domenica 14 aprile 2013

D di Repubblica 13.4.13
Telemaco siamo noi
Di Massimo Recalcati


L’autore dell'articolo in queste pagine, è appena uscito per Feltrinelli Il complesso di Telemaco, quasi un "sequel" di Cosa resta del padre?, il saggio dove lo psicoanalista aveva affrontato il tema dell'evaporazione della figura paterna oggi. Nel nuovo libro il punto di vista è quello del figlio, delle nuove generazioni che non sono più in conflitto con le precedenti (Edipo), né possono più procedere verso l'affermazione edonista del sé (Narciso), bloccata dalla crisi. Aspettano dei padri credibili per confrontarsi con loro e riconquistarsi un'eredità e un futuro. Vale per il lavoro e per la politica, crisi della sinistra italiana compresa: non ci siamo mai sentiti così Telemaco, tutti a guardare il mare aspettando che qualcosa ritorni.

D di Repubblica 13.4.13
La rabbia e l’Eros
Litigare, nella coppia non è un male. Perché la collera può non essere un'alternativa all'erotismo, ma anzi il suo carburante
Uno psicanalista francese lo sostiene in un libro, uno psicoanalista italiano ne discute con lui
«L'incontro felice tra il maschile e il femminile fa scintille. La scenata di gelosia, la collera, sono spesso utili affinché l’erotismo preservi i suoi diritti»
«L'amore parte dall'infanzia, mentre il desiderio sessuale è veramente attivo soltanto a partire dall'adolescenza, che è una età di turbolenza»
di Massimo Recalcati


Diversamente da quello che una certa mitologia romantica di origine platonica ci ha tramandato, l'uomo e la donna non sono fatti per essere complementari, non sono le due parti di una stessa sfera che ricercano la loro integrazione armoniosa. La psicoanalisi insegna che tra l'uomo e la donna c'è qualcosa che non va, che non si compone mai, c'è una differenza che non si può assorbire. Tra l'uomo e la donna c'è una instabilità permanente perché diversi sono i loro modi di vivere l'esperienza del sesso e dell'amore.
Gerard Pommier, psicoanalista tra i più noti a Parigi, allievo della prima ora del grande Jacques Lacan, professore al'Università di Strasburgo, autore prolifico e originale, uomo dal carattere forte e generoso, dai capelli bianchi e dagli occhi azzurri profondi, allergico all'uso stereotipato che spesso gli psicoanalisti - soprattutto quelli lacaniani - fanno della dottrina, ha recentemente pubblicato per Cortina Del buon uso erotico della collera (e di qualche sua conseguenza). Ho conosciuto Pommier l'estate di due anni fa nel corso di un convegno veneziano dove ebbi modo di ammirare il suo modo unico di ripercorrere le categorie della psicoanalisi - anche quelle
apparentemente consolidate - e di fare un lungo giro in piena notte in taxi con solo il silenzioso rumore della laguna tra noi. Con questo libro Pommier affronta il mistero del desiderio sessuale. Lo affronta mostrando come l'incontro erotico dei corpi non risponde alla legge naturale dell'istinto ma a quella assai più bizzarra della pulsione che può utilizzare per il suo godimento anche la benzina della collera. Ora, di fronte a un caffè, scambiamo qualche parola su questo tema...
TURBOLENZE D'AMORE
Recalcati: «Lacan aveva paragonato il rapporto tra uomo e donna a quello di Achille e la tartaruga del celebre Paradosso di Zenone. Achille, il più veloce tra i mortali non potrebbe mai, logicamente, raggiungere l'animale più lento della terra.Tra i due c'è uno spazio che può essere infinitamente accorciato ma mai abolito. Questo significa che l'uomo e la donna funzionano rispondendo a fantasmi differenti: quello dell'uomo è un fantasma appropriativo che punta a godere dell'oggetto senza parole. Il godimento maschile può essere perfino imbarazzante perché risponde ad una logica idraulica: aprire e chiudere il rubinetto.
Per la donna le cose sono più complicate. Il godimento del corpo dipende dall'esistenza delle parole d'amore. Il corpo femminile gode non dell'organo ma del segno del desiderio, gode delle lettere d'amore. Ecco dunque Achille e la tartaruga: uno cerca il sesso, le gambe, i seni, la bocca ecc, l'altra cerca il segno d'amore come irriducibile al sesso. Tra i due non funziona. I sessi non sono fatti per stare insieme. O meglio, l'amore quando c'è, è la possibilità di sopportare questa difficoltà di stare insieme. Nel tuo libro quanta verità attribuisci a questo modo di concepire la differenza sessuale ?»
Pommier: «In vacanza, all'estero, il più lontano possibile, il turista riesce facilmente a dire "Ti amo" in una lingua esotica: I love you...Te quiero... Ich Liebe dich (etc). Ma nella lingua madre è molto più difficile: "ti amo" evoca il primo amore, quello della madre, e un uomo fatica a pronunciarlo perché si contrappone al desiderio sessuale e questa difficoltà diminuisce le performances sessuali. Per una donna spesso è più facile dire "ti amo" perché, al contrario, l'uomo che lei ama la separa sessualmente dal padre e l'amore le permette di uscire dalla famiglia lasciando il padre in lacrime sulla soglia della chiesa. Sembra dunque ci sia una sorta di contraddizione di principio tra l'amore e il desiderio sessuale, difficoltà che si ripete ogni volta che nasce un amore e si costruisce una famiglia. La famiglia è il luogo dell'interdizione dell'incesto, e questa interdizione rende l'erotismo più complicato quando una donna e un uomo che si amano hanno dei bambini e diventano padre e madre. A questa difficoltà se ne aggiunge un'altra altrettanto grande, ovvero che la donna è una sorta di causa universale del desiderio e, dal momento che il desiderio non è precisamente un piacere, ma come dice Freud "un dispiacere pieno di piacere", la sua soddisfazione è indefinitamente rinviata al domani. Per queste ragioni la relazione tra gli uomini e le donne è marcata da un conflitto primario, anzi, in realtà è il conflitto stesso ad essere la fonte dell'incontro sessuale».
Recalcati: «Si, questa è una tesi del tuo libro. La collera può non essere una alternativa all'erotismo, ma la sua benzina. Certo, questa rappresentazione dell'incontro tra i sessi può apparire piuttosto brutale. È vero che l'incontro tra Ì sessi è sempre fonte di perturbazione. Come quando su di un aereo il pilota annuncia ai viaggiatori: "attenzione stiamo entrando in una zona di turbolenza!"».
Pommier: «Io penso che l'incontro tra il maschile il femminile sia sempre tanto inevitabile quanto elettrizzante. Fa scintille, e queste scintille sono la felicità dell'incontro. Ma questo stesso sogno di felicità, che è un sogno inestirpabile, non dura mai senza la costanza della tensione instabile tra il maschile e femminile, tanto più che l'amore non sempre è compatibile con il desiderio sessuale. La scenata di gelosia, la collera, sono spesso utili affinché l'erotismo preservi i suoi diritti. Poiché l'amore parte dall'infanzia, mentre il desiderio sessuale è veramente attivo soltanto a partire dall'adolescenza che è una età di turbolenza».
Recalcati: «In fondo la giovinezza è, come avrebbe detto Lacan un risveglio di primavera. Il soggetto si trova di fronte al suo corpo come se fosse un corpo nuovo. Deve abitare un corpo che manifesta con forza il suo carattere sessuale. Mentre il corpo di un bambino, come dice la Bibbia, ha sempre "l'odore di campo", il corpo di un adolescente manifesta altri generi di odori e di secrezioni. Tra l'altro una delle etimologie del termine adolescenza riguarda proprio l'arrivare ad avere un proprio odore. In questo senso l'emergere del corpo come sessuale rompe la cornice del familiare, spalanca le finestre. Tutti gli orifizi del corpo è come se si aprissero ad un mondo nuovo grazie a questo vento di primavera.  È l'incontro turbolento, ma entusiasmante, con l'Altro sesso».
Pommier: «Infatti l'amore è inizialmente segnato dall'impronta familiare; è, per cominciare, l'amore della madre o del padre; mentre il desiderio sessuale inizia al di fuori della famiglia, anzi è un modo per fuggire dalla famiglia. Quando l'amore si somma al desiderio, c'è il rischio di confusione tra il padre e l'uomo, la madre e la donna.Tale confusione rischia di ostacolare il desiderio, o l'amore, o entrambi, soprattutto quando una coppia ha dei bambini. Lontano dall'essere segno di una rottura, la collera è spesso uno stratagemma per preservare il desiderio, contro un amore troppo familiare».
Recalcati: «Lacan ci propone in effetti una nozione tutta nuova di eterosessualità. Ci aiuta a non confondere l'eterosessualità fondata sulla differenza anatomica dei corpi (maschile e femminile), da una eterosessualità che investe invece la qualità della relazione con l'Altro. Come dire che non è certo la differenza anatomica dei corpi che può dire quando c'è eterosessualità, quando cioè la vita sessuale è davvero incontro con l'Altro sesso. La differenza anatomica dei corpi non garantisce che ci sia autentica eterosessualità. La clinica psicoanalitica ce lo spiega bene quando, per esempio, mostra coppie di cosiddetti eterosessuali dove c'è una immedesimazione reciproca, familiare, senza alcuna alterità, dove prevale un modello di accudimento di tipo materno o paterno. Perché ci sia eterosessualità ci deve essere amore per una donna, diceva Lacan. Cosa significa? Significa che un legame eterosessuale non dipende dalla anatomia ma dal fatto che i due restano due, non si confondono, non si immedesimano l'uno nell'altro. Questa è la potenza del desiderio che si associa all'amore: desiderare e amare l'Altro come Altro».

