizzazione dal basso della vita pubblica.
La parola democratici è però sparita dal vocabolario del Pd. È stata sostituita progressivamente dalla più rassicurante autodefinizione di “progressisti” che, davvero al di là degli sfortunati precedenti, allude al fatto che sì , siamo cambiati, ma in fondo siamo sempre noi, «quelli che vengono da lontano e vanno lontano».
Del Pci che ho conosciuto, quello di Berlinguer, ho apprezzato proprio la grandezza dell’idea di essere una forza della nazione e, in quei tempi così duri, un contenitore così poco ideologico da esser votato, in piena guerra fredda, dal 34% degli italiani
e da raccogliere il consenso di chi comunista non era, non era più, non voleva essere. In Italia non è mai esistito un trentaquattro per cento che auspicava la dittatura del proletariato. Ma quella storia è finita per sempre, forse con la morte di Moro, certamente con quella di Enrico Berlinguer.
Il Pd non è un partito socialista. Ne esiste uno ed è composto da bravi riformisti. Il Pd non è semplicemente una forza della tradizione progressista della sinistra. Non è neanche una & societaria che collega i Ds e la Margherita. È, dovrebbe essere, una forza nuova, aperta, che si propone di mutare i paradigmi anche della seconda Repubblica, di uscire dallo scontro Berlusconismo-antiberlusconismo per entrare in quello vero, quello che dovrebbe essere: conservatori contro riformisti, cultura liberista
contro cultura delle opportunità, individualismo contro spirito di comunità. Gli avversari politici non sono mai, se non nelle dittature, nemici da eliminare. Ma leader ai quali sottrarre consenso, combattendo apertamente, duramente, le loro idee e le loro proposte.
La condizione di un paese stremato, con lavoratori senza lavoro e imprenditori senza imprese, con la mafia che domina e l’illegalità che prospera, con livelli infimi di investimenti in scuola e ricerca, rimanda alla necessità di sfidare la destra non sul suo terreno, lo scontro frontale che tiene alti gli steccati, ma su quello della vera innovazione, in una parola del riformismo.
Per questo il Pd non deve pensare se stesso come un soggetto limitato nella sua espansione; deve coltivare la sua ambizione di portare al governo del paese non una fragile maggioranza raccolta, con esiti che conosciamo, contro qualcuno, ma un consenso popolare capace di sorreggere quel ciclo riformista senza il quale il paese è destinato a declinare e a sfarinarsi.
Era questa, per noi, la “vocazione maggioritaria” del Pd. Senza vocazione maggioritaria il Pd non esiste. Se il problema era solamente la strategia delle alleanze, sempre più difficile, allora tanto valeva restare alle forze antiche. In questi giorni un risultato elettorale molto negativo, determinatosi nelle condizioni migliori per i riformisti, ha squadernato drammaticamente questo problema. Allearsi con Berlusconi, che definisce i giudici mafiosi in un seggio elettorale o con Grillo che vuole sciogliere i sindacati e uscire
dall’euro?
Oppure precipitare sciaguratamente verso ennesime elezioni dall’esito incerto per la governabilità del Paese? Scrivo queste note con grande preoccupazione per il destino della idea politica che considero vitale per il destino del paese. Sento parlare di divisioni, spaccature, accordi tra correnti e correntine sempre con l’idea che, in fondo, ci siano due mezze mele da tenere insieme. Ma se le due metà hanno colori molto diversi sarà molto difficile trovare chi mangerà la mela considerandola fresca. C’è, al fondo un specie di nostalgia nei gruppi dirigenti, per i vecchi partiti e ritorna l’idea di farli rivivere separandosi oppure combinandoli con una precaria colla che però li lascia sempre uguali e sempre pronti a entrare in conflitto.
Fu una gioia vedere, nell’immensa folla della manifestazione del Circo massimo del 2008, che non c’erano le bandiere dei vecchi partiti, neanche una. Ma solo quelle del Pd, nato meno di un anno prima. Il Pd non può essere né un partito progressista, alla Hollande, né una versione moderata e scolorita di una identità di radicale cambiamento. Il Pd non deve temere di riconoscere qualcuno, da rispettare, alla sua sinistra, ma non deve nemmeno avere la voglia di trasformarsi in altro da sé, di farsi moderato o di appannare le differenze con gli avversari.
Per me essere democratici è il contrario: una identità forte, che unisca realismo e radicalità, riformismo e valori forti. È innovazione, non conservazione. Ci vuole orgoglio politico e autonomia culturale. Non un patchwork di idee antiche ma un meticciato vero. In fondo una metafora della società nuova, quella che coniuga identità e apertura.
Abbiamo di fronte tempi drammatici: dal lavoro alle tasse, dalla legalità ai diritti il riformismo dovrà far valere le sue risposte inedite. Che dovranno essere autonome dai condizionamenti sindacali, cooperativi, di poteri forti, di pressioni ecclesiastiche. Autonome da particolarismi conservatori e corporativismi. Non sarà una passeggiata di salute mettere mano davvero alle grandi riforme che da quarant’anni si annunciano, ma mai si realizzano. Bisognerà cambiare molto, snellendo e velocizzando, nella macchina di decisione e di rappresentanza se si vorrà tenere in vita la democrazia ed evitare che la politica corrotta e imbelle uccida la politica tout court.
Io credo ancora e sempre di più nelle possibilità del Partito Democratico e ho scritto queste parole per invitare tutti ad avere, in questo momento terribile, la testa sulle spalle e a tenere il paese al primo posto, sempre. Bisogna alzare lo sguardo, tornare a vivere come una comunità di discussione e decisione comune, ridimensionare correnti e gruppi di potere vecchi e nuovi, recuperare autonomia politica e culturale. E occuparsi della vita reale delle persone, offrendo soluzioni concrete e una visione, anche di valori, che accenda finalmente un sogno di futuro in un paese stremato. In una parola bisogna solamente essere i Democratic

il Fatto 8.4.13
Primarie e Campidoglio
Marino batte Sassoli A Roma il Pd va a sinistra
di Paola Zanca


Vedi? Abbiamo preso anche il voto di Cossutta! ”. Davanti al circolo di Testaccio, Ignazio Marino sorride lusingato. Ha appena stretto la mano di Armando Cossutta, il grande vecchio del Pci. Anche lui, a 87 anni, è venuto a votare alle primarie per scegliere il prossimo candidato sindaco di Roma. E ci ha visto lungo. Alle 22, quando ancora lo spoglio è in corso, c’è solo una certezza l’outsider, il chirurgo di fama internazionale prestato alla politica, ha vinto. Anzi, ha stravinto. E lasciato dietro di sé le macerie del partito lacerato dalle correnti. Era una sfida a sei. Due donne – una, Gemma Azuni, di Sel, l'altra, democratica, Patrizia Prestipino. Un giovanissimo socialista, Mattia Di Tommaso, e poi i tre “big” che hanno diviso il partito: il renziano Paolo Gentiloni, David Sassoli – sostenuto da Letta, Franceschini, D'Alema e, raccontano, anche dall'Udc romano – e Marino, appunto, dietro cui c'è l'ombra di Goffredo Bettini, l'inventore del modello Roma, l'uomo che ha portato alla guida del Campidoglio Rutelli e Veltroni. Di sostegni espliciti dai vertici del partito, Marino non ne ha avuti. Con lui ci sono Nicola Zingaretti, neo presidente della regione Lazio, e Nichi Vendola, che ha ottenuto il ritiro del suo candidato (Luigi Nieri) per spostare tutte le forze sul chirurgo. Per questo, a voler leggere il risultato romano in chiave nazionale, la vittoria di Marino zittisce tutte quelle voci che, nelle ultime settimane, suggeriscono a Pier Luigi Bersani di girarsi a destra, di guardare alle larghe intese, di parlare con Berlusconi.
I 100 MILA che sono entrati nei gazebo hanno contraddetto le teorie che davano Sassoli favorito, gli scenari che immaginavano il ticket con Alfio Marchini (il costruttore in corsa per il Campidoglio), le previsioni che calcolavano una bassissima affluenza.
“Il problema è che manca la direzione politica - diceva ieri pomeriggio un esponente del partito romano - E queste primarie sono diventate lo strumento per risolverlo: siccome non c'è sintesi al vertice, deleghiamo alla base. Non è un confronto tra candidati, sono correnti che buttano sul tavolo il proprio nome. Non sono primarie, è guerra. Mi spiegate perché uno dovrebbe venire a votare? ”.
Il calo rispetto alle primarie nazionali c'è stato, ma considerando il clima politico del momento, quello di Roma, è un risultato inatteso. Le polemiche ci sono già, ovvio. Cristina Alicata, membro della direzione regionale del Pd, ha denunciato “le solite incredibili file di Rom che quando ci sono le primarie si scoprono appassionatissimi di politica”. Partono le accuse di razzismo. Lei insiste, e dice che le immagini di un seggio di Vigne Nuove dove alcuni nomadi sono in coda per votare dimostrano che qualcuno ha comprato i voti. Di irregolarità parlano anche gli sconfitti Gentiloni e Azuni. Se ne riparlerà nei prossimi giorni. Intanto, Marino si prepara ad affrontare una campagna elettorale difficilissima. Qualcuno già comincia con le domande insidiose: “Come fa uno come lui a presentarsi in Vaticano? ”

il Fatto 8.4.13
Fuoti dai Circoli

“Io insisto, ma è l’ultima volta”
“Basta che non arrivi Renzi”
Io ho votato Marino per una sola ragione: è un voto contro Renzi. Se li risento parlare di grandi intese con Berlusconi giuro che è l’ultima volta che li voto.

l’Unità 8.4.13
Commissioni, il M5S vuole «occupare» il Parlamento
L’iniziativa prevista per domani notte
Un senatore: «On line il sondaggio per capire se la base vuole il Pd»
di Claudia Fusani


Se nelle scorse settimane si è avuta talvolta l’idea che il Parlamento fosse diventato un liceo occupato, tra oggi e domani la sensazione diventerà realtà. Il piano prevede che 109 deputati Cinquestelle alla Camera e 53 senatori a palazzo Madama procedano all’occupazione delle sedi delle Commissioni parlamentari. È possibile che una spedizione prenda possesso anche delle aule a palazzo San Macuto, dove abitano le bicamerali, dall’antimafia alla vigilanza Rai. Per i dettagli della mission occorre aspettare il ritorno a Roma delle truppe grilline che hanno preso 48 ore di fiato dopo una settimana, la scorsa, faticosa e terminata con l’umiliazione della gita fuori porta come pacchi postali per andare all’incontro con il Capo.
I coordinatori della comunicazione sono un po’ seccati con chi ha anticipato il progetto vanificando l’effetto sopresa. «È una decisione presa all’unanimità. Non vogliamo fare nulla di illegale spiegano ma è necessario mandare un segnale forte ai cittadini e spiegare perchè non stiamo lavorando». La battaglia è nota: far partire le commissioni, che per dettato costituzionale devono rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari, anche se non c’è un governo per permettere al Parlamento di legiferare. M5S, Sel e Lega hanno già fornito i nomi. Pd e Pdl sono contrari e dicono «impossibile senza una maggioranza e un’opposizione». Illustri costituzionalisti li correggono. I grillini occupano al grido «riappropriamoci della funzione legislativa». Forse non porteranno il sacco a pelo. Ma chissà.
È sempre più difficile tenere il gruppo compatto. Se la Sarti rivela il piano occupazione e il capogruppo Crimi conferma «azioni forti ed eclatanti», il senatore Marino Mastrangeli fa di testa sua e lancia, via Huffington post, il sondaggio on line «per chiedere alla nostra base cosa ne pensa di sostenere un governo a guida Pd». Sono una trentina tra Camera e Senato i Tommaso Currò che stanno prendendo voce e coraggio, grillini che hanno dato segni di insofferenza. E non si sono voluti umiliare con la gita fuori porta. La cosa sorprendente è che fino a venerdì iniziative personali analoghe sono state fulminate dai post di Beppe Grillo (vedi il povero Crimi smentito ogni volta che ha aperto bocca). Da allora invece Grillo non ha più osato mettere il bavaglio ai suoi. O dettare la linea dal web. Alla fine, raccontano i presenti, è stato il comico a finire sotto processo. Ha girato per i tavoli ed ha ascoltato. Mediazione raggiunta: «Tu Grillo non ci puoi fucilare ogni volta che diciamo qualcosa di diverso»; «voi ragazzi avete diritto di esprimere opinioni e divergenze, anche in interviste, ma guai ai personalismi e a mettere in dubbio i punti del non-statuto». Cosa che invece il senatore Mastrangeli ha fatto subito visto che le alleanze con i partiti non sono neppure ipotizzabili e lui le vuole addirittura sondare via web.
Grillo non ha risposto a queste iniziative. Anzi, «oggi aspetteremo Currò a braccia aperte» dicono al Senato. E tutti gli assenti che venerdì per un motivo o per l’altro non sono andati alla gita. Guai parlare di correnti e diaspore. È stato riconosciuto il diritto di essere minoranza. Che però deve rassegnarsi a votare con la maggioranza, come da statuto. Se venisse meno questa diga, si aprirebbe un problema molto serio tra i Cinque stelle.
«Perchè nessuno del Pd è interessato a sapere veramente cosa intendiamo noi per governo 5 Stelle, magari troviamo punti comuni...» dice un deputato. Per il Quirinale, ad esempio, sulla base di alcuni poll in Lombardia, sarebbe in testa Zagrebelsky e a seguire la Gabbanelli. «Come vedete non sono marziani, e non è nessuno di noi, sono persone della società civile che ci sembrano non compromesse con il vecchio sistema dei partiti». Certo, se l’approccio per un dialogo è l’occupazione del Parlamento, si va poco lontano.

