mercoledì 10 aprile 2013

Un’ora di colloquio tra Bersani e Berlusconi: si lavora a un presidente condiviso da eleggere al primo voto
Il Pd, che ha già parlato con Monti, incontrerà anche M5S e Lega
Il leader democratico però ribadisce: mai un governo con il Pdl

La Stampa 10.4.13
Moretti: va bene, parliamo col Pdl Ma solo per il Colle
intervista di Francesca Schianchi


Alla fine, col giaguaro che non si è riusciti a smacchiare, tocca parlarci. Sorride Alessandra Moretti, neodeputata Pd, già portavoce e responsabile della campagna delle primarie di Bersani, «ci stiamo preparando a un appuntamento importante come l’elezione del presidente della Repubblica – obietta - è doveroso che i leader di tutti i gruppi inizino un percorso di condivisione di questa scelta».
Ma solo di quello si tratta? Nessuna apertura sul governo?
«Lo abbiamo ribadito stamattina (ieri, ndr.) alla riunione del gruppo parlamentare. La linea del Pd è no a un governissimo Pd-Pdl, che vorrebbe dire tradire le istanze di cambiamento uscite dal voto e il nostro elettorato. Ma questo non significa che non ci voglia la responsabilità di tutti, a partire dal leader che ha vinto le elezioni, per aprire un dialogo costruttivo sulle riforme istituzionali e sulle misure urgenti per aiutare il Paese».
Il leader che ha vinto le elezioni? Sta rispondendo a Renzi che proprio oggi ha detto il contrario?
«Assolutamente no, lo dico perché è vero: sebbene di poco, Bersani ha vinto. Non è utile in questo momento alimentare il clima delle primarie, non possiamo vivere perennemente schiavi dei personalismi. Renzi è una risorsa, lui non si deve bruciare e non lo dobbiamo bruciare noi».
Torniamo a Berlusconi: quanto è difficile spiegare il doppio binario di dialogo col Pdl alla vostra base?
«La nostra base sa perfettamente che sulle riforme occorre dialogare con tutti: anche con questo centrodestra che, purtroppo, è rappresentato da Berlusconi. Quello che la base non potrebbe capire sarebbero forme di accordo sul governo con chi ha portato l’Italia in queste condizioni: ma infatti abbiamo escluso ogni intesa».
Però pochi giorni fa Franceschini ha fatto un appello al dialogo con Berlusconi…
«Anche Franceschini ha parlato di un dialogo sulle riforme. Questa è la linea della Direzione nazionale».
Se alla fine si dovesse tornare al voto, il Pd come deve presentarsi? Bersani candidato o si passa per nuove primarie?
«Il Pd si è dato un metodo, quello delle primarie, ed è giusto riproporlo».

l’Unità 10.4.13
Ci vuole più chiarezza all’interno del Pd
di Lanfranco Turci

coordinatore del Nertwork per il Socialismo Europeo

NON CONDIVIDO LE CRITICHE AL BERSANI POST-ELETTORALE. MI PIACE MOLTO DI PIÙ QUESTO BERSANI DI QUELLO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE, convinto di avere già la vittoria in tasca e impegnato a inseguire Monti e a tranquillizzare le cancellerie europee. Dopo le elezioni Bersani ha scelto una linea coraggiosa fino alla temerarietà.
Dato atto, con una sostanziale autocritica di fronte alla Direzione del Pd, della inadeguatezza della piattaforma elettorale, chiaramente al di sotto del livello di drammaticità della crisi economica e sociale, ha presentato una piattaforma di grande cambiamento. E su questo terreno ha deciso di sfidare prima di tutto il Movimento5 stelle, resistendo alle provocazioni e alle accuse di subalternità.
Nelle politiche di governo proposte a me pare di intravvedere la consapevolezza che bisogna indurire il confronto anche in Europa, portando l’impianto dell’Euro alla prova della verità di fronte a una crisi che si aggrava ogni giorno di più e sta sfilacciando la fibra sociale e morale del nostro Paese. Nonostante le settimane passate credo che questo disegno sia ancora in piedi e abbia la possibilità di passare, di fronte alla improponibilità del governissimo e alla concreta possibilità di elezioni anticipate, che potrebbe rendere più appetibili le offerte di Bersani per un verso e più evidenti i rischi della intransigenza per l’altro.
Si tratta di una manovra ad alto rischio, che presuppone la disponibilità del nuovo presidente della Repubblica e prima ancora la tenuta della grande maggioranza del Pd, che sola può rendere credibile la minaccia. Bersani si gioca l’osso del collo, ma il Pd è disposto a giocarselo ? La rottura aperta da parte di Renzi in questi giorni, il malcontento ai piani alti del partito, i borbottii sempre più rumorosi di quella parte ex Pci legata alla tradizione della «responsabilità nazionale», rendono il cammino di Bersani sempre più impervio.
E tuttavia hanno ragione quanti sostengono che qualsiasi altro governo sarebbe peggiore di quello prospettato da Bersani. Infatti qualsiasi governo tecnico, o del presidente, o di scopo, oltre ad aprire praterie davanti a Grillo, sarebbe comunque molto meno deciso sulla manovra economica e paralizzato sui temi sensibili per Berlusconi. Resterebbe solo la giustificazione di una nuova legge elettorale, per liberarci da quella attuale, incostituzionale e destabilizzante per le istituzioni democratiche. A questa ragione che, nel caso fallisse il tentativo di Bersani, potrebbe giustificare una qualche forma di transizione, io vorrei affiancare come altrettanto forte l’esigenza di non rinviare una chiarificazione di fondo sulla natura e le ragioni del Pd. Non c’è dubbio che un passaggio immediato alla leadership di Renzi, come una sorta di alternativa naturale e obbligata al fallimento di Bersani, rappresenterebbe un blocco forse insuperabile per quella chiarificazione e per quella evoluzione socialdemocratica del Pd di cui molti di noi hanno visto le premesse, sia pur timide e contraddittorie, nella gestione di Bersani e nella maggioranza che si è costituita attorno a lui. Il Pd è in una situazione di tensione drammatica. C’è il rischio concreto che alla massima espansione della sua rappresentanza elettorale segua una rottura traumatica o il precipitare in uno stato confusionale e paralizzante. Per questo si deve auspicare un congresso vero che sciolga alcuni nodi ineludibili, come quelli proposti anche da Vendola nel momento in cui ha dichiarato la disponibilità di Sel di partecipare al rimescolamento delle carte a sinistra. Mi permetto di indicare quattro ordini di questioni.
In primis l’adesione al Pse, che dovrebbe essere agevolata dalla scadenza nel 2014 delle elezioni europee con un candidato unico dei socialisti europei per la guida della Commissione Ue. Il valore simbolico di questa scelta dovrebbe essere rafforzato da una netta presa di distanza della cultura liberista, che in modo più o meno evidente ha influenzato la politica del Pd e prima ancora dell’Ulivo, attraverso il richiamo a Blair, a Schroeder e alla Terza Via. Andrebbe approfondito anche il concetto di «centralità del lavoro» cui più volte dirigenti del Pd si sono richiamati negli ultimi anni. Si deve decidere se si tratta solo di una vaga e apprezzabile istanza morale, o invece di un recupero dei concreti rapporti sociali e di classe, non certo dissolti, per quanto trasformati dalla fine del fordismo. E dunque prendere atto, come ha scritto Carlo Galli in un recente libro, che «ciò che è decisivo sono i rapporti di potere fra capitale e lavoro». Infine dovrebbe essere chiarito il modello di partito prescelto, basato su meccanismi democratici sotto il controllo degli iscritti.
Se questi elementi fossero posti con chiarezza nel congresso del Pd e risultassero vincenti, se ci fosse anche il supporto della confluenza di Sel, credo che avremmo finalmente trovato quei baricentro attorno a cui riorganizzare la sinistra italiana secondo gli auspici che il nostro Network per il Socialismo Europeo ha da sempre espresso.

il Fatto 10.4.13
Unità nazionale
Le intese sono fuori tempo
di Nicola Tranfaglia


É possibile ancora un accordo tra i due maggiori partiti dell’Italia contemporanea, il Pd con Pier Luigi Bersani, e il Pdl che ha in Silvio Berlusconi il capo assoluto e carismatico, dopo i risultati del 24-25 febbraio 2013? E possiamo paragonare i due protagonisti di oggi con quelli che si trovarono di fronte a metà degli Anni 70, il Pci di Enrico Berlinguer e la Dc di Aldo Moro? Domande scomode l’una e l’altra ma provocate dall’ora che stiamo vivendo, con l’incontro (quello già fatto e poi di necessità molti altri) tra Bersani e Berlusconi, l’elezione ormai vicina del nuovo Presidente della Repubblica, la formazione di un “governo di scopo” il più presto possibile cinquanta giorni dopo il voto. Con la voglia molto scarsa dei parlamentari appena eletti di andare di nuovo al voto e il timore di tanti italiani di ritornare alle urne prima che cambi il Porcellum di Calderoli e si faccia qualcosa per uscire dalla gravissima crisi economica, sociale e morale in cui tuttora siamo.
BISOGNA dire subito che la Democrazia Cristiana di Aldo Moro – pur con tutte le contraddizioni che aveva accumulato in 50 anni – non è confrontabile in nessun modo con il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi. Il primo era un partito, a suo modo democratico, in cui i dirigenti venivano eletti dagli iscritti e si dividevano in correnti abituati a lottare per la leadership. E i principi di quel partito attingevano, oltre che alla vicinanza al cristianesimo e alla Chiesa cattolica, a una cultura politica che aveva contribuito in maniera essenziale alla Costituzione del 1948 e alle leggi approvate in Italia dopo il 1946. Il partito che ha come leader dai primi Anni 90 il cavaliere di Arcore è, invece, espressione compiuta della cultura populista e in larga parte non democratica che ha segnato l'ultimo ventennio.
Berlusconi (a mio avviso, ineleggibile nel Parlamento sulla base dell’articolo 10 della legge numero 361 del 1957, che stabilisce l’inelleggibilità, tuttora vigente, per i titolari di concessioni statali di notevole valore economico) è stato ed è in Italia l’interprete centrale dell’ondata populista che ha caratterizzato l'ultimo ventennio nel nostro Paese, il creatore di decine di leggi ad personam, tuttora in vigore, l’ostacolo maggiore alle leggi per eliminare i conflitti di interesse, il combattente di una battaglia costante per non incorrere nelle numerose condanne che possono raggiungerlo per frodi fiscali, prostituzione minorile e altri reati legati alla sua vita e al forte disprezzo nutrito, da sempre, per il rispetto delle leggi come della costituzione repubblicana.
Possiamo dire sinteticamente che l’interlocutore del Partito Democratico è profondamente cambiato. Si tratta non del possibile erede del partito cattolico ma invece del prototipo di un populismo autoritario e lontano dalla democrazia. Ma quale rapporto si può stabilire tra il partito comunista di Enrico Berlinguer e il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani ?
A LIVELLO di dirigenti sono ormai pochi quelli che hanno guidato quel partito, si trova qualcuno tra i sindaci, tra i deputati europei, tra i parlamentari. Gran parte di loro ricorda poco e ha vissuto ancora meno quell’esperienza. Ci sono alcuni aspetti positivi che non si possono dimenticare: la fedeltà generale - almeno in astratto - ai principi essenziali della Costituzione repubblicana, la rappresentanza di settori importanti del mondo dei lavoratori e, soprattutto l’abitudine a far parte di un partito non personale nè populista.
Certo, in Italia dopo il 1992 non esistono più partiti democratici come molti di noi hanno ancora conosciuto, pur tra le molte contraddizioni che hanno sempre contraddistinto la nostra vita politica. Ma il Partito democratico – nato nel biennio 1989-1991– resta ancora quello più vicino a un'organizzazione di massa tendenzialmente popolare e democratica, anche se ormai – come nelle altre forze politiche – conta troppo il segretario con il suo staff e troppo poco la base popolare. C’è da chiedersi allora che cosa hanno in comune le “larghe intese” di oggi rispetto ai governi di unità nazionale degli Anni 70?
Quasi nulla mi sembra e i rischi di un grande pasticcio, pur di evitare per qualche mese il voto ci sono, malgrado le buone intenzioni dell'uno o dell’altro.

l’Unità 10.4.13
Il segretario a Renzi: «Venga in direzione. Io non voglio né il voto né il governissimo»


La tregua è ormai archiviata, lassù nella soffitta del Nazareno. Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi erano e restano due «avversari interni» e proprio adesso, quando i loro destini sembrano entrambi dipendere dal governo (e dalla durata) che sarà, si mette di nuovo da parte il fair play. Se il sindaco accusa la politica romana, compreso il suo partito, «di perdere tempo» e torna a invocare chiarezza «o governo o elezioni», il segretario dagli studi di Agorà gli dice che «le discussioni vanno bene, ma bisogna stare attenti ai toni e avanzare le proprie proposte nei luoghi giusti, cioè nella direzione Pd». Dove Renzi ogni tanto si fa vedere ma non parla e se ne va sempre molto presto. «A differenza di Grillo noi andiamo in streaming quando facciamo le riunioni nostre, non quando abbiamo ospiti, capovolgendo la buona educazione dice -. Noi siamo educati e quando abbiamo ospiti non facciamo lo streaming, ma in direzione sì. Noi lavoriamo nei nostri organismi». I rapporti, prosegue il leader Pd, si possono rovinare. Venga in direzione, provoca, a dire cosa dobbiamo fare: «Votare, fare il governissimo? Sono due cose diverse. Io non sono né per il governissimo né per andare a votare, poi sono disposto a discutere». Invita anche a fare attenzione ai sondaggi (le ultime elezioni sono una lezione ancora fresca): «Quando si è lontani dal voto, l’approccio è un po’ più generico e le vere discriminanti non vengono fuori. Quando si è sotto, invece, vengono fuori i temi veri». Renzi dal canto suo dice che «il problemino» è l’aver detto che Bersani non ha vinto le elezioni, Bersani a domanda su una sua possibile ricandidatura in caso di voto anticipato risponde «devo pensarci», esclude per certo solo a quella per la segreteria, «farò il filosofo». Saluta come una buona notizia la decisione di Barca di scendere in politica, «la mia stima per lui non è di oggi» e ammette, che certo, «con Renzi hanno caratteri diversi, ma ne avessimo di gente così».

l’Unità 10.4.13
Il Pd toscano si divide, Renzi non sarà grande elettore
Il sindaco di Firenze non parteciperà alla scelta del Capo dello Stato