l’Unità 14.4.13
Bersani: il governissimo no
Non cedo al Cav serve il cambiamento
Manifestazione nella periferia romana
«Cambiare si può. Non siamo tutti uguali, per loro la povertà è compassione, per noi una lotta centrale»
A Renzi: «L’arroganza umilia chi ce l’ha»
di Marco Bucciantini


Striscia e bussa, Pierluigi. «Eh...», risponde lui, cercando con gli occhi la voce che si era fatta sentire, netta, in una pausa del discorso del leader del partito democratico. C’è poca luce nella sala del Mitreo, il centro policulturale del Corviale dove il Pd è venuto a parlare di soluzioni, in un posto pieno di problemi.
«Striscia e bussa»: è una dichiarazione d’intenti del Tressette, gioco di carte e di popolo. Una mossa d’attacco: si bussa, le nocche sul tavolo, quando si hanno carte buone e si vuole “la migliore” dal compagno. Si striscia, spianando con la mano, quando le carte permettono un gioco lungo. Si striscia e si bussa, insieme, quando si vuole comandare. Ma servono le carte buone, in ogni partita. Cos’ha in mano Bersani?
Il mandato elettorale: «Siamo la coalizione di maggioranza». La voglia di cambiare: «Si può fare. Questo centro è nato dopo una mia legge per aprire centri di aggregazione in zone “difficili”. Ero ministro dell’Industria e pensavo alle
periferie: vengo da una storia e so che senza equità sociale e senza mutualità non c’è sviluppo, né crescita. Ce ne sono parecchie di leggi Bersani», aggiunge, «e tutte hanno una caratteristica in comune: sono leggi che cambiano qualcosa».
La diversità: «Non è vero che siamo tutti uguali. Non ci credete. Per loro la povertà è compassione, perché rimuovono il tema sociale. Per noi è una lotta centrale: una società diseguale non può camminare. Se la nave affonda non si bagna solo la terza classe. Il governo dovrà rilanciare l’economia del Paese, creare lavoro: e si parte dal punto di vista di chi sta peggio». L’orgoglio, tanto in questo discorso che sembra il manifesto del Bersani pride (la mia storia, le mie leggi). Questa è per Renzi, che definì «umiliante» il confronto con il Movimento 5 Stelle: «Mi dice che ci vuole dignità. Una frase così non l’avrei accettata nemmeno da mio padre, ma per il bene del partito sto zitto. L’arroganza umilia chi ce l’ha». Dice anche: la politica faccia presto. «È un invito indecente: non accendiamo micce qualunquiste. Lo so che le persone vogliono un governo. Le incontro, me lo chiedono». La coerenza, allora: «E mi chiedono anche di far bene e non fare inciuci», e così fa la platea: non cedere a Berlusconi, «no che non cedo. Mi ci vedete al governo con Brunetta? Il governissimo non è la risposta ai problemi dell’Italia».
Che fare, si domanda, come i contadini di Fontamara. La lotta alla povertà, dunque, come innesco di un cambiamento virtuoso. La lista, le ultime carte: «Politiche del lavoro, rimpolpare di soldi gli sportelli e gli ammortizzatori sociali, insistere con la social card, riformare l’Imu (più leggera per le fasce deboli, più aspra sulla grandi proprietà immobiliari), aumentare il reddito minimo, rafforzare il diritto allo studio, riqualificare le scuole di quartiere (perché chi parte bene, va avanti). Tenere sotto controllo le tariffe. Vedere e rivalutare con gli enti territoriali i servizi ai disabili».
Aveva cominciato l’intervento con i suoi gusti: «Mi piace moltissimo essere qui. Dà l’idea di quello che vogliamo essere: un partito presente sui territori, che si confonde con la vita dei cittadini». Gli piace essere qui, al Corviale, nella stecca di cemento più popolare di Roma. Per parlare di povertà e qui non manca: non è quella deprivata di tutto, mendicante, disperata. È quella relativa, moderna, che tira a campare ma non conosce il vento buono dei sogni. Sono ottomila persone dentro un palazzo di un chilometro, che a metà vira ad angolo retto. Troppo grande, troppo brutto, troppo tutto, figlio di un’architettura che volle farsi urbanistica, e che era anzitutto ideologia. Il riferimento culturale era il razionalismo e con questo la promozione sociale: a piani, nove. Ma la metà degli ascensori sono rotti. Esattamente dal 1982, dal giorno in cui fu inaugurato (dopo dieci anni di lavori): l’ascensore rotto è la migliore metafora che si possa immaginare. Dal Corviale non si sale. Sono cartacce in mano, non si gioca alla pari. «Mio figlio ce l’ha fatta, lavora con il computer, non saprei dire cosa fa di preciso, ma è bravissimo. Mia figlia lavora all’aeroporto, a Fiumicino. Sono un imbianchino e sono riuscito a farli studiare, perché l’affitto è basso e ho risparmiato. Hanno preso la licenza media». È l’orizzonte di Michele Ulissi e della sua bella famiglia. I suoi ragazzi oggi hanno 40 anni, i loro figli sono la terza generazione del Corviale. Il patto era questo: la casa grande,  economica, in cambio delle speranze. «A noi piace, a voi fa schifo»: questo è invece l’orgoglio di Raffaele Altomare, pensionato: nella “stecca” ci ha cresciuto tre figli.
È un’idea di Mario Fiorentino, che per animare gli ottomila pensò a un’agorà, per una periferia che vivesse da sé, per sé. E trovasse riscatto in questo. Non c’era un comunista in giunta, allora, e il palazzo fu benedetto dal Cardinal Poletti. Eppure nell’immaginario è un’opera di sinistra, anche marxista, egualitaria, opprimente, per chi conosce poco Marx e pochissimo la storia. Adesso c’è la biblioteca, un vivace centro d’arte (quello costruito con i soldi della legge Bersani), ci passa il bus. C’è il verde, spontaneo, poco curato, ma il Serpentone (così lo chiamano i romani) non si nasconde, è dritto e caldo sotto un sole estivo.
Fra gli altri, prima di Bersani aveva parlato Mario Maffei consigliere municipale a Scampia, Napoli. Il colpo d’occhio e l’idea di partenza sono simili, le Vele e il Serpentone: due ghetti. I destini divaricati: quello che qui fu un problema (poi risolto) di spaccio e un’angoscia di vite disilluse, là è un drammatico traffico di droga, e di vite a perdere, di lavoro che non c’è, di strade senza sbocco. «Tre Vele (su sette) sono state abbattute, per far posto a nuove case. Dobbiamo tirar giù anche le altre, ma con de Magistris perdiamo solo tempo». Quelli del Corviale lo ascoltano e lo guardano. Sono occhiate non traducibili in parole.

La Stampa 14.4.13
Bersani non arretra “Niente governissimo” E poi affonda su Renzi
I sondaggi fanno paura e il leader vuole evitare il voto anticipato La frecciate al rottamatore: sto zitto solo per il bene del partito
di Carlo Bertini