Repubblica 8.4.13
Currò: la scossa è stata utile, non sono più l’unico a dirlo, la fiducia è solo un fatto tecnico
“Insisto: serve un governo con il Pd nel movimento qualcosa si muove”
Scegliamo insieme anche il prossimo inquilino al Colle, senza coinvolgere Berlusconi


ROMA — Ora che qualcosa inizia a muoversi, che qualche coraggioso senatore grillino si espone per reclamare il dialogo con il centrosinistra, Tommaso Currò non ha voglia di esultare. «Io sollevato? Non so. Mi hanno attaccato - ricorda il deputato - mi hanno dato del traditore. Ma io non sto tradendo. E penso che nella vita bisogna far prevalere la coscienza». La voce trasmette un po’ di ritrovata fiducia: «Se abbiamo detto di avere un progetto di Paese e poi stiamo a guardare il governissimo Pd-Pdl, tradiamo la nostra prerogativa di mandare a casa la vecchia classe dirigente ».
L’alternativa?
«Se proponiamo un governo a cinquestelle, il Pd e Sel faranno emergere persone che non hanno nulla a che vedere con il passato negativo. Obbligheranno la vecchia classe a fare un passo indietro, ne emergerà una nuova».
Prima lei, adesso un altro siciliano come il senatore Bocchino. Avete dato la scossa?
«Sapevo che Fabrizio mi era vicino. Non so, forse alla base ci sono ragioni sociologiche. Noi siciliani viviamo una voglia di riscatto».
Forse pesa il famoso “modello Crocetta”.
«Certo, un modello che sta funzionando e dando ottimi risultati. E non si capisce perché non essere portato anche qui (a Roma, ndr)».
Resta lo scoglio della fiducia.
«La fiducia è un fatto tecnico per far convergere più forze politiche su un progetto. Noi il progetto e il programma cinquestelle l’abbiamo. Se il Pd vuole accettarlo, lo faccia: è qui che si gioca la loro maturità».
E poi c’è il Presidente della Repubblica. Come si dialoga?
«Deve essere un Presidente della Repubblica garante della legalità, dell’equilibrio fra i poteri e lavorare per una giustizia snella e vera. Se invece si sceglie un nome sulla base di condizioni ad personam, staremo per altre sette anni a rigirarci le dita».
Restano le regole del movimento.
«Io rimango di un’idea: bisogna fare il bene del Paese. Io sono qui per rispettare le regole sottoscritte. Ma non in modo che siano fini a se stesse, bensì per fare il bene dell’Italia. Perché fra le due io scelgo sempre il bene dell’Italia».
Come?
«Per farlo ci passa l’intelligenza e la sensibilità, su questo si gioca il destino degli italiani. Se siamo stati una rivoluzione, è perché siamo in un momento storico di rivoluzione. O lo si capisce, assumendoci una responsabilità proporzionale alla gravità del momento, o passeremo ignorati dalla storia».
E’ uscito allo scoperto, ha pagato un prezzo.
«Per tre anni ho sacrificato anche la mia vita privata per il progetto cinquestelle. In Parlamento sento una responsabilità a cinquestelle. Posso aver sbagliato il modo, ma il progetto rimane».
(t.ci.)

Repubblica 8.4.13
“Subito fondi per il welfare e un premio a chi crea posti”
Camusso: piano in quattro punti per il rilancio
intervista di Paolo Griseri


RIPORTARE il lavoro al centro delle scelte politiche. Non solo con interventi a favore di chi è occupato ma anche privilegiando le aziende che investono in Italia. Ecco le proposte di Susanna Camusso per contrastare la disoccupazione.
La tragedia di Civitanova Marche e le statistiche delle ultime ore dicono che la perdita di lavoro in Italia è diventata un’emergenza. Qual è il quadro che voi della Cgil avete di fronte?
«Abbiamo di fronte il dramma di un Paese in grandissima difficoltà. Per la prima volta da molto tempo le istituzioni non sono in grado di proporre soluzioni alternative alla perdita del lavoro. Anche il sistema dell’assistenza sociale e degli ammortizzatori sociali, è ormai alle corde. A giugno, senza nuovi finanziamenti, la cassa integrazione rischia il collasso».
Quanto serve per evitare i licenziamenti di massa tra due mesi?
«Calcoliamo che sia necessario un miliardo di euro per finanziare la cassa in deroga».
Non una cifra astronomica per il bilancio dello Stato...
«Quando i soldi non ci sono, diventano astronomiche anche cifre molto più basse. È ora che si operi una redistribuzione dei redditi dalla rendita a quelli da lavoro e da pensione a cominciare dal fiscal drag».
Che cosa accadrà senza quei soldi?
«Che continuerà il processo di perdita del lavoro in Italia. Negli ultimi anni abbiamo perso il 20 per cento delle attività produttive. Perderli vuol dire che sono stati distrutti e che per ricostruirli sarà necessario uno sforzo enorme, ben superiore a quello necessario a ridare slancio ad aziende che hanno trascorso alcuni mesi in cassa integrazione. Molti dei posti che si perdono oggi rischiano di essere perduti per sempre. E, ormai strutturalmente, il numero dei licenziamenti supera nell’anno quello delle nuove assunzioni».
Ci si può uccidere per la disoccupazione? E voi sindacati non sentite la responsabilità di non essere riusciti a tutelare chi compie scelte estreme come questa?
«Tragedie come quella di Civitanova o come quelle recenti di Trapani e Perugia, fanno sentire la responsabilità di non essere riusciti a intervenire prima. Quella di non essere riusciti a spiegare al Paese che si stava rotolando verso queste situazioni drammatiche. È dal 2004 che lanciamo allarmi sul rischio di deindustrializzazione. Siamo stati considerati con sufficienza: ormai, ci dicevano, non è più il lavoro al centro della vita delle persone, ma la capacità di consumare. Oggi la perdita del lavoro in Italia sembra inarrestabile: una palla che rotola su un piano inclinato, senza ostacoli. Più passa il tempo più pesano i mancati interventi del passato che continuano a essere rinviati E la velocità della palla aumenta».
Come si ferma quella corsa?
«Nell’immediato salvando i posti che ci sono con la proroga della cassa integrazione. E poi con provvedimenti che premino le aziende che danno lavoro. Se lo Stato non riesce a pagare tutti i crediti verso le imprese, deve privilegiare quelle a maggiore intensità di lavoro. Per lo stesso motivo bisogna abolire la quota dell’Irap che tassa le aziende in base al numero dei dipendenti».
Ora il governo Monti ha sbloccato una parte dei crediti verso le imprese...
«Ma ci ha messo un anno per farlo. In questo anno si è perso tempo prezioso e si sono distrutti posti di lavoro che forse si sarebbero potuti salvare. Questa è una grave responsabilità».
Quanto tempo c’è per varare i provvedimenti salva occupazione?
«Molto poco. Le scadenze dei prossimi mesi sono impegnative. Con i pagamenti di Imu, Iva all’orizzonte e la prevedibile stangata di fine anno sulla tassa dei rifiuti, gli interventi per raddrizzare la situazione diventano urgenti».
Lei pensa che queste scadenze siano sentite dalla gente più di quelle della politica, come l’elezione del Capo dello Stato?
«Io credo che ai cittadini interessi molto il futuro delle istituzioni. Ma credo che tutti si dovrebbero fare carico dei problemi posti dalle prime».
Qual è il suo punto di vista sul dibattito interno al Pd?
«Preferisco non entrare nel merito di un confronto che mi sembra ancora di posizionamento. Piuttosto credo che nella sinistra italiana, e non solo nel Pd, si debba riflettere sul fatto che non siamo riusciti a contrastare lo svilimento anche culturale del lavoro. Se io oggi andassi in tv a dire che il mio obiettivo è quello di raggiungere la piena occupazione in Italia, mi prenderebbero per matta».

La Stampa 8.4.13
Un traffico di clandestini dietro l’omicidio di madre e figlia
Latina, l’ex marito indiano confessa: voleva denunciarmi
di Grazia Longo


La ferocia Martina Incocciati, 18 anni, è stata uccisa perché aveva riconosciuto l’assassino della madre Kumar Raj, 37 anni, è originario di un villaggio nel Nord dell’India
«L’ ho uccisa perché mi esasperava con la storia del debito: voleva gli 8 mila euro che le dovevo perché aveva fatto entrare in Italia 16 miei connazionali indiani. Se non glieli davo, mi denunciava». C’è una storia di miseria umana, immigrazione clandestina e permessi di soggiorno a pagamento dietro il brutale duplice omicidio, sabato mattina in una palazzina gialla a due piani, a Cisterna di Latina.
Francesca Di Grazia, 55 anni, titolare di un’impresa di pulizie, è stata sgozzata con un colpo secco, sua figlia Martina Incocciati, 18 anni, disoccupata, con 4 coltellate al petto e alla gola. L’assassino ha confessato. È l’ex marito di Francesca: Kumar Raj, 37 anni, originario di un villaggio del nord dell’India, nel distretto di Kurukshetra. Francesca si era appena svegliata: alle 6.40 di sabato ha ricevuto l’ex marito per offrirgli un caffè e discutere la questione degli 8 mila euro. Ma la discussione si è trasformata in lite, degenerata poi in tragedia. La donna è stata assalita di spalle con una coltellata netta alla gola. Sua figlia, svegliata dalle urla, ha cercato rifugio sotto il letto ma Raj l’ha aggredita selvaggiamente. Martina ha provato a difendersi, graffiandolo sulla guancia sinistra. Un gesto disperato, purtroppo inutile. «Mi hanno rapinato» ha raccontato Raj agli amici connazionali con cui divide un appartamento a Nettuno. Stessa giustificazione ha fornito in un primo momento ai carabinieri che ieri mattina alle 4 sono andati a bussare alla sua porta.
Nel pomeriggio è crollato, ha ammesso le sue responsabilità. E ha raccontato «l’affare dei permessi di soggiorno» che aveva messo in piedi con l’ex moglie, sposata nel 2008 in India il matrimonio era stato poi registrato nel nostro Paese - e dalla quale si era separato nel 2010. Ma la collaborazione sull’ingresso clandestino degli indiani non si era interrotta, anzi. Tutto è proseguito, almeno secondo la versione fornita da Raj di fronte al pm Giuseppe Milano e ai carabinieri al comando del colonnello Giovanni De Chiara. «Era tutta una messa in scena racconta il colpevole -. Nessuno poi andava a fare le pulizie come dichiarava Francesca. Ma comunque serviva per poter chiedere il permesso di soggiorno. Francesca incassava 500 euro per ogni indiano. Ero io a portaglieli: si aspettava 8 mila euro, sabato mattina ero andato a casa sua per parlarle, ma mi ha ricattato. “Ti denuncio e dico che mi hai costretta tu a falsificare le pratiche” mi ha detto e io ho perso la testa».
Circostanze e particolari sulla presunta attività illegale della coppia saranno ora verificate da investigatori e inquirenti. Per adesso l’unica cosa certa è la ferocia con cui Kumar Raj ha infierito sulle sue vittime.
Agghiacciante la scena del delitto: il pentolino pieno di latte per la colazione ancora sul fornello spento, la moka rovesciata con tutto il caffè per terra misto a un lago di sangue. Un semplice gesto di vita quotidiana annegato nell’orrore di un duplice e sanguinoso omicidio. L’ennesimo caso di femminicidio che non conosce tregua. Francesca Di Grazia (sposata in prime nozze con un italiano che attualmente vive in Perù) aveva l’hobby della cartomanzia. Chissà quante volte ha scrutato nelle carte un segnale del destino per sé e per gli altri, senza sospettare la fine orribile che l’attendeva. Martina Incocciati, bella e gentile, stava prendendo lezioni di guida. Dopo la terza media aveva interrotto gli studi e ogni tanto andava a lavorare con la madre. Stava cercando la sua strada, come tanti giovani. Le hanno impedito di trovarla in un modo crudele e assurdo.

