venerdì 12 aprile 2013

l’Unità 12.4.13
L’Odg
L’Anpi: al Quirinale un provato antifascista

Uscire dallo stallo in tempi brevi e, soprattutto, operare scelte ispirate «ai principi e ai valori della Costituzione e all’esigenza di moralità e di correttezza da tante parti sollecitata». Con questi auspici anche l’Associazione nazionale dei partigiani scende in campo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. In un ordine del giorno approvato ieri dal Comitato nazionale dell’Anpi si esprime «seria preoccupazione per la grave situazione politica e sociale del Paese». Per questo l’Anpi lancia un appello affinché «si riesca, in tempi brevi, a ottenere la formazione di un governo stabile e democratico, che riscuota la fiducia sia del Parlamento, sia dei cittadini e delle cittadine, corrisponda, nel complesso, all’esito del voto espresso dal popolo e sia in grado di fare fronte alle gravi difficoltà che il Paese sta attraversando, alla vera e propria emergenza sociale in atto, ai problemi della mancanza di occupazione e della stessa dignità nel lavoro, adottando le misure necessarie per ricostruire un vero rapporto di fiducia col Paese». Riguardo il futuro inquilino del Quirinale, l’Anpi «ribadisce la necessità che l’elezione del presidente della Repubblica avvenga nella più netta e trasparente chiarezza, conducendo alla scelta della persona più adatta a esercitare un ruolo di garanzia così delicato, non solo per la sua personale storia ma anche per un’autorevolezza che fondi le sue radici nella nostra storia e nei valori della Costituzione nata dalla Resistenza. Un presidente, insomma, che dia piena garanzia conclude l’Anpi di sobrietà, imparzialità e di piena rappresentanza dell’unità nazionale, dell’antifascismo e della democrazia».

l’Unità 12.4.13
Per cambiare non servono tecnocrati né folle virtuali
di Fabrizio Barca


«NON CERCO ADESIONE, MA CONFRONTO». Questa mia dichiarazione, rilasciata a Milano un paio di giorni fa, ha destato stupore in chi schiaccia la politica in una gara fra protagonisti e al tempo stesso dimentica che è solo dal confronto, dal conflitto acceso ma ragionevole fra idee, che viene il cambiamento. Il mio scritto «Un partito nuovo per il buon governo» è figlio dell’azione ministeriale per la «coesione territoriale», un’esperienza che mi ha portato a concludere che senza una nuova «forma partito» non si governa l’Italia.
Ho dunque provato a immaginare i tratti e le funzioni di questa nuova forma, concentrando l’attenzione su un partito di sinistra, essendo questo ciò che risponde ai miei convincimenti.
Per capire ciò di cui sto parlando, faccio riferimento alla storia più recente. Il solco profondo apertosi fra cittadini e «politici», la debolezza dei partiti nell’interpretare bisogni, e soprattutto nel promuovere nei territori il confronto sulle soluzioni, la loro incapacità di incalzare lo Stato, anzi la «fratellanza siamese» con esso, l’ho avvertita pesantemente in questi mesi di governo. L’ho riconosciuta nella solitudine dei sindaci, chiamati a fidarsi di un ministro della Repubblica che li invitava a cambiare metodo, senza il conforto di un partito che li aiutasse a verificare i propri dubbi. L’ho percepita nella diffidenza di militanti delle associazioni del Terzo settore, restie a travasare le proprie conoscenze in una rete aperta. Mi è apparsa evidente, infine, nella scarsa attitudine dei partiti a confrontarsi sui metodi innovativi che mettevamo sul tavolo per spendere bene i soldi pubblici.
Sono queste esperienze che mi hanno spinto a scrivere questa memoria, che hanno dato corpo alle idee e ai concetti su cui da anni mi cimentavo. Che hanno reso vivida l’ipotesi di un partito che faccia riavvicinare le persone all’azione comune, sollecitando lo Stato ad una pratica dell’azione pubblica di «sperimentalismo democratico». Ossia un metodo che superi l’errore secondo cui pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongono della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti. Ed eviti l’altro, nuovo errore della nostra epoca: quello di pensare che la folla possa esprimere quelle decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete.
Non è così. Serve un processo di azione pubblica che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine d’individui e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, usando le potenzialità della Rete.
A questo fine, per realizzare i profondi cambiamenti che la procedura deliberativa aperta richiede, e assieme superare le forti resistenze che il rinnovamento incontrerà, sono necessari un aperto e governato conflitto sociale e la coesione attorno ad alcuni convincimenti generali che parlino ai nostri sentimenti. Serve allora un partito di sinistra se dico left fa meno impressione? saldamente radicato nel territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto.
Non si tratta di tornare al partito scuola di vita, il partito di massa dove si ascoltano i bisogni e si insegna la «linea» per soddisfarli e per costruire un nuovo «avvenire» che già conosciamo. Né certo di abbracciare il partito liquido, vetrina dove si espongono con nefasta contaminazione dell’economia «prodotti politici». Si tratta di chiudere con forza per sempre la stagione dei partiti Stato-centrici o di occupazione dello Stato, e di costruire un «partito palestra» che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del pubblico denaro. Un partito che sviluppi un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle «avanguardie», ossia realizzando una diffusa «mobilitazione cognitiva».
È mio convincimento che a questo partito nuovo si possa arrivare muovendo dai partiti di sinistra che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle esperienze più avanzate che essi stanno realizzando. Per farlo è necessario il lavoro di molte persone di buona volontà, coese e capaci di lunghi cammini. Che sappiano accompagnare alla risposta (politicamente possibile) alla domanda di governo, anche la costruzione di un partito capace poi di onorare tale impegno.
Se il confronto ci sarà, se dal confronto anche acceso uscirà un’ipotesi robusta e condivisa, sarà poi possibile scrivere le regole, anche quelle del finanziamento pubblico, che dovranno rendere attuabile il partito nuovo.

IL DOCUMENTO PROPOSTO ALLA DISCUSSIONE DA FABRIZIO BARCA
SI INTITOLA “UN PARTITO NUOVO PER UN BUON GOVERNO - MEMORIA POLITICA DOPO 16 MESI DI GOVERNO”
IL TESTO INTEGRALE - DI 55 PAGINE - È DISPONIBILE QUI
IL CAVEAT ALLEGATO E DISPONIBILE QUI

l’Unità 12.4.13
«Il partito che vorrei». Barca rompe il tabù: un partito di sinistra
Il «manifesto» del ministro per il Pd e la sinistra
Il ministro si è iscritto al Pd, pensa a una forza laburista con finanziamenti pubblici ridotti all’osso
di Ninni Andriolo


«Un partito per un buon governo» dell’Italia. Fabrizio Barca smette formalmente l’abito del tecnico e rende pubblico un testo «memoria dopo 16 mesi di governo» che delinea i contorni di una forza politica di forma «nuova». Quarantanove pagine, un corposo «passo preliminare» verso un manifesto per un Pd rinnovato frutto del confronto con gli altri «saperi, sentimenti e memorie» ai quali viene chiesto un contributo attivo. «Non mi riferirò a un partito in genere, ma a un partito di sinistra», premette il ministro. Molte delle «considerazioni» partono dall’assunto che le forze politiche non sono retaggi del passato, ma strumenti essenziali anche nell’era della «Rete».
«Serve un partito saldamente radicato nel territorio, animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro e che trae da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento», spiega Barca. Il partito nuovo che immagina dovrà essere, tra l’altro, «rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, riducendo ancora il finanziamento pubblico e soprattutto cambiandone i canali di alimentazione e assicurandone verificabilità; sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri ed eletti o nominati in organi di governo; sia stabilendo regole severe per evitare l’influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente».
«Un progetto per un Pd marcatamente laburista che si allarghi anche a Vendola», così alcuni organi di stampa quando Barca annunciò l’impegno in politica. Il ministro si è iscritto al Pd ieri pomeriggio, poco prima di rendere pubblica la sua memoria. «Mi sembrava un passo doveroso mentre mi accingevo a inviare al Bersani e a Vendola il mio documento ha spiegato ieri a Lilli Gruber Mi piacerebbe che anche Renzi lo commentasse, nelle sue posizioni individuo elementi molto interessanti».
«Ho votato più a sinistra del Pd», rivelò tempo fa in una trasmissione radiofonica. «Penso di essere più utilmente spendibile in un partito piuttosto che in un organo istituzionale» confidò nel corso di un’intervista al Corriere, mentre difendeva la Cgil definita da Monti «conservatrice». «Si candida come prossimo segretario del Pd?», gli chiede una giornalista del Corriere. «Questo è un Paese dove chi manifesta la volontà di impegnarsi in politica viene subito bollato come uno che vuole fare il segretario..», rispose Barca. «Ovvio che non farò il militante ma avrò un ruolo nel gruppo dirigente aggiunse Ma non si tratta di fare organigrammi, bensì di immaginare un partito nuovo».
I retroscena delle ultime settimane? «Barca l’anti Renzi», «Si candida per il dopo Bersani», «Correrà alle primarie». Il ministro 58 anni, economista, figlio di Luciano Barca, autorevole dirigente del Pci di Berlinguer ospite della trasmissione Rai di Lucia Annunziata confermò di non ambire alla segreteria, ma di sperare di poter «far parte del gruppo dirigente del Pd». In calce al documento divulgato ieri Barca sollecita il «lavoro congiunto di una squadra che dovesse accogliere con interesse e sentimento e adeguatamente sviluppare l’ipotesi presentata in questa memoria». Battistrada di un impegno collegiale per un partito orientato verso la sinistra più che verso il centro, quindi. Impegno da prima linea, se non da leader. Barca, tra l’altro, non mostra entusiasmo per le primarie che rappresentano «il sintomo della malattia» di cui soffrono i partiti più che la cura.
Per Barca «i migliori» devono emergere nell’arco di «5 anni», tra un’elezione e l’altra. E non alla vigilia di un voto. «Per assicurare un buon governo è necessario che i partiti si separino dallo Stato», sottolinea il ministro. E il metodo che suggerisce per quello che definisce «il partito palestra» è lo «sperimentalismo democratico». Un approccio per superare «l’errore che la soluzione “minimalista” – o liberista, magna pars della crisi internazionale che viviamo – condivide con molte applicazioni concrete della soluzione “socialdemocratica”, ossia l’ipotesi che alcuni, pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongano della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti».
Barca non utilizza il termine tecnici. “Il Paese non comprenderebbe un altro governo tecnico”, spiega. Giustifica “l’emergenza” che ha dovuto affrontare Monti, ma le sue parole permettono di individuare una distanza evidente dalla stessa “ideologia” che ha guidato mosse controverse del governo dei professori. Sperimentalismo democratico, quindi, per evitare anche «l’altro, nuovo errore della nostra epoca». Quello di pensare, cioè, «che la “folla” possa esprimere decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete». Né Monti, né Grillo semplificando con approssimazione l’impostazione della memoria.
È un’altra la strada indicata. «La macchina pubblica spiega Barca deve costruire un processo che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine di individui, favorisca l’innovazione e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, sfruttando le potenzialità nuove della Rete». Costruire in Italia questo metodo di governo «richiede però un “passo del cavallo”». Anche per questo servono partiti radicati e partecipati che coinvolgano le nuove generazioni. «Al partito nuovo i giovani possono dare un contributo specifico che affonda nelle loro caratteristiche, con un’esplicita inversione dei ruoli rispetto alle precedenti generazioni», sottolinea Barca. E «i giovani aggiunge possono portare nel partito la conoscenza delle esperienze nel territorio in modo auto-organizzato». Un progetto «ambizioso» ma «possibile», assicura il ministro. Se perseguito avrà «molti nemici», avverte, «perché rivolto a fare saltare posizioni di rendita a lungo costituite e difese con caparbietà». Solo così, però, il partito diventerà «nuovamente un luogo attraente per impegnarsi in politica»

La Stampa 12.4.13
La sfida del rinnovamento. Il progetto-Barca
“Il Pd che ho in mente”. Memoria politica dopo 16 anni di governo
«No all’occupazione dello Stato, ridurre il finanziamento, basta coi signori delle tessere. Ma non sarà un partito liquido»
di Paolo Festuccia

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l’Unità 12.4.13
Bersani: «Non sono candidato al Colle»
di Maria Zegarelli e Andrea Carugati


L’incontro inizia con toni distesi, una battuta sulle voci che danno Silvio Berlusconi intenzionato a mandare Pier luigi Bersani al Colle. «Ci siamo fatti una risata insieme», raccontano fonti leghiste. «Gli unici colli ai quali sono interessato sono quelli piacentini», dice il segretario Pd. È questo clima a raccontare come sia davvero andato l’appuntamento tra il leader Pd, il segretario della Lega Roberto Maroni e i rispettivi capigruppo di Camera e Senato. «Bene, bene, è stato un buon incontro», secondo Bersani. «Un incontro amichevole, ma anche iniziale», conferma Massimo Bitonci, capogruppo al Senato.
Non si è parlato solo di Colle, per il quale Maroni è stato chiaro, «abbiamo le mani slegate dal Cavaliere sulla Presidenza della Repubblica mentre sul governo siamo tenuti all’accordo con il Pdl», si è discusso e a lungo anche di Palazzo Chigi. «Per noi l’importante è che il governo nasca prima ancora che si elegga il Capo dello Stato», premette il governatore lombardo. «Maroni si fida di Bersani spiega al telefono Bitonci perché è stato governatore di una Regione e sa cosa significa governare. Conosce i problemi, sa cosa è il Patto di stabilità e il trasporto pubblico locale, temi che tecnici come Monti padroneggiano meno bene». Giancarlo Giorgetti, che guida i leghisti alla Camera, aggiunge. «Un governatore come Maroni ha un linguaggio comune con un uomo come Bersani che ha guidato una Regione, è facile capirsi». Tanto che Maroni anche ieri non ha nascosto al leader Pd di tifare per un governo guidato da lui,
anche di larghe intese, purché guidato da lui.
Non si è parlato esplicitamente di appoggio esterno, meglio aspettare, il legame con il Pdl non permette ampi spazi di manovra, ma i segnali che la Lega manda al Pd non sono di chiusura. Tutt’altro. E sia la Lega, sia lo stesso Berlusconi (che teme Matteo Renzi come avversario), non hanno intenzione di andare al voto, queste sono le uniche certezze granitiche. Sul Colle la Lega non ha avuto nulla da ridire sui criteri su cui muoversi per indicare la rosa dei papabili, ma fonti ben informate raccontano che nei conciliaboli degli sherpa pidiellini, soprattutto nel corso di una cena ristretta, si sia ragionato a lungo sull’ipotesi di mandare Bersani al Colle per spianare la strada ad un esecutivo di grande coalizione, progetto a cui il Cavaliere lavora senza sosta. E il tam tam, poi finito su tutti i giornali, è stato così pressante che ieri Enrico Letta ha deciso con un comunicato di mettere fine al discorso. «Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non è candidato al Quirinale, come si sostiene in alcune indiscrezioni di stampa in queste ore scrive Letta -. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, sta lavorando perché il confronto con le diverse forze parlamentari produca una candidatura largamente condivisa per la presidenza della Repubblica, così come recita la Costituzione». Al Nazareno ieri c’era chi liquidava questa vicenda «come un’altra polpetta avvelenata contro il segretario», impastata probabilmente a quattro mani Pd-Pdl.
Di fatto i nomi che sembrano più probabili restano quello di Romano Prodi (ieri Rosy Bindi lo ha rilanciato, seppur non esplicitamente come Graziano Delrio), di Giuliano Amato, Franco Marini, Paola Severino è a lei che pensa il Cavaliere quando parla di una donna al Quirinale , Anna Maria Cancellieri, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà che soprattutto nel M5S raccolgono i maggiori consensi, come Milena Gabanelli d’altro canto). Sull’altro nome, quello rilanciato anche ieri da Fabrizio Cicchitto, Luciano Violante, ieri la battuta più frequente tra di democrat che passeggiavano in Transatlantico semideserto era che «non c’era modo migliore per bruciarlo. Un altro fuori, dopo Massimo D’Alema e primo del prossimo. Vedremo a chi tocca domani».
Ma è un fatto che lo snodo arriverà quando Bersani e Berlusconi si incontreranno di nuovo (c’è chi dice che potrebbero vedersi già questo fine settimana prima della manifestazione del Pdl a Bari) e solo allora si capirà se il Cavaliere sarà colomba o falco. Gli ambasciatori sono al lavoro, Maurizio Migliavacca è in continuo contatto con i suoi referenti nel Pdl in vista del faccia a faccia finale prima del 18 aprile. Altrettanto importante capire cosa farà il M5S con il quale il leader Pd potrebbe incontrarsi lunedì.
Una volta eletto il Presidente per Bersani però si aprirà un altro fronte, il governo. Ed è possibile che i democratici a quel punto chiedano di discutere della fase due in direzione: cresce la fronda di quanti ritengono superato il governo monocolore a guida Bersani. Sono sempre di più quelli che puntano al governo di scopo (e tra questi c’è chi non esclude che a guidarlo possa essere il segretario e chi ritiene sia il caso di avanzare altre ipotesi) e chi, come Renzi e i renziani ritengono che le elezioni, anche il Porcellum, siano la strada maestra. Ottobre sarebbe la data perfetta. Prima del congresso, prima della scadenza del mandato a sindaco di Firenze.

