martedì 9 aprile 2013

l’Unità 9.4.13
Il Pd: sì al dialogo no al governissimo
Bersani oggi incontra i gruppi parlamentari e prepara il summit con Berlusconi: ci sono se sono utile
Su Napolitano: non si confonda l’invito al coraggio con la Grande coalizione
di Maria Zegarelli


ROMA Due fatti contribuiscono ad agitare il già tormentato Pd. Il primo è il contenuto della lettera a Repubblica con cui Pier Luigi Bersani ribadisce il suo no alle larghe intese. «Io ci sono, se sono utile scrive il leader Pd non intendo certo essere di intralcio. Esistono altre proposte che, in un Paese in tumulto, non contraddicano l’esigenza di cambiamento e che prescindano dalla mia persona?». L’altro fatto è quel passaggio del discorso del presidente Napolitano a palazzo Giustiani in occasione della commemorazione di Gerardo Chiaromonte. Il Presidente cita il governo nato nel 1976, monocolore Dc, nato grazie all’astensione del Pci.
Due fatti che alimentano l’eterna discussione post-elettorale nel Pd: di che governo bisogna parlare. Chi crede che sia possibile far nascere un governo (di minoranza) a guida Bersani interpreta le parole del Capo dello Stato sì come un invito al dialogo e alla condivisione di responsabilità politica in un momento drammatico, ma anche come «una citazione di un precedente interessante». Dal Nazareno uno dei collaboratori più stretti del segretario, Roberto Seghetti, twitta appunto: «1976 precedente interessante: un monocolore che passa per l'astensione degli altri partiti. Naturalmente con una larga intesa». E chi come Dario Franceschini ipotizza un governo di transizione fondato su pochi ma essenziali punti per affrontare l’emergenza sociale ed economica e poi traghettare il Paese (dopo il varo di una nuova legge elettorale) a nuove elezioni, che vede nel discorso di Napolitano un invito a superare la netta contrapposizione tra centrosinistra e centrodestra e far uscire la crisi dallo stallo in cui versa dal giorno del voto. Il centrodestra dà un’unica lettura: larghe intese, cioè un governo Pd-Pdl.
Il Pd nei prossimi giorni sarà davanti a uno snodo da cui dipende tutto il resto: l’elezione del Presidente della Repubblica, e per questo sarà fondamentale l’esito dell’incontro, che dovrebbe avvenire giovedì, tra Bersani e Berlusconi. Ieri l’ex premier parlando al Tg 4 ha detto che «finalmente Bersani si è aperto e reso disponibile a un incontro la cui data ancora non è stata fissata», ma in realtà le diplomazie sono al lavoro già da diversi giorni.
Il clima ieri sembrava molto più teso di qualche giorno fa, a giudicare dalle dichiarazioni di guerra arrivate dai big del Pdl che continuano a chiedere un governissimo dopo la lettera di Bersani e il rinnovato tentativo di Berlusconi di accaparrarsi il Colle. «Curiosi quelli del Pdl. Insultano Bersani tutti i giorni, ma lo vogliono premier di un governissimo. Confusione», twitta Stefano Di Traglia, portavoce di Bersani. «Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso dice Enrico Letta, a cui non dispiace una donna al Quirinale Il Governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile. Intanto cerchiamo un’intesa sul Presidente della Repubblica».
Il capogruppo alla Camera Roberto Speranza difende la linea: «Il Pd ha una proposta chiara e unitaria. Serve un governo del cambiamento che possa dare risposta ai grandi problemi dell’Italia. Nessun governissimo Pd-Pdl ma dialogo costruttivo e senza pregiudizi per le riforme istituzionali e per individuare un presente della Repubblica ampiamente condiviso».
Sull’unitarietà della proposta vale il voto della Direzione, ma in Transatlantico di maldipancia se ne registrano. Anche perché molti dirigenti sanno che in un governo Bersani posto per loro non ci sarebbe, considerato il criterio utilizzato con l’indicazione di Pietro Grasso e Laura Boldrini alla presidenza delle Camere. Un veltroniano legge la lettera del segretario e commenta: «Cosa altro deve succedere perché sia chiaro al nostro segretario che il problema per far nascere un qualunque governo è proprio lui?».
Bersani oggi parlerà durante la riunione dei gruppi parlamentari e indicherà i criteri per l’elezione del Capo dello Stato: una larga convergenza a cui si dovrà arrivare dopo aver sentito tutti i gruppi parlamentari valutando anche nomi che non siano ostili al M5S. Ma non è escluso che durante il dibattito qualcuno alzi la mano per dire che forse è il caso di iniziare a considerare anche altri percorsi oltre a quello delineato dal segretario per la formazione del governo. Sono in tanti ormai a chiedere che sia un governo di scopo, da Areadem ai veltroniani, ai lettiani.
«Ho apprezzato molto il no di Bersani al governo frutto di accordo con il Pdl dice Walter Verini, che dice anche di aver apprezzato la conferma del segretario di essere pronto a fare un passo indietro se il suo ruolo fosse un ostacolo che sarebbe impraticabile.
Altra cosa sarebbe un sostegno parlamentare vasto, senza limiti, ad un governo del Presidente».
Walter Veltroni, dal canto suo, lancia un appello a che il Pd non perda la sua vocazione maggioritaria e definisce «irresponsabile chi parla di scissioni». Per sedare gli animi intanto si incastrano caselle tenendo conto di tutte le anime del Pd. Oggi alla vicepresidenza del gruppo alla Camera dovrebbero essere nominati (non è escluso il voto) Antonello Giacomelli (Areadem), Silvia Velo (bersaniania), la lettiana Paola De Micheli e il dalemiano Giovanni Legnini. Al Senato il renziano Stefano Lepri e due bersaniani.

La Stampa 9.4.13
Pd, rivolta della base contro il dialogo col Pdl
Su Facebook piace la linea dura di Bersani. E volano insulti ai post-dc
Franceschini: «Mi aspettavo reazioni negative, ma non gli inviti ad andar via»
di Carlo Bertini


«Meglio la spaccatura del partito che l’inciucio con Berlusconi e Monti!», grida via facebook uno dei tantissimi estimatori della linea dura di Bersani: quel «no al governissimo» ribadito ieri con una lettera a Repubblica, che ha scatenato un’ondata di entusiasmo dei duri e puri. E se ai falchi della rete, quelli di «accordi con nessuno, o si governa a mani libere o si torna al voto», si sommano le invettive contro i «vecchi democristiani di m...», spuntate come funghi dopo l’apertura di Franceschini al dialogo con Berlusconi, si capisce perché siano in molti ormai a temere che si riaffacci lo spettro di una scissione.
«Mi aspettavo reazioni negative al governo di transizione col Pdl, ma non gli inviti ad andarsene via dal Pd a quelli che non vengono da una storia di sinistra», ragionava ieri con i suoi uomini lo stesso Franceschini. Per la prima volta preoccupato per la tenuta del partito, che stavolta potrebbe rischiare una seria frattura. Ed è facile immaginare che questi segnali di apprezzamento che escono dalla pancia di una sinistra desiderosa di non deporre le armi risultino graditi al segretario: che infatti, anche ad uso tattico, è tornato a mostrare la faccia dura. La guerra delle piazze con Berlusconi però si tramuterà in una manifestazione in solitaria che Bersani terrà sabato in un teatro della periferia di Roma: senza il supporto di altri big che non apprezzano l’iniziativa, soprattutto quelli dell’area più moderata. Di colpo diventati molto scettici, grazie anche alle voci di un possibile accordo tra renziani e «giovani turchi» per «sparigliare» con un nome «nuovo» per il Quirinale, sulla possibilità che si riesca a votare con un metodo di larga condivisione il prossimo capo dello Stato nella figura di Franco Marini; e ancor di più scettici, di conseguenza, che poi si riesca a formare un «governo del Presidente». «Perché è un’operazione talmente complessa che non la si fa senza l’appoggio del segretario», dicono i «trattativisti» del Pd. Che adesso prevedono tempi cupi e scenari nefasti, come un rotolare verso le urne e una spaccatura del Pd, con la parte ex diessina che si ritroverebbe in una sorta di forza socialdemocratica e Renzi che darebbe vita ad una sua lista civica autonoma. Non è passato inosservato che il segretario del Pd romano e quello di Sel evochino una lista «Roma Bene Comune» per la sfida del Campidoglio, senza il simbolo del Pd, «un altro segnale di accelerazione verso una saldatura della sinistra», dicono gli ex Dc. Convinti che vi siano spinte per tornare a uno schema in cui il Pd si divide in due, «una cosa al centro con dentro Renzi e un partito identitario a sinistra».
Bersani è consapevole che gli animi sono agitati e domani proverà a sedarli nell’assemblea del gruppo della Camera, dove si parlerà dei criteri per il Colle, ma si voterà un pacchetto di nomine interne: quattro vicecapigruppo e tre segretari d’aula da ripartire tra franceschiniani, renziani, bindiani, fioroniani, veltroniani e «turchi». E malgrado il tentativo di riportare la quiete tra le correnti, gli ex Ppi mettono in conto un ritorno delle lancette della storia indietro di una decina d’anni. «Con il Pdl erano ad un passo dall’accordo e ora è più complicato, vogliono far saltare il Capo dello Stato condiviso da tutti. Se non si dà alcun segnale di apertura è chiaro che è così», dice Beppe Fioroni. «E se si ricade nella tentazione di trincee contrapposte, facendosi interdire il dialogo da Grillo e Casaleggio si rischia una china pericolosa...».

Corriere 9.4.13
Pd, il duello è sul governo di scopo
Letta: per il Colle anche nomi di donne. I renziani e la carta Boldrini
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il vero oggetto del contendere nel Pd non è il governissimo. Nessuno ci crede e, soprattutto, nessuno lo vuole. Nemmeno quelli che aprono la porta al dialogo, come Dario Franceschini o Walter Veltroni.
Il braccio di ferro con Pier Luigi Bersani, che appare sempre più solo, e il resto del partito, renziani in testa, è su un altro obiettivo. Ossia sul governo di scopo o del presidente che dir si voglia che dovrebbe traghettare il Pd fino a novembre, o, al massimo, a febbraio, per poi andare alle elezioni con il sindaco di Firenze alla testa del centrosinistra.
Ma Bersani da questo orecchio, almeno per ora, non ci sente. Ha dalla sua il fatto che nessuno dei maggiorenti del partito intende pugnalarlo (metaforicamente, ben si intende). Il che vuol dire che il segretario, pur essendo sulla carta in minoranza in Direzione, può continuare ad andare avanti. Ed è esattamente quello che Bersani intende fare. Infatti, il segretario, che ieri ha avuto un chiarimento non facile con Franceschini, insiste con i suoi ragionamenti: «L'alternativa tra elezioni e grande coalizione non esiste. E non esistono nemmeno compromessi al ribasso. Mica vogliamo regalare l'Italia a Grillo!».
Ma seppur determinato, il leader del Partito democratico si rende perfettamente conto che la strada che ha imboccato è accidentata: «C'è qualcuno che vuole che salti tutto», confida ai suoi il segretario. Che non è molto lontano dal vero. C'è un gran movimento nel Pd. All'orizzonte sembra affacciarsi un'operazione che spariglierebbe tutte le carte. E costringerebbe Bersani alla resa. È un'operazione che si gioca tutta sul campo dell'elezione del presidente della Repubblica. Renziani, giovani turchi (sebbene non tutti) e altri esponenti del Pd stanno pensando a una candidatura al Quirinale innovativa: quella della presidente della Camera Laura Boldrini.
È una mossa azzardata che costringerebbe Sel ad assecondare l'operazione e metterebbe in imbarazzo i grillini. Quanti di loro, a scrutinio segreto, voterebbero per Boldrini? Ancora è solo un abbozzo di idea (infatti resiste ancora l'altra opzione, quella Prodi), ma ci stanno lavorando in molti. La carta della donna è una carta astuta, tant'è vero che vuole giocarla anche il Pd «ufficiale», come ha annunciato Enrico Letta, che però non ha fatto nomi (Anna Finocchiaro?).
Nel frattempo continua il «corteggiamento» nei confronti di Renzi da parte dei maggiorenti del Pd. Massimo D'Alema giovedì sarà a Firenze, per un convegno all'Università e non è escluso che incontri il sindaco del capoluogo toscano. A domanda precisa, Renzi svicola e risponde così: «Non so, io non vado al convegno e forse sono a Roma quel giorno. Ma se torno in tempo gli offro volentieri un caffè a palazzo Vecchio, come prescritto dal cerimoniale per gli ex premier». Il sindaco di Firenze non esclude quindi l'incontro con il «nemico» rottamato. Del resto, ormai, Renzi si muove come un vero e proprio leader politico. Ruolo che assolverà anche alla Camera, dal 18 aprile, se, insieme al presidente della Regione Enrico Rossi, farà parte della delegazione toscana dei grandi elettori.
Già adesso i parlamentari del Pd scommettono su chi avrà il maggior seguito di giornalisti nel Transatlantico di Montecitorio: Renzi o Bersani? In attesa di sapere chi vincerà la scommessa, il segretario prepara la rimonta mediatica. Per sabato infatti è prevista una manifestazione del Pd contro la povertà. Ma pare che anche questa volta il segretario rifugga la piazza. L'iniziativa, infatti, dovrebbe tenersi in un teatro romano. E non sembra convincere tutti: in molti big la diserteranno.

Corriere 9.4.13
I giovani democrat preparano un documento «anti inciuci»
di Angela Frenda


MILANO — Inciucio. Larghe intese, governo di scopo. Il termine è poco importante, ma non c'è niente da fare: alla base del Pd un eventuale accordo con Silvio Berlusconi proprio non piace, e lo dicono. Basta scorrere le bacheche di Facebook, o andare su Twitter. E scoprire che lì il dibattito è infuocato contro i vari Renzusconi, Francesconi & Co.
Ma sono soprattutto le federazioni locali a vivere un vero terremoto politico, dividendosi tra chi sposa in pieno la linea iniziale del leader pd Pier Luigi Bersani e chi invece ritiene inderogabile un'intesa con il Pdl (dalemiani, renziani...). A dare il via è stata la base pd di Genova: davanti alla prospettiva di un'alleanza di governo con il Pdl, nei circoli cittadini ci si è dati un'unica risposta: mai più un governo con il Pdl guidato da Berlusconi. Sarebbe, per molti di loro, una scelta scellerata che travolgerebbe il partito. Come ha raccontato ieri Il Secolo XIX, la base genovese del partito non ci sta. Per molti di loro Berlusconi rappresenta «il peggio che si possa immaginare». Sono voci dei circoli, come quella di Fabio Grubesich, Patrizia Palermo o Giorgio Ravera, ma il pensiero è lo stesso: «Sarebbe impossibile spiegare alla base le ragionidi un'intesa con il centrodestra». Meglio, molto meglio, un'intesa con il M5S, nonostante le porte in faccia.
Maldipancia condivisi anche dai giovani del partito. Che un po' ovunque storcono il naso e interpretano come un «abbraccio mortale» quello con l'ex premier. Non ci stanno, ad esempio, molti giovani pd campani. Antonella Pepe, segretario regionale, è chiarissima: «Già dopo il voto abbiamo lanciato un appello dicendoci contrari all'idea di un governissimo. La motivazione è sempre la stessa: come ci si accorda con chi ha portato il Paese nel disastro che stiamo vivendo? Noi siamo con Bersani. E poi, cosa diciamo a chi ci ha votato?».
In Toscana, Cecilia Pezza, giovanissima consigliera comunale a Firenze, bersaniana di ferro, sulla sua bacheca Facebook ha scritto in questi giorni: «Chi ipotizza di fare un accordo con il Pdl è un vecchio bacucco! Se fanno l'accordo strappo la tessera». Interpellata, conferma: «Il Pdl è ossimoro di cambiamento. Se la questione è: facciamo qualcosa per cambiare questo Paese, beh, sicuramente non possiamo farlo con chi questo Paese l'ha governato, male, per oltre 20 anni. Io ho 27 anni. Chi ha votato Pd già mi dice: se vi alleate con il Pdl non voto più. A questi cosa gli diremo?». Sulla sua linea anche Andrea Giorgio, segretario regionale toscano dei giovani pd: «L'intesa con Berlusconi non interpreta alcuna volontà di cambiamento. Queste elezioni le ha vinte la voglia di cambiare, non dimentichiamocelo. Per questo non credo che il governo con Berlusconi sia accettabile: non darebbe alcuna risposta. Noi vogliamo costruire invece una piattaforma di cambiamento reale».
E proprio dai giovani toscani potrebbe venire sabato prossimo, alla direzione nazionale dei giovani pd, a Scampia (Napoli), un impulso a dare voce pubblicamente a questo dissenso. È lo stesso segretario nazionale dei giovani, Fausto Raciti, a confermare l'ipotesi di un documento «anti inciucio»: «Chiederò il consenso della mia direzione su un testo che confermi la linea di Bersani: o governo di cambiamento o nulla. Ovvio che poi siamo tutti d'accordo sul fatto che le figure istituzionali debbano essere di garanzia per tutti, ma la formazione di un governo che deve dare risposte ai problemi della crisi è possibile solo se ha una configurazione progressista... Altrimenti, si fa prima a cambiare la legge elettorale e andare a votare».