«Non cedere a Berlusconi!», gli urla uno seduto in prima fila. «Lasciami parlare, ma cosa vuoi che ceda...», lo stoppa subito Bersani. Periferia romana, Portuense, sotto i palazzoni di Corviale, altrimenti detto dai borgatari «er serpentone», il leader Pd ha buon gioco a sfottere «le demenziali panzane di chi per anni ha detto che i ristoranti erano pieni». Quelli venuti a sentirlo «contro la povertà e per un governo di cambiamento» sanno che i suoi avversari sono due, si spellano le mani anche quando prende a sberle verbali l’appiccatore di incendi che risponde al nome di Matteo Renzi, reo di avergli complicato la trattativa sul Colle bocciando un candidato come Marini e promuovendo anzitempo Prodi.
Fatica lo stesso Bersani a convincere i duri e puri che l’inciucio sul governo non si farà. Ripete per l’ennesima volta «no al governissimo». Rilancia l’idea di un suo governo, di «forze parlamentari che consentono la partenza di un esecutivo che avvii la legislatura. E poi... si vede». E giù la prima botta al rottamatore. «Ci hanno detto di no quelli del 5Stelle. Uno di noi ha detto che ci vuole dignità! Una frase così non l’avrei accettata nemmeno da mio padre. Per il bene del partito sto zitto, perché l’arroganza umilia chi ce l’ha!». Battimani a più non posso. «Poi ci siamo posti con umiltà, il Pdl è arrivato a dire sì purché fossero loro a indicare il Presidente della Repubblica. Certo la gente, è una larga opinione, lo vuole un governo che affronti i problemi, lo vuole...». La platea capisce l’antifona e rumoreggia. E del resto se anche gli uomini del leader spiegano che non va bene la linea di Renzi «o governissimo o voto», se dicono che le elezioni «sarebbero accolte malissimo da mercati, famiglie e imprese», è perché l’opzione del voto non va più considerata, i sondaggi parlano chiaro «e sarebbe assurdo cedere al Pdl i 290 deputati che abbiamo oggi alla Camera...».
Insomma, niente voto anticipato, ma «non a costo di fare un governo qualsiasi», il che però significa che se il nuovo Capo dello Stato desse l’incarico a un altro che non sia Bersani, lui non potrebbe alzare barricate. Lo si capisce quando definisce «indecente chi dice che la politica deve fare presto, così poi ci ritroviamo Grillo al 70%»; quando si scaglia contro tutto questo «qualunquismo» e contro «la volgarità di descrivere la mia come testardaggine personale. L’ho detto anche in cinese, ci sono se servo alla causa, se sono d’intralcio no...».
Tanto per dire l’aria che tira: una telecamera a spalla si avvicina a Nico Stumpo, il capo dell’organizzazione di tutte le truppe Pd. Un militante sguscia davanti, «Ahò... te riconosco, bada che se ve mettete d’accordo con quello lì nun ve voto più...». Sarà un caso ma i fautori di un «governo del presidente», ostili alla linea del «monocolore» di minoranza non sono qui: di Franceschini o Bindi, D’Alema o Veltroni neanche l’ombra, per non dire dei renziani, assenti all’appello. C’è Nicola Zingaretti, c’è Ignazio Marino, ma perfino il segretario del Pd laziale, Gasbarra, ex Ppi, non si fa vedere. Ai cattolici piace ben poco la curva a sinistra che ha preso la campagna per il Campidoglio.
E quindi a circondare un leader Pd infuriato per il «fuoco amico» di questi giorni «ci sono quasi più giornalisti che popolo di quartiere», nota un abitante del «serpentone» che preferisce un raggio di sole primaverile all’afa che si respira nel centro policulturale «Il Mitreo»: dove si accalcano un centinaio di persone, molte venute dai quartieri vicini, molti scesi dai casermoni sovrastanti. Ma tra sculture metalliche alla Calder e acquerelli alle pareti, l’arte contemporanea è il cuore pulsante di questa oasi polivalente, va in scena dunque un Bersani furioso che se la prende più con Renzi che con «quello lì», alias Berlusconi. Un Bersani consapevole che l’intesa sul Presidente «condiviso» è ancora in salita, «senza accettare scambi, faremo una ricerca onesta, fino a prova contraria», chiarisce lui. I suoi uomini spiegano che il giorno cruciale sarà martedì, Roberto Speranza si informa se vi sia una donna tra i candidati del Colle graditi ai grillini, che vi sia Prodi non fa notizia, per ora. Mentre lì dentro Bersani si chiede «come si fa a pensare che io, Brunetta e Gasparri riusciamo a fare una politica che non sia paralizzata? Non vogliamo il governissimo perché Berlusconi fa schifo? Non è questo. La gente può anche dire “ho capito che Berlusconi fa schifo, ma qui abbiamo dei problemi”. Però il governissimo non li risolve».

Repubblica 14.4.13
Bersani attacca Renzi “Arrogante, si umilia da sé”. E l’effetto Barca agita il Pd
Critiche trasversali al ministro: si torna al Pds
di Giovanna Casadio


ROMA — «Finché faccio ‘sto mestiere, non posso dire tutto...». Ma è una prudenza che Bersani a Corviale, periferia popolare romana, abbandona subito. E sputa i rospi ingoiati in questi 40 giorni dalle elezioni, e che vengono dallo stesso Pd. Il segretario democratico attacca Renzi, senza nominarlo ma esplicitamente. «Qualcuno di noi, di noi... — ripete — mi ha detto che ci vuole dignità. Io una frase così non l’avrei accettata nemmeno da mio padre, ma per il bene del partito sto zitto». Subito aggiungendo: «L’arroganza umilia chi ce l’ha». L’arrogante è il sindaco “rottamatore” che ha spezzato da giorni gli indugi e critica la linea bersaniana, il governo di minoranza che per nascere e sopravvivere avrebbe bisogno di voti sparsi dei grillini o del centrodestra. Renzi ha rimproverato il leader democratico: «Ti fai umiliare dai 5Stelle». Bersani ha covato l’irritazione, e infine è esploso.
Indica i numeri dell’emergenza sociale, del Titanic Italia, sulla cui tolda — afferma — anche i grillini ballano: i militanti e simpatizzanti del Pd che sono qui per la manifestazione contro la povertà, lo incitano ad andare avanti sul governo del cambiamento: “Non cede’ a Berlusconi”, gli gridano. In prima fila un cartello invita Berlusconi: “Vattene in pensione, tu che puoi”. Bersani è a suo agio, ringrazia il “governatore” Zingaretti e anche Livia Turco, loda il candidato sindaco della Capitale, Ignazio Marino: «Chi conosce i miei gusti, sa che a me questo incontro piace perché noi vogliamo essere un grande partito popolare che ha al centro la vita della gente, e non ci portino lontano da qui». Messaggio a Berlusconi, cioè “no” al governissimo, ma chi ha orecchie nel Pd intenda. E ancora: «Oh, ragassi ma dove siamo arrivati, io testardo? L’ho detto anche in cinese: ci siamo se serviamo alla causa. Se sono d’intralcio, mi faccio da parte». Anche questa è una risposta a Renzi, che lo aveva accusato di pensare più a se stesso che ai problemi gravi del paese. Accusa insopportabile per Bersani che, almeno nel Pd, vuole si riconosca la possibilità di una «politica disinteressata e costituzionale... se seminiamo l’idea che ciascuno sta pensando a se stesso, allora non si va da nessuna parte». Ugualmente «indecente» trova l’invito alla politica perché faccia presto, fingendo di non sapere che «siamo a un incrocio». L’elezione del successore di Napolitano e il governo da fare rendono la situazione ancora più difficile, per cui «è indecente dire si faccia presto, di qualunquismo in giro ce n’è già troppo». A Corviale, nel 2008 Berlusconi lanciò Alemanno sindaco; Bersani — nel centro culturale aperto grazie a una sua legge quand’era ministro dell’Industria nel ‘97 — tira la volata a Marino. Modera però i toni da campagna elettorale: «La larga opinione del paese vuole un governo». Nessuna marcia indietro quindi sul governo del cambiamento, ma neppure cedimenti verso il ritorno alle urne.
È la strada stretta che il segretario propone a un Pd in fibrillazione e diviso. I fronti interni delle correnti si rompono e si ricompongono. Il manifesto di Fabrizio Barca, il ministro sceso nel campo democratico con una proposta in 99 pagine, attrae ma non coagula per ora consensi. «Mah, mi sembra un tentativo serio di ritorno al Pds, noi però dobbiamo guardare avanti», è la frecciata del renziano Dario Nardella. I cattolicodemocratici hanno già messo le mani avanti: no a ritorni al partito identitario, Tra i bersaniani prevale la preoccupazione per la doppia sfida di Quirinale e governo, e si minimizzano le questioni poste da Barca. È Vendola, il leader di Sel, a rilanciarle; a sostenere fino in fondo Bersani «chance di cambiamento» e al tempo stesso a immaginare una mescolanza di Sel con il Pd. «È evidente che si sta per innescare una dinamica congressuale», osserva Francesco Verducci, uno dei “giovani turchi”. Bersani intanto macina incontri e colloqui e, per niente remissivo, offre la sua ricetta.

l’Unità 14.4.13
Perché Renzi non è «elettore»
Sindaco-delegato è un’anomalia
di Enrico Rossi