il Fatto 12.4.13
Il patto di Firenze. D’Alema-Renzi: caffè amaro per Bersani
Il patto è servito “Non mi pare ci siano scissioni”
L’ex ministro “ E’ stato un errore non volerlo tra i grandi elettori
Il sindaco a La 7 “Bersani la smetta di preoccuparsi di me e anche di sè”
di Wanda Marra


Rischio di scissione? Non mi pare che ci sia nel modo più assoluto”. Scandisce le parole, Massimo D’Alema. Palazzo Vecchio, Firenze. Il Lìder Maximo esce dall’ufficio di Matteo Renzi. Hanno parlato per un’ora. Da soli. “Due come noi che dovrebbero scindersi vengono invece da una lunga, cordiale e amichevole conversazione”, sceglie le parole D’Alema. È tutto un profluvio di complimenti. Renzi è un vincente? “Non ci sono le elezioni”. E però, “Renzi è una personalità importante del nostro partito”. Ulteriore passo avanti: “È stato un errore non volerlo tra i grandi elettori. Anche se non ci sono state pressioni da Roma, si è trattato di fatti locali”. Bersani l’altroieri non l’aveva detto. Si era limitato a smentire voci di telefonate romane per bloccarlo messe in giro dal Sindaco. Ma Baffino supera se stesso: “Renzi io non l’ho mai attaccato”. Affermazione forte per uno che era andato da Lilli Gruber durante le primarie a dire: “Se vince Renzi? Finisce il Pd”. Evocando scissioni a sinistra, nuovi partiti, bagni di sangue. Pochi secondi rapidamente diventati un cult, visto che il (fu) Rottamatore li aveva messi nel video elettorale con cui girava l’Italia in camper. La faccia stravolta di D’Alema non mancava mai di suscitare emozioni forti. Alla fine Baffino fu costretto ad auto - rottamarsi, annunciando la non ricandidatura alle elezioni. Salvo riapparire la sera della vittoria di Bersani alle primarie, auto -candidandosi per la Farnesina. Quando nel Pd le elezioni sembravano una pura formalità.
Ieri D’Alema evidentemente ha cambiato cavallo. E andando a Canossa da Renzi, si è rimesso in gioco e nello stesso tempo ha usato il suo peso per frenare le derive scissioniste. Ai danni di Bersani, però. Come l’altra semi-rottamata, Rosy Bindi, che tramite la Stampa ha mandato a dire al segretario: “Non si baratta il Colle per un governo di minoranza”. Dice ancora D’Alema: “I governi non sono mai di minoranza perché devono avere la fiducia del Parlamento". Se l’ex premier parla, Renzi tace. Fino a poche ore dall’incontro ci aveva tenuto a dirsi incerto sulla sua opportunità. Tattica. Per rimarcare che è il più forte. Eppure D’Alema gli serve. Raccontano fonti renziane che i due hanno parlato di tutto. Del Quirinale, anche se Baffino non avrebbe chiesto i voti renziani per sè, come qualcuno insinuava (sa che non è il suo momento) ; al governo; al partito. Perché D’Alema ha riconosciuto il cambio di leadership. “Sei la risorsa del futuro”, avrebbe detto al giovane Matteo. Come e quando ancora non è chiaro. Poi, rigorosamente lontano dai microfoni, fa sapere che oggi vedrà anche Bersani.
DAL CANTO suo, Renzi (intervistato da Mentana su La7) su D’Alema non risponde. Da ex Rottamatore non gli conviene. E poi, è stato un discorso importante: i due si sono reciprocamente impegnati a non far trapelare quasi nulla. Definendosi polemicamente “un piccolo eletto” attacca Bersani: “Smetta di preoccuparsi di me. E anche di sè”. E poi: “Anche se qualcuno non mi vuole, non lascerò mai il partito. Che fanno, mi cacciano? ”. Sulla sua strada c’è pure Fabrizio Barca. Percorsi paralleli. Mentre uno esce dagli studi di Mentana, l’altro entra in quelli della Gruber. Non si incontrano per un pelo. Barca ha uno stile completamente diverso. Ma annuncia: “Mi sono iscritto al partito 3 ore fa”. Ha scelto la sede storica di via de’ Giubbonari, al centro di Roma. A iscriversi anche Marco Rossi Doria. Ricorda il suo manifesto, sul quale spera di aggregare una squadra. Renzi? “Ha colto in maniera straordinaria una parte delle cose che vanno fatte, quando ha chiesto rinnovamento e cambiamento". Che sia partito, con la visita di D’Alema, il treno che vede Barca alla segreteria Pd e Renzi, candidato premier?
Mentre tutto si fa alle sue spalle, Bersani porta avanti il progetto di un governo di minoranza. Ieri ha visto Maroni. Mezz’ora per incassare l’ok sul “metodo condiviso” per il Colle. Ma anche qualche polpetta avvelenata. I leghisti chiedono prima il governo. Anche con a capo il leader Pd. Larghe intese ovviamente. Mentre Berlusconi lo lancia per il Quirinale, offrendo uno scambio irricevibile: se lui va al Colle, l’esecutivo si fa come vuole il Pdl. Non esiste una candidatura Bersani, smentisce Enrico Letta. Ma sono colli amari per il segretario.

Corriere 12.4.13
D’Alema. A Firenze le lodi al «nemico»: una personalità importante
di Francesco Alberti


FIRENZE — Che bisogno c'era di andare nel salotto di Maria De Filippi? Per trovare «Amici», anzi, un amico davvero inatteso, a Matteo Renzi è bastato ieri spalancare i portoni della sala Clemente VII, il suo ufficio da sindaco a Palazzo Vecchio. E chi si è materializzato? Ohibò, lui, Massimo D'Alema. C'eravamo tanto odiati... Niente di personale: è la politica, bellezza. Però, accidenti, bisogna proprio essere anestetizzati a tutto per non reprimere un moto di stupore nel vedere l'austero profilo dalemiano varcare uno dei quattro ingressi di Palazzo Vecchio, salire i gradini a testa alta, abbozzare quello che qualche esegeta osa definire un sorriso: il tutto, sapendo che in cima alle scale lo attende l'inevitabile plotone d'esecuzione di flash e telecamere. «Viene a Canossa, finalmente, Baffino...», sibila crudele un commesso. «Ma va', quello è capace di mangiarsi pure Matilde (di Canossa, ndr.)...» lo zittisce l'amico. Battute. Chi l'avrebbe mai detto, solo tre mesi fa, che l'ex premier, il primo postcomunista a Palazzo Chigi, l'uomo della Bicamerale, uno dei massimi registi delle fortune e delle disgrazie del centrosinistra, avrebbe un giorno deciso di attraversare il Salone dei 500 per rendere omaggio a quel Matteo Renzi con il quale, durante le primarie pd, volarono bordate che nemmeno le due Coree si sognano? Chi non ricorda? Il Gianburrasca fiorentino a picchiare sul tasto della rottamazione, di cui D'Alema, per curriculum e spessore, era il bersaglio grosso. L'ex premier a ribattere colpo su colpo, tra vaghe intimidazioni poi smentite («Renzi si farà del male») e accuse assortite («Il sindaco viaggia in jet, parla del nulla, è uno che divide»). Tutto dimenticato? Naturalmente no. Sono solo cambiati i tempi e le gerarchie. E poi c'è un inquilino del Quirinale da eleggere. D'Alema si tira fuori: «Io non sono candidato a nulla». Ma c'è chi conta le truppe di Renzi: 51 parlamentari, mica noccioline. Già in campagna elettorale, l'ex presidente del Copasir aveva vistosamente corretto il tiro («Dopo la sconfitta alle primarie, Renzi ha mostrato stoffa da leader») e, ad elezioni consumate, raccontano che abbia più volte tentato di agganciare il primo cittadino. Ma Renzi, che dopo la contestata visita ad Arcore da Berlusconi ha capito a sue spese che in politica la forma è spesso anche sostanza, ha preteso di fissare lui le regole dell'incontro. Nessun colloquio a Roma: ci si vede a Firenze. Sarà D'Alema a recarsi a Palazzo Vecchio. E per evitare di rendere la cosa troppo pomposa, ecco sbucare a mo' di paravento l'immancabile convegno con annessa lezione dalemiana sulla crisi dei partiti, per la regia del renziano Dario Nardella. Copione rispettato ieri. Con reciproca soddisfazione. D'Alema ha parlato «di amichevole conversazione», ha ufficialmente accolto il Gianburrasca fiorentino nel gotha pd («È una delle personalità importanti»), conferendogli una pubblica legittimazione che, visto il calvario di Bersani e la partita del Quirinale, potrebbe portare ad inediti sviluppi. Sulla esclusione di Renzi dai grandi elettori per il Colle, D'Alema è stato addirittura premuroso: «Un errore, ma è dipeso da dinamiche locali». E piena sintonia anche sull'ipotesi scissione: «Non vedo rischi — ha assicurato l'ex premier —. Io e Matteo siamo due che dovrebbero scindersi e invece siamo reduci da una cordiale conversazione...». Qualcuno, a un certo punto, ha chiesto a D'Alema se considera Renzi vincente. E lui, perentorio: «No, perché non ci sono le elezioni». Ma qui il sindaco di Firenze non lo segue: «Io tornerei a votare, lo so che D'Alema ha idee diverse...».

il Fatto 12.4.13
Caltagirone e Casini si giocano la carta Matteo
di Caterina Perniconi


In casa Caltagirone-Casini si parla di lui. Matteo Renzi è la speranza di un new deal, un nuovo inizio, che piace sia al politico che all’imprenditore.
Pier Ferdinando ha guardato Matteo come “l’anticristo” per molto tempo: troppo cattolico, bipartisan e sorridente per non essere una sua copia ringiovanita. Una rottamazione indiretta che ha scatenato la crisi, sommata alla sconfitta politica. Non c’è stata partita questa volta, figuriamoci la prossima. A meno di non giocare nella stessa squadra. Archiviata la liaison con Monti, che ha cannibalizzato l’Udc, ora ci sono da recuperare gli amministratori locali più giovani (alcuni governano già con il Pd) per riprovare a dare linfa, e consensi, allo scudo crociato. O per marciare uniti alla truppa renziana in cambio di una nuova legittimazione personale e magari un futuro incarico. Certo, il sogno sarebbe una bella scissione di Matteo dal partito d’origine, ma anche in caso contrario bisogna aprire uno spiraglio.
Un’idea che dicono non dispiacere affatto a Francesco Gaetano Caltagirone. Che avrebbe già scelto il suo cavallo vincente, Matteo da Firenze. Il Messaggero, giornale di proprietà, lo marca a uomo. L’imprenditore sa di trovare un valido interlocutore: Renzi è l’anti “ammucchiata” a sinistra, un moderato che guarda con più interesse ai voti di Berlusconi che a quelli di Vendola. All’attivo anche un amico comune, Davide Serra, che di economia e finanza se ne intende. Quelle che Caltagirone spera di veder ripartire, grazie a una politica più spregiudicata di Renzi una volta insediato a Palazzo Chigi. Del resto le cose a Roma non si sono messe bene. Ignazio Marino, il candidato sindaco di centrosinistra, è quello più lontano dai sogni dell’imprenditore, che puntava su David Sassoli. Il mercato immobiliare della Capitale è fermo e le case in-vendute sono tassate dall’Imu. Dilagano le occupazioni dei nuovi palazzi, vero incubo dei costruttori, come ricordato da un editoriale ieri in prima pagina sul Messaggero. Se a vincere poi fosse il grillino, gli uomini forti dell’edilizia sarebbero le prime vittime del nuovo sistema. Non resta che sperare in una novità: all’orizzonte c’è solo Matteo.

La Stampa 12.4.13
Un’impasse che apre la corsa per sostituire il segretario
di Marcello Sorgi


Dopo la mezza schiarita seguita all’incontro Bersani Berlusconi di martedì, la trattativa per il Quirinale è tornata nell’impasse più totale. Per molte ragioni, ma soprattutto per una: nel Pd tutti i precari equilibri interni sono saltati e s’è inaspettatamente aperta, in corrispondenza con i negoziati per il Colle, la corsa per sostituire Bersani alla segreteria.
La coincidenza non poteva essere più funesta e la serie di eventi interni verificatisi in rapida successione da mercoledì hanno gettato in completa confusione il partito che controlla 494 dei 504 voti necessari per l’elezione del Presidente dal quarto scrutinio in poi.
L’esclusione di Matteo Renzi dai Grandi elettori ha convinto il sindaco di Firenze, in testa a tutti i sondaggi nel gradimento come candidato premier in caso di nuove elezioni, che è in corso una manovra contro di lui. L’inclusione del ministro Fabrizio Barca, che ieri s’è iscritto al Pd presentando un documento programmatico con il quale punta alla segreteria in chiave di alleanza organica con Vendola e Sel, ha rafforzato Renzi nelle sue convinzioni. L’ala centrista e cattolica del partito freme, come dimostra l’intervista di Rosi Bindi ieri alla Stampa. Sempre ieri a Firenze D’Alema (che oggi vedrà Bersani) ha incontrato il sindaco, riconoscendo pubblicamente che è stato un errore impedirgli di partecipare alle votazioni per il Quirinale.
In questo quadro il leader Pd ha smentito e fatto smentire da Enrico Letta la voce insistente di una sua candidatura alla successione di Napolitano con l’appoggio, o almeno la non ostilità, di Berlusconi. Ma non è più chiaro se e quanto Bersani possa continuare a trattare a nome del suo partito. L’apertura che ieri ha ricevuto dalla Lega non ha alcun peso, se il leader democratico non è in grado di dimostrare di volere e potere portare a compimento il suo progetto di scelta del Presidente con una larga condivisione, che consentirebbe di eleggerlo al primo scrutinio con la maggioranza qualificata dei due terzi delle Camere riunite.
Dalla quarta votazione in poi, infatti, ognuno correrebbe per sè e i 494 voti si dividerebbero in tanti rivoli diversi. In quel caso il Pd rischierebbe di assomigliare alla Dc del ’92, che arrivò alla scadenza del Quirinale con troppi aspiranti, e visse il dramma delle dimissioni del segretario, Forlani, candidato e poi trombato dai franchi tiratori guidati da Andreotti. L’elezione dell’allora presidente della Camera Scalfaro non sarebbe avvenuta senza l’onda d’urto della strage di Capaci.