Corriere 9.4.13
Mineo attacca il Colle

ROMA — La denuncia arriva di primo mattino come una bomba: «La responsabilità del presidente Napolitano è gravissima, perché avrebbe dovuto dare l'incarico pieno a Bersani». A parlare è il giornalista televisivo Corradino Mineo, eletto come senatore nelle liste del Pd. Dice queste parole ad «Agorà» su Rai Tre. E aggiunge anche che, a suo giudizio, sulle commissioni potrebbe avere ragione Beppe Grillo: «Se la situazione di stallo continua azzarderei la scelta di farle».
(...)

il Fatto 9.4.13
Amici
Fonzie-Renzi al web: “Come sono andato?”
Su Facebook commenti positivi. Ma anche “Penoso”
di Chiara Ingrosso


A Matteo Renzi, che parla ai giovani, interessa sapere cosa pensano i giovani. Perciò ha postato su Twitter e Facebook il link del video del suo intervento nella trasmissione “Amici” di Maria De Filippi, sabato scorso, chiedendo di commentare numerosi. Durante i cinque minuti del suo discorso, Renzi, con jeans e giubottino di pelle, ha parlato di speranza, sogni, perseveranza e fatica. Su Twitter il post è stato perlopiù ignorato. Su Facebook, invece, un fiume di commenti, molti positivi. Anche se non mancano le critiche. “È riuscito a fare politica senza parlare di politica. Vai Matteo!”; “Sei una grande persona, ti aspetto per votarti ancora!”. Alcuni consigli: “Fonda un partito tuo. Ti vogliamo premier”, o citando Dante: “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Qualche dubbioso c'è, non tanto sul contenuto, quanto sulla cornice che lo ospitava: “Certo che andare a parlare nella sinagoga dell'impoverimento culturale di Mediaset è un contrasto forte”;“Sono elettori anche i giovani che partecipano ai talent show, non lasciamoli tutti al Cav”. Qualche elettore in più l'ha conquistato: “Non sono di sinistra, ma uno come lei lo voterei”. Le stroncature, però, ci sono: “Pena infinita”; “Ma come hai potuto andare a casa di Berlusconi?”. Anche per l'abbigliamento: “Quel giubotto di pelle era proprio studiato. Sembravi Fonzie”.

l’Unità 9.4.13
La minaccia a 5 Stelle «Occupiamo il Parlamento»
Da stasera i grillini resteranno in aula
Sugli stipendi: 11 mila euro netti al mese «poi vedremo...»
di Andrea Carugati


Occupazione delle due aule di Camera e Senato, a partire da stasera e fino alla mezzanotte. Per denunciare il blocco delle commissioni parlamentari, ferme fino all’insediamento del nuovo governo, i grillini ieri hanno ufficialmente annunciato la clamorosa protesta che avevano partorito durante la gita fuori porta all’agriturismo di venerdì scorso.
«Rimarremo in Aula dopo la fine dei lavori a leggere passi della Costituzione e del regolamento», ha spiegato ieri la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi in una conferenza stampa con Vito Crimi». Non è una occupazione ma la riappropriazione da parte dei cittadini del Parlamento. Prima che di un governo il Paese ha bisogno di leggi come l’anticorruzione e la riforma elettorale, e si può fare solo se le commissioni partono. Magari con dei presidenti pro-tempore».
Le altre mosse annunciate dal duo a 5 stelle sono la convocazione spontanea delle commissioni parlamentari che partirà da giovedì, manifestazioni davanti alle Camere, e anche un’azione di ostruzionismo nelle conferenze dei capigruppo.Un pacchetto che rischia di complicare ulteriormente il già difficile avvio di questa legislatura. Ma Lombardi non si scompone: «Il Paese è al collasso. C’è un blocco del Parlamento per colpa dei partiti, noi faremo tutte le iniziative possibili per farlo ripartire. Due giorni fa, tre persone si sono tolte la vita perché non hanno più resistito. È questo il motivo per cui faremo di tutto per far capire che non è più il momento di scherzare».
I grillini negano di voler tornare rapidamente alle urne: «Nuove elezioni a giugno sarebbero una sciagura, solo per una questione di costi», spiega Lombardi. «Ma il Parlamento fermo costa 500mila euro al giorno». «Se volessimo fare campagna elettorale faremmo altri discorsi», rincara Crimi. Che ricorda la battaglia per l’ineleggibilità di Berlusconi e invita tutti a votare in questa direzione: «Sono almeno trenta i casi accertati di ineleggibilità e incompatibilità e questo riguarda anche gli avvocati del Cavaliere». «La legge elettorale non è una priorità», aggiunge il capo dei senatori, smentendo la sua collega. «Meglio occuparsi di altri temi come gli Ogm». Ieri l’incontro tra i due grillini e l’ambasciatore tedesco Reinhard Schäfers. Che ha commentato: «Mi sembra complicato che il M5S trovi una conciliazione sui temi principali con gli altri partiti».
Quanto alla dialettica interna, «non siamo una setta, discutiamo su tutto, a nessuno è preclusa la possibilità di esprimere la sue idee», ha detto Crimi. Ma il deputato siciliano Tommaso Currò, il primo a esporsi pubblicamente contro la linea ufficiale, non arretra. E ieri sera a Piazza pulita ha ribadito che «se il Pd si accorderà con il Pdl anche per il governo «avremo perso tutti» e in quel caso la responsabilità sarebbe anche del M5S. «Con 8 milioni di voti dobbiamo contribuire a completare l’assetto istituzionale del Paese con un governo che sia legittimato e di indirizzo politico». E un governo del genere sarebbe solo Pd, M5S e Sel, «questo è un dato di fatto». Anche il senatore Fabrizio Bocchino, anche lui siciliano, insiste sul suo profilo Facebook: «Se noi non dialoghiamo e ci arrocchiamo sulle nostre posizioni, rischiamo di avere un D’Alema presidente della Repubblica ed un bel governissimo Pd-Pdl, e noi staremo a guardare mentre loro sfasciano un paese».
A differenza di quanto dice Crimi, il clima si fa pesante: «Currò? È un traditore, non saprei che altra parola usare», tuona il professor Paolo Becchi, ideologo del movimento. E aggiunge: «Siamo pronti a chiedere le dimissioni di Grasso». Durissimo anche Walter Vezzoli, autista di Grillo: «Via subito i traditori, il cancro va rimosso quando è piccolo».
I due capigruppo, mentre annunciano le prime proposte di legge presentate (via i rimborsi ai partiti e sì alle nozze gay e alla legge anti-omofobia), cercano di spiegare le novità sugli stipendi della truppa grillina. Durante il summit campestre di venerdì, di fronte alle proteste dei “cittadini”, Grillo infatti avrebbe dato il via libera (ma lui smentisce indignato) a chi chiedeva di non rinunciare a quell’ampia fetta di stipendio che va oltre la parte fissa. Ricapitolando, i grillini hanno da tempo annunciato di rinunciare alla metà dei 5mila euro netti di stipendio. Ma, tra diaria, benefit e spese di viaggio, finiranno per incassare comunque circa 11mila euro netti al mese, cifra che comprende anche l’assegno per gli eventuali collaboratori.
Oltre alla diaria di 3.500 euro al mese, si terranno anche altri 3.690 euro come rimborso spese per l’esercizio del mandato, il 50% per pagare i collaboratori, il 50% in maniera forfettaria. Per chi vive a oltre 100 chilometri da Roma, poi, ci sono da aggiungere anche 1300 euro mensili di rimborsi chilometrici. Sulla rinuncia a questa benefit la discussione è aperta. «Secondo le norme delle Camere diaria e spese per il mandato devono essere rendicontate al 50%», hanno spiegato ieri Crimi e Lombardi. «Noi abbiamo presentato una proposta di legge per accorpare tutti i rimborsi in un’unica voce e fissare un obbligo di rendicontazione totale», annuncia Lombardi. E voi intanto che farete? «Finora non abbiamo ricevuto nessuna busta paga», allarga le braccia Crimi. «In ogni caso fra qualche mese vedremo come saranno stati utilizzati questi soldi e renderemo tutto trasparente». «Vivere a Roma costa», si è sfogato ieri il senatore Roberto Cotti. E «non si possono rendicontare anche i caffè», si sono lamentati altri onorevoli. Chi voleva restituire la parte della diaria non spesa, a quanto pare, lo farà a titolo personale. Quanti saranno?

l’Unità 9.4.13
Da Bologna a Roma la lunga scia di veleni grillini
Scambio di accuse tra i deputati emiliani e i consiglieri di Bologna sul caso Salsi
Grillo contro i parlamentari
L’autista del comico: i traditori sono un cancro da estirpare
di Toni Jop


Col rispetto dovuto: botte da orbi in casa Cinque Stelle e nubi a pecorelle sul loro futuro bolognese. Il fatto è che la storia Grilloleaks piombando nella loro «democrazia» sta facendo onda su onda. Armi in pugno, ciascuno tiene sotto tiro l'altro, l'altro tiene sotto tiro il primo etc etc.
Fin qui, nessuno spara, ma questa è la fotografia della situazione, il designer sembra Takeshi Kitano aspettando una conclusione alla Tarantino. Personaggi, interpreti e uno straccio di prolusione, sennò si capisce niente. Nei giorni scorsi, un hacker era riuscito a violare, e poi a pubblicare, i testi delle conversazioni private intercorse tra alcuni potentati cinque stelle di Bologna mentre divampava il caso Favia, consigliere regionale del Movimento poi cacciato che aveva raccontato il clima di terrore attivato tra i sottoposti da Casaleggio e anche da Grillo.
MESSAGGI DI FUOCO
Consiglieri comunali, consiglieri di quartiere, collaboratori: si scambiavano messaggi di fuoco, proponevano soluzioni finali, vendette, manovre di accerchiamento ai danni sia di Favia che dei suoi, sia di Federica Salsi. Il parterre di veleni mediamente versati quando qualcuno decide di vuotare il sacco senza chiedere il permesso; un quadro visibile, a dispetto delle intenzioni degli attori, che aveva lasciato basiti i militanti: «Peggio di quel che accade in un partito normale», avevano commentato nei blog. Sempre: se lo dicono loro va bene. Da qui, due notizie, la prima: un gruppo di parlamentari Cinque Stelle di Bologna scrivono una nota in cui si deplora l'accaduto, si prendono le distanze dal veleno versato, si chiede un ritorno ai vecchi (?) valori e si suggerisce una bella assemblea sul tema. Ecco i nomi dei sottoscriventi: Matteo Dall'Osso, Paolo Bernini, Mara Mucci, Giulia Sarti, Elisa Bulgarelli, Adele Gambaro, Michela Montevecchi. Tanti. «Condanniamo e rifiutiamo con forza simili comportamenti – scrivono ...pericolose derive... sconfortanti... poche persone...». Di nuovo parole loro. Massimo Bugani, capogruppo Cinque Stelle in consiglio comunale accusa il colpo: è sua una delle «voci» intercettate e se pensa che i parlamentari ce l'abbiano soprattutto con lui, rischia di aver fatto, di malavoglia, centro. Questa è bella: da Roma piovono pietre sulla testa dei bolognesi.
Bugani si arrabbia, respinge le accuse e rilancia. «È una grave interferenza di un livello di governo su un altro», osserva, parla di «professorini con la penna in mano», non ancora traditori.
Seconda notizia: intervengono, per la prima volta «su questi schermi» e cioè il blog del padrone -, in accoppiata di firma le due badesse del convento grillino, Casaleggio e Grillo. Pochissime righe, un solo pensiero: giù le mani da Bugani e dagli altri avvelenati. A Marco Piazza e Massimo Bugani, colpiti da «attacchi» sferrati da più parti, «rinnoviamo la nostra stima e totale solidarietà – scolpiscono nella storia a quattro mani – oltre all'apprezzamento per il lavoro svolto sul territorio». Cioè: stanno puntando la pistola contro i parlamentari che a loro volta avevano puntato la loro arma contro Bugani e Piazza.
IL SURPLACE
Un interessante surplace sta bloccando la scena, anche se è inutile spendere energie per intuire come andrà a finire, per ora: pare difficile che i parlamentari si mettano a sparare contro i loro benefattori. Anche qui, non diciamo noi «benefattori» ma ancora una volta i grillini nel web. Comunque, sono davvero sberle. Ci sarebbe una terza notizia fuori scala, tuttavia divertente. Riguarda l'autista di Grillo, Walter Vezzoli, quello di cui l'Espresso ha rintracciato alcuni conti esteri pare puliti. Vezzoli, che Grillo stima e presenta sui palchi, ha scritto qualcosa a proposito dei parlamentari dissidenti favorevoli a minime intese con la sinistra: «Via subito i traditori, il cancro va rimosso quando è piccolo».
E se lo dice l'autista di Grillo, conviene stare allerta. Un'altra pistola puntata al Corral Five Stars.

l’Unità 9.4.13
«Referendum on line per decidere. Ma un governo deve partire»
L’ottimismo del senatore Cinquestelle, ex poliziotto: «Troveremo una soluzione allo stallo. In Parlamento si deve dialogare. Lo dice anche la parola»
di Claudia Fusani