Repubblica 8.4.13
Stupro impunito, il ministro chiede le carte
Severino: straziante il caso Montalto. Le deputate Pd: mandi gli ispettori. Carfagna: serve il carcere
di Maria Novella De Luca


ROMA — Si riapre il caso dello “stupro di Montalto di Castro”. A 10 giorni dall’ultima decisione del Tribunale per i minori di Roma, e dopo aver letto le drammatiche testimonianze della vittima di quella violenza di gruppo («Sono stanca di lottare per avere giustizia ») e di sua madre Agata («Il branco è libero, mia figlia ha perso tutto»), ieri su questo controverso processo è intervenuta il ministro della Giustizia Paola Severino. Promettendo di fare chiarezza. «Si tratta di una storia veramente straziante — dice il ministro — rispetto alla quale credo che si debba dimostrare il massimo interessamento. Mi attiverò per acquisire tutti gli elementi utili per ricostruire la vicenda». A sei anni dalla notte tra il 31 marzo e il primo aprile del 2007, in cui M. fu selvaggiamente violentata da otto suoi coetanei nella pineta di Montalto di Castro, il Tribunale per i minori di Roma il 25 marzo scorso ha deciso, per la seconda volta, che quei ragazzi del branco, oggi tutti maggiorenni, non meritano il carcere, ma una “messa in prova” di due anni presso i servizi sociali. Quella stessa “messa in prova” che già nel processo di primo grado fu revocata dalla Corte di Cassazione, perché ritenuta “inadatta”.
Una decisione che sospende così di nuovo il processo contro gli otto giovani, senza che si sia arrivati ad una sentenza, nonostante la richiesta del pubblico ministero di una condanna di quattro anni di carcere per ciascuno. Con il risultato che oggi, M. Maria, così l’abbiamo chiamata, ha smesso di andare a scuola, vive uno stato di prostrazione e paura e si è dovuta allontanare dai luoghi in cui è cresciuta. I suoi aggressori invece, in attesa che il tribunale e i servizi sociali decidano nel luglio prossimo quale sarà il percorso riabilitativo, sono liberi, abitano ancora a Montalto di Castro con le loro famiglie, in un paese che li ha sempre pervicacemente difesi, definendo quello stupro di gruppo, una “ragazzata”. E ieri anche un gruppo di deputate del Pd, tra cui Silvia Fregolent, Marina Berlinghieri e Lorenza Bonaccorsi, hanno chiesto al ministro Severino di valutare «l’invio degli ispettori ministeriali al Tribunale dei Minori di Roma dopo l’ennesima decisione, già bocciata dalla Cassazione, che ritarda ancora la sentenza sullo stupro di Montalto di Castro».
«A sei anni dalla barbarie della violenza del branco subita da una giovane minorenne, ora rischia di emergere una seconda violenza, quella della giustizia, che non riesce ad emettere una sentenza su fatti che dalle carte processuali sembrerebbero ormai verificati. Lottare per le pari opportunità — aggiungono le parlamentari — significa garantire pari giustizia a tutti. Di fronte all’abominio della violenza fisica, lo Stato non può permettere che i cittadini si sentano prigionieri anche della violenza giudiziaria. Chi ha avuto il coraggio di denunciare la ferocia e l’inciviltà di un gesto del genere
ha il diritto di ricevere dallo Stato risposte certe e immediate». E Mara Carfagna, Pdl, ex ministro delle Pari Opportunità e autrice della legge sullo stalking, commenta con amarezza: «Ho sempre sostenuto che per gli autori di uno stupro, anche se minorenni, l’unica risposta debba essere il carcere. Invece ciò che accade è che nonostante le denunce, i violentatori restano poi a piede libero, e magari in grado di tormentare ancora le vittime. Ed è questo — aggiunge Mara Carfagna — che spinge le donne a non denunciare, che le scoraggia nei confronti di una giustizia che spesso non arriva. Purtroppo la Corte Costituzionale bocciò il mio decreto antistrupro, in cui si prevedeva sempre l’obbligo di custodia cautelare per gli autori di violenza sessuale. Ritengo giusto che il ministro Severino apra un’inchiesta, anche se questo non risarcirà del dolore quella giovane ragazza, così brutalmente aggredita».

Repubblica 8.4.13
E nelle informative spunta il gesuita di Bergoglio arrestato da Videla


ROMA — Nei numerosi “Kissinger cables” sul Vaticano e le dittature sudamericane, il nome di papa Bergoglio non compare mai. Affiora invece il nome di Francisco Jalics, il prete argentino sequestrato e torturato nel maggio del 1976 dagli uomini della giunta militare di Videla. Un primo messaggio della segreteria di Stato Usa, che risale al 23 settembre, chiede all’ambasciata di Buenos Aires notizie sul sacerdote, su sollecitazione della madre. Un successivo cable del 4 novembre informa che padre Jalics è stato trasferito in America. «Jalics dice di non essere stato maltrattato. E crede di essere stato arrestato perché lavorava nelle baraccopoli. Non ha voluto rendere nessuna dichiarazione. E spera di rientrare a breve in Argentina». Questa la versione riferita da Kissinger.
Gli Stati Uniti — ma questa è storia nota — avevano interesse a ingentilire l’immagine dei regimi militari. Così un mese dopo il golpe di Pinochet in Cile, nell’ottobre del 1973, John Volpe si precipita in Vaticano forse nella speranza di trovarvi un argine alla «campagna delle sinistre che tende a mistificare la vicenda cilena». Monsignor Benelli, segretario di Stato, in apparenza sembra condividere le preoccupazioni. «Però la Chiesa poco può fare», avverte. «Il pontefice riceve pressioni interne perché condanni gli eccessi della giunta militare». Cosa realmente pensasse Paolo VI viene fuori nell’incontro nell’aprile successivo con Hector Riesle, l’ambasciatore cileno presso la Santa Sede. Il pontefice lo invita a «vincere risentimenti, spirito di vendetta e regolamenti di conti». Poi manda un saluto generico alle “supreme autorità cilene”, senza nominare Pinochet. «La pazienza del Vaticano è colma», commenta Volpe. E contro Riesle lavorano due circostanze: «È un sostenitore accanito della giunta e ha posizioni critiche verso Jacques Maritain ». Per Paolo VI è davvero troppo.
(s.fio. s.mau. e c.ve.)

La Stampa 8.4.13
New York, la razionalità alternativa

All’Istituto Italiano di Cultura a New York si apre oggi la prima «Herbert Simon Society Conference», dedicata al tema «Updating bounded rationality». Per due giorni il dibattito si concentrerà sui temi della doppia natura della mente, della creatività, delle critiche e dei modelli alternativi alle aspettative razionali. Interverranno tra gli altri Katherine Simon Frank, Gerd Gigerenzer, Roy Radner, Alan Kirman, Laura Macchi, Jonathan Schooler e Joseph Stiglitz.

l’Unità 8.4.13
La Germania deve alla Grecia 160 miliardi di euro
In un dossier di Atene il calcolo delle riparazioni di guerra che Berlino non ha mai pagato
di Paolo Soldini


E se si scoprisse che la Grecia non è in debito con la Germania per gli esborsi ai fondi di salvataggio che tanto costano ai contribuenti tedeschi, ma è addirittura in credito? Può sembrare paradossale, ma le cose potrebbero proprio stare così. Almeno a dar fede a un rapporto «segretissimo» (ma non troppo, evidentemente) del ministero delle Finanze di Atene. Si tratterebbe di un dossier di 80 pagine sulle riparazioni di guerra che Berlino non ha mai pagato e che ora il governo greco potrebbe esigere. Un bel po’ di soldi: più di 162 miliardi di euro, che rappresentano circa l’80% del Pil e quasi il 50% del debito pubblico del Paese. Se arrivassero davvero (cosa di cui è più che lecito dubitare) Atene avrebbe
risolto in un colpo solo gran parte dei suoi problemi finanziari.
A dare notizia dell’esistenza del rapporto è stata l’edizione domenicale del quotidiano «To Vima», che non ha lesinato particolari sul lavoro della commissione, diretta da un alto funzionario di nome Panagiotis Karakousis, che lo ha elaborato prendendo visione di ben 190 mila pagine di documenti rintracciati in archivi sparsi per il Paese e anche all’estero: atti amministrativi delle autorità di occupazione tedesche dal 1942 al 1944, sentenze di tribunali, contratti tra privati. Da questa enorme mole di carte, raccolta in 761 faldoni consegnati al ministero delle Finanze, la commissione avrebbe dedotto che l’attuale governo della Germania federale, erede giuridica del Terzo Reich, dovrebbe alla Grecia 108 miliardi di euro per la ricostruzione di infrastrutture distrutte durante la guerra e di ulteriori 54 miliardi per i crediti obbligatori che le autorità di Atene dovettero concedere agli occupanti. Il denaro fu fornito dalla Banca centrale greca e servì ai tedeschi per sostenere e pagare le forze di occupazione. In tutto 162 miliardi, a fronte di un prodotto interno lordo di poco inferiore a 300 miliardi e a un debito intorno ai 350 miliardi.
Trattandosi, per il momento, di indiscrezioni giornalistiche (che in Germania sono state riprese comunque con grande evidenza dallo «Spiegel»), a Berlino non c’è stata alcuna reazione ufficiale. Si sa, però, qual è l’atteggiamento del governo attuale nei confronti di rivendicazioni di riparazioni di guerra che provengono da vari Paesi e da diverse comunità. Finora le uniche controparti che hanno trovato parziale disponibilità a Berlino sono Israele e le comunità ebraiche di alcuni Paesi, con le quali sono in corso negoziati giuridici. Quanto alla Grecia, che è stato tra i paesi più danneggiati dalla guerra d’aggressione cominciata dagli italiani nell’ottobre del 1940 e dalla successiva feroce occupazione da parte della Wehrmacht, più volte, in passato, esponenti governativi di Berlino si sono detti contrari all’apertura di negoziati formali.
Non c’è dubbio, comunque, che la pubblicazione dei dati contenuti nel dossier sulle riparazioni di guerra contribuirà ad inasprire il clima, già piuttosto teso, tra i due paesi. L’opinione pubblica ellenica è comprensibilmente propensa ad attribuire alla cancelliera Merkel e al suo governo una grossa parte di responsabilità nel disastro cui le imposizioni della trojka hanno precipitato l’economia e la società del Paese, ormai allo stremo. Quanto alla Germania, è ben percepibile il fastidio con cui una buona parte dei tedeschi guarda agli esborsi cui Berlino è costretta per sostenere, con i fondi di salvataggio, i paesi a forte debito e, in modo particolare, proprio la Grecia. Proprio il rifiuto di questa politica sta gonfiando i consensi ad «Alternative für Deutschland», il nuovo partito anti-euro che domenica prossima verrà battezzato ufficialmente a Berlino.

La Stampa 8.4.13
Oggi l’autopsia a Neruda per chiudere il giallo
di Filippo Fiorini


I resti di Pablo Neruda lasceranno oggi la tomba davanti al mare a Isla Negra, dov’è stato sepolto quasi 40 anni fa, per un esame autoptico che dovrà stabilire se il 23 settembre 1973 l’uomo che per l’anagrafe cilena si chiama Neftalí Reyes è morto di un cancro alla prostata, come dice la storia ufficiale, o non fu invece ucciso con un’iniezione di gas velenoso, per ordine del regime del generale Augusto Pinochet, arrivato al potere con un colpo di Stato appena 12 giorni prima della sua morte e suo giurato nemico.
A parlare di omicidio sono il suo autista di fiducia, Manuel Araya, e Rosita Núñez, una delle infermiere che all’epoca si presero cura del premio Nobel per la letteratura dell’anno 1971. Entrambi dicono di aver appreso la notizia nei corridoi della clinica in cui Neruda era ricoverato, a causa della malattia che lo aveva costretto a rinunciare all’incarico di console a Parigi e a rientrare precipitosamente in patria. «Hanno ucciso il poeta, gli hanno iniettato dell’aria», ripetono oggi questi due testimoni chiave, inspiegabilmente a distanza di tanto tempo. Sostengono un’ipotesi che però ha già convinto l’avvocato Eduardo Contreras, figura storica del Partito Comunista Cileno, noto per le sue cause per la difesa dei diritti umani, e il giudice d’appello Santiago Mario Carroza, che ha riaperto una causa chiusa in primo grado.
Il ragionevole dubbio che la scomparsa del poeta possa essere legata a un crimine politico lo sollevano, oltre alla testimonianza degli intimi, anche episodi come la morte dell’ex presidente democristiano e oppositore di Pinochet, Eduardo Frei Montalva, ucciso con un’iniezione letale nello stesso ospedale di Santa Maria in cui si spense Neruda. L’iniezione era stata fatta dal chimico Eugenio Berrios, un agente segreto al servizio del potere golpista, che aveva brevettato una formula per eliminare in modo discreto i personaggi scomodi: un’endovenosa di gas venefico. Questo scenario risulta oggi compatibile con l’iniezione di calmante che il dottor Drapper, ultima persona ad aver visto Neruda vivo, disse di avergli somministrato per sedare i forti dolori di cui era preda.
A tutto ciò va aggiunta poi anche la scomparsa della documentazione riguardante il poeta dagli archivi del Santa Maria e dell’Ospedale Tedesco, un’altra struttura in cui il poeta era in terapia: dopo la richiesta del giudice, è emerso che sia le cartelle cliniche di Neruda, sia i registri dei medici di turno nei giorni prossimi alla sua morte sono misteriosamente andati persi. Senza questo materiale si è deciso di procedere a una necroscopia per cercare tracce di veleno nei resti dello scrittore.
«Un’impresa praticamente impossibile a distanza di tanto tempo», secondo il giornalista Mario Casasus, che pure sostiene la tesi del crimine nel libro «El doble asesinado de Neruda» (Il doppio omicidio di Neruda), ma «una procedura con molte probabilità di riuscita», secondo l’avvocato Contreras, che cita il parere di vari scienziati internazionali e fa presente che «la causa andrà avanti comunque, anche se i test non dovessero dare alcun risultato».

