giovedì 11 aprile 2013

l’Unità 11.4.13
Bersani: «Stallo per colpe altrui. Il governo si farà»
Il leader Pd: la responsabilità dei ritardi non è mia
Bersani: «Prima va sciolto il nodo del Quirinale poi nascerà l’esecutivo»
Ribadito il no al governissimo: «Serve il cambiamento, va aggredita una drammatica questione sociale»
di Maria Zegarelli


Si sente responsabile dello stallo politico e della mancanza di un governo? La domanda va in onda al Tg1 della sera, il più seguito. «No, francamente, onestamente non mi sento responsabile per un banale motivo: io una proposta l’ho fatta. Un governo di cambiamento, convenzione e data certa per le riforme istituzionali, corresponsabilità in questo quadro di tutte le forze parlamentari. Pdl e M5S mi hanno detto no». Pier Luigi Bersani sa che questa è l’accusa che ogni giorno gli viene rilanciata (e che più gli brucia) dal Pdl e non solo dal Pdl (Matteo Renzi ieri è tornato all’attacco: o accordo con Berlusconi o voto): la mancanza di un governo a 45 giorni dal voto. Nei momenti in cui si lascia andare con i suoi più fidati collaboratori dice che è proprio questa la cosa che più lo ferisce: «Non sono la causa di questo stallo, io ho fatto tutto quello che era in mio potere per dare un governo al Paese». Ogni volta ripete che lui c’è se è utile, «altrimenti...».
Il pressing è per un esecutivo di larghe intese, il tentativo quello di intrecciare l’elezione del Capo dello Stato con la nascita di un governissimo che traghetti il Paese alle elezioni dopo aver affrontato le emergenze economiche e sociali. E allora ecco che segna di nuovo la linea di confine: «Il Presidente della Repubblica dura 7 anni e deve garantire l'unità della nazione. Un governo deve aggredire una drammatica questione sociale e mettere una nota di cambiamento nel Paese per ridare un po’ di fiducia». Capo dello Stato e Capo del governo «sono due mestieri diversi», ripete andando però oltre. Quando sarà la sciolto il primo nodo, il Quirinale, allora «un governo si farà». Quello giusto resta convinto che sia «un governo di cambiamento che possa accompagnare una fase di riforma delle istituzioni», ma se anche con il nuovo Capo dello Stato dovesse risultare una via impraticabile allora «discuteremo perché un governo a questo Paese va dato». Non ci sono out out, sembra dire, «non è una questione personale», (il senatore Miguel Gotor, suo consigliere sottolinea che se il segretario «avrà la possibilità di governare si muoverà in quel solco, se non ci riuscirà vedrete che sarà il primo a voler far giare la ruota»), anzi, «farò tutto ciò che è in mio potere per agevolare una soluzione». Ma un governo con Berlusconi non sarà lui a farlo.
Ieri mattina Bersani ha parlato a lungo con il suo maggiore alleato, Nichi Vendola che ieri si è dimesso da parlamentare senza nascondere l’amarezza per i duri attacchi subìti per il doppio incarico ricevendo l’appoggio su tutta la linea: sia per i criteri che dovranno guidare l’elezione del Capo dello Stato, sia sul tentativo di formare il governo una volta superato il voto per il successore di Napolitano.
Ma sarà quella di oggi una giornata politicamente importante per il leader Pd: alle 11 incontrerà il leader della Lega Roberto Maroni che non ha mai mostrato rigide chiusure verso Bersani pur essendo unito a doppio filo con il Pdl. «Non mi interessa chi sarà il presidente della Repubblica, mi interessa che ci sia un governo», ha detto ieri il neo governatore della Lombardia. Bersani sa che il patto Pdl-Lega è quello che tiene in piedi le Regioni del Nord e dunque non si fa troppe illusioni ma è pur vero che dall’inizio di questa complicatissimo rompicapo post-elettorale sono proprio la Lega e il M5S gli interlocutori da non trascurare. È anche questo il motivo per cui il leader Pd vuole condurre le sue consultazioni con tutte le forze parlamentari in vista del voto del 18 aprile, «perché dobbiamo trovare una figura altamente condivisa per la presidenza della Repubblica», inclusi i grillini. I capigruppo di Camera e Senato, Roberto Speranza e Luigi Zanda, hanno avanzato una formale richiesta di incontro ai colleghi del M5S, ma finora nessun appuntamento è fissato: il Movimento ha fatto sapere che andrà all’incontro soltanto una volta sentita la base sul nome da votare, mentre Grillo, tanto per distendere il clima, ha già bollato l’incontro Bersani-Berlusconi, avvenuto l’altro ieri, come un «inciucio a porte chiuse».
I fronti aperti sono molteplici, caselle da incastrare che sembrano slegate eppure sono strettamente connesse. E creano tensioni: non solo tra le forze politiche (nel Pdl i falchi lavorano affinché il Cavaliere non accetti di tenere separati Colle e governo mentre Berlusconi invita alla calma), ma anche all’interno della stessa casa democratica. Ieri l’ultima durissima polemica tra il segretario e Renzi sulla vicenda dei grandi elettori per il Capo dello Stato, diffidenze che nascono, timori che ormai nessuno nasconde più. Tanto che l’altro ieri Areadem, che fa capo a Dario Franceschini, ha riunito i suoi parlamentari, una settantina, per mettere in allerta: Quirinale, governo e partito sono tre passaggi che se governati male possono costare la pelle al Pd. Un presidente della Repubblica che sia una figura di garanzia e competenza senza cessioni al nuovismo, chiedono alla fine dell’incontro. E poi, subito dopo, un governo, «anche a guida Bersani», purché abbia un programma vero, di riforme incisive e non soltanto una funzione di traghettamento verso le prossime elezioni. Ma arrivare indenne alla fine di questo percorso, secondo Areadem, al Pd serve un punto di sintesi, una sorta di «camera di compensazione», un ponte di contatto con le altre varie anime del partito. E a questo si candida una delle più corpose anime democratiche. Resta da vedere con quali risultati.

La Stampa 11.4.13
Rosy Bindi
“Caro Bersani, così non va un governo di minoranza ci consegna a Berlusconi”
L’affondo del presidente Pd: stiamo snaturando il partito
Pronta a dialogare con Barca, se il suo obiettivo non è la ricostruzione di un partito di sinistra
intervista di Federico Geremicca


Non mi ha convinto lo scarto improvviso verso il centrodestra. È una soluzione politicista e precaria
Stiamo dando a Berlusconi le chiavi del nostro governo del cambiamento. Deciderà lui quando staccare la spina
Il futuro del Pd. Pronta a dialogare con Barca, se il suo obiettivo non è la ricostruzione di un partito di sinistra
Ascoltiamo Napolitano. la via è quella di un governo di scopo senza ministri indicati da noi e dal Pdl
Renzi. Non sono convinta delle adesioni acritiche di chi dice «ma almeno lui ci fa vincere»

Vuole dirlo con la minor carica polemica possibile «e per questo scriva che a parlare è l’onorevole Bindi: semplicemente l’onorevole Bindi, e non il Presidente dell’Assemblea nazionale del Pd». Però lo dice: «E faccio questa riflessione adesso perché il confronto sul futuro Presidente della Repubblica è cominciato, ed io credo che per il Quirinale si debba andare ad una soluzione cristallina. Il Capo dello Stato è garante di tutti se applica la Costituzione, non se è più o meno ostile o gradito ad una parte. Leggo che negli incontri avviati da Bersani si starebbe parlando del Colle e non del governo, che le due questioni sono separate e che baratti non ne accettiamo. Sono d’accordo: nessun baratto. Ma questo deve valere anche per noi: nessuno scambio improprio, nemmeno per ottenere il “si parta” per il cosiddetto governo di minoranza, come sostiene Vendola».
Quarantacinque giorni di silenzio, dal voto ad oggi: pochissima tv, nessuna intervista. I mesi precedenti le elezioni non erano stati facili, per lei, quotidianamente sotto il tiro di Matteo Renzi. Ma nemmeno il dopo è stato semplice: Bersani ha cominciato a far girare la «ruota» del cambiamento ed è partito uno strano spoils system. Capigruppo nuovi, presidenti di Camera e Senato ancor più nuovi, le correnti più agguerrite (dai «giovani turchi» ai «renziani») a caccia di posti e visibilità. Così, Rosy Bindi ci riceve al terzo piano di Montecitorio, e approfittiamo della scrivania di una delle segretarie del segretario d’aula del Pd...
Lei vuol riflettere sul Quirinale ma è ancora del tutto aperta la questione-governo: anche lei ha obiezioni da fare a quella che qualcuno ha definito la «cocciutaggine» di Bersani?
«Non mi associo a certe critiche ex post: un confronto col Movimento Cinque Stelle andava fatto, nel rispetto della richiesta di cambiamento venuta dalle urne. Forse potevamo trascinarlo meno a lungo. Ma non è questa, almeno per me, la questione centrale».
E quale è?
«Non mi ha convinto lo scarto improvviso che è seguito: la ricerca di escamotage parlamentari che facessero affidamento su comportamenti compiacenti di Lega e pezzi di centrodestra, che avrebbero dovuto “non impedire” il varo di un governo-Bersani di minoranza. La considero una soluzione politicista e precaria».
È una via che non le piace per niente?
«Quando leggo che dovremmo fare un governo che vive grazie al fatto che un po’ di senatori del Pdl escono dall’aula e che magari poi arriva qualche voto “grillino”, mi viene da dire che stiamo dando a Berlusconi le chiavi del nostro cosiddetto “governo del cambiamento”. Potrà decidere lui come e quando staccare la spina, e quali e quanti dei nostri otto punti far benevolmente passare. Insomma, ci mettiamo completamente nelle sue mani».
È la via, però, che Bersani sembra voler continuare a battere...
«Il Pd ha sostenuto unitariamente il tentativo e la fatica di Bersani: non ho visto porre ostacoli, nemmeno da parte di Renzi, per la verità. La nostra gente vuole Pier Luigi a Palazzo Chigi perchè ha vinto le primarie e siamo comunque la coalizione più forte in Parlamento: ma io credo che l’unico governo che Bersani possa guidare sia un esecutivo progressista, di cambiamento appunto. Invocare una sorta di lasciapassare dal centrodestra, significa dipendere completamente da Berlusconi».
Le pare più convincente il «governissimo» che chiede il Cavaliere?
«Lo considero irricevibile, ma almeno è una proposta che ha il pregio della chiarezza. Il Pd non può tornare a governare con Berlusconi. Il popolo del centrosinistra è stato molto provato dal governo Monti: l’esperienza non è riproponibile».
E allora che si fa, si torna alle elezioni?
«Noi non vogliamo le elezioni, ma nemmeno dobbiamo temerle: e comunque è necessaria una nuova legge elettorale. E se Bersani non ce la facesse, per evitare il voto anticipato ed aprire una fase di riforme essenziali, mi sembra più trasparente e sostenibile una soluzione marcatamente istituzionale, affidata al Presidente della Repubblica per un governo di scopo, limitato nel tempo, guidato da una personalità congeniale a tale profilo, istituzionale e non politico».
Quel che lei chiede è un netto cambio di linea: riunirete la direzione per discutere il che fare?
«Questo lo decide il segretario...».
In molti si chiedono se la vecchia maggioranza di Bersani esista ancora. Esiste?
«A me sembra che il partito si stia allontanando dalla sua ispirazione originaria. Il Congresso è di fatto aperto, e ci sono troppe spinte per la ricostruzione del partito della sinistra italiana... Non è la via del Pd. Ma non mi convince nemmeno una certa adesione disinvolta allo spirito del tempo. Noi eviteremo rotture solo se terremo fede all’ispirazione di partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra, culturalmente plurale e a gestione collegiale: nel solco, insomma, dell’ispirazione dell’Ulivo».
Le piacerebbe un segretario come Fabrizio Barca?
«Io sono pronta a discutere con chiunque abbia come obiettivo la sintesi tra i diversi riformismi che animano il Pd e non la ricostruzione di un partito della sinistra. La freschezza di Barca può andar bene, può aiutare: ma per me l’importante resta l’obiettivo che si intende raggiungere».
Comunque, per lei meglio Barca che Matteo Renzi, o no?
«Non credo Renzi sia interessato a guidare il Pd... E comunque, guardi: lui mi ha attaccato, io ho risposto, non l’ho votato alle primarie e non sono nemmeno convinta delle adesioni acritiche di chi dice “ma almeno lui ci fa vincere”... Premesso questo, devo però dire che la polemica che lo ha visto protagonista in Toscana per la scelta dei Grandi elettori, non mi è piaciuta per niente. Un vicenda così delicata o non la si fa cominciare affatto o non la si doveva far finire così...».

«A sinistra di Renzi sono guardate con sospetto le mosse di Stefano Fassina e Matteo Orfini, la loro marcia di avvicinamento o di fusione con Vendola»
Repubblica 11.4.13
Nel Pd l’ora della resa dei conti ritorna l’incubo della scissione
Franceschini: vedo rigurgiti identitari. Le mosse dei renziani
di Goffredo De Marchis


ROMA — Tira aria di scissione. Dario Franceschini racconta che per aver detto che «l’avversario non si può scegliere» e che Berlusconi va riconosciuto «come il leader di 8 milioni di italiani» non ha ricevuto solo critiche «normali, legittime». Ha sentito invece «un rigurgito identitario dentro il Partito democratico, un posizionamento pericoloso che ci ha riporta indietro di 6 anni. I diessini con i diessini, gli ex popolari con gli ex popolari spinti nel loro antico recinto. Sul mio blog ho visto ripetuta più volte, come un’offesa pesante, la parola “democristiano”. Ora siamo attesi da prove difficili: l’elezione del Quirinale, la nascita di un governo. Tutto può precipitare».
L’ex capogruppo ha messo in piazza la sua preoccupazione durante una riunione della corrente Areadem, «una componente che tiene dentro me e Fassino, tutte le anime che hanno dato vita al Pd. Ma non è così per altre correnti». Per questo il «rischio scissione», spiega di fronte ai suoi interlocutori sorpresi, «esiste, è concreto. La tentazione di tornare ognuno nella propria casa, io la sento». A quel punto si alzano alcuni dirigenti locali e parlamentari, dicono che anche sul loro territorio vivono lo stesso problema. Il partito fatica a rimanere unito e le riunioni si svolgono in ordine sparso. O, più precisamente, nell’ordine che esisteva prima del Pd. Che è anche peggio.
Quello che è successo con la bocciatura di Renzi come grande elettore conferma le divisioni e la tensione. Il sindaco accusa in particolare «Bersani, D’Alema e Franceschini. Sono loro ad aver manovrato contro di me». Tanto che l’incontro con l’ex presidente del Copasir, a lungo cercato dai due, adesso è in forse. D’Alema sarà a Firenze oggi pomeriggio, ma il sindaco gli ha fatto sapere che lui ha tempi stretti. In serata parte per Roma dove lo aspettano due nuovi momenti di battaglia: un’intervista al TgLa7 e Porta a porta.
E anche lì non farà sconti, non userà la diplomazia. I suoi parlamentari, ieri in Transatlantico, rilanciavano l’idea di una separazione col resto della truppa democratica, il progetto di una Cosa che nasce intorno a Renzi. Troppo forte lo smacco sul grande elettore. Non è la linea del sindaco, per ora. «Rimango a sinistra, rimango nel Pd». Ma racconta che lo ha ferito una telefonata di Vasco Errani. «Non è giusto che tu vada a Roma», gli ha detto il governatore nella versione del sindaco. Renzi accusa Miro Fiammenghi di aver tramato alle sue spalle telefonando ai consiglieri regionali. Il fedelissimo di Bersani però lo sfida. «Dice falsità, sono pronto a mostrargli i tabulati telefonici dei miei tre cellulari. Quando vuole facciamo un confronto all’americana». Ma la bufera non si placa nel mondo renziano. Nelle Marche oggi hanno scelto i grandi elettori silurando Vittoriano Sollazzi, presidente del consiglio regionale, candidato naturale alla platea della seduta parlamentare comune. È un renziano doc, ma il Pd gli ha preferito il capogruppo regionale. Un nuovo schiaffo.
A sinistra di Renzi sono guardate con sospetto le mosse di Stefano Fassina e Matteo Orfini, la loro marcia di avvicinamento o di fusione con Vendola. Persino la candidatura di Fabrizio Barca a entrare nel «gruppo dirigente» del Pd viene letta come una mossa che punta a spostare l’asse del partito verso Sel cioè verso la sinistra. Con un effetto che secondo alcuni rischia di spaccare il Pd. E il rischio scissione non è certo un timore fantapolitico di Franceschini. Walter Veltroni ne ha parlato nella sua lettera a Repubblica.
Il punto è che si avvicina il voto sul Quirinale. E Bersani, con tutta evidenza, dovrà pescare un nome o una rosa di nomi che vada bene a Berlusconi, ma che non provochi scossoni nel suo partito. Che sulla leadership del futuro ha già cominciato la resa dei conti.

l’Unità 11.4.13
Quirinale
La rosa dei «politici» e quella degli «esterni»
In entrambe le categorie sono diversi i nomi che potrebbero mettere d’accordo i partiti
A cominciare da quelli delle candidate-donne
di Ninni Andriolo


Anche Berlusconi è d’accordo, tocca al Pd avanzare una proposta. E se Bersani mette in chiaro l’obiettivo di una candidatura che raccolga una «larghissima maggioranza», il Cavaliere fissa i paletti chiedendo un nome «non ostile» al Pdl. Prodi, Rodotà, Zagrelbesky? L’ampia «condivisione» che porterebbe all’elezione del Capo dello Stato il 18 aprile, giorno in cui i grandi elettori si riuniranno a Montecitorio, non dovrebbe riguardare quei profili, a sentire il leader Pdl. Che ritiene, adesso, meno incombente il fantasma del Professore, l’unico ad averlo battuto per ben due volte in campagna elettorale. Da settimane i giornali legati al centrodestra mettono in guardia dal «pericolo Prodi». La candidatura dell’ex premier, però, risulterebbe gradita anche ai grillini che sceglieranno lunedì con un referendum, ma che potrebbero far convergere i loro consensi sul fondatore dell’Ulivo alla quarta votazione. O fin dalla prima (dove si richiede la maggioranza di due terzi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica).
«Larga condivisione», quindi. Che significa ricercare un nome che vada bene al centrosinistra, a Scelta civica, al Pdl e che non sconti la smaccata ostilità dei grillini. Se Berlusconi dovesse rivoltare il tavolo e ostacolare una soluzione gradita alle diverse forze in campo puntando all’accordo a due Pd-Pdl per costituire fatti utili a imporre il «governissimo» i democratici potrebbero eleggere il Capo dello Stato alla quarta votazione e con chi ci sta. Il centrosinistra conta su 490 grandi elettori, mentre ne servirebbero 505. L’intesa con Monti sul metodo della massima condivisione dovrebbe reggere se il Cavaliere dovesse virare su un candidato di centrodestra. Ma se il cauto ottimismo del faccia a faccia Bersani-Berlusconi dovesse cambiare segno lo si capirà dai toni della manifestazione Pdl indetta a Bari sabato prossimo nomi di rilievo come quelli di Prodi, Zagrelbesky o Rodotà tornerebbero in campo.
Così come quello di Laura Boldrini, una delle possibili novità promossa dal centrosinistra. Il tema della candidature femminile per il Colle circola da giorni. Ne hanno parlato, tra gli altri, Bersani, il leghista Maroni, diversi esponenti del Pdl o del Pd. Assieme al nome del presidente della Camera, rimbalza sui giornali una rosa autorevole di candidature femminili di segno diverso. Dalla Bonino alla Finocchiaro, dalla Cancellieri alla Severino.
Donne impegnate in politica da decenni e donne che hanno svolto nel governo Monti un ruolo tecnico-politico di non poco conto. Molti profili delle candidate in pectore per il Colle si collegano con caratteristiche diverse alla ricerca di quella «larga, larghissima maggioranza» di cui Bersani ha parlato con Monti, con Berlusconi e ieri con Vendola. Non viene considerata ostile al Pdl Emma Bonino ad esempio. Né Anna Finocchiaro, malgrado le ferme prese di posizione da capogruppo Pd al Senato quando il Cavaliere era presidente del Consiglio, né il ministro dell’Interno Cancellieri, né quello della Giustizia Severino.
L’elezione di una donna al Quirinale costituirebbe una indubbia novità. Ma, al di là del «genere» del prossimo presidente della Repubblica, sarà interessante capire chi vincerà la partita tra politici e non politici. Se verrà rispettato lo schema classico che vorrebbe un ex presidente di Camera e Senato o del Consiglio salire sul Colle più alto della Repubblica, o se prevarranno opzioni diverse. Amato, D’Alema, Violante, Monti, Grasso, Marini (che esprimerebbe l’area cattolica come Mattarella, ma che non è considerato ostile dal Pdl)? O un sociologo come De Rita, già presidente del Cnel e fondatore del Censis (che ieri ha smentito seccamente mire sul Quirinale)?
Nell’ottica della ricerca di una candidatura «condivisa» molte sono le ipotesi possibili. Il difficile settennato che si apre richiede forte caratura politica. È chiaro che le doti necessarie per ricoprire una carica delicatissima, nel cuore di una crisi profonda, non possono essere considerate esclusiva dei politici di lungo corso. Questi, tuttavia, vantano un’esperienza istituzionale che altri hanno maturato in ambiti professionali diversi. E bisognerà capire, al di là delle dichiarazioni ufficiali, se Berlusconi si sentirà garantito da un presidente autorevole alla Giorgio Napolitano o da profili più sbiaditi. Si giocherà anche su questo terreno la partita del governo (e del Paese).

l’Unità 11.4.13
Renzi accusa: escluso da telefonate romane
La replica di Bersani: io estraneo a tutta la faccenda. Franceschini: nessuna pressione
di Vladimiro Frulletti