Monaci passa con 12 voti contro 10
di Vladimiro Frulletti


Niente viaggio a Roma per eleggere il capo dello Stato per Matteo Renzi. Ieri sera, dopo una lunghissima discussione (cominciata la mattina e in cui non sono mancati anche momenti di tensione) il gruppo consiliare del Pd toscano ha detto no al sindaco di Firenze. Ma spaccandosi praticamente in due. 10 voti per Renzi, 12 per Alberto Monaci. Quindi stamani (a meno di sorprese) dalla Toscana saranno mandati a Roma (per scegliere assieme ai grandi elettori delle altre Regioni e ai parlamentari il successore di Giorgio Napolitano) il presidente della Regione Enrico Rossi, il presidente dell’aula Monaci e un esponente delle opposizioni (probabilmente il vicepresidente Roberto Benedetti del Pdl). Ha quindi prevalso la soluzione “istituzionale” ed è uscita sconfitta la scelta politica che parte del Pd (a cominciare dal segretario regionale Andrea Manciulli) aveva scelto per dare, anche visivamente, un segnale di ritrovata unità.
E infatti nei consensi che andati al sindaco di Firenze vanno contati non solo i renziani doc (Brogi, Giani e Remaschi) che col fidatissimo Nicola Danti avevano costruito in questi giorni la proposta Renzi. Ma anche gli esponenti (dalemiani-bersaniani) più vicini a Manciulli come i consiglieri Ferrucci e Tortolini, i senesi Spinelli e Rosanna Pugnalini, il lettiano Tognocchi e Lucia De Robertis (vicina al responsabile enti locali Stefano Bruzzesi legato a Beppe Fioroni). Non sono bastati. «Una occasione persa» dice il senatore (renziano) Andrea Marcucci, dal Pd toscano per mostrare di «essere sintonizzato con il proprio popolo. È stata fatta una scelta poco lungimirante che purtroppo privilegia la divisione e non l’unità, che guarda indietro e non avanti».
Del resto l’ipotesi Renzi grande elettore aveva avuto anche il via libera dai vertici nazionali del Pd e in favore del sindaco s’era espresso anche il presidente Rossi pur chiedendo anche di verificare la disponibilità del presidente del Consiglio Monaci. E per Renzi s’erano già espressi sia i socialisti che l’Idv. Lo stesso capogruppo Pd Marco Ruggeri aveva chiesto al gruppo di scegliere Renzi. Poi gli è stato chiesto di sentire Monaci (a casa per un decorso post-operatorio) che ha dato la propria disponibilità via sms. «Renzi era la principale proposta politica spiega Ruggeri ; si è valutata questa opzione, ma poi è stata scelta quella istituzionale». E non in maniera informale visto che sia i renziani che gli esponenti della segreteria Manciulli hanno chiesto un voto proprio per rendere esplicita la situazione. E qui ha prevalso il Monaci. Scelta che il renziano Enzo Brogi definisce «inversamente proporzionale a quella che avrebbe fatto la grande maggioranza dei cittadini toscani».
Del resto la proposta del sindaco di Firenze era a tutti gli effetti una scelta politica. Infatti fin qui la prassi, mai messa in discussione, era stata che i tre grandi elettori fossero figure istituzionali. Sette anni fa così toccò al presidente della Regione Claudio Martini (oggi neo-senatore Pd), al presidente dell’Aula Riccardo Nencini (oggi segretario nazionale del Psi e senatore eletto nelle liste Pd) e al vicepresidente Paolo Bartolozzi (all’epoca di Forza Italia e oggi eurodeputato Pdl). Nell’occasione però fu proprio Monaci in veste di capogruppo dell’allora Margherita a contestare. Nel metodo perché a suo giudizio non era scritto da nessuna parte che i tre grandi elettori dovessero essere figure istituzionali della Regione. E nel merito perché contrario a Nencini in quanto sostenitore della candidatura di Emma Bonino alla Presidenza della Repubblica. Allora, come oggi, invece era stata scelta la soluzione istituzionale. E questa volta spetta a Monaci, grande amico dell’ex presidente del Senato Franco Marini e protagonista dello scontro tutto interno al Pd che a Siena ha portato alla caduta del sindaco Franco Ceccuzzi, votare per il nuovo Presidente della Repubblica.
E Renzi? «Tranquillo» lo descrive chi era con lui ieri pomeriggio a Vinitaly dove ha partecipato a un dibattito assieme al sindaco di Verona Flavio Tosi. Certo le notizie che gli sono arrivate da Firenze non l’hanno fatto felice perché nella partita per il Quirinale un ruolo ha intenzione di giocarlo e essere fra i grandi elettori lo avrebbe aiutato. Intanto in attesa di incontrare D’Alema che domani sarà a Firenze per un convegno sui partiti (organizzato dall’ex vicesindaco di Renzi, Dario Nardella, oggi deputato) ieri il sindaco ha di nuovo mandato messaggi non cifrati ai vertici del Pd ricordando che «Bersani ha vinto le primarie, ma non le elezioni» e ribadendo che è necessario lo stallo romano si sblocchi in fretta: «Mi hanno dato del qualunquista perché ho detto che si sta perdendo tempo, prometto di non dirlo più ma voi potreste per favore smettere di perdere tempo?». «Bisogna, elezioni o no, che vi mettiate d’accordo, che si decida» il suo invito a Bersani e Berlusconi. Lui comunque non lascerà il Pd: «starò sempre dentro la sinistraassicura -, non ne posso più di gente che si fa partiti personali».

La Stampa 10.4.13
Ormai è guerra con Renzi “Qualunquista e demagogo”
Il segretario attacca, il sindaco replica: “Hai perso le elezioni”
di Carlo Bertini


A fine serata non si capacita e con i suoi Matteo Renzi si sfoga dopo che la sua nomina a «grande elettore» per il Quirinale è stata bocciata dal gruppo Pd del consiglio della Toscana. «Ma come? Prima i bersaniani me lo propongono, mi fanno dare la disponibilità e poi mi fanno perdere? Certo, io ci andavo volentieri a Roma e se volessi inasprire il clima potrei forzare la mano in aula al consiglio regionale cercandomi lì i voti, ma non lo faccio per lealtà». È solo l’ultimo dei fronti di attrito di una battaglia che tocca il diapason proprio il giorno in cui Bersani scambia strette di mano col «giaguaro», menando però fendenti al «rottamatore».
E a dare un’idea di come le guarnigioni stiano in campo a ridosso della partita per il Colle in cui le alleanze nell’urna saranno trasversali, vorrà pur dire qualcosa una rissa sfiorata: prima di votare se mandare Renzi a Roma come «grande elettore», il gruppo Pd si spacca e due ex Dc che si conoscono da anni vengono quasi alle mani. Separati dai «compagni» di partito dopo battute al vetriolo: della serie, «zitti voi che siete eterodiretti da quello lì», lanciata al renziano Nicola Danti dall’ex margheritino e oggi bersaniano Paolo Bambagioni.
Ma la guerriglia tra i due blocchi comincia di buon mattino, quando ad «Agorà» Pierluigi Bersani usa la formula «Renzi è una risorsa del centrosinistra», accompagnata da un avviso a «stare però attento nei toni». E di fronte ai sondaggi che vedono un buon 36% preferire Renzi leader, Bersani conviene che lui gode di «una grande popolarità, ma quello che mi preoccupa è che poi questo non trovi una composizione nel centrosinistra». Alludendo al fatto che Renzi goda di simpatie nel centrodestra ma che forse non riuscirebbe a drenare tutti i voti della sinistra che non lo ama.
I venti di guerra soffiano per tutto il giorno: parlando all’assemblea dei deputati, che vota cinque vicecapigruppo col manuale Cencelli, Bersani lancia un’altra staffilata a Renzi senza nominarlo: perché «chi dice che perdiamo tempo alimenta solo qualunquismo e demagogia e non c’è bisogno di appiccare nuovi incendi». I renziani sono già pronti a dare battaglia, alle dieci del mattino si sono riuniti per spartirsi i compiti. Scatta per primo Alfredo Bazoli che prova a stanare Bersani, «bene sul Quirinale, ma poi come prosegue la partita sul governo? ». Tradotto, è stato dipinto Renzi come quello che va a braccetto con Berlusconi e ora siete voi a trattare col nemico. Prosegue le danze Ivan Scalfarotto, continua Dario Nardella, il clima si scalda ma la scena viene aggiornata perché si comincia a litigare sulle commissioni, che molti giovani vorrebbero far partire.
E a Verona, dove ingaggia un duello amichevole con Flavio Tosi a Vinitaly, Renzi non gliele manda certo a dire a Bersani. Sì è vero che «non ho vinto le primarie ed ha vinto Bersani. Il problemino è che poi Bersani non ha vinto le elezioni». Tanto per dare un assaggio su quanto sia determinato per il prossimo giro di giostra. E poi ancora: «Mi danno del qualunquista, prometto di non dirlo più, ma voi potreste smettere di perdere tempo? Bisogna che vi mettiate d’accordo, che si decida». E dopo un bel «mi criticano per esser andato ad “Amici”, ma quei voti non valgono di meno», ecco il chiarimento che prova a sgonfiare tutti i peggiori sospetti: «Io starò sempre dentro la sinistra, non ne posso più di gente che si fa i partiti personali. In tutto il mondo c’è un partito di destra e uno di sinistra».

Corriere 10.4.13
Lo sfogo di Renzi: dal segretario giochini per ridurmi all'ordine
«Punire per educare, ma non mi fermano»
di Angela Frenda


VERONA — «Complimenti, che devo dire? Bersani e Franceschini sono stati bravissimi. Hanno voluto darmi un segnale. Del genere: punirli per educarli. Ma tanto io il bravo non lo faccio. Non-lo-faccio. Hanno fatto un giochino da Prima Repubblica, con questa storia... E questo nome: Monaci. Peggio per loro, continueranno a perdere elettori».
Sono le 21 di sera. Matteo Renzi si divide tra la delusione e la rabbia, mentre è in viaggio verso Pordenone, dove oggi sosterrà Deborah Serracchiani. Ha appena lasciato Verona, dove a «Vinitaly» ha fatto un incontro pubblico con Flavio Tosi. E proprio lì, su quel palco, alle 18 e 40, ha ricevuto la notizia: la sua esclusione dai grandi elettori del futuro presidente della Repubblica. È stato un brutto colpo, anche perché fino a ieri mattina sembrava cosa fatta. Invece nel pomeriggio lo hanno tecnicamente «fatto fuori». Dopo 10 ore di discussione il gruppo pd si è spaccato a metà: 10 hanno votato per Renzi (i suoi). Ma 12 si sono schierati a favore di Alberto Monaci, il presidente dell'assemblea che, con quello della giunta, Enrico Rossi, era in pole position. Monaci è anche l'esponente pd «sfiorato» dallo scandalo Monte Paschi e dal «caso Ceccuzzi». Ecco perché sempre Renzi, infuriato, a tarda sera si lascia andare a uno sfogo col Corriere: «Monaci sappiamo tutti, qui in Toscana, chi è. Viene da ridere. Scelgono uno che ha fatto quello che ha fatto. Avessero deciso per una persona autorevole, per una donna... A Bersani e Franceschini dico: se vogliono ridurmi all'ordine per comprarmi, niente da fare. Non ce la fanno. La verità è che non mi sopportano». Ce l'avrebbe fatta, dice Renzi, senza i voti del Pd: «Bastava chiedessi a Udc e Idv... Però volevo essere eletto dal mio partito: preferisco perdere piuttosto che fare accordi. Ci tenevo, ma non devo fare questo lavoro qui nella vita...».
È la fine di una giornata che invece sembrava positiva. Al suo arrivo, al «Vinitaly», il sindaco di Firenze è accolto da applausi da stadio: «Ahò Matteo, sei meglio di Balotelli». Un consenso che quasi gli impedisce di camminare tra gli stand. Ad accoglierlo sul palco, il patron di «Eataly» Oscar Farinetti, promotore del confronto con Flavio Tosi, che Renzi saluta con uno scherzoso «ciao compagno». I due «leader del futuro» si osservano benevolmente. Tosi gli lancia un assist: «Se le primarie del Pd avessero avuto un esito diverso, ci sarebbe stato ricambio e oggi avremmo un governo». Il sindaco incassa l'applauso a occhi bassi. E quando prende la parola, il pubblico si attende che faccia Matteo Renzi. Lui li accontenta: «È vero, io non ho vinto le primarie... Le ha vinte Bersani. Però poi lui c'ha un piccolo problemino, che ha perso le elezioni. Che ho detto di male? Mettetevi d'accordo oppure si vota. So che Berlusconi e Bersani si stanno vedendo. Bene. Speriamo che si decidano. Mi hanno dato del qualunquista per aver detto di non fare i perditempo. Ok, non lo dico più. (Pausa). Ma loro possono smettere di perdere tempo?».
Alle 18 e 40 i microfoni vengono disturbati dal segnale di un cellulare acceso. Renzi prende in mano l'iPhone. Messaggia. Gli hanno appena comunicato che è stato escluso dai grandi elettori. Finisce l'incontro. Il Rottamatore fugge via. Ai suoi, che intanto lo chiamano infuriati, dirà: «Non fate cretinate. Non spacco il partito per questo. Io starò sempre a sinistra». Ma intanto il segnale (brutto) è arrivato. E la giornata è rovinata.

l’Unità 10.4.13
Contraddizioni a Cinque stelle
Parlamentaristi a Cinque stelle (e a fasi alterne)
di Massimo Luciani


La questione della costituzione delle commissioni parlamentari permanenti sta assumendo i contorni del paradosso. È noto che una prassi consolidata lega la nascita delle commissioni alla formazione del governo, e che questa prassi trova il proprio fondamento nella ragionevole idea che siano proprio le commissioni le prime interlocutrici dell’esecutivo, sicché non avrebbe senso comporle (e far loro eleggere i rispettivi presidenti) prima che la compagine governativa si sia formata e che siano chiari gli equilibri politici generali.
Oggi ci troviamo, però, in una condizione inedita: il nuovo governo è di là da venire e ad oltre un mese dalle elezioni finiscono in stallo anche le Camere: niente governo, niente commissioni. Il Movimento 5 Stelle ha ragione a denunciare la gravità della situazione. Se le commissioni non ci sono il Parlamento non può operare con piena funzionalità e al danno della permanenza in carica di un esecutivo debole (perché dimissionario e perché guidato da un leader sconfitto alle elezioni) si aggiunge la beffa della debolezza delle stesse assemblee rappresentative. Quello che M5S invoca, dunque, è il recupero della pienezza di ruolo del Parlamento, tanto più importante e qui sta una seconda ragione di M5S dopo una legislatura di grave mortificazione del lavoro parlamentare. Eppure. Eppure v’è qualcosa di strano.
Le istituzioni hanno una loro logica, disegnata dalla Costituzione e precisata da una lunga storia, che non si può accettare in parte e in parte rifiutare. La preoccupazione per il malfunzionamento del Parlamento è sacrosanta e merita approvazione incondizionata, ma una delle funzioni essenziali del Parlamento è quella di investire un governo della propria fiducia, creando quel raccordo fra esecutivo e assemblee rappresentative che è l’essenza del parlamentarismo. È contraddittorio, allora, sottrarsi a qualunque tipo di confronto sulla formazione del governo e, allo stesso tempo, reclamare l’avvio dei lavori parlamentari, perché se un governo non può stare in piedi senza un Parlamento (senza la sua fiducia) un Parlamento non può funzionare bene (e non potrebbero farlo le sue commissioni) senza un governo nella pienezza delle sue funzioni, perché gli manca un interlocutore adeguato, capace di elaborare un indirizzo politico da controllare.
Analoga contraddizione si può registrare per la questione del continuo richiamo alla disciplina da parte dei vertici di M5S. La Costituzione riconosce ai singoli parlamentari il diritto di esercitare liberamente il loro mandato. Non l’ha fatto certo per legittimare i cambi di casacca e per annullare la responsabilità nei confronti degli elettori, ma per proteggere deputati e senatori dal novello Principe: dai partiti. Sì, è vero che la Costituzione ha giustamente collocato i partiti al centro del circuito della decisione democratica, poiché si è resa perfettamente conto che l’intermediazione partitica è essenziale per la creazione di una sfera pubblica adeguatamente strutturata, ma non è meno vero che ha colto lucidamente il pericolo che un’eccessiva occupazione partitica di quella sfera può generare torsioni oligarchiche del sistema politico e bloccare qualunque dinamismo del confronto pubblico delle opinioni. Stando così le cose, è appunto contraddittorio che chi ha fatto del sentimento antipartitocratico il cuore della propria stessa identità faccia appello a quelle obbligazioni di disciplina che sono il segno più evidente della partitocrazia. Certo, gli interessati potrebbero obiettare che M5S non è un partito, ma un movimento, ma dietro questa foglia di fico è ben difficile nascondersi, visto che non bastano le etichette a occultare la realtà: quel «movimento» ha partecipato alle elezioni esattamente con lo stesso scopo che è tipico dell’azione dei partiti, e cioè conquistare un numero di seggi sufficiente a esprimere, in tutto o in parte, un governo. E infatti proprio un governo a guida M5S è stata la richiesta prioritaria formulata al Capo dello Stato. Si torna, dunque, al punctum crucis di tutta questa vicenda: se si entra nelle istituzioni, si deve accettare la loro logica. Le si può riformare, certo, se ne possono rovesciare gli stili, certo. Ma una forma di governo parlamentare è una forma di governo parlamentare, ovviamente, e non si può immaginare che possa essere, in parte, un’altra cosa. La piena accettazione di questo «ovvioma» da parte di tutte le forze politiche, pur nella diversità delle loro piattaforme programmatiche, ci farebbe fare un bel passo avanti sulla via della stabilizzazione di una legislatura che è nata male ma, con un po’ di buona volontà, potrebbe non finire peggio.