«Il referendum per chiedere al nostro elettorato se, quando, a chi e per cosa dare i voti è l’a-b-c della democrazia diretta, partecipata e telematica».
Mentre al Senato i capigruppo Cinquestelle spiegano i dettagli dell’«occupazione parlamentare», il senatore Mastrangeli, poliziotto in congedo e a lungo in servizio presso la segreteria del ministro dell’Interno, confida nel «buon senso» circa l’annunciata occupazione ed è ottimista rispetto allo stallo politico. «Si chiama Parlamento perchè è il luogo dove si parla e ci si confronta no? Un modo lo troveremo».
Per fare cosa? Le alleanze sono interdette dal non-statuto Cinquestelle.
«Le alleanze sono una cosa. Il dialogo è altro. Il voto di fiducia è un fatto tecnico, quasi lessicale, ed è assurdo impiccarsi ad una parola. Ecco, io credo che bisogna partire da qui, anche con il nostro elettorato, superare l’ostacolo della parola in sè e puntare al concetto».
Cosa intende per concetto?
«Se c’è l’accordo sui temi, sulle leggi, i numeri si trovano e bisogna andare avanti».
Elementare, sembra. Salvo questo ostacolo insormontabile che è dare la fiducia, un voto palese, dove ognuno mette la faccia. «Appunto, e quindi bisogna consultare i cittadini elettori e mettere ai voti». Cominciamo dagli aspetti tecnici. Come si fa?
«Tra pochi giorni avremo finalmente a disposizione il software che ci permetterà di interagire con gli elettori in tempo quasi reale. Ogni cittadino potrà votare ed esprimere un parere su determinate questioni».
Grillo e Casaleggio potranno chiedere alla base del movimento se dare la fiducia a qualcuno?
«Perchè no? È l’a-b-c della democrazia diretta. È il cuore della loro e della nostra visione politica. Mi stupirei se non lo fossero».
Facciamo un esempio. Il software arriva in tempo utile, diciamo intorno al 20 aprile, per far partecipare gli elettori Cinque Stelle alla decisione se dare o meno la fiducia a chi avrà l’incarico. Che tipo di quesito porrebbe ai cittadini elettori? «Comincerei con un referendum confermativo di quello che è il nostro non-statuto in relazione alla situazione che si è venuta a creare. Per essere più chiari, vorrei chiedere alla base il parere circa una eventuale forma di dialogo politico con una forza politica o un premier incaricato. Un dialogo per uscire dallo stallo e far partire questo governo. Insomma, la fiducia si dà e si leva non è a vita». Anche il tuo capogruppo, Crimi ha ribadito che non è intenzione dei Cinque Stelle tornare subito al voto.
«Il tema del ritorno al voto non è nella nostra agenda. Cioè, noi siamo entrati in Parlamento per fare, legiferare, decidere. E poi, torniamo a votare con queste legge? Scherziamo, anche i nostri elettori non lo perdonerebbero».
Le decisioni vanno sempre prese a maggioranza?
«Quelle politiche sì. Per il resto abbiamo massimo rispetto per la libertà di coscienza».
Da venerdì, giorno della scampagnata fuori porta, sembra esserci più tolleranza per chi mostra dissenso dalla linea. È successo qualcosa?
(Il senatore Mastrangeli sorride gentile) «Io ho sempre parlato liberamente. Detto questo, io le chiamo differenti visioni politiche. Sicuramente ce ne sono».
Il referendum on line. Siete d’accordo?
«Certo. I Cinque stelle sono nati per questo, per dare voce ai cittadini e coinvolgerli. È chiaro, non sulle decisioni quotidiane per cui dobbiamo esercitare la delega e la rappresentanza. Ma far partire o meno un governo è una questione importante, direi. Anche Grillo nei suoi post ha parlato di questa piattaforma, del software per interpellare i cittadini sulle scelte e sul programma politico. Presto sarà a nostra disposizione». Senta però qui il tempo stringe. E se il software non arrivasse in tempo per questa delicata occasione? O è Pd-Pdl e voi fuori in una facile opposizione; o è 5 Stelle e Pd; oppure si va a votare. Cosa sceglie? «Referendum o no, in un modo o nell’altro i numeri per far partire il governo saranno trovati. Circa le opzioni su quale maggioranza, dico che magari non sarà Bersani il nuovo premier incaricato. Magari sarà un professionista di qualità che non viene dalla politica».
A cui voi dareste la fiducia?
«Se non è compromesso con il sistema dei partiti e condivide parte del nostro programma, credo proprio di sì». Governo Cinque stelle?
«Guardi, tra di noi ci sono ottime professionalità. Se Maroni è stato il miglior ministro dell’Interno, le assicuro che io stesso non sarei da meno».
Perchè non indicate un candidato premier?
«Non mi risulta che Napolitano ci abbia chiesto di farlo. Magari lo farà il nuovo Presidente della Repubblica». I giornalisti chiedono quel nome una volta al giorno. Mai è arrivata risposta».

l’Unità 9.4.13
Il telefono di Le Pen e il Duce in cucina


Mentre la leader dell’ultradestra francese Marine Le Pen spiega che il suo staff è «già in contatto» con quello dei Cinque Stelle per organizzare un appuntamento con Grillo dove discutere della «responsabilità storica» che li attende, torna alla mente un innocuo dettaglio della gita in campagna dei grillini venerdì scorso in un resort alle porte di Roma. Nella accogliente cucina del locale, infatti, al muro spiccava un’immagine di Benito Mussolini. Un dettaglio che un cronista ha tentato di immortalare, prima di essere bloccato da uno dei gestori. Nulla di male, naturalmente, nell’appendere nella cucina del proprio locale un ritratto del Duce. E tuttavia la coincidenza si fa notare. Anche perché fonti del movimento raccontano che a scegliere il ristorante sia stata la capogruppo Roberta Lombardi (molto attiva nella logistica su Roma), quella che appena eletta venne beccata con un post in cui lodava il fascismo «delle origini», caratterizzato da un «altissimo senso dello Stato e di tutela della famiglia». Le Pen, intervistata ieri da Piazza pulita, ha spiegato che un suo referente è in attesa di una telefonata «da un responsabile del M5S». Ma su un punto è già in dissenso: «Senza il finanziamento pubblico della politica ci sono solo i soldi delle imprese e delle lobby».
A. C.

il Fatto 9.4.13
Il posto segreto di Grillo
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ogni volta con Grillo e i suoi deputati c'è un patto segreto, un ordine segreto, una decisione segreta, un posto segreto. Posso permettermi di dire che lo trovo strano, inutile e non rispettoso per gli elettori Cinque Stelle?
Daniela

LA RISPOSTA più bella e più dignitosa che mi aspetterei alla lettera di Daniela sarebbero due righe di libera spiegazione da parte di uno degli interessati. Poniamo che ci sia una ragione. Perché non condividerla? Che io sappia, tutto è pubblico nella democrazia. Ma la trasparenza è spesso evitata, i fatti dirottati, camuffati o nascosti, le notizie date male e altrove. Questo, che io ricordi, era la denuncia, il reclamo, la rivendicazione di M5S, forse la ragione più importante del successo elettorale: sapere tutto e sapere subito. Invece si susseguono scene come queste. I Cinque Stelle si riuniscono in segreto. Porte chiuse, i giornalisti, buoni e cattivi, vengono tenuti lontani come se tutta l'informazione e qualunque fonte fosse la peste, il capogruppo non parla e se parla nega subito dopo di averlo fatto, la capogruppo non parla e aggiunge solo un po' di sarcasmo e amarezza. Perché amarezza, se ha vinto, e in quella misura? Non dovrebbe essere orgoglio e un po' di bene-vola gentilezza non per giornalisti e colleghi ma per la gente che aspetta di sapere e di capire? Sappiamo tutti che il momento fa paura, soprattutto a coloro che sono e si sentono vittime di una cattiva politica, che ha buttato la gran parte del peso quasi solo su chi lavora, su chi non lavora più o non lavorerà mai (i giovani, per quel che sanno e capiscono di questo strano momento). Capirei scavalcare la stampa e improvvisare altrove, incontri diretti con i cittadini, eventi inaspettati alla Zorro, in cui il nuovi venuti dicono, lasciano un segno e se ne vanno prima delle telecamere. Ma andare in segreto, chiusi in due autobus, senza sapere dove, come i piloti dei B52 della seconda guerra mondiale, che dovevano aprire in volo la busta con le istruzioni, mi sembra antico. E un po' umiliante per i giovani giunti in parlamento, che devono sentire più seminaristi che membri liberi e nuovi di una Camera e di un Senato. Sbaglierò ma la politica del silenzio, dell'irritazione per le domande, del respingere la umana e legittima voglia di sapere dei cittadini, assomiglia troppo al comportamento dei presunti "professionisti della politica" per essere la strada di una nuova e buona politica. Cominciamo con il rimuovere il segreto, e qualcosa di realmente nuovo e diverso forse comincerà.

La Stampa 9.4.13
La prima proposta di legge Cinque Stelle
Matrimoni gay, i grillini adesso sfidano il Pd
di R. Mas.


E adesso che farà il Pd? Ieri il Movimento 5 Stelle ha presentato tre proposte di legge di quelle destinate a spaccare il centrosinistra (e il Pd in particolare) semmai dovessero essere calendarizzate nei lavori delle Camere. E anche se non lo fossero, almeno per ora, costituiscono delle sollecitazioni destinate a far saltare i già fragili equilibri all’interno del maggior partito della sinistra.
La prima l’ha presentata la senatrice Michela Montevecchi e riguarda l’omofobia e la transfobia, temi che dovrebbero essere cari al Pd, che nella scorsa legislatura si è battuto per una misura in questo senso. Allora in Parlamento non c’erano i numeri per una istanza del genere: ora ci sono. Che si fa? Si vota la proposta dei grillini o si fa la figura degli omofobi? L’altra proposta, depositata dal senatore Alberto Airola, riguarda le procedure per il cambiamento di sesso: più «tecnica» e meno capace di scardinare la convivenza pacifica tra le anime del Pd, ma comunque delicata e che impone delle scelte.
La terza è quella «bomba», e a firmarla è il senatore Luis Alberto Orellana: coppie di fatto e matrimonio anche per persone dello stesso sesso. La questione è complessa, perché il Pd è per una regolamentazione delle coppie di fatto (anche gay) ma nel suo programma non si fa menzione dell’istituto del matrimonio per persone dello stesso sesso. Tuttavia la proposta del M5S consentirebbe a questo Parlamento - finalmente e dopo varie legislature in cui non si è riuscito a fare nulla di dare una svolta. Dire sì vuol dire dare manforte alla linea spaccatutto dei grillini. Ma come si fa a dire di no? Chi glielo va a spiegare all’elettorato? Queste proposte arrivano dopo quella sul finanziamento pubblico dei partiti. Di proposte di questo tenore ne esiste già una del Pd, presentata dai deputati renziani. Il Pd vota quella di Renzi (contraria alla propria linea), quella del M5S .... o per non impelagarsi in queste dispute non ne vota nessuna?

La Stampa 9.4.13
A Bologna
Bugani contestato ma i due capi lo blindano


«Dopo i recenti attacchi arrivati da più parti ai consiglieri di Bologna Massimo Bugani e Marco Piazza rinnoviamo loro la nostra stima e totale solidarietà oltre all’apprezzamento per il lavoro svolto finora sul territorio». Lo scrivono Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, fondatori del Movimento 5 Stelle, sul blog di Grillo. Il riferimento è alle recenti polemiche che stanno coinvolgendo i due consiglieri comunali. Le parole di Grillo e Casaleggio arrivano poche ore dopo che Massimo Bugani si era dichiarato disponibile a dimettersi, amareggiato dalla presa di posizione dei parlamentari emiliani. I quali chiedono un’assemblea aperta per fermare «immediatamente queste pericolose derive da parte di pochi singoli» e riportare «il M5s di Bologna nella direzione in cui oggi la stragrande maggioranza del Movimento della nostra Regione sta remando e continua a remare». Tra i firmatari, il consigliere regionale Andrea Defranceschi e i parlamentari Paolo Bernini, Matteo Dall’Osso, Mara Mucci, Giulia Sarti, Elisa Bulgarelli, Adele Gambaro e Michela Montevecchi.

l’Unità 9.4.13
Ignazio Marino
«Rispetto ad Alemanno sono un marziano, cambierò Roma»
«Punto a governare con le idee, non con l’ideologia Voglio più asili, servizi e aria pulita: anche queste sono politiche per le famiglie»
intervista di Jolanda Bufalini


La conferenza stampa del vincitore delle primarie si svolge in un luogo simbolo: una volta era la cattedrale nel deserto, la stazione Ostiense costruita con le speculazioni dei mondiali del ‘90, che finalmente ha trovato vita ed è diventata una cattedrale del cibo di qualità. Si mescolano ai giornalisti candidati presidente di municipio, deputati, supporter, che lo applaudono quando arriva. Il luogo è scelto non a caso, perché Ignazio Marino ha, fra le sue convinzioni, quella di andare avanti sulla strada della nuova economia, della valorizzazione delle attività agricole nel Comune più agricolo d’Italia, con 51.000 ettari di Agro romano. Marino annuncia di aver telefonato ai «suoi presidenti», Pietro Grasso e Luigi Zanda, per annunciare le dimissioni da senatore. Perché, spiega, da oggi parte la sfida nuova, la sfida vera. Risponde al fuoco di fila delle domande, che si concentrano sullo schieramento che lo ha sostenuto, da Ingroia a Sel. O sulle diffidenze del mondo cattolico.
«È strano dice lui io ho fatto il chierichetto a Genova quando c’era il cardinale Siri, considerato papabile quando fu eletto Giovanni XIII, sono stato scout, mi sono laureato alla cattolica e, sulle questioni bioetiche, il mio interlocutore è stato il cardinale Martini». Non solo, aggiunge, «per Roma io penso a una città a misura di bambino, a un piano per gli asili nido, a un’aria respirabile, a una città più sicura. Sono politiche per la famiglia, perché i cattolici non dovrebbero essere d’accordo?». Ne trae una morale sintetizzata con un detto popolare della sua infanzia: «Il lupo di malacoscienza come opera pensa» per spiegare che non intende guardare ai gruppi di interesse ma alle persone e indica lo slogan alle sue spalle: «Non è politica è Roma».
Al giornalista dell’Ansa che gli chiede di possibili ticket elettorali risponde come se non avesse capito: «I ticket si possono togliere tagliando gli 834 milioni di consulenze per la sanità». «Ritengo di essere una persona libera che vuole governare Roma con le idee e non con l’ideologia». Attacca l’inconcludenza di Alemanno: «Sono stato a Case rosse, lì nel 2008 Alemanno aveva promesso di portare l’illuminazione stradale. Al posto dei pali della luce, ora, ci sono buche pericolose».
Il sindaco Alemanno a La7 ha detto che lei è un marziano. Cosa risponde?
«Confermo, sono un marziano. Lo sono rispetto ai metodi usati nel governo di Roma in questi anni, dove ai manager sono stati dati stipendi di 100 volte superiori a quelli dei dipendenti, stipendi che non sono stati nemmeno agganciati a obiettivi precisi da raggiungere. Le mie nomine si faranno all’insegna della trasparenza, dei curricula e della competenza».
Alfio Marchini ha commentato la sua affermazione alle primarie come la vittoria di una candidatura di sinistra. In più ci sono molte aree del mondo cattolico democratico che potrebbero orientare la loro scelta diversamente, sentendo come troppo radicali le sue posizioni sui diritti come quelli relativi alle coppie di fatto.
«Non conosco personalmente Alfio Marchini ma sono molto interessato al confronto con lui e ad ascoltare le sue idee. Lui stesso, mi pare, ma forse sbaglio, ha posto fra le priorità l’istituzione di un registro per le unioni civili. Il mio punto di vista è rispettare le idee e le sensibilità di tutti. Roma è il centro della cristianità mondiale e mi ha umiliato che, in occasione della via crucis, non ci fosse una adeguata preparazione, in modo che pellegrini e persone arrivate da tutto il mondo potessero assistere alla processione attraverso i maxischermi. Ce ne era solo uno. Ma a Roma c’è anche la comunità ebraica più antica, ci sono la moschea e il centro buddista più grandi d’Italia. Le rispondo con una frase del cardinal Martini che mi piace molto: la differenza non è fra credenti e non credenti ma fra pensanti e non pensanti. E sono sicuro che Alfio Marchini è fra i pensanti».
Cosa risponde alle polemiche sul voto di persone rom e immigrate?
«Le rispondo come ho già fatto in conferenza stampa con una analisi matematica. A Roma vivono 7000 rom, compresi i neonati. Se avessero votato tutti, anche i neonati, resterebbero 93.000 degli altri cittadini. In realtà, quello che sappiamo è che hanno votato alcune decine di persone di etnia rom e, come ha detto il ministro Andrea Riccardi, autorevole esponente della comunità di Sant’Egidio, non ci si deve spaventare appena si vede qualche rom».
Quale rapporto instaurerà con i competitori delle primarie?
«Ci sarà il confronto con tutti, ciascuno di loro ha un percorso e una cultura su specifiche aree strategiche per Roma, che daranno un contributo prezioso. Del resto questo è il motivo per cui si fanno le primarie che servono per far emergere il progetto migliore ma con il contributo di tutti. E servono per far vincere chi lo merita per far vincere tutti alle elezioni».
Fra qualche giorno Alemanno nominerà il rappresentante del Comune nel Cda di Acea. Lei parla di metodi nuovi, basati sul merito, ma i suoi metodi rischiano di dover aspettare cinque anni per realizzarsi. Inoltre il candidato di Alemanno sembra rappresentare più l’interesse di privati che quello dell’azionista pubblico.
«Io spero che Gianni Alemanno rinunci a fare nomine a pochi giorni dalle elezioni, sarebbe un gesto arrogante, poiché quei vertici dovranno lavorare con il nuovo sindaco e Alemanno, se vince, li potrà nominare dieci giorni dopo essere stato eletto. E c’è dell’altro, se sarò io a vincere, bisognerà rivedere quegli stipendi da 750.000 euro l’anno, soprattutto in una azienda che, negli ultimi anni, è andata in perdita. E poi, io mi sono schierato ai referendum contro il nucleare e per l’acqua pubblica e il voto referendario ha deciso. Ora non si possono truccare le carte rispetto ad una indicazione popolare, facendo amministrare l’acqua pubblica dai privati».

l’Unità 9.4.13
Primarie, il voto che sbaraglia calcoli di apparato
Nei municipi una classe dirigente del tutto nuova
Marchini: «Un risultato che sposta a sinistra la coalizione»
di J. B.