I cinque consiglieri regionali “renziani” prima di metterla dentro l’urna, aprono la scheda davanti a colleghi e giornalisti e fanno vedere a tutti il proprio voto: Rossi Monaci. Così quando le schede vengono scrutinate il risultato è senza sorprese. Il consiglio regionale della Toscana manda a Roma come propri grandi elettori, per il centrosinistra, il presidente della Regione Enrico Rossi e il presidente dell’aula Alberto Monaci, per le opposizioni il vicepresidente Roberto Benedetti (Pdl). Il sindaco Renzi incassa solo due voti e nessun biglietto per Roma. Decisione che il gruppo Pd aveva già ratificato martedì sera spaccandosi in due parti: 10 voti per il sindaco, 12 per Monaci. Forse i renziani avrebbero anche potuto tentare di giocare col voto segreto contando sull’appoggio di altri consiglieri, ma poi su indicazione dello stesso sindaco hanno evitato. Da qui la scheda votata in modo palese. Meglio non lasciare alibi a eventuali franchi tiratori e mandare un messaggio chiaro: noi facciamo le battaglie in campo aperto, se poi perdiamo rispettiamo le decisioni, ma niente trucchetti.
Trucchetti, anzi pugnalate alle spalle di cui invece Renzi accusa il gruppo dirigente nazionale del Pd. «Qualcuno mi aveva detto vai avanti tranquillo, ti votiamo, ma poi è arrivata qualche telefonata da Roma per fare il contrario...». La tesi è che da Roma gli abbiano teso una trappola: prima proponendolo, poi lavorando nell’ombra per trombarlo. «Io sono uno che parla una lingua sola in modo franco e a volte un po’ brutale, altri dicono una cosa in faccia e poi ne fanno un’altra dietro le spalle» dice. Da qui le ricostruzioni che individuano in Valdimiro Fiamminghi, consigliere regionale emiliano, bersaniano doc, l’autore delle pressioni. Smentiscono però sia il presidente della Toscana Enrico Rossi che il capogruppo in Regione Marco Ruggeri. Addirittura a un certo punto si sparge la voce che tutto sia frutto di uno scherzo de “la Zanzara” di Radio24 che avrebbe fatto fare telefonate ai consiglieri regionali toscani del Pd da un finto Bersani. Ma non è vero. È uno scherzo del conduttore Cruciani che anzi intervista Fiammenghi il quale spiega di non aver mai fatto alcuna telefonata. I renziani tuttavia si dicono certi che le telefonate ci siano state anche dietro la pressione di alcuni consiglieri regionali fiorentini del Pd, infuriati dalla possibile elezione di Renzi.
Comunque Bersani fa sapere che lui con questa storia non c’entra nulla. «Nella sequela di quotidiane molestie mi vedo oggi attribuiti non so quali giochini tesi ad impedire la nomina di Renzi a grande elettore per la Regione Toscana. Smentisco dunque di aver deciso o anche solo suggerito, o anche solo pensato alcunché, a proposito di una scelta che riguarda ovviamente e unicamente il consiglio regionale della Toscana» è la sua secca nota. Poi al Tg1: «Una telefonata? Chieda a Telecom». Lo stesso segretario del Pd toscano, Andrea Manciulli, considerato vicino a Bersani e D’Alema, ritiene un errore il no a Renzi e non a caso i consiglieri a lui più vicini hanno votato a favore del sindaco. E i renziani fanno notare come nella votazione finale a Renzi siano mancati i due voti dei consiglieri legati a Franceschini, tramite l’attuale vicepresidente del gruppo alla Camera Antonello Giacomelli. Strano, dicono, visto che Franceschini chiama quasi ogni giorno Renzi. «Io non ho parlato con nessuno spiega però Franceschini anzi se mi avessero chiesto un parere avrei detto che un minimo di logica e buon senso politico avrebbe dovuto portare alla nomina di Matteo». Del resto i franceschiniani, sottolineando che su 24 consiglieri del gruppo ne hanno solo 2, ribattono che loro non hanno fatto alcuna telefonata per bloccare Renzi e che le rassicurazioni al sindaco sono arrivate da altri e che loro seguendo il percorso suggerito dal presidente Rossi (verificare la disponibilità di Monaci e quindi la soluzione “istituzionale”) si sono limitati a votare come poi indicato dal capogruppo. «Rispetto le scelte di tutti, ma io a quel punto Renzi l’avrei votato» dice Giacomelli.
Per Renzi resta l’amarezza, ma anche la convinzione che per il Pd si tratta di un autogol. Opinione condivisa anche da un’avversaria storica del sindaco come Rosy Bindi. Il sindaco ammette che gli avrebbe fatto «piacere rappresentare la mia Regione, come sindaco e anche per il risultato delle primarie Pd in Toscana». Ma «nessun dramma». «Mi spiace soltanto, la doppiezza di chi parla in un modo e agisce in un altro» scrive su Facebook. E poi la stoccata al Pd che ha scelto «di mandare un autorevole personaggio del mondo della politica e del mondo bancario senese». Voluto ogni riferimento a Mps di cui Alberto Monaci è stato dirigente. Anche perché è proprio per lo scontro sulle nomine della banca (ora nella bufera) che s’è consumata la frattura fra Monaci e l’ex sindaco, poi defenestrato da un pezzo del Pd, Franco Ceccuzzi.
Intanto oggi Renzi doveva prendersi un caffè con D’Alema che nel pomeriggio è a Firenze per un convegno sui partiti. Ma chissà se l’incontro ci sarà.

il Fatto 11.4.13
Il retroscena
Fermato dal no del signor Rossi
di Giampiero Calapà e Caterina Perniconi


Le condizioni del signor Rossi e un sms hanno cancellato i sogni quirinalizi di Matteo Renzi. La telefonata da Roma c’è stata, Pier Luigi Bersani ha chiamato il presidente della Toscana, Enrico Rossi, per affrontare il “caso Renzi”. Nessuna imposizione, “sono fatti che devono restare dentro i confini regionali” ha detto il leader del centrosinistra, invitando il governatore a risolvere le cose “al meglio”.
ALLA FINE È ANDATA come i bersaniani speravano, perché l’immagine di Matteo Renzi protagonista del Transatlantico di Montecitorio per una settimana aveva disturbato i sonni di molti. Rossi ha dettato tre condizioni che hanno impedito al sindaco di partire per Roma: il supporto unanime del gruppo regionale Pd, la rinuncia di Alberto Monaci, presidente del Consiglio toscano, e rinuncia ufficiale di Renzi ai voti del Pdl (perché il sindaco, con il sostegno dell’opposizione, rischiava di prendere più voti del governatore stesso). Alla fine, del terzo presupposto non c’è stato nemmeno bisogno, perché sono mancati i primi due. Il gruppo si è spaccato, dodici voti contro Renzi e dieci a favore. Durante la riunione, durata undici ore, si è sfiorata la rissa. Perché un accordo che sembrava solido è venuto a mancare all’ultimo momento. Decisivo l’intervento di Rossi che ha annunciato ai colleghi l’sms di Alberto Monaci, irreperibile da dieci giorni per un problema di salute, dove spiegava che stava bene e poteva farcela: “Dò la mia disponibilità a partecipare alla seduta plenaria del Parlamento”. Il segnale, insieme alla frattura nel partito, che l’operazione non si poteva fare. E alla fine anche chi era convinto di votare a favore del sindaco, si è tirato indietro. Sulla graticola sono finiti i franceschiniani (Parrini, Venturi, Rossetti) e i dalemiani (Naldoni, Ruggeri, Morelli). Dietro di loro lo spettro delle pressioni romane. “Non ho svolto alcun ruolo né mi è stato chiesto di svolgerlo – ha dichiarato Antonello Giacomelli, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera – rispetto l’opinione di tutti ma ribadisco che, a quel punto, esaurita ogni possibilità di scelte condivise, avrei votato Renzi”.
LUI È STATO uno dei primi ad essere accusato di responsabilità nella decisione perché l’area Dem, quella di Franceschini appunto, si era sempre detta a favore del sindaco. Ma nonostante il patto di non belligeranza nel partito fiorentino tra renziani e uomini del segretario regionale Andrea Manciulli, le parole di Rossi illuminano sulle reali possibilità che l’operazione ha avuto di andare in porto: “Non poteva essere un’eccezione toscana, serviva un accordo nazionale per cui si stabiliva che uno dei tre delegati era un sindaco, rispettando le minoranze come chiede la Costituzione”. Ma molte Regioni avevano già eletto i loro rappresentanti quando è nata l’ipotesi di candidare Renzi. Non è servito nemmeno appellarsi al precedente, comunque fallimentare, del 2006, quando fu proprio lo stesso Monaci a chiedere, invano, che i tre rappresentanti non fossero figure istituzionali del Consiglio ma “delegati dalla Regione”. In quel caso Monaci voleva ostacolare Riccardo Nencini, presidente all’epoca dell’assemblea toscana, e il voto che il socialista avrebbe garantito alla radicale Emma Bonino. Per Renzi sarebbe dovuta andare diversamente, soprattutto dopo l’assenso del segretario Manciulli, dalemiano, che evidentemente, però, non aveva fatto i conti col signor Rossi e con gli sms dell’ultimo momento.

Repubblica 11.4.13
Rossi, governatore toscano: l’esclusione di Renzi dai grandi elettori? Bersani se n’è lavato le mani
“Il no al sindaco un fatto toscano finiti i tempi dei diktat da Roma”


FIRENZE — Presidente Rossi, l’ha chiamata Bersani?
«Smentisco nel modo più assoluto. Posso garantire che Bersani si è sempre tenuto fuori da tutta questa vicenda».
Allora l’ha chiamata.
«Ci siamo sentiti sabato scorso e lui è stato chiarissimo. Mi ha detto che ogni decisione era rinviata al livello regionale e, giustamente a mio parere, se ne è lavato le mani».
Renzi non la pensa così, però.
«Bisogna avvertire Renzi che sono passati i tempi in cui una telefonata del segretario del partito era in grado di bloccare la più grande operazione urbanistica di Firenze, come successe nell’era di Occhetto. Ora le vicende locali si decidono a livello locale».
E come spiega allora che i consiglieri franceschiniani abbiano tutti votato contro? Dicono che siano arrivati ordini da Roma.
«Quei voti sono mancati in effetti. Ma poco fa Franceschini mi ha chiamato per dirmi di non aver fatto nessuna telefonata ai consiglieri del Pd e che anche per lui la vicenda è tutta di valenza regionale. Le decisioni di voto sono state autonome».
Telefonano per dire di non aver telefonato. Non è che le insinuazioni di Renzi avranno colpito nel segno? Ha telefonato o no l’entourage emiliano di Bersani al capogruppo toscano?
«Sono interpretazioni di fantasia, chi si intende un minimo dei rapporti politici tra “regioni cugine” sa bene che la Toscana non avrebbe certo ceduto a pressioni emiliane. Direi quasi per punto preso, ancor prima che per ogni altra considerazione razionale. Anche Errani è sempre stato convinto che “il caso Renzi grande elettore” fosse solo un problema di casa nostra».
Lei si era detto favorevole all’ipotesi Renzi ma a tre condizioni: che chiedesse al centrodestra di non votarlo, che non spaccasse il gruppo e che fosse prima avvertito Monaci, il presidente del consiglio regionale a cui la delega spetta per prassi. Nessuna di queste si è realizzata.
«Sono dispiaciuto per Renzi, perché so che a questa cosa teneva molto. E mi secca che il Pd toscano abbia dato un’idea di divisione e di chiusura, sarebbe stato auspicabile che una volta posta pubblicamente la questione avesse un esito diverso. Ma l’operazione era tutt’altro che facile, si trattava di interrompere una prassi rispettata da sempre, Renzi sarebbe stata la prima eccezione in assoluto. Era logico consultare prima Mona-
ci, lo imponevano rispetto e correttezza. Il gruppo si è diviso e ha prevalso la linea istituzionale. Non ne farei un dramma».
Tra lei e Renzi non c’è mai stata sintonia.
«Le nostre battaglie politiche sono state combattute alla luce del sole, scontri a viso aperto, senza sotterfugi. Credo che sia un bene per la Toscana che lui sia diventato un leader nazionale e ho lavorato perché anche stavolta si trovasse una soluzione. Ma non esiste nessun preconcetto antirenziano nel gruppo del Pd, non siamo gli ultimi conservatori, ridimensioniamo gli eventi».
I renziani hanno votato compatti per lei e Monaci, mostravano le schede per evitare polemiche. Ma all’esterno è passata l’idea che tra vecchio e nuovo il Pd ha scelto il vecchio.
«Cadendo nel solito tranello, purtroppo. Evidentemente neppure la Toscana è esente da inciampi».
(s.p.)

La Stampa 11.4.13
L’abbraccio di Tosi a Renzi “Con Matteo vantaggi per tutti”
La solidarietà: “Anche nella Lega ci sono dei bersaniani anti-cambiamento”
di Michele Brambilla


Dietro alla scrivania Flavio Tosi ha ancora le foto di Benedetto XVI e di Napolitano. Gli chiedo se, prima di cambiare il ritratto del Papa, aspetta che cambi anche l’inquilino del Quirinale. Sorride: «Io quelle foto non le cambio. Metterò sicuramente anche la foto di Papa Francesco e quella del nuovo presidente. Ma Ratzinger e Napolitano non li tolgo». Un sindaco con quattro ritratti ufficiali alle spalle? «Se sarà necessario sì», mi risponde, «ma sa cosa le dico? Spero che di foto ne bastino tre. Perché vorrei che Napolitano sia rieletto presidente della Repubblica». Addirittura! E pensare che, all’inizio, a Tosi l’ex comunista sul Colle non garbava affatto. «È vero, soprattutto non mi era piaciuto il modo in cui era stato eletto, a maggioranza secca... Ma poi mi sono ricreduto. Napolitano è stato imparziale e ha mostrato un assoluto rispetto per tutte le istituzioni. È vero che ha una certa età, ma mi piacerebbe se venisse confermato».
Tosi, lei ha un grande feeling anche con un altro uomo di sinistra, ammesso che a sinistra non si offendano se chiamiamo così Matteo Renzi. Vi siete appena incontrati a Verona. Che cosa vi unisce?
«La concretezza che deriva dal nostro ruolo. Quando fai il sindaco devi occuparti dei problemi di tutti, e non solo di quelli della tua parte politica. Più pragmatismo e meno ideologia. Infatti Renzi riscuote consensi trasversali, com’è successo a me a Verona».
Renzi è ostacolato dai vecchi del Pd. La stupisce?
«No. Capisco lo spirito di conservazione del proprio posto da parte di quelli dell’apparato. Però è sbagliato. È contro gli interessi del Pd e di tutto il Paese. Il centrosinistra con Renzi candidato premier avrebbe probabilmente vinto le elezioni, e anche il centrodestra sarebbe stato costretto a rinnovarsi».
Lei pure è ostacolatoall’interno del suo partito.
«È diverso. Il mio segretario è Maroni e con lui ho rapporti eccellenti. Dopo di che, è vero che anche nella Lega ci sono dei bersaniani, gente che si oppone a quel cambiamento che proprio Maroni ed io abbiamo provato a portare avanti».
Domenica a Pontida lei è stato fischiato. Le ha dato fastidio?
«Sì, ma non per me. Per la Lega. I contestatori erano poche decine su migliaia di partecipanti. Ma sapevano benissimo che avrebbero ottenuto l’effetto di far parlare i media di una Lega spaccata. Hanno deliberatamente danneggiato il movimento».
Bossi le ha dato del «fascista». Vi siete sentiti dopo le ruggini di questi giorni?
«No. Ma Bossi non lo sento abitualmente».
Vedremo in futuro Tosi fuori dalla Lega e Renzi fuori dal Pd? Insieme in un nuovo soggetto politico?
«Se intende una specie di partito dei sindaci, no. Ma secondo me la vera crescita ci sarà solo quando persone che stanno in partiti diversi si metteranno insieme. Non dico in una stessa formazione politica: è sufficiente collaborare per l’interesse comune restando ciascuno nel proprio partito. Bisogna superare la contrapposizione sterile che c’è stata negli ultimi decenni».
Occorrerà una nuova classe dirigente?
«Certo. Renzi nel Pd, e non più Berlusconi nel centrodestra. Solo a quel punto si potranno fare le riforme fondamentali di cui l’Italia ha bisogno».
Che cosa pensa di Grillo?
«Che è una persona di grande intelligenza. E che è riuscito a massimizzare una posizione di opportunismo. Non lo dico in senso offensivo. Grillo è l’indicatore di quanto la politica abbia sbagliato. Però rappresenta solo la fase della distruzione. Non può costruire né programmare nulla. La sua posizione attuale lo dimostra. Sta dicendo di no a tutto. Il suo è un “no” a prescindere che non fa l’interesse del Paese».
E di quelli che hanno votato Grillo, che cosa pensa?
«Non li giudico negativamente. La gente ha tutto il diritto di essere incazzata. E di dare la colpa alla vecchia politica».
Si farà un governo?
«Sarebbe sciagurato non farlo. E quindi credo che alla fine lo si farà. Anche all’interno del Pd si convinceranno. Si è già perso troppo tempo».
Dipendesse da lei che governo si farebbe?
«Ah c’è poco da scegliere. Per fare un governo ci vogliono i numeri. E siccome Grillo non ci sta, l’unico governo possibile è Pd-Pdl».
Secondo lei gli elettori di sinistra e destra lo accetterebbero?
«Lo accetterebbero tutti. La gente vuole un governo che faccia le cose che servono al Paese in questo momento».
Voi della Lega come vi comportereste?
«Sulle cose utili non ci metteremmo certo di traverso».
Tosi, vista dal Veneto, com’è la crisi?
«Ci sono delle differenze. Le realtà turistiche stanno un po’ meno peggio. Le aree manifatturiere come il Nord-Est sono nei guai neri».
È questa la gente che se ne infischia degli schieramenti e vuole un governo?
«Sì, è gente che lavora e paga le tasse, gente che ha conosciuto il benessere e non vuole perderlo per colpa della politica. Gente che ha un grande senso pratico e che, per fortuna, nonostante tutto conserva ancora ottimismo».

La Stampa 11.4.13
Il guru Casaleggio a colloquio con l’ambasciatore Usa


Faccia a faccia, ieri pomeriggio, tra il guru del M5S e l’ambasciatore Usa. David Thorne ha ricevuto Gianroberto Casaleggio presso la sede dell’ambasciata americana in via Giulia, per un incontro riservato che segue a poca distanza il colloquio ufficiale avuto con la delegazione grillina. Neanche dieci giorni fa erano stati i capogruppo stellati di Camera e Senato, Lombardi e Crimi, a guidare la delegazione grillina all’appuntamento con l’ambasciatore. Incontro anticipato da non poche polemiche, dopo l’uscita dello stesso Thorne che a un gruppo di liceali romani aveva indicato il M5s come modello per «riforme» e «cambiamento».

La Stampa 11.4.13
E il guru a Torino vede gli imprenditori “Lui ci sa ascoltare”
E per il Quirinale lanceremo il nome di Giorgio Armani
Lunedì incontrerà un centinaio di aziende
di Jacopo Iacoboni


Mentre a Grillo è affidato il ruolo rumoroso di frontman, Casaleggio lavora, in silenzio, pragmatico, con la media impresa. La Stampa è in grado di anticipare che lunedì pomeriggio, alla Gam di Torino, si replicherà quello che è già avvenuto a Treviso in campagna elettorale. E un po’ del pacchetto degli imprenditori che ci sono dietro.
Si tratta di un incontro con centoventi imprenditori del Nord Ovest, organizzato da Confapri, il network di imprese messo su da Arturo Artom e Massimo Colomban. Dopo Treviso c’era stata una colazione milanese (al Bagutta), il 4 aprile, nella quale si sono seduti a tavola Artom, Casaleggio e altri sette imprenditori, alcuni dei quali saranno anche a Torino.
Racconta Artom che «la nostra idea è sottoporre a Casaleggio, tra i pochi capaci di ascoltare, un pacchetto di idee sulle quali c’è consonanza». Cose come il taglio del 25 per cento - subito dell’Irap, in attesa di poterla abolire completamente. O come l’abbattimento dell’Imu sui capannoni industriali. Dice Artom che «lanceremo anche la provocazione di un presidente della Repubblica imprenditore. Uno come Giorgio Armani sarebbe perfetto».
Naturalmente i Cinque stelle il loro candidato lo scelgono on line (oggi iniziano le votazioni), e su questo Casaleggio poco può fare. Ma sul resto la disponibilità è notevole. E in effetti i profili degli imprenditori che stanno partecipando a queste riunioni (tutte a porte chiuse) sono interessanti. Si tratta di fatturati rilevanti, ma anche di tipi di aziende che lavorano su eccellenze italiane. Gente come Silvio Santambrogio, presidente di Trep&Trepiù, leader nel design: «Casaleggio è stato uno dei pochi leader venuti ad ascoltarci. Lui arriva con un foglio, prende appunti, spiega le sue idee. A Milano mi colpì la prima cosa che disse, “primo nostro punto: noi crediamo nel made in Italy, e nella necessità di rilanciarlo, faremo una certificazione e incentivi veri”. Avrei voluto abbracciarlo». Sostiene Santambrogio che «Casaleggiosembra molto diverso da un politico. Ascolta. E ha idee legate a una visione culturale dell’industria, innovazione, turismo»...
E allora design, made in Italy, gusto, tech, l’e-commerce (questo fondamentale, davvero). A Milano c’era Niccolò Branca, erede della storica famiglia che produce liquori. C’era Elio Radice, general manager di Tech Value, altra società leader, nel settore Technology. C’era il brianzolo Franco Molteni, che a Gallarate ha messo su un network molto vivace, la rete piccoli imprenditori. C’era naturalmente Massimo Colomban, il presidente di Confapri che Artom sogna al Colle («sarebbe perfetto»), il quale osserva «ci aspettiamo molto dai nuovi gruppi che non hanno forme mentali precostituite, lobby politiche, industriali, finanziarie da difendere. Casaleggio è una delle figure più interessanti». Si avvicinano imprenditori come Luigi Capello, startupper e business angel, un fondo di private equity da 110 milioni; Andrea Malagoli, direttore generale di Ima, che produce macchine industriali e fa design; Roberto Iseppi, presidente di Interpump di Nonantola, azienda idraulica. Antonella Nonino, erede dei grandi produttori di grappa, è in buoni rapporti con Grillo: «Noi non abbiamo leggi a tutela del nostro patrimonio enogastronomico. La grappa, a differenza del whisky e del cognac, e persino dell’ouzo greco, non ha regolamentazione di produzione». Insomma, col folklore non si capisce una faccia decisiva del movimento.