La Stampa 10.4.13
“I grillini sbagliano, l’Italia non è una repubblica assembleare”
La critica dei costituzionalisti: “L’indirizzo politico spetta al governo”
di Francesco Grignetti


Su questa storia delle commissioni che non decollano, i grillini ne fanno una bandiera, ma gli addetti ai lavori la pensano in maniera diversa. «Da un punto di vista teorico - spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex parlamentare Pd - non si può confondere un sistema presidenziale da uno parlamentare. Nel primo si può ancora ricorrere alla tripartizione classica tra poteri Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Nel secondo, no. Con il voto di fiducia la maggioranza parlamentare si fonde indissolubilmente con il governo, cui spetta l’indirizzo politico».
Secondo Ceccanti nel nostro sistema non c’è alcuna separazione tra Esecutivo e Legislativo. «La maggioranza politica è l’asse in comune. E infatti è espressamente previsto che in alcune particolarissime commissioni, tipo quella di controllo sui servizi segreti, il presidente dev’essere di opposizione».
Per essere ancor più chiaro, il costituzionalista fa l’esempio delle leggi di spesa: compete al governo stabilire le forme della copertura finanziaria e di conseguenza non è affatto indifferente chi sia il presidente della commissione Bilancio di Camera e Senato. «È naturale che la maggioranza voti il “proprio” presidente della commissione Bilancio, che opererà in stretto contatto con il governo. È inimmaginabile che il presidente di una commissione così importante, come anche quella degli Affari costituzionali, non sia della maggioranza. Ma se non si passa attraverso il voto di fiducia al governo, come si fa a definire chi è in maggioranza e chi all’opposizione? ».
La pensa esattamente come Ceccanti anche uno che è dalla parte opposta. Giuseppe Calderisi, ex parlamentare Pdl, grande esperto di norme parlamentari, dice di essere stupito di un dibattito «che è surreale: chi, come i grillini, dice che la nostra Costituzione è la più bella del mondo, è tenuto almeno a leggerla e rispettarla. Non si può mica passare surrettiziamente da un sistema parlamentare a uno assembleare senza modificare la Costituzione. Anche i regolamenti parlamentari: troppo facile leggere solo alcuni articoli. Il nostro sistema è chiarissimo. Occorre un governo anche per fare le leggi».
Si ascolti anche Rocco Buttiglione, Udc, che ieri alla Camera ha improvvisato una piccola lezione ai giovani colleghi del M5S: «La nostra è una Costituzione parlamentare, non assembleare: parlamentare vuol dire che c’è un governo e che la responsabilità politica complessiva dell’indirizzo della legislazione tocca al governo».
A sentire i tecnici di area, insomma, di destra come di sinistra o di centro, non c’è modo di uscirne. Con buona pace del professor Paolo Becchi, che spinge sull’acceleratore della protesta. «Occupare il parlamento e occupare la piazza per difendere la democrazia dall’ultimo colpo di coda della partitocrazia», era il suo slogan di ieri. La partitocrazia, per stare alle parole di Grillo, è a un passo dal golpe? Becchi ne è convinto. «Il golpe lo sta facendo chi impedisce al Parlamento di lavorare».
Ma lo spirito movimentista del professor Becchi è agli antipodi della governabilità cara a Ceccanti. «Se vogliamo uscire dal piano teorico e passare al pratico - dice il costituzionalista - ricordo che tra qualche giorno i parlamentari saranno impegnati mattina e sera per votare il nuovo Capo dello Stato. Subito dopo ci sarà l’insediamento al Quirinale e le nuove consultazioni. Nel giro di pochissimi giorni la situazione si chiarirà. Tutta questa retorica sul Parlamento che non lavora, insomma, è destinata a finire presto».

Corriere 10.4.13
Il terrore dei soldi manda in tilt i conti dei neoeletti
di Sergio Rizzo


ROMA — Roberto Cotti ha confessato di aver chiesto un prestito in banca. «Non sarei arrivato alla fine del mese…», ha spiegato a Un giorno da pecora su Radio2. Ma un prestito va restituito, e se lo stipendio è davvero di 2.500 euro netti al mese, per il senatore grillino che difficilmente da Roma potrà continuare a mandare avanti la sua ditta «di servizi turistici» Sardegna Piccoli Eventi, i sacrifici sono destinati a continuare. Almeno fino a quando Cotti, come gli altri suoi 161 colleghi, non avranno preso le misure alla famigerata «diaria». Sono i 3.503 euro al mese che spettano ai parlamentari, oltre all'indennità, come rimborso delle spese di vitto e alloggio nella capitale. Fino al 27 luglio del 2010 era di 4.003 euro. Persino insufficienti, secondo qualcuno, a mettere al riparo gli onorevoli dalle tentazioni romane. Ricordate l'ex deputato dell'Udc Cosimo Mele? Reduce da un festino a luci rosse e droga in un albergo di via Veneto si dimise dal partito, mentre il segretario udc Lorenzo Cesa avanzava una proposta scioccante: dare più soldi ai deputati per consentirgli di ospitare le mogli a Roma. Già, la diaria. Quando la pronunciano, quella parola, è come se dovessero maneggiare nitroglicerina. Perché guai a dare l'impressione che si possa essere omologati ai parlamentari di altri partiti: anche se il problema dell'uso di quei soldi esiste, eccome. Un mese fa la giornalista dell'Ansa Francesca Chiri aveva raccolto gli sfoghi di alcuni deputati grillini: «Nessuno vuole arricchirsi ma attenti, non possiamo neanche rimetterci. Non dobbiamo tornare a vivere come quando eravamo all'Università fuori sede…». Sfoghi rigorosamente anonimi, e si capisce perché.
La linea è quella che arriva dal blog di Beppe Grillo, che due giorni fa ha spedito un missile terra-aria a Repubblica, giornale reo di aver titolato: «La retromarcia dei grillini: non bastano 2.500 euro. E Beppe: "Vanno bene seimila"». Cioè la somma fra l'indennità e la diaria, appunto seimila euro. «Una balla gigantesca», per Grillo. Anche se poi l'Ansa pubblica il testo del codice sottoscritto dai cittadini dove c'è scritto: «L'indennità dovrà essere di 5 mila euro lordi mensili (…) i parlamentari avranno comunque diritto a ogni altra voce di rimborso tra cui la diaria...».
La linea è quella di cui si fanno tramite diligenti i capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi. Il quale spiega in conferenza stampa: «Abbiamo deciso di rimandare la rendicontazione della diaria a quando avremo in mano le prime buste paga…». Logico: come si fa a rendicontare prima ancora di sapere quanto si spende? Ma non può non venire l'idea che tutto questo nasconda il terrore di essere sia pure soltanto sfiorati dal sospetto di essere sedotti dai vituperati privilegi. Anche quando la faccenda assume contorni grotteschi. Prova ne sia l'autodafé di Adriano Zaccagnini, pizzicato a mangiare al ristorante della Camera. «Ammetto il mio errore e sono pronto a restituire la parte eccedente del conto che non ho pagato», è stata la sua confessione… L'indennità, dunque, sarà dimezzata. Ma gli eletti del Movimento 5 Stelle hanno deciso che rinunceranno anche alla liquidazione. Per la diaria, invece, vedremo a fine mese. Come per il contributo di 3.690 euro mensili che dovrebbe essere destinata ai collaboratori. E per altre voci, quali il fondo per le bollette telefoniche (3.098 euro l'anno) e le spese di trasporto (fino a 3.995 euro ogni 3 mesi). Non che non restino aperti altri interrogativi. Per esempio, la diaria di chi vive a Roma? Per esempio, la pensione? Per esempio, i finanziamenti ai gruppi parlamentari? Ai grillini di Camera e Senato toccherebbero 8.974.100 euro. Soldi del finanziamento pubblico di cui il M5S vuole l'abolizione. Impensabile che finiscano nelle casse grilline, o che a finanziare il Movimento siano gli stessi cittadini con parte delle proprie competenze, come fanno gli onorevoli di qualche partito.
Del resto, Grillo non ha sempre detto che «è possibile fare politica senza soldi pubblici» e comunque con pochissime risorse? La campagna di finanziamento delle elezioni si intitolava: «Obiettivo un milione». È arrivato molto meno: 571.645 euro, a ieri. E anche lì, per il dettaglio delle spese, ancora ignoto, bisognerà attendere l'esito della «meticolosa rendicontazione» in atto. Vero è che il seguitissimo sito di Beppe Grillo, e questo ha fatto storcere la bocca a qualche integralista, è zeppo di pubblicità. C'è anche Cubovision, che fa capo a Telecom Italia, azienda in passato finita ripetutamente nel mirino del comico genovese. L'ultima volta il 29 aprile del 2010, quando c'era già l'attuale gestione di Franco Bernabè. All'assemblea Grillo si presentò con un poco amichevole lutto al braccio: «Qui si celebra un funerale. Telecom è morta ma forse si possono espiantare degli organi. Sia venduta a Telefonica prima che la spolpino».

il Fatto 10.4.13
M5S, mai con Le Pen: “Noi argine democratico”


SUL BLOG arriva la smentita. Né Beppe Grillo, né il suo staff e neppure i membri del Movimento hanno mai avuto contatti con Marine Le Pen, leader del partito francese Front Nacional, di destra sociale. E per rincarare la dose, nel post si prendono le distanze anche da tutti gli altri estremismi di destra di successo sullo scenario europeo, dall’Ungheria alla Finlandia. “Con la crisi le ideologie son pronte per tornare. Anche il nazismo e il fascismo non scompaiono mai”, scrive Grillo. E continua: “Molti nostri avversari non capiscono che il MoVimento 5 Stelle è un argine democratico contro questi gruppi, se non ci fossimo noi avrebbero senz’altro più spazio”. La Le Pen, nei giorni scorsi, aveva dichiarato di voler incontrare i Cinque Stelle, considerati amici nella battaglia anti-euro.

l’Unità 10.4.13
«Razzismo anti-rom»: bufera su De Vito (M5S) e Alicata (Pd)
Strascichi delle primarie: il candidato grillino a sindaco di Roma attacca il Pd usando le frasi della dirigente democratica che si dimette
di Rachele Gonnelli


A colpi di denunce per voto di scambio alle primarie, diffide e controdenunce per dichiarazioni che alimentano il razzismo, manifesti stradali multilingue sui diritti dei cittadini stranieri: la campagna elettorale per le elezioni romane parte così, con una rincorsa grillina ai voti della destra.
Al centro dello scandalo, però, le dichiarazioni di una giovane dirigente del Pd, Cristiana Alicata, che sul suo blog a urne ancora calde denunciava «le solite incredibili file di rom che quando ci sono le primarie si scoprono appassionatissimi di politica». Una frase riferita a un seggio in un municipio della popolosa periferia sud-ovest Magliana-Portuense, vicino al campo nomadi di via Candoni, sotto il palazzo lungo un chilometro di Corviale. Su queste avventate dichiarazioni della sostenitrice di Renzi prima e ora di Gentiloni, sono saliti in due. Il primo: il candidato sindaco dei Cinque Stelle Marcello De Vito, sconosciuto avvocato del quartiere di Conca d’Oro, quadrante sud-est, scelto da 533 votanti online del meet up di Roma. La seconda: la vice sindaco e assessore alle politiche sociali della giunta Alemanno, Sveva Belviso. Il candidato grillino posta su facebook un fotomontaggio che ritrae una fila a un gazebo e una signora rom del campo di via Candoni che infila la scheda nella scatola con la scritta «Roma Bene comune». Sotto, la scritta: «23 marzo il Pdl paga 10 euro e il pranzo a chi sostiene Berlusconi a piazza del Popolo, 7 aprile il Pd paga 10 euro a tutti i rom che lo votano alle primarie». La vice sindaco Belvisi annuncia un esposto alla Procura per accertare la veridicità dell’accusa del post grillino sulla compravendita di voti alle primarie del centrosinistra. «Per evitare dice casi analoghi alle comunali». Il tutto va a ricadere, per una coincidenza inquietante, proprio nella Giornata internazionale dei rom e dei sinti.
L’associazione «21 luglio» invia una diffida al candidato sindaco del M5S invitandolo a cancellare dalla sua bacheca dichiarazioni che rischiano di alimentare discriminazione, odio e intolleranza. «Queste dichiarazioni sottolinea Carlo Stasolla, presidente dell’associazione e autore di un libro-inchiesta sul piano Nomadi di Alemanno sono gratuite, perché non c’è alcuna prova neppure di un singolo caso di voto comprato e dalla nostra indagine interna non risulta ci sia stato niente del genere. Ma anche se ci fosse stato un caso, qui il fenomeno viene generalizzato includendo tutti i rom, creando così uno stigma sociale. Il fatto è che a Roma, è stato così anche in passato, i rom vengono usati per attaccare gli avversari e fare propaganda». Il candidato sindaco del centrosinistra Ignazio Marino fa notare che l’intera popolazione rom della capitale si aggira sulle 7.700 persone, inclusi i bambini. Quindi se non fosse razzismo ma statistica non avrebbero potuto avere una reale influenza sulle primarie, alle quali su oltre 100mila elettori lui ha ottenuto oltre il 50% delle preferenze.
Visto che nessuno si era scusato, pur eliminando dalle bacheche i post antigitani, ieri la comunità di via Candoni ha deciso di denunciare alla Procura Cristiana Alicata e Marcello De Vito per diffamazione e istigazione all’odio razziale. «Siamo presenti da 13 anni nel XV municipio si legge nel comunicato e abbiamo sempre preso parte attivamente alla politica del territorio». L’ultima visita di un politico è stata del candidato alle primarie David Sassoli mentre il capo del campo Ion Bambalau nel 2003 si è presentato per la carica di consigliere aggiunto in Campidoglio. «Già 5 anni fa abbiamo vissuto sulla nostra pelle una campagna elettorale che ha utilizzato i rom come piaga sociale, non ci stupisce che il M5Stelle, che già più volte è uscito pubblicamente con esternazioni ambigue sul voto ai migranti e l’apertura a movimenti apertamente xenofobi come Casa Pound, faccia proprie tali argomentazioni, né che lo faccia la destra. Ci stupisce invece che tali affermazioni siano nate in seno al Pd». E così chiedono una presa di distanza del partito da Alicata che, dicono, «dovrebbe essere destituita». In serata lei annuncia su Facebook le dimissioni da ogni incarico, «la mia tessera scrive è a disposizione di Bersani», respinge però le accuse di razzismo e chiude con una frase in romané mri famiglia ma dicheri rado, la mia famiglia mi ama che alcuni leggono come una frecciata ai dirigenti romani del Pd.