È come l’invenzione dell’archibugio che, quando comparve in battaglia, sbaragliò i poveri arcieri e la cavalleria. La vittoria di Ignazio Marino alle primarie romane racconta un rivoluzionamento che ha rivelato la poca presa degli apparati sulle scelte degli elettori. Ieri sera la Commissione del Comitato Roma Bene Comune ha proclamato ufficialemente la vittoria del chirurgo dei trapianti del rene, che ha vinto con il 50% dei voti validi che sono stati 97.673. I votanti sono stati, invece, 100.78. Marino ha preso 48.580 voti. Dietro a Marino si è piazzato David Sassoli con 27.112 voti. Terzo Paolo Gentiloni con 10.586 preferenze. Maria Gemma Azuni ha ottenuto 4.746 voti, Patrizia Prestipino 3.541 e Mattia DiTommaso 1.513.
I quartieri che hanno premiato Marino sono soprattutto quelli centrali e quelli semicentrali, come la zona di Don Bosco, Cinecittà. Non è bastata, a controbilanciare, la strategia di David Sassoli che ha puntato sulle periferie. Marino è arrivato primo in tutti i municipi e il candidato sostenuto da una larga parte del partito democratico nazionale e romano ha vinto solo nel VI municipio, quello che si snoda sulla Prenestina (ex VIII). E c’è da chiedersi se quel concetto di periferia sia ancora attuale o si debba guardare con occhio più acuto alla realtà metropolitana. Gentiloni ha riportato un risultato deludente, sostenuto dalle realtà ambientaliste, considerato di grande competenza, ha probabilmente pagato la polarizzazione dello scontro e forse l’aver partecipato alla stagione ormai lontana del sindaco Rutelli. Ma, anche il sostegno di Matteo Renzi, non ha portato acqua sufficiente al suo mulino. L’archibugio ha sconfitto gli arcieri si chiama primarie aperte. Ai seggi è andato un elettorato con pochi legami con le strutture organizzate della città. Elettorato anziano, sono pochi i giovani che si sono presentati ai gazebo, nonostante l’apertura al voto per i sedicenni. E un elettorato non fortemente motivato, «Proviamo anche questa volta», era la frase che si sentiva più spesso nelle file. Alla partecipazione come festa della democrazia fa, invece, riferimento Gemma Azuni che, in dissenso con il suo partito, ha deciso di aggiungere il colore rosa della sua candidatura alla corsa delle primarie: « Le migliaia di voti che mi hanno permesso di arrivare al quarto posto sono frutto di un impegno lungo cinque anni. Da oggi sosterrò con tutte le mie energie la candidatura a sindaco di Roma di Marino. La nostra città merita un sindaco per bene».
Il risultato delle primarie è talmente netto che non può essere sporcato dalle polemiche sul voto rom, che ha tenuto banco ieri, fra gli avversari nella sfida per il Campidoglio. L’assessore Belviso ha annunciato un esposto alla magistratura per il sospetto di compravendita dei voti, denunciato anche dal candidato del M5S. Ma la campagna elettorale è già cominciata, il sindaco Alemanno ha sbroccato, ieri mattina, ospite di una trasmissione de la 7 perché la sua intervista era preceduta da un servizio in cui si dava conto dell’aumento dell’Irpef e dell’Imu a Roma.
E in campagna elettorale è anche Alfio Marchini che ha commentato il risultato delle primarie di centro sinistra: «Con grande rispetto prendo atto dell' esito. Mi rendo conto che è una proposta che sposta molto l'asse a sinistra e a mio avviso c'è la necessità di una rivoluzione vera ma anche moderata. Credo nella radicalità della rivoluzione ma anche nelle regole fondamentali del convivere insieme».
Mentre Ignazio Marino incontrava i giornalisti a Eataly, in altra parte della città, due sindaci delle stagioni di centro sinistra, Francesco Rutelli e Walter Veltroni, presentavano il libro di Gianni Borgna, per un ventennio assessore della cultura a Roma. «Quella che stiamo vivendo è una stagione del tutto nuova», ha detto Velroni, «l’unica cosa su cui mi sento di suggerire continuità è che fare il sindaco è diverso dal fare politica, perché il sindaco deve unire tutta la comunità». Anche quelle parti di comunità che possono apparire inconciliabili. E Veltroni ha fatto un esempio che gli è molto caro, quello dell’incontro fra il fratello dei Mattei e la mamma di Valerio Verbano.
Nella giornata di domenica, oltre che per il candidato sindaco, si è votato per i candidati alle presidenze dei municipi. Il quadro che ne viene fuori è quello di una squadra giovane, del tutto nuova (con l’eccezione della riconferma di Susanna Fantino) che si è formata negli anni in cui Nicola Zingaretti era segretario del Pd romano. Nel Municipio 1 (ex 1 e 17): Sabrina Alfonsi, Municipio 2 (ex 2 e 3): Giuseppe Gerace, Municipio 3 (ex 4): Paolo Marchionne, Municipio 4 (ex 5): Emiliano Sciascia, Municipio 5 (ex 6 e 7): Giammarco Palmieri Municipio 6 (ex 8): Marco Scipioni Municipio 7 (ex 9 e 10): Susanna Fantino Municipio 10 (ex 13): Andrea Tassone Municipio Roma 11 (ex 15): Maurizio Veloccia Municipio 12 (ex 16): Cristina Maltese Municipio 13 (ex 18): Valentino Mancinelli Municipio 14 (ex 19): Valerio Barletta Municipio 15 (ex 20): Daniele Torquati. Nel Municipio 8 (ex 11) e nel Municipio 9 (ex 12) sono stati indicati, senza fare le primarie, Andrea Catarci e Andrea Santoro.

La Stampa 9.4.13
La sfida di Marino per Roma. Intercettare il voto del M5S
Pari nei sondaggi, per sconfiggere Alemanno caccia al voto di protesta
di Mattia Feltri


E’ un vero peccato che due buoni amici posti dalle vicende della vita da una parte e dell’altra della barricata, e cioè Andrea Augello e Goffredo Bettini, non se la giochino fino in fondo. Il primo, senatore del Pdl, coordina la campagna elettorale per la riconferma di Gianni Alemanno a sindaco di Roma. Il secondo, inventore del modello che ha condotto prima Francesco Rutelli e poi Walter Veltroni in Campidoglio, questa volta si è speso per la candidatura di Ignazio Marino alle primarie del Pd. E, prima ancora di sapere di averle vinte, ha annunciato che il suo compito era finito lì. «Sono stanco, talvolta nauseato, dello stereotipo che mi è stato appiccicato addosso. Il regista, quello che decide veramente e tiene le fila di tutto. Sto diventando antipatico a me stesso», ha scritto ieri su Europa. Il derby è già finito. E sarebbe stato bello da seguire perché diventerà senz’altro un partita a tre, se non a quattro. I sondaggi che girano nel centrodestra (una comparazione di analisi diverse) danno Alemanno e Marino appaiati fra il 36 e il 38 per cento; Marcello De Vito del M5S accreditato di una cifra compresa fra il 10 e il 15 per cento; infine c’è Alfio Marchini intorno al 7, buon amico della famiglia Caltagirone, che a Roma pesa non poco, e di solidi rapporti con il Pd. Il resto è degli indecisi. Ma, come dice Augello, illudersi che i cinque stelle resteranno a quelle percentuali (sempre che ancora rispecchino gli intendimenti) è materia di matti. «Grillo arriverà e si giocherà la sfida della vita», dice. Lo tsunami calerà sulla capitale. E - lo pensano nei gruppi di lavoro di destra come di sinistra - se i grillini dovessero agguantare il ballottaggio, a quel punto avrebbero cospicue possibilità di aggiudicarselo. Per un motivo semplice e già sperimentato (per esempio a Parma): l’irresistibile tentazione dello sconfitto di fare perdere il nemico storico.
Peccato, lo è sempre di più, che Bettini molli ora. Anche perché lui come Augello ha valutato che la sfida ai cinque stelle vada combattuta anche sul loro terreno. Sentite qui Bettini: «Non bastano più i comitati di quartiere o di lotta sui singoli problemi che hanno inevitabilmente carattere corporativo e travestono interessi politici o di parte. C’è bisogno di una democrazia dal basso delle persone, responsabilizzate nell’esercizio di una loro funzione di decisione, come cittadini testimoni singoli, e quindi universali, della propria condizione metropolitana, poliedrica e complessa, di vulnerabilità ma anche di speranza di un cambiamento». E poi Augello: «In queste ore stiamo valutando l’opportunità di affidare alcuni temi a consultazioni referendarie». Una sinfonia, per le orecchie di Grillo, anche se non saranno queste buone intenzioni a mitigarlo.
Saranno quarantacinque giorni di fiamma, questa campagna elettorale. Si farà in tempo ad averne nausea, se le premesse delle ultime ore avranno seguiti, con Marino che rimprovera a Beppe Grillo la genovesità, lui che è genovese. E con Alemanno che a La7 perde le staffe perché gli vengono attribuiti passivi di bilancio che secondo lui risalgono all’amministrazione Veltroni e che hanno determinato l’aumento delle aliquote Irpef. Il punto è che - dicono nello staff del sindaco - Alemanno paga una generalizzata crisi del centrodestra, specie dove non si spende Silvio Berlusconi, che infatti si spenderà. La sua percentuale è più alta di quella della lista, e però di consensi ne sono stati persi molti. La convinzione è che il match sia aperto perché Marino saprà pescare fuori dal Pd molto meno di quello che avrebbe pescato David Sassoli, capace di tenere assieme sinistra, scout, antipatizzanti di Alemanno. E allora, in tutto questo sussulto di modernità, Marino non dimentica le solide e annichilenti tradizioni: «Roma è antifascista». Si comincia bene.

La Stampa 9.4.13
Il mix di Ignazio tra spese basse, giovani, cattolici e centri sociali
di Giuseppe Salvaggiulo


Episodio chiave delle primarie romane: Ignazio Marino diserta il dibattito organizzato dalla dalemiana fondazione «Italianieuropei» (di cui pure fa parte), poi si presenta in bicicletta all’ingresso della sala, suonando platealmente il campanello per manifestare la sua alterità e sentendosi rispondere di essere vittima di «un corto circuito neurologico». Nel mix vincente di Marino c’è soprattutto questa percezione di «alterità» rispetto alla nomenclatura del Pd. Così, mentre i candidati «forti» Gentiloni e Sassoli riempivano Roma di manifesti, anche abusivi (che ormai disgustano gli elettori), Marino sceglieva una campagna low cost: poco più di 30 mila euro e spese pubblicate on line prima del voto; agile squadra di una dozzina di militanti, per lo più giovani, nel comitato a San Lorenzo; niente dirigenti di partito; slogan popolari - «Daje! » - e civici - «Non è politica, è Roma». Manifesti? «Nessuno, perché non voglio imbrattare la città».
Profilo fluido, quello di Marino. Viene dalla società civile - chirurgo di fama - ma ha ormai una solita esperienza politica. È un «nativo» del Pd, ma con un profilo autonomo, già «oltre». Cattolico (ha scritto un libro col cardinal Martini) ma laico sui diritti civili. Distinto borghese con maglioni girocollo ed eloquio piano, ma sostenuto da pezzi di Sel, Ingroia, parte dei centri sociali. Ha diviso i «giovani turchi» del Pd (Fassina era con lui). E convinto moderati e radicali, attori radical chic e ceti popolari, pescando a piene mani nel voto di opinione, favorito dalle regole di partecipazione aperte.
Esemplari tre endorsement in suo favore: Goffredo Bettini, braccio destro in Campidoglio di Veltroni (che invece stava con Sassoli) ; il governatore Nicola Zingaretti (che nello stesso giorno aveva preso il 6% più di Bersani) e Stefano Rodotà, il giurista che i movimenti e una larga fetta di grillini vogliono al Quirinale.

Corriere 9.4.13
La vittoria di Marino e il grande equivoco delle Primarie
di Aldo Cazzullo


Le primarie dovrebbero selezionare il candidato con più chance. Ma da noi vince quasi sempre quello più a sinistra. I Renzi aspettano. Avanzano i Marino.
Non si vorrebbe mancare di rispetto al mitico «popolo delle primarie», sempre entusiasta e numeroso (anche se domenica a Roma meno del solito); ma si ha l'impressione che questo «popolo» non abbia compreso bene a cosa servono, le primarie.
In America, dove le hanno inventate, l'obiettivo non è scegliere il personaggio più simpatico, identitario, vicino alla sensibilità dei militanti, portatore della linea più dura, pura, radicale. L'obiettivo è scegliere il candidato che ha più chances di battere gli avversari. L'uomo in cui possono riconoscersi non tanto i «compagni», quanto la maggioranza dei concittadini o dei connazionali. Allo stesso modo si sono comportati i socialisti francesi, che in entrambe le occasioni in cui sono stati consultati per le presidenziali hanno scelto un esponente del centro del partito: prima la Royal, che prese un dignitoso 46,5%; poi Hollande, che sconfisse Sarkozy.
In Italia, all'inizio le primarie sono state il modo di confermare una decisione già presa dai partiti (Prodi, Veltroni). Poi la scelta è diventata «vera». Da allora, vince quasi sempre il candidato più a sinistra. Pisapia a Milano. Doria a Genova. Zedda a Cagliari. Lo stesso Bersani, due volte: contro Franceschini, e soprattutto contro Renzi. E' vero che i sindaci hanno tutti vinto, a volte rispettando la tradizione come a Genova, a volte ribaltandola come a Milano. Ma è noto che alle amministrative la sinistra ha gioco più facile rispetto alle politiche. Dopo il deludente risultato del 24 febbraio, è stato scritto che Renzi non si sarebbe certo fermato sotto il 30%. Ma questo era chiaro già al tempo delle primarie: non c'era un sondaggio che non indicasse in lui il candidato più competitivo. Ha prevalso il richiamo dell'identità (e anche dell'apparato). Le primarie di Roma indicano che la lezione non è stata appresa. Non c'erano candidati di primo piano, è vero. C'era però un recordman delle preferenze come David Sassoli. E c'era soprattutto Paolo Gentiloni, l'unico ad avere un'esperienza nell'amministrazione della capitale e nel governo del Paese; ma nonostante l'appoggio di Renzi e di Veltroni ha avuto un risultato imbarazzante. I militanti romani hanno plebiscitato come d'abitudine il candidato più a sinistra, Ignazio Marino (dietro cui pure si intravede l'apparato, nella forma della macchina organizzativa di Goffredo Bettini). Marino è un personaggio per certi aspetti interessante: chirurgo prestato alla politica, all'avanguardia sui diritti civili. Magari potrà pure vincere (anche a Roma, come in quasi tutte le grandi città italiane, il centrosinistra ha una base di partenza più ampia del centrodestra). Restano alcune perplessità oggettive. Nato a Genova da madre svizzera e padre siciliano, un percorso professionale tra Cambridge, Pittsburgh, Filadelfia e Palermo, Marino non c'entra molto con la capitale. Potrà anche strappare qualche voto grillino; ma avrà parecchie difficoltà a intercettare moderati e cattolici.
Presto potrebbero essere convocate nuove primarie nazionali, in vista del voto anticipato. Siccome la sinistra viaggia con un'elezione di ritardo — nel 2006 fu schierato Prodi anziché Veltroni, mandato a perdere due anni dopo; nel 2013 è stato schierato Bersani anziché Renzi —, stavolta dovrebbe toccare al sindaco di Firenze. L'Italia non schierata lo aspetta, a torto o a ragione. Ma già spunta Fabrizio Barca, i cui meriti come ministro sfuggono ai più, ma che può vantare un impeccabile pedigree rosso (a cominciare dal padre, intellettuale di punta del Pci, direttore dell'Unità e di Rinascita); che non è un torto ma, agli occhi dell'ostinata maggioranza degli italiani, neppure un merito. Se ne possono trarre molte considerazioni, tutte legittime. Tra le quali c'è anche questa: non esistono, come la sinistra tende a credere, un'Italia immatura, sempre pronta a bersi le promesse di Berlusconi, e un'Italia “riflessiva”; esistono due minoranze di militanti — numerose se misurate in piazza o ai gazebo, piccole in termini assoluti —, pronte a seguire l'istinto e la passione, ma incapaci di indicare una soluzione condivisa a una vastissima Italia di mezzo, che alla politica crede sempre meno.
Aldo Cazzullo