l’Unità 11.4.13
M5S balla da solo «Colle, niente intese»
di Claudia Fusani


Vanno per la loro strada. Anche per il Presidente della Repubblica. Chi li ama li segua. Si fa a modo loro. Chi ci sta, è benvenuto. Nessun accordo, neppure sul candidato alla Presidenza della Repubblica, tra i Cinque stelle e il resto del mondo. Smentite con pernacchie le ricostruzioni circa una possibile convergenza dal quarto voto in poi (a maggioranza assoluta) su Romano Prodi che pure vanta un rapporto diretto, e dai tempi in cui era premier, con Grillo. È prassi che poi in aula quel giorno i giochi sono quasi sempre altri che i partiti in Parlamento provino a trovare un accordo sul nome del nuovo inquilino del Colle. Questa volta più che mai visto che, nella paralisi del dopo voto, è auspicabile che il nuovo Presidente sia largamente condiviso.
Nulla da fare. Lo dicono i capigruppo Lombardi e Crimi che spiegano che incontreranno, s’intende per cortesia istituzionale, Bersani ed altri ma solo per spiegare cosa faranno loro. Poi, a modo suo, lo spiega Grillo in un post di metà pomeriggio sul suo blog. S’intitola «Inciucio a porte chiuse» e racconta che «Berlusconi e Bersani si sono incontrati in un luogo segreto, lontano da webcam, telecamere e giornalisti e hanno deciso il loro candidato al Colle. Il nome del candidato Cinque stelle non sarà scelto nelle segrete stanze ma votato dalla base degli elettori». A parte che Berlusconi e Bersani non hanno deciso alcunché, sull’assenza di webcam verrebbe da ricordare al leader grillino che venerdì scorso ha messo in piedi un incontro a porte chiuse che sapeva di conclave con tanto di depistaggi.
Chiuse per l’ennesima volta tutte le porte, il popolo Cinquestelle da oggi e per tre giorni sceglierà il suo candidato al Colle. Qualcuno le chiama «presidenziarie», i criteri sono quelli della parlamentarie (quando furono selezionati i candidati per le politiche), il motore della macchina molto più forte. Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, assicura: «Il software per il voto è stato potenziato e migliorato per evitare gli inconvenienti dell’altra volta e garantire più accesso al voto». Se alle parlamentarie si espressero centomila persone scarse (cosa che ha gettato parecchie ombre sulla selezione dei candidati al Parlamento), «questa volta potranno votare il quadruplo dei militanti». Gli aventi diritto sono chi si è iscritto al Movimento entro il 31 dicembre 2012 e ha inviato un documento di identità digitalizzato entro il 30 marzo scorso. La selezione del Presidente avviene in due tempi. Da stamani fino a sabato sera (ogni giorno dalla 10 alle 21) ci sarà il primo round da cui verrà fuori una rosa di dieci nomi. «In totale assenza di indicazioni e mediazioni dal vertice» assicura Di Maio, «è la pratica della democrazia diretta».
Il secondo tempo avverrà il 16 aprile, due giorni prima della convocazione delle Camere (il 18) e dopo la verifica dei vari requisiti. Sempre via web, i dieci nomi più votati andranno al ballottaggio per indicarne uno solo. «Che sarà quello che tutti noi voteremo in aula» dice Di Maio, «e che ci auguriamo possa essere votato anche da altri». Agli scettici si fa sapere che «una società esterna certificherà tutto il processo elettorale». Il che, se lo rende immune da imposizioni dall’alto e hackeraggi, non fa altrettanto circa il rischio che la base degli elettori possano indicare un nome provocatorio. Nell’ottica, mai rinnegata dai Cinque stelle, della distruzione dei simboli dell’attuale sistema politico.
È il mistero più profondo quello dei nomi dei candidati M5s. «È auspicabile che venga indicato dal web anche quello del premier» aggiunge Di Maio. Ma sa già che non sarà così. Il candidato premier, la cui identità Grillo e Casaleggio tengono ben nascosta ma che già sanno, sarà svelato solo se e quando il nuovo presidente della Repubblica si mostrerà disponibile a prendere in esame l’incarico ai Cinque Stelle.
A proposito di Quirinale, ieri Grillo ha ingaggiato un nuovo match con Napolitano. Per qualche motivo il comico si è sentito chiamato in causa nel discorso per la commemorazione di Gerardo Chiaromonte. Il destinatario di quel j’accuse sulle «campagne moralizzatrici che si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica». Ci ha pensato su un paio di giorni. Poi Grillo ha scritto, sempre sul blog, circa il «Moralismo fanatico».
«Dopo varie riflessioni si legge sono arrivato alla certezza che il nostro Presidente si riferisse al M5S e di questo lo ringrazio. Siamo noi infatti che vogliamo moralizzare la vita pubblica senza compromessi. Quale miglior viatico e complimento... Grazie Presidente, l’assicuro che non la deluderemo. La sua benedizione ci dà conforto». Tra l’offeso e l’arrabbiato, Grillo si censura nel sarcasmo.

l’Unità 11.4.13
I grillini toscani: soldi sprecati i viaggi ad Auschwitz
di Toni Jop


Il caso in Val d’Elsa: l’intenzione è di tagliare i 64mila euro destinati ai viaggi della Memoria per salvare le sedi distaccate del tribunale
Il Movimento 5S – scriveva ieri Grillo sul suo blog commentando il richiamo di Napolitano – porterà all’eccesso la moralità in politica». Bene, si attende, pur diffidando di chi predica e pratica eccessi in campo morale. Perché fin qui si è visto poco. Al volo: dovevano mostrare le stimmate della povertà i nuovi parlamentari dei Cinque Stelle ma a ora guadagnano oltre undicimila euro al mese perché, dicono, «Roma è troppo cara» e, anche, «perché noi li usiamo quei soldi». Umano. Meno umano è giurare che agli altri non servano e su questa scommessa accendere i roghi. Ruggini d’avvio.
Al contrario, eccoci prendere atto del nuovo che avanza, spinto dal vento di questa intransigente etica, dalle parti di Firenze: qui, non ci si può sbagliare, i grillini volano altissimi. Nella zona che va sotto il nome di «Empolese-Val d’Elsa», in questi giorni stanno affrontando una questione di grande rilevanza: come salvare dal macero imposto dai tempi duri le sedi staccate del tribunale e del giudice di pace. Le risposte non possono che poggiare su un dispositivo, sempre lo stesso: tagliare da qualche altra parte e tenersi quegli uffici. Ecco, allora, i militanti di Grillo distribuire dei volantini in cui, con il consueto spirito pratico, mostrano come si possa responsabilmente operare dei tagli nell’inutile, o nel poco utile, a vantaggio del «bimbo» da salvare.
Tra le voci ce n’è una destinata a impostare la nuova bellissima giurisprudenza moralmente eccessiva dei Cinque Stelle: è quella dedicata dall’Unione dei Comuni del circondario ai viaggi della Memoria. Vogliono, cioè, tagliare quei 64.500 euro che ogni anno vengono investiti per far sì che gli studenti della zona tocchino con mano i forni crematori, i lager nazisti. Il bello è che questa voce viene riferita, nei fatti, a una generica attività ricreativa in cui governano assieme il piacere e l’opinabilità. Se questo viaggio ricade, grazie a quel volantino, in questa sfera, vuol dire che allo sguardo responsabile della catalogazione sfugge del tutto il ruolo formativo, necessario, di una esperienza simile.
In questa «sentenza» che condanna l’«allegria» inutilmente costosa di una gita ad Auschwitz si rintraccia la stessa curva paradossale con cui i leghisti obiettarono ai ragazzi tunisini che affollavano Lampedusa – ricordate? la nascosta intenzione di aver espatriato per fare i fighetti nei dancing tricolore.
Rossana Mori, sindaco di Montelupo Fiorentino e delegata dal Circondario alla Memoria, dice di essere preoccupata. Ricorda che un centinaio di cittadini furono deportati dalla zona nei lager da cui, salvo eccezioni, non tornarono più. E non perché vi si trovassero bene. Rossana Mori annota che oggi si assiste a un rigurgito del nazifascismo nonostante i Comuni della zona siano tutti responsabilmente fondati sui valori dell’antifascismo. Lamenta, infine, che il Movimento Cinque Stelle non dimostri sensibilità nei confronti di questa cultura.
Starà in questa sensibilità alternativa la radice della moralità spinta all’eccesso sbandierata da Grillo? Adesso, il nostro uomo si preoccupa di rinverdire la tesi secondo cui è lui l’unico argine rispetto al nazismo old-style di Alba Dorata; ma nessuno dimentica – colpevolmente? come nei mesi scorsi, davanti a un gruppo di militanti di Casa Pound abbia preferito smitizzare l’anti-fascismo dicendo che a lui questa particolare piega dell'animo «non compete».
Più o meno come aveva avuto modo di ribadire, prima di correggersi con un certo ritardo, perfino Berlusconi. Anzi, ai ragazzi che stimano Mussolini Grillo strizzò l’occhio. Un momento: non c’è solo lui su questa spiaggia desolata, c’è anche Roberta Lombardi, non una qualunque, la capogruppo dei Cinque Stelle alla Camera.
Suo il lusinghiero giudizio sui primi anni del fascismo, secondo lei ricchi di spunti positivi; aveva parlato di fascismo «buono» dotato di «altissimo senso dello Stato» e di attenzioni alla «tutela della famiglia». È qui che li porta quella morale d’acciaio destinata a fare a pezzi i cadaveri putrefatti della sinistra, del Parlamento, dei sindacati?

l’Unità 11.4.13
L’inganno legge elettorale. Ai 5 Stelle piace il Porcellum
Preferenze o Mattarellum? La confusione dei grillini sulla riforma nasconde la volontà di lasciare tutto com’è
di Andrea Carugati


Nel caos a 5 stelle di questi giorni, tra scampagnate fuori Roma e occupazioni delle aule parlamentari, c’è un tema che più di ogni altro appare e scompare, e viene utilizzato più come arma contundente contro gli altri partiti che come reale proposta politica. Si tratta della nuova legge elettorale. Del Porcellum, naturalmente, Grillo tutto il male possibile, ne fa addirittura motivo di delegittimazione del Parlamento «pieno di nominati». «I partiti hanno occupato il Parlamento con delle sagome di cartone», ha tuonato martedì il Capo dal suo blog.
Davanti a tutta questa furia, in parte legittima, contro gli attuali meccanismo elettorali, cosa propone in cambio il partito di Grillo? Innanzitutto è difficile capire se la riforma della legge elettorale sia o meno una priorità. Anche su questo, infatti, si è assisitito a un balletto tra i due capiguppo Roberta Lombardi e Vito Crimi. La prima lunedì in conferenza stampa ha spiegato che «questa è una delle prime leggi che vorremmo affrontare se partisse il lavoro delle Commissioni». Nella stessa conferenza stampa, pochi minuti dopo, Crimi l’ha smentita: «La priorità del Paese non è la legge elettorale. Anche la commissione Agricoltura avrebbe temi importanti, come gli Ogm, da affrontare».
Ma è quando si entra nel merito dei sistemi elettorali che la confusione diventa dilagante. Nel 2007, infatti, dal primo V day di Bologna partì una proposta di legge popolare dal nome «Parlamento pulito» che si poneva alcuni obiettivi: tra questi il limite di due mandati per i parlamentari, l’ineleggibilità per chi ha condanne definitive per reati non colposi o con pena detentiva superiore a 10 mesi e 20 giorni per reati colposi. Infine, la proposta grillina mirava a reintrodurre una preferenza per le elezioni di Camera e Senato. La ragione era semplice: con le preferenza i 5 stelle volevano rompere quel meccanismo del Porcellum che consente «ai più fedeli al partito di monopolizzare i seggi parlamentari, bloccando un benefico ricambio di persone e di idee».
Dopo le elezioni, il primo a parlare di legge elettorale è stato l’ideologo Paolo Becchi, che ha proposto il ritorno al Mattarellum. Un concetto sposato alcuni giorni dopo (il 29 marzo) da Grillo che ha auspicato «un ritorno immediato alla legge elettorale precedente». «Sarebbe un segnale, un modo per essere un Paese normale». Come è noto, il Matterellum è un sistema per il 75% con collegi uninominali maggioritari e per il 25% proporzionale con liste bloccate. Quanto di più lontano, dunque, da un proporzionale con preferenze. Il 5 aprile però Crimi sembra già aver scordato la svolta di maggioritaria di Becchi e Grillo e ribadisce la linea delle origini: «Anche se il Parlamento è paralizzato, il M5S sta già lavorando e abbiamo cominciato a ragionare di legge elettorale». Quale modello? «Limite dei due mandati, incandidabilità dei condannati e preferenze».
Niente più maggioritario, dunque.
E pensare che il 3 aprile alcuni deputati a 5 stelle si erano congratulati con il capogruppo di Sel alla Camera Gennaro Migliore, che aveva presentato una proposta di legge proprio per tornare al maggioritario nato dai referendum del 1993.
Di fronte all’emergere dei dissidenti grillini, Crimi ha poi tirato fuori dal cassetto anche un’altra proposta: «Il M5S vuole cambiare la legge elettorale introducendo il “sistema del recall”, ossia la possibilità di sfiduciare l'eletto qualora non adempia al suo mandato», ha spiegato il 5 aprile. « È un sistema adottato in altri paesi, soprattutto come deterrente. È un faro puntato sull'eletto, in modo che porti a compimento il programma per cui è stato votato».
Una riforma piuttosto complicata, quest’ultima. Anche perché cozza con l’articolo 67 della Costituzione, che appunto nega «vincoli di mandato» per i parlamentari. E non è un caso che subito dopo il voto Grillo si sia scagliato proprio contro l’articolo 67, parlando di «circonvenzione di elettore» e spiegando che proprio quell’articolo impedisce che i voltagabbana siano «perseguiti penalmente e cacciati a calci dalla Camera e dal Senato».
Tra le tante contraddizioni, una riguarda in particolare le preferenze. Subito dopo le elezioni, infatti, una senatrice grillina della Brianza, Giovanna Mangili, è stata indotta alle dimissioni da una pioggia di attacchi che le sono arrivati dei meet up a 5 stelle. L’accusa? Avere vinto alle parlamentarie a 5 stelle grazie all’aiuto del marito Walter Mio, consigliere comunale a Cesano Maderno, che l’avrebbe aiutata proprio a raccogliere preferenze. Mangili è stata accusata di «inciuci», «cordate» e «parentopoli».
CAPO D’ACCUSA
Il capo d’accusa principale è stato proprio l’aver raccolto troppe preferenze rispetto alla sua breve militanza grillina, circa 230, ma sufficienti per scavalcare come capolista in Senato Vito Crimi. Ma come? Non dovevano essere le preferenze ad avvicinare elettori ed eletti e ad evitare i nominati? Fatto sta che Crimi, meno votato dalla base ma uomo molto stimato da Casaleggio, ora è capogruppo. La Mangili invece si è dimessa a furor di popolo perché aveva raccolto i voti. Non grazie a qualche legame con la ndrangheta, ma con l’aiuto del marito.

La Stampa 11.4.13
Casaleggio striglia la Lombardi: “Parli troppo con i deputati”
Il “richiamo” in una mail inviata dalla capogruppo ai colleghi
di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 11.4.13
Rifondazione
I comunisti a lezione “per capire i 5 Stelle”
di Francesco Grignetti


Il titolo dell’incontro non lascia dubbi: «Capire per rifondare il comunismo e la sinistra. Seminario su Grillo e il Movimento 5 Stelle». Proprio così. I comunisti, nel senso del partito della Rifondazione comunista, quello di Paolo Ferrero, sabato prossimo si chiude a conclave e per l’intero giorno studia il successo di Beppe Grillo. I suoi trucchi mediatici. Le parole d’ordine. In una parola: il trionfo di un movimento che ai comunisti ha soffiato un certo numero di parole d’ordine e li ha lasciati al palo (elettorale).
Il seminario su Grillo e il grillismo l’ha voluto Ferrero.
Dice, un po’ scherzando, un po’ serio: «Sa, i comunisti quando sono sconfitti non maledicono il fato, ma si impegnano a studiare. È evidente che il M5S è un fenomeno enorme che merita di essere analizzato».
Invidioso? Ferrero non si sottrae alla domanda. «Certo. Ma anche desideroso di capire in vista del futuro. Ci dobbiamo porre delle domande. Com’è possibile che in Italia ci sia un così grande disagio sociale, ma nessuna lotta? Contro le politiche liberiste alla Monti, a differenza del resto d’Europa, non c’è stato nemmeno un giorno di sciopero generale. Con questo, e altri seminari, insomma, vogliamo capire meglio l’Italia».
Inutile dire che Grillo, che ha cannibalizzato la sinistra estrema, è l’incubo di Ferrero. E per forza. Nell’unica elezione che vede smottare i partiti tradizionali dopo decenni, i grillini intercettano 8 milioni di voti incazzati e i comunisti nulla. Perciò hanno chiamato al capezzale del partito un nutrito gruppo di ricercatori che gli spieghino il fenomeno nuovo. Alcuni di questi studiosi sono programmaticamente contro, altri no. Roberto Biorcio, che insegna Scienza della politica presso l’Università di Milano-Bicocca, ed era ritenuto lo studioso migliore del leghismo, ha appena pubblicato «Politica a 5 stelle», con Feltrinelli, che non è affatto un saggio antipatizzante. Diversamente da Carlo Formenti, che nei suoi primi libri era partito da un inno alla Rete come spazio di libertà e ora al seminario di Rifondazione parlerà di «5 Stelle e il mito della cyberdemocrazia».
Ferrero spera: «Non mi interessa demonizzare, ma capire. Il mio obiettivo è che il disagio sociale, anziché restare con Grillo, venga qui».

La Stampa 11.4.13
Prodi al Colle. La mossa di Grillo anti-Cavaliere
di Marcello Sorgi


Andiamoci piano, a dire che la testa di Prodi é già caduta prima che la corsa al Quirinale abbia inizio. Se davvero nell’incontro tra Bersani e Berlusconi non si sono fatti nomi, e s’è discusso solo del metodo per arrivare a una soluzione condivisa, non é chiaro come si sarebbe potuti arrivare all’esclusione di uno dei candidati più forti. Né si capisce come l’asse mai nato tra il leader del centrodestra e quello del centrosinistra, che avrebbe dovuto consentire la nascita del governo Bersani, dovrebbe poi risorgere sulla strada per il Colle. Ancora, l’illusione che Grillo anche stavolta voglia tenersi fuori dalla partita, rivendicando la purezza del suo movimento, s’è infranta proprio sulla scelta che il leader di M5S ha comunicato quasi contemporaneamente al faccia a faccia tra i due «non vincitori» del 25 febbraio. A sorpresa, l’excomico, che aveva già lasciato trasparire in un blog questa sua simpatia, ha detto che é pronto a votare Prodi presidente se anche il centrosinistra lo farà.
In un quadro in cui si misurano, su ogni candidato, i veti prima che i consensi, questo fa dell’ex-presidente del consiglio l’unico ad avere, almeno sulla carta, una larga maggioranza. E se é vero, come dicono alcuni nel Pd, che di Grillo non c’é da fidarsi, dopo aver visto come si é comportato nei primi quaranta giorni della legislatura e durante il tentativo di Bersani, é anche vero che di fronte a un’offerta del genere difficilmente il Pd potrà evitare di andare a vedere. Tenuto conto, tra l’altro, che il leader democratico ha annunciato anche a Berlusconi l’intenzione di concludere il suo primo giro di trattative con la Lega e appunto il M5S.
Il precedente della seduta in streaming con i due capigruppo Crimi e Lombardi durante le consultazioni pesa ancora negativamente sullo stato dei rapporti tra Pd e Cinque Stelle. L’umiliazione in diretta del leader preincaricato, che ha continuato a girare sul web, ha segnato una svolta negativa, che ha condizionato anche il successivo scontro sulle commissioni concluso con l’occupazione delle aule parlamentari da parte dei grillini. Molto dipenderà, dunque, dall’atteggiamento di Grillo in prima persona. E dalla sua volontà, che giorno dopo giorno si manifesta più forte, di infliggere una batosta anche a Berlusconi, dopo quella scaricata sulla testa di Bersani. Questo spiega perché, al di là del clima civile, e a qualche tratto leggero, dell’incontro di martedì, il Cavaliere sia sempre più guardingo, nel timore che i giochi per il Colle alla fine si compiano alle sue spalle.

Repubblica 11.4.13
Il grillo mutante
di Piero Ottone


Tanti anni fa, forse una trentina, ho incontrato Beppe Grillo, ho trascorso con lui una serata. Una grande società editoriale aveva organizzato un convegno dei suoi dirigenti, convocandoli per un paio di giorni in un albergo fuori città, e la sera aveva invitato Grillo a intrattenersi con loro, presumibilmente al termine di discussioni impegnative e noiose, per diffondere un po’ di buon umore. Io ero della partita. Lui fece un’ottima impressione. Non solo perché raccontava bene, con garbo e intelligenza: ma perché aveva il senso della misura. Faceva parte del gioco che prendesse in giro qualcuno di noi: non eccedeva mai. Dopo di allora non ho avuto occasione di incontrarlo, sebbene lui sia genovese come me: che abbia casa sopra Nervi, sulla strada di Sant’Ilario, l’ho scoperto solo adesso. Ma la buona impressione dell’incontro ha resistito, attraverso gli anni.
Certamente è cambiato, da allora. Che cosa lo ha fatto cambiare? All’origine della sua fase attuale c’è, ovviamente, l’amarezza, diciamo pure la rabbia, inevitabile di fronte a una scena politica disastrosa, quale la nostra: l’inettitudine, la stupidità, soprattutto la corruzione. Difficile conservare il sangue freddo di fronte a certi spettacoli, da un capo all’altro della penisola. Ma se bastasse il basso livello degli uomini politici per scatenare un movimento popolare di rivolta, in Italia dovremmo essere in subbuglio da mattina a sera attraverso gli anni, e i capipopolo in ebollizione sarebbero centomila. Invece ce n’è un numero limitato: l’Uomo qualunque dopo la guerra (io me lo ricordo, ero già in circolazione), magari un po’ di Bossi, Beppe Grillo adesso. Per capire la fase attuale di Grillo bisogna dunque mettere in conto, oltre all’effetto negativo della classe politica su tutti noi, una buona dose di protagonismo: il suo protagonismo, intendo dire. Il che è perfettamente normale: tutti coloro che si sentono attratti dalla politica, e partecipano ai suoi giochi, di protagonismo sono affetti, più o meno. Il che significa che amano mettersi in vista, essere al centro dell’attenzione, avere un seguito, diventare capi. Tanto più lo vogliono quelli che, invece di fare politica dietro le quinte, scendono in piazza e arringano la folla. La psiche del condottiero, buono o cattivo che sia, benefico o malefico, è stata spiegata in mille modi, e Beppe Grillo, in questi ultimi mesi, è entrato nella categoria.
Rabbia per il malgoverno, dunque, e un protagonismo che spinge a scendere in campo per porvi rimedio, fra gli applausi. È però difficile, con questi pochi cenni, spiegare il cambiamento di indole nel personaggio in questione. Per gran parte della sua vita si direbbe che Grillo, quale appariva in pubblico, sia stato spiritoso e gentile. Nella sua nuova veste ha rivelato invece un’animosità, un’acredine, una rabbia irrefrenabile. Irriconoscibile il Grillo di adesso, una furia scatenata, un mastino, rispetto a quel signore bene educato e gentile che veniva fra noi, trent’anni fa. Che cosa ha provocato la metamorfosi? Che cosa lo ha spinto alla ribellione, alla rabbia? Non sono, queste, domande oziose: perché la risposta ci aiuterebbe a capire quali saranno gli sbocchi di un movimento che attualmente blocca la vita nazionale. Che cosa vuole, in definitiva, il nostro personaggio?
Queste domande partono da una premessa: che vi sia ancora una certa logica in quel che sta accadendo oggi in Italia. Può anche darsi, purtroppo, che di logico, cioè di spiegabile, non ci sia proprio nulla. Che tutto sia dovuto al caso. Ma questo sarebbe un guaio. Sarebbe il segno di un’incipiente disintegrazione.