Corriere 12.4.13
Veltroni al rottamatore: interessati anche del partito
Democratici, tutti contro tutti
Il sindaco Renzi: «Sperano che vada via». E non esclude di candidarsi alla segreteria pd
Alessandra Moretti: «Un ruolo per Renzi? Il partito è pieno di primedonne»
di Maria Teresa Meli

qui

Corriere 12.4.13
Ichino: con Matteo leader è naturale una convergenza
Il senatore eletto con Scelta civica: ora punti a guidare i democratici anche se il rischio di rottura è reale
di Enrico Marro


Senatore Ichino, Renzi appare sempre più in difficoltà nel Pd. Un altro segno dell'impossibilità di essere riformisti nel Pd oppure c'è un eccesso di protagonismo?
«A dire il vero — risponde Pietro Ichino (ex Pd, ora in Scelta civica) — mi sembra che Renzi non sia affatto in difficoltà. Per lo meno, non più di quanto lo fosse all'indomani delle primarie. Il risultato elettorale gli ha dato clamorosamente ragione, facendogli guadagnare una posizione centralissima».
È polemica sull'esclusione dai grandi elettori. Il Pd sta isolando Renzi?
«Non il Pd, ma la dirigenza e l'apparato centrale del partito. Nel bacino elettorale a cui il Pd può rivolgersi Renzi oggi è molto più centrale di ieri. È proprio questo scollamento tra apparato ed elettorato che fa stare in un'ansia terribile la struttura bersaniana».
Anche lei ha avuto vita difficile nel Pd e alla fine ne è uscito. Renzi farebbe bene a seguire il suo esempio o è meglio che faccia la battaglia interna?
«La mia scelta del dicembre scorso nasceva innanzitutto da anni di amicizia personale e da mesi di collaborazione con Mario Monti nell'elaborazione e promozione della sua agenda, quella che lui ha proposto come agenda per il Paese. È la scelta che mi consente oggi di coltivare e promuovere i progetti di riforma incisiva di cui il Paese ha bisogno, in materia di lavoro, di amministrazioni pubbliche, di scuola e università, molto meglio e più liberamente di quanto avrei potuto fare nel Pd. Renzi, invece, è un politico puro, profondamente radicato nel tessuto del Pd. Lui può e deve puntare a conquistarne la guida, per riproporne il disegno originario, che si è perso per strada. Certo, il rischio che questo produca una scissione è reale».
In quel caso potrebbe trovare una nuova casa in Scelta civica o, al contrario, potrebbe attrarre a sé una parte dello stesso partito di Monti?
«Scelta civica vuole unire coloro che sono convinti della necessità della “riforma europea” del Paese. Renzi si propone, in sostanza, la stessa cosa. Il giorno in cui intorno a lui nascesse una nuova forza politica che ponesse questo obiettivo davvero al centro del proprio programma e della propria azione, la convergenza tra quella forza e Scelta civica sarebbe naturale».
E con un Renzi leader del Pd e candidato premier sarebbe più facile un'alleanza Pd-Scelta civica?
«Sicuramente sì, per lo stesso motivo».
Si farà un governo oppure andiamo verso nuove elezioni?
Credo e spero che l'elezione del Capo dello Stato, nei prossimi giorni, apra una fase in cui prevalgano gli spiriti migliori del Paese. Se riusciamo a realizzare una grande convergenza su di una figura in cui davvero una larghissima maggioranza degli italiani possano riporre la loro fiducia, come è stato con Giorgio Napolitano, a quel punto sarà facile che quella persona assuma il ruolo di arbitro politico per la formazione di un “Governo del Presidente” capace di fare le cose essenziali di cui il Paese ha bisogno.
Ha un nome per il Quirinale?
In questa fase più che fare nomi occorre accordarsi sull'identikit: una figura apprezzata sul piano internazionale; che non sia troppo identificata con una della parti politiche e non sia faziosa; ma anche una persona che conosca bene la politica dal di dentro. Meglio se donna, per rompere un monopolio maschile sul Colle, che sta diventando sempre più insopportabile.

La Stampa 12.4.13
La Lega sul Colle apre a Bersani. Berlusconi in allarme
Solo alla vigilia del voto il segretario Pd comunicherà al Cavaliere la rosa dei nomi tra cui poter scegliere
di Amedeo La Mattina


Martedì o mercoledì si rivedranno, proprio alla vigilia del voto per la presidenza della Repubblica. Sarà finalmente quella l’occasione in cui Bersani scoprirà le carte del Quirinale: la rosa dei nomi. Solo su uno Berlusconi dovrà giocare tutte le sue fiches per stare in partita, garantito. Ma prima di allora non saprà nulla e questo lo mette in fibrillazione, lo insospettisce. E fino a quel momento continuerà ad essere messo nel frullatore tutto e il contrario di tutto: Amato, Marini, Prodi, D’Alema, Severino, Grasso, Violante (quest’ultimo è stato lanciato dall’ex capogruppo Pdl Cicchitto).
Ieri è stata la volta del nome di Bersani, attribuendo questa candidatura al Cavaliere che ne avrebbe parlato all’interessato nel colloquio vis a vis nei giorni a scorsi e a Palazzo Grazioli con i colonnelli, pur di ottenere in cambio il governissimo. Enrico Letta ha smentito questa candidatura, essendo Bersani impegnato a lavorare affinché «il confronto con le diverse forze parlamentari produca una candidatura largamente condivisa per la presidenza della Repubblica».
Le leggende nella metropoli politica si rincorrono e tanto fumo avvolge il Palazzo. Era stato attribuito anche a Maroni l’offerta del Quirinale al segretario del Pd quando invece le cose sono andate diversamente ovvero il capo leghista lo ha preso in giro in questo modo: «leggo sui giornali che sei lanciato sul Colle». Risposta: «gli unici colli che mi piacciono sono quelli piacenti». Ma la vera novità emersa dall’incontro di ieri tra i due leader è ben altro ed è quello che preoccupa molto il Cavaliere. Legati al Pdl sul governo da fare, mani libere sul Quirinale. In sostanza il governatore lombardo avrebbe assicurato a Bersani che i quaranta parlamentari del Carroccio potrebbero votare un candidato insieme ai Democratici, anche se non gradito a Berlusconi. Si rendono contro del rischio enorme di una votazione prolungata per diversi giorni. Con tutto quello che ne deriverebbe per l’economia, essendo questa la preoccupazione principale dei leghisti, i quali vogliono un esecutivo nel più breve tempo possibile.
Ecco, quindi, che lo smarcamento di Maroni ha fatto drizzare le antenne all’ex premier. Perde un alleato prezioso nella partita a scacchi per il Colle. Ieri sera i due si sono sentiti e l’ex ministro dell’Interno lo ha rassicurato. Niente brutti scherzi. Ma l’ex premier non si fida di nessuno in questo momento. Nemmeno delle colombe che gli suggeriscono di non insistere sul governissimo; di accontentarsi di un uomo di garanzia al Quirinale e di un governo di scopo, senza ministri Pdl. Il punto è che lui teme, alla fine della giostra, di rimanere con un pugno di mosche in mano, senza un amico al Colle. Il suo incubo peggiore che lì vada Prodi. «Bazoli sta spingendo molto per questa soluzione», ha confidato ieri. Ha la sensazione che, anche scegliendo uno dei nomi della rosa, possa dare a Bersani l’incarico di presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia. Quell’incarico che non ha dato Napolitano. A quel punto tutto può cambiare, con senatori e deputati sotto la spada di Damocle di essere mandati a casa dal nuovo presidente della Repubblica nel pieno dei suoi poteri. E non saranno molti a voler correre questo rischio, freschi di elezione. «Perché - spiega La Russa che la sa lunga - al di là degli ordini di scuderia partitica, ci sono dinamiche individuali che non si possono controllare. Secondo me un governo, qualunque esso sia, nascerà». Ne sembra convinto anche D’Alema. «Se per l’elezione del capo dello Stato si creerà un clima di sufficiente convergenza, può darsi che ciò possa aprire la strada a una soluzione per il governo».
Sì, ma quale? Tra Montecitorio e Palazzo Madama ieri crescevano gli umori su un precipitare verso le lezioni a giugno. Berlusconi domani a Bari dirà o governo di coalizione Pd-Pdl o voto. Saranno fuochi d’artificio per la piazza perchè non può rompere a pochi giorni dall’incontro risolutivo con Bersani.

Corriere 12.4.13
Le convulsioni del Pd mettono in forse una soluzione concordata per il Colle
di Massimo Franco


L e convulsioni all'interno del Pd non depongono bene per il voto sul prossimo capo dello Stato. Ieri Massimo D'Alema ha tentato la ricucitura con Matteo Renzi, il sindaco di Firenze escluso dalla delegazione toscana che parteciperà alle elezioni del Parlamento per il Quirinale. Ha definito «un errore» il modo in cui il partito lo ha tenuto fuori, e ha smentito qualunque ipotesi di scissione: in questo appoggiato dallo stesso Renzi. Ma l'ombra lunga di un risultato elettorale frustrante pesa sulla leadership del segretario, Pier Luigi Bersani. E minaccia di scaricarsi sui gruppi parlamentari del Pd che dal 18 aprile sceglieranno con le altre forze politiche il nuovo presidente della Repubblica. La strategia di Bersani punta a coinvolgere anche il Pdl di Silvio Berlusconi, la Lega, il premier uscente Mario Monti e, in teoria, il movimento 5 stelle di Beppe Grillo.
Ma si tratta di un'operazione quasi impossibile. Una maggioranza trasversale sul Quirinale lascia prevedere l'autoesclusione dei grillini. Se invece l'intesa con il Pdl dovesse saltare, la prospettiva più verosimile è che possa prendere forma un «cartello» presidenziale della sinistra e dei grillini. Magari per eleggere l'ex presidente della Commissione europea ed ex premier Romano Prodi: sebbene ieri l'interessato abbia fatto sapere che di Quirinale «non me ne sono curato». Sono due scenari agli antipodi. E, di nuovo, attraversano soprattutto il Pd ed i suoi alleati, a cominciare dal Sel di Nichi Vendola, favorevole alla seconda opzione. Il problema di Bersani è che non solo questa formazione di sinistra resiste a un compromesso con il Cavaliere sul capo dello Stato.
Dunque, la possibilità che si approdi in Parlamento con un nome «condiviso», come si dice, incapace di ottenere abbastanza voti nelle prime due o tre votazioni, non va esclusa. Gli umori antiberlusconiani rimangono radicati e diffusi. E lo scrutinio segreto potrebbe farli emergere, terremotando qualunque strategia di candidature concordate. La domanda che rimane sullo sfondo è se alla fine, invece di eleggere un capo dello Stato pensando ai prossimi sette anni, si manderà al Quirinale qualcuno in grado di garantire più prosaicamente un governo di minoranza a guida Pd per i prossimi sei mesi; e in una logica di spaccatura e divaricazione del Parlamento e, cosa più insidiosa, dell'Italia.
Anche perché nella fioritura inevitabile delle candidature si tende a smarrire o comunque a far passare in secondo piano un elemento decisivo: l'esigenza di avere un capo dello Stato con reputazione e agganci internazionali solidi. Si tratta di una priorità resa ancora più urgente dalla presenza di un governo dimissionario e dalla difficoltà di formare il prossimo. Sia Giorgio Napolitano, sia Monti sono stati referenti rispettati dell'Ue e degli Stati uniti. Un ripiegamento italiano su figure prive di una simile legittimazione potrebbe avere conseguenze serie fin dai prossimi appuntamenti continentali.
Sebbene indirizzate in modo maldestro e a volte irritante, le accuse al nostro Paese di «contagiare» con la propria instabilità il resto dell'Europa si moltiplicano. Ma le frecciate che alcuni esponenti italiani lanciano in risposta alla Germania alimentano solo un populismo antitedesco. E dimenticano il ruolo-chiave dell'alleanza tra Italia e governi di Berlino, e la situazione difficile nella quale ci troviamo dopo il risultato delle elezioni di febbraio e in piena crisi economica. La scelta del presidente della Repubblica si inserisce su questo sfondo come un tassello decisivo per dare un segnale anche all'estero. L'idea di proiettare anche fin sul Colle l'immagine di un Paese lacerato renderebbe tutto più difficile.

La Stampa 12.4.13
Bindi, Speranza contrattacca: “Nessun baratto sul Quirinale Vogliamo una scelta condivisa”
“Un errore evocare la scissione nel Pd. Barca? Un bene che s’impegni”
intervista di Carlo Bertini


«Un governo qualsiasi con una formula politicista, governo di scopo o governissimo che sia, farebbe male all’Italia e non serve un esecutivo in cui tutti stiano insieme senza un timone univoco». A Roberto Speranza, che a 34 anni si ritrova a capo del gruppo parlamentare più numeroso della storia repubblicana dopo quello della Dc del ’48, gli attacchi della Bindi alla linea di Bersani non sono piaciuti. E sentendo il suo appello all’unità del partito e a considerare Renzi «una risorsa e non un problema», è evidente che per lui sia un errore far piovere bordate sulla plancia di comando in questa fase.
La Bindi boccia baratti col Pdl e la proposta di un governo di minoranza: detto dal presidente del partito, è una brutta botta per Bersani?
«Ho la sensazione che il tema di fondo di questo passaggio sia una domanda enorme dei cittadini di costruire una risposta alle questioni della loro quotidianità. La proposta che Bersani ha costruito, approvata all’unanimità in Direzione, da lì parte. Nessuno ha detto che vogliamo fare uno scambio: con le altre forze politiche si parla di un’elezione del presidente della repubblica, che spero si attui al primo turno come segnale importante che tutti dovrebbero dare al paese. Quindi nessun baratto».
Secondo lei, mettere in discussione la linea in questa fase è un errore?
«Se un governo di scopo non può fare una scelta perché sull’Imu non abbiamo la stessa idea del Pdl, a che serve? Dunque le forze politiche si possono legittimare reciprocamente nella Convenzione per le riforme, ma quelle che hanno meno seggi potrebbero dare la possibilità a chi ne ha di più di fare un governo univoco».
Però è pertinente l’osservazione che a quel punto deciderà il Pdl quando staccare la spina al governo. O no?
«E’ evidente che la nostra non è una strada larga visto che non abbiamo i numeri al Senato, però tutte le altre possibili indicate in queste ore sono ancora più strette perché non rispondono a quella domanda di cambiamento che esiste. Noi siamo consapevoli della difficoltà di questa fase, ma tutte le altre ipotesi sono più deboli nella capacità di costruire una risposta reale ai problemi del paese. E rischiano di aumentare la frattura che già esiste tra cittadini e istituzioni».
Esiste la possibilità di una scissione del Pd o è solo eccessivo allarmismo del suo predecessore Franceschini?
«Credo che la parola scissione non debba rientrare nel nostro dibattito. Un esempio: il mio gruppo di 293 persone ha votato praticamente all’unanimità l’ufficio di presidenza...»
Forse perché avete usato il metodo Cencelli per le cariche facendo cinque vicecapigruppo.
«Non è così. Questo partito nei passaggi decisivi ha sempre dimostrato di saper essere unito. E invece ogni volta ci raccontano di un partito sull’orlo della scissione. Credo che in Direzione saremmo compatti anche nelle prossime tornate: scommetto sull’unità del Pd perché alla fine nei nostri gruppi dirigenti prevale sempre la comprensione di quale sia l’interesse del paese».
Anche Bersani dice che un governo comunque deve essere fatto, a prescindere dalla sua guida. Potrebbe mai salire al Colle il segretario del Pd?
«Sì va fatto un governo, ma non un governo qualsiasi. Bersani stesso non ha mai detto che lui sarà un ostacolo, il punto è l’asse politico da cui si parte. E per il Colle, non è in campo la candidatura di Bersani. Noi abbiamo l’obiettivo di costruire un governo di cambiamento e credo sia innaturale che il segretario sia a disposizione per un altro tipo di candidatura. Noi cerchiamo un nome che sia il più condiviso possibile e che sia di garanzia per tutti».
Barca potrebbe essere un buon segretario del Pd?
«Non è ancora il tempo del congresso e comunque quando una personalità autorevole decide di spendersi in politica è sempre un bene per la democrazia».

l’Unità 12.4.13
Maurizio Landini: «Il lavoro torni al centro della politica»
Oggi è a rischio la tenuta sociale, bisogna cambiare strada: subito un governo ma diverso da Monti
È necessario puntare a un partito del lavoro
intervista di Luigina Venturelli