La Stampa 8.4.13
Medio Oriente Pace da fare in 60 giorni
Riuscirà Kerry a tessere un patto tra arabi e Israele?
di Maurizio Molinari


John Kerry inizia dalla Turchia il secondo viaggio in Medio Oriente teso a mettere ulteriori mattoni nella silenziosa costruzione dell’accordo di pace fra Israele e palestinesi. Il Segretario di Stato ha ottenuto una finestra di 60 giorni di tregua diplomatica per preparare la ripresa dei negoziati diretti. Durante questo periodo il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato a non approvare nuovi insediamenti nei Territori e il presidente dell’Anp Abu Mazen ha promesso che non cercherà di rafforzare lo status legale dell’Autorità all’Onu. La scommessa di Kerry è sfruttare questi due mesi per definire una bozza di accordo sullo status definitivo dei confini fra Israele e palestinesi sulla base del piano saudita del 2002 che prevede il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di tutti i 57 Paesi arabomusulmani in cambio della nascita dello Stato di Palestina sui Territori occupati nel 1967, inclusa Gerusalemme Est. Questo è il motivo per cui nei prossimi giorni sono in arrivo alla Casa Bianca il premier turco, il re giordano e l’emiro del Qatar per definire la «cornice regionale» a sostegno dell’intesa. I moniti di Kerry all’Iran sul nucleare espressi ad Ankara sono un ulteriore puntello alla nuova stagione di rapporti fra Usa e Israele, su cui la Casa Bianca fa leva per ammorbidire le resistenze di Netanyahu sugli insediamenti. Se Obama e Kerry riusciranno, d’intesa con Riad, a perfezionare l’offerta di «pace regionale» allo Stato ebraico nei prossimi 30 giorni, quelli seguenti li vedranno discutere con Gerusalemme e Ramallah la possibilità di riprendere il negoziato dalle proposte ai palestinesi fatte dall’allora premier Ehud Olmert nella conferenza di Annapolis del novembre 2007. Obama ritiene la piattaforma di Annapolis «coraggiosa» perché include l’impegno di Israele a rinunciare ad una parte di Gerusalemme Est. La decisione di Abu Mazen di rifiutare le offerte di Annapolis è stata in questi anni paragonata dai diplomatici Usa all’errore compiuto da Yasser Arafat a Camp David nel 2000 nel rigettare una simile composizione territoriale sostenuta da Barak. Resta da vedere se sia possibile nel 2013 rivitalizzare il patto, anche perché non includeva la rinuncia dei palestinesi al diritto al ritorno dei profughi del 1948 che è considerata imprescindibile dal nuovo governo di Netanyahu.

Repubblica 8.4.13
Le richieste di Abu Mazen a Kerry e Israele “Prima il rilascio dei prigionieri, poi il dialogo”


GERUSALEMME - Gli Stati Uniti vogliono stimolare il ruolo della Turchia nel rilancio del processo di pace fra Israele e i Palestinesi: è il primo messaggio arrivato dal segretario di Stato John Kerry, ieri a Istanbul e poi a Gerusalemme e Ramallah per la sua tournee regionale. Kerry a Ramallah ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen che ha posto come condizione per «far ripartire il processo di pace» il rilascio dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Il segretario di Stato non ha precisato quale ruolo immagina per Ankara, ma quello di mediatore fra israeliani e palestinesi è un’idea che non piace allo Stato ebraico.

La Stampa 8.4.13
Una rivista per lesbiche rilancia la sfida all’omofobia del Cremlino
“Agens” invita al “coming out” nonostante le leggi anti-gay
di Anna Zafesova


Il magazine «Agens» è una rivista «di ragazze per ragazze» rivolta alle omosessuali russe. Unico media su carta stampata che osa sfidare le restrizioni contro la «propaganda dell’omosessualità», è uscita in 999 copie I giornalisti hanno lavorato gratis.

Più della metà dei russi prova nei confronti degli omosessuali «irritazione e disgusto», un terzo pensa che desiderare una persona dello stesso sesso sia il sintomo di una malattia e il 16% vorrebbe isolare i «diversi» dalla società. In un Paese che da qualche mese punisce per legge la «propaganda dell’omosessualità», pubblicare nella modica tiratura di 999 copie una rivista che si rivolge dichiaratamente alle lesbiche è un atto di coraggio. Un magazine «di donne e per donne», spiega la direttrice Milena Cernyavskaya: «La comunità Lgbt russa vive in un black out informativo, e pensano di non poter essere felici perché incontrano solo abusi». Perciò la rivista «Agens», oltre a dare consigli di lifestyle, presenta storie felici di donne che hanno deciso di vivere apertamente la loro omosessualità, sperando che le lettrici - «22-32 anni, con un lavoro, un reddito medio o sopra la media, istruite», è l’identikit che ne dà Cernyavskaya - possano seguire l’esempio.
Questo tentativo di rompere il silenzio segue di un mese un’altra iniziativa editoriale clamorosa, quando il settimanale «Afisha», la bibbia dei moscoviti trendy, ha pubblicato sotto una copertina arcobaleno 27 storie di omosessuali, con foto, nomi e cognomi, non solo personaggi dello spettacolo e «creativi», ma anche funzionari statali e operai. Un atto senza precedenti, in un Paese dove perfino le star dello spettacolo e della moda dai comportamenti più stravaganti negano in pubblico la propria omosessualità, e dove due mesi fa il noto giornalista Anton Krasovsky è stato licenziato dalla tv dopo aver fatto outing in diretta. Peraltro qualunque dichiarazione di «gay pride» adesso può ricadere sotto la legge sulla «difesa dei minori dalla pedofilia», con supermulte fino a 12 mila euro. Perciò «Agens» esce con l’etichetta «vietato ai minori» e per ora si vende quasi solo nei gay club.
Un clima sempre più pesante, e i sondaggi del Levada Center testimoniano un drastico aumento dell’omofobia rispetto allo scorso decennio, dopo che la depenalizzazione dell’omosessualità nel 1993 (il regime comunista puniva i «sodomiti» con il carcere) aveva aperto nuovi orizzonti. La svolta è incoraggiata dall’alto, con la terza presidenza Putin iniziata nel pieno della protesta di piazza, alla quale ha reagito con un giro di vite conservatore non solo politico ma anche morale. La rivolta della giovane borghesia e intellighenzia delle grandi città ha reso «politici» comportamenti fino ad ora giudicati privati (come i comportamenti disinibiti di alcune delle Pussy Riot), mentre l’alleanza del «macho» Putin con la chiesa ortodossa, i militari, i dipendenti statali e delle grandi industrie ex sovietiche ha trasformato i vecchi pregiudizi in una sorta di dichiarazione di lealtà all’ordine e al potere. E così, dopo aver approvato a livello federale la controversa legge di Pietroburgo sulla «propaganda dell’omosessualità», le autorità russe hanno respinto la richiesta ufficiale di una Pride House alle Olimpiadi di Soci. Il Gay Pride a Mosca, da sempre negato dalle autorità, a questo punto appare impossibile. Cernyavskaya ricorda che, «non tutti vogliono andare alle manifestazioni», e la sua rivista - unica pubblicazione cartacea destinata alla comunità Llgbt in tutta la Russia - vuole combattere «la paura che ciascuno prova» nella vita di ogni giorno.

La Stampa 8.4.13
Il racconto di un amico “Il killer di Newtown vittima dei bulli in classe”
Oggi in Connecticut il discorso di Obama sulle armi
di Maurizio Molinari


Adam Lanza fece strage nella scuola di Sandy Hook per vendicarsi contro il bullismo subito: a svelare il possibile movente è un amico della madre del killer in un’intervista al «Daily News» pubblicata alla vigilia dell’odierno ritorno di Barack Obama in Connecticut. Il presidente parlerà all’Università di Hartford, a un’ora di auto dalla piccola località di Newtown dove in dicembre avvenne il massacro, nell’intento di chiedere agli americani di premere sul Congresso di Washington per l’approvazione delle norme contro la violenza da armi da fuoco. Ma sulla strage che costò la vita a 26 persone - inclusi 20 bambini - pesano ancora molti interrogativi, a cominciare dall’assenza del movente.
Da qui il valore delle dichiarazioni di Marvin LaFontaine, stretto amico di famiglia di Nancy Lanza che venne uccisa dal figlio ventenne prima di recarsi a scuola, la mattina dello scorso 14 dicembre. Sono molte le novità contenute nel racconto di LaFontaine. Anzitutto «Adam Lanza da piccolo frequentava la scuola Sandy Hook» e «continuò ad andarci fino all’età di 11 anni» mentre finora nessuno lo aveva confermato. In secondo luogo «durante le lezioni Adam, che aveva problemi psicologici evidenti, veniva spesso bersagliato di attacchi e offese da parte dei coetanei» fino al punto da diventare vittima di un bullismo talmente ossessivo da «spingerlo a rifugiarsi in fondo alla classe durante le lezioni». Ad esaltare la violenza dei compagni sarebbe stato il fatto che, a causa della sua malattia, Adam subiva colpi senza sentire dolore. La madre viveva con grande sconforto tale situazione e «reagì comportandosi quasi come una guardia del corpo» racconta LaFontaine, spiegando che «accompagnava ovunque il figlio e a volte arrivava perfino di sorpresa in classe per verificare cosa gli stessero facendo». Tale comportamento iper-protettivo «non veniva vissuto bene da Adam» che comunque, arrivato all’età della prima media, decise di abbandonare la scuola.
Da quel momento il bambino, affetto da una forma molto rara di autismo, visse in casa con la madre, che si assunse la responsabilità dell’educazione, gli consentì di passare molto tempo con videogiochi anche violenti e accumulò in casa un vero arsenale. Negli ultimi tempi, aggiunge LaFontaine, «Adam aveva espresso il desiderio di arruolarsi nel corpo dei marines come lo zio Jim» ma la prospettiva sfumò a causa dei problemi mentali e questa forte delusione «potrebbe aver avuto delle serie conseguenze». Nel mese precedente alla strage Adam, vestito con una tuta militare, aveva più volte tirato al bersaglio con una pistola giocattolo contro degli orsacchiotti di pezza nel seminterrato della casa «ma la madre non gli diede troppa importanza» commettendo un errore che avrebbe pagato con la sua stessa vita. La tuta militare indossata era molto simile a quella che in anni precedenti Adam aveva usato come maschera per Halloween a testimonianza di una lenta e progressiva maturazione dell’istinto criminale che lo ha portato a compiere il più orrendo massacro di bambini mai avvenuto negli Stati Uniti.

La Stampa 8.4.13
1950, gli italiani alla guerra di Corea
Il conflitto lungo il 38° parallelo infiammò nel nostro Paese il confronto con i comunisti, ponendo le basi per “Gladio”
di Sergio Soave


I «Partigiani della pace»
Il movimento dei «Partigiani della pace» nacque a Parigi nel 1949, raccogliendo adesioni di intellettuali come Picasso, Aragon, Amado, Matisse, Neruda, Einstein. Nella delegazione italiana, guidata da Nenni, c’erano tra gli altri Vittorini, Guttuso, Quasimodo, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi. In Italia tra i «Partigiani» si segnalarono i comunisti, reduci dalla batosta elettorale del ’48, che denunciavano l’«arroganza americana» e il «servilismo» del governo italiano. Con il conflitto in Corea si inasprì anche da noi il clima della guerra fredda, tanto che nell’ottobre del ’50 non si poté ospitare il previsto Congresso dei Partigiani.

«Ma che ci importa della Corea! ». Questo si sentirebbe rispondere chiunque volesse aprire oggi, in Italia, un discorso su quanto sta accadendo in quella lontana nazione. Eppure, il riverbero di ciò che succede in quella penisola si proietta, da tempo, ben oltre i suoi confini.
Accadde così in quel lontano 25 giugno 1950, quando la Corea del Nord attaccò quella del Sud, sfondando la linea di quel 38° parallelo con cui le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale l’avevano divisa. Fu la prima prova, sul campo, della guerra fredda. Un anno prima l’Urss aveva fatto brillare la sua atomica in risposta a quelle americane del ’45. E già Truman annunciava la bomba H, in una corsa al sorpasso che avrebbe segnato il secolo.
Le avrebbero usate nella circostanza? Il seguito degli eventi disse di no e, dopo tre anni di inutili scontri, tutto tornò come prima. Ma si capì che il tempo delle guerre convenzionali non era finito, anche se ora sarebbero state tutte «sorvegliate» da Washington e da Mosca (con qualche interferenza laterale della nuova Cina di Mao), parte di un duello politico ideologico che non avrebbe trascurato nessun punto del pianeta, per quanto marginale potesse sembrare. Di conseguenza, il mondo cominciò a dividersi su responsabilità e soluzioni.
L’Italia, ad esempio, si infiammò. Reduci dalla batosta elettorale del ’48, i comunisti vestiti da «Partigiani della pace» si riversarono nelle piazze, denunciando ovviamente l’arroganza americana e le colpe di un governo che si mostrava affetto da «cupidigia di servilismo». Qualche gruppo cattolico li seguì e il Parlamento occupò intere giornate in uno scontro dialettico di straordinaria intensità.
Fu in questo clima che la guerra di Corea innescò una miccia tutta italiana, destinata a scoppiare anni dopo e che allora ebbe come artificieri i senatori Jacini e Pastore. Il primo, democristiano, si lanciò in fosche previsioni: non bisognava guardare a quella guerra in sé, ma al pericolo di veder «scaraventare contro l’Europa occidentale l’orda tartara dei cinosoPaesi». Di qui, la necessità di muoversi «all’infuori della valutazione etica del nostro atteggiamento. È giusto che noi ci difendiamo contro un esercito interno che minaccia di unirsi a una eventuale invasione da fuori». Apriti cielo! Il comunista Pastore cadde nella trappola. Se l’Urss avesse davvero invaso l’Italia – obiettò - una successiva campagna di liberazione americana sarebbe fallita perché «gli operai, i contadini e il popolo avrebbero gettato a mare coloro che sarebbero i liberatori della borghesia e non i liberatori delle classi popolari». Al che, il generale Cadorna, già responsabile militare della Resistenza e ultimo erede di una grande dinastia, rosso e tremante d’ira, si sarebbe alzato per gridare che allora si sarebbe visto se si era «italiani o rinnegati».
Nacque di qui «Gladio»? Diciamo che la guerra di Corea, chiusa nel ’53, ne fu l’incubatoio perfetto. E poiché il protocollo d’intesa tra i servizi segreti italiani e statunitensi fa cenno, nel ’56, a precedenti e reiterati contatti, non siamo lontani dal vero nel collocare, proprio nella scia dei dibattiti sulla guerra coreana, la spinta decisiva a forme organizzate di difesa anticomunista interna.
Ma gli effetti sulla geopolitica mondiale di quel conflitto marginale furono anche più rilevanti, perché la Corea impresse una accelerazione formidabile al più incredibile revirement della storia contemporanea.
I piani di «umiliazione» della Germania e del Giappone, ad esempio, furono di colpo accantonati. La punizione prevista per entrambi era stata severissima: azzeramento di ogni organizzazione militare; industrializzazione limitata; riduzione di quei territori a poco più di «colonie agricole» Così si era pensato di devitalizzare i loro spiriti guerrieri. Ma ora proprio quegli Stati diventavano il cardine della strategia di contenimento anticomunista. Così, dopo gli anni della più dura amministrazione americana, il Giappone fu riconvertito nella più moderna nazione asiatica. E la Germania federale fu aiutata a diventare un modello di società alternativo a quello della Germania comunista. Persino il tabù del riarmo tedesco fu abilmente aggirato.
Quanto all’Italia, sede del più grande partito comunista occidentale, fu spinta a quella rivoluzione economica che l’avrebbe portata al quinto posto tra le nazioni industriali del mondo. La sorte insomma finì per essere, in proporzione, più magnanima per i vinti che per i vincitori. Con buona pace dei morti e dei combattenti che, per la vittoria, avevano rischiato la vita.
Ma oggi, quali novità ci porta la Corea?
Il 19 marzo, un attacco informatico da Nord ha paralizzato centri nevralgici della Corea del Sud con modalità che le norme internazionali equiparano a una dichiarazione di guerra. E si piazzano missili a lunga gittata contro l’America con dichiarata volontà offensiva. Forse è un bluff, ma non tale da lasciare indifferenti Russia, Cina e Usa che, da sempre divisi, stanno ora convergendo per evitare che una «nuova Monaco» permetta a Stati come Corea e Iran di usare tecnologia informatica e missili con futura testata atomica per i loro fini.
Come andrà a finire non sappiamo. Anche in questo caso la «razionalità della storia» produrrà effetti non razionalmente prevedibili. Ma certo, tra una cinquantina d’anni, gli storici, occupandosi di noi, torneranno fatalmente a parlare di Corea.