Repubblica 11.4.13
Come il “capo” riesce a sorvegliare i suoi seguaci
Se Grillo emana un cono di luce
La visibilità permanente, l’obbligo di dire tutto è il meccanismo attraverso il quale la base entra in contatto con il leader
ma anche lo stesso che consente al vertice un controllo strettissimo dei militanti
di Giuliano Santoro


Con parole d’ordine come “A riveder le stelle” o “Usciamo dal buio” l’universo simbolico del Movimento 5 Stelle ha a che fare con la “trasparenza” in senso letterale. È “trasparente”, dicono i dizionari della lingua italiana, ciò che può essere attraversato dalla luce. Nelle narrazioni pentastellate Beppe Grillo appare come colui che porta la luce dalla quale farsi attraversare. La relazione, acutamente descritta da Furio Jesi, tra la cultura di destra delle “idee senza parole” teorizzate da Oswald Spengler e il linguaggio irrazionale della pubblicità fa capolino anche nei tormentoni dei 5 Stelle, che spesso hanno a che fare con la capacità di “vederci meglio”, il bisogno di “fare chiarezza”, la necessità di “aprire gli occhi”. Del resto, i due colori del brand del MoVimento, il giallo e il bianco, evocano proprio raggi di sole, immagini di luminosità e – appunto – contesti di assoluta “trasparenza”.
Tra le figure topiche dell’ideologia grillista c’è il fuoco elettronico dello schermo dei nostri monitor che arde di luminosità, un mass media che Grillo e Casaleggio sono riusciti a trasformare da strumento reticolare a Televisione 2.0, raccogliendo al tempo stesso l’eredità culturale di Berlusconi e il consenso degli entusiasti digitali dell’ultim’ora formatisi sulla vetrina esistenziale di Facebook. E poi c’è l’immagine di naturale lucentezza delle acque, nelle quali il Capo si è immerso per arrivare da un capo all’altro dello Stretto di Messina alla vigilia della campagna d’autunno che ha anticipato lo tsunami delle elezioni politiche.
La retorica della “trasparenza”, con il corollario della visibilità permanente e degli streaming che si accendono e si spengono in base alle convenienze del momento, si rivolge ad una congrega di corpi atomizzati destinati in caso di epurazione a spegnersi velocemente. Grillo parla ad una federazione di soggetti deboli che vive con l’incubo di tornare nell’ombra, uscendo dal cono di luce di cui il Capo è portatore e dalla quale i “trasparenti” si fanno attraversare.
Dunque, la trasparenza nel Movimento 5 Stelle è soprattutto il meccanismo attraverso il quale la base entra in relazione con il suo leader, uomo visibile per eccellenza in quanto personaggio televisivo. La prima infrastruttura in rete del Movimento 5 Stelle era costituita dai nodi degli “Amici di Beppe Grillo”, nuclei locali di fan che trovavano ragion d’essere nella partecipazione agli spettacoli e nella pratica delle campagne del loro beniamino. Vanni Codeluppi ha studiato la “vetrinizzazione del sociale” e descritto i fan come persone che ambiscono ad andare dietro le quinte e che rivendicano di avere un rapporto diretto e trasparente con il personaggio che ammirano.
Il disciplinamento, ha spiegato Michel Foucault, si basa proprio sulla trasparenza, cioè sull’obbligo di dire tutto. Questo imperativo non riguarda il Capo, che da consumato attore saltella tra la vita reale e quella recitata per non essere trasparente ma che ostenta davanti ai suoi seguaci il potere di svelare, cioè di rendere trasparente. Solo tredici mesi fa, ad esempio, nel mezzo del dibattito sulle sorti del Movimento 5 Stelle, Grillo dimostrò il suo controllo capillare pubblicando sul suo sito e organo de facto del partito una conversazione privata tra attivisti colpevoli di esprimere dubbi sulla direzione di marcia. In nome della “trasparenza”, dunque il comico fece sfoggio del suo potere e mise alla berlina la debolezza di semplici attivisti colpevoli di aver promosso di un incontro nazionale del MoVimento. E di avere, appunto, chiesto trasparenza.

Repubblica 11.4.13
Streaming
Quando la trasparenza mette in crisi la politica
di Giancarlo Bosetti


Le nuove tecnologie audio-video hanno rivelato che vivere in un “villaggio di vetro” porta anche conseguenze negative
Guardare sempre “dietro la tenda” è un portato della modernità e dei media. Ma è un regalo parziale e pericoloso

La trasparenza, attraverso la spia di una videocamera, di un microfono, di un professionista, non fa miracolosamente più bella la vita politica e neanche la vita in generale. Non è una scoperta recente. Per cominciare, anche la più semplice delle “trasparenze” non è innocente e ha bisogno di una regia: dove la metti la telecamera? un grandangolo sotto il muso? o un teleobiettivo per ridurre il doppio mento del politico? E poi c’è trasparenza e trasparenza, quella volontaria e quella involontaria.
La prima ha sempre bisogno di una messa in scena: anche il Movimento di Grillo adesso distingue con cura tra streaming ordinario e streaming “istituzionale”. Hanno nominato due diversi responsabili, il secondo dunque metterà la cravatta all’informazione e farà, si presume, post-produzione, taglia e cuci. Oculata decisione, ma non sarà anche una forma di controllo a distanza? Approfondendo la questione, ci sarebbe qui da notare che se vuoi lo streaming, crudo, degli altri e non quello in casa tua, se vuoi mandare in mondovisione i tuoi avversari che litigano e però secretare i tuoi amici che si scannano, sei una trasparente canaglia. Ma la propaganda di partito non è una novità e la sua storia infinita non comincia e non si ferma qui; ciascuno pro domo sua.
La seconda, la trasparenza involontaria, ha moltiplicato le sue vittime nell’epoca elettronica. È sempre capitato l’ascolto involontario di una conversazione, fatto a volte esplosivo che può rovinare un’amicizia o un matrimonio. Ma con le tecnologie audio-video si è capito subito che il famoso “villaggio globale” di McLuhan era potenzialmente un “villaggio di vetro”, il che non era solo una bella notizia: è di vetro anche il villaggio, dell’omonimo romanzo giallo di Ellery Queen, i cui abitanti desiderano fare a pezzi con le proprie mani un imputato di omicidio. Non è per caso che la trasparenza incrementi il rancore. Vedere quel che avviene di là dei muri produce disincanto e non solo, può intossicare l’ambiente, specialmente in un’epoca in cui alla televisione si sono aggiunti i “fuori onda”, le web tv, le intercettazioni ambientali e telefoniche, le registrazioni abusive, e non ultima, l’ondata dei wikileaks.
Tony Blair e George W. Bush hanno fatto le spese di un microfono aperto, nel luglio 2006, mentre parlavano, in tutto relax, con qualche volgarità, di Siria e Kofi Annan. Il primo ministro inglese fu umiliato dalle sue stesse parole: «Se Condi (Condoleeza Rice, allora Segretario di Stato americano) va in Medio Oriente deve ottenere risultati, io posso semplicemente andare e parlare». Non ne venne fuori una guerra (era già in corso), ma grande fu il danno al prestigio di Blair. In un’altra occasione, in casa nostra, fu un giornalista, sul Tempo, a carpire non visto le chiacchiere, in un caffè, tra gli ex “colonnelli” di Fini: Matteoli, La Russa e Gasparri si sfogavano sul loro leader: «È malato, non lo vedete? … se serve, prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo!... non possiamo far fare le trattative a Gianfranco. Non è capace… lui dice sempre di sì». Seguirono scuse, ma fu la fine di un sodalizio.
«Questa stanza non ha più pareti ma alberi infiniti…» (Gino Paoli) è un sentimento trascendente che funziona in una relazione amorosa, ma non giova sempre alle relazioni umane. Pareti e soffitti in muratura hanno una funzione preziosa, mettono limiti a quel che si può vedere, e questo non è affatto un male, dal momento che vengono più guai dal visibile che dall’invisibile (Oscar Wilde). Nella vita sociale gli individui si presentano diversamente nelle diverse situazioni, tenendole separate le une dalle altre. Il sociologo canadese Erving Goffman descrive l’interazione simbolica tra gli esseri umani come una messinscena teatrale: non c’è una condizione “assoluta”, siamo influenzati da dove siamo, dal quando, e da chi abbiamo accanto. Siamo sempre inevitabilmente “in scena”.
Il salto improvviso da una condizione all’altra mette disagio: è più tranquillizzante che il cliente del ristorante non veda tutto quel che accade e si dice in cucina, potrebbe esserne offeso. La mediazione cortese del cameriere ci fa sentire meglio. Un allievo americano di Goffman, Joshua Meyrowitz, ha analizzato le vastissime conseguenze sociali della abolizione delle “quinte” che i media elettronici hanno portato con sé. Guardare sempre “dietro la tenda” è un regalo della modernità, della democrazia, dei media, ma dobbiamo constatare che questo regalo è parziale: ci libera un po’ dalla condizione di pubblico escluso, ma influenza il nostro essere sociale in modi che non erano prevedibili. La mente si è formata, fin dai primi anni di vita, nella interazione sociale nella quale le separazioni nel tempo e nello spazio regolano il nostro giudizio su noi stessi e sugli altri, il linguaggio comunica simboli e significati in modo diverso nei diversi momenti della giornata, quelli dell’intimità, quelli del lavoro, quelli della vita pubblica. La distinzione tra il primo piano, lo spazio intermedio e il retroscena non funziona solo nella drammaturgia, ma anche nella vita ordinaria. Abbattere tutte le quinte è in certo senso disumano. (Oltre il senso del luogo, 1985) È sconsigliabile che un dirigente ascolti casualmente le conversazioni o legga le email di un gruppo di subordinati; dovrebbe sistematicamente evitarlo: certe disinvolture linguistiche potrebbero ferirlo, ma potrebbero indurlo a valutazioni fatalmente sbagliate, solo perché quelle parole sono tolte dal loro contesto.
E così è bene che il politico si impegni quando si rivolge agli elettori per averne il consenso in modo diverso da quello che impiega con il suo staff. Non è ipocrisia, è una regola della vita sociale. Anche gli elettori vogliono che vada in scena in modo appropriato e senza mettersi le dita nel naso. Agire e parlare sempre come se dovessimo essere un modello universale (secondo la massima kantiana) è una pretesa sovrumana. E certo le distanze vanno regolate e la legalità onorata. Scoprire dal registratore nell’ufficio ovale che Nixon aveva ordinato all’Fbi di sospendere le indagini sull’irruzione nel Watergate, servì a smascherare un abuso del potere. Ma smantellare ogni riservatezza nell’azione diplomatica, nella vita politica e nei nostri rapporti quotidiani può fare peggiore il mondo.

La Stampa 11.4.13
Al via la kermesse al teatro Regio
Boldrini inaugura Biennale Democrazia: “La politica gratis è un’utopia negativa”
La presidente della Camera fa visita ai profughi: “L’assistenza non basta”
di Beppe Minello e Elisabetta Graziani

qui,  e qui

Repubblica 11.4.13
E la Boldrini chiede di ridurre le spese per gli armamenti


TORINO — «Il dibattito sulla riduzione delle spese militari fino a ieri considerato ideologico oggi ha assunto la concretezza di un bivio: l'utopia di un mondo meno armato si è finalmente spogliata di ogni astrattezza per diventare stringente discussione su una possibile destinazione alternativa delle risorse pubbliche». Lo dice a Torino il presidente della Camera Laura Boldridni, per la quale i soldi degli armamenti andrebbero stornati sul sociale. La Boldrini afferma poi che «l’idea della politica gratis è un'utopia negativa, un modello che dobbiamo smettere di inseguire anche se conta su notevoli sostegni mediatici. Non mi convince nemmeno chi vorrebbe la politica finanziata solo da privati perché la buona politica sta nell’essere liberi da ogni condizionamento».

il Fatto 11.4.13
Lettera - appello. Contro l’inciucio
Cari parlamentari, non cedete a Napolitano
Ecco la lettera appello che gli intellettuali Paolo Flores d’Arcais e Barbara Spienlli hanno inviato ieri a parlamentari Pd, Sel e M5S


Cari parlamentari della coalizione Pd-Sel e del M5S, tira un’aria davvero brutta in Parlamento. Non certo per l’occupazione delle Camere decisa da 5 Stelle; non certo per la battaglia, legittima, che M5S e Sel conducono perché le Commissioni parlamentari comincino a lavorare. Tira un’aria brutta alle vostre spalle, e anche alle spalle nostre che siamo vostri elettori. Pensiamo ai conciliaboli tra i vecchi partiti, e all’atteggiamento passivo, rassegnato, comunque inconfessato, con cui gran parte del Pd si appresta ad accordarsi con Berlusconi: sulla nomina del capo dello Stato, sul governo, sulle politiche che un governo di inciucio adotterebbe. L’impressione che abbiamo è quella che assalì Ulisse, nella sua corsa verso la conoscenza del nuovo: il mare si richiuse sul suo folle volo, e fu silenzio.
Vi invitiamo a considerare che questo rinchiudersi delle acque avviene fuori dal Parlamento, senza che nessuno di voi venga consultato, sotto l’imperio e la pressione fortissima di Giorgio Napolitano. Il discorso che ha tenuto lunedì scorso, in memoria di Gerardo Chiaromonte, è una vera e propria apologia delle larghe intese, che confonde Berlusconi con Moro e trascura del tutto quanto è successo nelle ultime elezioni. Viene rievocato il compromesso storico che Berlinguer volle in anni difficili, di crisi economica e terrorismo, ma in realtà la figura di Berlinguer è seppellita una seconda volta: il congedo dal compromesso storico e la questione morale che Berlinguer pose nei primi anni 80, e che resta il suo storico titolo di merito, è definito dal capo dello Stato una “concitata chiusura”, un “arroccamento fuorviante”.
È sperabile che voi, parlamentari del Pd che magari avete vissuto quegli anni, vi ribelliate a questo perentorio, quasi bolscevico processo contro la parte storica migliore della sinistra italiana. Usiamo l’aggettivo bolscevico in piena coscienza: colpendo e mutilando storie e biografie di leader del passato, evocando epoche come quella terrorista, è il presente che viene deformato e forgiato a somiglianza del passato. L’equivalente odierno del terrorismo di allora sarebbe il Movimento Cinque Stelle, che dopo il naufragio del primo tentativo Bersani viene relegato, come le Br, a “degenerazione ultima dell'estremismo demagogico”: quasi a evitare che un secondo tentativo abbia a ripetersi. Lascia increduli la violenza con cui Napolitano mette una pietra tombale su “certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica”. M5S eversivo? Ma per favore! E il Pd tutto per le larghe intese? Un wishful thinking. Napolitano vuole dividervi sempre più. È invece necessaria una rottura di continuità, nella formazione del governo come nell’elezione del successore di Napolitano. Che solo voi, rifiutando il fatalismo con cui si sta precipitando nelle grandi intese, potete realizzare. C’è chi dice e ripete che questo baratro è il sogno segreto di Grillo, perché un ennesimo compromesso destra-sinistra (in che cosa sarà diverso dal governo Monti?) sarà respinto dagli elettori, dando le ali al suo Movimento. Ma Grillo stesso ha detto, fotografando con realismo la realtà, che gli italiani “prenderanno i bastoni” se il Pd tornerà all’inciucio col Pdl. Siamo certi che l’inciucio è rifiutato dal M5S, e che tanti fra voi parlamentari di Pd e Sel, non lo vogliono. Adesso dimostratelo, però.
Vi chiediamo solo di non cadere nel vizio italiano del conformismo. Non esitate, parlamentari di Pd-Sel, a proporre un candidato per il Colle che il M5S potrebbe approvare, e a Berlusconi farebbe venire le bolle. Non state a sentire chi tuona contro l’antipolitica. Ricordate quel che ne ha detto Gustavo Zagrebelsky: “Antipolitica è parola violenta e disonesta”. Non abbiate paura delle campagne moralizzatrici. L’Italia ne ha bisogno come di aria per respirare.

Repubblica 11.4.13
La legge elettorale
Pdl primo partito e maggioranza impossibile anche col Mattarellum governabilità a rischio
Simulazione data ai saggi: 259 deputati al Cavaliere, 235 al Pd, 108 a Grillo
di Sebastiano Messina


TITOLO: «Applicazione di un sistema elettorale misto (“Mattarellum”, 75 % maggioritario, 25 % proporzionale) sulla base dei risultati elettorali del 24-25 febbraio 2013». Una sola paginetta, una tabella ben impaginata, con una premessa doverosa e sottintesa: quando cambiano i sistemi elettorali cambiano anche i comportamenti dei partiti e degli elettori, quindi non è affatto detto che le cose sarebbero andate esattamente così.
Però, sia pure prendendola con le pinze, la simulazione ci consegna un risultato sorprendente: incassando gli stessi voti di sei settimane fa, non avrebbe vinto Bersani ma Berlusconi. Raccogliendo lo 0,4 per cento in meno della coalizione avversaria,
il centro-destra avrebbe conquistato la maggioranza relativa dei seggi a Montecitorio. Avrebbe vinto in 216 collegi uninominali e avrebbe ottenuto altri 43 seggi nella quota proporzionale. Totale, 259 deputati: più del doppio dei 125 seggi che il Pdl e i suoi alleati occupano oggi alla Camera. Ma soprattutto, 24 seggi in più del Pd, che si sarebbe fermato a 192 collegi uninominali e a 43 deputati nella quota proporzionale, totalizzando 235 onorevoli (e non gli attuali 345).
Dunque avrebbe vinto Berlusconi. Ma neanche lui, come oggi capita a Bersani, avrebbe avuto i numeri per formare il governo: con quei 259 seggi il centrodestra avrebbe potuto rivendicare la maggioranza relativa (e formare il gruppo più numeroso) ma non la maggioranza assoluta, la metà più uno degli eletti, quella che serve per ottenere la fiducia. Non solo, ma la presenza del terzo incomodo, il Movimento 5 Stelle, sarebbe stata assolutamente identica: 108 seggi ha oggi, 108 ne avrebbe ottenuti con il Mattarellum (vincendo in 65 collegi uninominali). Il vero perdente sarebbe stato Monti, che invece degli attuali 45 deputati ne avrebbe avuti appena 15, trionfando in un solo collegio uninominale: soltanto uno, su 474.
E’ una simulazione attendibile? Assolutamente sì. L’hanno preparata due studiosi che sono considerati tra i massimi esperti italiani dei meccanismi elettorali. Il primo è Antonio Agosta, oggi docente di Scienza della politica all’università di Roma Tre, già esperto elettorale del Viminale e membro della commissione che nel 1993 disegnò i confini dei collegi uninominali. L’altro è Nicola D’Amelio, docente di Tecniche di analisi elettorale a Roma Tre e direttore dell’Archivio storico delle elezioni al ministero dell’Interno. Con un lavoro certosino, i due studiosi hanno calato il voto degli italiani nei vecchi contenitori, quelli del Mattarellum: collegio per collegio, partito per partito. E ci consegnano un responso chiarissimo: con l’Italia ormai tripolarizzata, neanche il sistema che per tre volte fece nascere una maggioranza oggi riuscirebbe a garantire la governabilità.
Non solo: ma già che c’erano, Agosta e D’Amelio hanno voluto provare a vedere gli effetti dell’uninominale secco, all’inglese: senza quota proporzionale. E in questo caso alla premessa sulle simulazioni se ne aggiunge una sulla precisione: portare i collegi da 474 a 617 comporterebbe scelte discrezionali sulla ridefinizione dei confini di ciascun collegio che potrebbero riflettersi sui risultati. Dunque, per correttezza, hanno indicato per ciascuna coalizione un minimo e un massimo. E non è incoraggiante constatare che anche applicando il maggioritario più spinto che si conosca, nessuno si avvicinerebbe alla maggioranza assoluta: nell’ipotesi migliore (per lui) Berlusconi otterrebbe 300 deputati, 16 in meno di quelli necessari per governare.
In passato, certo, il Mattarellum ha funzionato. Ma i numeri erano assai diversi da quelli di oggi. Nel 1994 il centro-destra raggiunse il 46 per cento (e nonostante questo al Senato si fermò a 155 seggi, sotto la metà). Nel 1996 Prodi raccolse il 44,8 per cento (e alla Camera portò 319 deputati, che però non gli bastarono per evitare la sfiducia). E nel 2001 Berlusconi ottenne un’ampia maggioranza in entrambe le Camere, con il 45,5 per cento.
Ma oggi nessuno supera il 30 per cento, e il Mattarellum non basterebbe più a ridarci governabilità. E allora? «Io vedo solo due soluzioni» spiega Agosta. «La prima è quella di estendere al Senato il meccanismo del premio nazionale: ma per farlo occorrerebbe una modifica della Costituzione, visto che il Senato va eletto “su base regionale”. E non è neanche detto che funzionerebbe, considerato che le due Camere hanno elettorati diversi (per Montecitorio votano i 18-25 enni) che potrebbero anche esprimere due maggioranze diverse. La seconda, forse più lineare, sarebbe quella di differenziare i ruoli delle due Camere, lasciando solo a Montecitorio il potere di dare e revocare la fiducia al governo. Anche in questo caso sarebbe necessario mettere mano alla Costituzione, ma almeno il risultato sarebbe più limpido».