Repubblica 10.4.13
La tentazione di Beppe per il Colle “Dopo il quarto scrutinio possiamo anche votare per Prodi”
l leader: meglio lui di D’Alema e Amato
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Il nome gira già da qualche giorno. E a farlo non sono i parlamentari, ma Beppe Grillo in persona. L’ex comico ha gà una soluzione in tasca per il Quirinale. Di chi si tratta? Di Romano Prodi. «Ragazzi - ripete nelle ultime ore - se per il Colle arriviamo alla quarta votazione, bisogna riflettere!».
Un invito che ha destato sorpresa in molti. E quando il leader del M5S entra nello specifico lascia tutti di stucco. «Prodi - aveva già spiegato venerdì scorso nel summit “segreto” alle porte di Roma - non è D’Alema o Amato, è una persona con la quale si può ragionare. Vi invito a riflettere su questo punto, perché altrimenti alla fine rischiamo di trovarci
davvero quei due». Il riferimento è al quarto scrutinio, quando si richiederà solo la maggioranza assoluta e non il quorum dei due terzi per eleggere il successore di Napolitano. Nella sala del casale alle porte di Roma il Fondatore non ha detto di più, ma tanto è bastato per alimentare un vivace dibattito interno. Così intenso che fatica a restare sottotraccia, soprattutto ora che la scelta del nuovo inquilino del Colle è a un passo. Non è la prima volta che il leader saggia il terreno. Provoca, lancia suggestioni, spiazza. Il nome del Professore di Bologna, per dire, era stato evocato dal Fondatore un paio di settimane fa, in un post sul suo blog: Pd e Pdl vogliono al Colle «non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche». Non un’apertura, ma neanche una porta sbattuta in faccia all’ex commissario europeo. Anche perché in passato lo stesso Grillo e molti dei suoi eletti non hanno nascosto di apprezzare dei governi passati solo quelli presieduti dal Professore.
Davanti a suoi parlamentari Grillo si è però spinto oltre. Alla vigilia, tra l’altro, del referendum on line che chiamerà gli iscritti al movimento a selezionare già domani una rosa di dieci papabili per il Colle più alto. Martedì 16 aprile, poi, la top ten espressa dalla galassia grillina sarà sottoposta a nuovo sondaggio della Rete per incoronare il candidato da sostenere in Parlamento. Almeno per le prime tre votazioni. Dal quarto scrutinio, infatti, cambia tutto ed è a quel punto che i voti dei cinquestelle possono risultare determinanti. Magari per far prevalere Prodi.
Il risiko del Quirinale non lascia indifferenti deputati e senatori del movimento. Del nuovo Presidente, non è un mistero, discutono da tempo. Si confrontano soprattutto attraverso mailing list e forum privati. E la galleria di personalità pronte a scalare il Colle grazie alla spinta dei grillini si arricchisce ogni giorno di nuovi volti. E di suggestioni.
C’è Gino Strada, innanzitutto, sponsorizzato dall’ideologo del M5S Paolo Becchi. Va fortissimo anche Dario Fo, così stimato da poter contare anche su un pubblico elogio di Grillo: «È un premio Nobel una mente aperta, ha una lucidità fantastica». «Non ho le possibilità fisiche e psichiche», si è però tirato fuori l’intellettuale. Nella galassia grillina si guarda anche ai Presidenti emeriti della Consulta, Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida. E qualcuno, fra i fan del leader, ha anche pensato di lanciare la candidatura del direttore d’orchestra Claudio Abbado.
Se la società civile è il bacino preferito dal movimento, un discorso diverso va fatto per i politici di professione. Piace, ma potrebbe pagare la lunga militanza radicale Emma Bonino. Raccoglie consensi crescenti nell’ala libertaria dei grillini, ma difficilmente riuscirà a spuntarla. Quanto a Prodi, non è solo l’attenzione dimostrata dal Fondatore a pesare, spingendo decine di parlamentari a valutare un clamoroso sostegno in caso di “spareggio” per il Colle. Conta anche la conoscenza tra il guru Gianroberto Casaleggio e il Professore, mediata da Angelo Rovati. E i due hanno avuto modo di incrociarsi anche di recente a Milano, durante una pausa dei lavori del World Business Forum.
La mossa di Grillo punta anche a evitare che si ripeta quanto già accaduto per l’elezione di Piero Grasso. Perché lacerarsi è facile, soprattutto se il voto è segreto e la posta in palio altissima. Il movimento, con il prezioso bottino di 162 voti a disposizione, potrebbe avere nuovamente in mano l’asso capace di decide l’esito del voto. Per questo, davanti ai suoi parlamentari, il leader non ha chiuso del tutto la porta a una soluzione che i più oltranzisti potrebbero inquadrare nell’ottica del “male minore”.

Repubblica 10.4.13
La corsa delle donne, Bonino in pole
La radicale: “Vedremo se i politici vorranno il cambiamento”. In gara anche la Boldrini
di Giovanna Casadio


ROMA — «È il momento del cambiamento e di una donna al Quirinale? Mah, i leader politici italiani dicono di volere il cambiamento, dire è una cosa, volere davvero è un’altra… quella che temo prevalga è la volontà di sopravvivere nello stesso modo di sempre». Emma Bonino non molla mai, per carattere, però è realista.
Del resto, basta vedere com’è andata nell’assemblea dei deputati del Pd, ieri. Una cronaca che merita di restare agli atti. Bersani ha usato una formula un po’ contorta per dire che al Colle potrebbe andarci una donna. Tra i requisiti del candidato - ha detto il segretario - ci sono «il profilo internazionale, la parità di genere...». E qui, Beppe Fioroni (fan di Franco Marini) ha osservato prontamente se si stava per caso parlando di un ermafrodito, essendo la presidenza della Repubblica una carica monocratica... Molti hanno riso, il toscano Antonello Giacomelli l’ha buttata in caciara. «Sì, si è allentata la tensione - giustifica Pippo Civati - comunque abbiamo pensato tutti che nella rosa dei nomi per il Colle proporremo delle donne e che una donna avrà buone chance».
I fatti si fermano qui. I nomi di donna circolano. Innanzitutto è nato il comitato “Bonino presidente”, fondato tra gli altri dal costituzionalista Alessandro Pace, da Renzo Arbore, Anna Fendi. Perché Bonino - leader radicale, una donna che ha fatto la storia della modernità e dei diritti civili in Italia, europeista, ex commissario Ue alle emergenze umanitarie, ex vice presidente del Senato eletta nelle file del Pd - è la più gettonata. Già lo fu nel 1999, però allora era popolare nella società e ignorata dalle forze politiche, tanto che le Camere riunite le regalarono una manciata di voti. Questa volta qualcosa si muove. Riccardo Nencini, il leader del Psi, che fa da ufficiale di collegamento con Bersani, l’ha incontrata ieri nella sede dei Radicali per dire che è lei il candidato per cui si batterà. Si parla pure del ministro dell’Interno, ex prefetto, Annamaria Cancellieri. Paola Severino, il Guardasigilli del governo Monti, avvocato, è della partita. I Democratici segnalano una di loro, Anna Finocchiaro, ex presidente dei senatori, una salda cultura giuridica, stimata da molti nel Pdl e nella Lega. Non è sfuggito che, proprio ieri, Bobo Maroni, il governatore lumbàrd, abbia parlato dell’idea di una donna al Colle. È sembrato l’endorsement per Finocchiaro. Il tam-tam sulla candidata donna rilancia pure Laura Boldrini, la neo eletta presidente della Camera, ex rappresentante Onu per i Rifugiati, amatissima a sinistra. In ribasso le quotazioni di Rosy Bindi, la presidente del Pd, ritenuta troppo “divisiva”.
L’altra caratteristica del candidato per il Quirinale dovrà essere infatti la “condivisione” tra le forze politiche. Per dirla con il vice segretario Pd, Enrico Letta, alla fine dell’incontro tra Bersani e Berlusconi, il prossimo presidente della Repubblica dovrà essere «di unità nazionale». Una donna che unisce? Qui c’è un malinteso da dissipare, e riguarda la “quota rosa”. Spiega sempre Bonino che l’universalismo della democrazia non prevede quote, né etniche né di genere. Ma una democrazia che funziona, richiede cambiamenti, svolte per essere all’altezza delle sfide. Forse che Obama è andato alla Casa Bianca perché afroamericano? Per i suoi sostenitori bipartisan, Bonino è la figura di cambiamento: laica, con una spiccata autonomia politica, una cultura istituzionale salda (il suo motto è quello di Jean Monnet “Gli uomini passano, le istituzioni restano”). «Rappresenterà con dignità l’unità nazionale», scrive in un appello Pace. Una persona «valorosa come Pertini», dice Arbore, se il patrimonio di esperienza politica, idealità, battaglie - inclusa la disobbedienza civile che l’ha portata in carcere - valgono qualcosa. Per i suoi detrattori invece non è nuova, ha attraversato I e II Repubblica, ha 65 anni. Tenuto conto della media di 80 anni dei capi di Stato italiani, è però una giovincella. Soprattutto, ha appoggiato Forza Italia nel 1994: è l’accusa. Bonino ne ha reso conto, e per il Pdl è la carta in più.

il Fatto 10.4.13
Madonna Bonino
di Marco Travaglio


Quando ho scritto “Si fa presto a dire Bonino”, la sapevo apprezzata da molti italiani per le caratteristiche che illustravo nelle prime righe: donna, competente, onesta, impegnata per i diritti civili, umani e politici in tutto il mondo. Non la sospettavo, però, circondata di persone adoranti che la guardano con gli occhi che dovevano avere i pastorelli di Fatima davanti alla Madonna. A questi innamorati che non sentono ragioni, anzi preferiscono non conoscere o non ricordare le zone d'ombra (solo politiche, lo ripeto) della sua lunghissima carriera politica, non so che dire: al cuore non si comanda. Rispondo invece alle cortesi obiezioni del segretario radicale Mario Staderini, il quale – diversamente da me – la ritiene il presidente della Repubblica ideale. E, per nobilitarla e dipingerla come antropoligicamente estranea al berlusconismo, cita alcuni suoi imbarazzanti avversari (Ferrara, Gasparri, Libero). Potrei rispondere che invece Mara Carfagna la vuole al Quirinale, ma preferisco concentrarmi sulla biografia della Bonino.
Chi auspica un Presidente estraneo alla casta, tipo Zagrebelsky, Settis, Gabanelli, Caselli, Guariniello, Strada e altri, non può certo sostenere la Bonino, 8 volte parlamentare italiana e 3 volte europea. I suoi amici la raffigurano come un'outsider estranea all'establishment. Che però non è d'accordo: altrimenti la Bonino non sarebbe stata invitata a una riunione del gruppo Bilderberg, o almeno non ci sarebbe andata. Sulla sua vicinanza, “fra alti e bassi”, al Polo berlusconiano dal 1994 (quando fu eletta con Forza Italia fino al '96, senza dire una parola contro le prime violenze alla Giustizia e alla Costituzione) al 2006, ci sono tonnellate di articoli di giornale, lanci di agenzia, esternazioni, vertici, incontri, tavoli, inseguimenti, corteggiamenti, ammuine. Il tutto mentre il Caimano ne combinava di tutti i colori, nel silenzio-assenso della Bonino (che ancora nel 2004 veniva proposta da Pannella per un posto di ministro; e nel 2005 dichiarava: “Con Berlusconi abbiamo iniziato un lavoro molto serio... apprezziamo ciò che sta facendo come premier, ma la posizione degli alleati è nota”: insomma cercava disperatamente l'alleanza con lui, che alla fine la scaricò per non inimicarsi “gli alleati” e il Vaticano). Poi la Emma passò armi e bagagli col centrosinistra e cambiò musica. Un po' tardi, a mio modesto avviso. Ma neppure in seguito, sulle questioni cruciali del berlusconismo (leggi vergogna, rapporti con la mafia, corruzioni, attacchi ai magistrati e alla Costituzione, conflitti d'interessi, editti bulgari e postbulgari), risulta un solo monosillabo della Bonino. Forse perchè, pur con motivi molto diversi, sulla giustizia B&B hanno sempre convenuto: separazione delle carriere, abolizione dell'azione penale obbligatoria (altro che difesa della “Costituzione più bella del mondo”, caro Staderini), per non parlare dell'idea intimidatoria e pericolosa della responsabilità civile dei magistrati che non esiste in nessun'altra democrazia.
La corrispondenza di amorosi sensi con B. si estende al No radicale all'arresto di Cosentino perchè “siamo contro l'immunità parlamentare, però esiste”. Al fastidio per i sindacati, definiti in blocco “barbari, oscurantisti e retrogradi” (Ansa, 22-1-2000). E alla lettura dell'inchiesta Mani Pulite come operazione politica filocomunista: per la Bonino le tangenti di Craxi furono solo “errori” e occorre “una rivisitazione seria di cosa è successo dal '90 in poi: la mia analisi è che indubbiamente, soprattutto nel '92, si è cercato di risolvere alcuni problemi politici per vie giudiziarie, un po' orientate perchè poi se n'è salvato uno solo di partito” (Ansa, 19.11.99). Per non parlare dello scandalo delle frequenze negate per dieci anni a Europa7 per non disturbare Rete4 che le occupava abusivamente. Il 1° aprile 2007, ministro delle Politiche europee del governo Prodi-2, la Bonino porta in Consiglio dei ministri tutte le sentenze della Corte di giustizia europea per darne finalmente attuazione. Tutte, tranne una: quella che dà ragione a Europa7 e torto al gruppo B. Una cronista le chiede il perchè, e lei risponde che non c'è alcuna urgenza (in effetti Europa7 attende le frequenze negate solo dal 1999, quando vinse la concessione e Rete4 la perse).
C'è poi il bilancio di Commissario europeo dal 1994 al '99 su nomina di B., quando, insieme a battaglie sacrosante, la Bonino sponsorizza i cibi Ogm senza etichettatura. E soprattutto sostiene l'insensata sospensione degli aiuti all'Afghanistan, dopo una sfortunata missione a Kabul in cui è stata fermata dalla polizia religiosa perchè i suoi collaboratori fotografano e filmano il volto delle donne, in barba alla legge islamica. Durante la guerra in Afghanistan - da lei appoggiata come quelle nell'ex Jugoslavia e in Iraq (“Io credo che non ci fosse alternativa per sconvolgere la rete terroristica: se mandiamo il messaggio che dopo le torri di New York possono bombardare, senza colpo ferire, anche il Colosseo e la Torre Eiffel, non ci dà sicurezza”) - la Bonino si oppone alla sospensione dei bombardamenti proposta dall'Ulivo per aprire un corridoio umanitario agli aiuti ai profughi (“servirebbe solo ai talebani per riorganizzarsi”, Ansa 2-11-2001).
NEL 2007, poi, durante il sequestro Mastrogiacomo, non trova di meglio che prendersela con Gino Strada, accusandolo di trescare con i talebani col suo “atteggiamento ambiguo, tra l'umanitario e il politico, che si può prestare a qualunque illazione”, perchè “scientemente o incoscientemente - che sarebbe ancora peggio - finisce per giocare un ruolo che è sempre un ruolo ambiguo, tra torturati e torturatori. Quando uno si mette a praticare una linea così ambigua, così poco limpida, si presta a qualunque gioco altrui. Nell'illusione di tirare lui le fila, finisce che il burattinaio non è lui” (Ansa, 9.4.2007). A proposito di ambiguità fra torturati e torturatori, ho cercato disperatamente nell'archivio Ansa una parola della Bonino su Abu Ghraib e su Guantanamo. Risultato: non pervenuta.