La Stampa 8.4.13
Salvatore Accardo
“Dobbiamo fare rete per salvare la musica”
Il violinista: lo Stato trascura la cultura. Il sovrintendente della Scala? Gli italiani costano meno, il che non è poco
di Egle Santolini


Che Salvatore Accardo sia un italiano vero, oltre che un eccelso violinista, lo si capisce leggendo Il miracolo della musica (Mondadori) dove le passioni nazionali fanno da filo conduttore: e il calcio (la Juve) e lo scopone, e la famiglia e gli amici, e il mare e il cibo; e certe estati in Sardegna dove Maurizio Pollini gioca furiosamente a ping pong e si arrabbia quando perde. Lo si capisce perfino dalla collezione di Tex che tiene nel soggiorno della sua casa milanese, ma proprio perché «italiano fino alla punta dei capelli» il maestro, che stasera suona al Conservatorio di Milano con il violista Francesco Fiore e la violinista Laura Gorna che è sua moglie, non può tacere. «Un ministro ha avuto il coraggio di dire che con la cultura non si mangia. Ora non è più in carica. Ma chi salirà al governo, sempre che si riesca a metterne insieme uno, nei programmi non ha una riga, dicasi una, sulla cultura e sulla musica in particolare. Ha visto a Firenze? Il Maggio muore nell’indifferenza generale. Ma quei buchi nel bilancio non li aveva visti nessuno? I consiglieri d’amministrazione che stavano lì a fare? Non metto la croce sull’ultima gestione, visto che il disastro covava da tempo. Ma certo anche loro non è che vi abbiamo messo rimedio».
Che propone? Non ci si può accontentare di un orizzonte così fosco. Lei, poi, che ha due bambine di 5 anni.
«Il lamento individuale serve a poco. Ogni tanto me ne esco io, ogni tanto Riccardo (Muti), ogni tanto Claudio (Abbado), ogni tanto Maurizio (Pollini). E allora facciamo rete, lanciamo un appello. Se uniamo le nostre voci forse qualcosa succederà. Il degrado è tale che ormai anche il pubblico dei concerti non è quello di un tempo».
Troppi trilli di telefonino, troppa indifferenza?
«E nessuna gratitudine. Hai suonato l’ultima nota e già li vedi che s’infilano il cappotto. Soprattutto nelle grandi città, perché nella piccole ti fanno sentire ancora il loro affetto, come a Chivasso dove ho suonato poco tempo fa. Ecco, da nessuna parte al mondo c’è questa diseducazione».
Bella forza, in Germania e in Austria suonano tutti uno strumento, e le note le imparano da piccoli.
«Non creda, capita lo stesso in Usa o in Sudamerica. Prenda i tassisti. A Buenos Aires o a Rio mi capita di trovare quello che ascolta l’Incompiuta. Mai che mi sia successo in Italia. E anche i grandi intellettuali: di musica non sanno nulla e non se ne vergognano. Il guaio è che da noi la musica non s’impara a scuola, la incontri o per tradizione familiare o per folgorazione divina».
Lei segue da vicino i giovani musicisti, come docente dell’Accademia Stauffer di Cremona e fondatore dell’Orchestra da Camera Italiana. Quanto e come sono diversi da lei a quell’età, quando frequentava a Siena l’Accademia Chigiana con Mehta, Abbado, Barenboim?
«Sono esattamente uguali a noi. In questo momento, per esempio, ho quattro o cinque allievi eccezionali. È il contesto a essere disperatamente diverso. E forse anche i ragazzi che seguono altre strade sono differenti, non sono protetti da un impegno così totalizzante».
Stasera suona a Milano in un repertorio da camera: Dvorak, Prokofiev e Mozart. Generoso da parte di un solista.
«La parola solista non mi è mai piaciuta, se suoni con gli altri, e io lo faccio da una vita, capisci dove finisce la tua libertà e comincia quella dell’altro. Sono particolarmente contento, a Milano, di proporre pagine raramente eseguite, come la Bagatelle per due violini e viola che poi Dvorak trascrisse per violino e pianoforte, ma che nella versione originale ha una bellezza particolare».
Che ne dice della Scala? Pare che la nomina del nuovo sovrintendente sia questione di ore.
«Penso che han fatto male a cacciare Muti, un uomo che lavora con l’orchestra in modo straordinario. Ho letto ancora un paio di giorni fa che l’orchestra continuerebbe a non volerlo. Cose da pazzi. E poi penso che l’attuale sovrintendente ha guadagnato tanto in un paese che sta facendo fatica, e alla Scala non si dovrebbe trascurare Verdi».
Veramente di Verdi hanno in programma sette opere per questa stagione.
«Sì, ma l’attuale direttore stabile sente di più Wagner».
Il suo vecchio amico Daniel Barenboim.
«Crede che non gliel’abbia detto? Ci conosciamo da una vita, mi ricordo di quella sera che a Siena, con lui, Claudio, Zubin e il chitarrista John Williams, un po’ bevuti abbiamo improvvisato un Palio in mutande in piazza del Campo. Ma per tornare alla Scala: ci sarebbe anche Daniele Gatti che è bravissimo. Senza tener conto che noi italiani costiamo di meno: non è trascurabile in clima da spending review».

Corriere 8.4.13
Non cercate a Roma i padri di oggi
Le leggi di allora, i nostri dibattiti sulla famiglia: mondi diversi
di Eva Cantarella


Troia è in fiamme: Enea abbandona la città, con sulle spalle il padre Anchise e accanto a sé, stretto alle ginocchia, il figlioletto Iulo. Realizzato da Bernini tra il 1618 e il 1619, è uno dei gruppi statuari più celebri del mondo. E come tutte le opere d'arte è anche un documento capace di gettare squarci di luce sulla storia del periodo al quale riconduce: nella specie, la storia di Roma, a far da mediatori con la quale sono i versi con cui nel secondo canto dell'Eneide Virgilio descrive la fuga dell'eroe al quale ricollegava le origini di Roma. Il gruppo berniniano, infatti, segue fedelmente i versi del poeta, traducendo in immagine fisica l'idea, che Virgilio vuole trasmettere, dell'importanza della discendenza come fondamento della continuità della stirpe e della saldezza di Roma.
Un problema storiografico importante, l'eterno problema del rapporto tra padri e figli, attualmente al centro di un intenso dibattito tra sociologi, antropologi, politologi e psicoanalisti, impegnati su temi come la crisi del valore simbolico della paternità e la cosiddetta «evanescenza» dei padri.
Ma veniamo a Roma. Come erano, allora, i rapporti tra generazioni? Per cercare di capirlo bisogna partire da una frase di Gaio (secondo secolo d.C.): «Non esistono altri uomini che abbiano sulla propria discendenza un potere come quello che noi abbiamo sulla nostra». Difficile dissentire: il potere romano sui figli comprendeva il diritto di percuoterli, di decidere se, quando e con chi questi dovessero contrarre matrimonio (nonché di interrompere il loro matrimonio, anche contro la loro volontà), di venderli e persino di ucciderli. Ma l'aspetto più interessante della patria potestas era la sua perennità: a differenza di quel che accadeva in altre società antiche, ad esempio, ad Atene (e di quel che accade oggi) la patria potestà non cessava quando i figli diventavano maggiorenni. Essa durava fino a quanto il padre era in vita. Conseguenza: poiché per il diritto civile romano il pater era il solo titolare di diritti all'interno della famiglia, i figli, non avendo un patrimonio proprio, dipendevano economicamente da lui. Quale che fosse la loro età. La famiglia, insomma, era un gruppo quintessenzialmente patriarcale, composto da due, tre, perfino quattro generazioni e dominato da un capo dai poteri di tipo fondamentalmente gerarchico.
Ma alcuni decenni or sono è stata avanzata una nuova e diversa teoria: a partire dal momento in cui possiamo seguirne le tracce attraverso i documenti del tempo (vale a dire a partire dal secondo secolo a.C.), la famiglia romana non sarebbe una famiglia patriarcale, ma un piccolo gruppo di persone (padre, madre, un paio di figli), simile a una moderna famiglia nucleare. Il pater familias nonostante l'ampiezza dei suoi poteri, non li avrebbe esercitati se non eccezionalmente, prendendosi cura dei figli e rispettando la loro dignità e personalità. Una vera e propria riconversione della figura paterna.
Possiamo credere a questa nuova e diversa immagine della famiglia romana? Per cercare di rispondere, cominciamo col ricordare che, nel momento stesso in cui veniva alla luce, il figlio veniva deposto ai piedi del padre, che poteva sollevarlo da terra, acquistando con questo la patria potestà su di lui; o poteva lasciarlo dove si trovava, destinandolo all'abbandono. Poche cerimonie, pochi gesti sono altrettanto significativi di un potere discrezionale come quello di un pater. Ma proseguiamo, seguiamo il figlio fino al momento in cui raggiunge la maggiore età. A questo punto — se maschio, ovviamente — acquista la capacità giuridica in campo politico. Può votare e ricoprire cariche pubbliche, può diventare pretore, questore o console, con la visibilità e il potere che questo comporta. Ma nonostante la sua età e il nuovo status egli continua a essere sottoposto al padre. Una contraddizione enorme, che poteva essere devastante. Soprattutto in campo economico. Nell'attesa che il padre abbandonasse questo mondo (pensiero ed evento che purtroppo faceva da sottofondo alla vita dei figli) questi tentavano di risolvere i loro problemi ricorrendo al credito, cadendo nelle mani degli usurai, le cui pressioni, quando la morte del padre tardava a verificarsi, erano tali che non di rado i figli, assoldando dei sicari o più spesso acquistando del veleno, si liberavano o quantomeno tentavano di liberarsi dall'ipoteca rappresentata dalla vita paterna.
Il problema era tale che una legge attorno al 55 a.C. ordinò di punire come parricida il figlio che avesse comprato veleno per uccidere il padre, anche se non glielo aveva somministrato. Un passo di Ulpiano conferma: «Chi ha prestato danaro a un figlio sapendo che questi intendeva usarlo per acquistare veleno o assoldare un sicario per uccidere il padre verrà punito come parricida». E per finire sotto Vespasiano venne approvato un provvedimento secondo il quale chi prestava denaro a un filius familias non poteva chiederne giudizialmente la restituzione neppure dopo la morte del padre del suo debitore. Indipendentemente dal numero dei parricidi effettivamente commessi, il parricidio era una tale ossessione, per i romani, che forse non ha tutti i torti Paul Veyne a parlarne come di una «nevrosi nazionale».
Certo, ai nostri occhi la cosa è inquietante. Preferiremmo indubbiamente un quadro che mostrasse padri e figli in un rapporto diverso, che si accordasse — se non sempre con la realtà — quantomeno con l'ideale del nostro modello familiare. Ma a Roma così non era. Con il che, sia ben chiaro, non intendo dire che i padri romani non amassero i figli, o che i figli non amassero i padri. Certamente, si amavano, ma lo facevano in un mondo in cui la patria potestas determinava i comportamenti e modellava le emozioni.
È sbagliato e impossibile misurare i sentimenti di un tempo con il metro della nostra morale e la nostra mentalità, come fa, io credo, chi proietta sulla famiglia romana un modello che ci piacerebbe fosse la regola della famiglia odierna. Guardando al passato dobbiamo astenerci dai giudizi comparativi. L'unica cosa che possiamo fare è ricordare che i padri e i figli romani si amavano nel passato, e come scrive L.P. Hartley, nell'incipit del suo bellissimo The go-between, in italiano L'età inquieta (attacco diventato il titolo di un romanzo di Carofiglio): «Il passato è un paese straniero. Si fanno le cose in modo diverso lì». Compreso il modo di amare.