il Fatto 11.4.13
Cgil e Fiom, scontro sul ritorno in piazza
Con  Cisl e Uil preparano una manifestazione unitaria dopo tanto tempo
Crisi e lavoro le priorità
Preoccupazione nel sindacato per la distanza dagli iscritti e l’effetto del voto ai Cinque stelle che tra i lavoratori sono al 40%
di Salvatore Cannavò


Il sindacato vuole tornare in piazza dopo il lungo silenzio pre e post-elettorale. Lo fa, però, tra contrasti e difficoltà. L’iniziativa in gestazione in questi giorni, infatti, è quella di una manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil, probabilmente l’11 o il 18 maggio, che segue quelle già convocate il 16 aprile sotto il palazzo di Montecitorio e il 1 maggio a Perugia. L’ipotesi ha già preso forma la scorsa settimana nel corso di un incontro tra i tre segretari generali. Ora, si tratta di definirla nei particolari, nella piattaforma ma anche nelle modalità di piazza. Ed è su questo che in Cgil si sta consumando un contrasto, non ancora reso pubblico, tra la segreteria nazionale e la Fiom che il 18 maggio ha già convocato, e annunciato, la propria manifestazione nazionale con comizio finale a Piazza San Giovanni. Un corteo di quelli di una volta, insomma, che ha visto già l’adesione dell’importante categoria dei Pensionati e che forse ne riceverà altre significative. Quando, l’altro ieri, nel corso della riunione dei segretari generali di categoria e regionali, Susanna Camusso ha annunciato l’ipotesi della manifestazione unitaria, la reazione di Maurizio Landini non è stata tenera, rivendicando l’esistenza della iniziativa Fiom. “Della vostra manifestazione ho saputo solo dal Fatto quotidiano”, avrebbe risposto il segretario generale. Un modo per segnalare l’eccessiva autonomia della Fiom rispetto alla Cgil. “Quella manifestazione è stata annunciata alla nostra assemblea dei delegati - fanno sapere in Fiom - e la Cgil in quell’occasione c’era. È stata già decisa e la Fiom ha già prenotato piazza San Giovanni per il 18 maggio”.
IL DIVERBIO si intreccia alle vicende interne al sindacato, alle diverse impostazioni politiche ma anche ai preliminari per il prossimo congresso che si terrà nel 2014 e per il quale i vari con-tendenti si preparano già d’oggi. “Se le cose andranno così” spiega un dirigente della maggioranza “non siamo messi bene, rischiamo di aumentare la nostra distanza dagli iscritti”. Il dossier sul 40% di lavoratori che ha votato Grillo circola sui tavoli di dirigenti e funzionari. L’allarme è suonato anche se non è chiaro come porvi rimedio. Mai come nei giorni scorsi si sono visti tanti convegni sul futuro e il ruolo del sindacato. Anche per questo le segreterie generali si sono dette convinte che occorra smuovere le acque, dimostrare di essere presenti, offrire un punto di riferimento. La crisi della sinistra è plateale e non risparmia nemmeno il sindacato. In questa direzione c’è la riscoperta di interessi comuni con Cisl e Uil che, dal canto loro, avanzano preoccupazioni analoghe. Il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, si è spinto fino a proporre “un’iniziativa innovativa in accordo con le imprese: fermare il Paese, bloccare tutto”. Un tipico posizionamento sindacale, dicono in Cgil, dove l’ipotesi di manifestare in piazza San Giovanni accanto a Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, fa sorridere. Ma, in ogni caso, è il sintomo di una pressione reale. Raffaele Bonanni parla di “clima pesante nel Paese, come negli anni del dopoguerra” e chiede responsabilità. I punti della mobilitazione andranno fissati nei prossimi giorni. Tutti sono concordi nel dire che la crisi e il lavoro andranno messi al centro. Si fanno riferimenti all’Imu e all’aumento dell’Iva ma anche al recupero del fiscal drag, il finanziamento della cassa integrazione e misure per lo sviluppo e il lavoro. L’ipotesi che nel giro di poche settimane si potrebbe realizzare una nuova manovra economica potrebbe alla fine costituire il collante principale.

il Fatto 11.4.13
Il futuro delle città
La democrazia modello Barca
di Pierfranco Pellizzetti


Davanti a problemi di soluzione complicata un vecchio andazzo politico-amministrativo nazionale è quello di cancellarli (o – secondo i burocrati – “derubricarli”). Sarà un po’ difficile ripetere l’astuta manovra con la legge 135/2012, la quale stabilisce che, a partire dall’1 gennaio 2014, a Roma, Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Reggio Calabria la soppressione delle Province coincide con l’istituzione delle Città Metropolitane. Così dovrebbe diventare inarrestabile l’applicazione anche in Italia di quel concetto che da tempo in Europa è quasi un luogo comune: le città sono diventate il primo agente di rilancio delle aree in crisi di lunga durata da deindustrializzazione.
Si parla di sviluppo endogeno; e la legge 135 ne attribuisce ai nuovi soggetti le competenze necessarie: pianificazione territoriale, organizzazione dei servizi pubblici, mobilità e viabilità, promozione coordinata di competitività economica e sociale.
IN QUESTO quadro si muove il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca, che il 29 marzo ha licenziato un documento sui “Metodi e Contenuti per le Priorità in tema di Agenda urbana”; quasi un lascito a futura memoria dell’unico membro della compagine guidata da Mario Monti che ha provato a dire cose di sinistra. Come quella che la crescita e l’innovazione devono coniugarsi con inclusione, coesione e sostenibilità ambientale. Un testo che nasce da un vasto e meritorio tentativo di coinvolgere nella riflessione tutte le articolazioni centrali e periferiche dello Stato; anche se i risultati hanno evidenziato le modeste attitudini propositive degli interpellati: vuoi camuffate nel tecno-burocratese, vuoi dai vassallaggi alle parole di moda esterofile. Un caso per tutti lo strombazzato modello “smart city”, che grazie alle magie tecnologiche dovrebbe coniugare risparmio, governance e altre bellurie.
Le due città italiane capofila del progetto, lautamente finanziato dall’Ue, sono Tori-no e Genova. Sotto la Mole nessuno ha sinora avvertito l’effetto smart, se non per un festival 2012 scarsamente frequentato. Più grave la vicenda sotto la Lanterna, dove l’apporto hi-tech prometteva la prevenzione dei disastri ambientali e ora il sindaco Vincenzi, promotrice del progetto, è indagata dalla magistratura per l’alluvione del novembre 2011, in cui sono morti persino dei bambini. Alla faccia dello smart. Purtroppo Barca – come dicono a Roma – deve fare il brodo con le ossa che ha. Però riesce a lanciare alcuni messaggi importanti.
AD ESEMPIO la ripresa della programmazione democratica; dopo il discredito delle modalità precedenti: prima quella verticistico-tecnocratica e poi il suo contrario come deregolazione al servizio di ogni speculazione. Con le parole del documento, una sorta di terza via “tra la retorica dell’anticostruttivismo assoluto e l’ingenuità della pianificazione integrale”. Quindi il modo di progettare futuro prevede il superamento delle arcaiche distinzioni tra pubblico e privato e l’individuazione di nuove forme di organizzazione dei poteri in sede locale (co-pianificazione). Alla ricerca di un governo reinventato, che coincide (pur senza dirlo) con il messaggio più ambizioso della proposta-Barca: rifondare la democrazia a partire dalle città.
Ma per fare questo sarebbe necessario un ragionamento supplementare che il ministro non esplicita; probabilmente per carità di Patria: come ottenere effettivamente che le politiche a scartamento urbano decollino. Questo perché in Italia il civismo è una chimera da tempo inenarrabile. Come dimostrò per l’ennesima volta la stagione dei sindaci dei cittadini (eletti direttamente a partire dal 1993), cui fece seguito il rapido svuotamento dell’esperienza; con i protagonisti dell’epopea che monetizzavano la visibilità per carriere nazionali.
Insomma, le politiche urbane richiedono la rifondazione etica della politica, senza la quale rischiano di restare condivisibili asserzioni che lasciano il tempo che trovano. Ma Barca lo sa bene.

La Stampa 11.4.13
Il futuro del Pd
Barca, il “figlio del partito” che sogna di diventare leader
Il ministro pronto a presentare il suo progetto per riformare i Democratici
Fra i punti chiave del documento la fusione con Sel e la vocazione “governativa”
di Fabio Martini


Da 16 mesi al governo Economista, 59 anni, figlio di un ex dirigente del Pci, è ministro per la Coesione territoriale

Quel giorno Fabrizio Barca se la vide brutta. Era il 1971 e nella palestra del liceo classico Mamiani di Roma, l’ennesima assemblea studentesca dominata dai gruppi di sinistra più intolleranti finì male: lui, responsabile della cellula Fgci, stava parlando, ma d’improvviso fu sollevato di peso, per le gambe e per le braccia e cacciato fuori. Allora usava così, chi la pensava diversamente doveva tacere, ma lui - nel cortile della scuola, sul campo di pallavolo - si fece dare un megafono, parlò, denunciò le violenze dei compagni dei gruppi. Episodio inedito, oggi ricordato dai testimoni e a suo modo significativo: in poche settimane la minuscola cellula della federazione giovanile del Pci - sette iscritti - quadruplicò le adesioni e di lì a poco i giovani comunisti della sezione Mazzini divennero, assieme a quelli di Cinecittà, i più forti di Roma. Da allora, tranne una breve parentesi, Fabrizio Barca non ha più fatto vita di partito, ma ora, a 58 anni, gli è tornata la voglia. Da 16 mesi ministro per la Coesione territoriale, nei prossimi giorni Barca presenterà un manifesto - «Un partito nuovo per un buon governo» nel quale spiegherà come la pensa sull’universo mondo e soprattutto ecco la vera sorpresa - spiegherà che modello di partito servirebbe per governare un Paese come l’Italia.
Un manifesto impegnativo e molto piegato sul ruolo dei partiti, ma per farne cosa? «Non ambisco a fare il segretario, ma a far parte del gruppo dirigente», ha risposto a Lucia Annunziata su Raitre. Risposta diplomatica, difficile da far «combaciare» con tutte le considerazioni politiche fatte da Barca negli ultimi mesi e poco «coerente» con la qualità del documento che lui stesso sta preparando: chi ne ha letto le bozze, assicura che si tratti di una elaborazione di alto livello, non paragonabile a nessuno dei documenti prodotti negli ultimi anni dal Pd. Un manifesto da candidato segretario, secondo linee-guida accennate negli ultimi due mesi e che ora saranno declinate nel dettaglio: «Centralità dei partiti»; un Pd con un profilo laburista e non genericamente democratico, pronto a ricongiungersi con Sel di Vendola («Io ho votato più a sinistra del Pd...») ; diffidente con le Primarie, ma anche con l’attuale mentalità del «suo» partito, al quale rimprovera una insufficiente cultura di governo.
Ma Barca è tutto fuorché un antipartito. Nei giorni della formazione del governo Monti fu Giorgio Napolitano a suggerire il suo nome come ministro e, anche se dentro il Pd Barca non ha molti amici, un buon rapporto personale lo ha con Pier Luigi Bersani. Qualche mese fa il segretario del Pd lo sondò come possibile candidato sindaco di Roma, lui rispose di no, ma Bersani gli chiese che di non reclamizzare quel diniego, in modo da tener alto il livello dei candidabili. Barca lo ha tenuto per sé e, forse anche per questa apparente lontananza dai piani alti del Pd, il suo nome è stato associato ai «giovani turchi» come possibile sfidante di Renzi alla guida del Pd. Ma Barca non ha alcun rapporto con loro e qualche giorno fa lo ha raccontato ad «Europa» il capofila di quel nucleo agguerrito di giovani parlamentare, Matteo Orfini: «Io non lo conosco, non l’ho mai incontrato in vita mia».
Non è un anti-partito e, in qualche modo, è un «figlio del partito». Non solo perché suo padre, Luciano, nella stagione berlingueriana, è stato del Pci uno dei principali dirigenti, tra l’altro un uomo di cui il figlio ha sempre avuto una grande stima. Ma Barca è un «figlio del partito» soprattutto nella concezione della lotta politica. Nel corso di trenta anni la formazione internazionale, la scuola della Banca d’Italia, il lavoro assieme a Carlo Azeglio Ciampi, l’insegnamento alla Bocconi non hanno cambiato la sua idea sulla centralità dei partiti, partiti che «sappiano mobilitarsi», perché «le parti economiche sono importantissime, ma il partito è il crogiuolo dove i bisogni delle persone, e soprattutto le soluzioni, arrivano a una decisione».

l’Unità 11.4.13
Sugli immigrati minori doppi controlli
di Luigi Manconi e altri


Nell’ultimo mese in alcune città d’Italia si sta verificando un fenomeno alquanto preoccupante. Sta accadendo che persone immigrate accolte nei centri di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, sono sottoposte a controlli clinici per accertarne l’età. La finalità della visita è quella, dunque, di dichiarare e certificare che le persone già accolte nelle strutture organizzate per minorenni, siano effettivamente tali. Questo perché qualche tempo fa era stata segnalata (anche da parte di Save the Children) la presenza di maggiorenni all’interno di quei centri gestiti e finanziati dai comuni. Quello di Roma ha deciso, così, di convocare i responsabili delle strutture e, a scaglioni, anche gli ospiti, per sottoporli a un primo colloquio con le Forze dell’ordine. Se in quell’occasione i sedicenti minorenni confermano la propria posizione sono sottoposti alla visita medica che dovrà provare quanto detto. Il problema si pone nel momento in cui l’esito fosse diverso da quello annunciato perché, allora, la persona è allontanata dal centro di accoglienza con un provvedimento di espulsione e, oltretutto, denunciata per truffa aggravata ai danni dello Stato. A Roma gli accertamenti sull’età vengono effettuati per ridurre il numero dei minori stranieri non accompagnati a carico dell’Ente locale e, dunque, per ridurre la spesa pubblica. E, in effetti, la presenza di maggiorenni non solo crea problemi di posti ma non è compatibile con quella dei minorenni per ragioni legate alla loro incolumità. C’è un aspetto di tale procedura che appare poco consono. Si tratta del fatto che tutte le persone convocate dall’amministrazione comunale erano già state, in realtà, identificate e visitate per stabilire gli anni. Questo è infatti un procedimento previsto e attuato quando una persona, nel momento dell’arrivo, dichiara di non essere ancora diciottenne. Ecco perché una seconda visita non era necessaria se, già in quella precedente, si fosse utilizzato un metodo inequivocabile che, ad oggi, pare non esserci. Bisogna però ricordare che quello utilizzato per accertare l’età è uno strumento che non può essere applicato ordinariamente ma solo “nei casi in cui vi sia incertezza sulla minore età” (circolare del Ministero dell’interno prot. 17272/7) e comunque su ordine dell’Autorità giudiziaria e sempre e solo se vi siano dubbi sull’età (art. 8 d.p.r. 448/88). Inoltre, come precisa l’Asgi, «secondo le indicazioni del Protocollo emanato nel settembre 2009 dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (cd. Protocollo Ascone) l’accertamento dell’età non può essere limitato alla radiografia mano-polso ma deve essere effettuato un approccio multidisciplinare o multidimensionale, all’esito del quale qualora residuino ancora dubbi deve essere applicato il principio della presunzione della minore età». Ma come è possibile che ci sia una tale imprecisione sul metodo da adottare per la determinazione dell’età? Cosa impedisce l’utilizzo di strumenti che diminuiscano una così diffusa arbitrarietà?

il Fatto 11.4.13
Tentazioni on line. Vaticano, vocazione a luci rosse
Il sito Torrentfreak ha verificato che nella cittadella papale si scaricano dalla rete film con le star del porno americano
di Carlo Antonio Biscotto


Dopo lo scandalo della pedofilia, quello dello IOR e della finanza “allegra” e il Vatileaks, si abbatte sulla Santa Sede un’ultima tegola: la pornografia digitale. A dare la clamorosa notizia è stato il sito Torren  tFreak.com , un sito di downloading che ha pubblicato un post dal titolo alquanto esplicito: “I preti guardano Dvd e in Vaticano scaricano film porno”.
LA CURIOSITÀ era sorta qualche tempo fa quando Paul Flynn, proprietario di una piccola videoteca a Limerick (Irlanda), ha raccontato che da circa sei anni noleggiava Dvd alla vicina parrocchia e che, parlando con il parroco, era venuto a sapere che avevano visto Lincoln, Djago Unchained, I miserabili e Zero Dark Thirty, tutti titoli appena usciti sul grande schermo. In realtà in parrocchia avevano organizzato un vero cineclub e una volta la settimana i parrocchiani cinefili si riunivano per godersi un bel film. Ma Paul si era insospettito e non ci aveva messo molto a capire che i film erano stati scaricati illegalmente.
Ma se nella minuscola parrocchia di Limerick scaricano film illegalmente e non sembrano prediligere la cinematografia per seminaristi ed educande, cosa faranno in Vaticano, si erano chiesti i responsabili di TorrentFreak? È partita così l’indagine per cercare di capire cosa scaricano dalla rete i computer situati nel piccolo Stato governato da Papa Francesco. Poca musica, qualche spettacolo televisivo e molti film. La sorpresa non è stata poca quando ci si è accorti che tra i titoli scaricati ce n’erano molti per lo meno “discutibili”. A parte i blockbuster di produzione per lo più hollywoodiana a TorrentFreak sostengono che sono stati scaricati molti film che hanno per protagonista una certa Lea Lexis. Il nome non dirà nulla agli amanti della settima arte, ma nel mondo del porno Lea Lexis è quasi una celebrità. Nata in Romania nel 1988, Lea Lexis ha all’attivo capolavori quali: “Voracious”, “In anal slut we trust”, “Sexual gymnastics” e “Whipped ass”. Ha girato oltre 100 porno ed è famosa per il suo “lato B” e per le evoluzioni spericolate, ricordo forse dei giovanili trascorsi nel mondo della ginnastica artistica. Un’altra pornodiva molto scaricata in Vaticano è Krissy Lynn, ventottenne americana piuttosto minuta ma procacissima, interprete di oltre 270 film porno e di 130 scene hard per siti web. Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre secondo TorrentFreak, molti porno sono del genere trans e gay, un settore di nicchia della pornografia online.
IL VATICANO ha circa 800 residenti permanenti, Papa Francesco compreso, e per lo più si tratta di sacerdoti della Curia, di personale addetto alla sicurezza e di personale di servizio. L’attività di downloading non è particolarmente intensa, ma sembra che un particolare indirizzo IP abbia scaricato illegalmente non solo diversi titoli porno, ma serie televisive americane quali “Chicago Fire”, “The neighbours” e “The americans”.
Secondo il New York Post, dallo stesso indirizzo IP, contrassegnato come “Santa sede – Stato Città del Vaticano”, sarebbero stati scaricati diversi film a luci rosse tra cui alcuni porno interpretati dal pornodivo trans Tiffany Starr, una stupenda mora dal seno prorompente e dagli indiscutibili e notevoli attributi maschili che pare sia molto popolare all’interno delle mura vaticane. Torrenting è un metodo di file sharing che consente di scaricare illegalmente film, musica e video ed è molto conosciuto dai distributori di materiale pornografico che lo utilizzano anche perché è difficile risalire all’origine dei file. Era impiegato anche dell’ormai defunto sito Napster.
TorrentFreak ha tentato di contattare il Vaticano prima di rendere noti i risultati della ricerca. La Santa Sede non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Corriere 11.4.13
Finanza e Vaticano, slittano i controlli
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Ci sarà presto una nuova visita in Vaticano dei valutatori di Moneyval, il Comitato del Consiglio d'Europa che giudica le misure nazionali per il contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo(dopo quelle del novembre 2011 e del marzo 2012). La visita degli ispettori è prevista in relazione alla presentazione dell'aggiornamento del Rapporto sulla prevenzione del riciclaggio e per la trasparenza finanziaria, approvato dall'Assemblea plenaria nel luglio 2012.
Al tempo stesso la Radio Vaticana ha reso noto che il «Progress Report», richiesto da Moneyval come procedura ordinaria nell'anno successivo all'approvazione del primo Rapporto, è previsto a dicembre, e non più a luglio. Si tratta di uno slittamento richiesto dalla Santa Sede e accordato, sempre con procedura ordinaria da Moneyval, per poter presentare i progressi in corso relativamente a tutte le questioni ancora aperte.
La Santa Sede lo scorso anno aveva superato il terzo round di valutazione ottenendo un risultato di «completo» o «parzialmente completo» adeguamento agli standard internazionali in 9 delle 16 questioni «Core and Key». Ebbene, il Vaticano ha chiesto ed ottenuto di presentare il suo rapporto «in progress» non solo in relazione alle questioni «Core» «non compliant» (che sono le uniche strettamente richieste) ma anche nelle questioni «Key», che devono essere ancora migliorate. In questo modo tutte e sette i punti che l'anno scorso non erano stati valutati come sufficienti per la lotta al riciclaggio verranno adeguati entro la fine di quest'anno. «La Santa Sede continua con impegno il suo dialogo con Moneyval» ha proseguito la nota della Radio Vaticana. Lo slittamento in avanti nei tempi, fino a dicembre, è avvenuto perché il Vaticano non ce l'ha avrebbe fatta a prepararsi in tempo per luglio? Oltre le Mura negano che questo sia il motivo, quanto piuttosto la volontà di presentare un «Progress report» completo visto l'intreccio delle 7 questioni da mettere a punto in un'entità statale sui generis com'è la Santa Sede. Pesa sicuramente, inoltre, il grave «incidente», accaduto all'inizio di gennaio 2013, del blocco dei bancomat interni alla Città Stato, da parte della Banca d'Italia (superato dal punto di vista pratico, ma non dal punto di vista giuridico nei rapporti con le banche italiane) e l'elezione di Papa Francesco e quanto il nuovo Pontefice deciderà in relazione alla struttura finanziaria vaticana e allo Ior. I 7 punti giudicati non soddisfacenti dal primo Rapporto riguardano in particolare i poteri ispettivi dell'Aif presieduta dal cardinale Attilio Nicora, e il cui direttore generale René Bruhelart era martedì a Strasburgo per "trattare" con Moneyval. I suoi poteri sanzionatori, e quelli di "validare" le nomine dei direttori e del senior management dello Ior e dell'Apsa. Da mettere a punto anche i controlli sui movimenti di denaro delle organizzazioni no profit.