Sull’emergenza occupazionale in corso, il segretario della Fiom e il presidente di Confindustria non potrebbero essere più d’accordo: «Il rischio che stiamo correndo, con il continuo aumento della disoccupazione, è che venga meno la tenuta sociale. La storia ci insegna che in Europa i momenti di esplosione massima della disoccupazione hanno sempre portato a situazioni tragiche» afferma Maurizio Landini. «Se non agiamo subito, quest’anno perderemo interi pezzi del nostro tessuto produttivo, perchè chi chiude ora non riaprirà più in futuro».
È sulla soluzione da ricercare per farvi fronte, piuttosto, che il numero uno delle tute blu Cgil che guarda con simpatia ed attenzione l’iniziativa politica del ministro Barca e chiede «un partito del lavoro» si dimostra più difficile da accontentare.
Anche lei invoca un governo al più presto, come già ha fatto Giorgio Squinzi? «Certo che serve un governo in tempi brevi, ma non un governo qualsiasi, ad ogni costo. Serve un governo per cambiare le politiche dell’esecutivo Monti, soprattutto sul lavoro e sulle pensioni. Altrimenti, se non ci sono le condizioni, mi auguro che il parlamento trovi un’altra soluzione, anche attraverso una riforma elettorale. Uno stallo così non può durare cinque anni. Tanto più che non abbiamo solo un problema di difesa dell’occupazione e del sistema produttivo, ma dobbiamo anche affrontare i tentativi di alcuni di sfruttare la crisi per ottenere una modifica radicale del sistema dei rapporti sociali».
Quanto radicale?
«Gli attacchi continui al contratto nazionale di lavoro rischiano di portare alla fine del sindacato confederale che vuol rappresentare tutti i lavoratori, per arrivare invece a tanti sindacati aziendali e corporativi. Quindi, in ultima analisi, alla competizione tra i lavoratori. Se il sindacato si limita a difendere quello che ha, cercando solo di limitare i danni, significa che non ha capito quello che sta succedendo».
Che cosa deve fare, invece, il sindacato?
«L’esito delle ultime elezioni, con una quota di astensione senza è precedenti intorno al 30% se si considerano anche le schede bianche o nulle e più della metà degli italiani che non si è riconosciuta nelle forme classiche dei partiti se ai non votanti aggiungiamo anche i consensi ottenuti dal movimento 5 stelle non parla solo alle forze politiche. La crisi della rappresentanza è anche sindacale, la richiesta del cambiamento è rivolta anche a noi». In che senso?
«Nel vuoto di rappresentanza sociale che si è creato ci sono anche nostre responsabilità, come ci dice la drammatica solitudine dei lavoratori che si sono tolti la vita dopo aver perso il posto, convinti che nessuno potesse dar loro una mano. Il sindacato non può permettersi di lasciare solo nessuno».
Si riferisce ai lavoratori precari?
«A parità di lavoro, devono sempre corrispondere parità di diritti e di retribuzione. Altrimenti, nella giungla contrattuale che contrappone tra loro i lavoratori, rischiano di venire meno le ragioni stesse dell’esistenza del sindacato. Il calo della sindacalizzazione è un fatto in tutta Europa. Il cambiamento deve essere anche una priorità del sindacato, noi per primi dobbiamo cambiare il nostro modo di agire».
I suoi colleghi di Fim e Uilm la accuserebbero di fare più politica che azione sindacale per firmare contratti.
«La Fiom non rinuncia all’obiettivo di cambiare questa società, che è una società ingiusta e sbagliata. Ma per la Fiom vale sempre il merito, e nel merito dei problemi si possono trovare soluzioni ai problemi, dunque si possono firmare accordi. La trattativa con le imprese cooperative metalmeccaniche da cui la Fiom non è stata esclusa, a differenza di quanto fatto dalle industrie rappresentate da Federmeccanica potrebbe ad esempio concludersi con un accordo firmato anche da noi, se verranno confermate le condizioni su cui finora è emersa un’intesa». Quali sono queste condizioni?
«Le imprese cooperative metalmeccaniche, in caso di crisi aziendale, potrebbero impegnarsi a non licenziare, ma ad attivare contratti di solidarietà tra tutti i lavoratori».

La Stampa 12.4.13
“Con l’industria posizioni comuni per affrontare le emergenze”
Camusso (Cgil): a Torino c’è terreno per discutere, dal Fisco alla Cig “Un governo subito? Dipende da cosa fa: metta l’occupazione al centro”
intervista di Francesco Manacorda


«Penso sia necessario e possibile trovare una posizione comune tra le associazioni imprenditoriali e quelle sindacali per avere almeno un’agenda delle emergenze da affrontare». Domani Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, sarà assieme ai suoi omologhi di Cisl e Uil al convegno confindustriale di Torino. Un appuntamento dove le imprese vogliono portare forte la voce del loro profondo malessere.
Mettere le imprese al centro, chiede Confindustria. Mettere il lavoro al centro, dice la Cgil. Sono obiettivi che si allineano in pieno?
«Il lavoro è un concetto più ampio, anche in senso culturale. Del resto negli anni passati centralità dell’impresa e liberismo sono andati spesso assieme, con i risultati che oggi vediamo. Ma a parte questo c’è di sicuro un terreno di discussione e un’urgenza di oggi è fare qualcosa per il lavoro, quindi anche per le imprese, per frenare quella che appare una vera e propria slavina sociale di fronte alla quale non viene posto alcun ostacolo. Se non si ferma l’avvitamento dell’economia diventa difficile immaginare un orizzonte».
Quali punti di contatto possono esserci con gli industriali?
«Un primo punto può essere costruire una soluzione equilibrata sul Fisco, partendo dal fiscal drag e dall’Imu per alleggerire il peso delle imposte su pensioni e salari. C’è poi tutto il terreno delle emergenze, che vanno dal rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga per salvare il lavoro al tema degli esodati».
E la pressione sulle imprese?
«Certo, bisogna guardare anche a quella. Abbiamo aperto anche a una riduzione dell’Irap per le imprese togliendo la quota lavoro».
Ma sulla riduzione della pressione fiscale voi, come Confindustria, vi scontrate con i vincoli di finanza pubblica...
«A situazioni straordinarie risposte straordinarie. Si possono fare detrazioni che corrispondano ad esempio alla restituzione del fiscal drag, che non sono strutturali e che potrebbero usare le risorse provenienti dalla lotta all’evasione. Poi chiaro che qualunque intervento strutturale, compreso quello sull’Irap, richiede di spostare la tassazione dal lavoro alla rendita. Il punto di partenza per avviare qualsiasi processo è la redistribuzione del reddito. Del resto nei 6 anni di crisi si è continuato a caricare sui lavoratori dipendenti, le pensioni e le imprese e così siamo arrivati al blocco totale, al -4,8% dei consumi».
E agli industriali, invece, che cosa chiederete?
«Oltre a ragionare su fisco e ammortizzatori sociali bisogna discutere assieme sulla redistribuzione del lavoro. È meglio usare contratti di solidarietà invece che la cassa integrazione, che c’è necessità di stabilizzare alcuni lavori, di favorire le assunzioni rispetto agli straordinari. E poi serve un investimento sull’istruzione invece che continuare in una logica di riduzione».
Confindustria vuole un governo subito, aprendo a un’ipotesi Pd-Pdl. E voi?
«Nell’invocare un governo a ogni costo si trascura di dire che cosa deve fare questo governo. Veniamo da una lunga stagione in cui si è fatto tutto quello che poteva peggiorare la crisi. Quindi, fermo restando che spetta alla politica scegliere le alleanze, credo che sia necessario un governo che faccia politiche diverse da quelle degli ultimi anni, ancora una volta mettendo al centro il lavoro e non misure di austerità e rigore che avrebbero effetti negativi».
Ma un governo Pd-Pdl potrebbe mettere al centro il lavoro?
«Non è utile che la Cgil si pronunci sulle formule. Il giudizio sarà su quello che ciascuno vuole fare, visto che ci sono emergenze, tenendo presente che bisogna muoversi per una redistribuzione del reddito e la difesa del lavoro».
Sul palco torinese Cgil, Cisl e Uil si ritroveranno assieme. È anche un segnale verso l’unità sindacale?
«In questo periodo stiamo facendo assieme cose importanti, dalla manifestazione comune del 16 aprile sugli ammortizzatori sociali alla decisione di celebrare il 1° maggio a Perugia, mostrando così anche la nostra attenzione al lavoro. Iniziative importanti, che segnano un cambiamento rispetto alla storia recente».
La Fiom, però manifesterà per il lavoro da sola, il 18 maggio a Roma...
«Stiamo lavorando con Cisl e Uil per costruire l’iniziativa comune che mette al centro il tema del lavoro per tutto il sindacato confederale. Mi concentrerei su quella».

l’Unità 12.4.13
«Possibile votare col Pd» Primi dubbi tra i 5 Stelle
Tra i grillini si apre il fronte dei possibilisti. «Se si arrivasse al quarto scrutinio valuteremo tutte le soluzioni», si schiera il deputato Zaccagnini
di Andrea Carugati


In attesa del responso della consultazione online sul candidato da votare come nuovo presidente della Repubblica, tra i grillini si apre il dibattito. E se alle prime votazioni non risultasse eletto nessuno, che fare dalla quarta, quando basterà la maggioranza assoluta dei Grandi elettori? I 163 deputati e senatori a 5 stelle si interrogano e già si affacciano due fazioni, i duri e puri, come Roberto Fico, che intendono votare sempre e solo il nome scelto su Internet, anche a costo di non incidere nella scelta finale, e quelli che valutano l’opportunità di un dialogo col Pd.
«Mi auguro che esca una figura alta, che il prossimo presidente non esca da un inciucio Pd-Pdl, ma possa essere condiviso da noi con il Pd perché bisogna dare al Paese un Capo dello stato degno», spiega il deputato romano Adriano Zaccagnini. «Se si arrivasse al quarto scrutinio valuteremo tutte le soluzioni discutendone anche con il Pd». Parole non condivise da Fico, uno dei leader della truppa: «Noi vogliamo trasformare la democrazia rappresentativa in democrazia diretta, per questo porteremo il nome scelto dai cittadini. E lo voteremo fino in fondo».
Eppure Zaccagnini non è solo. Anche il toscano Massimo Artini valuta l’ipotesi di un secondo tempo, magari dopo un nuovo passaggio col popolo del web. «Potremmo chiedere ai nostri militanti se vogliono o meno che ci confrontiamo con gli altri partiti», spiega. «Il tempo probabilmente ci sarebbe, ma è una discussione che non abbiamo ancora fatto». Zaccagnini sposa la mediazione: «Sarebbe utile chiedere ai nostri militanti se vogliono che continuiamo a votare il nostro nome o se dobbiamo confrontarci con il Pd». Zaccagnini ieri nella votazione online ha scelto Rodotà, uno dei nomi (insieme a Gustavo Zagrebelsky) che effettivamente potrebbe essere adatto a raccogliere consensi trasversali, ben oltre il confine dei 5 stelle. Un nome su cui stanno riflettendo in tanti nella truppa parlamentare. Soprattutto quelli, e non sono pochi, che non vogliono condurre una battaglia di pura testimonianza. E che non vogliono un presidente condiviso da Berlusconi con i democratici. Difficile però che la scelta possa cadere su Prodi: «Certo, è un nome contro il Cavaliere come dice Beppe», spiega Zaccagnini, «ma per noi è troppo interno all’establishment».
Il nodo irrisolto è quello dell’«inciucio» PdPdl: Grillo e i fedelissimi come Roberta Lombardi lo vogliono per dimostrare che «sono tutti uguali».
Molti parlamentari invece no, perchè «così noi non contiamo nulla, restiamo isolati e non possiamo incidere». Prima c’era la discussione sul governo, sul fare nomi o non farli. Hanno prevalso i duri e puri, i dissidenti come Tommaso Currò si sono fatti sentire ma sono rimasti minoranza. Ora c’è il Quirinale e la voglia di contare qualcosa torna a galla. E i disponibili al dialogo sono già molto più numerosi della trentina che aveva aperto all’ipotesi di un governo. Tra loro ci sono anche degli insospettabili, dei fedeli alla linea che, sul tema del Colle, sono pronti a prendersi qualche autonomia.
Intanto il deputato Alessandro Di Battista cerca contatti con quei deputati del Pd e di Sel, da Pippo Civati a Marianna Madia (ma ci sono anche bersaniani come Orfini e De Maria), che avevano sposato l’idea di far partire subito i lavori delle commissioni parlamentari. «Fuori gli artigli, fatevi sentire, inventate qualsiasi cosa per poter far partire i lavori in Parlamento, ve lo chiedono i cittadini, i vostri datori di lavoro», scrive il grillino su Facebook. «Siete nuovi e non soggetti agli apparati? Allora dimostratelo». La sfida è subito raccolta da Civati: «Perché non incontrarci alla Camera, nei prossimi giorni, informalmente o provare a costituire quello che potremmo chiamare un “intergruppo per il cambiamento”, che affronti le “cose mai viste” in questi anni nella politica italiana?». «Così ci confrontiamo sul serio, superando gli steccati e le incomprensioni», conclude Civati. Prove tecniche di dialogo sono in corso.

l’Unità 12.4.13
Roberta Lombardi e il metodo della smentita
di Maria Novella Oppo


BENCHÉ BEPPE GRILLO PROIBISCA AI SUOI ADEPTI DI PARTECIPARE AI TALK SHOW, si parla molto del Movimento 5 Stelle, in tv. Si parla soprattutto di Grillo, è ovvio, ma anche dei capigruppo Crimi e Lombardi, delle loro tremende gaffe e delle dichiarate, supposte, magari sperate dissidenze interne. Perciò, va riconosciuto che degli esponenti grillini, data la loro guerra dichiarata ai giornalisti, si parla più che altro male, in tv e sui giornali di carta. Nonché sulle cattedre universitarie, crediamo, almeno a giudicare da come si esprimono politologi come il professor Pasquino, che ieri era ospite di Corrado Augias su Raitre. Invece, nei talk show, non sono pochi i politici che si sforzano, con qualche interessata ipocrisia, di comprendere le ragioni dei grillini, se non le dichiarazioni e gli atti, per lo più indifendibili.
Ieri, per esempio i tg riferivano l’ennesima sparata indisponente di Roberta Lombardi, stavolta nei confronti del presidente Napolitano, invitato a fare il nonno e, praticamente a levarsi di torno. Hanno fatto seguito, da parte dell’interessata, smentite, aggiustamenti e spiegazioni in cui la signora si sta specializzando alla maniera di Berlusconi.
Come scusante, lei ha anche ricordato che ricopre la carica (ammesso che di carica si tratti e non di investitura divina) a tempo determinato. E infatti, se non sbagliamo, il suo ruolo dovrebbe durare solo tre mesi, ma la sua carriera è appena cominciata. Forse per questo si sta dando tanto da fare a mettersi in mostra come antipatica professionale, quasi volesse risultare una Santanché a 5 Stelle. Sono i cattivi, si sa, ad essere le colonne della fiction e dei reality e di certo Grillo (che ne sa qualcosa) glielo avrà spiegato. Cosicché, Roberta Lombardi sta andando benissimo, se dobbiamo giudicare dal fatto che su internet viene giudicata da oltre l’80% «cafona e ignorante». Un vero trionfo.

Repubblica 12.4.13
La maestrina
di Sebastiano Messina


Roberta Lombardi, capogruppo grillina, si muove come una maestrina saccente che ha deciso di mettere tutti a posto. Cominciò dicendo che i giornalisti "starnazzano", un verbo che era stato usato solo dai fascisti. Poi ha mandato a dire a Bersani che i voti del M5S non li avrà "neanche se si butta in ginocchio". Quindi ha bacchettato in diretta tv il suo collega del Senato, Vito Crimi, che si era permesso di chiamarla "onorevole" ("Cittadina!"). E ieri ha dato uno schiaffo anche al presidente Napolitano, trattandolo come un povero vecchio: lasciamolo andare, ha quasi 88 anni, faccia il nonno. Raramente s´era vista una così irritante miscela di arroganza, presunzione e insolenza. Una volta si diceva: come un elefante in cristalleria. Un giorno si dirà: come una Lombardi in Parlamento.

il Fatto 12.4.13
Tsunami tour
Beppe rendiconta le spese ma non i donatori
di Emiliano Liuzzi


La sproporzione dei costi per la campagna elettorale è evidente: il Partito democratico ha speso 6,5 milioni di euro. Costo che – dicono – è contenuto rispetto al dato del 2008, quando di milioni ne sborsarono 8 milioni e 860.000. “Anche potendo spendere di più non lo avremmo fatto. La nostra è una scelta politica”, ha avuto modo di dire il tesoriere del Pd Antonio Misiani. Il Pdl, in questi anni, ha chiesto a Berlusconi fideiussioni bancarie per 180 milioni di euro, sempre per raccogliere voti.
Nel valzer delle cifre, se la ride da Genova il leader del Movimento 5 stelle che ieri sul blog ha pubblicato le spese per lo Tsunami tour: 348.506 euro. Niente. E nei capitoli di spesa, la voce più importante è quella relativa alle consulenze legali e tributarie. Il resto delle voci importanti lo fanno il pagamento delle spese per il comizio in piazza San Giovanni, a Roma (52.000 euro) e le sponsorizzazioni su Internet.
In tutto questo, anche Grillo, a una domanda, comunque, dovrà rispondere: la sua campagna elettorale ha ricevuto donazioni per 774.208 euro, ma sul sito, è prevalsa la logica di non citare coloro che hanno finanziato il Movimento per “rispetto della privacy”. Cosa che non ha fatto Matteo Renzi, per esempio, che ha rendicontato il gruzzolo raccolto per le primarie (quasi) fino all'ultimo euro. Al contrario di Bersani, invece, che sull'argomento ha taciuto. Da Grillo la gente si aspettava nomi che non sono arrivati, ma non è escluso che coloro che hanno dato il consenso, siano in una seconda lista che verrà. E sulle polemiche pesa anche la presa di posizione della Casa della legalità, movimento da sempre vicino a Grillo che parla di una serie di “omissioni pesanti nella rendicontazione”. In particolare si riferiscono alle spese sostenute dalle “sezioni locali” che hanno organizzato di volta in volta le tappe dello Tsunami e hanno pagato di tasca loro. E tutto questo, nel bilancio on line, in effetti non compare.
IL LEADER 5 stelle replica alla sua maniera ai dubbi: “Abbiamo fatto una bella cosa, aspettiamo di farne delle altre. Lo facciano anche i giornali, i partiti. Si chieda a Riotta di rendicontare l’ultimo giornale dove è andato. I soldi che avanzano se li è imboscati Casaleggio”, dice ridendo, “con 200 euro lì e 300 là, si fa la giornata”. Grillo poi ringrazia i circa 20 mila donatori, 27.943 per l’esattezza. Il leader dei 5 Stelle conferma che la differenza tra soldi raccolti e spesi “andrà ai terremotati emiliani”, la storica base elettorale di Grillo, il luogo – Bologna – da dove quella che sembrava una follia per pochi è iniziata. “Poi vedremo se con un progetto - spiega - o se dare un assegno al Comune più disagiato. Lo decideremo insieme”. Grillo propende per la seconda opzione, “perché l’abbiamo visto a L’Aquila, poi passa troppo tempo. Facciamo un assegno, andiamo lì lo consegnamo e facciamo una foto o un filmatino. La cosa meravigliosa siete stati voi - aggiunge - con donazioni di 10-20 euro in media”.
Le spese affrontate sono elencate nella pagina creata appositamente dallo stesso Grillo e spiegano nel dettaglio ogni centesimo speso: 5.005,20 euro per la progettazione grafica; 59.562,47 euro per i manifesti elettorali; 10.540,84 euro per lo streaming; 4.826,25 euro per il lavoro dei videomaker; 140.749,23 per la consulenza legale e tributaria; 10.445,24 euro per gli spostamenti dello Tsunami Tour; 1.510,08 euro per gli spot elettorali; 50.000,00 euro per Google Adsense, il programma pubblicitario di Google; 3.603,00 euro per gli incontri di deputati e senatori dopo le elezioni
Ora, Grillo, dalla sua Genova, pensa già al prossimo passo ed è naturale che la questione si sposterà sulla sua grande battaglia: quella del finanziamento pubblico ai partiti.