Repubblica 8.4.13
Rimettere in circolo la speranza
di Salvatore Settis


Per sanare il bilancio dobbiamo comprimere la spesa sociale, esiliare la cultura, mortificare la sanità, emarginare i più giovani e i più vecchi? Davvero non ci sono alternative? “Stabilità” non descrive forse un Paese immobile, incapace di crescere? Assediati dallo spread e dai suoi capricci, abbiamo perduto la libertà (e la lucidità) di vedere quel che accade. Tristi primati soffocano l’Italia, ne determinano l’immagine nel mondo, erodono la nostra credibilità. Nella mappa sulla libertà di stampa del Newseum di Washington (il più importante museo al mondo sui media) l’Italia è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo come “parzialmente libero” (Press Freedom Map: www.newseum.org). Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei tre Paesi più corrotti d’Europa (con Grecia e Bulgaria), peggio di Ghana, Namibia, Ruanda. Secondo dati Ocse, l’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduto solo da Turchia e Messico (lo ha ricordato Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, in audizione al Senato lo scorso ottobre).
Trattiamo questi ed altri problemi come fossero lontani dalla nostra vita di ogni giorno, come non avessero niente a che fare con la crisi, con l’instabilità sociale, la disoccupazione, l’impoverimento delle classi medie, la drammatica crescita delle disuguaglianze. Eppure queste ed altre infelicità private sono innescate o aggravate dalla recessione, che si compie all’insegna di una spietata concentrazione della ricchezza, intrecciata allo smontaggio dello Stato, alla privatizzazione dei beni pubblici, ai continui tagli della spesa sociale. Accecati dalle retoriche neoliberiste dello Stato “leggero” (tanto leggero da sparire), siamo prontissimi ad abolire le province (risparmio annuo previsto: 500 milioni di euro), senza accorgerci che si risparmierebbe molto di più acquistando un aereo militare in meno o evitando qualche chilometro di inutili Tav. Determinati a non affrontare i problemi alla radice, ci accontentiamo di palliativi (qualche riduzione di stipendio, qualche parlamentare in meno...), attribuendo implicitamente i danni e la crisi alla stessa esistenza delle istituzioni pubbliche, e non alle loro disfunzioni, non alla lottizzazione politica, non all’insediarsi di incompetenti nei posti di comando, non al saccheggio dei beni pubblici. Predichiamo slogan bugiardi che esaltano lo sviluppo, e intanto lo impediamo con tagli dissennati alla cultura, alla scuola, all’università, alla ricerca. Secondo dati Istat, la capacità creativa misurata sul numero dei brevetti è bassissima in Italia (78 per milione di abitanti, contro i 294 della Svezia) ; gli addetti a ricerca e sviluppo, mediamente 5 ogni mille abitanti nei Paesi dell’Unione Europea, arrivano fino a 10,5 in Finlandia, mentre l’Italia si ferma a un misero 3,7, molto sotto il Portogallo o l’Estonia; per giunta, le regioni del Sud sono particolarmente sfavorite (indice medio 1,8). Per essere creativo, un ricercatore italiano deve emigrare? Eppure la crescita deriva dall’innovazione, l’innovazione è figlia di formazione e ricerca. Ci rallegriamo che da noi abbia votato il 75% degli elettori (meno che in Belgio ma più che in Germania), ma non guardiamo negli occhi la distribuzione del non-voto. Non hanno votato 11.633.613 cittadini (dati Camera), ma ad essi va aggiunto chi ha votato scheda bianca o nulla (1.267.826 cittadini). Inoltre, 1.706.057 cittadini hanno votato per formazioni politiche che non hanno seggi in Parlamento. Sommando queste cifre, si arriva al 31,16% degli elettori: un terzo del Paese non è rappresentato in questo Parlamento. C'è oggi un Papa che parla ai non-credenti, ma quale dei politici saprà parlare ai non-votanti, recuperandoli al pieno esercizio della cittadinanza? Non sembra esser questo il progetto dei nostri vecchi e nuovi leader di partito e feudatari di corrente, che indugiano in liturgie tattiche identiche a quelle, che credevamo defunte, dell’era dei quadripartiti e dei pentapartiti.
Importantissime scadenze ci aspettano, e con questi tatticismi miserandi hanno poco a che vedere: sia il capo dello Stato che il governo dovranno essere all’altezza di un compito arduo ed essenziale, che non può limitarsi a misure di salute pubblica come una nuova legge elettorale o la messa al bando del conflitto d’interessi. Deve affrontare i nodi della corruzione, dell’evasione fiscale e del suo contributo alla crescita del debito pubblico, deve cercare un nuovo equilibrio fra le necessità immediate della finanza pubblica e l’alto orizzonte dei diritti disegnato dalla Costituzione (a cominciare dal diritto al lavoro, alla salute, alla cultura). Deve investire in formazione e ricerca per liberare le energie creative di cui il Paese abbonda. Deve riconquistare lo sguardo lungimirante della nostra Carta fondamentale, proponendo al Paese un progetto per il futuro. Deve rimettere in circolo quello che più ci manca oggi: la speranza. Speranza non nella competizione fra individui, ma nell’equità e nella giustizia sociale.
Il 3 febbraio 2013 vicino a Trapani Giuseppe Burgarella, operaio edile disoccupato da quasi due anni, si è impiccato lasciando fra le pagine di una copia della Costituzione questo biglietto: «L'articolo 1 della Costituzione dice che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la mia dignità? E allora se non lo fa lo Stato lo debbo fare io». Questo suicidio non è meno tragico né meno simbolico di quello di Jan Palach, lo studente di Praga che si dette fuoco nel 1969 per «scuotere la coscienza del popolo sull’orlo della disperazione e della rassegnazione». Nella terribile catena di suicidi che sta dilagando oggi in Italia (questo giornale ne ha dato una mappa sabato), Giuseppe Burgarella che sceglie la morte volontaria con in mano la Costituzione saprà scuotere le nostre coscienze? I parlamentari neo-eletti sapranno cercare nei principi della Carta la bussola che guidi le loro coscienze? Si ricorderanno che secondo la Costituzione ciascuno di loro, individualmente, rappresenta non il boss che lo ha messo in lista, ma l’intera Nazione?

Repubblica 8.4.13
Elogio della filosofia
Michel Serres: “Altro che economia, l’Europa è una questione di Logos”
L’epistemologo francese si confronta con Kurt Hilgenberg “Dobbiamo trovare noi le giuste risposte alla crisi”


Domani (alle 20 su Rai Scuola e poi su www.filosofia.rai.it) lo Speciale Europa apre la terza serie di Zettel, programma di Rai Educational diretto da Silvia Calandrelli, ideato da Gino Roncaglia e progettato e condotto da Maurizio Ferraris con Mario De Caro. Ci sarà una conversazione tra Ferraris e Umberto Eco con altri interventi. Anticipiamo l’intervista di Hilgenberg a Serres

Qual è il contributo della filosofia alla formazione del pensiero europeo?
«Credo i contributi siano tre: la filosofia della storia, la filosofia del diritto e la filosofia della conoscenza o della scienza. E, in primo luogo, dal punto di vista della filosofia della storia mi pare che l’Europa sia il luogo in cui è più viva la consapevolezza di possedere un’antichità. Nelle altre culture non c’è antichità, cioè una rottura netta tra una civiltà morta e una civiltà che ricomincia. E, quindi, in Europa, c’è una duplice fonte: quella dell’antichità greco-latina da un lato e, dall’altro, della tradizione giudeo-cristiana che le succede. E nell’idea che ha formato l’intelletto europeo, mi pare che ci sia quest’idea di biforcazione: un’antichità da un lato e poi, dall’altro, un cambiamento di direzione; non è più l’antichità greco-latina, diventerà quella giudeo-cristiana, pur conservando l’apporto greco e latino. Cioè, appunto, una biforcazione ma, al contempo, la conservazione di ciò che vi è stato in precedenza. Questo, per quanto riguarda la filosofia della storia. Poi, relativamente alla filosofia della conoscenza, nella tradizione greco-latina c’è l’idea del logos greco, dell’astrazione greca. E quest’idea di astrazione proseguirà a lungo nella filosofia. Ma d’altra parte, però, con il Rinascimento, in Europa assistiamo all’invenzione della fisica sperimentale.
Quindi, quest’astrazione si proietterà nella concretezza, con una sorta di nuovo concetto che associa al contempo astratto e concreto. E anche questa è una caratteristica tipicamente europea. Infine, nella filosofia del diritto, la cosa più importante è vedere che in Europa c’è una dualità tra i paesi di diritto romano e i paesi che potremmo definire come di diritto anglosassone, cioè di diritto consuetudinario. E anche in questo caso troviamo da un lato l’idea di un logos astratto, di un’astrazione e dall’altro un’applicazione alla realtà».
Questo per il passato. Ma oggi, la filosofia può ancora al pensiero sull’Europa?
«Credo che la particolarità dell’Europa sia di aver inventato qualcosa che ci riguarda in modo molto concreto, nel senso che credo che sia stata l’Europa a inventare la nozione di “individuo”. Questa nozione è già in parte presente nei Greci, in parte nel diritto romano di cui ho parlato prima, ma è distintamente presente nel pensiero a partire dal Rinascimento. Il Rinascimento costituisce nuovamente una biforcazione rispetto al Medioevo, in cui si manifesta un tratto tipicamente europeo, l’idea d’inventività e insieme la capacità di inventare l’individuo. Il processo avviato con il Rinascimento dura ancora oggi, cioè in un periodo in cui l’individuo è veramente nato: con le nuove tecnologie, ad esempio, si vede benissimo che c’è una sorta di creazione di un nuovo individuo, in un quadro di trasformazioni radicali. Oggi parliamo molto della crisi economica senza accorgerci che la crisi economica forse è solo un fenomeno prodotto da crisi molto più profonde. Per esempio, in paesi come l’Italia, la Francia, la Germania o l’Inghilterra, all’inizio del Novecento, la metà degli abitanti erano contadini. Oggi abbiamo solo lo 0,8% di contadini. Quindi, nel ventesimo secolo, assistiamo a una crisi enorme a livello di rapporto con il mondo, di rapporto con la natura. In secondo luogo, quando sono nato io, il mondo aveva un miliardo e mezzo di abitanti. Oggi siamo sette miliardi e mezzo di persone. Di conseguenza, per i contadini non è più lo stesso mondo, per la democrazia mondiale non sono più le stesse persone. E oggi la speranza di vita è di 84 anni per le nostre compagne e, di 77 anni, credo, per gli uomini. Ma, solo cent’anni fa, la speranza di vita era di 50 anni e duecento anni fa era di 40 anni. Quindi, non è più lo stesso pianeta. Ne consegue, che la filosofia oggi deve individuare dei concetti nuovi, relativi non solo all’economia ma al posto dell’uomo nel mondo. In particolare, la filosofia può aiutare una futura Europa interrogandosi sul modo in cui gli individui si costituiranno in nuove comunità, e chiedendosi se ci sono nuove comunità da inventare. Questa è filosofia politica, un ambito in cui l’Europa è stata estremamente fertile nell’Ottocento, mentre lo è stata molto meno nel Novecento. Credo che bisognerebbe rilanciare l’idea di filosofia politica inventando nuove appartenenze ed è questo che, un po’ alla cieca, sta cercando l’individuo moderno».
Quindi, biforcazione, individuo, comunità sono i concetti centrali di un’Europa filosofica. Oltre ai concetti, le chiedo se esistono degli oggetti che esprimono l’Europa nel modo più completo.
«Il suo è un indovinello... A prima vista, direi che è un oggetto enorme, la cattedrale. Perché le cattedrali sono presenti in Inghilterra, in Francia, naturalmente, a Colonia, in Germania, a Milano, ovunque in Europa. La prima è forse Santa Sofia, a Costantinopoli. Dunque la cattedrale simbolizza bene l’Europa, ma è un oggetto di un’altra epoca. Ma sono state inventate nuove cattedrali, come il Cern, a Ginevra: ecco un’istituzione europea, una comunità europea, la costruzione di una cattedrale straordinaria e qualcosa, dal punto di vista scientifico, di prettamente europeo. Non contempla minimamente di applicare la scienza e di applicarla a interessi economici. Si tratta solo di ricerca pura, di ricerca disinteressata e questo è tipicamente tedesco, tipicamente francese, tipicamente italiano. Sì, il Cern è una buona idea, è una nuova cattedrale».
Qual è la via che i giovani devono o dovrebbero percorrere per arrivare a un nuovo pensiero europeo?
«La mia prima risposta è consistita nel dire: ciò che c’è di originale nel pensiero europeo è la biforcazione rispetto all’antichità, la biforcazione rinascimentale rispetto al Medioevo, cioè l’idea che l’avvenire è imprevisto, che è inventivo, che è inatteso. Anche oggi ha luogo una biforcazione. Come dicevo, oggi siamo degli individui, siamo meno tedeschi di una volta, meno italiani di una volta, meno francesi di una volta perché sappiamo che la nazione ci è costata milioni di morti e, dunque, non ne abbiamo più bisogno. E stiamo pensando che le comunità antiche sono un po’ desuete, un po’ obsolete. Ora, l’idea su cui, credo, bisognerebbe un lavorare sarebbe quella di chiedersi in che modo degli individui, siano essi di Cosenza, di Berlino o di Parigi, potrebbero riuscire a inventare una nuova comunità politica che non sia dominata da istituzioni antiche, concepite in un’epoca in cui il mondo non era ciò che è diventato. Ci sono dei matematici che, una decina di anni fa, si sono posti la seguente domanda: con quante telefonate un abitante di Cosenza può raggiungere un abitante di Berlino o di Parigi? Una persona qualsiasi che chiama un’altra persona qualsiasi. Hanno fatto dei calcoli e si sono accorti che con sette telefonate chiunque sul pianeta può chiamare chiunque altro. Ma alcuni mesi fa il calcolo è stato rettificato perché ci si è accorti che con le grandi reti presenti sul web si poteva scendere a quattro. E quindi, chiunque nel mondo, tenendo in mano il cellulare, può chiamare chiunque altro con quattro telefonate. I matematici hanno chiamato questo teorema, “teorema del mondo piccolo”, un mondo in cui posso chiamare chiunque altro, virtualmente, con quattro telefonate. Il che dimostra che abbiamo cambiato completamente spazio. Nel corso della storia, chi avrebbe potuto dire “ora, tenendo in mano il mondo...”? Forse Augusto, l’imperatore romano. Possiamo immaginare un’epoca della storia in cui avrebbero potuto esserci miliardi di Augusto?».
E quasi settant’anni di pace, almeno in buona parte dell’Europa.
«Sono abbastanza vecchio per sapere che l’Europa è un miracolo, perché ho conosciuto le guerre e il fatto che non ci siano più frontiere mi pare una cosa miracolosa. E quali che siano le critiche che si possono muovere all’Europa, non bisogna dimenticare che tutti i libri di storia ci dicono che le guerre sono sempre causate da una crisi economica. Ora, ormai da vent’anni siamo in una crisi economica e, che io sappia, non ci sono state guerre. Quindi, l’Europa è perfettamente efficace a livello di istituzioni visto che è in corso una crisi, una crisi comune che, però, non ha scatenato carneficine come nel caso delle crisi precedenti».