LA DECISIONE PRESA AUTONOMAMENTE DAL GRUPPO PD DELLA REGIONE TOSCANA E POI DAL CONSIGLIO REGIONALE DI NON ELEGGERE MATTEO RENZI GRANDE ELETTORE può certo dispiacere sotto il profilo politico, soprattutto perché ancora una volta si è finito per dare un'immagine di divisione del Pd, riproducendo una contrapposizione tra vecchio e nuovo. Io stesso, una volta posto il problema, mi sono adoperato per una soluzione positiva. Tuttavia, ferma restando la valutazione politica che comunque deve tener conto del necessario rispetto verso l'autonomia del consiglio regionale, non scaricandogli addosso questioni di carattere nazionale, anche sotto il profilo costituzionale la possibilità di elezione di un sindaco, che pare non avere precedenti, presenta aspetti problematici.
Per questo abbiamo chiesto un parere al professor Stefano Grassi, costituzionalista, che di seguito riportiamo in sintesi: « L’art. 83 (Cost.) si limita a prevedere che il consiglio regionale elegga tre delegati, ponendo il principio che nelle modalità di elezione deve essere assicurata la rappresentanza delle minoranze». Il silenzio sui requisiti di elettorato passivo che debbono avere i delegati che dovranno partecipare ad un momento vitale del sistema costituzionale quale l’elezione del presidente della Repubblica, ha permesso sia alla dottrina sia ad alcuni recenti interventi di commentatori, di sostenere che possano essere designate anche personalità estranee al consiglio regionale o agli organi istituzionali della Regione.
Più convincente è una linea interpretativa che riconduca l’interpretazione dell’art. 83 della Costituzione alla logica fondamentale, in cui la norma è nata ed è stata introdotta dai nostri costituenti. Nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente che videro un ampio dibattito sull’alternativa tra un presidente della Repubblica eletto direttamente dal corpo elettorale ed un presidente eletto dal Parlamento in seduta comune, secondo i principi della democrazia rappresentativa la partecipazione dei delegati regionali venne introdotta con esplicito riferimento alla necessità di garantire la presenza dei “presidenti dei consigli e delle giunte regionali” (così fu formulata la proposta nella Commissione dei 75). In Assemblea la proposta si trasformò nell’attuale formulazione («all’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze») perché venne fatto notare che era necessario garantire, nella elezione dei delegati, il principio della tutela delle minoranze che permea di sé l’intera nostra Costituzione. La logica quindi che prevalse era quella di una rappresentanza istituzionale dell’ente regionale. Per questo motivo, nella prassi consolidata e nelle previsioni esplicite di alcuni statuti regionali, i delegati sono stati eletti tra i consiglieri.
Questa prassi risponde ad un’esigenza del sistema costituzionale, che è quello di riconoscere il ruolo sempre più rilevante che debbono assumere le istituzioni regionali come tali nel nostro ordinamento costituzionale. La Regione, infatti, anche e soprattutto dopo la riforma del Titolo V, intervenuta nel 2001, non è soltanto titolare di poteri legislativi rilevanti, ma ha anche la responsabilità della gestione completa degli interessi sociali ed economici delle collettività che rappresenta, garantendo i diritti civili e sociali dei suoi cittadini. La partecipazione all’elezione del presidente della Repubblica è uno strumento istituzionale chiaramente indicato dai costituenti per far sì che il presidente, nell’esprimere e rappresentare l’unità nazionale, possa rivendicare, anche di fronte al Parlamento, la sua funzione di garante delle autonomie territoriali e del loro contributo decisivo all’attuazione dei principi costituzionali. Se quindi, sul piano letterale e formale, l’interpretazione dell’art. 83 della Costituzione può portare anche a sostenere che i delegati delle Regioni possono essere individuati al di fuori del consiglio regionale e della giunta, la scelta di mantenere la prassi costante fin qui seguita risulta più coerente con i principi ed il sistema costituzionale, che in questa fase deve essere al massimo salvaguardato: la direzione del cambiamento non può essere quella della innovazione estemporanea delle regole istituzionali. La designazione di delegati regionali, espressione dei vertici istituzionali della Regione, valorizza quindi in modo efficace il ruolo costituzionale dell’ente Regione nella partecipazione all’elezione del presidente della Repubblica».
Insomma, se la prossima volta volessimo discutere della nomina a grande elettore di un sindaco, cosa che io non escludo in linea di principio, ci sarà bisogno di chiarire gli aspetti giuridici e costituzionali, che hanno rilevanza. Altrimenti, come ha detto lo stesso Renzi, a volte in politica si discute di tante questioni, alcune allucinanti. * Presidente Regione Toscana

l’Unità 14.4.13
Il dovere dei democratici
di Mario Tronti


Non si tratta di fare presto. Si tratta di chiudere bene questa fase post-elettorale. L’iniziativa ultima del Capo dello Stato ha sbloccato uno stallo e rimesso in moto un processo. Il metodo Napolitano è adesso un modello di confronto e di risultato. È vero che sale forte, dalle parti più diverse, la richiesta di accelerare i tempi. Dall’impresa e dal lavoro, dalla drammatica situazione sociale, dal sentire comune e dai lavori del Parlamento, unanime viene avanti il bisogno di passare a governare.
Una delle cose che più mettono in crisi l’immagine della politica è la sua incapacità a decidere: il consulto a Roma mentre il Paese brucia. Lo spettacolo quotidiano dei politici che parlano invece di fare, è devastante. Dal buon mattino a tarda notte compaiono sui teleschermi tavoli di persone che chiacchierano, interpretano, suggeriscono. E pochi i casi in cui non litigano. Poi tocca ai giornali dedicarsi all’arte del retroscena e alle trappole dell’intervista. Come si fa a non capire che tutto questo non avvicina, ma allontana i cittadini dalla politica? La sobrietà nel dichiarare e nell’apparire è la prima regola interiore che un politico dovrebbe coltivare: soprattutto in una situazione di eccezione come quella che stiamo attraversando. I problemi sono veramente enormi, le soluzioni sono oggettivamente difficili: da questo principio di realtà è necessario partire. C’è un solo modo per reagire, con forza, a chi grida: «La demolizione è cominciata». Un solo modo: cominciare a ricostruire. Allora, io credo che vada cercata, perseguita, costruita, con pazienza e con urgenza insieme, una uscita concordata da questa cosiddetta seconda Repubblica. Una morte dolce è quello che serve, per superare una stagione, che non ha peccato di contrapposizioni eccessive, piuttosto di contrapposizioni false, deviate, perché nominate sui personaggi, e certo per colpa di quei personaggi, e di uno solo di essi: in una personalizzazione malata dello scontro politico, dove le differenze di programmi, di progetti, di idee, sono scomparse dall’orizzonte. E quella che si dice la gente, cioè le persone in carne ed ossa, non hanno capito più dove mettersi, per che cosa mobilitarsi, visto che non si parlava più di loro, ma appunto, dei personaggi: coltivando così rancore e disperazione e furia contro tutti. Qui è nata, è cresciuta, si è approfondita, in un ventennio, per un’interra stagione, non nel mese della campagna elettorale, la distanza rabbiosa tra cittadini e politici. E certo qui i professionisti dell’anti-casta hanno trovato il loro brodo di coltura. E la grande comunicazione ha soffiato sul fuoco. E i raccoglitori di tempesta hanno avuto il loro raccolto.
Chi ha interesse a mantenere questo stato di cose? Tutti quelli che non vogliono che le cose cambino. Bisogna dire alto e forte, non gridando ma argomentando, che i demolitori sono i veri conservatori. Chi si oppone a qualsiasi soluzione, istituzionale o governativa, è perché è interessato a speculare sul caos. L’incertezza, la non decisione, lo stallo, sono la loro rendita di posizione. Il cambiamento oggi non può che essere responsabile, e la responsabilità non può che essere volontà di cambiamento. Occorre una discontinuità governata, che nelle scelte di un Presidente della Repubblica di garanzia e di un esecutivo di tregua, miri apertamente a porre le basi di una rilegittimazione reciproca delle forze politiche alternative. Tra governissimo e ritorno al voto spetta adesso alla saggezza istituzionale mostrare che tertium datur. È interesse di tutti i partiti oggi esistenti, se vogliono riconquistare la fiducia perduta, chiudere la trascorsa stagione senza passare, come vorrebbe l’irresponsabilità degli urlatori, per il rogo del Palazzo. L’Italia è l’unico Paese in cui il compromesso viene chiamato inciucio. Ma è opportuno ricordare, a chi l’avesse dimenticato, o a chi forse non lo ha mai saputo, che la politica, moderna, cammina su due gambe, la mediazione e il conflitto. Sempre. O altrimenti è un’altra cosa: non, più nobile e bella, semmai più sciatta, approssimativa, inefficiente, alla fine inutile e a volte, ce l’abbiamo sotto gli occhi, pericolosa. Avremmo bisogno tutti, per il bene comune, di una nuova leva di professionisti della politica, di tipo nuovo: i giovani emergenti dovrebbero infatti, preoccuparsi di crescere in professionalità, prima, molto prima, che in popolarità. La mediazione di oggi serve per il buon conflitto di domani: lo sa ogni sindacalista, che organizza la lotta, poi si siede al tavolo, firma il contratto, rilancia con questo più avanzate condizioni di lotta. Sono state richiamate le larghe intese del passato. Aldo Moro ne diede la lettura più consapevole, più dello stesso Berlinguer: la transizione del compromesso per una strategia di alternativa. Richiamo volentieri la persona di Moro, di cui sento, personalmente, proprio in questo momento, la nostalgia, per dire un’ultima cosa. Non dividiamoci tra chi vuole più sinistra e chi vuole più Pd. Dividiamoci piuttosto tra chi vuole un partito e chi vuole tutto e subito un’altra cosa, senza sapere bene, tra l’altro, che cosa. Ci vuole un Pd più grande, più inclusivo, più rappresentativo, più radicato, più motivato sulle sue ragioni di fondo, che sono quelle di una forza, politica, di grande trasformazione sociale. Ben vengano nuovi contributi, e approdi, collettivi e individuali. Prima esigenza: andarsi a riprendere quella parte di popolo che ha abbandonato il campo. Andarselo a riprendere: i voti vengono dopo, prima viene l’adesione a un sentire, a una parola, a una intenzione, a un modo d’essere, direi, a un modo di stare al mondo, che si riconosce in quelli lì, uomini e donne, militanti e dirigenti di quella comunità. Se non scatta, se non si è capaci di far scattare, questa empatia umana tra chi fa politica e chi vive la vita di tutti i giorni, nel lavoro e nel disagio, se non ci si fa riconoscere come uno di loro, non si esce da questa maledizione demagogica, che infetta come un virus tutti quelli che a tutti i costi vogliono irrompere sulla scena. Per fortuna, arrivano, sotto forma di memoria, anche contributi ragionati. Discutiamone, senza chiusure e senza aperture, con serietà e rigore.

l’Unità 14.4.13
I sostenitori del nulla mentre la democrazia è in pericolo
di Emanuele Macaluso