l’Unità 11.4.13
Il convegno
Riccardo Lombardi, non solo memoria
Alla Fondazione Basso si rilegge lo storico leader socialista: nei suoi testi il dna della nostra democrazia
di Danilo Di Matteo


DA IERI, PER INIZIATIVA DELLA FONDAZIONE BASSO, SI STA SVOLGENDO A ROMA IL CONVEGNO LOMBARDI 2013, RIVOLTO CON UN OCCHIO ALLA MEMORIA E CON L’ALTRO AL PRESENTE. Oggi le conclusioni. Come per altre tendenze politico-culturali, quella «lombardiana» (Riccardo Lombardi non amava il termine) fu una «sensibilità», non una dottrina o un «sistema» definito. Un insieme di atteggiamenti tuttora vivo. Siamo in tanti, a sinistra, a parlare ancora dei «dialetti marxisti», magari nella condizione, pure psicologica, di «eredi» di una tradizione controversa. E la «formula» (resa celebre da Tony Blair) «cristiano, socialista, liberale» ben si addice, letteralmente, alla biografia di Lombardi (classe 1901). Giovanissimo, egli, trapiantato dalla Sicilia a Milano, militò nella corrente di sinistra del Partito popolare, avvicinandosi poi al Partito cristiano del lavoro e collaborando con Il Domani d’Italia e, saltuariamente, con l’Unità. Già: il Nostro fu, in senso etimologico, un acomunista. Amico di tanti comunisti, non entrò mai nel partito, neppure in nome del suo antifascismo intransigente. E già durante l’impegno in Giustizia e Libertà e nel Partito d’Azione delineò l’idea delle riforme di struttura: riforme incisive, volte a mutare la sostanza, non «operazioni cosmetiche». Affrontando pochi problemi per volta, nell’ambito di una strategia delle riforme.
Ed è qui la radice di altre suggestioni lombardiane, quali il «riformismo rivoluzionario».
Già: concretezza e suggestioni rappresentano la cifra del Nostro. Una notevole carica ideale nutrita dall’esperienza e dalle contraddizioni della storia più che dall’illusoria «purezza» di una dottrina. La concretezza dell’ingegnere che studia i problemi, calcola, valuta i dati, e il fascino esercitato su tanti giovani che ambivano a cambiare l’Italia. La stessa vicenda della nazionalizzazione dell’industria elettrica, alla quale sovente si associa il nome del dirigente socialista, è legata alla lotta contro i monopoli: non la nazionalizzazione fine a se stessa, bensì per contrastare il monopolio privato. E, più in generale, la nascita del primo centro-sinistra è figlia di un’elaborazione programmatica che vede Lombardi in prima linea. Ed è in nome di un programma autenticamente riformatore che, nel maggio 1963, il «gruppo Lombardi» rompe con la maggioranza del partito, considerando prioritaria, appunto, la «motivazione degli impegni programmatici del governo in funzione del progresso democratico del Paese, e non della discriminazione anticomunista, assunta a piattaforma ideologica del centro-sinistra». Una coalizione ormai pronta, come si legge in un memorandum consegnato a Pietro Nenni, a «utilizzare il Psi e il suo elettorato a copertura di una operazione conservatrice». E il Nostro vive ciò in maniera assai sofferta.
La sua è anche la figura di un maestro. Un maestro che – come ricordato dalla moglie Ena dopo la morte (settembre 1984) – «insegnava con la parola: il Socrate del Pritaneo del Psi lo definivo con amorevole ironia». E, come rilevato da Bruno Becchi, «a lui faceva difetto la capacità organizzativa», per cui sovente ha avuto il ruolo di semplice coscienza critica. E non di rado del maestro viene tratteggiata un’immagine parziale. Tanti ad esempio lo ricordano come il leader della sinistra del Psi, trascurandone però la posizione netta (e minoritaria) a lungo sostenuta nel partito per la sua piena autonomia. Come ha scritto Gaetano Arfé, nel 1948 per Lombardi «la difesa dell’Urss rientrava tra i compiti dei socialisti, ma in termini di solidarietà con il paese della rivoluzione che si ergeva contro l’imperialismo, senza, però, alcuna subordinazione agli obiettivi propri dello Stato sovietico». Ed egli «avanzò riserve sulle liste uniche».
Concretezza e suggestioni, poi, fanno sì che il discorso sul Nostro appaia inesauribile. Di convegno in convegno, di testo in testo, Lombardi ha sempre qualcosa da dirci, perché è nel Dna della nostra democrazia e, nel contempo, è così diverso da molti di noi.

Corriere 11.4.13
Così le ultime sentenze tutelano le unioni di fatto (e bloccano gli alimenti)
I verdetti dei giudici anticipano le leggi
di Chiara Maffioletti


MILANO — Quel che resta di un amore... spesso ha parecchi zeri alla fine. Quando ci si separa (e, successivamente, quando poi si divorzia), la questione economica diventa uno degli argomenti principali su cui discutere e — a volte — anche litigare. Ansie, preoccupazioni, paure per il proprio futuro che si materializzano in tre parole: assegno di mantenimento (due quando si divorzia: assegno divorzile). Una cifra che cambia a seconda di una serie di variabili ma che comunque mira a mantenere il potenziale tenore di vita della coppia anche quando la coppia non c'è più.
«Il matrimonio è basato sul consenso, dopodiché ci sono dei diritti e dei doveri. Se ci si vuole limitare alla scelta affettiva allora c'è la convivenza», premette l'avvocato Annamaria Bernardini de Pace. Eppure, anche in questa materia, la giurisprudenza sembra arrivare prima delle leggi. Perché se è vero che la famiglia tradizionale è da sempre tutelata (e l'assegno di mantenimento ne è un esempio), la famiglia di fatto sta comunque venendo sempre più legittimata da sentenze come quella dell'altro giorno della Corte di Appello di Bologna secondo cui, se l'ex coniuge ha una nuova famiglia di fatto, si possono non corrispondere più gli alimenti perché il nuovo legame «altera o rescinde la relazione con il tenore e il modello di vita caratterizzante la pregressa convivenza matrimoniale».
«La giurisprudenza si è più volte espressa in questo senso ultimamente», conferma l'avvocato Cesare Rimini, ricordando ad esempio la «fondamentale» sentenza della Cassazione dell'agosto del 2011 in cui «in caso di divorzio, l'instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuata da uno degli ex coniugi, elimina ogni connessione con il modello e il tenore di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale, ed elimina, altresì, il presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile».
Insomma, se si ha una convivenza «stabile e duratura», l'assegno dell'ex coniuge può essere sospeso. Entra «in quiescenza», e può essere contemplato nuovamente «nell'ipotesi di rottura tra i familiari di fatto». Ogni anno, quattro matrimoni su dieci finiscono in tribunale mentre si stima che in Italia ci siano circa due milioni di coppie di fatto. Troppe per far finta che non esistano. E troppe anche per non considerare che se una persona che ha un matrimonio finito alle spalle decide di ricostruirsi una vita con qualcun altro, la cosa non abbia delle implicazioni anche economiche.
«Infatti — prosegue Rimini — il principio che sta dietro a queste sentenze è che la convivenza fa cambiare il tenore di vita. E non sorprende dunque sapere che esiste chi evita la convivenza o la dissimula per sfuggire a questi orientamenti». Affitti intestati a un'unica persona, niente doppio nome sui campanelli. Cose di questo genere. Traducendo il tutto nel sentire comune, l'assegno di mantenimento versato in circostanze simili diventa spesso ancora più antipatico per l'ex coniuge che pensa: «Usa i miei soldi per vivere con un altro/un'altra».
«Il problema è che questi assegni, che dovrebbero essere considerati "assistenziali", a volte diventano invece una "rendita parassitaria"», prosegue Rimini. Termine forte ma eloquente. «Molta gente non convive con i nuovi compagni per continuare a godere di tale rendita». Come si distingue? «Se si dà un assegno all'ex moglie, che ha 30 anni, un titolo di studio e che non cerca lavoro, questo è un caso evidente di rendita parassitaria». E, come tale, può essere ridiscusso. In ogni caso, il groviglio tra vecchi e nuovi nuclei, matrimoni e convivenze non è di semplicissima soluzione, ma ciò che «è di assoluta rilevanza è il riconoscimento nella coppia di fatto di una valenza giuridica pari a quella del rapporto coniugale», come spiega l'avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani. Che aggiunge: «Viene confermato il principio che l'assegno divorzile può essere concesso o ripristinato solo in caso di effettivo bisogno dell'avente diritto».

l’Unità 11.4.13
Editoria, pochi fondi per l’integrazione col web
di Valerio Raspelli


«Siamo il paese che ha il più modesto sostegno all’editoria in Europa». Partendo da questo presupposto, la crisi della stampa e dell’intera filiera della carta va affrontata con provvedimenti urgenti. Incentivi all'innovazione tramite rifinanziamento del credito agevolato per le imprese della filiera, credito d’imposta a favore delle imprese produttrici di prodotti editoriali, dell’industria grafica, cartotecnica e cartaria per gli investimenti in beni strumentali e aggiornamento professionale. Promozione della lettura attraverso detassazione delle spese per libri di testo scolastici e universitari e per abbonamenti a quotidiani e periodici. Infine, misure anticongiunturali quali credito di imposta per l’acquisto di carta in favore di imprese editrici e stampatrici con il duplice scopo di fronteggiare la contrazione degli investimenti pubblicitari (-17,7% sulla stampa nel 2012 rispetto al 2011) e di garantire un afflusso di risorse e mezzi in un mercato editoriale fortemente negativo. Sono le proposte che dovrebbe essere applicate nell'anno in corso e almeno nei due anni successivi per la ripresa che la filiera della stampa e dell’editoria ha rilanciato, ieri mattina, al sottosegretario di Stato con delega all’editoria Paolo Peluffo in occasione del convegno «Carta&Web: l'integrazione tra le scelte strategiche e tecnologiche» al Senato.
Una ricetta che ha trovato sostanzialmente d'accordo Peluffo, che si è detto «contento di aver fatto un'operazione di trasparenza, di moralizzazione e di indirizzo al digitale» con la riforma del fondo dell’editoria dello scorso anno, che ha portato al taglio di sprechi nell’erogazione di contributi tanto che, con 150 milioni annui «siamo il paese che ha il più modesto sostegno all’editoria in Europa», ma ha spiegato anche che «l'Iva super agevolata è un giusto sostegno, necessario all’editoria in un Paese che legge poco e che quindi si prepara poco ad affrontare la crisi».
«ORA TRASPARENZA»
Tornata di grande attualità anche per l'exploit del Movimento 5 Stelle che nel suo programma ne propone l'abolizione totale, la questione dei contributi pubblici alla stampa resta un tema scottante «che noi abbiamo sempre difeso sotto il profilo costituzionale spiega Peluffo e la nuova legge sull’editoria, pur contando su meno soldi li distribuisce meglio, perché attraverso la tracciabilità arrivano come rimborso vero e proprio» e non come «anticipo sulla fiducia» «ma meno di così non si può fare, dobbiamo aggiungere il sostegno al multimediale e agli abbonamenti ai periodici». Secondo il sottosegretario bisogna tendere un ponte «verso l'editoria cartacea che non riesce a vendere, consentendole un passaggio all’online che gli permetta di vivere» considerando che in un anno «la stretta è cominciata» e si è passati da 260 a 210 testate convenzionali esistenti. «Si sono date troppe risorse quando il mercato l’avrebbe sostenuta e ora che servirebbero non ci sono fondi. Sostegno alla domanda è il punto, sostegno all’acquisto di abbonamenti digitali. Il livello attuale è ben al di sotto di quel che servirebbe per affrontare i cambiamenti».
Ieri intanto si è tenuto il primo incontro per il rinnovo del contratto giornalistico fra Fieg (editori) e Fnsi (sindacato unitario).

Repubblica 11.4.13
Stupri di guerra, l’impegno del G8
di William Hague


Caro direttore, troppo spesso nel mondo si cerca di porre fine ai conflitti e di ricostruire società devastate dalla guerra senza affrontare le ragioni che rendono così difficile la riconciliazione e contribuiscono all’insorgere di nuova violenza.
Lo stupro e la violenza sessuale in guerra sono una di quelle ragioni.
Due settimane fa mi sono recato nella Repubblica Democratica del Congo. Durante la visita mi è stata mostrata la fotografia di una bambina violentata a cinque anni. In visita a ospedali e campi profughi, molti altri sono stati i racconti terribili che ho ascoltato: vite distrutte, donne ostracizzate, famiglie divise e vittime che hanno contratto malattie mortali dopo aver subìto violenze mentre erano in cerca di legna da ardere. E tutto ciò mentre gli autori di questi reati continuano a condurre le loro “vite normali”, protetti da una vergognosa impunità.
Dalla Bosnia al Ruanda, dalla Libia alla Sierra Leone, negli ultimi decenni lo stupro è stato volutamente utilizzato come arma per colpire oppositori politici o interi gruppi etnici o religiosi. Le ferite inflitte non guariscono facilmente, e restano per sempre. Spesso, distruggono famiglie e lacerano intere comunità. La stessa storia, purtroppo, si ripete oggi in Siria.
Come leader politici di Paesi democratici che hanno a cuore la dignità umana, dobbiamo fare di tutto per porre fine all’uso dello stupro come arma di guerra.
Non si tratta di un compito semplice, e molti sono gli ostacoli.
Prima di tutto, la paura e la vergogna provata dalle vittime che spesso esitano a denunciare lo stupro subìto a causa del marchio che esso lascia a livello sociale.
In secondo luogo, c’è la difficoltà di raccogliere prove utilizzabili in tribunale. Dal 1996, ben 500 mila donne sono state stuprate nella sola Repubblica Democratica del Congo, e solo per pochissimi di questi casi si è potuto avviare un procedimento penale.
In terzo luogo, la violenza sessuale tende a essere considerata un problema secondario nella risposta della comunità internazionale a un conflitto. Il risultato è che i sopravvissuti vengono lasciati soli, i fondi sono insufficienti e gli autori di questi reati restano impuniti.
Infine, le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni locali e gli attivisti per i diritti umani, che assistono le vittime in loco, non ricevono sufficiente sostegno.
Tutti questi sono ostacoli che possono e devono essere rimossi.
Chiederò ai miei colleghi, ministri degli Esteri del G8, di concordare una dichiarazione politica di portata storica, che affermi la nostra comune volontà di porre fine alla violenza sessuale nei conflitti e all’impunità per questi brutali crimini, e di assicurare alle vittime un pieno sostegno.
È mia intenzione chiedere una serie di impegni concreti: il riconoscimento della violenza sessuale come grave violazione della Convenzione di Ginevra; l’aumento dei fondi e del sostegno a lungo termine alle vittime; e il sostegno a un nuovo Protocollo Internazionale che definirà standard comuni per le indagini e la raccolta di prove sulla violenza sessuale.
Intendiamo compiere il primo passo verso l’eliminazione di uno dei fenomeni più devastanti delle guerre odierne, che compromette le possibilità di serena convivenza tra le comunità anche dopo un conflitto.
Come leader politici di Paesi liberi e come esseri umani, è nostro dovere dare impulso a un’alleanza internazionale ancora più ampia, che ponga fine all’uso della violenza come arma di guerra e garantisca assistenza alle vittime di questi orrendi crimini.
(Articolo del ministro britannico degli Esteri in occasione dell’incontro dei Ministri degli Esteri del G8 che si conclude oggi a Londra)

Corriere 11.4.13
Le donne del Muro del Pianto «Fateci pregare come gli uomini»
Chiedono di indossare lo scialle rituale, arrestate. Il dibattito rilanciato su Twitter
Netanyahu sollecita un compromesso
di Davide Frattini

qui

Repubblica 11.4.13
Incubo aviaria, nove morti in Cina accuse al regime: “Nasconde la verità”
Epicentro a sud di Shanghai. Allarme in tutta l’Asia
di Giampaolo Visetti


PECHINO — A dieci anni dall’emergenza Sars la Cina ripiomba nell’incubo dell’influenza aviaria. Governo e medici negano che il nuovo virus H7N9 si sia finora trasmesso da uomo a uomo e le prime analisi indicano che l’influenza non è epidemica nemmeno tra i volatili. Vittime e infettati però si moltiplicano e nella popolazione cresce il timore che le autorità, come nel 2003, nascondano la realtà per evitare panico e ripercussioni economiche. Ad una settimana dalle prime notizie le vittime sono salite a 9, i casi conclamati a 33, mentre migliaia di persone sono sotto osservazione negli ospedali. Due morti e cinque infettati nelle ultime ventiquattro ore. L’epicentro del virus è stato localizzato nel mercato alimentare all’ingrosso di Huhuai, a Dongjing, a sud-ovest di Shanghai, la metropoli più colpita da un’epidemia che per ora copre un’area costiera di 600 chilometri quadrati, tra le regioni dello Zheijang, del Jiangsu e dell’Anhui.
Il vicepremier Liu Yandong, dopo che critiche alla reticenza e ai ritardi di Stato sono apparse anche sui giornali del partito, ha intimato a medici e funzionari locali di essere più trasparenti nelle informazioni e più tempestivi nell’individuare fonti di infezione e veicoli di trasmissione. Secondo l’Accademia cinese delle scienze, il nuovo virus sarebbe generato dal riassortimento genetico tra uccelli selvatici e polli, capace di generare un microrganismo letale. L’allarme si estende così a tutta l’Asia. Un bambino di quattro anni è morto in Vietnam, infettato dal vecchio virus H5N1. Taiwan, Hong Kong e Tokyo hanno intestificato i controlli negli aeroporti e stanno predisponendo test sui passeggeri che atterrano dalla Cina. Pechino lavora ad un vaccino, che richiederà dai sei agli otto mesi prima di poter essere utilizzato. Per ora l’unica misura concreta di contrasto al virus è la
strage di polli, piccioni, anatre e quaglie, bruciati a centinaia di migliaia. Nelle zone più colpite dall’influenza la gente si rifiuta di consumare carne bianca ed è assalto alle mascherine anti-batteri. Ristoranti, mercati, scuole e compagnie aeree hanno cancellato il pollo dai menù e nel timore di un crollo del turismo le Borse già penalizzano i titoli del settore. La tivù di Stato ha lanciato una campagna per informare che la tradizione di acquistare animali vivi, molto forte in Cina, «è ormai un rischio troppo elevato per la salute». La psicosi da aviaria ha indotto gli allevatori di piccioni viaggiatori a vaccinarne centomila solo ad Hangzhou, le autorità hanno vietato il volo degli uccelli domestici fuori dalle gabbie, atterrandone oltre due milioni, e l’Indonesia ha bloccato l’importazione di piume d’anatra per il badminton, sport nazionale. Chiusi i mercati animali nello Zheijang e nel Jiangsu.
A preoccupare l’Organizzazione mondiale della sanità, l’area geografica di diffusione del virus insolitamente estesa, la mutazione del ceppo H5N1 nel più resistente H7N9 e il numero dei contagiati, già superiore rispetto agli esordi dell’epidemia del 2003. Fino ad ora la comunità internazionale non ha introdotto restrizioni alle importazioni di merci cinesi, ma i mercati sono in allarme e numerosi aeroporti si preparano a intensificare i controlli medici e veterinari. Pechino teme che l’aviaria possa frenare la sua crescita economica e alti funzionari parlano addirittura di una «cospirazione» per contenere l’ascesa della Cina. Sotto accusa gli Stati Uniti, a cui un ex generale dell’Esercito di liberazione del popolo imputa l’uso di «armi bio-psicologiche». Almeno tredici persone sono state arrestate con l’accusa di aver diffuso false informazioni sul virus H7N9, una decina sono in carcere e due sono state condannate ieri per «aver diffuso il panico via internet» inventando falsi casi per ottenere risarcimenti.
La rabbia della gente resta però indirizzata contro la drammatica situazione eco-alimentare del Paese. Da mesi si moltiplicano i casi di stragi di pesci nei fiumi tossici dei distretti industriali, mentre in marzo 20 mila maiali morti misteriosamente sono stati ripescati nel fiume da cui Shanghai attinge l’acqua potabile. Il cibo a rischio, assieme all’inquinamento, diventa l’emergenza interna che può davvero destabilizzare il potere
di Pechino.