«Nichi Vendola ancora non ha sciolto la riserva»
il Fatto 10.4.13
Poltrone che passione (in barba alla Costituzione)
In 36 non decidono ancora tra Regione e Parlamento
Sono 177 quelli che sommano potere e a volte stipendi
di Caterina Perniconi e Carlo Tecce


La misura del potere è un rumore. Quello che si leva a Montecitorio, ben distribuito tra destra e sinistra, quando la deputata Maria Marzana (M5S) denuncia: “I doppi incarichi e i doppi stipendi sono eticamente inaccettabili”. Non solo. Vanno contro la Costituzione, articolo 122, che vieta di sedere nei consigli regionali e in Parlamento. E vanno contro un decreto legge – convertito nel settembre del 2011 – che stabilisce che non si possono ricoprire due cariche elettive, e dunque non va bene nemmeno la fascia tricolore da sindaco né la livrea da presidente provinciale.
Ci sono state proteste bipartisan per contestare la correttezza delle sue parole ma resta il problema per 177 parlamentari, che non si decidono – e quindi eleggeranno il nuovo Capo dello Stato – anche perché la giunta per le elezioni, in assenza di un governo, non si può nominare. In realtà, rischiando una mossa spericolata, il Senato ha prorogato la propria Giunta provvisoria. Ma c’è chi al doppio incarico ha già rinunciato, dimostrando che l’assenza della giunta non è di per sé un ostacolo. É obbligatorio rinunciare all’indennità in regione ma non ai gettoni per le Commissioni, né per le province né per i comuni. Soltanto ieri il governatore Roberto Cota ha deciso di restare in Piemonte e mollare Roma, mentre Nichi Vendola ancora non ha sciolto la riserva. La Puglia potrebbe riunire il consiglio regionale nella capitale, tanto sono in undici, e trasversalmente rappresentati, a covare il dubbio: meglio una legislatura cominciata da qualche settimana e un po’ precaria o il rifugio sul territorio che già ha consumato qualche anno?
OLTRE al governatore, ci sono Rocco Palese, Massimo Cassano, Pietro Iurlaro, Roberto Marti, Gianfranco Chiarelli e Lucio Tarquinio (tutti Pdl) ; Antonio Decaro e Michele Pelillo (Pd) ; Dario Stefano e Antonio Matarrelli (Sel). Anche la Campania potrebbe trasferirsi a Roma: c’è il vicepresidente Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, Udc; c’è il capogruppo Umberto Del Basso De Caro (Pd) ; c’è l’assessore all’Urbanistica, Marcello Tagliatella (Pdl) e due consiglieri, sempre berlusconiani, Eva Longo e Domenico De Siano. Quest’ultimo merita una citazione particolare in quel gruppetto di sette che, in una settimana, riesce a presenziare quattro aule di quattro organismi istituzionali o amministrativi. De Siano è stato spedito al Senato, ma è anche consigliere regionale, provinciale e comunale a Lacco Ameno, Isola di Ischia. Si sdoppiano anche in Calabria, Sicilia, Marche, Abruzzo, Toscana, Veneto, Emilia-Romagna.
In 36 non rispettano la Costituzione e approfittano dell’incertezza parlamentare: è vero che un lodo di Roberto Calderoli ha riattivato la Giunta di Palazzo Madama, ma non quella di Montecitorio e così non comincia la procedura che comunque è molto buffa. La Giunta individua il caso da risolvere, si prende trenta giorni per fare un’istruttoria e concede altrettanti giorni all’interessato per scegliere. Ma siccome la legislatura veleggia in acque agitate, per adesso, in tanti preferiscono non scegliere. Perché il pericolo è in agguato: se uno indica Roma e poi si va a rivotare, che succede?

il Fatto 10.4.13
Giuristi europei contro la grazia alla spia di Abu Omar


LA GRAZIA del Presidente della Repubblica è un vulnus allo stato di diritto”. È quanto afferma la Commissione internazionale di giuristi (International Commission of Jurists, Icj) commentando la grazia concessa dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano al colonnello Joseph Romano, condannato dalla Corte d’Appello di Milano in relazione al caso Abu Omar. “Questo atto di grazia costituisce uno sfregio allo stato di diritto e alla lotta contro l’impunità per le 'renditions' e le detenzioni segrete della Cia, un sistema implicante l’uso della tortura, sparizioni forzate, detenzioni segrete e arbitrarie e altri gravi crimini ai sensi del diritto internazionale”, spiega Massimo Frigo, Legal Adviser del Programma Europa dell’Icj. L’Italia “è stata il solo Paese dove sia stato condotto un procedimento penale efficace contro agenti italiani e della Cia, i quali si sono resi responsabili di crimini commessi sotto l’egida del programma 'rendition' della Cia. In un solo gesto questo atto di grazia - denuncia Frigo - cancella anni di sforzi implacabili di procuratori della Repubblica, investigatori e avvocati volti ad assicurare la responsabilità giudiziaria per questi crimini di diritto internazionale”.

il Fatto 10.4.13
Caso Abu Omar
La strana grazia di Napolitano
di Bruno Tinti


Il disprezzo per il Diritto, la Costituzione e le leggi sembrava una prerogativa di B&C. Ma non è vero. Il governo Monti e il Presidente della Repubblica hanno adottato provvedimenti impensabili: il decreto Ilva, la vicenda dei marò, il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, la grazia a Sallusti e alla fine la grazia all’ufficiale Usa Joseph Romano hanno dimostrato che anche questi statisti sui generis hanno una concezione proprietaria dello Stato: quando credono che una presunta ragion di Stato lo richiede, la violenza al Diritto non è di ostacolo.
Corte Costituzionale, sentenza 200/2006: la grazia risponde a finalità umanitarie, atto di clemenza individuale che incide sull’esecuzione di una pena validamente inflitta da un giudice con le garanzie formali e sostanziali del processo penale. La sua funzione è attuare i valori costituzionali, consacrati all’art. 27 della Costituzione, cui devono ispirarsi tutte le pene: senso di umanità e rieducazione.
POI È ARRIVATO Abu Omar, cui l’Italia aveva concesso asilo politico, sequestrato dalla Cia con la complicità dei servizi italiani. Gli autori di questo “crimine contro l’umanità” (così definito da Parlamento Europeo, Consiglio d’Europa, Cedu, Nazioni Unite, Amnesty International, Human Rights Watch), sono condannati dopo i consueti 3 gradi di giudizio. E Napolitano concede la grazia a Joseph Romano, uno degli americani sequestratori, l’unico militare, gli altri 22 essendo civili (agenti Cia).
Il fatto è che motivare la grazia scrivendo: Obama me lo ha chiesto, gli Usa sono gli Usa e noi non siamo niente, è dura. A parte tutto, contrasta con la sentenza 200/2006. E dunque i consiglieri giuridici del Presidente si arrampicano sugli specchi e partoriscono motivazioni per giustificare l’iniziativa. Fallendo miseramente ma, dal loro punto di vista, non tanto: chi se li va a studiare codici, pandette e giurisprudenza? Qualche frase ad effetto e la facciamo franca. É da vedersi: “Il Capo dello Stato ha tenuto conto della mutata situazione normativa introdotta dal Dpr 11 marzo 2013, n. 27” (20 giorni prima della grazia) sicché la rinuncia da parte del Ministro della Giustizia alla giurisdizione italiana sui reati commessi da militari Nato è oggi consentita in ogni stato e grado del giudizio (comunicato stampa della Presidenza della Repubblica). Bisogna sapere che il Ministro della Giustizia poteva in effetti, se la legge lo avesse consentito, rinunciare a processare Romano (militare Usa; capito perché solo lui è stato graziato? Per quanti garbugli si fossero inventati i civili Cia restavano fuori). Ma la richiesta doveva pervenire prima che fosse notificato il decreto di citazione per il dibattimento di primo grado; così diceva la legge vigente all’epoca del processo.
Gli Usa la presentarono fuori tempo massimo. E inutilmente Alfano, Ministro della Giustizia all’epoca dei fatti, scrisse al Tribunale e alla Corte d’Appello auspicando che la richiesta americana fosse accolta; i giudici gli risposero che legge non lo consentiva. Sicché appoggiarsi a una legge del 2013 (ma le leggi ad personam non erano una vergogna?) per giustificare un provvedimento che riguarda processi celebrati tra il 2007 e il 2012 è privo di senso.
In ogni modo la rinuncia alla giurisdizione non avrebbe potuto comunque essere effettuata. Secondo la Convenzione Nato (L. 1955/1335) le autorità italiane hanno giurisdizione esclusiva per i reati punibili dalle leggi dello Stato italiano ma non da quelle Usa. Che il rapimento di Abu Omar non fosse considerato reato in Usa fu ammesso esplicitamente nel 2005 dal Segretario di Stato Condoleeza Rice nel corso di un suo viaggio in Europa; sicché Romano non sarebbe mai stato giudicato negli Usa. Che è il motivo per il quale la Cassazione rigettò l’istanza di rinuncia alla giurisdizione italiana. E comunque le autorità Usa avrebbero avuto giurisdizione solo per i reati che minacciavano unicamente la sicurezza Usa o la persona di un militare o un civile americano; ovvero per i reati risultanti da qualsiasi atto o negligenza compiuti nell’esecuzione del servizio.
NEL CASO di ogni altro reato, la giurisdizione sarebbe spettata a titolo prioritario all’Italia. Ed è evidente che il rapimento di Abu Omar non metteva in pericolo la sicurezza degli Usa, semmai mirava a garantirla. E che non può considerarsi “servizio” riconosciuto dalla Convenzione Nato la consumazione di un crimine contro l’umanità.
Per convincersene basta ricordare il caso del Cermis, quando un aereo Usa, nel corso di un pattugliamento (“servizio”) tranciò il cavo di una teleferica con conseguente morte di molte persone: in quel caso i militari non furono processati in Italia per omicidio colposo ma in Usa. Qualificare il sequestro di persona come “servizio” equivarrebbe a riconoscere tale qualifica a una rapina commessa dal militare straniero per procurarsi i soldi necessari per proseguire un’indagine: assurdo.
Napolitano scrive anche che “la decisione è ispirata allo stesso principio che l’Italia, sul piano della giurisdizione, cerca di far valere per i due marò in India”. Quale sia il nesso con persone che non agivano in qualità di militari Nato, organizzazione cui l’India non aderisce, è incomprensibile. Presidente, ancora una volta: non sta bene fare queste cose.

La Stampa 10.4.13
La famiglia di fatto cancella l’assegno dell’ex
Sentenza a Bologna: la nuova convivenza più forte del vecchio legame
In Italia ci sono all’incirca 2 milioni di famiglie di fatto
di Franco Giubilei


L’ex moglie che conviva stabilmente con un’altra persona perde il diritto agli alimenti. La sentenza della Corte d’Appello di Bologna, intervenuta sul caso di una coppia divorziata, è un altro passo decisivo verso l’equiparazione della famiglia di fatto a quella di diritto: «Questa decisione stabilisce la cessazione del diritto all’assegno di mantenimento nel momento in cui è riconosciuta l’esistenza di una famiglia di fatto», spiega Guglielmo Tocci, il legale dell’ex marito.
E’ una storia come tante: un matrimonio senza figli durato alcuni anni che entra in crisi, poi la separazione e il divorzio, finché lei non incontra un altro e va a conviverci. A questo punto l’ex marito chiede di non pagare più gli alimenti,, e il tribunale gli dà ragione una prima volta. La donna fa ricorso in appello e il giudice di secondo grado ribadisce il senso della prima decisione: il nuovo legame, cioè la famiglia di fatto cui ha dato vita la ex moglie, «altera o rescinde la relazione con il tenore e il modello di vita caratterizzante la pregressa convivenza matrimoniale», come recita la sentenza. Che aggiunge: «Il nodo fondamentale della controversia, dalla cui soluzione dipende l’immediato esito o lo sviluppo del giudizio, è quello della compatibilità del diritto all’assegno divorzile con l’instaurazione di una convivenza “more uxorio” da parte del potenziale avente diritto. Che nella fattispecie concreta tale convivenza esista è ormai pacificamente acquisito».
La corte ha anche escluso che l’ex marito dovesse fornire la prova di un miglioramento delle condizioni economiche della donna con la nuova relazione, invocando invece il criterio fatto proprio dalla Cassazione l’11 agosto del 2011, per cui «l’instaurazione di un rapporto stabile e duraturo di convivenza (famiglia di fatto) » cancella «il presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile». La precarietà della nuova situazione va comunque tenuta in conto, aggiunge la sentenza, «ammettendo che il relativo diritto (al mantenimento, ndr) entri in uno stato di quiescenza, potendosene riproporre l’attualità per l’ipotesi di rottura della convivenza tra i familiari di fatto».
Ovviamente soddisfatto l’ex marito, e soddisfatto anche il suo legale, che osserva come l’orientamento giurisprudenziale negli ultimi anni sia decisamente mutato: «La sentenza della corte d’appello, richiamandosi a quella della Cassazione, equipara la famiglia di fatto a quella di diritto, mentre il legislatore ancora non si è pronunciato sulla materia e la discussione è ancora aperta in Parlamento». Che la giurisprudenza corra più veloce delle due camere viene sottolineato dal presidente degli Avvocati matrimonialisti italiani, Gian Ettore Gassani: «La famiglia di fatto viene sempre più legittimata, a dispetto dell’imperdonabile inerzia del legislatore italiano, sordo ai cambiamenti sociali e di costume del Paese». Sono circa due milioni le famiglie di fatto in Italia, «non è ammissibile che non si sia ancora legiferato».