l’Unità 9.4.13
Massimo Salvadori
«Questa crisi è figlia del neoliberismo thatcheriano»
Anche la sinistra contagiata dall’enfasi sul libero mercato: nel mondo globalizzato ha portato al dominio di oligarchie plutocratiche
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Noi non potremmo spiegarci la depressione in cui è caduta l’economia mondiale a partire dal 2008, nella crisi più grave dopo quella scoppiata nel 1929, senza tener conto degli effetti provocati dall’ideologia e dalla pratica di quel neoliberismo di cui Margaret Thatcher era stata l’apripista». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e scienziati della politica italiani: il professor Massimo Salvadori. Professore cosa ha rappresentato Margaret Thatcher e il «thatcherismo» su scala internazionale?
«Il primo aspetto da sottolineare è che il “thatcherismo” ha rappresentato dalla fine degli anni Settanta un’onda lunga che non è ancora finita. Quest’onda, avviata in Gran Bretagna, aveva poi trovato immediatamente una sponda ancor più forte e importante in America durante la presidenza Reagan, dove poteva contare su assai significativi economisti che contro il sistema del welfare e contro l’intervento statale in economia, predicavano il ritorno allo Stato minimo. Questa ondata è diventata sempre più potente e dinamica in relazione ad un altro dato della massima importanza...».
Quale?
«Mi riferisco alla spinta che all’ondata neoliberista “thatcherian-reaganiana” venne data da fattori concomitanti: in primo luogo, dal crollo dell’impero sovietico, che ha avuto un peso determinante nel favorire gli attacchi contro lo statalismo economico in tutti i suoi versanti. Tanto in quello veterocomunista caduto in discredito totale dopo il 1989 quanto in quello socialdemocratico, vale a dire sia nella forma “rigida” che in quella “morbida”. Ma quello che ha contribuito ulteriormente a dilatare su scala internazionale l’ondata neoliberista, sono state due esperienze ritenute di sinistra».
A cosa si riferisce?
«In primo luogo al governo Clinton negli Usa, che prese delle misure estremamente rilevanti nello smontare negli Stati Uniti l’eredità del New Deal roosveltiano, che aveva posto dei controlli pubblici sul settore bancario». Ciò vuol dire che il «thatcherismo» ha fatto proseliti anche a «sinistra»?
«Credo che questa conclusione sia inevitabile, tanto più che alla politica di Clinton negli Usa e andata affiancandosi quella di Blair in Gran Bretagna. Blair ha contribuito con toni celebrativi a enfatizzare la totale libertà di gioco delle imprese private nell’ambito del mercato economico. Il sommarsi delle rispettive linee, in Gran Bretagna, negli Usa e di lì in maniera crescente in tutti i Paesi occidentali e non solo, ha finito per trovare le condizioni più favorevoli nel quadro della globalizzazione economica, che ha avuto nel neoliberismo la sua bandiera ideologica e politica».
L’onda lunga del «thatcherismo» ha dunque segnato anche questo primo scorcio del Terzo Millennio?
«Direi proprio di sì. Di quel neo-liberismo che ha portato alla depressione economica più grave dopo la crisi del 1929, Margaret Thatcher è stata indubbiamente l’apripista. L’apripista di un neo-liberismo che ha finito per porre al centro dell’economia mondiale non più la libera impresa secondo un approccio ideologico neo-individualista. Quello che ha determinato nella realtà dei fatti è il primato delle grandi oligarchie finanziarie e industriali, le quali hanno avuto la strada spianata nel perseguire i propri interessi particolari, obbedendo a finalità puramente speculative, lasciate libere di operare dal progressivo smantellamento degli organi di controllo pubblici sulla speculazione stessa. E tutto ciò ha prodotto il sopravvento dell’economia finanziaria sull’economia produttiva».
In ultima analisi, professor Salvadori, qual è stato il tratto distintivo di Margaret Thatcher?
«Credo sia consistito nel farsi interprete e propugnatrice di una ideologia neoliberista la cui finalità era di dare piena libertà, senza regole né vincoli sociali, dei singoli nel mercato economico-finnanziario, e di aver portato nei fatti l’economia, diventata globale, sotto il dominio delle minoranze plutocratiche».

il Fatto 9.4.13
Bill Emmott “Dalla politica alla Chiesa l’Italia è al collasso”
Lo storico direttore dell’Economist: “Del vostro Paese resta solo il corpo scheletrico, ridotto alla fame. Il voto a Beppe Grillo non è altro che un rantolo di fine corsa”
di Antonello Caporale


Se state annegando in una crisi che definite senza precedenti è perchè gli argini della società civile non hanno retto. In Italia si è verificato un collasso di tutti gli organi vitali della comunità: prima la politica certo. Ma poi la Chiesa, poi la famiglia, infine l’informazione. Un birillo caduto sull’altro, un effetto domino disastroso. Non c’è istituzione salva, integra, degna. Alla fine, del vostro Paese resta il corpo scheletrito, ridotto alla fame. Lo scuoti ma non ricevi segnali di vita. Lo osservi e lo trovi immobile, insensibile a qualunque sollecitazione. Il voto a Beppe Grillo non è altro che un sussulto, un rantolo di fine corsa, un moto di rabbia e impotenza insieme”.
IN COMA. Se il termine della vita è la morte, il coma è quell’anticamera, è il momento che lo precede, la malattia che invade ogni cellula e la immobilizza, lo stadio che annuncia la probabile fine corsa. La parola che viene in mente a Bill Emmott. Dal coma si può uscire, ma è una impresa titanica. Ci aspetteranno anni di dolori e a dircelo è un amico dell’Italia, una persona che si sente fidanzato con l’Italia: la ama ma non la riconosce più. Emmott è stato il primo osservatore oltre frontiera ad accorgersi di un problema, divenuto poi pericolo, chiamato Silvio Berlusconi, il primo a metterlo in prima pagina catalogandolo come “unfit”: inadatto, inadeguato a governare. Emmott dirigeva l’Economist a quel tempo e quella copertina sollevò una nube così alta che ancora adesso si scorge dietro la sua sagoma di londinese mite, col pizzetto e il passo del gentlman. Bill torna sempre qui da noi. Due, tre volte l’anno. Dalla Toscana divaga per la penisola: “in treno è facilissimo. Con frecciarossa raggiungi ogni città quando vuoi.
DA NOI non esistono treni così veloci (se si esclude il Londra-Parigi) ”. È il primo encomio in tanta desolazione. “Potrei risponderti che il treno veloce non è una questione dirimente. Non cambia la faccia del tuo Paese”. Che conosci così bene da definirlo come una tua girlfrend. Del resto “Girlfrend in a coma” è l’ultimo amaro atto d’accusa nel quale riepiloghi vent’anni di storia, la ricomponi attraverso le facce del potere, sfingi spesso immobili, occhi di vetro che assistono all’oltraggio della legalità e della Costituzione. Ma il tuo film recinta la vicenda berlusconiana dentro l’opera collettiva di una classe dirigente collusa e nel panorama asfissiante di una società che mormora, non parla, ama le mezze verità e le mezze vergogne, si produce in mezzi inchini e mezzi dinieghi.
Bill, non abbiamo altro da fare che morire? Possibile che non scorga altro, la società italiana è complessa e possiede energie ancora vitali secondo me. “Tutto quel che è accaduto non è stato un caso, non un incidente della storia. La forza pirotecnica del berlusconismo, e le smargiassate, e la grandiosità dei suoi conflitti e anche del suo potere che si è espanso e ha attecchito profondamente nella cultura del Paese, è il risultato di una larga compromissione della borghesia, degli intellettuali. Se mi chiedi parole per raccontare questa crisi, la prima che mi viene in mente è la collusione, la connivenza. È come se larga parte del Paese fosse stato socio occulto di questa deriva. Ho detto che la condizione di salute mi sembra peggiore di quel che una veduta meno prossima della mia possa intuire. Non c’è solo crisi politica e non è questione di recessione economica. C’è di più”. In Inghilterra non sarebbe stato possibile, ho capito bene? “Abbiamo avuto leader carismatici, dotati di una forza particolare. Chi può dimenticare il carisma di Churchill? E oggi come non si può rievocare il governo e il pugno della Thatcher? Perfino il mandato di Tony Blair è stato sostenuto da un ampio movimento di opinione favorevole. Ma questi tre signori hanno sempre avuto di fronte contropoteri eccellenti, una bilancia che distribuiva su diversi pesi gli interessi in campo. L’informazione britannica è molto più rigorosa e tenta sempre di fare il proprio mestiere. Puoi dirmi che la Rai è come la Bbc? ”. No, la Rai non è affatto la Bbc: “Ci troviano d’accordo, allora. E quale altro potere ha retto in Italia durante questo ventennio? C’è un parallelismo significativo tra la decadenza della politica, l’appannamento del suo senso etico, e l’ondata di malcostume che ha piegato la Chiesa, infiltrando dentro quella comunità l’odore dei soldi e della corruzione. Un pilastro della società civile è così venuto a mancare e proprio nel momento in cui c’era più bisogno che restasse in piedi. Ecco perchè la crisi da voi è più profonda, più seria e più grave”.
UNA SOCIETÀ più debole e più incattivita: “Rabbia, sa esprimere solo la rabbia. Il voto al Movimento 5 Stelle altro non è che una esplosione legittima ma piuttosto confusa di ribellione”. Ho visto il tuo film. Eri al Quirinale, mi pare, e la cinepresa ha fatto una panoramica degli invitati a una cerimonia di Stato. “Quel popolo di potenti radunati al Quirinale è la cornice dentro la quale l’anomalia si è sviluppata. Non ci sono innocenti, questo mi pare assodato”. Siamo tutti “unfit”? “Di sicuro un gran numero lo è”.
(5. Continua)

Repubblica 9.4.13
Da Lenin ai Cinque Stelle
di Andrea Manzella


Perché la geografia politica definitiva delle commissioni riproduce quella del governo: come strumenti essenziali per l’attuazione del suo programma, come snodi delle filiere di maggioranza e opposizione. Fino a che un nuovo governo si forma, non si possono perciò avere commissioni “permanenti”.
Pragmaticamente però, “coperti” da Costituzione e regolamenti, i presidenti della Camera e del Senato hanno costituito due commissioni “speciali” transitorie come il periodo che attraversiamo. Il tempo però si prolunga e anche crescono le materie su cui le competenze delle due commissioni risultano affastellate. Di qui la richiesta di ampliarne le competenze, di articolarle in sottocomitati o di crearne altre, per tre o quattro macro-aree, fermo restando la precarietà temporale.
Spetterà alle assemblee decidere sul punto. E speriamo che lo facciano presto e non diano forza alla cattiva immagine - che già circola - di un Parlamento “disoccupato”, in “cassa integrazione” pagata dai contribuenti. Si è già visto che il Parlamento, anche se appena eletto, non è certo considerato “innocente” da chi grida disperazione sociale.
È bene infatti che quale che sia la complicata vicenda nella formazione del governo, i nuovi parlamentari “trovino subito lavoro”. Non solo per esaminare e controllare i provvedimenti del governo dimissionario ma anche per stimolare, nel confronto e sul terreno, le loro prime riflessioni: sul Parlamento che hanno trovato e sul Parlamento che devono cambiare. Per diventare insomma anche loro, “saggi”.
Capiranno così che non basta la necessaria lotta agli sprechi della casa per dare slancio ed anima ad istituzioni rappresentative accartocciate su se stesse. Ci sono altri problemi e altre verità da scoprire sullo stato del Parlamento. Visto da un lato come istituzione “in sé”, autonoma nei suoi poteri. Dal-l’altro, come istituzione che condivide con il governo il peso delle decisioni pubbliche, delle “politiche generali”.
Sul piano istituzionale, se si fa il confronto con gli altri Parlamenti dell’Unione, il nostro sistema parlamentare è il più debole d’Europa. Non vi sono rappresentate le Regioni come in Germania, in Spagna, in Francia. Non ha le garanzie contro lo scioglimento anticipato che hanno il Bundestag e la Camera dei Comuni britannica. Non ha, unico in tutta l’Europa continentale, la possibilità di ricorso diretto di minoranza al tribunale costituzionale. Non ha, soprattutto, la forza rappresentativa che ovunque le leggi elettorali, con i collegi uninominali e le piccole circoscrizioni, danno, con il legame al territorio, agli altri parlamenti.
A questa specifica povertà istituzionale italiana si aggiungono, drammaticamente, le difficoltà dei Parlamenti a tenere dietro ai governi - nazionali e sovranazionali - nelle decisioni pubbliche. L’ordinamento delle decisioni pubbliche - dominate dall’urgenza - si è verticalizzato e “semplificato”. La questione non è più quella dell’equilibrio democratico nelle decisioni tra governo e Parlamento. La questione è se le decisioni pubbliche, comunque adottate, siano adeguate nella tempistica e nel merito alle necessità da fronteggiare nella crisi. E su quale sia il luogo abilitato per valutarne gli effetti.
Nel magma della grande crisi, sembra ormai anacronistico richiamare rigidi schemi di competenze parlamentari (come le risalenti grida contro l’abuso della decretazione d’urgenza: vi è persino il dubbio che, alla luce della situazione attuale, la Corte costituzionale non avrebbe sentenziato contro la reiterazione dei decretilegge ...).
Le domande sono ora più radicali: lo strumento legislativo ordinario è adeguato a reggere il peso di questa nuova situazione? Dobbiamo “rinunciarvi” perché il governo ha i mezzi più idonei ad intervenire in questo contesto? Come si rimodula il Parlamento dinanzi ad una tale “dispersione” della sovranità? Come possiamo salvaguardarne le prerogative essenziali? La situazione di emergenza continua e strutturale impone, infatti, di spostare l’accento dai temi consueti della crisi della legislazione a quelli – per molti aspetti inediti - della legislazione della crisi. Non è un giuoco di parole. Non si può infatti affrontare la crisi – con le sue cause e componenti irriducibili ai confini statali e perfino ad una unione sovranazionale (come l’Ue) – costringendola nel “letto di Procuste” delle vecchie procedure normative. Sono queste procedure, invece, a dovere essere investite da uno sforzo culturale di adattamento, di meticciato, talora di de-formazione (con l’utilizzazione di moduli tradizionali per ottenere risultati nuovi; con l’immissione di procedure partecipative).
Una cosa rimane ben ferma: la necessità di una funzione di controllo parlamentare spostata sul versante dei risultati, della valutazione delle politiche pubbliche, della verifica delle procedure deliberative. La necessità del Parlamento come pubblico ministero della Nazione.
Insomma, nel funzionamento della nostra democrazia è aperta una grande “questione parlamentare”. Che ha due versanti. Quello della costruzione di una energia istituzionale del Parlamento, almeno pari a quella degli altri europei (con cui oltretutto la “cooperazione” prevista dai Trattati è zoppa, se non ad armi uguali). Quello della invenzione di procedure nuove nella vasta area che la Costituzione lascia libera per la deliberazione legislativa e in quella ancora più larga del controllo sulle politiche pubbliche. Ignorare tutto questo, non è più possibile: al di là dell’attuale, e passeggera, polemica su commissioni “permanenti” e commissioni “speciali”.