Corriere 11.4.13
La Cina dice sì a Christie's
di Marco Del Corona


In termini di economia e di politica è un varco che si apre nella trincea protezionista, in cui spesso la Cina resta asserragliata. Per il mercato dell'arte a regia occidentale si tratta del sorgere di un sol di un avvenire che promette d'essere radioso. Le autorità di Pechino, infatti, hanno detto sì all'accesso di Christie's. La storica casa d'aste potrà dunque tenere in autunno il primo evento cinese fuori da Hong Kong, la città amministrativamente separata dall'entroterra, vera capitale dell'arte in Asia, dov'è di casa. Tuttavia stavolta l'obiettivo è il bacino immenso dei collezionisti della grande Cina, non necessariamente concentrati nelle metropoli «di primo livello».
Christie's sarà la prima casa d'aste occidentale a operare in regime di autonomia. Finora era possibile solo associarsi a partner locali, sorte toccata anche ai concorrenti di Sotheby's. I battitori venuti dall'Europa trovano un terreno tutt'altro che sgombro: sono attivi — e con margini di guadagno alti — rivali cinesi, spesso a controllo o partecipazione statale. Significativo però che a Christie's e a chi verrà dopo sarà vietato trattare oggetti precedenti alla prima Repubblica (1911). Tutto ciò che attiene al patrimonio storico violato nei secoli dalle potenze coloniali tocca una sensibilità così profonda da non poter essere negoziato. In Cina, il passato e le prove delle umiliazioni subite non vanno all'asta.

l’Unità 11.4.13
Papà Edwards
Si è spento il premio Nobel della fecondazione in vitro
Divenne famoso nel 1978 con la nascita di Louise Brown, il primo essere umano concepito in provetta
Dopo di lei sono nati oltre 4 milioni di bimbi in ogni angolo del mondo
di Pietro Greco


È MORTO IERI, ALL’ETÀ DI 87 ANNI, ROBERT EDWARDS, L’IMMUNOLOGO INGLESE PREMIO NOBEL PER LA MEDICINA E «PADRE» DELLA FECONDAZIONE IN VITRO. Divenne famoso nel 1978 con la nascita di Louise Brown, il primo essere umano concepito in provetta. Dopo Louise con la tecnica di Edwards sono nati oltre 4 milioni di bambini in ogni angolo del pianeta. Il lavoro pionieristico del ricercatore inglese è stato gratificato – come ha scritto The Guardian – dalla riconoscenza di milioni di persone in tutto il mondo ed è stato criticato in Vaticano.
Edwards ha risposto con una tecnica innovativa, la Fivet (Fecondazione in vitro con trasferimento dell’embrione), a una domanda antica: come curare la infertilità che impedisce ad alcune donne di procreare. Naturalmente non si è inventato tutto da solo. E i primi tentativi di curare la fertilità generando in provetta gli embrioni da trasferire nel nucleo materno non risalgono a 35 anni fa.
Come ricorda Carlo Flamigni nel suo Secondo libro della sterilità dedicato alla fecondazione assistita, i primi esperimenti di fertilizzazione in vitro sono stati condotti, con scarso successo, già alla fine dell’Ottocento da numerosi ricercatori su numerose specie di mammiferi: topi, conigli e anche scimmie. L’idea era quella di fecondare in condizioni artificiali gli ovociti, di generare un embrione e poi di trasferirlo nell’utero della madre. La tecnica avrebbe consentito di curare l’infertilità, femminile e maschile.
Il primo a tentare la fecondazione in vitro di embrioni umani è stato l’americano John Rock, dopo la prima guerra mondiale. Senza, tuttavia, riuscirci. Rock definì intrattabile il problema e abbandonò gli esperimenti.
Una prima svolta si ebbe a metà degli anni ’50 quando il francese Charles Thibault ottenne la prima fecondazione in vitro coronata da successo di un mammifero e il biologo di origine cinese Min Chueh Chang impiantò con successo nell’utero di una coniglia un embrione fecondato in vitro e ottenne la nascita del primo mammifero con la Fivet.
Sono dovuti passare vent’anni prima che la tecnica di fecondazione artificiale potesse essere applicata sull’uomo. Il primo a riuscirci è stato, appunto, Robert Edwards alla fine degli anni ’70. Edwards era un immunologo e lavorava fin dagli anni ’50 a Cambridge, in Inghilterra. Era interessato alla fecondazione artificiale e aveva ottenuto la fecondazione in vitro di un topo. Giudicava maturi i tempi per tentare sull’uomo.
Il fatto è che a Cambridge non c’è una facoltà di medicina e non ci sono ovociti e spermatozoi umani su cui lavorare. Si trasferì, pertanto, al John’s Hopkins Hospital di Baltimora, negli Stati Uniti, acquisì le conoscenze necessarie e tornò in Inghilterra. Qui incontra il chirurgo Patrick Christopher Steptoe, che ha messo a punto una tecnica molto usata in ginecologia, la laparoscopia. Siamo nel 1968 e i due iniziano a collaborare, creando il combinato disposto della fecondazione in vitro e del trasferimento dell’embrione umano in utero che è la FIivet In realtà i due dovettero superare molte difficoltà e lavorare una decina di anni prima di cogliere il successo.
Nel 1977 presero in cura Lesley Brown, una ragazza inglese che aveva subito l’asportazione delle tube e che non poteva avere figli, sebbene ne volesse uno. Edward e Steptoe prelevano un ovocita frutto di un ciclo naturale della ragazza, lo fecondano in vitro, fanno sviluppare l’embrione fino allo stadio di 8 cellule e lo trasferiscono in utero. Da questo momento tutto procede per il meglio e nell’agosto del 1978 per la gioia di Lesley nasce Louise, il primo essere umano fecondato in vitro.
La nascita di Louise produsse due effetti. Uno fu quello dell’imitazione. Nel corso degli anni la Fivet e, poi, altre tecniche di fecondazione artificiale hanno consentito la nascita di milioni di bambini in tutto il mondo. L’altro fu quello del dibattito bioetico. Mai così acceso.
Il dibattito interessò gli scienziati. Soprattutto dopo che uno di loro, Jacques Testart, pioniere della Fivet in Francia, fu preso dai dubbi e pubblicò un libro, L’uovo trasparente, che fece molto rumore. Ma interessò soprattutto gli esperti di bioetica. In Italia la discussione fu per molto tempo monocorde. Tranne un intervento favorevole alla nuova tecnica del grande genetista Adriano Buzzati-Traverso sul Corriere della Sera, tutta la stampa italiana assunse una posizione di rifiuto. Alimentata da un forte intervento delle autorità vaticane, che sottolineavano la «sostituzione indebita» dell’uomo alla volontà divina in un processo decisivo qual è quello di dare la vita a una persona.
Negli anni il dibattito intorno alla fecondazione artificiale in tutto il mondo si è stemperato. Anche perché la nascita di milioni di bambini sani ha reso evidente che la infertilità, come ogni malattia, può essere curata. E che la cura, lungi dall’essere un frutto di arroganza, è un atto di solidarietà che produce effetti largamente desiderabili.
La posizione del Vaticano, tuttavia, non è cambiata. Quando nel 2010 a Robert Edwards fu assegnato il Nobel «per lo sviluppo della fertilizzazione in vitro», molti esponenti autorevoli d’oltretevere condannarono la decisione del Karolinska Institutet di Stoccolma, considerando ancora la Fivet un’indebita interferenza nei disegni divini. Non la pensano così la comunità scientifica internazionale, i milioni di bambini nati con questa tecnica e le loro felici famiglie.

La Stampa 11.4.13
«Ha indicato la strada da seguire»
domande a Ettore Cittadini Ginecologo
di Valentina Arcovio


«Da quando Robert Edwards riuscì per la prima volta a fecondare un ovulo al di fuori del corpo di una donna, unendolo a uno spermatozoo in provetta, tutti i progressi fatti fino ad oggi sono frutto delle sue eccezionali intuizioni». A parlare è il ginecologo palermitano Ettore Cittadini, uno dei massimi esperti in fecondazione assistita in Italia. Cittadini sarà tra gli esperti che interverranno da domani a Torino all’evento «Forum for the Future -Leading Innovation in Fertility», organizzato da Merck Serono.
Professore, dopo il lavoro di Edwards, quali passi abbiamo fatto per migliorare le tecniche di fecondazione in vitro?
«Tutto quello che la ricerca ha prodotto negli ultimi anni è solo un affinamento dello straordinario lavoro di Edwards. Le tecniche sono sicuramente diventate più sofisticate. Siamo, ad esempio, riusciti ad ottimizzare le probabilità di gravidanza senza la necessità di produrre grandi quantità di ovociti, tramite stimolazioni ormonali più lievi. Abbiamo migliorato la capacità di analisi del materiale genetico dell’ovocita e dell’embrione. Abbiamo allargato il campo di patologie individuabili tramite la diagnosi pre-impianto. Ma tutto questo è solo frutto del lavoro di Edwards».
Cosa è cambiato oggi nei laboratori?
«Sono cambiati i mezzi. Se più di 50 anni fa Edwards avesse avuto gli stessi mezzi di oggi, i suoi studi sarebbero arrivati più lontano di quanto non abbiano già fatto. E la ricerca progredirebbe ancora più velocemente, se non ci fossero tutti quegli ostacoli etici e ideologici che Edwards incontrò nel corso della sua carriera e che sono gli stessi che spesso i ricercatori incontrano oggi».
Quale direzione ha preso la ricerca sulla fecondazione in vitro?
«Stiamo seguendo la via che ci ha indicato Edwards tanti anni fa. L’obiettivo è rimasto lo stesso: aiutare le coppie in difficoltà a mettere al mondo bambini sani».

La Stampa 11.4.13
Il futuro della democrazia: torniamo a Socrate
Il pensiero nel senso socratico è l’unica arma che abbiamo per inseguire la felicità personale e collettiva
La capacità di argomentare e di ragionare lega il socratismo alla democrazia
Le parole di Heidegger: «Ciò che più ci dà da pensare è che non abbiamo ancora incominciato a pensare»
di Franca D’Agostini


Forse l’idea più assurda che sia stata sostenuta nella filosofia del Novecento è l’idea dell’incompatibilità di filosofia e democrazia. A sostenerla esplicitamente è stato Richard Rorty, il filosofo dell’ironia e della filosofia post-filosofica, ma con più o meno esplicita convinzione, anche molti altri, niente affatto rortyani, l’hanno caldamente condivisa. Rorty arrivava al punto di dire che la filosofia è «dannosa» per la democrazia. Oggi la dichiarazione sembra perlomeno enigmatica, essendo diventato chiaro (specie in Italia) che il danno consiste in tutt’altro.
Già, ma quale filosofia? Il termine è sempre stato piuttosto vago, e oggi sembra esserlo ancora. Da qualche tempo però circola l’idea che il socratismo, ovvero quel tipo di pratica intellettuale esercitata da Socrate, sia il tipo di filosofia che non solo non è dannosa, bensì è utile anzi forse essenziale in democrazia. A sostenere una versione influente di questa idea è stata Martha Nussbaum, in vari scritti. Però per Nussbaum quel che serve del socratismo è anzitutto «la vita esaminata», che ci porta al «rispetto» e alla «comprensione» degli altri: vale a dire la capacità di capire i bisogni, le speranze, in una parola l’interiorità, altrui. Certamente, il paradigma socratico prevedeva anche questo: secondo alcune interpretazioni (per esempio quella di Giovanni Reale) è Socrate l’inventore dell’anima, o anche dell’interiorità pensante.
Ma questa figura di Socrate sembra un po’ tenue, e comunque troppo gentile per essere utile nella sfida che la vita democratica presenta ogni giorno. Certo l’appello a pensare, riflettere, e tenere conto degli altri, è buona cosa: ma davvero tutto sta solo lì? Davvero l’ironico pensatore che condannato a morte prende in giro i suoi giudici è destinato a funzionare storicamente come questa specie di gentile signore benpensante, e sostenitore del buon pensiero?
Credo di no. Anzi rovescerei l’ipotesi. Ciò che veramente lega il socratismo alla democrazia credo sia anzitutto l’arte dialettica, come arte di pensare e ragionare e argomentare, che Socrate condivideva con i sofisti, contrapponendosi però al modo narcisistico e formalistico in cui loro la esercitavano, e lanciando il primato dei concetti di bene , vero (to alethes), reale nel lavoro del pensiero.
Era questo in definitiva ciò che di Socrate fu il primo tratto riconosciuto, nelle opere di Platone. E il termine «filosofo» entra definitivamente nell’uso, nella lingua greca, nel IV secolo a. C., proprio in relazione a questa sottile ma decisiva differenza tra Socrate e i sofisti.
Socrate è filosofo in quanto argomenta e pensa «bene» con abilità e scioltezza, come i sofisti, e come loro esercita il pensiero critico e scettico, ma a differenza dei sofisti argomenta in funzione del vero, e del bene, perché sa che questa è la prima fonte dell’ eudemonia, la felicità propria e altrui.
Nell’aprire i lavori di Biennale Democrazia, Zagrebelsky lancia un’idea che più socratica non potrebbe essere: la felicità del pensiero. In effetti è proprio questa l’idea che i filosofi attraverso i tempi hanno ripetuto: la vita filosofica, la vita del pensiero, è la più felice.
Nietzsche odiava questa idea, perché la interpretava come rifiuto dell’energia della vita biologica, e rifugio in una forma di astratto e malato intellettualismo.
Dimenticava che tra i continuatori di Socrate vi furono i cirenaici, grandi teorici del primato del piacere, e i cinici, nemici dell’intelletto al potere.
Ma soprattutto dimenticava una questione assolutamente semplice, banale, pragmatica: che il pensiero nel senso socratico è l’unica arma di cui disponiamo, in democrazia, per inseguire la felicità personale e collettiva. E possiamo usarlo bene (per il bene proprio e altrui), o male (scambiando per bene quel che è male, per noi stessi e/o per gli altri). Ma Nietzsche non era certo un democratico, né pretendeva di esserlo.
Se teniamo conto di tutto questo, emerge il punto principale, che Nussbaum e gli altri socratici contemporanei non osano dire: che la democrazia è filosofia al potere. Non il potere dei filosofi (errore di Platone), e neppure della disciplina accademica o scienza chiamata filosofia (errore di Hegel), bensì proprio e solo potere di quel pensiero critico, scettico e dialogico che a partire da Socrate si chiamò appunto filosofia. Se non ha potere quel pensiero, quella pratica, per tutti gli individui del demos, politici inclusi, la democrazia diventa un gioco ridicolo, di cui devono occuparsi i pubblicitari o i consulenti d’immagine. Oppure diventa un caos di interessi divergenti, che confliggono senza senso e senza giustizia. O diventa il grande e insulso teatro in cui si sbizzarriscono falsificatori e manipolatori di ogni genere.
La buona notizia è che la filosofia si impara: era questa la grande scoperta della paideia greca. E in effetti bisognerebbe incominciare dalle scuole elementari a impratichirsi con il socratismo, con tutte le sue formule: il concettualismo e il metodo delle definizioni (saper usare bene le parole e i concetti), l’ironia e la coscienza della propria ignoranza (mettere in ridicolo gli snob, e non credersi migliori degli altri), il gioco dialettico e dialogico che guida la ricerca del bene proprio e altrui (imparare a discutere e ad ascoltare), vedere e conoscere il mondo delle idee (saper immaginare mondi possibili, migliori).
«Ciò che più ci dà da pensare, diceva Heidegger, è che non abbiamo ancora incominciato a pensare». Forse per questo è così difficile realizzare la democrazia: non abbiamo ancora incominciato a essere davvero democratici, che vuol dire: a essere liberi nel pensiero. Ma questa non è una nostra colpa: in fin dei conti la democrazia è una giovane creatura della nostra specie. Dopo la parentesi greca, il pensiero democratico, lo sappiamo, ha avuto vita difficile, ed è solo nell’Ottocento che il demos, il vero portatore del socratismo, ha incominciato ad affacciarsi nella storia, e diventare protagonista.

l’articolo che segue cita «La pazzia dimenticata» (l’Asino d’oro edizioni)
La Stampa 11.4.13
Dove andrà Sandokan se chiude il manicomio?
La data fissata era marzo 2013 ma tutto slitta perché non sono pronte realtà alternative
Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dovrebbero essere tra breve aboliti: un libro racconta pazienti e strutture
di Marco Neirotti


In Italia sono ancora attivi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto

Che fine ha fatto l’Avvoltoio, che si scagliò sul vicino di letto e con le dita gli cavò gli occhi? E Sandokan, che sventrò il fratello e ne appese una foto per giocarci a freccette? Dove si aggira Star Trek, che guidava automobiliastronavi, e Granellino, che ammazzò la madre e voleva fuggire per andare a proteggerla? Con il fotografo Tonino Di Marco vivemmo giornate con loro in quelli che i tecnici chiamano Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) e la gente, tra orrore e fiducia nelle recinzioni, manicomi criminali. Ora qualcuno è libero al mondo, qualcuno prigioniero dietro una lapide, altri in attesa della chiusura di Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto.
Dopo il lavoro della Commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Ignazio Marino, si è fissata la fine marzo 2013 per far sfollare i circa 1400 ospiti delle sei strutture (cinque di natura carceraria, soltanto Castiglione non penitenziaria) definite da Giorgio Napolitano, nel discorso di fine 2012, «l’estremo orrore inconcepibile in un paese civile». La data però slitta ancora, perché le alternative non sono pronte e già gli anni che seguirono la «180» furono drammatici: quella legge fece suo in modo frettoloso il progetto dello psichiatra Franco Basaglia, inorridito dalle condizioni dei malati e dalla cronicizzazione della malattia. Si riversò per le strade una folla sradicata e spaesata, con famiglie lasciate sole mentre fiorivano strutture private non sempre all’altezza, talora mosse solo da business. Per i malati di oggi, dichiarati «pericolosi», si prospettano strutture con massimo venti posti, non detentive, che li liberino dall’«ergastolo bianco». Ma un conto è la carta, un conto la pelle, soprattutto in questa fase di sfacelo della Asl.
In un momento tanto delicato entra nelle librerie una lente d’ingrandimento sulla detenzione e cura: La pazzia dimenticata (l’Asino d’oro), viaggio negli Opg, di Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, che già dedicò un libro alle madri assassine seguite a Castiglione delle Stiviere. Dopo le basi storiche, l’autrice ascolta gli operatori, spesso motivati e attivi al limite del sacrificio su una nave con il timone rotto, le vele mal rattoppate, la cambusa semivuota, culturalmente lontani dal giochetto irridente con cui si ricevevano gli ospiti negli Anni ’60: «Hai mai camminato con tre scarpe?» Narra letti di contenzione con il foro nel mezzo, muri marci, latrine intasate, docce secche, ma anche aree verdi, atelier di pittura, palestre. E incontra gli internati, orgogliosi nel loro buio o persi nella disperata impotenza: il ragazzo che accoltellava nel parco una sconosciuta e a chi voleva bloccarlo ripeteva, menando fendenti: «Non posso fermarmi, devo farlo»; il «mostro di Posillipo» che approva la chiusura degli istituti e tranquillo avverte: «Quando esco lo rifaccio»; Monica che ha «ucciso il diavolo», peccato che stava colpendo il figlioletto di due anni e mezzo. Dove andranno? Avranno strutture adatte? Perderanno quel che di buono affiora attorno alle antiche scale scrostate? Antonino Calogero, psichiatra che ha diretto per anni Castiglione delle Stiviere (l’unico dei sei «assolto» dalla Commissione), non si arrocca sul passato, ma teme salti nel vuoto: «Da noi si è lavorato imponendo al paziente di muoversi liberamente nell’area limitrofa. Solo dopo aver superato questa fase egli può riavvicinarsi alla sua realtà precedente. Non voglio dire che debba stare sempre nell’Opg, né che non debbano esistere strutture intermedie vicine al suo territorio, ma tutto deve essere fatto gradualmente. A me pare che la legge non abbia davvero tenuto conto delle esigenze di cura di persone che hanno commesso reati gravi per malattia». Il senatore Marino avverte: «Dentro queste strutture non si può assistere un internato che ha un infarto, per non parlare di persone con patologie gravemente invalidanti, come la gangrena dovuta al diabete. L’Italia non potrà considerarsi un paese civile se all’orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari non si metterà fine nel 2013».
E il territorio? Walter Gallotta, psichiatra di formazione basagliana, primario del SPDC (il «repartino) dell’ospedale San Giovanni di Roma, sostiene: «Qui affrontiamo le emergenze, poi ci sono le comunità terapeutiche, poi la riabilitazione nei centri diurni». E indica i «passi» della possibilità nei pazienti che escono per andare a prendere il caffè al bar, senza pericoli. Calogero frena: «Non concordo con la territorializzazione: per esperienza penso che in una prima fase il paziente tragga giovamento proprio dall’essere in un luogo distante da dove ha commesso il reato, dove subisce meno le reazioni emotive, per quanto legittime, dei familiari delle vittime e dello stesso ambito sociale. Non condivido la fretta di chiudere. Bisogna almeno salvaguardare le cose che funzionano». Al dibattito non partecipano Avvoltoi e Granellini, Star Trek e Pittori, però molti di loro ascoltano, cercano di immaginare un futuro. Quello che non sanno né loro né noi è quando, insieme con le leggi, con l’abbattimento degli orrori, si sfalderanno il senso diffuso di vendetta e di cancellazione dal mondo.