Repubblica 8.4.13
I Socrate del futuro vanno alle Olimpiadi
Il 16 aprile a Roma le gare nazionali degli studenti dedicate al pensiero
di Paolo Poma


Nel quinto libro delle Tuscolanae disputationes, Cicerone, citando come propria fonte Eraclide Pontico, ci informa del curioso incontro tra Pitagora di Samo e Leonte, signore di Fliunte, il quale, colmo d’ammirazione per quel prodigio d’ingegno ed eloquenza, dopo avergli chiesto quale mai fosse la sua arte, si sentì rispondere che non ne professava alcuna, ma che però era “filosofo”. Ora, dovendo spiegare al sovrano il significato di quel termine inaudito, Pitagora ricorre a un’elegante analogia con i giochi panellenici, in quanto eventi capaci di coinvolgere ben tre categorie di persone: 1) gli atleti, che, per ottenere celebrità e gloria eterna, partecipano alle gare attivamentee che, dunque, sono emblema della vita activa; 2) i mercanti, che approfittano delle grandi adunate di massa per esercitare l’arte del piccolo commercio e che, pertanto, rappresentano la vita poietica; 3) gli spettatori, che partecipano alle gare passivamente, solo per il piacere di assistere, e che, quindi, incarnano la vita contemplativa. Ebbene, dice Pitagora, questi ultimi, in qualche modo, sono paragonabili ai filosofi, la cui caratteristica principale è quella di osservare la natura in maniera disinteressata… non poteva certo immaginare che, ai giorni nostri, l’Olimpiade di Filosofia (giunta già alla sua XXI edizione) avrebbe messo in crisi il suo raffinato parallelismo, presentando il filosofo e l’atleta sullo stesso piano. La competizione, bandita dal MIUR e dalla Società Filosofica Italiana (SFI, il cui presidente e promotore delle iniziative è Stefano Poggi), vede protagonisti studenti e studentesse delle scuole secondarie superiori ed è articolata in quattro fasi. Le prime due, le gare di istituto e quelle regionali, si sono già concluse. La terza, nazionale, si terrà a Roma il 16 aprile prossimo. Infine, l’ultima fase, quella internazionale, si disputerà dal 16 al 19 maggio. Coordinata dalla Federazione Internazionale delle Società di Filosofia, dopo aver toccato Oslo, Vienna, Tokyo e altre importanti città, quest’anno avrà luogo a Odense, in Danimarca, dove due campioni italiani, accompagnati da Carla Guetti e Gaspare Polizzi (rispettivamente segretario nazionale e presidente della sezione fiorentina della SFI), si misureranno, fra gli altri, coi corrispettivi di America latina, Giappone, Corea. Le prove, in inglese, francese, tedesco o spagnolo, consistono in saggi scritti di argomento filosofico sorteggiati, di volta in volta, in terne di tracce pertinenti alla questione di fondo “Quali virtù per la cittadinanza? ”. I giovani studenti, per l’occasione, cominceranno a mettere a fuoco i grandi problemi del nostro tempo, ad aprire gli occhi sul mondo in cui vivono, a rivendicare – per dirla con Emanuele Severino – il diritto di non sognare. Non a caso, a essere premiata sarà la capacità critica e argomentativa, più che i riferimenti storici. Per questo, dietro la competizione, c’è una pratica annuale intensa: i docenti, come veri e propri preparatori atletici, sottopongono ai liceali partecipanti dei testipalestra, al fine di aiutarli a potenziare le capacità e ad adeguare sempre di più le performance dei candidati italiani agli standard internazionali. Al di là di ori, argenti e bronzi, grazie al protocollo d’intesa tra SFI e MIUR la partecipazione all’Olimpiade di Filosofia è considerata prova di eccellenza e come tale consentirà di incrementare il credito scolastico dei candidati all’esame di Stato. Il ministero si riserva di premiarla in forma ancora da definire.

Repubblica 8.4.13
Nel settecentesimo anniversario della nascita, gli studiosi scoprono disegni, annotazioni e curiosità sull’autore toscano
Quei segugi a caccia dei segreti di Boccaccio
di Francesco Erbani


Una leggenda vuole che Giovanni Boccaccio fosse un ladro. Una leggenda condita da un’immagine: lo scrittore che fugge trafelato lungo le scale dell’abbazia di Montecassino nascondendo sotto l’ampia veste uno, forse due o addirittura tre codici sottratti a quella biblioteca. Non aveva altro scopo, l’autore del Decameron, che quello di attingere alle storie e alla lingua del mondo classico – Cicerone, Vitruvio, Tacito… – ma un ladro è un ladro. Fu Giuseppe Billanovich, fra i grandi filologi del Novecento, ad accertare che solo di leggenda si trattava e che nessun indizio deponeva a carico di un Boccaccio predatore di manoscritti.
Eppure quella di Boccaccio e dei manoscritti da lui posseduti e da lui stesso copiati e sistemati nella sua biblioteca, del Boccaccio che si faceva editore di testi latini e volgari e che tanta cura dedicava alla forma del libro è una delle storie più attraenti fra quelle che lo scrittore del Decameron abbia depositato negli annali della letteratura italiana. Una delle storie che si sta arricchendo di sorprendenti scoperte, realizzate tutte da giovani ricercatori, una specie di pattuglia di segugi che rende lustro alle celebrazioni del settecentesimo anniversario della nascita dello scrittore che occuperanno tutto il 2013 (Boccaccio, secondo diverse fonti, nacque a Certaldo fra il giugno e il luglio del 1313). La più recente di queste scoperte è dei mesi scorsi. Laura Pani, paleografa dell’università di Udine, ha trovato alla British Library di Londra un manoscritto contenente l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, un’opera risalente alla fine dell’VIII secolo. Laura Pani è una studiosa di Paolo Diacono, del quale rincorre i manoscritti nelle biblioteche di tutta Europa. Ma quel testo londinese ha qualcosa di speciale. È un volumetto di pochi fogli, 32, e di piccole dimensioni, 21 centimetri per 13. Sotto gli occhi di molti studiosi per secoli, ampiamente studiato, ha però tenuto nascosto il suo più profondo pregio. È di mano di Boccaccio, pezzo mancante di un più corposo manoscritto, in gran parte sempre autografo di Boccaccio, conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze. Laura Pani se n’è accorta perché il testo londinese comincia dove finisce quello fiorentino e perché la grafia è senza dubbio quella dello scrittore di Certaldo. Ora si procederà a un restauro virtuale (la parte londinese non tornerà a Firenze). Ma almeno uno dei misteri della biblioteca di Boccaccio è stato chiarito. Sono emersi anche rilievi filologici. Racconta Laura Pani: «Nel copiare La storia dei longobardi Boccaccio non segue fedelmente il testo, alcuni capitoli li omette, altri li sintetizza, alcuni passaggi, invece, li amplifica». Perché? «Non è ancora chiaro. Però a margine della descrizione di un’epidemia di peste del VI secolo annota che un simile flagello si abbatté a Firenze nel 1348. Ed è noto che la peste raccontata nel Decameron trae ispirazione anche da Paolo Diacono».
Altra scena. Altro paese. Toledo, Spagna. Luglio 2012. Due paleografi italiani, Sandro Bertelli e Marco Cursi (il primo insegna a Ferrara, il secondo a Roma) compulsano un altro manoscritto redatto da Boccaccio. Già conosciuto dagli studiosi. Il volume contiene diverse opere e anche la Commedia di Dante. Nell’ultimo foglio, bianco, si leggono appena due parole: “poeta” e “sov”. Sembra una prova di penna. Più sotto, però, si scorge una linea sottile che traccia un singolare percorso. I paleografi hanno con sé una lampada Wood, un attrezzo che emette raggi ultravioletti in grado di rendere visibili i pigmenti di un inchiostro svanito. Roba da detective. Con cautela piazzano la lampada al di là del foglio ed ecco comparire una testa di profilo, sormontata da una corona d’alloro. La luce blu completa anche la scritta: «Homero poeta sovrano»: una specie di didascalia, in realtà una citazione dal canto IV dell’Inferno.
Boccaccio prosatore, Boccaccio umanista, Boccaccio copista ed editore: ora anche Boccaccio disegnatore? «Che Boccaccio disegnasse non è una novità, se n’è occupato il filologo Maurizio Fiorilla, che ha dimostrato come fosse di Boccaccio persino un disegno di Valchiusa in Provenza su un codice di Petrarca», dice Cursi. «A volte, a margine dei suoi manoscritti traccia una manina con l’indice puntato che gli serve per evidenziare un passaggio. O delle testine che raffigurano personaggi del Decameron...
Mai però era stato rinvenuto un disegno così grande, che riempie quasi una pagina».
La testa di Omero è ritornata nel buio da dove veniva. Senza lampada di Wood non è visibile. Ma qualche tempo prima un altro ricercatore, Marco Petoletti, docente alla Cattolica di Milano, aveva rintracciato una testa molto simile a quella di Omero, più piccola di quella toledana. Anche la scoperta di Petoletti merita di essere segnalata: in un fondo della Biblioteca Ambrosiana di Milano ha rinvenuto un codice contenente gli Epigrammi e altre opere di Marziale tutto di mano di Boccaccio. Evento eccezionale in sé. Ma reso ancor più sorprendente dalle annotazioni a margine. Boccaccio disegna teste (un Seneca, ad esempio), ed esprime consenso e dissenso nei confronti del poeta latino considerato un campione di versificazione popolare, non solo, ma anche di facezie e di scurrilità. Accanto alla descrizione dello scaltro Filomuso, Boccaccio scrive: “Frate Cipolla”, richiamando l’astuto e truffaldino fratacchione protagonista di una celebre novella del Decameron.
Ma quando Marziale enuncia il proprio realistico canone poetico – «Hominem pagina nostra sapit», la nostra pagina ha il sapore dell’uomo – lui sbotta senza remore: «Verum sapit hominem, dum cunnum lingere, futuire et cacare et alia scribit», chiudendo con un’invettiva: «Maledicatur poeta talis». E non bastandogli la maledizione e la censura delle parole che indicano l’organo femminile, l’atto sessuale e quello del defecare, aggiunge anche il disegno di una mano protesa in un gestaccio. Maddalena Signorini è un’altra delle paleografe che si dedicano a ricomporre la biblioteca di Boccaccio. Come Cursi, è allieva di Armando Petrucci, maestro di tantissimi studiosi e fra i primi a segnalare quanto Boccaccio mettesse cura all’elemento materiale del libro, che deve aderire al contenuto. Lo scrittore si fa forte di competenze sia grafiche (il tipo di scrittura: dalla mercatesca usata dai mercanti fino alla ricca gotica) sia di confezionatore di libri (da quello di piccole dimensioni a quello da banco) o di vero editore, che si impegna a compilare antologie dantesco-petrarchesche da far circolare con la stessa dignità dei classici latini. Signorini cerca di capire quanto grande fosse la biblioteca dello scrittore. Al momento identifica con sicurezza 31 manoscritti appartenuti a Boccaccio, un patrimonio di grande rilievo, ma inferiore rispetto alla consistenza che si può supporre (Petrarca ne possedeva 65). Lo scrittore di Certaldo, calcola Signorini, ha copiato di sua mano almeno 18 di quei 31 manoscritti, un po’ perché ci teneva alla cura del testo, un po’ perché non aveva gli stessi mezzi di Petrarca, che invece poteva permettersi un proprio copista per confezionare il suo Canzoniere (Boccaccio invece trascrisse tutto il Decameron nel codice Hamilton, custodito a Berlino e a lui attribuito con certezza nel 1962 da Vittore Branca).
Dove possono essere gli altri libri appartenuti a Boccaccio? Perché, si domanda Signorini, mancano del tutto opere religiose? Quando morì, nel 1375, lo scrittore lasciò la sua biblioteca all’amico frate Martino da Signa affinché la devolvesse al convento agostiniano di Santo Spirito a Firenze. Molti libri andarono in diverse collocazioni, altri negli anni si dispersero e finirono un po’ ovunque, come dimostrano i ritrovamenti di Toledo e di Londra. Altro dato certo: si sa che Boccaccio possedeva libri di autori molto diversi fra loro, meno selezionati di quelli che custodiva Petrarca. Tanti quesiti, altrettante ipotesi, molti filoni di ricerca. I risultati raggiunti negli ultimi anni confortano. Ma i paleografi non sono studiosi facili agli entusiasmi o alle illusioni. La caccia continua.