La Stampa 9.4.13
La grazia a Abu Omar non convince i giuristi
di P. Col.


E’ diventato persino tema di un convegno giuridico il caso «Abu Omar», discusso ieri alla Cattolica da una nutrita pattuglia di docenti e ricercatori di diritto internazionale e nazionale e alla presenza del procuratore aggiunto Armando Spataro, autore dell’inchiesta che ha portato alla condanna, diventata definitiva in Cassazione, di 23 agenti della Cia nonchè dell’ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del suo vice Marco Mancini. Critiche aperte da parte di tutti i giuristi sull’opposizione del segreto di Stato da parte di ben 6 governi e più velate sulla recente decisione del Presidente della Repubblica di concedere la grazia al colonnello americano Jospeh Romano, ex comandante della base di Ghedi, dove l’ex imam fu portato prima di essere trasferito in Germania e poi in Egitto. E se per Spataro «la grazia è un provvedimento insindacabile», per i vari docenti le motivazioni contenute nel comunicato quirinalizio che l’hanno accompagnato, confliggono con il comportamento tenuto dai governi e non possono essere assimilabili alla vicenda dei due marò in India, la cui attività funzionale non ha nulla a che vedere con l’episodio di un sequestro di persona.

il Fatto 9.4.13
La lettera
“Emma Bonino, da sempre anti-inciucio”
di Mario Staderini

segretario di Radicali italiani

Caro direttore, nell’editoriale di sabato Marco Travaglio ha ripercorso alcuni “passaggi politici” della biografia di Emma Bonino e, quindi, di noi Radicali. Non devo spiegare ai lettori del Fatto perché Emma sia la persona giusta per il Quirinale: lo sanno già, visto che sul vostro sito è di gran lunga la più votata. Del resto, sono 15 anni che nei sondaggi risulta tra le personalità più stimate dai cittadini di ogni estrazione, nonostante nella classifica dei politici presenti sulle tv negli ultimi 14 mesi figuri al 192° posto per ascolti concessi. La ragione di tale consenso popolare è semplice: gli italiani sanno, conoscendo la sua storia, che nessuno meglio di Emma garantirebbe il rispetto di quella Costituzione “più bella del mondo”, fin qui tradita e negata. Voglio invece tornare su alcuni passaggi. Per soffiare via l’immagine di una Bonino, (e dei Radicali), a lungo sodale della storia politica di Berlusconi, basterebbe riportare quanto scrivono in questi giorni da Giuliano Ferrara (“se la eleggono mi sotterro vivo”), Libero o Gasparri. Oppure ricordare quando nel ’99 Berlusconi e D’Alema, spaventati dal suo consenso, prima si accordarono per votare in fretta Ciampi al Quirinale, poi per farla fuori dalla Commissione europea indicando Prodi. In merito alla fantomatica alleanza dal 1994 al 2006 con il centrodestra berlusconiano, in realtà, sulla spinta dei referendum vincenti del ’93 per il maggioritario uninominale e l’abolizione del finanziamento pubblico, i Radicali proposero al Pds la costituzione di un grande Partito democratico, ma Occhetto preferì l’alleanza con La Rete di Leoluca Orlando. Nasce così, con Berlusconi che firma i referendum radicali per la riforma americana delle istituzioni e la rivoluzione liberale, l’accordo del ’94 tra la Lista Pannella-Riformatori e il Polo della libertà (Forza Italia e Lega), ma solo in alcuni collegi uninominali del nord. I Radicali, infatti, si presentavano da soli in tutta Italia nella quota proporzionale e contro il Polo del Buongoverno (Forza Italia e Msi) nei collegi del centrosud. Nel ’96 è già tutto finito, con Berlusconi che abbandona quei propositi riformatori preferendo Fini, Casini e Lega, sabotando i referendum radicali del 2000 su giustizia, economia e istituzioni. In tutte le elezioni, dunque, i Radicali continuarono a contrapporsi alle coalizioni degli inciuci e dei baratti, e ne pagarono il costo stando fuori dal Parlamento italiano per ben 10 anni. Nel 2001, fu proprio Emma a candidarsi contro Berlusconi e Rutelli, e in quella legislatura senza radicali furono approvate, oltre alle leggi ad personam, anche la legge 40 che tentammo di abrogare col referendum del 2004. È vero, invece, che Emma divenne commissario europeo per scelta di Berlusconi, indiscutibile merito. Da allora a oggi, dal tribunale internazionale sui crimini di guerra alle vittorie all’Onu per la moratoria della pena di morte e la messa al bando delle mutilazioni genitali, dalla campagna per sventare la guerra in Iraq attraverso l’esilio di Saddam all’arresto subito nel 1997 dai talebani, Emma ha rappresentato insieme al Partito radicale un baluardo a difesa dei diritti umani. Non è mai troppo tardi per dire Bonino.

Caro Staderini, la ringrazio per la sua replica al mio articolo, a cui risponderò domani sul “Fatto”. (m. trav.)

il Fatto 6.4.13
Si fa presto a dire Bonino
di Marco Travaglio


Molti italiani vorrebbero Emma Bonino al Quirinale. Perché è donna, perché è competente, perché è onesta e mai sfiorata da scandali, perché ha condotto battaglie spesso solitarie per i diritti civili e umani e politici in tutto il mondo, forse anche perché è sopravvissuta a Pannella e perfino a Capezzone. Insomma, un sacco di ottimi motivi, tutti veri e condivisibili. Ma della sua biografia, in questo paese dalla memoria corta, sfuggono alcuni passaggi politici che potrebbero indurre qualcuno, magari troppo giovane o troppo vecchio per ricordarli, a cambiare idea e a ripiegare su candidati più vicini al proprio modo di pensare. A costo di essere equivocati, come ormai accade sempre più spesso, complice il frullatore del web, li ricordiamo qui per completezza dell’informazione, convinti come siamo che di tutti i candidati alle cariche pubbliche si debba sapere tutto. “Conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi, cuneese come lei. Nata 65 anni fa, la Bonino è stata parlamentare in Italia sette volte e in Europa tre volte, a partire dal lontano 1976. Da sempre radicale, si è poi candidata nel '94 con Forza Italia fondata da Berlusconi, Dell’Utri, Previti & C., e col centrodestra berlusconiano è rimasta alleata, fra alti e bassi, fino alla rottura del 2006, quando è passata al centrosinistra. Ha ricoperto le più svariate cariche: deputata, senatrice, europarlamentare, commissario europeo, vicepresidente del Senato, ministro per gli Affari europei nel governo Prodi. Ed è stata candidata a quasi tutto: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidente delle Camere, ministro degli Esteri e della Difesa, presidente della Regione Piemonte e della Regione Lazio, alto commissario Onu ai rifugiati, rappresentante Onu in Iraq, addirittura a leader del centrodestra (da Pannella, nel 2000). Nel '94, quando si candidò per la prima volta con B., partecipò con lui e la Parenti a un comizio a Palermo contro le indagini su mafia e politica. Poi, appena eletta, fu indicata dal Cavaliere assieme a Monti come commissario europeo. Il che non le impedì di seguitare l’attività politica in Italia, nelle varie reincarnazioni dei radicali: Lista Sgarbi-Pannella, Riformatori, Lista Pannella, Lista Bonino. Nel '99 B. la sponsorizzò per il Quirinale, anche se poi confluì su Ciampi. Ancora nel 2005, alla vigilia della rottura, la Bonino dichiarava di “apprezzare ciò che Berlusconi sta facendo come premier” (una legge ad personam dopo l’altra, dalla Gasparri alla Frattini, dal lodo Schifani al falso in bilancio, dalla Cirami alle rogatorie alla Cirielli) e cercava disperatamente un accordo con lui. Sfumato il quale, scoprì all’improvviso i vizi del Cavaliere e le virtù di quelli che fino al giorno prima lei chiamava “komunisti” e “cattocomunisti”. Molte delle sue battaglie, referendarie e non, coincidono col programma berlusconiano: dalla deregulation del mercato del lavoro (con tanti saluti allo Statuto dei lavoratori, articolo 18 in primis) e contro le trattenute sindacali in busta paga.
Per non parlare del via libera alle guerre camuffate da “missioni di pace” in ex Jugoslavia, Afghanistan e Iraq. E soprattutto della giustizia: separazione delle carriere, amnistia, abolizione dell’azione penale obbligatoria, responsabilità civile delle toghe e no all’arresto per molti parlamentari accusati di gravi reati: perfino Nicola Cosentino, imputato per associazione camorristica.
Alle meritorie campagne contro il finanziamento pubblico dei partiti, fa da contrappunto la contraddizione dei soldi pubblici sempre chiesti e incassati per Radio Radicale. Nel 2010 poi la Bonino fece da sponda all’editto di B. contro Annozero: il voto radicale in Vigilanza fu decisivo per chiudere i talk e abolire l’informazione tv prima delle elezioni. Con tutto il rispetto per la persona, di questi errori politici è forse il caso di tenere e chiedere conto.

l’Unità 9.4.13
Cucchi, i pm: «Condannate agenti, medici e infermieri»
La requisitoria del pubblico ministero: chieste pene fra i 2 e i 6 anni
«Stefano lasciato morire dopo le percosse, senza alcuna cura in ospedale»
di Salvatore Maria Righi


«Non sono delusa perché mi aspettavo una requisitoria del genere, questo è prima di tutto un processo a noi, a Stefano e alla sua famiglia». Ilaria Cucchi ha la voce ferma e non tanta voglia di scherzare. Nemmeno per lei, uno dei simboli del network di mamme e sorelle alle prese con le morti bianche dove lo Stato processa se stesso, è semplice leggere l’atto finale dei pm che si sono occupati del caso di Stefano Cucchi. Condanne per tutti, medici, infermieri e agenti di polizia penitenziaria, con pene tra i 2 anni e i 6 anni e 8 mesi (per il primario Aldo Fierro). Queste le richieste dei magistrati Vincenzo Barba e Francesca Loy alla III Corte d’Assise di Roma. La sentenza dovrebbe essere pronunciata entro il 22 maggio, da oggi toccherà alle parti civili e dal 17 agli avvocati difensori. «Per tutti, compreso Stefano e compresi noi, perché questo intervento dei pm è coerente col loro atteggiamento dall’inizio del processo nel quale, ripeto, siamo anche noi alla sbarra come gli imputati. Un procedimento ipocrita dove non si sono volute riconoscere le responsabilità delle istituzioni, e nel quale procedendo per colpa medica, si vuole sostenere che mio fratello sarebbe morto comunque, anche nel letto di casa sua». L’impianto accusatorio dei pm che si sono rivolti alla corte presieduta da Evelina Canale ha due capisaldi: secondo i magistrati, Stefano Cucchi era un tossicodipente cronico e ha fatto di tutto per mettere i bastoni fra le ruote ai medici del Pertini. Ma, concludono i pm, i sanitari dell’ospedale dove è stato ricoverato dopo il suo arresto, la notte del 15 ottobre 2009, non hanno saputo evitare la sua morte, non facendo nemmeno il minimo un bicchier d’acqua e zucchero, è stato detto in aula per salvare il geometra di Torpignattara.
CARCERE PER TUTTI
Per questo devono essere condannati in blocco, insieme agli agenti che lo hanno percosso, anche se non sono state le botte ad ammazzarlo, ma la fame e la sete: «Cucchi è stato picchiato nelle celle del tribunale di piazzale Clodio in attesa del processo di convalida perché pretendeva cure per la sua crisi d’astinenza in cui probabilmente si trovava. Comunque quelle lesioni non ne causarono la morte». Eppure proprio in quell’udienza, basta ascoltare le registrazioni audio, Cucchi fu presentato al giudice come «un albanese senza fissa dimora», e per questo gli fu convalidato l’arresto senza la concessione degli arresti domiciliari: le forze dell’ordine lo avevano prelevato la sera prima da casa propria, a Torpignattara. Dove, tra l’altro, teneva appesi in camera due guantoni da boxe, la sua passione coltivata in palestra dove amici e conoscenti lo vedevano allenarsi. Un prodigio della natura, evidentemente, a sentire il pm Loy che ha paragonato la magrezza di Stefano a quella «dei prigionieri di Auschwitz». Ma che soprattutto lo ha definito tossicodipente cronico: «Tutti noi possiamo immaginare le conseguenze di uso di droghe su un corpo umano per vent’anni» ha sottolineato il magistrato, parlando di un ragazzo morto a 31 anni: preso alla lettera, vorrebbe dire che Stefano si drogava dall’età di 11. «Assumeva ogni tipo di sostanza stupefacente, soffriva inoltre di crisi epilettiche dall’età di 18 anni. Dal 2001 al 2009 ha compiuto ben 17 accessi al pronto soccorso dell’ospedale Vannini, una media di due all’anno».
ANALISI NEGATIVE
Dalle parole del magistrato non è ben chiaro se perfino le crisi epilettiche di Cucchi fossero da imputare alla dipendenza da droghe. Ma di certo gli esami sulle urine del suo corpo non hanno evidenziato nemmeno un filo di stupefacente. C’è stato invece bisogno della collaborazione di un addetto della camera mortuaria per scattare quasi di nascosto le foto al cadavere del ragazzo, quelle istantanee che raccontano di lividi, tumefazioni ed escoriazioni molto più di tante parole. Le foto, del resto, sono state un tabù fino alla fine, perché al consulente della famiglia è stato vietato di scattarne durante l’autopsia. Secondo il pm, per i medici non c’è colpa, ma «indifferenza» verso il paziente Stefano che viene letteralmente descritto così: «Maleducato, cafone e scorbutico». Non c’è bisogno di risalire al giuramento di Ippocrate, ma la conclusione del pm ricorda molto quelle dei magistrati di Varese per il caso Uva: «Le abitudini di vita di Giuseppe Uva purtroppo spiegavano la scarsissima igiene personale e le condizioni degli abiti che indossava». L’annotazione si riferiva, forse, alle 78 macchie di sangue contate sui jeans di Pino?

l’Unità 9.4.13
«Neonazi in crescita, Europa più antisemita»
Un rapporto dell’università di Tel Aviv denuncia una maggiore intolleranza legata al dilagare dell’ultra-destra
Il caso dell’Ungheria
di Umberto De Giovannangeli