Repubblica 12.4.13
Bertone e il sogno del Policlinico di Dio così in Curia è scoppiata la guerra della sanità
Dal blitz sull´Idi ai segreti di padre Decaminada. E spunta una lettera al Papa
L’obiettivo del Segretario di Stato è affiancare al Bambin Gesù altre strutture d’eccellenza. Ma il progetto non piace a Cei e Opus Dei
La congregazione che ha gestito finora l´Istituto dermopatico di Roma scrive a Francesco: siamo stati espropriati
di Carlo Bonini e Carlo Picozza


ROMA - Quali segreti custodiscono l´Istituto Dermopatico dell´Immacolata e Franco Decaminada, il presule classe 1945 che ne è stato per tre lustri la guida e dalla vigilia di Pasqua confinato agli arresti domiciliari per appropriazione indebita e frode fiscale? E chi ne ha paura? Perché il dissesto (600 milioni di euro di debiti) e la spoliazione (14 milioni distratti) del polo sanitario romano "Monti di Creta", "San Carlo" e "Villa Paola" di proprietà della Congregazione dei Figli dell´Immacolata Concezione ha ossessionato il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, orientandone le mosse frenetiche proprio al ridosso del Conclave?
Nell´agonia dell´Idi è un altro capitolo della lotta dentro la Curia intorno a interessi assai terreni, debolezze della carne e rapporti di mutuo soccorso tra le due sponde del Tevere. Ed è una storia che conviene prendere dalla coda. Il 15 febbraio scorso.

LA PRESA DELL´IDI
A meno di un mese dal Conclave, con Papa Benedetto dimissionario, Bertone muove sull´Idi con decisione. Quella mattina di febbraio, il Segretario di Stato firma il decreto con cui nomina il cardinale Giuseppe Versaldi delegato Pontificio con poteri di commissario straordinario sulla Congregazione dei Figli dell´Immacolata Concezione. E quella stessa mattina - riferiscono due diverse fonti qualificate - a un´influente figura vaticana che prova a farlo desistere dall´idea di commissariare la Congregazione, lo stesso Segretario di Stato ribadisce la sua intenzione di "espropriare" i concezionisti delle loro "eccellenze". L´idea è di creare le condizioni perché in tempi brevi i "Monti di Creta" e il "San Carlo" vengano venduti a privati "vicini" alla Santa Sede con l´impegno tacito a conferirli poi a una nuova struttura - il Policlinico Vaticano - che, con il Bambin Gesù, dovrebbe diventare il nuovo polo sanitario vaticano. È un´ipotesi vista come fumo negli occhi dalla Cei (che possiede il Policlinico "Gemelli") e dall´Opus Dei (proprietaria del Campus biomedico). Ma è un´ipotesi che Bertone insegue da tempo. Da quando ha tentato, nel gennaio 2011 di rilevare per 200 milioni di euro il San Raffaele di don Verzé (l´offerta verrà "doppiata" da Rotelli).

GLI UOMINI DEL CARDINALE
Con il mondo che ha lo sguardo rivolto alla Sistina, le mosse del Segretario di Stato si fanno fulminee. Il 19 febbraio, Versaldi nomina suo delegato vicario per l´Idi Giuseppe Profiti, presidente del Bambino Gesù che, a sua volta, il 22 febbraio, nomina quale suo sub-delegato Massimo Spina, direttore dell´ospedale pediatrico (in quel momento, Profiti è infatti "macchiato" da una doppia condanna per turbativa d´asta che la Cassazione trasformerà in assoluzione soltanto tre giorni fa). Profiti e Versaldi sono Bertone. Il primo ha diretto il "Galliera" di Genova quando il Segretario di Stato era arcivescovo della città. Il secondo ha un vincolo con Bertone che risale agli anni in cui era vescovo di Vercelli e che nel tempo è diventato indissolubile (Bertone lo ha chiamato in Curia a presiedere la Prefettura per gli affari economici). Per altro, Versaldi, in materia di malversazione e corruzione, è un teorico della "correzione fraterna", la dottrina con cui la Curia, per decenni, ha coperto la piaga della pedofilia. «Nei casi di fondata cattiva amministrazione dei beni ecclesiali - spiega il 19 ottobre 2012 nel Sinodo dei Vescovi - deve valere la medicina evangelica della correzione fraterna. E solo in caso di mancato ravvedimento e conversione è necessaria la denuncia alle autorità competenti».

LE OFFERTE RIFIUTATE
Versaldi e Profiti sono insomma gli uomini giusti per sigillare il pozzo nero dell´Idi e impedirne la tracimazione. Ma soprattutto hanno l´incarico di cancellare con un tratto di penna il concordato preventivo concesso dal Tribunale di Roma alla Congregazione. Una procedura con cui i "concezionisti" hanno ottenuto un margine di manovra per cercare acquirenti delle strutture sanitarie utili a ripianare il buco di 600 milioni. Di proposte ne arrivano due. Una a firma della "Inter. Im", una s. r. l con sede a Salerno che si dice pronta a rilevare "per sé o per Ente da nominare", gli ospedali della Congregazione per 355 milioni di euro. La seconda dal Gruppo Acqua Acetosa (veicolo di un fondo di investimento tedesco) per 360 milioni.
Profiti e Versaldi tirano dritto e tra il 28 e il 29 marzo, con un ricorso diretto al ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera chiedono e ottengono che la Congregazione, di cui dichiarano l´insolvenza, venga ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria con la cessione delle attività e dei beni ospedalieri. Un passo decisivo per "vendere" a privati vicini alla Segreteria di Stato.

LA LAETTERA AL PONTEFICE
La Congregazione si sente defraudata e invia una lettera al nuovo Papa Francesco stigmatizzando come l´amministrazione straordinaria significhi, di fatto, lo spossessamento dei suoi beni e della sua storia centenaria. Quella di cui, ancora nel 2007, si faceva vanto proprio Bertone nell´omelia pronunciata l´8 dicembre all´Idi. La Congregazione e il suo polo dermatologico, a quei tempi, infatti, facevano comodo. E l´asse tra il Segretario di Stato e Franco Decaminada era d´acciaio. Perché oggetto di un patto con l´allora governo Berlusconi sul polo lombardo di "Nerviano", centro di ricerca che, nel 2004, la multinazionale farmaceutica Pfizer aveva deciso di chiudere, lasciando a piedi 800 dipendenti.

IL PATTO DI PALAZZO CHIGI
Bertone, in quel dicembre del 2007 all´Idi, magnifica un´operazione di cui in realtà conosce il retroscena. Dice: «Con l´acquisizione del Nerviano Medical Science la Chiesa dispone del più grande polo privato di ricerca farmaceutica in Italia. Il fine, ambizioso, è quello di arrivare a produrre e vendere farmaci oncologici a prezzo di costo nel terzo mondo, rompendo il monopolio delle multinazionali». La verità, per come la racconta Decaminada ai pm il 22 maggio scorso, è un´altra. Nel 2004, quando la Congregazione lo acquisisce alla cifra simbolica di 1 euro dalla Pfizer, Nerviano è infatti un ramo secco con scarse prospettive nella ricerca oncologica. E per giunta, l´Idi, di fatto, è già in stato di insolvenza, per quanto la circostanza sia ignorata fuori dalle mura Vaticane. E dunque le ragioni di assumersene il carico sono altre. «Prima dell´acquisto - racconta Decaminada - a Palazzo Chigi, ci fu un incontro tra i componenti della Congregazione, tra cui io, Gianni Letta e Roberto Formigoni. Ci promisero un aiuto finanziario di 200 milioni di euro per acquistare Nerviano se avessimo mantenuto inalterati i livelli occupazionali per 5 anni. Un finanziamento mai erogato». Nerviano, nel 2011, sarà poi ceduto dall´Idi alla Regione Lombardia a titolo gratuito. Ma è proprio con Nerviano che la Congregazione entra in acque agitate.

CLIENTELE E SOSPETTI
Ci sono insomma ottimi motivi per la Segreteria di Stato per chiudere in fretta e senza strepiti la storia dell´Idi (è di 48 ore fa l´accordo sul congelamento degli annunciati 400 esuberi). E sono motivi che hanno a che fare con il business sanitario, certo. Ma non solo. Che nelle stanze della Congregazione avesse preso a fare il buono e il cattivo tempo il "laico" Antonio Nicolella, uomo con un passato nel Sismi, fa pensare. Così come la circostanza - secondo quanto riferiscono fonti qualificate vicine a padre Decaminada - che in questi anni, in almeno un caso l´Idi è stato il silenzioso teatro di "correzione fraterna" in episodi di accertata pedofilia, nonché rifugio discreto di giovani segnalati da influenti monsignori.

il Fatto 12.4.13
Così la polizia ha coperto il figlio di Alemanno
Indagati gli agenti che nel 2009 aiutarono il ragazzo ad evitare conseguenze imbarazzanti dopo un pestaggio
Uno gli faceva anche da autista “nel tempo libero”
di Marco Lillo e Ferruccio Sansa


Insabbiata. L’indagine della Procura di Roma sul pestaggio di stampo fascista al quale aveva assistito il figlio del sindaco di Roma, Gianni Alemanno nel 2009 - secondo l’accusa - è stata ostacolata dalla Polizia. O meglio dalle omissioni contestate oggi dalla Procura di Roma a due uomini dello Stato che hanno avuto un ruolo molto diverso ma che - secondo l’ipotesi del pm Barbara Zuin - avrebbero entrambi fatto sparire dalla scena del delitto l’allora quattordicenne Manfredi Alemanno. Roberto Macellaro, il primo poliziotto, che accompagnava Manfredi il 2 giugno 2009 al di fuori dall’orario di servizio, avrebbe portato via il rampollo del sindaco sulla Mercedes di famiglia nel fuggi fuggi generale seguito al pestaggio ed è accusato di favoreggiamento e omessa denuncia. Il secondo poliziotto, Pietro Ronca, invece, è accusato di falso in atto pubblico perché durante le indagini che gli erano state affidate avrebbe falsificato il verbale sminuendo la posizione di Manfredi Alemanno, oggi 18enne. Il figlio del sindaco è stato interrogato in Procura (come i suoi cinque amici presenti quel giorno) e la sua posizione è ora all'esame della Procura del Tribunale dei Minori di Roma. Non è indagato ed è stato sentito come testimone ma con le garanzie previste per l’indagato di reato connesso. La Procura di Roma, anche se volesse, non potrebbe indagare il giovane né i suoi amici perché i fatti risalgono a quando erano tutti minorenni. La scelta spetta a Carlo Paolella, pm del Tribunale dei minori di Roma che non ha iscritto nessuno dei ragazzi e probabilmente non lo farà. Già nel 2010 la Procura dei minorenni, a differenza del pm Zuin, aveva ritenuto necessaria la denuncia della vittima del pestaggio per potere procedere. E il ragazzo picchiato quattro anni fa, oggi maggiorenne anche lui, non ha alcuna intenzione di denunciare gli ignoti autori del pestaggio.
L’aspetto più importante di questa storia comunque non è il comportamento dei minorenni ma quello dei grandi: i ragazzi maggiorenni che hanno picchiato, certo, ma anche i poliziotti che - per l’accusa - non hanno fatto tutto quello che potevano per aiutare il pm a scovare i responsabili. La storia del pestaggio è nota ai lettori del Fatto che ha rivelato l’episodio più di un anno fa. Il 2 giugno del 2009, festa della Repubblica, in un comprensorio sulla Camilluccia il figlio della giornalista del Messaggero, Marida Lombardo Pijola, per ironia della sorte famosa per avere scritto best seller sugli eccessi dell’adolescenza, insieme a un suo amico sta facendo un bagno nella piscina del condominio, chiuso da un cancello. La quiete viene disturbata da una comitiva composta da cinque maschi e quattro femmine, tutti intorno ai quattordici anni, che entra nel comprensorio e comincia a scambiarsi saluti e battute in voga nell’estrema destra. L’amico del padrone di casa si lamenta e intima ai ragazzini di smetterla. Uno degli amici di Manfredi fa presente che lui appartiene al Blocco Studentesco, l’organizzazione di estrema destra della quale poi Manfredi Alemanno negli anni a venire diverrà rappresentante nel suo liceo. Gli animi si alterano, il ragazzo più grande, secondo una testimone, minaccia il piccolo amico di Alemanno Jr. A questo punto le ricostruzioni divergono. Questa è quella delle testimonianze ritenute più attendibili dalla Procura: il giovane di destra si gira e comincia ad armeggiare con il telefonino dicendo ai suoi compagni: “ora gliela facciamo pagare”. Dopo alcune telefonate, i ragazzini chiedono alle loro amiche di allontanarsi “perché succederà qualcosa” ed escono dal comprensorio. La tensione è così alta, racconta una testimone, che una delle ragazzine si mette a piangere. Poco dopo arriva un gruppo di 4-5 ragazzi correndo. Come fanno a entrare? Secondo alcune testimoni i ragazzini amici di Alemanno Jr tengono aperto il cancello e poi entrano al loro seguito. I grandi si avventano sul malcapitato amico del figlio della giornalista e lo riempiono di botte, usando anche un casco. Il suo volto sanguina per una ferita all’arcata sopraccigliare. Intanto i ragazzini osservano la scena. E Manfredi Alemanno?
Lui dice di essere scappato via subito sull’auto dell’amico di famiglia. Ma due testimoni lo smentiscono.
Queste versioni che imbarazzavano Manfredi Alemanno però tre anni fa non sono arrivata sul tavolo della pm Barbara Zuin. Solo dopo l’articolo del Fatto il pm ha riaperto l’indagine affidandola ad altri investigatori e facendo fuori la Polizia. Si è scoperto così che nel verbale le dichiarazioni che collocavano il figlio del sindaco di Roma all'interno del comprensorio nel quale è stato pestato un ragazzo il 2 giugno del 2009, sono sparite.
Questa è la scena madre del film di quella giornata per come è stata raccontata da una testimone risentita in Procura tre mesi fa. “Quel giorno del 2009, quando fui sentita per la prima volta dalla Polizia, avevo raccontato che Manfredi Alemanno era entrato insieme agli altri nel comprensorio ed era uscito con gli altri solo dopo l'aggressione, quando tutti siamo fuggiti. A un certo punto il poliziotto ha chiesto a mia mamma di uscire e sono rimasta da sola con lui. A quel punto il poliziotto mi ha chiesto più volte se fossi sicura che Manfredi era entrato nel comprensorio insieme agli aggressori. Io ripetevo di sì e lui continuava a ripetermi la stessa domanda finché io ho capito che lui voleva che rispondessi che non ero sicura. Così ho fatto e lui mi ha detto: 'brava, hai capito tutto!'”.
Il Fatto ha pubblicato un anno fa la lettera della giornalista Marida Lombardo Pijola al sindaco di Roma GIanni Alemanno. Il 5 giugno del 2009, scriveva: “Eppure, sia come madre che come professionista impegnata da anni a denunciare e documentare l'impennata di violenza, di bullismo, di prepotenza che sta contaminando le nuove generazioni, sono profondamente amareggiata anche da questo atteggiamento, che rafforza l'inclinazione di alcuni al prepotere e alla prevaricazione, e quasi li legittima, in un regime di silenzio contiguo all'omertà Sono certa che la Digos, troverà quei criminali.... Davanti a una vicenda così grave, e così piena di implicazioni sociali, io, oltre a informarla, com'era mio dovere fare, le chiedo di allearsi con noi. Vorrei che inducesse suo figlio a denunciare gli aggressori. O almeno, se non li conoscesse direttamente, a incoraggiare i suoi amici a fare i nomi.
Il nostro scopo non è quello di farli punire penalmente. (...). Ci preme altro.
Ci preme che questa brutta vicenda possa trasformarsi per tutti i protagonisti in una buona lezione di vita contro la violenza, la prepotenza, la vigliaccheria, l'omertà.
Sono certa che in questa battaglia di civiltà e di formazione a beneficio dei nostri figli e della loro generazione sarà accanto a noi”. Non è andata così.