Ieri lo storico Guido Crainz ha scritto un editoriale su Repubblica dedicato all’insensibilità dei partiti italiani. Una «assoluta insensibilità» che i partiti hanno «di fronte all’enorme sfiducia nei loro confronti». Il plurale «partiti» è però impropriamente usato, dato che la critica, molto severa, è rivolta solo al Pd. Anche perché lo stesso Crainz, con qualche ragione, non considera il Pdl un partito, ma un aggregato a servizio di Berlusconi, con il quale non bisogna nemmeno parlare, e l’aggregato politico-digitale dell’«indialogabile» Beppe Grillo indisponibile a qualsiasi operazione di governo.
Tuttavia, i due aggregati rappresentano il 55% degli elettori. Il centrosinistra è una minoranza del 30% di elettori al quale un’infame legge elettorale ha assegnato la maggioranza assoluta alla Camera, ma non al Senato. Crainz giustamente si interroga sul perché, dopo l’anomalia berlusconiana, sulla scena politica italiana irrompe «un geniale demagogo da palcoscenico e una rispettabile adunata di boy scout, un po’ impacciati sui fondamenti della democrazia», i quali «sono diventati la Corazzata Potemkin del nostro affondare». E lo storico giustamente nota che a questo «perché» il Pd non ha dato nessuna risposta. Manca l’analisi, dice Crainz, ma manca anche una proposta per uscire da una situazione in cui il pallino sembra sia tornato, a causa della condotta del Pd, nelle mani del Cavaliere.
Fatte queste premesse critiche, Crainz scrive: «Eppure non è difficile comprendere quale sia l’unica via che il centrosinistra può provare a percorrere, pur fra le enormi difficoltà che il suo stesso annaspare fa aumentare ogni giorno».
Francamente ho letto due volte l’articolo di Crainz e non ho capito quale sia «l’unica via». A me pare che lo storico annaspi come il politico Bersani. E annaspano tanti altri che suggeriscono le soluzioni che vorrebbero, ma non ci sono, come se ci fossero e non si vogliono attuare. Barbara Spinelli e soci ci spiegano che occorre fare l’accordo Pd-Cinque Stelle, e Grillo risponde con pernacchie. Luca Ricolfi, che certo non ama il Cavaliere, sulla Stampa con più concretezza ha detto che la situazione impone la costituzione di un governo e che l’unica soluzione possibile è un accordo Pd-Pdl. Ma Bersani osserva che il suo partito, nella stragrande maggioranza, non è d’accordo: vuole un governo di minoranza, anche se destinato a non governare. Altri insistono, tra questi Corradino Mineo e Mario Tronti, nel dire che Napolitano avrebbe dovuto avallare un governo senza maggioranza presieduto da Bersani, con argomenti in cui si scambia il ruolo di Presidente della Repubblica con quello di Presidente del Pd. Il riferimento a ciò che Napolitano ha detto, a proposito delle «larghe intese» del 1976, in occasione del ricordo di Gerardo Chiaromonte, attualizzando le sue parole, è semplice strumentalizzazione. Anche Crainz ci spiega che Berlusconi non è Moro e la strategia berlingueriana era ben altra cosa rispetto a ciò che oggi fa o non fa il Pd. La Spinelli e Flores d’Arcais hanno lanciato un appello contro «l’inciucio» col Cavaliere, «sollecitato da Napolitano», per sostenere «l’inciucio» con Grillo che sputacchia sul Pd. Ridicolaggini.
La verità è che non sono solo i «politici» a non capire e non sapere cosa fare, ma anche, e direi soprattutto, i grandi e piccoli suggeritori del niente che scrivono sui giornali e chiacchierano in tv. Al punto in cui siamo, alla vigilia del voto per eleggere il Presidente della Repubblica, il Pd, dice Crainz (e io sono d’accordo con lui), deve indicare un nome sulla scia dei «tre presidenti Scalfaro, Ciampi e Napolitano la cui storia e cultura rinviano al nostro momento fondativo e che hanno fatto comprendere bene cosa sia il “patriottismo costituzionale”». Un nome, come dice Bersani, che possa raccogliere i consensi più larghi.
Come ho scritto su queste stesse colonne, sono convinto che dopo la elezione del Presidente, il quale avrà anche il potere di scioglimento delle Camere, nei gruppi parlamentari si aprirà un dibattito vero su cosa fare. Se non si cambia la legge elettorale, la presenza di tre forze politiche consistenti riprodurrebbe al Senato quel che c’è oggi. Un governo deve comunque nascere, con i gruppi disponibili e senza preclusioni, anche perché deve fare poche cose, come quelle indicate dai saggi nominati da Napolitano. È questo, a mio avviso, il solo sbocco pensabile e possibile: in giuoco c’è la democrazia. Le elezioni politiche potrebbero poi svolgersi nel 2014 insieme a quelle per il Parlamento europeo.

l’Unità 14.4.13
L’esperimento di Barca
L’idea di sinistra di Barca non è ancora un manifesto
Il ministro fa uno sforzo per rilanciare la funzione del partito ma servirebbe più passione e una più forte critica dell’esistente
di Massimo Adinolfi


Diciamo innanzitutto di cosa si tratta: di una «memoria politica dopo 16 mesi di governo» (sottotitolo), che disegna «un partito nuovo per un buon governo» (titolo). Una memoria non è né un manifesto né un programma: chi leggesse il documento steso da Fabrizio Barca cercandovi l’una cosa o l’altra rimarrebbe perciò deluso. L’autore mette invece dentro la sua memoria esperienze e competenze riconosciute, ed il risultato è un documento di analisi dei principi e dei metodi dell’azione pubblica, così come dovrebbe dispiegarsi nello Stato e nei partiti.
Si vedrà più in là se questa sia la via migliore per riavviare la discussione nel Pd. La cosa che subito si nota è però che, nonostante le aspettative, di sinistra nella Memoria ce n’è pochina. Barca lo dice chiaro: il Pd che immagino è un partito di sinistra, che si confronta in Europa e nel mondo con partiti di sinistra, e se vi fa ancora paura la parola metteteci pure «left», che suona più moderna: il campo, tuttavia, resta quello. Curiosamente, però, l’asse destra/sinistra – che per fortuna non viene mandato in soffitta – fa la sua comparsa nel testo solo dopo una trentina di pagine, e il bello è che non interviene quasi da nessuna parte per fondare quell’idea di partito-palestra che vi viene presentata. Barca è convinto giustamente che uno dei punti di debolezza del nostro paese sia nella profonda crisi del sistema dei partiti. E pensa che né le rigogliose fantasie di ieri sul partito liquido (cioè sulla liquidazione dei partiti di massa) né le scorciatoie delle primarie, né infine le infatuazioni per la Rete rappresentino la soluzione. I partiti sono malati di una strana malattia, il catoblepismo: siccome non ce la fanno più da soli, vivono aggrappati allo Stato, che occupano per manifesta incapacità di stare nella società, di mobilitare risorse intellettuali e intercettare nuove energie e passioni. Ma i partiti sono necessari, e la cura non può consistere nel loro smantellamento (perciò il finanziamento pubblico, anche se riveduto, rimane). Quel che Barca propone, richiamandosi alla tradizione pragmatista americana, è dunque un nuovo metodo, lo «sperimentalismo democratico», cioè l’utilizzo del partito come un’agenzia territoriale capace non solo di rappresentare bisogni, ma anche di suscitare, promuovere, veicolare conoscenze diffuse.
Orbene, che vi sia qualcosa di malato nel sistema dei partiti è sotto gli occhi di tutti. Che l’azione dello Stato debba trovare proprio nei partiti un luogo di interlocuzione reale (non solo di selezione di classe dirigente) è certamente vero. E però per sostenere l’una tesi e l’altra non c’è bisogno di stare a sinistra. Neppure la democrazia deliberativa che Barca intende iniettare dentro una robusta struttura di partito appartiene in esclusiva alla sinistra, progressista o democratica che sia.
Ma, se anche fosse così, è davvero questo il punto critico, oggi? O non è più urgente condurre un’analisi dei compiti di un «partito nuovo» a partire dal suo posto nella società, sul terreno dei conflitti reali che sempre più, sia sul piano nazionale e internazionale, lacerano le pacificate visioni liberali andate in questi anni per la maggiore?
E a proposito di questi anni: Barca colloca il suo sforzo di analisi in uno spazio preciso, tra lo «Stato socialdemocratico», che per varie ragioni sarebbe superato, e lo «Stato minimo» degli ultimi trent’anni, che si tratta di superare. Per Barca, però, quel che non va nel «minimalismo» è solo il principio ad esso sotteso, che pochi detengono il sapere necessario per guidare la società. Un’idea cara anche ai socialdemocratici d’antan. Solo che quelli la spendevano per proporre soluzioni di stampo dirigista, mentre i tecnocrati di oggi la impegnano per definire standard minimi di servizi, prestazioni, regole. Ma davvero il limite del neoliberismo consiste solo in questa comune presunzione di sapere? Uno si aspetterebbe di capire quali poteri reali – nella società e nell’economia – hanno sostenuto e sostengono l’offensiva neoliberista, e si trova invece di fronte a un mero errore epistemico, da curare con la «mobilitazione cognitiva». Come avere una malattia maledettamente seria e affrontarla con la medicina palliativa. Se la modernità si apre con la spaccatura fra sapere e potere, Barca sembra insomma interessato a rivedere soltanto il primo termine del conflitto, come se il secondo andasse poi a posto da sé. Alla fine, sembra di leggere un paper per un congresso di studi organizzativistici piuttosto che un vero documento politico. Forse Barca non ha ancora dismesso del tutto i panni del tecnocrate.
E sì, d’accordo: non è un programma - né di minima né di massima - e non è un manifesto, ma un po’ più di anima e di passione, e un’aperta critica dell’esistente ad una Memoria che vuole aprire un dibattito a sinistra forse avrebbero giovato.