Nel 2012 gli atti antisemiti nel mondo sono aumentati, dopo un biennio in cui sono stati in diminuzione. A denunciarlo, in occasione della Yom Ha Shoah, la giornata che Israele ha scelto per ricordare l’Olocausto, è il centro per lo studio dell'ebraismo contemporaneo europeo dell’Università di Tel Aviv, in collaborazione con il Congresso ebraico europeo. Gli attacchi sono stati 686, dei quali 373 nella sola Francia con un aumento del 60%. Tra questi, il rapporto cita l’attacco omicida alla scuola Ozar Hatorah nel marzo 2012 a Tolosa, con la morte di due adulti e tre bambini. Dei 686 assalti, 273 hanno riguardato ebrei di tutte le età e 166 erano diretti alla vita delle persone; 190 sono stati effettuati contro sinagoghe, cimiteri, monumenti e oltre 200 nei confronti di proprietà pubbliche e private. Tra gli altri Paesi, negli Usa, gli atti antisemiti contati sono stati 99, in Gran Bretagna 84, in Canada 74. In Italia, sarebbero stati 18. Ma è soprattutto l’Ungheria a destare preoccupazione.
Il rapporto mette in luce la correlazione «tra il rafforzarsi politico dei partiti di estrema destra e l’alto livello di antisemitismo che include atti violenti e vandalismo». A questo proposito sono definiti preoccupanti «i segnali che arrivano dall’Ungheria dato che non passa una settimana senza che si registri un attacco alle minoranze o commenti oltraggiosi da parte di politici di estrema destra». Sopo le onorificenze conferite dal premier Viktor Orban a tre «intellettuali» notoriamente antisemiti e vicini al partito di estrema destra Jobbik, è notizia dei giorni scorsi l’intimidazione contro docenti di religione ebraica dell’Università di Budapest, che hanno trovato sulle porte dei loro uffici slogan come «Ebrei! Quest’università è nostra, non vostra. Attenti!». Fra gli accademici colpiti dalle intimidazioni, ci sono la filosofa Agnes Heller, allieva di Gyorgy Lukacs, il professore di estetica Peter Gyoergy ed altri docenti di origine ebraica. Il rettore dell’Università di Budapest ha denunciato le intimidazioni alla polizia, che ha avviato un’indagine. Recentemente, la stampa ha scoperto che la direzione dell’organizzazione studentesca dell’ateneo è finita nelle mani di estremisti nazionalisti, appartenenti al partito Jobbik, che hanno schedato gli studenti membri: registrando se siano di origine ebraica oppure no, e quale sia l’orientamento sessuale. Quanto alle onorificenze: il Tancsics,il più prestigioso premio per il giornalismo ungherese, é andato a Ferenc Szanizslò, giornalista apertamente razzista e antisemita, l’Ordine al Merito a Kornel Bakay l’archeologo secondo il quale la tratta degli schiavi fu nel medioevo appannaggio esclusivo degli ebrei e la Croce d’Oro al Merito a Janos Petras, cantante della rock band «Karpatia» che, vicinissimo al partito Jobbik, vagheggia il ripristino della Grande Ungheria, con la riannessione dei territori delle vicine Romania, Slovacchia, Ucraina e Serbia.
Forte preoccupazione sollevano anche la Grecia e l’Ucraina, per l’avanzata di partiti politici neo-nazisti e di estrema destra. In Olanda il partito islamofobo di Geert Wilders ha già superato il 28% dei consensi, in Austria il partito di Strache è la prima formazione politica di estrema destra dal termine della Seconda Guerra Mondiale ad essere accreditata nei sondaggi come primo partito in un Paese europeo. In Germania sono emersi gruppi sovversivi a chiara impronta xenofoba, in Ungheria, per l’appunto, si è precipitati in una dittatura antilibertaria, alla cui destra si trova il partito Jobbik, i cui eletti si sono presentati in Parlamento con la divisa della guardia magiara il giorno del loro insediamento. In Slovacchia si promuovono leggi che invitano le donne rom alla sterilizzazione.
Tra i «fattori» dell’aumento dell’antisemitismo, il rapporto evidenzia anche le ricadute dell’operazione «Colonna di Nuvola» da parte dell’esercito israeliano lo scorso novembre, in risposta ai lanci di razzi da Gaza. Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo citato dai media ha detto: «L'incremento è chiaro. Assistiamo a incidenti che prima non avvenivano. Il fatto che il neo-nazismo sia legale in Europa è un fenomeno che deve essere notato». Ieri, alle 10 del mattino, le sirene hanno risuonato per due minuti in Israele e l’intero Paese si è fermato. In memoria delle vittime dell’Olocausto e dei sopravvissuti. Per non dimenticare.

l’Unità 9.4.13
Stormfront
Sentenza contro quattro neonazisti


Quattro condanne nel processo ai gestori del sito web sito neonazista Stormfront accusati di incitare all'odio razziale. Il gup di Roma ha condannato a tre anni Daniele Scarpino, 24 anni, ideologo del gruppo, a 2 anni e sei mesi Diego Masi, 30 anni, di Ceccano (Frosinone) e Luca Ciampaglia, 23 anni di Atri (Teramo), entrambi moderatori del forum. E infine a 2 anni e 8 mesi Mirko Viola, 42 anni di Cantù
(Como). Incitavano a commettere violenza sulla base di pregiudizi razziali, etnici e religiosi e inneggiavano alla superiorità della razza bianca attraverso la sezione italiana del sito internet Stormfront. org. I quattro appartenenti al gruppo di estrema destra nazionalsocialista che per anni, attraverso il web, hanno offeso e attaccato esponenti politici, giornalisti e magistrati.

il Fatto 9.4.13
Neruda. l’ultima verità del corpo del Nobel cileno
di Alessandro Oppes


Madrid. Da ieri mattina i resti di Pablo Neruda non riposano più nel patio della sua casa di Isla Negra, cento chilometri a ovest di Santiago, di fronte al Pacifico. Riesumato da un’équipe internazionale di periti, il corpo del poeta - morto nella clinica Santa María della capitale cilena il 23 settembre 1973, 12 giorni dopo il golpe Pinochet - non potrà essere ricollocato nella tomba di famiglia, accanto a quello della moglie Matilde Urrutia, prima di qualche mese, forse non meno di 3. Il tempo necessario per chiarire una volta per tutte il mistero sulla sua scomparsa, alimentato due anni fa dalle dichiarazioni dell'ex autista Manuel Araya Osorio alla rivista messicana Proceso, secondo il quale il premio Nobel non si spense per un cancro alla prostata, come risulta dal certificato di morte, ma venne avvelenato con un'iniezione allo stomaco per ordine della giunta militare.
Neruda, raccontò Araya, proprio in quei giorni era pronto ad abbandonare il paese per raggiungere il Messico a bordo di un aereo messogli a disposizione dal presidente della Repubblica Luís Echeverría. Da lì, aveva intenzione di guidare una mobilitazione internazionale per rovesciare il regime nel giro di 3 mesi. Dopo quelle rivelazioni, il Partito comunista presentò una denuncia, accolta dal giudice Ma-rio Carroza, lo stesso che negli anni scorsi ordinò la riesumazione di Salvador Allende (le analisi confermarono il suicidio) e quella dell'altro ex-presidente Eduardo Frei Montalva, scomparso nel 1982, in piena dittatura, che risultò essere stato assassinato, in contraddizione con la tesi ufficiale della “morte naturale”.
Alla guida dell'équipe di antropologi, tossicologi, genetisti, biochimici (di cui fan parte anche 3 spagnoli e uno statunitense), c'è Patricio Bustos Streeter, direttore del Servizio medico-legale di Santiago, nella cui sede i resti di Neruda son stati trasferiti tra rigide misure di sicurezza. Qui si svolgeranno le prime analisi, ma è possibile che, nelle settimane successive, si faccia ricorso ad altri laboratori, all'estero (Siviglia). Gli esperti dovranno prima chiarire se Neruda era in effetti malato di cancro. Poi ricercare altre eventuali cause di morte. “Non solo tracce di veleno, ma anche altre sostanze chimiche o tossiche, come medicinali mal impiegati che potrebbero aver provocato effetti collaterali”.

Corriere 9.4.13
Merkel e le attiviste in topless Doppio assedio allo zar Putin
Pressing della Cancelliera su diritti umani e ong
di Paolo Lepri


BERLINO — Una frase un po' da «macho», in linea con il suo personaggio, l'ha detta quando ha sostenuto di non aver nemmeno notato se quelle «belle ragazze» erano «bionde o brune». Ma Vladimir Putin è riuscito a nascondere con un certo stile la sua irritazione per la protesta delle quattro militanti del gruppo Femen che si sono lanciate a seno nudo contro di lui, il petto dipinto con lo slogan «Fuck Dictator». «La loro azione mi è piaciuta, anche se non ho capito bene quello che urlavano, perché gli agenti della sicurezza, che potevano essere più gentili, hanno fatto un buon lavoro», ha commentato. Si è dimostrato ancora una volta un grande attore, non solo un leader abituato a prove ben più difficili. In effetti, lo si vede sorridere anche nelle fotografie in cui Angela Merkel, che era al suo fianco, appare completamente sorpresa, un po' imbarazzata. La cancelliera si è poi salvata dicendo che la Germania è un Paese libero dove si può manifestare, anche se andrebbero naturalmente rispettate alcune regole. Lui, intanto, continuava a esibire un ghigno soddisfatto.
Ha vinto lui o hanno vinto loro? Cero, le ragazze di Femen sono state molto brave a farsi largo mentre Putin e la padrona di casa visitavano ieri i padiglioni della Fiera di Hannover. È stata una delle tante clamorose azioni compiute recentemente — contro la Russia e non solo — dopo il processo al gruppo punk-rock femminista della Pussy Riot. Slogan e urla prima di essere messe fuori combattimento dai poliziotti tedeschi e dai gorilla del Cremlino. «Non è stato niente di terribile, anche se sarebbe meglio avere i vestiti quando si vuole discutere problemi politici», ha detto ancora l'ex capo del Kgb nella successiva conferenza stampa. Meno olimpico di lui, il suo portavoce, Dmitry Peskov, che ha parlato di episodi di «ordinario teppismo che andrebbero puniti».
Il blitz di Fenem non è stata comunque l'unica contestazione contro il leader del Cremlino nella breve tappa in Bassa Sassonia. E altre lo hanno poi accolto ad Amsterdam, dove è arrivato ieri sera, soprattutto di associazioni per i diritti dei gay. Lui ha ribattuto che «in Russia non esistono discriminazioni contro le minoranze sessuali». Tornando alla Germania, la recente decisione di dare corso alle disposizioni liberticide previste dalla legge contro le organizzazioni non governative straniere ha dato valide ragioni in più alla mobilitazione di Amnesty International e di altri gruppi umanitari. Nei giorni scorsi le fondazioni Adenauer (vicina alla Cdu) e Ebert (il think-tank della Spd) sono state perquisite e setacciate a Mosca, perché ritenute covi di «agenti stranieri». Putin ha ribadito che è necessario «controllare i flussi finanziari dall'estero di gruppi che fanno attività di politica interna», mentre la cancelliera ha replicato che bisogna permettere a queste organizzazioni di lavorare liberamente perché sono un «motore dell'innovazione».
Una tesi, questa, che non piace al presidente russo, secondo il quale, per esempio, i fondi Ue destinati a quelli che ritiene i suoi nemici interni potrebbero essere usati per aiutare Paesi come Cipro. Opinioni differenti, quindi, sia su questo tema come sulla crisi siriana. Preoccupazioni comuni, invece, per l'escalation delle provocazioni nord-coreane. «Un conflitto nucleare — ha avvertito — farebbe apparire Chernobyl come una favola per bambini».

il Fatto 9.4.13
Perché Allende lasciò la massoneria
di Maurizio Chierici


GRAN MAESTRO del Grande Oriente, l’avvocato Gustavo Raffi raccoglie a Rimini 2500 fratelli massoni: rappresentano 762 logge d’Italia. Devono scegliere chi erediterà i suoi paramenti dorati, collari e grembiule: la tradizione massonica non prevede la quarta rielezione. Con l’allegria di gitanti bene educati passeggiano sul lungomare i fratelli arrivati da ogni parte del mondo, rete che avvolge comunità insospettate. Nella penthouse del palazzo del Gran Commendatore dell’Avana è in bella vista il sigillo del nostro Grande Oriente. “Lavorato a mano”, orgoglio di Raffi nella cerimonia della consegna al confratello cubano: lo racconta Granma, giornale di Raul e Fidel. Cuba è l’unico paese socialista (ieri e oggi) dove la massoneria gode qualche privilegio. Come nessun privato, da sempre amministra un ospedale per fratelli anziani e il Maestro esibisce con affetto gli assegni spediti dai confratelli di Milano. Ospedale Niguarda, professori dal nome rotondo. Nelle due Americhe nessun segreto: trasparenza massonica che ricorda l’innocenza dei cori della Valsugana. Al Camino Real, albergo di Città del Guatemala, uno striscione fa sapere che attorno alla piscina si sta eleggendo miss Massoneria. Ragazze in bikini e giurati col grembiule sopra lo slip. Deve essere la primavera fredda, ma a Rimini solo giacche e cravatte infastidite dai primi piani delle telecamere. “Non è bello far sapere che siamo massoni. Abbiamo una professione da difendere”.
SI RIFUGIANO nel ricordo dei fratelli che illuminano la storia: Mazzini, Garibaldi, anche Salvador Allende. Una volta Raffi torna dal Cile col libro Allende massone. In Italia non trova editori. Per fortuna, perché non sa dell’Allende disgustato dalla massoneria 34 anni prima della incoronazione di Raffi a Gran Maestro. Anche Allende portava lo stesso collare fino al 2 giugno ’65, poi l’addio in una lettera che rifiuta il garbo del “mettersi in sonno”: taglia per sempre. “Possiamo con onestà intellettuale proclamare che la composizione delle nostre logge rifletta la società dei nostri giorni? La mia risposta è negativa. Possiamo restare indifferenti alla mancata rappresentanza della classe operaia? Accogliamo nelle logge in forma comunitaria studenti e intellettuali in marcia verso il futuro? La libertà di oggi non può essere la libertà spirituale di ieri. I privilegiati si limitavano a difendere l’egemonia della loro coscienza mentre le masse languivano al margine dei progetti eccellenti. Adesso la massoneria dovrebbe impegnarsi contro oligarchie e feudalesimo agrario e concentrazione dei monopoli dalle regole antiumane. Viviamo in un sistema che non integra gli uomini dagli ideali chiari, ma costringe a frustrazioni e miserie gran parte della gente. Può la massoneria chiudersi nelle sue logge? In quanto politico militante ho due scelte: adattarmi alle meschinità e tacere, oppure disconoscere il mio impegno nella massoneria”. E se ne va. Il nostro Gran Maestro (ormai emerito) ne tenga conto.

Corriere 9.4.13
La terza alba della Mitteleuropa. Dopo gli inverni, una nuova sfida
Una civiltà più forte di nazismo, comunismo e capitalismo selvaggio
di Claudio Magris