Corriere 11.4.13
Quei 26 euro l'anno
Tutti i musei pubblici d'Italia guadagnano meno del Louvre
In Campania paga il biglietto un visitatore su due, in Friuli uno su dieci
di Gian Antonio Stella


Ventisei euro di incassi l'anno per ogni dipendente: è da apocalisse il bilancio dei musei e dei siti archeologici calabresi. Sparare solo sulla Calabria, però, sarebbe ingiusto. Sono i conti del nostro intero patrimonio culturale a esser tragici: tutte le biglietterie statali italiane messe insieme hanno fatto introiti nel 2012 per un centinaio di milioni. Il 25% in meno del Louvre da solo.
Sgombriamo subito il campo da una polemica: statue e dipinti, fontane e ville rinascimentali non hanno come obiettivo principale fare soldi. Prima vengono la tutela e la condivisione del patrimonio che ci hanno lasciato i nostri avi. Ed è giusto che sia così. Non c'è museo al mondo che possa reggersi sui biglietti. E se anche funzionassero da noi come nei Paesi più civili le cose di contorno che aiutano a produrre denaro (dalle caffetterie ai Bookshop, dai parcheggi al merchandising) non sarebbero sufficienti.
Sia chiaro: è indecente che questi «optional» da noi siano trascurati. Ma in ogni caso anche là dove funzionano c'è comunque bisogno che le casse pubbliche (sapendo che poi gli investimenti rientrano generando ricchezza con tutto l'indotto intorno, dagli hotel ai caffè, dagli Internet point ai b&b) si facciano carico di una parte delle spese.
Ma un conto è che lo Stato, le Regioni, i Comuni ci rimettano il 30%, un altro che ci perdano il 95%. E vista la nostra situazione finanziaria è stupefacente che il tema non venga preso di petto come la sua gravità obbligherebbe.
Per cominciare, occorrerebbe far chiarezza nel caos anarcoide e incontrollabile degli ingressi liberi. Non è una questione di Nord e di Sud, dicono i dati ministeriali. È accettabile che entrino gratis uno su due dei visitatori dei musei in Campania e nove su dieci (1.347.316 contro 140.876) in Friuli-Venezia Giulia?
«Noi tutti prendiamo più sul serio ciò che costa che non ciò che è gratuito», ha scritto Luciano De Crescenzo. Ed è assolutamente vero. In questo caso a maggior ragione perché comunque i costi dei custodi, del riscaldamento, della luce elettrica di ogni museo ricadono sulle spalle dei cittadini che devono sostenere il sistema con le loro tasse. Ma se diamo per scontato che sia interesse della società lasciar entrare gratis tutti gli studenti fino ai 25 anni o gli anziani (lo fanno anche il Louvre e tantissimi musei economicamente sani), una regola generale deve comunque esserci.
La sproporzione tra quanti pagano il ticket in Calabria (uno ogni 18) o in Puglia (uno ogni tre) non ha senso. Come non hanno senso i paragoni fra le regioni del Nord, al di là del caso friulano: perché dovrebbero acquistare il biglietto il 67% dei turisti nei musei veneti e solo il 40% in quelli piemontesi e meno del 35% in quelli liguri? La media nazionale, del resto, è illuminante: per vedere i nostri tesori, i visitatori costretti ad aprire il portafogli sono solo 16 milioni su 36 e mezzo: venti entrano gratis.
Per carità, uno Stato serio potrebbe farne una scelta strategica: a Las Vegas mangiare e dormire costa molto meno che nel resto dell'America perché gli albergatori sanno che i clienti lasceranno giù un mucchio di dollari ai tavoli di poker e alle slot-machine. E così si regolano da anni con i musei nazionali, come ricorda Il Giornale dell'arte, i britannici.
È una questione di scelte: offri musei e siti archeologici e palazzi nobiliari gratis o quasi per attirare turisti sapendo che spenderanno poi nelle trattorie, nelle paninoteche, nelle locande, nelle botteghe. Il guaio è che nel nostro caso l'impressione netta è che a decidere sia la sciatteria, l'improvvisazione, la confusione totale. Senza un minimo di progetto. Di visione strategica.
La stessa raccolta di dati è un casino. All'Ufficio statistica del ministero, per quanta buona volontà ci mettano, possono rastrellare i numeri di quasi tutto il Paese compresi il Friuli e la Sardegna, che sono Regioni autonome. Ma se chiedete loro quelli della Sicilia, della Val d'Aosta o del Trentino-Alto Adige, come abbiamo controllato ieri, vi risponderanno: «Non ne abbiamo la più pallida idea». Se il ministro vuole avere un quadro complessivo deve farselo comporre dalla segreteria, costretta a chiamare una ad una le repubblichine indipendenti. Cosa c'entrano, queste gelosie, con l'autonomia?
Quasi tre mesi e mezzo dopo l'inizio del 2013, la Regione Sicilia non è ancora in grado di dire com'è andato il 2012. L'unico dato: nel primo semestre rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente gli incassi sono calati del 7,6%, i visitatori paganti del 10,6%. Quanto al 2011, spiccano dolorosamente i 400 turisti paganti (poco più di uno al giorno) all'Area archeologica di Megara Hyblaea, bella ma soffocata dalle pestilenziali vicine aree industriali. O il Museo archeologico Ibleo di Ragusa: 1,4 visitatori al giorno. Per non dire del museo archeologico di Marianopoli: due alla settimana. Per un incasso, se si tratta di adulti senza riduzioni, di un totale di quattro euro. Sedici al mese, 192 l'anno. Il sito di Ravanusa non è più in elenco: forse a causa delle perplessità sollevate dalla scoperta che nel 2009, a fronte di 340.000 euro di spese per gli stipendi dei dieci custodi e la manutenzione, aveva avuto nell'intero anno un solo visitatore. Uno.
Come si può, davanti a questi numeri impressionanti, invocare l'intangibilità assoluta dello status quo e l'inamovibilità degli addetti che non si possono spostare da un sito archeologico all'altro, da un museo all'altro? Anche ammesso che lo Stato (dovremmo scoprire giacimenti di diamanti sui Nebrodi o in Valsugana...) potesse farsi carico di tutto, è accettabile che lo Stato copra gli stipendi annuali dei dipendenti del ministero dei Beni culturali recuperando dagli introiti per ogni addetto 9.251 euro in Toscana, 4.487 in Lombardia, 6.896 in Campania, 250 in Liguria e 56 in Molise?
Per non dire, appunto, della sventurata Calabria dove gli incassi totali sono precipitati a 24.823 euro («numeri da chioschetto», ha scritto il Quotidiano della Calabria) e parallelamente, come raccontavamo l'altro giorno, i costi per il restauro del Museo archeologico si sono triplicati in tre anni salendo a 33.010.835 euro. Vale a dire che, con gli incassi di oggi, il recupero avverrebbe in 1.329 anni. Meno male che prima o poi, nonostante i ritardi, torneranno al loro posto i Bronzi di Riace. E il sole, finalmente, farà capolino anche sugli incassi reggini...

Repubblica 11.4.13
La grande trasformazione
Escono gli inediti di Karl Polanyi che sviluppano i temi della sua opera più importante
Così il lavoro dell’uomo diventò una merce
di Karl Polanyi


La società nella quale viviamo, a differenza delle società tribali, ancestrali o feudali, è una società di mercato. L’istituzione del mercato costituisce qui l’organizzazione di base della comunità. Il legame di sangue, il culto degli antenati, la fedeltà feudale sono sostituiti dalle relazioni di mercato. Una siffatta condizione è nuova, in quanto un meccanismo istituzionalizzato offerta/ domanda/ prezzo, ossia un mercato, non è mai stato nulla più che una caratteristica secondaria della vita sociale. Al contrario, gli elementi del sistema economico si trovavano, di regola, incorporati in sistemi diversi dalle relazioni economiche, come la parentela, la religione o il carisma. I moventi che spingevano gli individui a prendere parte alle istituzioni economiche non erano, solitamente, di per sé «economici», ossia non derivavano dal timore di rimanere altrimenti privi degli elementari mezzi di sussistenza. Quel che era ignoto alla maggior parte delle società – o meglio a tutte le società, a eccezione di quelle del laissez-faire classico, o modellate su di esso – era esattamente la paura di morire di fame, quale specifico stimolo individuale a cacciare, raccogliere, coltivare, mietere.
Infatti, la produzione e la distribuzione di beni materiali e servizi nella società non sono mai state organizzate, prima del XIX secolo, attraverso un sistema di mercato. Quest’innovazione prodigiosa fu realizzata includendo i fattori della produzione, il lavoro e la terra, all’interno di quel sistema. Il lavoro e la terra furono essi stessi trasformati in merci, cioè, vennero regolati come se si trattasse di beni prodotti per la vendita. Ovviamente essi non costituivano vere e proprie merci, dal momento che o non erano stati affatto «prodotti» (come la terra), o, comunque, non lo erano «per la vendita» (come il lavoro).
La reale entità di un siffatto mutamento può essere misurata se si ricorda che il «lavoro» è soltanto un altro nome per l’uomo, come la «terra» lo è per la natura. La costruzione fittizia della merce consegnò il destino dell’uomo e della natura alle dinamiche di un automa, che si muove sui propri binari ed è governato unicamente dalle proprie leggi. L’economia di mercato creò così un nuovo tipo di società. Il sistema economico o produttivo fu affidato a un dispositivo autoregolantesi. Un meccanismo istituzionale controllava tanto le risorse della natura quanto gli esseri umani nelle loro attività quotidiane.
In questo modo venne a esistenza una «sfera economica», la quale era nettamente separata dalle altre istituzioni sociali. Poiché nessuna comunità umana può sopravvivere senza un apparato produttivo funzionante, ciò ebbe l’effetto di trasformare il «resto» della società in una mera appendice di tale sfera. Questa sfera autonoma, ripetiamo, era regolata da un meccanismo che controllava il suo funzionamento. Di conseguenza, quel meccanismo di controllo divenne determinante per la vita dell’intera compagine sociale. Non v’è da stupirsi che l’aggregazione umana emergente fosse «economica» a un livello al quale in precedenza non ci si era mai nemmeno avvicinati. I «moventi economici» regnavano allora supremi nel loro proprio mondo; l’individuo era costretto ad agire secondo la loro logica, a pena della propria estinzione.
In realtà, l’individuo non è mai stato così egoista come preteso dalla teoria. Benché il meccanismo di mercato renda manifesta la sua dipendenza dai beni materiali, le motivazioni «economiche» non hanno mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Invano gli economisti e i moralisti utilitaristi lo hanno esortato a non considerare negli affari se non motivazioni di carattere economico, ad esclusione di tutte le altre. Osservando più da vicino il suo comportamento, è apparso evidente, tutt’al contrario, come questo rispondesse ad una serie di motivazioni di natura significativamente «composita», ivi comprese quelle derivanti dal senso del dovere verso se stesso e verso gli altri (e forse, persino, godendo in segreto del lavoro come fine in sé).
Tuttavia, non dobbiamo qui occuparci dei moventi reali, ma soltanto di quelli presunti, dal momento che le teorie sulla natura umana non sono fondate sulla psicologia, bensì sull’ideologia della vita quotidiana. Di conseguenza, la fame e il profitto vennero isolati come «moventi economici» e si iniziò a presumere che l’uomo agisse, in concreto, in base a essi, mentre le altre motivazioni apparivano più eteree e distaccate dai fatti prosaici dell’esistenza quotidiana. L’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza, furono ora ritenuti irrilevanti per i rapporti produttivi e significativamente compendiati nella parola «ideale». Si ritenne, perciò, che nell’uomo fossero presenti due elementi, uno maggiormente attinente alla fame e al profitto, l’altro all’onore e al potere. L’uno «materiale», l’altro «ideale»; l’uno «economico», l’altro «non economico»; l’uno «razionale», l’altro «non razionale».
L’immagine dell’uomo e della società risultante da tale premessa era la seguente. Rispetto all’uomo, fummo indotti ad accettare la teoria per cui i suoi moventi possono essere descritti come «materiali» e «ideali» e gli stimoli, sulla base dei quali è organizzata la vita quotidiana, derivano dai moventi «materiali». Rispetto alla società, fu propugnata una tesi analoga, secondo la quale le sue istituzioni sono «determinate» dal sistema economico. In un contesto di economia di mercato entrambe le asserzioni erano, ovviamente, vere. Ma soltanto all’interno di un simile assetto economico.
Rispetto al passato, tale prospettiva era nulla più che un anacronismo. Rispetto al futuro, essa era un mero pregiudizio. Ciò perché questo nuovo mondo dei «moventi economici» era basato su un errore. Intrinsecamente, la fame e il profitto non sono più «economici» dell’amore o dell’odio, dell’orgoglio o del pregiudizio. Nessun movente umano è di per sé economico. Non esiste alcuna esperienza economica sui generis, nello stesso senso in cui l’uomo può avere esperienze religiose, estetiche o sessuali, che diano origine a moventi i quali tendano globalmente a suscitare esperienze simili. Questi termini non hanno alcun significato immediato in relazione alla produzione materiale.
Così vacue sono, pertanto, le fondamenta del determinismo economico. I fattori economici influenzano il processo sociale (e viceversa) in innumerevoli modi; tuttavia, in nessun caso, se non sotto un sistema di mercato, i suoi effetti si rivelano più che limitanti. Né la sociologia, né la storia contraddicono questo assunto. E gli antropologi negano, a ragione, che la particolare connotazione di una determinata cultura sia dipendente dall’assetto tecnologico o persino dall’organizzazione economica.
Non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile. Una cosa abbonda in una società industriale, e cioè il benessere materiale, oltre  il necessario. Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo. Il messaggio degli storici dell’economia ai filosofi dovrebbe essere, oggi, il seguente: possiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi.
(Traduzione di Giorgio Resta)
Un particolare da Il banchiere e sua moglie di Quentin Metsys (1514)

Corriere 11.4.13
Un miliardo in quadri cubisti, maxi donazione al Met


Una donazione eccezionale per il Metropolitan Museum di New York: Leonard Lauder, il milionario erede dell'impero dei cosmetici e figlio della fondatrice Estée, ha regalato al museo sulla Fifth Avenue la sua collezione di arte cubista, per un valore stimato in un miliardo di dollari. La collezione comprende settantotto opere, da Picasso a Braque, da Gris a Leger. I responsabili del Metropolitan hanno riconosciuto che la donazione riempirà al meglio una grossa lacuna sull'arte dei primi del Novecento. «È una collezione irripetibile, il sogno di qualsiasi direttore di museo, che pone il Met all'avanguardia dell'arte dell'inizio del secolo XX», ha commentato il direttore e amministratore delegato della prestigiosa istituzione, Thomas P. Campbell.

La Stampa 11.4.13
Addio a Paolo Soleri, architetto utopista che creò la città ideale di Arcosanti


Addio a Paolo Soleri: il visionario architetto torinese famoso per aver disegnato Arcosanti, una eco-città ideale nel deserto, è morto a 93 anni nella sua casa di Paradise Valley in Arizona. La fondazione Arcosanti ha annunciato ieri sul suo sito la scomparsa di «una delle grandi menti del nostro tempo: architetto, costruttore, artista, scrittore, teorico, marito, padre, nato nel Solstizio d’Estate». Soleri, che aveva studiato con Frank Lloyd Wright negli Anni 40, aveva messo a punto una filosofia da lui battezzata arcologia - architettura accoppiata con un’ecologia dal sapore new age - in risposta al dilagare della cultura dei sobborghi. L’avventura di Soleri e di Arcosanti parte da lontano, dalla laurea al Politecnico di Torino nel 1946, un anno prima del trasferimento negli Usa. Dopo 18 mesi di apprendistato a Taliesin West con Wright l’architetto torna in Italia. Nel 1955 l’architetto si trasferisce a Paradise Valley, inseguendo il suo sogno di città perfetta: fonda prima la Cosanti Foundation, una scuola cantiere autofinanziata in collaborazione con l’università, poi nel 1970, con l’aiuto della moglie Colly e di settemila volontari realizza Arcosanti, prototipo urbano pensato per accogliere 5 mila persone sotto il segno dell’arcologia.

Corriere 11.4.13
L'architettura, un'utopia per l'uomo
Paolo Soleri, asceta visionario dell'urbanistica futura
di Pierluigi Panza


Molti di coloro che l'hanno visitata, decidendo di svoltare la macchina da Phoenix sulla route 17 in direzione Sedona — perché lì c'è la città dell'architetto visionario, la Blade Runner hippy — sono rimasti un po' delusi di quanto fosse indietro la costruzione del luogo utopico di Arcosanti. «Ci manteniamo vendendo campane di ceramica», si giustificavano con i 50 mila visitatori all'anno i tanti studenti - stagisti o stanziali (7 mila in tutto) — che spiegavano cosa stesse nascendo lì, tra i cactus del deserto dell'Arizona. «La ricchezza di questo luogo — spiegavano — consiste non nell'avere di più, ma nell'aver bisogno di meno».
Beata gioventù, beat, spirituale, on the road! L'idea che la frontiera americana fosse anche la frontiera ideale per costruire una nuova «città del Sole» venne all'architetto torinese Paolo Soleri, scomparso novantatreenne il 9 aprile (come il suo maestro Frank Lloyd Wright), alla metà degli anni Sessanta. Di città utopiche l'architettura si è sempre nutrita: Tommaso Moro, Giovanni Botero, Tommaso Campanella… e, poi, i grandi architetti rivoluzionari francesi del Settecento come Boullée, Ledoux, Durand, padri ideali del Movimento Moderno secondo lo storico Emil Kaufmann. Solo che quasi tutte queste gigantesche città ideali sono rimaste sulla carta: disegni o parole. Soleri, invece, era partito dal Parco del Valentino (sede del Politecnico di Torino dove si era laureato nel '46) animato dallo spirito del socialismo utopistico ottocentesco di William Morris e di John Ruskin, per fondarne una. Era partito come i pioneri che avevano fondato l'America per declinare questo utopismo «Art and Craft» ai suoi giorni, facendolo incontrare con la beat generation e un po' di New Age, che aveva in Sedona la sua capitale. È vero: erano i tempi di Bob Dylan, Joan Baez, e Arcosanti, la città ispirata a una nuova disciplina ecologica chiamata «arcologia», poteva nascere persino non lontano dalla downtown di Los Angeles con vista sui vizi dello show-biz di Hollywood.
Arcologia, ovvero un misto di angelico, di romano (l'arco) e di utopistico che aveva in sé le stimmate del non-finito: non poteva concludersi quel luogo, solo rimanere un on the road dell'architettura, città nata in «rovina» e, pertanto, come diceva il filosofo Georg Simmel, essenza stessa dell'architettura in quanto rappresentazione dello sforzo spirituale dell'uomo d'innalzare e della Natura di distruggere.
Soleri, nato a Torino il 21 giugno 1919, iniziò a costruire Arcosanti nel 1970, prototipo di città per 5 mila persone i cui primi abitanti furono lui e sua moglie Colly, trasferitisi in Usa nel '47. Lui era andato a lavorare nello studio di Taliesin di Frank Lloyd Wright, il grande maestro di quell'architettura organica che gli servì come approccio per costruire luoghi che sfruttassero il meno possibile risorse e ambiente. Nel '65 annunciò su «L'Architecture d'Aujourd'hui» l'intenzione di realizzare una grande struttura per la Nuova Cosanti su un terreno a 60 miglia a nord di Phoenix. La fondazione messa su da lui riuscì ad acquistare 60 acri di terreno e a ottenere la concessione per lo sfruttamento di altri 800 acri confinanti. Il luogo scelto fu la parte terminale di una gola che si affaccia sulla valle del fiume Agua Fria. Iniziò un rito, una performance: arrivarono gli studenti peace-love-freedom dell'Arizona e si cominciò a costruire, con mattoni realizzati a mano, archi, case e stazioni di osservazione delle costellazione, quasi sul modello dell'osservatorio astronomico di Jaipur. L'idea urbanistica è quella dell'implosione, cioè dell'accorpamento delle varie finalità in un corpo organico collettivo (vedi anche il progetto per Mesa City del '59). Le aeree liberate dai mega accorpamenti dovevano servire per l'agricoltura o il godimento naturale. «Questo forma un ecosistema», diceva Soleri.
A parte i laboratori urbani di Cosanti e Arcosanti, in Arizona, Soleri progettò nel '96 un Hyper Building, una città-satellite autonoma da costruire in pieno deserto Mojavé composta da un edificio-torre alto un chilometro, che doveva ospitare 100 mila abitanti: un mammuth che ricorda Metropolis di Fritz Lang o lo scenario di Il condominio di James Ballard. Riuscì a costruire un ponte a Scottsdale e una fabbrica di Vietri sul Mare.
Ascetico e visionario, non si stancò mai di sognare mentre l'architettura era diventava speculazione, esibizione... Venne premiato tardi: nel 2000 Leone d'oro alla Biennale (che ieri lo ha ricordato) e nel 2006 Cooper Hewitt Award. Nel 2005 il Maxxi gli dedicò una mostra, nel 2003 Jaca Book ha pubblicato un suo Itinerario di architettura. Lascia due figlie, Kristine e Daniela, che svolgono ricerche urbane presso la Cosanti Foundation. Il funerale sarà privato ad Arcosanti e il corpo tumulato a fianco di quello della moglie Colly, morta 31 anni fa. Un public memorial sarà celebrato ad Arcosanti.

Repubblica 11.4.13
Addio a Paolo Soleri, architetto dell’utopia
Aveva 94 anni, fondò in Arizona Arcosanti, cantiere infinito della città ideale
di Francesco Erbani


Novantaquattro anni è morto, nella sua casa di Paradise Valley, negli Stati Uniti, Paolo Soleri. Era architetto, urbanista, scultore, uomo dalle grandi visioni applicate agli insediamenti umani. Insediamenti che non fossero schiavi dell’automobile, che non consumassero troppo suolo e troppa energia. Insomma una città che non fosse un «eremo motorizzato», come ha cominciato a chiamarla già nei primi anni Cinquanta e che potesse fuggire il destino che fin da allora, per essa, sembrava segnato.
Contro questo modello di città, immaginando una città che si riscalda e si raffredda naturalmente, senza percorsi motorizzati, custode di spazi dedicati all’agricoltura, Soleri ha lavorato lungo l’intera sua vita. Ha insegnato. Ha costruito prototipi e laboratori. Ha disegnato. Ha riempito quaderni di sagome che sembrano rimandare, contemporaneamente, a un futuro lontanissimo e a un passato remoto.
Era nato a Torino nel 1919. Completati gli studi e laureatosi in Ingegneria, Soleri si trasferisce negli Stati Uniti, dove lavora nello studio di Frank Lloyd Wright. Rientrato in Italia, ha rapporti con Adriano Olivetti. È di questi anni una delle sue migliori realizzazioni: la fabbrica di ceramiche Solimene a Vietri sul Mare, sulla Costiera amalfitana. Un edificio che mette in fila lungo una parete foderata di ceramiche una decina di coni con il vertice a terra. L’interno ha le movenze di uno stabilimento industriale altamente tecnologico. Qualcuno ci ha visto l’influenza di Gaudì. Qualcun altro l’ha interpretato come l’ideale porta d’accesso al paesaggio della Costiera.
Soleri torna negli Stati Uniti, dove resterà per sempre. Si stabilisce nel deserto dell’Arizona, a Paradise Valley dove costruisce il suo studio e un’altra fabbrica di ceramica. Comincia la progettazione di modelli urbani che rovesciano la forma assunta dalla città moderna. I disegni assumono la dimensione di un progetto esecutivo. Nel 1961, lungo l’autostrada che collega Phoenix al Grand Canyon, Soleri fonda Arcosanti, una specie di cantiere permanente dove assieme agli studenti dell’Università dell’Arizona si sperimenta la città ideale, una città originariamente pensata per 1.500 persone, che si sarebbe potuta estendere su oltre duecento ettari e che avrebbe potuto ospitare 5.000 persone.
È la città senza macchine, non energivora e in grado di riscaldarsi e raffreddarsi naturalmente. Arcosanti è il prodotto dell’arcologia, un neologismo che tiene insieme architettura ed ecologia. Ed è una città fatta di prototipi e di manufatti sperimentali. Il cantiere non è mai finito. Attualmente ospita, oltre ai residenti, festival, mostre e soprattutto studenti.
Ma il gusto per l’innovazione e per il progetto non ha abbandonato Soleri neanche negli ultimi anni, e persino superati i novanta: fra il 2005 e il 2012 l’architetto ha messo a punto il disegno di una città lineare, fatta di moduli che si possono ripetere anche per centinaia di chilometri, un nastro continuo articolato su strutture parallele che contiene la residenza, i luoghi di lavoro e di svago, le scuole e i parchi. Una città che asseconda la forma del terreno e che cattura il vento, il sole e l’acqua. Il progetto è stato presentato a Macao, in Cina. E si è proposto immediatamente come alternativo, almeno in termini culturali, al modello di metropoli che nell’estremo oriente si sta affermando.
«La ricchezza consiste non nell’avere di più, ma nell’aver bisogno di meno» spiegava Soleri, teorico di una società anticonsumista e di una città che non crescesse all’insegna dello spreco e che fosse lo spazio ideale nel quale formare comunità.