Corriere 14.4.13
Le due anime del partito democratico
L’oceano ideologico che divide Barca e Renzi
di Michele Salvati


Faremmo un torto a Fabrizio Barca se leggessimo la «memoria» che ha messo in rete due giorni fa (Un partito nuovo per un buon governo) in modo affrettato e con gli occhiali della politica quotidiana. Un torto di cui in parte lo stesso Barca è responsabile, perché non si annuncia l'entrata in campo di una persona del suo prestigio e con la sua storia, in un momento di intensa turbolenza del Partito democratico.
E non si annuncia l'entrata in campo in un momento di crisi istituzionale così acuta, senza provocare la comprensibile attesa che il coinvolgimento nelle battaglie in corso sarà immediato e in posizioni di vertice. Sino ad arrivare alla conclusione che la «sinistra» del Pd ha finalmente trovato un campione che, per qualità intellettuali, stima internazionale, età, estraneità alle compromissioni politiche e agli errori del passato, possa stare a fronte del campione della «destra», Matteo Renzi.
Conclusione sbagliata? Sicuramente è così nell'immediato: non c'era bisogno di attendere il (quasi) sostegno di Barca alla candidatura a presidente del Consiglio di Renzi per capire che non ci saranno primarie imminenti in cui Barca si contrapporrà a Renzi, in cui il primo raccoglierà le demoralizzate truppe bersaniane e le condurrà allo scontro con il secondo. Nel futuro staremo a vedere. Il contrasto tra una linea socialdemocratica e una liberaldemocratica — sinistra e destra, in breve, se non si sottilizza troppo su questi termini — è endemico in tutti i grandi partiti della sinistra democratica europea: i due fratelli Miliband sono stati i campioni delle due linee nel Labour Party, ed Edward, sostenuto dai sindacati, ha battuto David, identificato con le politiche di Tony Blair. Fatti salvi i diversi contesti, storie analoghe si possono raccontare per gli altri Paesi europei e sarebbe strano se non si ripetessero in Italia, anche se da noi la faccenda è complicata dal sovrapporsi di un'altra importante faglia di conflitto, quella tra laici e cattolici. Lo si vede bene in questi giorni in cui è in gioco la presidenza della Repubblica.
Per la sua storia personale e per la concezione di partito che esprime nel suo scritto programmatico, Fabrizio Barca militerà nella sinistra, in ogni caso dalla parte opposta di coloro che sono attratti da una «ideologia minimalista», espressione con la quale egli rigetta la fascinazione liberale che ha colpito tante parti della sinistra. Ma la sua sarà una strada difficile. Un percorso che dovrà superare, ancor prima degli ostacoli frapposti dai «liberal», quelli che gli frapporranno coloro con i quali andrà a convivere, la stessa sinistra del partito. Ad essi Barca propone un compito di difficoltà estrema, quello di distaccarsi dalla comoda dipendenza dalle istituzioni pubbliche e dalle carriere che consentono, e di tornare — se mai ci sono stati — sul territorio, ad alimentare processi di partecipazione democratica ardui da costruire e faticosi da tenere in vita. Processi indipendenti dallo Stato, strettamente legati alla società civile, perché solo in questo modo si possono indirizzare e correggere le politiche pubbliche e nello stesso tempo costruire e radicare una cultura critica e riformatrice. La debolezza di questi processi, l'assenza di un partito che se ne facesse interprete convinto sono tra le cause del modesto esito delle politiche di sviluppo meridionale di cui Barca è stato l'artefice come capo del Dipartimento di sviluppo e coesione del ministero del Tesoro alla fine degli anni Novanta. Così almeno egli ritiene.
Non sarà facile convincere il partito, anche la sua componente «socialdemocratica», che questo è il modo in cui una genuina vocazione di sinistra può essere espressa: è molto meno faticoso tuonare contro l'assenza di spesa pubblica e di politiche keynesiane e contro il neo-liberismo imperante, ciò che sinora la sinistra si è limitata a fare. E intanto adattarsi all'evoluzione (per Barca, una involuzione) dei partiti che la «democrazia del pubblico» ha prodotto (Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino). Di quelle innocue invettive e, in generale, di politiche macroeconomiche, non c'è traccia nella «memoria» di Barca. Le politiche di mobilitazione che egli propone sono in gran parte a ridosso di interventi microeconomici, di sviluppo locale, quelli di cui ha trattato nell'eccellente rapporto redatto per la commissaria europea alle politiche regionali (A report for a reformed cohesion policy, un rapporto per una politica di coesione riformata, aprile 2009). Interventi difficili e faticosi da gestire nel modo «deliberativo» che Barca giustamente auspica. Ripeto di conseguenza che, prima ancora dei dubbi dei politologi e delle critiche dei «liberal», nella sua lunga strada attraverso il partito Barca dovrà soprattutto combattere lo scetticismo dei suoi stessi compagni di corrente.

Repubblica 14.4.13
Chi saranno i nuovi capi dello Stato e del governo
di Eugenio Scalfari