Mitteleuropa è una parola che assomiglia a un chewing-gum malleabile a piacere, dai significati ambivalenti e talora contraddittori, che si affidano più alla vaga suggestione che a una precisa definizione. Quando Marieluise Fleisser, la possente scrittrice amata e tartassata da Brecht, veniva definita «il più bel seno della Mitteleuropa», non era ben chiaro fin dove di estendeva quel suo invidiabile primato, quali Paesi o città potessero vantarsene come di una propria gloria: certamente Vienna, Praga, Cracovia, Budapest, Lubiana, Zagabria, forse Trieste; più difficilmente Berlino o Norimberga.
Come ha studiato Arduino Agnelli nella sua fondamentale Genesi dell'idea di Mitteleuropa, il termine nasce a metà Ottocento per indicare uno spazio politico-economico egemonizzato dagli austrotedeschi e dagli ungheresi. Quando si dice Mitteleuropa anziché usare l'espressione meramente geografica Europa centrale, si intende un mosaico plurilingue e pluriculturale attraversato da elementi comuni sottostanti alle diversità nazionali. A creare questa civiltà parzialmente comune è stato certo in parte l'Impero absburgico, ma sono stati soprattutto due elementi sovranazionali: la lingua tedesca, parlata anche in tutti i Paesi non tedeschi di quel mondo, e la civiltà ebraica, presente in ognuno di essi. La Mitteleuropa è stata essenzialmente la simbiosi ebraico-tedesca, finita con lo sterminio di una delle sue componenti da parte dell'altra, con quella Shoah che è stata non solo una inaudita barbarie ma anche un suicidio della Germania e del suo ruolo centrale in Europa.
La parola «Mitteleuropa» ha potuto indicare molte cose, anche opposte: ha potuto essere un programma nazionalista tedesco come nel libro di Naumann o addirittura un'Europa centrale unificata dal nazismo, come per Srbik. Ha significato soprattutto il contrario, ovvero una cultura sovranazionale contrapposta ai nazionalismi scatenati negli anni fra le due guerre mondiali, ai vari fascismi e in primo luogo al nazismo; un ideale umanistico, il senso di un'appartenenza a una cultura più ampia di ogni identità nazionale. È stata una metafora di resistenza: dapprima contro fascismo e nazismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale contro il dominio sovietico e, più sfumatamente ma sempre, contro uno stile di vita capitalistico-americano. Il kafkiano Josef K o il santo bevitore di Joseph Roth si contrappongono ai Chicago-boys quasi come ai gerarchi fascisti o ai commissari del popolo sovietici.
La Mitteleuropa vive soprattutto nella sua letteratura, di cui un recente e ancor inedito saggio di Igor Fiatti illustra il ricchissimo panorama; letteratura che è insieme coro e dissonanza, «cacafonia», come scrive ironicamente lo svedese Daniel Hjorth giocando col termine Cacania, la definizione musiliana dell'Austria absburgica.
Questa civiltà, che ha tenacemente e ironicamente resistito a Hitler e a Stalin, rischia per la prima volta di scomparire, travolta da uno sgangherato anarco-capitalismo che imperversa in tanti suoi Paesi, accompagnato da violente regressioni nazionaliste e razziste che sono la più cupa e pacchiana negazione della Mitteleuropa. E invece oggi c'è bisogno più che mai di quella civiltà mitteleuropea così sensibile al disagio, così diffidente nei confronti di tutti i sistemi politici e filosofici totalizzanti che pretendono di far marciare il mondo come un esercito e di interpretare e guidare trionfalmente la marcia della Storia stessa. Ci sarebbe più che mai bisogno di quella cultura e di quella umanità così esperte dell'ombra della vita, dei frammenti in cui la nostra esistenza spesso si disgrega, di ciò che resta al margine del corso arrogante del progresso, di ciò che manca al cuore e della dolorosa e amorosa ironia di cui il cuore ha così bisogno.
La nuova collana «Gli anemoni», creata dall'editore Marsilio, diretta e garantita dalla competenza di Luigi Reitani e Annalisa Cosentino e dedicata ai classici centroeuropei, — di cui stanno per uscire i primi titoli — può essere salutata come un vitale antidoto all'uniforme appiattimento che, sotto l'apparenza di una caotica varietà, sta imponendo su scala planetaria più o meno gli stessi modelli e soprattutto il sentimento che le cose così come vanno sono l'unica realtà possibile, mentre Musil insegna che potrebbero benissimo andare altrimenti.
Non c'è troppo da illudersi, perché nessun Davide, contrariamente a quanto si dice, ha mai vinto nessun Golia, ma intanto si può tirare a quest'ultimo un bel sasso in testa. I nuovi «Anemoni» non faranno certo dimenticare l'insostituibile collana di classici tedeschi «Gli Elfi» — diretta per Marsilio sino a ieri da Maria Fancelli con particolare finezza di scelta, di gusto e rigore filologico.
Da molti anni c'è in Italia un forte interesse per la Mitteleuropa e la sua letteratura. Un contributo essenziale e meno noto di quanto sarebbe giusto è stato dato, qualche decennio fa, dalla casa editrice Marietti in una collezione diretta da Antonio Balletto, promotore pure di fondamentali traduzioni di testi filosofici religiosi ebraici e islamici, tra i quali La stella della redenzione di Franz Rosenzweig. In quella collana Marietti sono state pubblicate le prime dirette versioni dallo jiddisch di autori classici quali Shalom Aleichem, Mendele Moicher Sfurim o Schalom Asch, curate da Daniela Leoni; sono stati pubblicati ad esempio classici austriaci di Stifter o Lenau e romanzi austriaci notevolissimi e ancor oggi poco noti come L'uomo nel canneto di George Saiko, geniale fusione sperimentale di romanzo politico e psicologia del profondo o Tokeah e la rosa bianca di Charles Sealsfield, western ottocentesco di un bizzarro scrittore, prete cattolico e poi viaggiatore e narratore avventuroso in America; classici cèchi di Neruda o sloveni di Cankar. La Marietti, casa editrice soprattutto scolastica e religiosa, non ha avuto la forza sufficiente per affermarsi sul mercato e la letteratura mitteleuropea è stata diffusa, in una ricca varietà di scelta, specialmente dalla Adelphi, ma quei testi meriterebbero di essere ripresi.
La prima scelta offerta dagli «Anemoni» — autori di lingua tedesca, cèca, polacca — è estremamente stimolante, classica e insieme innovatrice: Il redentore di Musil, grande, originale e autonomo nucleo dell'Uomo senza qualità; le Lettere a Milena di Kafka; I racconti di Malà Strana di Jan Neruda; Maggio di Mácha, l'autore cèco la cui riesumazione pubblica nel 1939 fu una dimostrazione della libertà cèca schiacciata dai nazisti; Hotel Savoy, il primo romanzo di Joseph Roth e forse il suo capolavoro, storia errabonda di lontananza, di esilio e di ritorno, scevra del successivo pathos ideologico, e Il sale della terra di Józef Wittlin, quasi conterraneo di Roth e suo parallelo polacco, anch'egli rapsodo dei confini orientali dell'Impero.
Pure una collana di questo genere può essere un piccolo sale della terra.

Repubblica 9.4.13
Radio Star
Restate sintonizzati con il nostro universo
Esiste una mappa delle radiazioni cosmiche che risalgono al Big Bang
di John D. Barrow


Ogni dieci anni il grande pubblico si accende di interesse per l’astronomia perché arriva qualche novità clamorosa da un satellite nello spazio che crea una nuova mappa dell’universo. Nel 1992 arrivò dal satellite Cobe della Nasa, nel 2003 dalla missione Wmap, sempre della Nasa, e ora, nel 2013, dal satellite Planck dell’Agenzia spaziale europea. Quello che fanno questi satelliti, con precisione sempre maggiore grazie alle nuove tecnologie, è tracciare una mappa delle radiazioni presenti nell’universo: si concentrano sulle radiazioni nella banda di frequenza delle microonde, che è una reliquia del calore dei primissimi istanti del nostro universo in espansione in un apparente big bang, 13,8 miliardi di anni fa.
Come confermò per la prima volta il satellite Cobe, questa radiazione possiede l’impronta caratteristica della radiazione termica pura, è l’esempio più puro e meno distorto di radiazione che si sia mai trovato in Natura. Quando la vediamo venirci incontro quasi con la stessa identica intensità da ogni direzione nel cielo, stiamo vedendo un’istantanea, in onde radio invisibili all’occhio nudo, di com’era l’universo quando aveva soltanto 250mila anni. Allora non c’erano pianeti, non c’erano stelle, non c’erano galassie, non c’erano atomi e non c’erano astronomi. L’universo era mille volte più caldo di come è adesso, e troppo caldo perché qualsiasi struttura potesse formarsi.
Gli astronomi possono individuare questa eco dei princìpi dell’universo usando dei rilevatori sulla Terra. Se avete un televisore di quelli di una volta, non digitale, e lo disintonizzate leggermente riempiendo lo schermo di rumore elettrico (la cosiddetta “neve”), l’uno per cento circa di quel segnale fastidioso sullo schermo è la radiazione di fondo in microonde che viene dall’inizio dell’universo. Se decidete di aggiornare il vostro televisore e passare a un segnale digitale perderete, ahimè, la possibilità di fare questa straordinaria osservazione cosmologica comodamente seduti sul vostro divano. Anche se siamo in grado di osservare questa radiazione con ricevitori radio sulla Terra, però, il segnale è disturbato dagli effetti del vapore acqueo presente nell’atmosfera, e in più siamo limitati dal fatto che da ogni punto di osservazione possiamo vedere solo parte del cielo. Un satellite può osservare il cielo nella sua interezza dal vuoto quasi perfetto dello spazio, e può continuare a osservarlo fintanto che il gas combustibile necessario per controllare i suoi sistemi non si esaurisce.
Il satellite Planck sta raccogliendo dati dal maggio del 2009 e continuerà fino al momento in cui si spegnerà, nell’ottobre di quest’anno. Il 21 marzo 2013 è stata annunciata la sua nuova mappa a trecentosessanta gradi dell’universo. È cinque volte più accurata della migliore mappa precedente e ha una sensibilità alle variazioni di temperatura di due parti in un milione su un intervallo di frequenze diverse. Questa sensibilità ci fornisce molte informazioni importantissime sull’universo. Se l’universo si sta espandendo in una direzione un po’ più velocemente che in un’altra, allora in quella direzione la radiazione si raffredderà un po’ più velocemente e si produrrà una differenza di temperatura direzionale.
Se una parte dell’universo è leggermente più increspata di un’altra, anche in questo caso si produrrà una differenza di temperatura rivelatrice. Le diverse teorie sull’età dell’universo, o sulla sua velocità di espansione, possono comportare differenze che sono troppo piccole per essere individuate quando guardiamo galassie remote attraverso telescopi ottici. Ma la radiazione di fondo viene da un tempo molto più antico nella storia dell’universo, quando quelle galassie erano solo piccoli punti nella distribuzione della materia e della radiazione. Può distinguere facilmente fra le tante teorie diverse sulla velocità di espansione dell’universo. Può perfino dirci qualcosa di nuovo sulle proprietà delle particelle elementari, che sono al di là della portata degli esperimenti condotti attualmente dal Cern.
La cosa più importante tra quelle che studia il satellite Planck sono le variazioni di temperatura fra regioni del cielo che sono piuttosto ravvicinate, più vicine delle dimensioni della luna piena. In questo caso i cosmologi cercavano conferma alle previsioni di una teoria fondamentale sui primi momenti della storia dell’universo in espansione. Si pensa che nella sua espansione l’universo abbia avuto un primo, breve impeto provocato dalla comparsa di particelle di breve durata che hanno esercitato una potente forza repulsiva reciproca, accelerando l’espansione e creando una distribuzione particolare di piccolissime non-uniformità nella radiazione, che successivamente si sono amplificate e hanno gettato le basi per la formazione di tutte le galassie e le stelle che oggi vediamo intorno a noi. Le osservazioni del satellite Planck hanno verificato che i modelli di variazione osservati nella mappa delle temperature coincidono con quelli previsti dalla teoria che ipotizza questa iniziale espansione “inflativa”. Un dato significativo è che le osservazioni coincidono quasi alla perfezione con le previsioni.
Gli astronomi speravano che il satellite potesse trovare prove di un secondo tipo di pattern, che potrebbe esistere se quell’impeto di espansione avesse creato anche grandi onde cosmiche, o “onde gravitazionali”, in tutto l’universo. Se le avessimo trovate avrebbero potuto dirci molte altre cose sulle prime fasi dell’universo. Sfortunatamente, fino a questo momento, il satellite Planck non le ha trovate. Un altro grande interrogativo sulle mappe del cosmo in microonde è se da un punto di vista statistico appaiono casuali o se possiedono forme chiare di non-causalità. Il tipo e il grado di non-casualità non sono facili da prevedere. Ci sono infiniti modi diversi di essere non-casuali e classificarli è un po’ come chiedere di classificare tutte le cose che non sono banane! Per il momento abbiamo solo dei limiti alla grandezza che possono avere vari tipi di non-causalità. La nostra speranza è che continuando a raccogliere e studiare dati dal Planck si possano cominciare a vedere macchie rivelatrici sulla mappa. Quelle macchie saranno messaggi vecchi di miliardi di anni sulla struttura profonda del nostro universo e sulle leggi della fisica che lo governano. Restate sintonizzati.
Traduzione Fabio Galimberti

Repubblica 9.4.13
Siamo tutti cannibali. Parola di Lévi-Strauss
Dalla fecondazione ai matrimoni gay, una raccolta di saggi del grande antropologo
di Marino Niola


Mettete il più grande antropologo di tutti i tempi a ragionare sul presente senza tabù e senza pregiudizi. Con la lucidità spiazzante di un Montaigne e il fervore dissacrante di un Rousseau. E viene fuori che siamo tutti cannibali.
È questo il titolo provocatorio dell’ultimo libro di Claude Lévi-Strauss. Uscito in questi giorni in Francia per i tipi di Seuil (Nous sommes tous des cannibales, Seuil, pagg. 273, euro 21). Sedici saggi che il padre dello strutturalismo ha dedicato alla società contemporanea. I testi sono inediti per la Francia, ma noti ai lettori di Repubblica.
Che hanno avuto il privilegio di leggerli in anteprima tra il 1989 e il 2000, dominato dall’incubo della mucca pazza.
Il profeta dell’antropologia, scomparso nel 2009 all’età di 101 anni, non amava scrivere per i giornali. Ma si lasciò tentare dalle domande di questo giornale che lo sollecitò a pensare sui temi cruciali del nostro tempo. Il risultato è una summa antropologica dell’Occidente contemporaneo. Dalle questioni etiche e razziali sollevate dall’infibulazione ai problemi del multiculturalismo. Dal relativismo culturale, di cui Lévi-Strauss indica lucidamente pregi e difetti, alle pratiche della fecondazione assistita. Fino al funerale di Lady Diana, in cui il maestro indiscusso degli studi sulla parentela legge l’irrituale esternazione del fratello della principessa infelice. Che nella sua commemorazione rivendicava il diritto di proteggere i nipoti dal padre e dalla famiglia reale. Nella polemica esternazione del conte Spencer sarebbe riaffiorato, infatti, l’antico ruolo tutoriale dello zio materno che la nostra cultura sembrava aver dimenticato.
In ogni caso su qualsiasi oggetto si poggi, lo sguardo di Lévi-Strauss è implacabile e corrosivo. E perfino sovversivo quando affronta senza ideologia, ma con rigore entomologico, questioni come le nuove frontiere aperte dall’ingegneria genetica. Che applicate alla fecondazione eteroclita spostano la soglia tra natura e cultura, ponendo problemi sociali e morali che hanno un’eco nella coscienza collettiva e nell’economia politica dei sentimenti.
Nella Francia di questi giorni divisa dalla nuova legge sul matrimonio per tutti, che estende di fatto i diritti sull’adozione e sulla procreazione anche alle coppie omosessuali, le pagine di Lévi-Strauss assumono un valore anticipatore. Anche perché egli guarda la nostra società da lontano, mostrando come altre culture hanno sempre immaginato la genitorialità biologica come qualcosa di assolutamente distinto dalla paternità e maternità. Che invece sono ruoli sociali in continua ridefinizione. E che non hanno necessariamente a che fare con la consanguineità. Ricorrendo a numerosi esempi etnologici, l’autore di Tristi Tropici smentisce l’idea che esista una forma di famiglia naturale. Tra i popoli nilotici dell’Africa e quelli della Nigeria per esempio, se una donna è sterile viene considerata socialmente un maschio. Per cui può sposare un’altra donna e diventare “padre” dei figli che la sua metà genera con un donatore di seme. Insomma se da noi il giudice, il legislatore, il moralista sono spaesati dall’idea di una virtualità genitoriale infinita, l’antropologo non lo è per niente. Anzi, afferma con decisione Lévi-Strauss, è il solo ad avere gli strumenti per capirci veramente qualcosa. Perché le culture studiate dagli etnologi hanno affrontato in anticipo queste questioni. E pur senza la fecondazione assistita hanno da sempre immaginato degli equivalenti metaforici. Come dire che gli uomini hanno già sperimentato tanti modi diversi di essere genitori. In questo senso gli altri hanno qualcosa da insegnarci.
Anche sul cannibalismo, antico fantasma dell’Occidente, l’argomentazione levistraussiana dà le vertigini. Perché porta alle estreme conseguenze il celebre saggio sui cannibali di Montaigne dimostrando che la questione tocca molto da vicino anche noi. Se antropofagia è mettersi l’altro in corpo, allora c’è una sorta di cannibalismo terapeutico anche nei trapianti di organi. O in certe terapie a base di ormoni estratti dalle ipofisi. O innesti di membrane provenienti da cervelli umani. Quelle che furono all’origine dell’epidemia di Creutzfeldt-Jacob. E che secondo il Nobel per la medicina Carleton Gajdusek scatenarono un morbo dagli stessi sintomi tra i cannibali della Nuova Guinea, abituati non a caso a mangiare i cervelli dei nemici.

IL LIBRO: Nous sommes tous des cannibales di Claude Lévi-Strauss (Seuil)