Repubblica 8.4.13
Il patto segreto tra gli Usa e don Giussani per fermare l’avanzata del Pci in Italia
“Finanziate i media di Formigoni e Scola”. Sull’Espresso la nuova WikiLeaks
di Simonetta Fiori, Stefania Maurizi e Concetto Vecchio


«Ma noi come potremmo aiutarvi?», domanda il console americano su mandato del segretario di Stato Kissinger. La risposta di Don Giussani è diretta: «Potete aiutare il Movimento Popolare. E darci una mano nel campo della comunicazione e dei media ». Anche il cinema, aggiunge il sacerdote, è nelle mani delle sinistre, e ci sono difficoltà per i film di ispirazione cristiana. Sì, potete aiutarci, «ma non appoggiando Comunione e Liberazione», specifica don Giussani, «che non ha bisogno di un sostegno, piuttosto aiutando il Movimento Popolare », il braccio politico di CL, quello appena fondato da un giovane ventottenne di Lecco, Roberto Formigoni, con l’aiuto di don Scola. Quello sì, potete farlo.
Il dialogo è contenuto in una comunicazione diplomatica del 19 dicembre del 1975, proveniente dal consolato Usa a Milano e diretta alla Segreteria di Stato di Washington (uno dei documenti resi pubblici oggi da WikiLeaks). Il diplomatico ha incontrato il fondatore di Cl, che gli illustra con cura il suo lungimirante progetto sulla società italiana. Basta con l’egemonia delle sinistre e dei festival dell’Unità, «che hanno sopravanzato le feste cattoliche», «occorre estendere una guida positiva oltre il terreno religioso», realizzando una sorta di «christian way of life». In piazza e nelle università, nei giornali e nella cultura. Ci si era illusi di poterlo fare senza una propria organizzazione politica, ma non se ne può fare a meno. Da qui la nascita di Movimento Popolare, «la cui principale forza motrice», riferisce don Giussani al console, «è impersonata da Formigoni insieme a don Scola e Sante Bagnoli della Jaca Book». Ma attenzione, insiste il sacerdote, «bisogna mantenere separati Movimento Popolare e CL, così quest’ultima può conservare la sua purezza religiosa». Dietro Comunione e Liberazione, c’è lui, don Giussani. Dietro il Movimento Popolare, il futuro presidente della Regione Lombardia, insieme al futuro cardinale di Milano, parte della diocesi e la casa editrice cattolica. Lo ripeterà più volte nel corso dell’informativa: a Cl l’attività dello spirito, e al Movimento Popolare l’attività più concreta che riguarda le opere, i media, la politica. Sguardo lungo, quello del fondatore. Ma sguardo ancora più lungo quello della diplomazia americana, sbalorditiva nel mettere a fuoco un movimento che si sarebbe progressivamente esteso nella società e nella politica italiana, costituendone tutt’oggi — a quarant’anni di distanza — un influente centro di potere. Il 1975 è l’anno della valanga rossa. Nelle elezioni amministrative di giugno, il Pci è balzato al 33,4 per cento, a meno di due punti di distanza dalla Democrazia Cristiana. Un risultato del tutto inatteso che neppure la Cia aveva previsto. Gli americani guardano alla penisola con inquietudine. La presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente — sintetizzerà più tardi Brzezinski — «è il più grave problema politico che gli Stati Uniti avessero in Europa».
In questo clima di allarme si cercano affannosamente argini al pericolo comunista. E l’uomo della provvidenza americana è individuato in don Giussani, reso interessante
da due circostanze diverse. Nonostante il calo elettorale della Dc, alle consultazioni amministrative di giugno Cl aveva ottenuto un ottimo risultato, insieme ai grandi successi registrati all’interno delle università. E — passaggio ancora più importante — il movimento aveva avuto la benedizione della Conferenza episcopale dopo una protratta ostilità da parte dei vescovi. Agli occhi degli americani, l’apertura vaticana mutava radicalmente la prospettiva.
Ad indurre Paolo VI a un cambio di rotta era stato il forte appoggio di CL alla battaglia contro il divorzio. Proprio nel marzo del 1975 il grande abbraccio pubblico nella piazza di San Pietro.
Antimoderno per vocazione, critico nei confronti delle riforme del Vaticano II, il movimento di don Giussani mostra una straordinaria modernità nell’attenzione ai media e alla comunicazione. Soprattutto in un momento in cui andavano pericolosamente
diffondendosi «le tesi di quegli intellettuali cattolici persuasi che la Chiesa dovesse operare solo nel campo dei personali convincimenti morali e religiosi, lasciando libero il terreno delle istituzioni laiche». Don Giussani insiste sulle insidie di un cattolicesimo più aperto: «Le masse non sono pronte per questa libertà». Quello di cui c’è necessità, scrive il console riferendo le parole del sacerdote, «è lo sviluppo dei canali mediatici. In particolare c’è bisogno di un nuovo settimanale ma non direttamente d’impronta cattolica.
Famiglia Cristiana si rifiuta di aiutare Cl, ma anche se lo facesse non raggiungerebbe quei gruppi sociali che sarebbe necessario raggiungere ». Però servono i soldi, e l’organizzazione non è particolarmente florida. «Don Giussani ha incontrato Eugenio Cefis, che ha un figlio in Comunione e Liberazione, e gli ha promesso un sostegno ». È a questo punto che il console domanda come gli americani possano aiutare questo «nuovo contributo alla democrazia italiana » e il sacerdote non ha dubbi: sostenete il Movimento Popolare e sostenete i nostri media.
Il disegno di Cl di fondare un nuovo settimanale si sarebbe realizzato due anni più tardi con il Sabato.
Il resto è scritto da quarant’anni di storia successiva.

Repubblica 8.4.13
Quell’incontro con Napolitano che Ted Kennedy rifiutò tre volte
“Netta distanza dai comunisti”. I retroscena della visita a Roma nel ‘76


ROMA — Oggi l’America gli rende omaggio e gratitudine, ma nella lunga guerra fredda non mancarono le difficoltà. Un lungo report pervenuto dagli archivi di Washington riguarda il comunista Giorgio Napolitano, che nel novembre del 1976 — un anno dopo il rifiuto del visto americano per decisione di Henry Kissinger — per ben tre volte tenta di incontrare a Roma Ted Kennedy e per tre volte viene respinto. Così si legge nel documento dell’ambasciatore americano John Volpe (contenuto nel database di WikiLeaks), che riferisce a Kissinger sul soggiorno romano del senatore democratico. Niente avviene a caso, nel corso del breve viaggio. Sì all’incontro ufficiale con Zaccagnini e Craxi, Andreotti e Leone. Porte aperte naturalmente per Gianni Agnelli. Con i comunisti occorre invece cautela: quel che il Pci riesce a ottenere è un invito a cena per Sergio Segre, responsabile degli affari esteri a Botteghe Oscure, insieme però a trenta ospiti e — raccomanda Kennedy — niente fotografie. Volpe riferisce a Kissinger ogni minimo dettaglio, anche la disposizione a tavola degli ospiti, tenendo sempre ferma la bussola della questione comunista. Tutto ruota intorno al rapporto con il Pci, che proprio quell’anno nelle elezioni politiche di giugno tocca l’apice del consenso elettorale con un clamoroso 34,4 per cento. In Italia sempre più si parla di compromesso storico. E gli americani ne sono terrorizzati. Italia, la minaccia rossaè il titolo della copertina di Time uscito subito dopo le elezioni. Appena un anno prima Kissinger aveva brutalizzato Moro: «Se fossi cattolico come lei, crederei anche nel dogma dell’Immacolata Concezione. Ma non sono cattolico, e non credo né a questo dogma né all’evoluzione democratica dei comunisti italiani».
Kennedy è abile nello smarcarsi dalle questioni più insidiose. Gli chiedono dell’eurocomunismo, «e lui se la cava rispondendo che certo il Pci era diverso dal partito cinese e da altri partiti comunisti. E alla domanda fondamentale, perché non avesse fatto una breve visita ufficiale a Botteghe Oscure, il senatore ha risposto: “Non sarebbe stato appropriato” ». Poi l’appunto dell’ambasciatore Usa: «Ci risulta che siano stati fatti almeno tre tentativi per inserire l’esperto economico del Pci, Napolitano, nella lista degli incontri, ma la squadra di Kennedy ha rifiutato». Ad evitare che potessero circolare voci su un’apertura ai comunisti — è lo stesso Volpe a suggerire questa interpretazione — il rifiuto opposto a Napolitano serve a rimarcare che «le distanze dal Pci sono ancora nette». Bisogna aspettare ancora due anni prima che il dirigente comunista venga accolto negli Stati Uniti, e sarà una visita importante, peraltro nei giorni del sequestro Moro. Quanto a Kissinger, nel 2001 a Cernobbio, lo accoglierà festosamente come “my favourite communist”. Ma Napolitano lo corresse con garbo: “Your favourite former communist”, il tuo ex comunista preferito.
Il “pericolo rosso” è quello che segna l’intero decennio dei Settanta.
E fin da principio si manifestò molto forte l’interesse verso Berlinguer. Tra i documenti colpisce un’informativa dell’ambasciata di Sofia che puntigliosamente descrive l’incidente stradale occorso al segretario al rientro dal suo burrascoso incontro con il compagno bulgaro Zivkov, il 3 ottobre del 1973: l’automobile che lo trasporta viene investita da un camion militare, Berlinguer sbatte la testa ma non è ferito gravemente. La nota arriva appena 9 giorni dopo l’episodio e si limita a una descrizione meticolosa, senza ipotizzare la possibilità di un attentato da parte del Kgb. Sospetto che invece Berlinguer nutre immediatamente, confessandolo però solo alla moglie e a pochi intimi. Non aveva prove e forse non aveva neppure interesse a rendere pubblico questo timore, così la notizia sarebbe uscita solo nel 1991, con quasi vent’anni di ritardo. E perfino sulla sua salute, allora, l’Unità preferì sorvolare, con l’effetto paradossale che i lettori del quotidiano comunista seppero dell’incidente di Berlinguer qualche giorno più tardi degli americani.
Le carte talvolta perdono il tono neutrale del resoconto asettico. Succede quando l’ambasciatore Volpe viene a sapere che il segretario del Movimento Sociale, Giorgio Almirante, è stato ricevuto alla Casa Bianca. È il 30 settembre del 1975, la sua nota per Kissinger trasuda incredulità e rabbia. «Eppure avevo fortemente raccomandato che ciò non accadesse », s’indigna l’ambasciatore. «Perfino i nostri amici sperano che non sia vero». Ricorda le responsabilità di Almirante nel regime di Salò. «Come possiamo continuare a ergerci a paladini della democrazia e della libertà, fermamente contrari agli opposti estremismi?». È a rischio la credibilità americana. «Occorre chiarire ufficialmente che non è cambiata la nostra linea contro il neofascismo». Lo spettro del Msi, conclude drammaticamente Volpe, deve essere allontanato.
(s.fio., s.mau. e c.ve.)

il Fatto 8.4.13
Biblioteche: più lettori meno libri


PAROLE MA NON VOLUMI L’Italia è il paese Ue che investe meno (l’1,1% del pil, la media è del 2,2%) in questo settore essenziale per il lavoro e per la nostra prima industria: il turismo. Calano anche gli investimenti nelle biblioteche. Un paradosso, perché nei periodi di crisi chi vuole leggere e ha meno soldi chiede volumi in prestito. Così mentre aumentano i frequentatori delle biblioteche, calano gli investimenti in strutture e cataloghi: pochi libri nuovi, addio giornali in abbonamento. Un fenomeno che riguarda anche le biblioteche scolastiche: le misure anti-crisi del 2012 hanno colpito i 3.665 insegnanti che si dedicavano ai libri delle scuole. Almeno sulla carta il 97% degli istituti ha una biblioteca, anche se spesso si tratta di uno scaffale. Tagli per la crisi. Eppure c’è chi, come il Portogallo, pur passandosela peggio ha varato nel 1996 un sistema di biblioteche scolastiche d’eccellenza.