Corriere 10.4.13
La prima caduta nella busta degli statali
di Valentina Santarpia


ROMA - Per la prima volta dopo 31 anni di crescita continua nel 2011 e nel 2012 sono calate le retribuzioni dei dipendenti pubblici ed è scesa la spesa per gli stipendi nella Pubblica amministrazione: lo annuncia l'Aran, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, anticipando un'ulteriore diminuzione per il 2013. Quando si parla di compensi statali si affronta un capitolo consistente della spesa pubblica: 170 miliardi, pari a poco meno dell'11% del Pil. Per cui anche una riduzione dell'1,6%, come quella registrata per la prima volta nel 2011, significa esibire una spending review di svariati milioni. E le stime disponibili per il 2012 confermano un ulteriore ribasso (all'incirca dell'1%) con uscite complessive ferme a 165,36 miliardi. Un dato che arriva dopo anni e anni, soprattutto il decennio 80 - 90, in cui le retribuzioni degli statali si sono moltiplicate di 4-5 volte, salendo anche più dell'inflazione. In soldoni, un dipendente pubblico percepiva in media circa 34 mila e 500 euro all'anno lordi nel 2011 (28.800 di base per contratto e i restanti 7.000 accessori), cifra che è scesa a 34.137 l'anno dopo, con un calo effettivo delle retribuzioni medie dello 0,8%.
Ma come si è arrivati all'inversione di tendenza? Non solo con il blocco delle retribuzioni, ma anche «grazie alle misure di contenimento varate negli ultimi anni, in particolare il blocco dei contratti e i vincoli al turnover che stabiliscono che non si può assumere più del 20% del personale uscito e della spesa per questo personale», spiega il presidente dell'Aran, Sergio Gasparrini. Tant'è vero che il numero di occupati nelle amministrazioni pubbliche è passato da circa 3,6 milioni (nel 2007) a meno di 3,4 milioni nel 2012, con un calo di poco più del 6%. In particolare, ci sono «265 mila posti di lavoro in meno negli ospedali, nelle scuole materne e in generale nel sistema dei servizi ai cittadini», contestano i sindacati Fp-Cgil, Fp-Cisl, Uil-Fpl e Uil-Pa, per i quali la reale erosione del potere d'acquisto degli statali è «ben più gravosa, al 7,2%».

Corriere 10.4.13
La grande alleanza europea anti evasori
Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna: dati in comune per trovare chi non paga
di Roberto Bagnoli


ROMA — Per contrastare l'evasione fiscale che ogni anno costa all'Europa oltre mille miliardi di euro, i cinque Paesi più importanti di eurolandia (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna) stanno lavorando a un progetto pilota per stanare i furbi rafforzando lo scambio di informazioni. Se ne parlava nei giorni scorsi quando il portavoce della Commissione Olivier Bailly aveva invitato gli stati membri ad affrontare la questione soprattutto dopo la scandalo-inchiesta sui paradisi fiscali fatta da The international consortium of investigative journalists. Ora è ufficiale: i cinque ministri dell'Economia dei rispettivi Paesi hanno inviato una lettera alla Commissione per illustrare il progetto.
Se avrà successo potrà costituire una boccata d'ossigeno ai malandati conti pubblici europei. Oggi, tra l'altro, il Consiglio dei ministri italiano affronterà la definizione del Def (Documento di economia e finanza) che potrebbe certificare un debito pubblico al 130% dopo l'operazione sblocca debiti, mentre il sottosegretario all'Economia Gianfranco Polillo ammonisce che un'eventuale abolizione della Tares costerebbe 1 miliardo di euro di minori entrate.
Le proposte dei cinque Paesi sul fisco si basano sulla «trasparenza» in linea con il modello applicato nel recente negoziato con gli Usa dove prevale l' impegno a combattere l'evasione cercando un impatto minimo sull'economia. L'accordo tra le 5 nazioni big e la lettera a Bruxelles dimostrano la volontà di accelerare dopo che la Commissione — nel dicembre scorso — aveva invitato tutti gli Stati membri a raggiungere intese comuni per stilare una lista dei paradisi fiscali e rafforzare quelle sulla doppia imposizione tra i Paesi per evitare scappatoie giuridiche che possano favorire l'evasione. Il commissario alla fiscalità Algirdas Semeta ha accolto con grande favore l'iniziativa dei big five i quali nella loro missiva hanno invitato «gli altri Stati membri ad unirsi in modo che la Ue diventi leader nel promuovere un sistema globale di scambio automatico di informazioni». Un dossier del Tax research London ha dimostrato che l'evasione a tre cifre non è una anomalia solo italiana. Secondo l'istituto di ricerca inglese (che ha realizzato lo studio per il gruppo della Sinistra al Parlamento europeo) l'Italia evade 180 miliardi di euro all'anno, seguita dalla Germania con 158, dalla Francia con 120 miliardi, dalla Gran Bretagna con 74 e dalla Spagna con 72. Se si aggiungono gli altri 22 Paesi si fa presto a raggiungere la somma di mille miliardi di euro denunciati giovedì scorso dalla Commissione.
La scoperta di questa evasione collettiva ha colpito soprattutto la Germania che pensava di esserne fuori. E ha cercato di rimediare cercando per prima un accordo con la Svizzera per tassare al 25% i capitali esportati illegalmente ma senza trovare consenso in Parlamento. Però qualcosa si è mosso: la Corte di giustizia ha stabilito che per le frodi fiscali di oltre 1 milione di euro, scatta il penale, quindi la prigione. Così non è in Italia dove il reato di evasione è punito con sanzioni amministrative, va nel penale solo quando ci sono aggravanti come la falsificazione di documenti, la bancarotta, associazione a delinquere, eccetera.

Corriere 10.4.13
2012, stregoni e adulteri al patibolo
Il rapporto di Amnesty sulla pena di morte: in testa Cina e Iran
di Cecilia Zecchinelli


Traffico di droga, furto aggravato e frodi. E ancora: blasfemia, apostasia, adulterio, sodomia, stupro, perfino stregoneria. Non sono tanto o solo i numeri a fare impressione nel rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo nel 2012. Le cifre ufficiali — 682 condanne eseguite contro le 680 nel 2011 — sono inevitabilmente riduttive. Nella sola Repubblica popolare cinese, che mantiene il record planetario, sono state infatti ancora una volta «migliaia» le persone messe a morte, un numero superiore a quello delle esecuzioni nel resto del mondo. Ma Pechino mantiene segreti gli elenchi. E lo stesso avviene in Nord Corea, Vietnam, Malaysia, mentre altrove i dati sono incompleti: un conto globale affidabile è davvero impossibile.
Possibili sono invece — per gli altri Paesi che ancora non fanno parte dei 111 firmatari della moratoria Onu sulla pena di morte e neppure dei 63 che nel 2012 non l'hanno applicata — alcune considerazioni. A partire dai due elenchi qui in alto: né il primo gruppo (traffico di droga...), né il secondo (blasfemia...) fanno parte dei «reati più gravi» per cui è prevista la condanna a morte dall'articolo 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici dell'Onu, fa notare Amnesty (anche se un protocollo aggiuntivo ha poi vietato la pena capitale salvo in tempo di guerra). E se i reati «non gravi» del primo elenco sono stati causa di condanne eseguite in vari Paesi a partire dalla Cina, il secondo riguarda i Paesi musulmani dove la sharia domina nell'interpretazione più impermeabile alla modernità e al diritto internazionale. E dove buona parte delle persone uccise nel 2012 non erano colpevoli di omicidio premeditato ma di «ostilità verso Dio», sodomia, adulterio, stregoneria e traffico di stupefacenti, soprattutto nella Repubblica islamica e nel Regno saudita.
Non è un caso quindi che in Medio Oriente nel 2012 siano state ben 557 le esecuzioni, concentrate in soli sei Stati (sui 19 dell'area) e in particolare in Iran, Arabia Saudita e Yemen, nonché in Iraq dove le condanne eseguite sono quasi raddoppiate a 129, molte delle quali «per terrorismo». Proprio l'ex terra di Saddam è balzata al terzo posto nella classifica di Amnesty per numero di esecuzioni, subito dopo Cina e Iran, e prima di Arabia Saudita, Stati Uniti, Yemen, Sudan, Afghanistan, Gambia e Giappone. Ancora in Medio Oriente, Amnesty dichiara l'impossibilità di accertare se ci siano state esecuzioni in Siria e in Egitto mentre segnala che in Tunisia 125 pene capitali sono state commutate (e nessuna quindi eseguita). In un altro Paese musulmano, il Pakistan, si è avuta invece la prima esecuzione dopo quattro anni, per «blasfemia». E altri due Paesi hanno interrotto una moratoria de facto: il Gambia, dopo quasi tre decenni, e l'India, dopo otto anni. Nel Subcontinente in novembre è stato impiccato il pachistano Ajmal Kasab, unico sopravvissuto tra i terroristi che nel 2008 a Bombay uccisero oltre 150 persone. Un caso che sembrerebbe indicare, in questa fase di timori italiani per i marò processati a Delhi, che l'India intenderebbe davvero applicare la pena capitale solo per i «reati più gravi».
Infine l'attenzione va necessariamente agli Stati Uniti, con le sue 43 esecuzioni e il suo quinto posto mondiale. Unico Paese delle Americhe nella lista, gli Usa dividono con la Bielorussia (unico Stato in Europa e Asia Centrale) il dubbio onore di essere i soli due membri tra i 56 dell'Osce ad aver mandato a morte dei condannati nel 2012. Un piccolo segnale positivo, sostiene Amnesty, viene comunque dal fatto che le condanne siano state eseguite in nove Stati rispetto ai 13 del 2011, e che in aprile il Connecticut sia diventato il 17° Stato abolizionista della federazione. Ma il numero dei mandati a morte è rimasto invariato dal 2011. E ancora ieri notte era attesa in Texas l'esecuzione di un omicida che per i suoi avvocati sarebbe malato di mente. Salvo colpi di scena comparirà nel prossimo rapporto di Amnesty, insieme ai molti condannati che si prevede lo seguiranno nello stesso Stato americano: almeno dieci entro luglio.

Corriere 10.4.13
Amnesty sulla pena di morte, la lista nera dalla Cina agli Usa


Capita troppo raramente di essere orgogliosi dell'Europa, ma il rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo ci fornisce una di queste occasioni. Nell'Unione Europea non può entrare chi ammette il principio della pena capitale, i Paesi della Ue sono all'avanguardia (anche se con diversi entusiasmi) nella lotta abolizionista e l'ombra del capestro può diventare motivo di contrasto giuridico con terzi in materia, per esempio, di estradizioni (o di processi, come si è visto, peraltro in maniera confusa, nel caso dell'India e dei nostri marò).
Proprio perché siamo convintamente europei e convintamente avversari della pena di morte per ragioni etiche prima ancora che religiose, il rapporto annuale di Amnesty costituisce per noi un termometro importante e un motivo di riflessione. Una riflessione in chiaroscuro, questa volta. Perché se è vero che la tendenza globale verso l'abolizione della pena di morte è proseguita (ormai nel mondo soltanto un Paese su dieci la applica), è anche vero che nel 2012 sono riprese le esecuzioni in Stati importanti come il Giappone, l'India (appunto), il Pakistan. Ed è anche vero che Amnesty stima a diverse migliaia le esecuzioni in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono segreto di Stato. Così che, nella classifica nera degli utenti del boia, troviamo nell'ordine la Cina, l'Iran, l'Iraq, l'Arabia Saudita, gli Stati Uniti e lo Yemen.
Fa sempre male, vedere gli Stati Uniti in simile compagnia (anche se in aprile il Connecticut è diventato il diciassettesimo stato abolizionista). E fa ancor più male constatare che là dove resiste (soprattutto ma non esclusivamente nel mondo islamico) la pena di morte continua a essere applicata per «reati» come l'apostasia, la blasfemia, l'adulterio. Il messaggio lanciato dal rapporto di Amnesty è chiaro: la battaglia è ancora lungi dall'essere vinta e a sostegno della moratoria votata all'Onu (con lodevole impegno italiano) servono più energie e maggiore compattezza, anche europee. La sacralità etica e religiosa della vita può vincere, se nessuno si arrenderà.
Franco Venturini

Corriere 10.4.13
Al via la Biennale Democrazia con la lezione di Laura Boldrini


Prende il via oggi, a Torino, la terza edizione della Biennale Democrazia, una cinque giorni nella tradizione del laboratorio politico che si richiama al cattolicesimo sociale, a Gobetti, a Gramsci, agli azionisti, al movimento sindacale. Coinvolgerà, in diversi luoghi della città, teatri, circoli, istituti, musei, cinema, università, caffè. Il titolo scelto per quest'anno, «Utopico. Possibile?», allude alle speranze e alle sfide collegate all'attuale periodo storico. L'apertura ufficiale è alle 18 al Teatro Regio, con la lezione inaugurale di Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati. Seguirà alle 21.30, sempre al Teatro Regio, un omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della sua scomparsa: uno spettacolo di musica, parole e immagini. Domani la giornata sarà aperta dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, al Teatro Carignano, con un intervento dal titolo: «Pensare può alleviare l'infelicità della vita».

l’Unità 10.4.13
Cittadinanza universale
«Biennale Democrazia»: l’intervento di Sbarberi
Anticipiamo la lezione del filosofo in programma sabato nell’ambito della manifestazione torinese
di Franco Sbarberi


SE DURANTE LE GARE DI OLIMPIA LE OSTILITÀ TRA LE CITTÀ GRECHE VENIVANO SOSPESE, CIÒ NON SIGNIFICA CHE LA GUERRA NON OCCUPASSE PIÙ LA MENTE DELL’UOMO. E anche in seguito gli scrittori politici di origine realista e idealista hanno continuato spesso a ripetere con Eraclito che la guerra «di tutte le cose è madre». Nella prima metà del Novecento Carl Schmitt ne ha tratto conseguenze estreme, ponendo al centro della politica il dualismo tra amico e nemico. Con il termine nemico si deve intendere non l’avversario o il concorrente della tradizione liberaldemocratica, ma un «voi» contrapposto a un «noi»: «qualcosa d’altro e di straniero» che può essere eliminato anche fisicamente perché la conflittualità non ammette mediazioni. In termini più generali: il dualismo amico/ nemico è stato al centro di tutte le politiche totalitarie del ventesimo secolo e continua a ispirare le teologie politiche più recenti (come quelle del fondamentalismo islamico).
Ciò nonostante, in alcuni momenti di crisi acuta delle comunità statali (e quindi del rapporto tra potere politico centrale e cittadini) il mondo antico e la modernità hanno incominciato a nutrire anche ipotesi meno cruente, come l’utopia della cittadinanza universale. Quando l’ordine politico delle città greche fu travolto da Alessandro, i maestri della Stoa invitarono a guardare alla comunità più grande che abbraccia tutte le genti, perché «tutti gli uomini sono parenti», come dirà Zenone Cizico. E nella delicata fase di passaggio dalla repubblica romana al principato, Cicerone ammonisce che l’amore del genitore nei confronti del figlio deve ispirare anche «la reciproca solidarietà degli uomini fra di loro». La frequentazione pubblica, le assemblee, l’ordinamento repubblicano sono visti da Cicerone come la proiezione di questa attitudine innata alla socialità.
Nell’Europa premoderna e moderna l’idea cosmopolitica riaffiora più volte sia nella veste di una res publica cristiana sia in chiave antiassolutistica sia come esigenza di un «idioma comune». Ma viene discussa dai grandi pensatori politici soprattutto 2 il moto rivoluzionario in Francia. Simile alle religioni, che collocano l’uomo oltre lo spazio e il tempo, la rivoluzione dell’Ottantanove aveva fatto astrazione dal cittadino francese per rigenerare l’essere umano in quanto tale e definire i suoi diritti e i suoi doveri fondamentali. Di ciò fu pienamente consapevole Kant. Nel saggio sull’illuminismo il filosofo tedesco aveva stimolato il soggetto a usare liberamente la propria ragione; l’ultimo Kant è un profeta lungimirante che invita i cittadini del mondo a farsi forti dei loro diritti. Il primo Kant voleva rischiarare le menti; il Kant degli anni novanta intende rafforzare la volontà degli individui sulla praticabilità dei fini giusti. Perché il progetto cosmopolitico si realizzi è necessario che le nazioni bandiscano la guerra e che si riconosca agli individui il diritto di visita, ossia la possibilità, come egli scrive, di «entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono all’ultimo rassegnarsi ai incontrarsi e coesistere».
Ciò detto, è stato il Novecento secolo delle ideologie totali e dei conflitti mondiali, ma anche della riflessione ininterrotta sulle potenzialità della democrazia dei moderni a creare le due condizioni oggettive per la «riproducibilità» e per la «simultaneità» del sogno della cittadinanza universale: uno spazio pubblico che giunge ad abbracciare il sistema mondo e la possibilità sempre più sofisticata (utilizzata negli ultimi decenni soprattutto dai movimenti giovanili) di trasmettere e ricevere in tempo reale qualunque messaggio. Il XX secolo è stato importante anche per altre acquisizioni, non soltanto di natura giuridica (come le carte internazionali dei diritti). Dopo la «notte polare» della Grande Guerra, proprio un teorico del disincanto come Max Weber aveva ricordato ai suoi studenti la straordinaria forza mobilitante contenuta nelle utopie: «È’ perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
E nell’aprile del 1964, prendendo la parola dinanzi ai giudici che lo avrebbero condannato all’ergastolo, Nelson Mandela terminò così la sua difesa: «Ho combattuto contro la dominazione bianca e contro la dominazione nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale, per il quale spero di vivere e che spero di raggiungere.
Ma, se sarà necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire». Sia pure tardivamente, i suoi antichi nemici storici, come De Klerk, hanno dovuto prendere atto che l’ideale di una «società democratica e libera» era un obbiettivo per cui vale la pena di continuare a combattere anche in Sudafrica. Alla luce di questi messaggi, vorrei chiedere a Beppe Cambiano: nonostante la replica ininterrotta di guerre e di discriminazioni di varia natura, perché la città cosmopolitica immaginata dagli antichi non è stata uno dei tanti sogni che muoiono all’alba? E a Giacomo Marramao: quali aspetti teorici del cosmopolitismo contemporaneo potrebbero diventare, nel medio periodo, una pratica «possibile» e quali aspetti appaiono invece discutibili e rischiosi? Siamo ormai in grado, come ha scritto fiduciosamente Bauman, di «prevedere l’imprevedibile»?