GIORGIO Napolitano ha preso ufficialmente congedo dalla sua carica nel momento stesso in cui il comitato dei “saggi” da lui nominato gli ha consegnato il documento con le proposte su alcuni problemi da lui stesso indicati per risolvere questioni economiche, sociali e istituzionali che saranno trasmesse al suo successore come eventuali linee-guida nella misura in cui il nuovo inquilino del Quirinale vorrà tenerne conto. Ero andato a salutarlo un paio di giorni prima; spero di vederlo più spesso quando tra poco sarà senatore a vita. Ci conosciamo da molti anni e siamo da tempo legati da sentimenti di amicizia. Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla: avrebbe profondamente turbato l'ordinamento costituzionale senza produrre alcun concreto vantaggio per uscire dallo stallo che stiamo attraversando. Le sue motivazioni mi hanno convinto e tuttavia non sarà facile riempire il vuoto che la scadenza del suo settennato lascerà.
Napolitano è uno dei pochissimi presidenti della nostra Repubblica ad essere stato, dal momento della sua elezione, rigorosamente super partes.
Nessuno degli altri, salvo Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi, lo è stato. Non lo fu Gronchi e neppure Segni né Saragat né Leone né Pertini né Cossiga e neppure Scalfaro.
Napolitano sì, lo è stato ed ha instaurato un metodo di ascolto non soltanto delle forze politiche ma anche di quelle sociali e della pubblica opinione e un’attenzione all’Europa, alle potenze internazionali, alla cultura in tutte le sue manifestazioni, che ha scarsi riscontri nei suoi predecessori.
Non sarà facile sostituirlo ma per fortuna non impossibile.
Basterà trovare una persona che non abbandoni quel metodo che fa del capo dello Stato un punto di riferimento capace non solo di rappresentare l’unità nazionale nel senso pieno del termine, ma in particolare delle ragioni dei ceti più deboli, degli esclusi, dei giovani, delle minoranze, garantendo a tutti la libertà, l’eguaglianza dei punti di partenza, l’interesse generale, l’indipendenza delle istituzioni, la separazione dei poteri costituzionali.
Cioè la presenza e il rafforzamento della nostra ancora gracile democrazia.
Questo è stato Giorgio Napolitano. Auguriamoci che il suo successore proceda nel segno della continuità.
* * *
Nelle attuali circostanze il compito primario e urgente del nuovo Presidente è di dar vita ad un governo dotato di una solida maggioranza; un governo di scopo e di lunga durata, capace di mantenere la nostra credibilità internazionale, di collaborare ad un mutamento della politica economica europea per uscire dalla recessione e soprattutto di stimolare la crescita economica e l’occupazione.
L’Italia soffre in questa fase della nostra storia d’una crisi di fiducia della politica. Il popolo disprezza i partiti ed anche le istituzioni da essi indebitamente occupate. C’è una sfiducia profonda che crea un distacco assai pericoloso tra il paese reale e quello cosiddetto legale. Questo distacco è in parte motivato ma in parte va al di là del giusto accomunando tutti i partiti in un medesimo giudizio negativo che non corrisponde alla realtà.
Questo è comunque il dato di fatto che va superato attraverso riforme importanti e sostanziali cambiamenti.
Bisogna che avvenga in modo evidente la “disoccupazione” delle istituzioni da parte dei partiti. Fu uno degli obiettivi di Enrico Berlinguer nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ma non ebbe alcuna attuazione. Sono trascorsi trent’anni da allora e la situazione è addirittura peggiorata. Ho visto con piacere che Fabrizio Barca ripropone quell’obiettivo come il principale per uscire dal pantano della corruzione e superare la sfiducia nella politica. Ha ragione, purché alle parole questa volta corrispondano i fatti.
Nel frattempo – non sembri un paradosso perché non lo è – né al Quirinale né alla guida d’un governo di scopo vadano dirigenti di partito. Credo che queste siano le due condizioni indispensabili affinché i partiti riacquistino la fiducia, anch’essa indispensabile affinché la democrazia funzioni nella sua pienezza, le istituzioni tornino a riscuotere consenso dal popolo e i partiti riprendano a svolgere il ruolo prezioso di raccordo tra il popolo sovrano e i poteri costituzionali.
Il capo dello Stato deve avere piena conoscenza della Costituzione, tutelare la separazione dei poteri ed una leale collaborazione tra di loro, avere la necessaria credibilità internazionale, capacità di ascolto, intuizione politica, forza di carattere e di iniziativa. Non serve un notaio al Quirinale, ma un uomo di garanzia e di equilibrio. Ce n’è più d’uno che possiede questi requisiti e una biografia che li documenta. Ce ne sono in particolare tra i membri della Corte costituzionale, nelle accademie delle scienze ed anche in quelle figure (purtroppo ormai pochissime) che sono ritenute “riserve della Repubblica”.
Le forze politiche che siedono in Parlamento trovino l’intelligenza di scegliere la persona più adatta al compito e mettano da parte i loro interessi particolari. Se sapranno e vorranno farlo questo sarà il primo passo verso la loro necessaria rigenerazione.
* * *
Il governo delle larghe intese auspicato da Napolitano non solo è possibile ma necessario. Bisogna tuttavia intendersi su che cosa significano le larghe intese.
Bersani è stato molto chiaro su questo aspetto della questione, distinguendo le intese su riforme istituzionali e costituzionali da quelle propriamente politiche. Proprio da questo punto di vista ho scritto prima che anche il governo che dovrà essere al più presto insediato non potrà essere guidato da un dirigente di partito. Ci vorrà anche lì una persona, uomo o donna che sia, proveniente dalla società civile. L’esempio Ciampi del 1993 si attaglia anche in questo caso ad essere imitato. Potrà avere, quel governo, nella sua composizione anche qualche personaggio politico come ministro, ma non come premier. È dunque necessario che sia un governo del Presidente. Un governo politico (non esistono governi tecnici perché hanno bisogno di ottenere la fiducia duratura del Parlamento) che sia votato per il suo programma di scopo e duri fintantoché lo scopo non sarà stato raggiunto.
Maurizio Crozza in una sua recente trasmissione ha mimato un duetto tra Bersani e Berlusconi, ritmato da due frasi: Berlusconi dice «ti compro l’anima» e Bersani risponde «ma non te la vendo». È così. Un governissimo è impossibile.
Il voto di fiducia ciascun partito lo darà a quel programma fatto di punti concreti che, essendogli stati affidati dal capo dello Stato, non comportano uno schieramento politico e non raffigurano una grande alleanza. Si chiamarono un tempo «convergenze parallele» e di questo infatti si tratterà.
Una volta realizzati gli obiettivi, ma soltanto allora, il capo dello Stato potrà sciogliere le Camere per indire nuove elezioni, essendovi già – tra gli scopi realizzati – una nuova legge elettorale.
Il percorso è dunque chiaro sia per quanto riguarda la persona adeguata da eleggere tra quattro giorni al Quirinale, sia per il governo nominato dal nuovo capo dello Stato dopo le consultazioni che riterrà di fare.
Grillo e il suo movimento. Stando ai sondaggi di Mannheimer, i 5 Stelle sono in leggero ma costante declino. I sondaggi fotografano l’esistente, sia pure con incerta attendibilità, ma è un fatto che gli eletti grillini in Parlamento non sono più un monolite e lo saranno sempre di meno.
Potranno però essere – e l’hanno già dimostrato per il fatto stesso di esserci – uno stimolo potente al cambiamento se daranno anch’essi una mano per attuarlo.
Potrebbero per esempio condividere l’elezione d’un presidente della Repubblica proveniente dalla società civile e perfino un premier di analoga provenienza votando almeno su alcuni provvedimenti da essi condivisi o proposti. I parlamentari 5 Stelle non possono rinchiudersi nell’autosufficienza, il Parlamento comporta inevitabilmente una partecipazione altrimenti tanto sarebbe valso per i grillini scegliere l’astensione dal voto anziché un movimento-partito. Anche Grillo lo capirà, anzi da qualche indizio sembra lo stia già capendo. Nelle cose giuste che a volte dice e sostiene, merita d’essere ascoltato; il resto sarà la realtà a suggerirgli di cambiare. Nessuno vuole comprargli l’anima, partecipare non significa venderla.
Quanto al Pd, esso rappresenta allo stato dei fatti il solo partito che abbia tuttora un’anima e un corpo, ammaccati tutti e due ma tuttora vivi e operanti. Purtroppo quell’anima e quel corpo, in questa fase di crisi, si sono decomposti in varie correnti. Punti di vista diversi possono essere una ricchezza, correnti organizzate attorno ad interessi di potere sono invece l’anticamera della dissoluzione.
Se Bersani sarà il promotore sia d’un capo dello Stato con le caratteristiche sopra indicate e sia d’un governo del Presidente, lui e il suo partito ne usciranno rafforzati.
Emergono nel frattempo le personalità di Barca e di Renzi e questo è un altro segno di cambiamento, ma non sono i soli emergenti e si vedrà al prossimo congresso di quel partito.
Qualche osservatore obietta che si sente odore di centralismo democratico, cioè di vecchio comunismo. Occorre però analizzare la sostanza del centralismo democratico che ha due modi di essere praticato: uno è il tentativo d’una nomenclatura oligarchica di trasmettere slogan e ordini obbligatori da eseguire alla base dei militanti. L’altro è un movimento che viene dal basso, che elabora e indica i temi che la società richiede e li trasmette agli organi centrali del partito affinché diano a quei temi aspetto concreto ed entrino a comporre la visione del bene comune di quel partito. Questo è l’aspetto positivo e augurabile.
Il futuro dirà quale strada sarà percorsa. Molto dipende dal Bersani dei prossimi giorni e dal partito nei prossimi mesi.

l’Unità 14.4.13
Prodi e Bonino nella rosa di Casaleggio
Tra i nomi dei Cinque Stelle per il Colle anche Grillo e Fo
Sul blog di Grillo i dieci nomi su cui gli iscritti decideranno domani: col comico anche Rodotà, Strada, Gabbanelli, Caselli, Fo e altri
Polemiche per il sistema per nulla trasparente
E già monta in rete la rivolta per i nomi dell’ex premier e dell’esponente radicale
di Claudia Fusani