Corriere 12.4.13
A Bologna due sinistre in battaglia pro e contro le scuole private
di Marco Ascione


È contro la Costituzione l'erogazione di fondi pubblici alle scuole private per l'infanzia? Sarà vero, come rivendicano i sostenitori del referendum, che non c'è nulla di ideologico nella battaglia che stanno combattendo. Eppure, quando hanno portato (anche) i bambini in piazza Maggiore per sostenere le proprie ragioni, risuonavano note di canti partigiani e di brani come Stalingrado degli Stormy Six. Quasi a tracciare un confine, se non tra il bene e il male, tra il giusto e l'ingiusto. Annullando qualunque zona grigia.
A Bologna si stanno misurando due idee di scuola. E di sinistra. Con una conta che può risultare pericolosa. Il 26 maggio sotto le Torri i cittadini saranno chiamati a votare, a titolo consultivo, per promuovere o bocciare il Comune su questa linea: è giusto il contributo alle paritarie (in grandissima maggioranza cattoliche)? Il sindaco Virginio Merola e il segretario pd sono convinti di sì. Al punto da spiegare in assemblee perché si debba andare a votare per respingere il quesito dei referendari, sostenuti da Sel, ma guardati con simpatia anche dai 5 Stelle. Il Pd si muove secondo l'approccio pratico della scuola degli amministratori pci: se di colpo dovessero venire meno gli istituti paritari a chi potrebbero rivolgersi le famiglie escluse dalle graduatorie? Secondo «Articolo 33», il comitato promotore della consultazione (dall'articolo della Carta che prevede che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato»), con quei soldi bisognerebbe creare nuovi posti pubblici. Per il Comune, se mancasse la stampella privata sarebbe un disastro. Attualmente, spiegano, per un milione versato, la comunità riceve un servizio pari a sei milioni. Da fuori Bologna hanno firmato per il referendum Fausto Bertinotti, Carlo Freccero, Giulietto Chiesa. Su Avvenire, ieri, l'altra campana. Personalità di area cattolica e pd hanno steso un manifesto in difesa del «sistema integrato» di Bologna. Dice Walter Vitali, ex sindaco di Bologna ed ex parlamentare pd: «Ha fatto moltissimi danni questa visione statalista che risale ai tempi della Guerra Fredda, secondo la quale può essere definito pubblico solo ciò che è statale e nient'altro». Per la sinistra l'ennesima occasione per spaccarsi.

Repubblica 12.4.13
Sara, discriminata per il velo "Vuoi lavorare? Allora toglilo"
Milano, ragazza islamica respinta fa ricorso in Tribunale
Cittadina italiana figlia di egiziani sta studiando all’università: "Finora solo rifiuti"
di Zita Dazzi


MILANO - Giovane, bella, preparata, con un carattere dinamico e allegro. Sara ha tutte le qualità. Ma indossa lo hijab, il velo tradizionale islamico. E quindi un lavoro non lo trova. Nemmeno un lavoro saltuario come la distribuzione dei volantini per strada. Nemmeno a Milano, dove donne velate lavorano da anni in Comune e anche in campo privato, per esempio nelle librerie Feltrinelli. Ma per Sara Mahmoud, 21 anni, ogni volta che entra in contatto con un datore di lavoro, arriva un rifiuto. L´ultimo no è scritto nero su bianco nella mail di risposta avuta da una società che cura eventi in Fiera, che l´ha respinta per il suo rifiuto di togliere il fazzoletto che le copre i capelli. Sara ha così deciso di rivolgersi a uno studio di avvocati specializzati in procedimenti contro la discriminazione razziale e di fare causa per ristabilire quello che ritiene un suo diritto: «Portare il velo come prescrive la mia religione senza essere ingiustamente penalizzata sul lavoro e nella società».
Parole chiare, quelle di Sara, che ha la cittadinanza italiana ed è nata a Milano, prima dei tre figli avuti da una coppia di origine egiziana, partita dal Cairo un quarto di secolo fa. Sara parla l´arabo come tutti in casa sua, ma nella vita di tutti i giorni usa l´italiano con una spiccata inflessione milanese: «Io sono cittadina di questo Paese. Studio per laurearmi in Beni Culturali all´università Statale. E come tutti ho bisogno di guadagnare qualche soldo per non pesare tutta sulle spalle della mia famiglia», spiega. Per questo si era iscritta alle mailing list di varie società che mandano periodicamente agli iscritti proposte di lavoro per eventi a Milano. Diverse volte, in passato, la ragazza era stata contattata dalle società interinali e poi respinta a causa del velo che le incornicia il volto, lasciandole completamente scoperti occhi, fronte, bocca e naso. Un velo come lo portano tante donne e che non pregiudica la possibilità di fare un documento o di frequentare luoghi pubblici. «Anche in questo caso, quando ho mandato la mia foto col curriculum alla società che organizza i volantinaggi pubblicitari i fiera, ho ricevuto subito la richiesta esplicita di levarmi lo hjiab se volevo avere il lavoro».
La mail della società non lascia dubbi: «Ciao, Sara. Mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a toglierti il chador?». Ma la ragazza è tenace e tenta la trattativa, spiegando le sue ragioni: «Ciao Jessica, porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa». Segue una ulteriore mail della società: «Ciao Sara, immaginavo. Purtroppo i clienti non saranno mai cosi flessibili. Grazie comunque». Sara insiste: «Dovendo fare semplicemente volantinaggio, non riesco a capire a cosa devono essere flessibili i clienti». Ma questa è stata l´ultima mail del carteggio.
Pochi giorni dopo, Sara, figlia di un elettricista e di una casalinga, prende la metropolitana e bussa alla porta degli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri. I quali, oggi stesso depositeranno un ricorso al tribunale civile di Lodi, chiedendo «accertare e dichiarare il carattere discriminatorio dei comportamenti» tenuti dalla società che ha negato il lavoro alla giovane per il velo che indossa. «Anche la Corte europea ha sempre sancito che le limitazioni che incidono sulla libertà religiosa possono essere introdotte solo a tutela di diritti personali altrettanto importanti, come la sicurezza o l´incolumità personale - commenta il legale Guariso - non certo per inseguire un presunto gradimento della clientela».

La Stampa 12.4.13
La Jolie strega il G8 sullo stupro in guerra
di Claudio Gallo


Angelina Jolie 37 anni moglie di Brad Pitt è inviata Onu per i diritti umani. Ieri a sorpresa è stata ai lavori dei ministri del G8 di Londra

Bellissima e magrissima, Angelina Jolie ha rischiarato con il suo fascino un vertice dei ministri degli Esteri del G8 a Londra per altri versi grigissimo.
La dichiarazione di undici pagine, diffusa ieri, contiene un’affollata lista di temi: dall’Africa al Medio Oriente, alle politiche del disarmo, all’Iran, alle Coree, all’Afghanistan, ai mutamenti climatici, alla sicurezza marittima, ai diritti umani, al terrorismo e così via. Tutto in due giorni di summit. Alla fine l’impressione è una dialettica del tutto-niente con dichiarazioni d’intenti assolutamente generiche, tipo: «I ministri degli Esteri del G8 enfatizzano l’importanza di promuovere e proteggere i diritti umani…».
Vestito nero con austera scollatura tonda e filo di perle, Angelina è arrivata come rappresentante del Consiglio per i diritti umani dell’Onu insieme con Zanaib Bangura, in turbante e tunica tradizionale africana, inviata Onu per le violenze sessuali nei conflitti.
Il G8, ha spiegato il ministro degli Esteri britannico William Hague, si è impegnato a mettere fine alle violenze e agli stupri bellici in «uno storico annuncio».
Hague ha paragonato i crimini sessuali all’antica piaga della schiavitù, definendoli «una delle più grandi e perduranti ingiustizie nel mondo». Il ministro aveva lavorato con Angelina Jolie sui contenuti dell’accordo durante una visita lo scorso mese nella Repubblica democratica del Congo.
Il G8 si è impegnato a stanziare un fondo di quasi 27 milioni di euro per combattere le violenze sessuali nei conflitti e istituire protocolli internazionali per colpire questo tipo di crimini.
Intervenendo al summit Angelina Jolie ha detto: «Lo stupro in situazione di guerra non deve essere considerato inevitabile. Può essere prevenuto e deve essere affrontato». Riferendosi allo stanziamento dei fondi, l’attrice americana ha commentato: «Finalmente si dà una speranza alle vittime».

il Fatto 12.4.13
Uruguay approva le nozze gay


Dopo l’Argentina, l’Uruguay è il secondo paese dell’America Latina ad approvare le nozze fra omosessuali, nonostante le rimostranze della Chiesa. Non saranno autorizzati però viaggi ad hoc, ovvero resta il divieto per gli omosessuali che non abbiano la cittadinanza. LaPresse

La Stampa 12.4.13
Mentì sui titoli, si dimette il Gran Rabbino di Parigi
Dopo i saggi copiati si scopre che non ha mai ottenuto l’abilitazione in Filosofia
Travolto Gilles Bernheim era stato eletto Gran Rabbino di Francia nel 2008
di Alb. Mat.


Sotto a chi tocca. Travolto dalle sue bugie, ieri è caduto anche il Grande Rabbino di Francia, Gilles Bernheim. Ha annunciato le sue dimissioni anzi, come ha detto con un senso acuto dell’eufemismo, «si è messo in congedo» dopo essere stato preso più volte in flagrante delitto di plagio e menzogna.
L’affare è cominciato quando qualcuno si è accorto che l’ultimo libro di Bernheim, «Quaranta meditazioni ebree», somigliava un po’ troppo a «Davanti alla legge» del filosofo JeanFrançois Lyotard. Poi si è scoperto che erano plagiate pure delle pagine di «La preoccupazione per gli altri come fondamento della legge ebrea», del 2002. Idem per il saggio di Bernheim contro le nozze gay, «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione: quello che si dimentica spesso di dire», che Benedetto XVI aveva tanto apprezzato da citarlo pubblicamente il 21 dicembre scorso. Non stupisce che gli fosse piaciuto. In effetti, Bernheim si era dimenticato di dire che molte frasi del «suo» libro appartenevano in realtà a un prete e a un’attivista cattolica nota per le sue posizioni ultraconservatrici.
Bernheim ha confessato i plagi, definendoli «prestiti». Ma è arrivato il colpo di grazia. Si è scoperto che non ha mai ottenuto l’«agrégation» in filosofia che gli attribuivano le biografie, compresa quella del «Who’s Who». Bernheim ha ammesso, spiegando di aver «lasciato dire» a seguito di «un avvenimento tragico» della sua vita. Poi, travolto dallo scandalo, si è dimesso.