IL PROGRAMMA
«Utopico. Possibile?» Incontri e dibattiti
«Utopico. Possibile?» è il titolo attorno al quale si sviluppa la terza edizione di Biennale Democrazia, la manifestazione culturale coordinata dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, in programma a Torino da oggi a domenica. Cinque giorni di lezioni, dibattiti, letture di classici, seminari di approfondimento. Alle 18 inaugurazione ufficiale affidata alla Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini.

La Stampa 10.4.13
Se non aspiriamo più al futuro, è il futuro che aspira noi
In anteprima la lezione per Biennale Democrazia: tramontate le utopie dell’800, come tornare a immaginare l’avvenire
Il futuro? L’utopia delle piccole cose
La scienza avanza con tale rapidità che non sappiamo quale sarà lo stato delle nostre conoscenze tra 50 anni
La ricerca scientifica non parte da verità preconcette ma dall’ipotesi che non può essere convalidata se non dopo verifica
Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società
di Marc Augé


Oggi l’inaugurazione con Laura Boldrini La terza edizione di Biennale Democrazia, dedicata al tema «Utopico. Possibile?», si apre oggi a Torino, per proseguire fino a domenica, con la lezione inaugurale che la presidente della Camera Laura Boldrini terrà alle 18 al Teatro Regio. Alle 21,30, sempre al Regio, è in programma L’illogica utopia , un omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della scomparsa, con Luca Barbarossa, Bruno Maria Ferraro, Dalia Gaberscik, Enzo Iacchetti, Andrea Mirò, Michele Serra, Paola Turci e Sandro Luporini; conduce la serata Giovanna Zucconi.
Domani al Carignano Marc Augé, 77 anni, è uno dei più noti antropologi contemporanei, con esperienze etnologiche in Africa e America Latina. Già direttore della prestigiosa Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è il teorico «nonluoghi». Domani (ore 16, Teatro Carignano, introdotto da Cesare Martinetti) terrà una lezione sul tema «Dal futuro utopico al futuro possibile». Ne anticipiamo uno stralcio.

È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare il futuro, proprio mentre i progressi della scienza ci offrono l’accesso alla scoperta dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una tale rapidità che oggi saremmo incapaci di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze fra una cinquantina d’anni, che pure rappresentano, su scala storica, soltanto un’infima particella di tempo. Questo paradosso è tanto più stupefacente in quanto i progressi scientifici si accompagnano a invenzioni e innovazioni tecnologiche che non sono prive di effetti sulla vita sociale degli uomini.
Le tecnologie della comunicazione in teoria aprono a tutti possibilità multiple di relazioni. I mezzi di circolazione in teoria permettono a chiunque di percorrere il mondo. Le reti di distribuzione ampliano le possibilità di consumo. Da un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione dei saggi e dei ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria al progredire della scienza: si comunicano i risultati o lavorano direttamente insieme, come al Cern che, a Ginevra, mostra come potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca fondamentale. [... ]
Quello che inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove andiamo. Le utopie del XIX secolo descrivevano il mondo al quale aspiravano. Le grandi religioni sono state, e a volte restano, animate da un proselitismo che trova la sua origine nel mito fondativo. Il passato, da questo punto di vista, fornisce contemporaneamente un modello, un punto di riferimento e un modo di agire. Oggi il mondo che si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia che è andato più veloce delle società. Noi ci sfiniamo a consumare gli strumenti che quello ci impone. Globalmente abbiamo l’impressione di essere determinati non dal passato ma da un futuro al quale non abbiamo pensato e che vertiginosamente ci aspira. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto delle cose, combinato con le crescenti diseguaglianze economiche, spiega perché, per certi aspetti, l’avvenire ci faccia paura. Se noi non aspiriamo più al futuro, è lui che aspira noi.
Come riprendere piede in ciò che, per certi aspetti, assomiglia a una fuga in avanti? Mi sembra che solo partendo da constatazioni semplici e chiare potremmo immaginare una risposta a questa domanda. [... ] Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. A volte si parla di «scientismo» per condannare le forme di sicurezza e certezza eccessive. Ma la scienza non ha nulla a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa per l’ipotesi che non si può convalidare se non dopo la verifica. Non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di spostare un pochino più in là le frontiere dell’ignoto. La scienza nel suo insieme è il solo ambito dell’attività umana a proposito del quale si può parlare a colpo sicuro di progresso cumulativo. È precisamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzata del sapere, nella misura in cui essa costituisce una scommessa sul futuro sempre rivedibile. Si ritorna sulle ipotesi, se l’esperimento fallisce la verifica. Nei Paesi comunisti, l’accusa di revisionismo era insultante e grave. Al contrario, l’idea che il modello scientifico possa ispirare la politica umana passa per la promozione dell’ipotesi, della verifica e della revisione.
A questo proposito ci si può giustamente chiedere se la conoscenza non sia la finalità ultima dell’esistenza umana e, in modo più generale, se la questione dei fini non debba ordinare l’insieme dei dibattiti politici, economici e sociali. Se il peccato originale ha potuto essere definito come il peccato della conoscenza, del desiderio di conoscere, la convergenza con il mito pagano di Prometeo disegna al contrario un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come finalità ultima della condizione umana si situa, certo, al di là dei limiti spaziali e temporali della vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza degli individui umani passa per l’accesso alla conoscenza, all’istruzione. Dando alla conoscenza il compito di oggetto e fine ultimo dell’umanità, si ricorda semplicemente l’uguale dignità di tutti gli individui. «Ciascun uomo, tutto l’uomo», secondo la formula di Sartre. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per che cosa viviamo? Nel senso di: in vista di che cosa? La finalità della conoscenza con è contraddittoria con quella della felicità ed è all’epoca dei Lumi che il diritto alla felicità è stato formulato con chiarezza.
Ora la felicità non può definirsi per ogni individuo se non con la coscienza simultanea di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di questa coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nella parola «Fraternità» che la Repubblica francese ha aggiunto alle prime due parole del suo motto: Libertà e Uguaglianza. L’individuo, chiunque sia, non può pretendere a una felicità totale più di quanto non possa pretendere alla conoscenza totale. [.... ]
Non tutto dunque è negativo nella constatazione, che siamo obbligati a fare, di un indebolimento o anche di una scomparsa delle proiezioni politiche del XIX secolo perché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite del futuro ci dà forse un’effettiva opportunità di concepire cambiamenti nutriti dell’esperienza storica concreta e della pratica della ricerca fondamentale.
Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a volgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni. Formulare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto, ecco ciò che la scienza ci insegna, ciò che qualunque programma educativo dovrebbe promuovere e ciò a cui qualunque riflessione politica dovrebbe ispirarsi. Ed ecco che contemporaneamente si disegna la sola utopia che valga per i secoli a venire, le cui fondamenta dovrebbero essere gettate o rinforzate con grande urgenza: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione è la sola in grado di frenare, poi di invertire, quella dell’utopia nera che oggi si sta realizzando: una società mondiale diseguale, in maggioranza incolta, illetterata o analfabeta, condannata al consumismo o all’esclusione, esposta a tutte le forme di violenza e al rischio di un suicidio planetario. [Traduzione di Marina Verna]

Repubblica 10.4.13
Il mondo delle idee
Siamo davvero felici solo quando pensiamo
Ecco perché abbiamo smarrito il più grande bene della vita, la riflessione
Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky a Biennale Democrazia, oggi al via
di Gustavo Zagrebelsky


In uno dei primi trattati sulla felicità – il dialogo di Senofonte “Gerone, o della tirannide” – il poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.) tratta dei beni che danno felicità, quando li si possiede, e infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali trovano i loro beni con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, forse perché attutisce le sensazioni. Conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nei grandi progetti, nel superfluo in abbondanza, in cavalli d’ineguagliabile velocità, in armi belle e potenti, in gioielli per le proprie amanti, in dimore magnifiche e molta servitù, nella sopraffazione dei nemici, nell’ammirazione della gente. Ancora: ci sono persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili e con la natura.
Negli elenchi di quelli che consideriamo i beni della vita, non troviamo le idee. Eppure, la grande maestra che è la lingua non ci dice qualcosa di diverso, quando
parla di “poveri o ricchi d’idee”? Poveri e ricchi non solo nel senso della quantità, ma anche dell’accrescimento esistenziale: noi non diremmo poveri o ricchi di ferite, di malanni, di mali, ecc.; ma lo diciamo quando la cosa di cui ci diciamo ricchi o poveri è un bene per noi, qualcosa che ci può, per l’appunto, “arricchire”. Le idee possono dare anch’esse felicità (in qualche momento, anche più di altri beni) alle persone di pensiero, e ciò vale in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto, ma d’idee in quanto idee. I giudizi vengono dopo.
Permettete un riferimento in prima persona. Poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, ho preso l’abitudine di preparare le lezioni scrivendone la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo dove fosse sparita. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena di morte, un tema davvero inesauribile: lo Stato dispensatore di vita e di morte: summum ius o summa iniuria?) e di ragionare insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti.
Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere all’entusiasmo, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita”, e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di altri, che la spendono nell’autorealizzazione in differenti aspetti dell’umana natura. Invece, nella comune percezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi, sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa da cui le “persone del fare” possono facilmente prescindere. Le idee sono per “gli intellettuali”, parola che si pronuncia sempre con una certa dose di disprezzo. Pensare: che cosa noiosa, pesante, pedante, superflua!
Un’idea che, dall’antichità, giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa, tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)? Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità, ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita, secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del Settecento.
Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. Le intenzioni sono evidentemente buone: si tratta di contestare il Pil come unico misuratore del benessere d’una nazione e di affermare che ci sono ricchezze che sfuggono agli orizzonti dell’econometria. È merito di Robert Kennedy il discorso pronunciato all’Università del Kansas, il 18 marzo 1968, in cui si denunciava la riduzione economicista e materialista della felicità e dell’infelicità all’indice Dow-Jones e al prodotto nazionale lordo «che non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza». Nell’elenco dei beni che fanno felici e che rendono umana la vita sono inclusi le competenze, la cultura e altri beni dello spirito, ma invano cercheremo le idee.
Lo stesso, quando i governi s’indirizzano a impiantare su basi scientifiche le loro politiche per la felicità e, a questo scopo, s’impiegano mezzi demoscopici e i sondaggisti si mettono all’opera. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema Le bonheur: une idée neuve.
Per la verità, già Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati in là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc.
Altri indicatori dello sviluppo, che distinguono gli aspetti quantitativi da quelli qualitativi, sono utilizzati, per esempio, nel Genuine Progress Indicator. Di recente, anche il nostro Paese ha iniziato a fare la sua parte in questo genere di calcoli. L’Istat e il Cnel hanno messo a punto il Bes (Benessere equo e sostenibile), un misuratore che il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha definito «una specie di costituzione statistica fondata su dodici indicatori. Non tutto ha un prezzo: il sorriso di chi ci circonda, la solitudine, l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità. A livello globale gli economisti e gli statistici l’hanno capito da tempo ». Si tratta di «veicolare il messaggio che avere carceri umane, sconfiggere il femminicidio, valorizzare il patrimonio culturale, preservare l’ambiente, leggere libri, sostenere la ricerca, restituire credibilità alla politica […]migliora la vita di tutti ». ( La Repubblica, 10 marzo 2013).
Questi parametri e le politiche che ad essi s’ispirano sono cose buone, anche se non si deve trascurare il rischio che diventino armi ideologiche per interessi politici. Ciò che più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte.
Non si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro estraneità
alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante.
Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola opprime.