La Stampa 12.4.13
Nord Corea, la Cina arbitro della pace
di Roberto Toscano


L’opinione pubblica mondiale comincia ad essere seriamente preoccupata per la situazione in Estremo Oriente, e in concreto per la possibilità che la Corea del Nord possa davvero lanciare missili a testata nucleare contro Seul, o addirittura il Giappone o gli stessi Stati Uniti.
Ad essere sconcertati, e incerti in tema di analisi e soprattutto di previsione sono d’altra parte gli stessi «addetti ai lavori» delle relazioni internazionali. E’ vero infatti che il regime nordcoreano ci ha da tempo abituato a una sequela di provocazioni, di dichiarazioni tracotanti e minacciose, e in alcuni casi di concrete azioni aggressive, come – nel 2010 - l’affondamento di una corvetta della marina militare di Seul e il cannoneggiamento di un’isola sudcoreana, ma che poi ha evitato di fare ulteriori passi che avrebbero comportato un’escalation incontrollabile. Oggi però preoccupa il fatto che il regime nordcoreano disponga, come dimostra il recente test nucleare, il terzo, di armi atomiche e, come dimostrato dai numerosi lanci di prova, di missili a lunga gittata.
La preoccupazione principale, va tuttavia precisato, non deriva tanto da considerazioni relative alle capacita’ militari (sia nucleari che missilistiche) quanto dalla natura del regime. A partire dalla perdita del monopolio nucleare degli Stati Uniti, pochi anni dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki, il pericolo di una conflagrazione nucleare è stato quanto meno ridotto dalla dimensione della deterrenza, un meccanismo destinato ad indurre alla razionalità ispirata all’autoconservazione, e capace quindi di esercitare un’efficace dissuasione nei confronti di chi potesse essere tentato dal ricorso all’arma nucleare. Anche la crisi di Cuba del 1962, la più pericolosa di tutto il periodo della Guerra Fredda, non portò ad una conflagrazione nucleare proprio perché i dirigenti di Stati Uniti e Unione Sovietica ritenevano razionalmente inaccettabile il costo di un conflitto e quindi accettarono un compromesso.
Ma proprio qui sta il punto. Possiamo ritenere che il regime della Corea del Nord sia sensibile a considerazioni di razionalità e che quindi, nonostante la truculenta retorica, sia riconducibile all’interno del paradigma della deterrenza? A prima vista si direbbe proprio di no. Il militar-comunismo dinastico di Pyongyang sembra più il prodotto di una fiction che un sistema classificabile secondo le categorie della politologia. Un sistema che vive, si esprime ed opera in una dimensione di assurdità e follia. I livelli di vita della popolazione sono da sempre ai margini della sopravvivenza, come testimoniano i nordcoreani che riescono a rifugiarsi in Cina, in qualche caso proseguendo poi per la Corea del Sud. Il controllo sui cittadini si configura come la più integrale applicazione della distopia del 1984 orwelliano, mentre la dinastia dei Kim è oggetto di un culto con caratteristiche religiose che include addirittura i miracoli. La spietatezza del regime anche nei suoi rapporti con l’estero ha fatto persino registrare – oltre a «ordinari» episodi di terrorismo - allucinanti operazioni di rapimento, lungo le coste del Giappone, di cittadini giapponesi da impiegare come schiavi/traduttori per l’intelligence e la propaganda del regime.
Ma è proprio vero che ci troviamo di fronte a un regime irrazionale, retto da una cricca di fanatici squilibrati e pronti a tutto, anche ad una estrema provocazione nucleare capace di suscitare una distruttiva risposta degli Stati Uniti? Davvero possiamo considerare un intero Paese come una sorta di shahid collettivo, di attentatore suicida?
Diamo pure per scontato di trovarci di fronte a un regime irrazionale, ma questo non ci dovrebbe esimere dal compiere un nostro duplice sforzo di razionalità: nell’analisi della situazione e nella identificazione di una politica per gestirla evitando il peggio.
Dal punto di vista strettamente militare, il fatto che Pyongyang abbia fatto esplodere tre ordigni atomici non significa che disponga di una capacità strategica. Questo sia per il numero estremamente ridotto di ordigni di cui potrebbe disporre attualmente, sia per le loro probabili dimensioni: sembra infatti estremamente difficile che i nordcoreani abbiano conseguito la miniaturizzazione di un ordigno nucleare necessaria per inserirlo nella testata di un missile.
Per quanto riguarda d’altra parte la possibilità di un attacco convenzionale alla Corea del Sud, va detto che il regime nordcoreano non può ignorare quale sarebbe la risposta sia sudcoreana (preannunciata in modo non ambiguo dalla presidentessa sudcoreana Park Geun-hye) senza parlare di quella americana.
Resta comunque il problema di come affrontare questa sfida – una sfida che, pur potendosi ridimensionare rispetto agli scenari più apocalittici, resta pericolosa, fra l’altro data la sempre presente possibilità di errori e di perdita di controllo sui perversi meccanismi di escalation.
Certo, sarebbe anche importante affrontare al di là delle troppo facili schematizzazioni – rese facili, è vero, da un regime che sembra impegnato in una sistematica autocaricatura – le ragioni che ispirano il comportamento di Pyongyang.
Direi che sostanzialmente si tratta di due aspetti fondamentali. In primo luogo il fatto che la Corea del Nord sia uno Stato fallito in tutto fatta eccezione per la capacità militare. Uno Stato incapace di nutrire la propria popolazione, il cui malcontento viene controllato solo da un capillare meccanismo di vigilanza totalitaria e irreggimentazione fisica e mentale. Un regime la cui natura dinastica è da un lato una garanzia di continuità, ma dall’altro comporta la fragilità di fondo tipica di tutte le autocrazie, prive come sono di un’ampia base di consenso.
E’ da questa fragilità e da questo fallimento che deriva la provocazione continua, usata ripetutamente, non va dimenticato, per estorcere dalla comunità internazionale, e in particolare dagli Stati Uniti, aiuti alimentari e in tema di forniture energetiche.
In secondo luogo lo straordinario successo economico della Corea del Sud esaspera ulteriormente la sensazione nordcoreana di fragilità e insicurezza, con lo spettro «tedesco» di una riunificazione pacifica che comporterebbe la fine non solo del regime, ma anche dei privilegi della casta politico-militare al suo vertice.
Se questo è vero, allora la risposta politica al quesito su come gestire il «Paese folle» non è poi così misteriosa.
Per chiarirne i termini forse ci conviene ascoltare soprattutto autorevoli voci che vengono dalla Corea del Sud, come quella dell’ex ministro degli Esteri Yoon YoungKwan, che in un suo intervento del 1 aprile scorso sull’autorevole tribuna online «Project Syndicate» invita fin dal titolo al «Realismo sulla Corea del Nord».
Yoon, attualmente visiting scholar alla Libera Università di Berlino e alla Stiftung Wissenschaft und Politik, denuncia l’intransigenza e l’oltranzismo di Pyongyang, ma anche le occasioni mancate da parte americana, soprattutto dopo la fine dell’Urss, di trovare una via di dialogo con Pyongyang. Dopo aver criticato le incertezze di Clinton, pur deciso a percorrere la strada del compromesso, l’ex ministro denuncia soprattutto la politica di George W. Bush, e scrive:
«Ricordo ancora la difficoltà che ho trovato, come ministro degli Esteri della Corea del Sud, nel convincere l’amministrazione Bush a negoziare con la Corea del Nord invece di limitarsi ad applicare pressioni in attesa che il Nord capitolasse».
Credo che si possano condividere anche i suggerimenti di Yoon sul che fare per disinnescare l’attuale tensione e procedere ad affrontare in modo più efficace la «questione nordcoreana»: con una combinazione da un lato del riconoscimento delle preoccupazioni di sicurezza della Corea del Nord – il cui comportamento, aggiungerei, configura dal punto di vista psicologico una patologia di «complesso di inferiorità sovracompensato» - e dall’altro con una politica di aiuti umanitari, in cui la Corea del Sud sembra pronta a svolgere un ruolo generoso nonostante le provocazioni.
Ma soprattutto Yoon ci ricorda, al di là delle responsabilità americane e sudcoreane, la centralità del ruolo della Cina. Solo la Cina, infatti, è in grado di condizionare il comportamento del regime di Pyongyang e, a giudicare dalle sue esplicite dichiarazioni critiche degli ultimi giorni nei confronti delle minacce nucleari e missilistiche, sembra in effetti intenzionata a farlo, preoccupata com’è di una grave destabilizzazione ai suoi confini e nello stesso tempo del collasso di uno Stato-cuscinetto che porterebbe di fatto, con la riunificazione coreana, gli americani sulla sua frontiera Nord-orientale.
Giocando un ruolo positivo nella crisi attuale, fra l’altro, la Cina potrebbe fare un notevole passo avanti verso l’obiettivo di un pieno riconoscimento come «Grande Potenza» che non solo non si può escludere, ma con cui bisogna fare i conti se si vogliono evitare i conflitti e garantire la stabilità globale.
Sì, anche nel caso della Corea del Nord – un Paese che ci appare allucinato ed assurdo, se non addirittura folle – la diplomazia è possibile.

Repubblica 12.4.13
Un web per soli cinesi nasce a Pechino la Grande Muraglia 2.0
Siti e domini in mandarino contro l’Occidente
Una rete parallela per contendere il controllo di commercio e informazioni
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Dopo averlo combattuto invano, la Cina si appresta a conquistare Internet. Il grande passo è previsto entro fine anno: la costruzione di una Rete solo cinese, la Grande Muraglia del secolo. Pechino supera filtri e barriere e passa direttamente al "web 2.0", il mondo virtuale alternativo a quello made in Usa. L´arma usata per contendere all´Occidente il controllo di commercio e informazioni, sarà il mandarino. Per la prima volta i domini di primo livello diventeranno disponibili anche in ideogrammi. La seconda parte degli indirizzi web, oggi riservata all´alfabeto romano, estenderà l´uso dei caratteri che compongono le universalmente adottate terminazioni come. com,. net, o. ue.
Per scardinare il potere americano sulla Rete e creare una contro-comunità online con la testa in Oriente, la Cina punta a diventare leader del nuovo mondo virtuale con il segno più davanti al Pil: la Russia, i Paesi arabi, la Corea del Sud e il Giappone, finora linguisticamente emarginati da computer, tablet e smartphone. La "guerra di Internet" non è una nazionalistica contesa formale. Dalla nascita del web i domini sono controllati dal dipartimento del commercio degli Stati Uniti, che gestisce gli indirizzi a livello globale. Una montagna di dollari, costruita sulla tassa di iscrizione che enti e aziende pagano per ottenere l´uso dei propri indirizzi. Per quindici anni la Cina, impegnata invano a combattere la Rete con filtri e barriere, note come «la Grande Muraglia di fuoco», non ha messo in discussione l´egemonia Usa sull´universo parallelo a portata di mouse. Pechino era ossessionata solo dalla censura, convinta che il web fosse il nemico più insidioso del proprio autoritarismo rosso. Il boom dell´economia digitale ha fatto però cambiare idea alla nuova leadership, convinta che anche la sfida della crescita si giocherà sempre più online. Di qui l´idea di «una via cinese a Internet», mix tra business, repressione ed espansione culturale all´estero. Oltre agli ideogrammi mandarini nei domini, la Rete made in China prevede anche contenuti, format, pubblicità, social media e news riservati. Un vero e proprio universo a sé, separato dall´Occidente da un Muro di bit e controllato direttamente dal partito-Stato di quella che entro il 2020 sarà la prima economia del mondo.
L´obiettivo politico, ottenuto con la registrazione obbligatoria dei documenti di ogni navigatore, è sminare il territorio del web dalla bomba democratica. L´Internet cinese non sarà «l´impero dell´anarchia», come lo definisce Liu Qibao, nuovo capo della Rete scelto dal presidente Xi Jinping, e offrirà alle nazioni emergenti uno «spazio alternativo», dove la censura viene proposta come «garanzia dalla destabilizzazione interna». La grande sfida è però economica. La Cina è il primo mercato online del pianeta e il primo produttore mondiale di computer e cellulari. Vanta 565 milioni di utenti (oltre 600 milioni a fine 2013) e la crescita è del 10% all´anno, pari alla popolazione italiana. I cinesi che usano tablet e smartphone superano i 420 milioni (+18,1% all´anno), quelli che gestiscono un microblog sono 286 milioni e i siti dell´e-commerce sono i più frequentati del pianeta. A Pechino naviga il 77% dei residenti. «Appena i domini in mandarino saranno realtà - dice Gu Xiaoming, docente di comunicazione all´università Fudan di Shanghai - il boom dell´economia digitale sarà un´impressionante scossa globale».
Fino ad oggi i privati dell´Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN), con sede a Los Angeles, hanno controllato e limitato gli indirizzi sfruttando l´alfabeto. La Cina e suoi alleati puntano a rompere l´equilibrio affidando i domini alle Nazioni Unite, attraverso l´ITU, abbassando e distribuendo gli oneri di trasmissione. Interessi enormi, tra cui la protezione digitale dei marchi e i pagamenti online, ma pure una grossa spinta ai giganti cinesi delle telecomunicazioni, all´e-commerce del Dragone, ai microblog censurati da Pechino e alle news elettroniche filtrate dalla propaganda. Logica comprensibile: la Cina e l´Asia sono la piazza più affollata del web, l´inglese e gli Usa frenano la sua espansione, Internet deve dunque esprimersi in mandarino per diventare realmente universale. Se la pubblicità è in cinese, russo e arabo, i siti delle aziende non possono avere indirizzi solo in caratteri latini. Nel mondo del nuovo Internet sottratto alla dipendenza americana, gli affari sono però solo una faccia della medaglia. L´altra è il controllo sociale dell´umanità post-televisiva: per Pechino resta quella decisiva, la vera ragione di una Grande Muraglia in mandarino, lunga come tutto il web.

Corriere 12.4.13
I cinesi puntano al controllo di Telecom
di Fabrizio Massaro


H3g: vogliamo essere il primo socio. Mandato ai manager per separare la rete
MILANO — Tre settimane al massimo: è il tempo della riflessione che il consiglio di Telecom Italia s'è dato di fronte alla proposta dei cinesi di Hutchison Wampoa di conferire 3 Italia, a condizione di diventare il nuovo azionista di riferimento del colosso telefonico italiano, come ha precisato in una nota la stessa Telecom. Anche se l'orientamento dei soci forti sarebbe stato ieri di freddezza di fronte all'ipotesi, contenuta in un memorandum of understanding presentato nei giorni scorsi dagli uomini del magnate di Hong Kong, Li Ka Shing.
Ieri dopo una riunione di sei ore il board presieduto da Franco Bernabè ha deliberato di costituire un «comitato ristretto» per «verificare entro tempi ristretti l'interesse della società alla prosecuzione del percorso». Del comitato, che affiancherà Bernabè, fanno parte due rappresentanti dei soci maggiori del veicolo di controllo Telco, cioè Julio Linares per conto della spagnola Telefonica (al 46% in Telco) e Gabriele Galateri per conto di Generali (al 30,5%), e due indipendenti, Elio Catania e Luigi Zingales (per i fondi).
In queste settimane — in tempo per il consiglio di amministrazione fissato per l'8 maggio — il comitato dovrà effettuare una sorta di due diligence su 3 Italia per verificare se ci siano i presupposti per andare a trattare, nonché capire quali possano essere le convenienze economiche per il gruppo telefonico. L'impressione che si raccoglie in ambienti vicini ai grandi soci è che potrebbe replicarsi il nulla di fatto registrato a dicembre scorso con la proposta del finanziere egiziano Naguib Sawiris di un aumento di capitale riservato di 3 miliardi. Mercoledì anche il secondo socio forte di Telecom, Marco Fossati (Findim) aveva bollato come «mossa tattica» e non strategica la possibile integrazione Tim-3 Italia. Anche per questo ieri anziché un mandato a trattare, dal consiglio è venuta fuori l'istituzione del comitato.
La difficoltà dell'operazione è determinata da fattori industriali e di governance. Dal primo punto di vista c'è da affrontare il tema della valutazione del gruppo guidato in Italia da Vincenzo Novari, che in dieci anni ha conquistato 9,5 milioni di clienti ma non ha mai chiuso in utile. Il 2012 ha visto 1,9 miliardi di ricavi (+10%) con un ebitda di 264 milioni di euro (+3%) e un ebit di 0,5 milioni. Le stime di 2-2,5 miliardi di euro circolate in questi giorni lasciano perplessi il fronte Telco. In quest'ottica dunque un'eventuale fusione o integrazione potrebbe comportare forse per Telecom dei vantaggi fiscali. Tra gli altri benefici, ci sarebbe quello della contrazione degli operatori (oggi hanno frequenze anche Wind e Vodafone), che però si riverberebbe anche sui concorrenti. Altre complessità arriverebbero poi dall'antitrust, visto che insieme Tim e 3 Italia controllano il 46% del mercato.
Il secondo nodo sarà il rapporto tra i soci. Per diventare azionista di riferimento di Telecom, H3g punterebbe a rilevare le azioni in mano a Telco o ai suoi soci a un prezzo che dovrebbe essere pari al valore di carico di 1,2 euro — praticamente doppio rispetto agli 0,61 euro di Borsa ma utile per una società gravata da 1,7 miliardi di debiti e non vuole registrare ulteriori perdite. Ma questa soluzione trova freddi i vari soci perché rischia di essere poco rispettosa dei soci di minoranza. A puntare i piedi ieri al consiglio sarebbe stata soprattutto Telefonica, rappresentata ai suoi massimi livelli da Cesar Alierta e da Linares. Il gruppo spagnolo avrebbe ricordato di avere il diritto di prelazione di fronte alle eventuali offerte di vendita che arrivassero agli altri soci di Telco, cioè Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo (queste ultime due con l'11,6% ciascuna).
Altro tema affrontato nel consiglio è stata la creazione di una società ad hoc per la rete fissa in vista di un'alleanza con la Cassa depositi e prestiti, della quale già ieri era attesa una valutazione economica che però non sarebbe arrivata. Per questo il board ha dato «mandato al management a definire il percorso operativo di fattibilità per la separazione della rete di accesso», a cominciare proprio dalla valorizzazione della rete, compresa la divisione debito di Telecom, pari a 28,3 miliardi. Le due partite — H3g e rete — sono inevitabilmente intrecciate. E a renderne più complessa la soluzione è anche l'assenza di un governo in carica.