Corriere 10.4.13
Bombe su Barcellona, responsabilità italiane

risponde Sergio Romano

Nei giorni scorsi si è celebrato a Barcellona il 75° anniversario del bombardamento della città da parte della squadriglia di aerei italiani comandata dal generale Vincenzo Velardi. Bombardamento mirato soprattutto a terrorizzare la vita della popolazione civile di Barcelona e che, protrattosi per 3 giorni dal 16 al 18 marzo 1938, provocò la morte di centinaia di persone innocenti ed inermi. È certamente una ricorrenza di cui poco è stato riportato nella nostra stampa in questi giorni, ma anche poco si sa degli aspetti più propriamente politici della cosa, come ad esempio il fatto che nessuna dichiarazione di guerra era stata fatta da parte dell'Italia. Inoltre, da un amico che vive da anni in Catalogna ho saputo che il Governo della Catalogna sta cercando di riaprire il caso di fronte alla Corte dell'Aja. Soprattutto, mi è giunta informazione che in tempi abbastanza recenti, negli anni 90, il nostro Governo ha ignorato ogni addebito per il colpevole bombardamento alla Cittadinanza. Qual è stata, quindi, la posizione italiana di fronte a questi tragici accadimenti?
Danilo Bassi

Caro Bassi,
Le squadriglie dei Savoia Marchetti bombardarono Barcellona nell'ambito dell'offensiva che i franchisti avevano lanciato in Aragona dopo la conquista di Teruel, all'inizio del marzo 1938. Nei mesi precedenti i rapporti di forza tra i due campi, quello dei nazionalisti e quello dei repubblicani, si erano rovesciati a favore dei primi. Franco poteva contare su una decina di corpi d'armata e su un buon numero di aerei forniti soprattutto dal governo italiano. Anche i sovietici, dal canto loro, stavano rafforzando l'aeronautica militare repubblicana, ma sembra che molti dei loro piloti, in quei mesi, stessero abbandonando il fronte spagnolo per correre in Asia dove era scoppiato nel frattempo un conflitto fra cinesi e giapponesi.
Nel suo libro sulla guerra civile spagnola edito da Rizzoli nel 2006, Anthony Beavor racconta che la campagna dei nazionalisti «si aprì con un massiccio bombardamento» e che «entrò in azione per la prima volta il bombardiere in picchiata monomotore Stuka Ju-87», di cui gli ufficiali della Luftwaffe dicevano «che riusciva a lanciare una bomba entro cinque metri dal bersaglio».
Barcellona era già stata bombardata dalla flotta italiana più di un anno prima, nel febbraio 1937, e più tardi, con una certa frequenza, da stormi di bombardieri italiani di base a Majorca. Ma quelli del marzo furono, secondo Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri, «realisticamente terrificanti». Furono decisi perché Mussolini voleva dare una prova di forza e dimostrare che gli italiani erano un popolo guerriero, ma anche per demoralizzare la popolazione di Barcellona. La Catalogna aveva reagito con successo al pronunciamento dei quattro generali nel 1936 ed era diventata il cuore del movimento anarchico spagnolo. Ma nell'aprile del 1937 scoppiò nella sua capitale una guerra civile nella guerra civile. I contendenti, in questo caso, furono gli anarchici e i comunisti, ciascuno dei due campi con alleati provenienti da formazioni minori. I comunisti, spalleggiati dai consiglieri sovietici, accusavano il fronte anarchico e il Poum (Partido obrero de unificacion marxista) di essere composto da agenti della Gestapo e dell'Ovra, da trozkisti e fascisti catalani. Quando i comunisti prevalsero, vi furono interrogatori, torture, massacri, tribunali speciali.
Così si combatté, caro Bassi, una buona parte della guerra civile spagnola. Barcellona ha il diritto di ricordare uno dei momento più tragici della sua storia, ma i protagonisti sono morti, le ferite si sono rimarginate e gli stessi spagnoli, nel 1978, hanno approvato una legge di amnistia che ha contribuito alla pacificazione degli animi.

Corriere 10.4.13
Perché l’economia è anche istinto
di Massimo gaggi


È dalla crisi finanziaria globale del 2008 che la teoria economica classica basata sulla presunzione di un comportamento perfettamente razionale dell'homo oeconomicus si è inceppata, mentre gli economisti comportamentali, gli studiosi della psicologia applicata all'economia, sono saliti trionfalmente sul palcoscenico. La loro critica al modello che ha spinto un gran numero di operatori e istituzioni finanziarie a riporre una fiducia cieca negli automatismi del mercato, assumendosi rischi d'investimento enormi in previsione di comportamenti razionali che non si sono mai materializzati, viene oggi generalmente accettata.
Ma su quali altre basi fondare le scelte — economiche, ma anche politiche e sociali — in un mondo nel quale, tra l'altro, chi decide deve tener conto di realtà sempre più complesse e una moltiplicazione delle variabili? Qui le ricette si dividono, anche tra i maestri della stessa scuola di pensiero. E così, se Daniel Kahneman, lo psicologo israeliano-americano Nobel 2002 per l'economia, si limita a proporre di rallentare affidandosi al pensiero lento ed analitico, evitando quello veloce, basato sull'intuizione, che considera poco razionale, altri psicoeconomisti seguono strade diverse.
Col tedesco Gerd Gigerenzer, direttore del Max Planck Institut di Berlino e seguace di Herbert Simon, il primo studioso di psicologia a ottenere il Nobel per l'economia (nel 1978), che propone di applicare il metodo «simoniano» della razionalità limitata in una versione che lui chiama «razionalità ecologica». Ecologica nel senso di evitare, nel processo decisionale, analisi eccessivamente dettagliate, privilegiando, invece, la capacità di adattare le scelte alla realtà ambientale circostante.
Interpretando il pensiero di Simon (scomparso nel 2001), Gigerenzer nega che l'uomo segua alternativamente due diversi modelli di ragionamento (lungo e breve) e sostiene che anche la razionalità semplificata, quella basata spesso su risposte istintive, ha una sua validità perche poggia su una serie di euristiche, di criteri interpretativi, che hanno un loro valore razionale anche quando vengono attivati in modo istintivo o, comunque, inconscio.
Un dibattuto tra accademici poco comprensibile per il grande pubblico ma tutt'altro che rarefatto, quello in corso in questi giorni all'Istituto italiano di cultura di New York. Un confronto promosso dal suo direttore (e studioso della materia) Riccardo Viale e da un gruppo di esperti soprattutto americani e italiani (da Roy Radner a Massimo Egidi) che animano la Herbert Simon Society. Gli studiosi si sono infatti affrontati con insolita energia, sostenendo le loro tesi con toni accesi.
In che modo questo dibattito che si concluderà stasera con l'intervento di Joe Stiglitz, un altro Nobel per l'economia, può tradursi concretamente nei metodi e nelle scelte degli operatori della politica e dell'economia?
La proposta più forte, e in qualche modo provocatoria, è proprio quella di Gigerenzer (prossimo presidente della Society), secondo il quale nei processi decisionali l'importante non è la completezza delle informazioni, la realizzazioni di analisi ottimali (che tra l'altro assorbono troppo tempo) ma la capacità di usare il metodo euristico per orientarsi nella complessità: pochi criteri di analisi basati, dice lo studioso, sulla frugalità e la capacità di capire l'ambiente circostante, adattandosi ad esso.
Un criterio semplificato che non convince tutti ma con punti di contatto con quello proposto da un'altra celebrity dell'economia comportamentale: il giurista Cass Sunstein che, lasciata da poco la Casa Bianca dove è stato per quattro anni l'«uomo delle regole» di Barack Obama, pubblica in questi giorni «Simpler: the Future of Government». Nel saggio, Sunstein propone un metodo di governo basato sulla semplificazione delle regole e la sostituzione di molte norme con soluzioni di default (ad esempio nelle scelte per la salute o la riduzione dei gas serra) che spingono nella direzione voluta dagli amministratori, ma lasciando al cittadino una possibilità di opzione. È la logica di «Nudge», il suo libro-manifesto del 2008, filtrato attraverso l'esperienza di governo.

Repubblica 10.4.13
Fenomeno di Kojève, ateo ossessionato da dio
Due volumi ripropongono il pensiero del grande filosofo russo
di Antonio Gnoli


È passato del tempo da quando Alexandre Kojève era solo un nome vertiginoso e impronunciabile. Perfino i suoi allievi più geniali — come Jacques Lacan e Georges Bataille — lo cancellarono dal loro paesaggio mentale. E quando nel 1968, in piena contestazione studentesca, quest’uomo se ne andò per un infarto, poche e svogliate furono le voci che si alzarono a ricordarne l’importanza decisiva che ebbe nella storia intellettuale del Novecento. Un secolo tanto ricco di echi marziali da divertire Kojève a immaginarlo ormai saturo di eventi. Dopotutto, la fine della storia fu la sua grande invenzione letteraria, prima che filosofica, una suggestione “hegeliana” grazie alla quale spianò la strada al postmodernismo e a tanta filosofia stanca di vedersi rappresentata secondo le vecchie categorie dello spirito.
Oggi, naturalmente, la situazione è cambiata. Kojève non è più un clandestino del pensiero. Si moltiplicano le iniziative editoriali che lo vedono protagonista. Grazie anche al lavoro di ricerca che Marco Filoni ha svolto in questi anni. E come confermano i due libri che egli ha da poco curato: Kojève mon ami e Diario del filosofo (entrambi pubblicati da Aragno). Nel primo sfilano una serie di personaggi che hanno conosciuto e frequentato Kojève. Spiccano i nomi di Lèon Poliakov, Raymond Barre, Allan Bloom, Raymond Aron. Fu quest’ultimo a testimoniare circa i motivi che spinsero Kojève nel 1945 ad abbandonare la scena filosofica per entrare nell’amministrazione pubblica francese: voleva sapere, scrisse Aron, come la cosa (ossia la Storia) si fa. Il filosofo pensa ma, se vuole farlo non astrattamente, deve mettersi in gioco come “consigliere del principe” (o del tiranno). Non è detto che la cosa funzioni, come dimostrò il dibattito tra lui e Leo Strauss.
Kojève — che Aron considerò tra gli uomini più intelligenti della sua generazione — immaginò che tutto il mondo convergesse nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Ai suoi occhi quel libro rivestiva la stessa importanza che l’Antico Testamento aveva avuto nella formazione del monoteismo. Il paragone non sembri azzardato. Tutti gli scritti di questo filosofo — in larga parte usciti postumi — mostrano una sotterranea tensione teologica. Il suo professato ateismo, in realtà, nascondeva un’acuta ossessione per Dio. Come dimostra il suo Diario giovanile. Un diciottenne, già maturo e tormentato che, abbandona Mosca (dove era nato nel 1902), viaggia per l’Europa, si interroga sulla fede, sposta il suo interesse dall’etica cristiana a quella buddista, non disdegna la lettura di Spengler, ma al tempo stesso è affascinato dalla matematica e dall’arte. Un vero spirito russo. L’altra faccia — verrebbe da dire — di Pavel Florenskij. Ma paradossale e ironica. In una parola: estrema.

I LIBRI Kojève mon ami e Diario del filosofo a cura di Marco Filoni sono usciti da Aragno

Repubblica 10.4.13
Anniversari
Il libro di Lucio Villari dedicato a Machiavelli


FIRENZE — Alle 16.30 di oggi, presso la Sala della Miniatura di Palazzo Vecchio a Firenze, verrà presentato il volume di Lucio Villari Machiavelli. Un italiano del Rinascimento (Mondadori). Si tratta di una nuova edizione aggiornata in cui lo storico affronta i momenti fondamentali del pensiero di Machiavelli, le scritture letterarie, la vicenda umana: una narrazione nel drammatico scenario del Cinquecento fiorentino, italiano, europeo. Con Villari ne parleranno Roberto Barzanti, Nicoletta Marcelli e Adriano Prosperi. Coordina il dibattito sul volume Valdo Spini, presidente del Comitato Machiavelli, costituito dal Comune di Firenze per le celebrazioni del quinto anniversario della stesura de Il Principe (comitato. machiavelli2013@comune.fi.it).

La Stampa TuttoScienze 10.4.13
Il micro­laboratorio quantistico gioca con i fotoni


È racchiuso in un chip di vetro di appena pochi centimetri il più piccolo laboratorio in grado di simulare fenomeni fisici quantistici di particolare complessità: a realizzarlo una colla­borazione tra il dipartimento di Fisica della Sa­pienza, l'Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del Cnr e il Politecnico di Milano. Il dispositivo utilizza i fotoni, cioè la luce, per trasmettere i dati e rappresenta un primo passo verso il pro­cessore del futuro, che avrà capacità e velocità di calcolo inaccessibili ai computer classici.
Ma come funziona questo laboratorio in scala? I ricercatori hanno «disegnato», grazie a un laser a impulsi ultrabrevi, un circuito ottico nel chip in vetro. «Questa tecnologia ­ ha spiegato Ro­berto Osellame, ricercatore dell'Ifn­ Cnr di Mila­ no ­ consente di realizzare microprocessori fo­ tonici con un elevato grado di integrazione e con architetture tridimensionali innovative. I fotoni che si propagano attraverso questi cir­cuiti realizzano numerose interconnessioni, si­mulando e prevedendo il comportamento di si­stemi fisici molto più complessi».
L’esperimento ­ spiega il fisico Paolo Mataloni ­ «dà la possibilità di comprendere il vero significa­to di un simulatore quantistico: non un vero com­puter quantistico, in grado di risolvere qualsiasi ti­ po di calcolo, ma un sistema dedicato alla soluzio­ne di problemi specifici legati a fenomeni fisici particolari, in accordo con l'intuizione del Nobel Richard Feynmann, secondo la quale solo un siste­ma quantistico può simulare il comportamento di un altro sistema quantistico».
Un esempio è l’esperimento in un dispositivo det­to «tritter», nel quale tre fotoni identici realizzano la cosiddetta «coalescenza bosonica»: si tratta di fenomeno quantistico che si verifica quando due o più fotoni indipendenti, incontrandosi, interfe­riscono e scelgono la stessa porta in uscita dal di­spositivo. «Il tritter potrebbe il mattone di nuove architetture di elementi ottici, vere e proprie reti che si sviluppano sulle tre dimensioni dello spazio, per la simulazione di fenomeni quantistici ancora più complessi».

Corriere 10.4.13
Il Corriere primo quotidiano su carta e digitale
di Giovanni Stringa


MILANO — Con oltre 480 mila copie al giorno è il Corriere della Sera il quotidiano più diffuso in Italia: lo spiegano i dati di Ads, relativi al mese di febbraio e basati sulle statistiche fornite dagli editori. Al secondo posto, con 420 mila copie circa, c'è Repubblica, seguita dall'edizione del lunedì della Gazzetta dello Sport (288 mila copie) e dal Sole 24 Ore (285 mila). La media della Gazzetta, gli altri giorni della settimana, è di 255 mila copie. Nei conteggi di Ads sono incluse anche le copie digitali, vale a dire quelle sfogliate tramite iPad o tablet. Sono 51 mila quelle del Sole 24 Ore, 50 mila quelle del Corriere e 48 mila quelle di Repubblica. Al quotidiano di via Solferino vanno poi aggiunte 40 mila copie — sempre digitali — collegate ad abbonamenti con operatori telefonici o produttori di hardware, che per regolamento non sono dichiarate nella classifica Ads. Fermandosi, invece, alle tradizionali vendite in edicola, il podio vede nell'ordine Repubblica (327 mila copie, comprensive di quelle generate dalla vendita abbinata con la Nuova Venezia in Veneto), Corriere (315 mila) e la Gazzetta il lunedì (244 mila). Con un assottigliamento del distacco al vertice, tra l'oro e l'argento: ora 12 mila copie, un anno fa 23 mila. Allora — quando ancora si usava il metodo della media degli ultimi dodici mesi, vale a dire da marzo 2011 a febbraio 2012 — Repubblica vendeva nelle sole edicole 374 mila copie e il Corriere 351 mila. I dati di questo febbraio non sono tuttavia definitivi: tra qualche mese saranno corretti sulla base delle risultanze finali e passeranno così dallo status di «dichiarato» a quello di «contabile definitivo». E il passato, al riguardo, ha riservato qualche sorpresa. Come è successo nel maggio e nel giugno del 2012: a maggio, per esempio, la classifica provvisoria delle vendite in edicola dichiarate dagli editori vedeva in testa Repubblica (341 mila copie) seguita dal Corriere (337 mila), ma la situazione si è poi capovolta con la lista finale dei dati contabili e definitivi, con il quotidiano di via Solferino a 336 mila copie e la testata concorrente a quota 335 mila. In generale, febbraio 2013 è stato un mese di crescita per molti quotidiani, dentro e fuori dal podio, grazie anche all'abbondanza di grandi avvenimenti, dalle elezioni all'addio del vecchio Papa.