Repubblica 12.4.13
Sì ai pantaloni, vincono le deputate turche
Una norma del ’23 le costringeva a indossare la gonna in Parlamento. Due anni di proteste
di Marco Ansaldo


Il caso di Safak Pavey, che ha una protesi alla gamba, ha portato alla modifica della legge

ISTANBUL - Le deputate della Turchia sono un gruppo folto (78, su 540 parlamentari). Spesso sono signore dotate non solo di vis polemica e di capacità politiche di buon livello, ma anche di grande femminilità. E ieri sono state in grado di vincere una battaglia di forte impatto sull´opinione pubblica locale e internazionale per i loro diritti civili. Il Parlamento di Ankara, infatti, ha decretato che nelle aule dell´Assemblea ora anche le donne potranno indossare i pantaloni.
Il regolamento interno prevedeva ancora oggi una norma desueta, però rispettata, sull´abbigliamento delle onorevoli. Dovevano per l´appunto presentarsi rigorosamente in gonna. Non stretta e sotto il ginocchio. Una regola che, fino a ieri, andava anche oltre gli austeri ambienti istituzionali, arrivando negli uffici pubblici e nelle rappresentanze diplomatiche. C´è ancora chi ricorda quando, in un´ambasciata, un´impiegata si presentò al mattino al lavoro indossando un paio di normalissimi calzoni, e fu redarguita con il consiglio di portare un capo di abbigliamento più appropriato.
Ma la Turchia del 2013, che si sta trasformando a vista d´occhio sotto il profilo economico, ambendo non solo ad entrare nell´Unione Europea, ma a diventare nel giro di pochi anni uno dei dieci Grandi al mondo (secondo gli auspici del Presidente della Repubblica, Abdullah Gul), non può rimanere al palo su questioni altrove superate da tempo. Ed è così che è nata l´idea – ben appoggiata, è necessario dirlo, anche dalla parte maschile del Parlamento turco – di eliminare quella norma così desueta. La proposta di modifica della legge è stata presentata due anni fa. Risale infatti ad allora la polemica descritta sui giornali di Istanbul, la capitale mediatica del Paese, per le foto pubblicate sulla deputata Safak Pavey, parlamentare del principale gruppo di opposizione, il Partito repubblicano del popolo, di ispirazione socialdemocratica, fondato da Mustafa Kemal, detto Ataturk, padre della Turchia moderna. La donna portava infatti una protesi alla gamba, resa ben visibile dalla gonna che la legge la costringeva a indossare. Da lì cominciò il dibattito sull´opportunità di modificare quell´articolo 56 del regolamento che, a molti, appariva ormai da buttare. E ieri i deputati hanno infine dato il loro via libera.
Il divieto risaliva addirittura alla fondazione della Repubblica turca, nel 1923. Dove la norma oggi incriminata prevedeva espressamente che le donne in Parlamento potessero indossare solo la gonna. A suo tempo la misura era stata introdotta per "deislamizzare" la vita pubblica, in un Paese che usciva dalle rovine dell´Impero ottomano. Alle deputate era vietato non solo indossare il velo, ma anche i pantaloni islamici larghi, che pure cancellavano le forme. Facile ora intuire dove porterà questa forma di liberalizzazione: a una battaglia parlamentare volta a togliere anche il divieto di indossare il velo. I laici si oppongono al copricapo, perché lo considerano non solo un simbolo religioso, ma un elemento di appartenenza anche politica al partito islamico moderato da 10 anni al potere in Turchia. La svolta di ieri prelude così a un confronto più aspro proprio sul velo. E l´ispiratore della riforma è il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del premier islamico Recep Tayyip Erdogan.

l’Unità 12.4.13
Lessico familiare in nome del padre
Due fratellastri si ritrovano dopo la morte del genitore comune, condividendo un medesimo senso per il dolore dato dall’abbandono e dai trascorsi paterni
di Maria Serena Palieri


IN «TUTTA LA VITA» (PRIMA PARTE) ROMANA PETRI TENTAVA LA SCOMMESSA DELLE SCOMMESSE, CI RACCONTAVA CIOÈ TUTTE LE SFUMATURE DI UN AMORE FELICE. In questo nuovo romanzo Figli dello stesso padre candidato al premio Strega più classicamente a prendere la scena è l’infelicità, una tolstojana infelicità familiare. Due fratellastri, Emilio e Germano, a quattro anni dalla morte del genitore comune, Giovanni, si rivedono. Sia l’attesa che l’incontro sono occasione per la rivisitazione di un rapporto segnato da ferite, rivalità, incomprensioni. La radice della sofferenza è nella figura del padre, sposato prima con Edda, da cui ha avuto Germano, oggi quasi cinquantenne, poi legato a Costanza, madre di Emilio e quindi, in fuga da entrambe, accompagnatosi a una ventenne dietro l’altra. Giovanni Acciari è stato umanamente un disastro, infantile, irresponsabile, di perenne malumore, depresso ma anche pronto a martellanti recriminazioni. Eppure qualcosa in lui legava a sé i due figli, che si sono dovuti spartire le briciole del suo amore. Germano, così, è diventato un pittore di vaglia, specialista in raffigurazioni colte della morte, a imitazione del padre lunatico e scapolo indefesso, destinato a continuare a vivere nella casa dell’infanzia; Emilio all’opposto è un matematico, mirmecologo dilettante, vive negli Stati Uniti, marito fedelissimo di un’anglosassone, Jenny, e padre di due figli. A riunirli, la mostra «Rigor mortis» che a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, con i suoi cupi e sarcastici trionfi della morte, celebra l’ingresso del primo nel pantheon dei pittori italiani; mostra alla quale Germano ha invitato Emilio che, per esserci, in un tentativo estremo di ottenere affetto dal fratellastro ha attraversato l’oceano. La suspense è tutta qui: riusciranno i due fratelli a mettere la parola fine al dissidio che li divide da un quarantennio?
Figli dello stesso padre (Longanesi, pp. 297, euro 16,40) è un libro che poggia appunto su una pretesa: c’è qualcosa di più interessante, da un punto di vista narrativo, di quel crocevia affettivo (amori ed odii) che è una famiglia? Tant’è che questo crocevia è esplorato senza bisogno di ambientazioni esotiche (la Pittsburgh in cui vive Emilio è una qualunque città) né di sfondi storici epocali. L’esotico e l’epocale sono nel nucleo in sé: l’esotico nella contrapposizione tra la Roma in cui è nato e cresciuto Germano e dove vive tuttora anche sua madre Edda, editrice, in coppia col nuovo compagno Duarte (proiezione dell’autrice stessa) e la Lombardia di Emilio, Milano sua città natale e la casa sul lago dove si trascorrevano certe cupe e indimenticabili estati, con la famiglia paterna, la nonna alcolista e zii e cugini tutti chiamati alla meneghina con l’articolo, «l’Arte», cioè Artemisia, «il Bruno»; l’epocale è dato dai sommovimenti affettivi che hanno scandito questa saga familiare, sia il momento in cui Giovanni, scoperto che Costanza era incinta, pur dichiarandole risentimento eterno ha lasciato Edda e Germano, sia quel banale ma cataclismico litigio scoppiato nella villa di Bonera, nel lessico familiare diventato «la tragedia», sia la morte di quel padre conteso tra i due fratelli.
Romana Petri ha una maturità narrativa che rende interessante e viva una storia di per sé, in fondo, «normale». Sono i dettagli a illuminare i personaggi. Ciò che Emilio vede nelle formiche che studia dall’infanzia e la sua idea «psichedelica» della matematica, le sigarette e la fantasia verbale di Edda, il serio pragmatismo di Duarte, il modo da soldatino che Costanza ha di prendere la vita... I personaggi sono figli della nostra epoca, lo è specialmente il follemente irresponsabile Giovanni. Ma ha un sapore classico, ha belle radici antiche, questo lessico familiare con cui loro, «gli Acciari», famiglia nonostante tutti e tutto, raccontano, a noi lettori, se stessi.

Romana Petri, Figli di uno stesso padre pagine 297 euro 16,40 Longanesi su ebook store a 11,99

l’Unità 12.4.13
Napoli
Al Madre incontri tra arte e neuroscienza


Oggi alle ore 18 il terzo appuntamento del ciclo «Il senso del sé» è dedicato al rapporto tra identità personale e cervello/corpo grazie all’incontro con il professor Vittorio Gallese, scopritore, insieme a Giacomo Rizzolatti, Leonardo Fogassi e Luciano Fadiga, dei neuroni specchio, che si attivano quando si compie o si osserva un’azione compiuta da un altro soggetto. Il concetto base è che ogni relazione interpersonale implica la condivisione dell’esperienza di azioni, emozioni e sensazioni.

il Fatto 12.4.13
La mostra
Antonioni, una tela chiamata schermo
di Claudia Colasanti


Lo sguardo di Michelangelo Antonioni Palazzo dei Diamanti, Ferrara. Fino al 9 giugno 2013

LA PREVEGGENZA. Quando è così nitida non può che infastidire, decenni prima che ci si accorga quanto lo sfacelo, culturale, politico e psichico ci abbia ridotto in polvere. Michelangelo Antonioni (1912-2007) – inutile in poche righe riassumere la sua opera colossale – lo fa da subito e per tutta la vita, centrando l’obiettivo anche quando non sembra, con la descrizione puntigliosa del disagio umano ambientato nei contesti architettonici più disparati, dimostrando che da un “ovunque possibile”, che sia deserto, centro storico, nebbia, chiesa o palazzo elegante, non si sfugge alla propria lacera identità, ai miseri dolori che ci colgono impreparati, alle immagini dense e silenti dell’arte – che ci aiutano solo in parte – a districare i fili di un’esistenza inquieta e da un futuro che volge alla deriva. L’imperdibile mostra che lo celebra a Ferrara (sua città natale), non è una semplice carrellata di brani di suoi film o di ricordi casalinghi, ma un nucleo ragionato di spazi mentali che riconducono alla base visionaria di ogni singolo film, passando non per le parole, ma attraverso le immagini, ovvero la sostanza da cui quasi tutta la sua opera prende forma. Per una volta viene svelata una parabola creativa accostandola ad opere di grandi artisti, come De Chirico, Morandi, Rothko, Pollock, Burri e Vedova, e offrendo un necessario dialogo tra film e pittura. Benn ove sezioni sui motivi del lavoro del regista: dalle nebbie della pianura padana ai deserti aridi e polverosi, dalle visioni della metropoli moderne (ispirate alle atmosfere sospese della pittura metafisica), sino al disastro ecologico e alla crisi finanziaria, sociale e ideologica che ha annientato la società dei consumi. Un esempio su tutti: “Zabriskie Point” (1970), dove la rotazione fra universo pittorico e messa in scena rende le due dimensioni indivisivibili. Qui Antonioni ingloba tutta la Pop Art, rendendola metafora di un presente devastatore, come nell'esplosione finale: un ingrandimento in cui tutti i nostri feticci galleggiano verso l'eterna inutilità.

La Stampa 12.4.13
Mira in alto l’arciere che vuole centrare il bersaglio
L’importanza dell’utopia per “dare luogo” a ciò che non ha ancora trovato posto nella società: la lezione di Ossola a Biennale Democrazia
di Carlo Ossola


In programma oggi Il testo che anticipiamo in questa pagina è la sintesi della lezione «Dar nella “brocca”: mirare alto per essere realisti» che Carlo Ossola tiene oggi alle 16 al Teatro Carignano, introdotto da Cesare Martinetti. Tra gli altri appuntamenti della giornata, «Il sogno di una lingua per tutti» con Gian Luigi Beccaria e Beppe Severgnini (10,30, Carignano), «Città bambine» con Arnaldo Cecchini, Marco Rossi Doria e Chiara Saraceno (16,30, Teatro Gobetti), «Utopie che nascono dalla terra» con Carlo Petrini, Stefano Liberti e Mario Calabresi (18, Carignano), «Laicità: per una società del futuro senza conflitti religiosi» con Lucio Caracciolo, Giovanni Filoramo e Gian Enrico Rusconi (21,30, Gobetti)

Tenere alta la mira, o approssimarsi al possibile sono, ancor oggi, modi di leggere la nostra società; dipende - quando si voglia scegliere l’uno o l’altro - da ciò che si vuol ottenere. Per il tema che ci trattiene oggi, e ci coinvolge come cittadini, dovremmo porci lo stesso problema che delinea Italo Calvino nella Giornata di uno scrutatore: e cioè «come rimediare all’imperfezione» che è propria di ciascuno e della società nel suo insieme; in effetti siamo tutti «insufficienti». Nel ripercorrere le risposte storiche al problema, Calvino si sofferma sulla tesi della «società suppletiva»: immaginare - come teorizzò il marxismo - che sia possibile una società così vigile, così capace di vegliare e prevenire, che anche un cieco possa vedere con gli occhi di tutti. Ma alla fine dell’esame Amerigo Ormea deve riconoscere (oltre allo scacco storico delle società del «socialismo reale») che «essere nel giusto è troppo poco».
Dobbiamo partire di qui: la giustizia, se anche ci fosse, sarebbe insufficiente a colmare i nostri limiti: ecco dunque il compito dell’utopia. Essa, intanto, va pensata come «riserva di senso» che le civiltà hanno cumulato nella loro storia: basti riflettere - in tempo di megalopoli - alla lunga centralità civile dello spazio pubblico: dall’agorà greca ai tanti Palazzi della Ragione che si ergono nella piazza centrale di molti dei nostri comuni di origine medievale. Questa centralità e dignità dello spazio pubblico s’associa alla dignità della parola pubblica, che va lanciata - direbbe Paul Celan - «a Nord del futuro», per nuovi mondi, e non in faccia all’interlocutore come alterco, insulto, offesa.
Questo è il nostro engagement: alla lettera «darsi in pegno», farsi pegno, d’avvenire (da advenio, advena, forestiero): colui che ci viene incontro, che bussa alla porta, è il nostro avvenire.
L’utopia dunque non va pensata come modello (che alla fine costringe: Wisława Szymborska ha scritto una memorabile poesia sulle utopie realizzate che sono come isole di sabbia ove molteplici piedi fuggono verso la riva) ma come «supplemento» di spazio: «dar luogo» appunto a ciò e a chi non ha ancora trovato posto, nella società. Alla crisi non si risponde con la coscienza della crisi (tautologia), ma con la coscienza dei valori: è il cieco, nel racconto La cattedrale di Raymond Carver, che alla fine prende la mano al vedente che deve spiegargli le nervature della possente opera e non sa come nominare la varietà di arcate e volte; è il cieco - che sa che cos’è un’aspirazione all’alto - a disegnare perfettamente quello che l’altro goffamente balbetta per cenni).
L’utopia è la tensione costante non già verso il possibile fornito dal contingente, ma verso l’incompiuto di cui pure sappiamo bene le regole del compimento: la società è un’immensa fabbrica a cielo aperto che costruisce per arrivare a «riunire a tenda» tutti coloro che vi mettono mano, o semplicemente vi si rifugiano, come ancora si esprime Paul Celan. Dobbiamo pensare progetti dei quali, realizzandoli, si possa sempre dire -con Vladimir Jankélévitch - che il loro punto finale è «quelque part dans l’inachévé».
Si dice che u-topia sia il «non-luogo» precisamente perché non può aver luogo, realizzarsi: in verità Marc Augé ha ben mostrato che i «non-luoghi» sono altri, quelli tutti identici (dagli aeroporti agli ingressi in città, marcati ormai dappertutto dai villaggi commerciali, etc.) che ci rendono anonimi e alieni soggetti di spesa. Utopia è il «luogo-non» riconosciuto, che non si vede perché non lo frequentiamo più o non ci lasciamo frequentare: e immense banlieues, fisiche e morali, che assediano la nostra tranquillità.
Proprio in questi giorni appare in Francia un bel libro di Mireille Delmas-Marty, teorica dell’internalizzazione del diritto, Le travail à l’heure de la mondialisation (Bayard). È il frutto delle lezioni che, con il Collège de France, ha tenuto in un liceo di Aubervilliers, la più povera delle periferie parigine, là dove qualche giorno fa sono bruciati quattro egiziani sans papiers nel loro appartamento incendiato per vendetta. Il capitolo finale di questo teso e robusto saggio ha per titolo «L’utopie d’humaniser la mondialisation»: le proposte, non solo giuridiche, che avanza partono tuttavia da un vissuto condiviso; una parola per essere autentica deve essere pronunciata nel luogo nel quale essa non aveva cittadinanza, là dove regna l’esclusione e la sopraffazione; qui a teatro è troppo facile, cominciando da me stesso. L’utopia di stasera è sciamare, verso quei «luoghi-non» che non esistono più nella nostra coscienza. In fondo la prima utopia è anche la più semplice e diretta: quella di «ripopolare» la nostra coscienza.

Repubblica 12.4.13
Il saggio di Stefano Rodotà sulla proprietà
Dall’acqua al sapere i beni che sono di tutti
La conoscenza non può essere oggetto di "recinzioni" come quelle che subirono le terre delle comunità in Inghilterra fra il Seicento e il Settecento
di Stefano Rodotà


I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell´interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell´umanità" e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.
È aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una "società idraulica", che consentiva un controllo autoritario dell´economia e delle persone. Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l´acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta "l´opposto della proprietà". In questa riflessione altre memorie storiche possono soccorrerci, evocando esperienze come quella di Roma, dove la gestione dell´acqua con la costruzione delle infrastrutture necessarie – e le vestigia degli acquedotti ovunque ci tramandano quello spirito – era concepita come strumento per mantenere la coesione sociale, tanto che fino all´età imperiale era proibito ai privati di avere l´acqua nelle loro abitazioni.
Molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni. Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto. Tra disponibilità di un bene e sua "recinzione", che impedisca utilizzazioni da parte di altri. Tra diritti di proprietà e creatività intellettuale. Tra beni materiali e beni comuni virtuali. Tra valore economico e riduzione a merce. Tra sguardo locale e proiezione globale. Un punto chiave della discussione è rappresentato dalla conoscenza, bene comune "globale", per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l´argomento della accresciuta produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l´oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l´accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell´irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall´innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale «la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude». E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l´effetto ben può essere quello di «un´erosione delle basi morali della società», come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s´erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell´estrema individualizzazione degli interessi, s´incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell´uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell´eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell´accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d´ogni persona.
Proprio nella dimensione globale queste considerazioni assumono particolare rilevanza. La possibilità di affidarsi ad una logica diversa è legata anche alla consapevolezza che dev´essere garantita una "protection of planetary commons", appunto di quei beni comuni ormai irriducibili alla misura del mercato e che sempre più spesso non possono essere rinchiusi nei confini nazionali.