Buona la seconda. Dopo la vicenda dell’hacker e la ripetizione del voto, Grillo pubblica i dieci nomi dai quali, lunedì, uscirà il candidato unico del Movimento. Nella rosa anche Gabanelli, Rodotà e Gino Strada. Polemiche sul blog per i voti ricevuti da Bonino e Prodi. E la base grillina parla di infiltrati e manipolazione del voto gestito dalla Casaleggio e associati.
Diciamo che almeno un paio, Prodi e Rodotà, sarebbero i candidati perfetti dell'odiato Pd di Bersani. Che le due signore, Bonino e Gabanelli, hanno un gradimento trasversale. Se ci metti che uno non può – Beppe Grillo ha una condanna definitiva e l'altro ha già detto no grazie Dario Foe che quello che resta non è certo Giuseppe Garibaldi-Bisio di «Benvenuto Presidente», si può dire che la decina per il Quirinale uscita dalle urne Cinque stelle contiene molta poca forza rivoluzionaria. E neppure tutta questa fantasia. «Bastava leggere i giornali in questi giorni e saremmo arrivati alla stessa conclusione» dicono sconfortati molti commenti sul sito di Grillo.
Da un paio di giorni Grillo tiene le penne basse che la figuraccia dell'hacker che ha fatto saltare il primo turno di votazioni (giovedì) ha pesato assai sulle perfomance della democrazia diretta. Vicenda ancora tutta da chiarire. «Anche ieri (venerdì, il giorno delle nuove votazioni ndr) sono stati effettuati numerosi attacchi al sito spiega Grillo così come nel giorno precedente, ma non è stato possibile alterare la validità dei voti».
Di certo il voto per indicare il candidato al Quirinale altrimenti dette Quirinarie è uno dei passaggi più controversi della rivoluzione grillina. Per due motivi: la trasparenza e la proposta.
Sulla trasparenza, e mettiamoci pure l’efficacia delle Quirinarie, si moltiplicano i dubbi già emersi ai tempi delle parlamentarie. Innanzitutto sulla platea degli aventi diritto. «Hanno diritto di voto 48.282 persone iscritte al M5S al 31 dicembre 2012 con documenti digitalizzati» si spiega senza però dare un minimo di identikit di questi cittadini elettori. Non si sa da dove vengono, se sono uomini o donne, quale regione, fascia d’età, nulla. Non solo: questi 50 mila che per Grillo «hanno potuto esprimere democraticamente, senza chiedere un euro a nessuno, la loro preferenza per il Colle , mentre «la coppia Bed & Breakfast Berlusconi e Bersani decideva in segreto il presidente dell' inciucio per salvaguardare entrambi, un atto antidemocratico e ributtante», sono un numero infinitamente più basso rispetto a quello immaginato e previsto. «Potranno votare il quadruplo delle persone che hanno partecipato alle parlamentarie (furono 91 mila, ndr)» disse alla vigilia il giovane vicepresidente della Camera Luigi Di Maio.
Quarantottomila, un po’ pochi per parlare di trionfo della partecipazione. Ma più di tutto il profilo della trasparenza è sotto inchiesta per il fatto che le operazioni di voto sono state tutte gestite dalla Casaleggio e associati. Il sarcasmo si è sprecato in questi giorni all’hastag #iovotoilmiopresidente: «Chiuse le urne adesso Casaleggio sta decidendo chi far vincere»; «propongo la candidatura dell’hacker: è il più affidabile e lo ha dimostrato». E non può bastare, a garanzia, la presenza di quello che è stato chiamato «ente terzo verificatore», cioè la DNV business che pure ha fatto saltare le votazioni del primo giorno.
Detto questo, e forse a dimostrazione che il voto se non trasparente è stato almeno genuino o non del tutto eterodiretto, arriviamo all’offerta uscita dalle urne web. I dieci nomi rappresentano il cigno nero, l’evento imprevisto che non aspetti e che potrebbe sconvolgere tutti i piani. Ignoti i voti presi da ogni candidato-5 Stelle (anche questo non trasparente in funzione del ballottaggio di domani da dove uscirà il candidato al Colle). Di sicuro tra i primi dieci c’è il professor Romano Prodi. Che non piace affatto («ci ha incastrati nell’euro, ma siamo pazzi») a quella che ormai è a tutti gli effetti una trinità: Grillo, Casaleggio, Becchi. Il professore genovese, soprattutto, non si da pace. E per tutto il giorno ha twittato, cambiando le parole, un solo concetto: guai a voi se fate vincere Prodi e anche gli altri nomi non sono migliori. «Confesso che avrei preferito un secondo attacco hacker. Se il nuovo che avanza nel M5S è Prodi, allora siamo messi molto male» twitta appena i nomi diventano noti. Poi è un crescendo di rabbia e stupore: «Nessuno dei nomi proposti appartiene all’aerea euroscettica o ambientalista. E allora cosa abbiamo votato M5S a fare?»; «Prodi? A questo punto sono da ricovero, perchè non danno anche la fiducia a Bersani?»; «Caselli e no tav, te lo raccomando. Un vero successo per il movimento no tav». Collegarsi a twitter per proseguire. Ce ne sono parecchi.
Poco calore anche per Emma Bonino. «Bonino e Prodi? Ma siamo pazzi? Per carità! Andrebbero eliminati» è un altro leit motiv tra i 1500 commenti sul sito di Grillo. «Sono della casta», delle «mummie» e «fanno parte della vecchia politica». Insomma, non sono dieci nomi a Cinque stelle. «Evidentemente è la soluzione molti troll di area Pd si sono già iscritti...». Domani ci riprovano. Ma il candidato presidente, l’unico che voteranno, deve essere per forza uno di quei dieci.

il Fatto 14.4.13
Un delitto perdere questa occasione
di Paolo Flores d’Arcais


Il Movimento 5 Stelle ha offerto ieri alla politica italiana la chiave per una svolta che eviti al Paese il baratro e dia inizio alla ricostruzione. Nessuno, questa volta, potrà accusare il movimento di Grillo e Casaleggio di essere solo “distruttivo”. I dieci nomi usciti on line sono in schiacciante maggioranza adamantini nel loro essersi costantemente opposti al regime di Berlusconi che calpestava la Costituzione repubblicana e nell’essersi sottratti alle lusinghe dell’inciucio, anche quando inzuccherate di Alti Richiami al senso di responsabilità, autentica intimidatoria sequenza di Immoral Suasion per connubi contro natura tra “homo democraticus” e Caimano.
Perciò l’Italia tra una settimana può davvero voltare pagina, uscire dall’incubo del quasi ventennio di regresso e di macerie, cominciare una faticosa ma finalmente possibile rinascita. Morale, economica, culturale, sociale, istituzionale. Ambiti indissolubilmente intrecciati, cui solo un Presidente intransigente nella fedeltà all’ethos repubblicano di giustizia e libertà può fornire l’orizzonte per l’improcrastinabile “nuovo inizio”. Basterà che il Pd metta da parte egoismi fratricidi, interessi di Casta, subalternità allo sbraitare berlusconiano. E che il M5S resti coerente con la splendida capacità propositiva appena dimostrata.
Ci sono nomi talmente inattaccabili sotto ogni profilo etico e politico, tra quelli “nominati” dal M5S, che un rifiuto del Pd di votarli risulterebbe indecente fino all’incomprensibile: uno schiaffo ai propri elettori, oltretutto, vista la popolarità di cui godono nella base di Pd e Sel uno Zagrebelsky o un Rodotà o un Caselli. Un Pd che potendo portarli al Quirinale, preferisse “amorosi sensi” con Berlusconi per avere sul Colle più alto un D’Alema-Amato-Marini-ecc. di garanzia per il Caimano, firmerebbe il proprio suicidio, letteralmente “a furor di popolo”.
Per il M5S coerenza significa invece non “impiccarsi” al nome che vincerà il ballottaggio: farne una bandiera per le prime tre votazioni, non un boa constrictor per le successive. L’Altra Italia di un’Altra Politica è a portata di mano, ma Berlusconi continua a far ululare folle prezzolate sulla solfa “anche noi al governo o elezioni a giugno” come fosse ancora il padrone del paese, sicuro di un potere di intimidazione che le reiterate aperture di Bersani per un “nome condiviso” alimentano. Ma il Presidente deve garantire i cittadini uniti dai valori della Costituzione, non i suoi affossatori a rota di impunità. Pd e M5S facciano la volontà dei propri elettori: un Presidente contro l’inciucio.

La Stampa 14.4.13
Prodi manda in tilt Pd e Pdl
Anche nomi come Rodotà e Zagrebelsky mettono in imbarazzo i Democratici
Il gradimento del M5S per il Professore rende più difficile le larghe intese. Avanza l’ipotesi Finocchiaro
di Ugo Magri


Com’era previsto, le pubbliche uscite di Bersani e del Cavaliere non aumentano la comprensione reciproca. Il segretario Pd ripete da Roma che il «governissimo» non si può fare, mica «perché Berlusconi fa schifo» è l’argomento poco lusinghiero, bensì in quanto non sarebbe segno sufficiente di cambiamento. Con l’altro che a Bari, davanti a una vasta folla, va giù piatto: o «governissimo» e scelta condivisa del successore di Napolitano, oppure di corsa alle urne (dove Berlusconi si attribuisce 4 punti di vantaggio). Inutile aggiungere chi sarebbe in quel caso candidato premier del centrodestra... Quando all’elezione del nuovo Presidente mancano quattro giorni, siamo dunque ancora in pieno delirio propagandistico.
Ma la vera buccia di banana, su cui può ruzzolare l’intesa Pd-Pdl, l’ha piazzato Grillo (o Casaleggio, chi può dirlo?). Nella lista M5S dei dieci potenziali candidati per il Colle, compaiono alcuni nomi che sembrano studiati apposta per mettere in crisi il Pd. Il più ragguardevole è quello di Prodi, ma c’è pure Rodotà (già presidente dei Democratici di Sinistra) e così anche il costituzionalista Zagrebelsky: riferimenti sicuri per tutti quanti respingono l’«inciucio» col centrodestra. Prodi si schermisce, addirittura a Lucca per un convegno ieri ha fatto finta di bastonare con un giornale arrotolato un amico che lo chiamava «Presidente»; né sembra probabile che domani, quando i grillini pescheranno dal mazzo la candidatura definitiva, spunti fuori proprio il Professore. Tuttavia il mondo prodiano è in fermento, e non quello soltanto. Renzi, nei giorni scorsi, aveva espresso una chiara preferenza prodiana per il Quirinale. Contro il Cavaliere che spera solo di sfuggire alla giustizia (intesa come patrie galere) si lancia Tabacci, leader di Centro democratico... Insomma, la sola presenza di Prodi nella hit parade a Cinque Stelle, per quanto contestata da molti grillini, è sufficiente a far sognare quanti vorrebbero l’ex premier sul Colle in funzione anti-berlusconiana. Con il Cav che già annuncia sfracelli, casomai dovesse farcela il suo più acerrimo rivale: «Ci toccherebbe davvero scappare tutti all’estero», grida dal palco di Bari.
Senonché, si domandano al vertice del Pd, «se poi molliamo un ceffone del genere al Cavaliere, dove prendiamo i voti per far partire il governo del cambiamento? ». Vendola è convinto che qualche soluzione si troverebbe, qualora il nuovo Capo dello Stato mandasse Bersani a cercarsi i voti in Parlamento. La paura di non essere rieletti spingerebbe magari alcuni grillini a sostenere il governo di minoranza targato Pd... Però a Largo del Nazareno sono in pochi quelli che farebbero l’esperimento. Prevale la convinzione che, eleggendo Prodi, si correrebbe a rotta di collo verso nuove elezioni. «Una cosa folle», va ripetendo a tutti gli interlocutori Casini. Il quale si è ripreso una certa autonomia da Monti che, pure per effetto del distacco Udc, ha fatto sapere tramite «Corsera» di voler togliere il suo nome dal simbolo di Scelta Civica, non sentendosi egli uomo di partito ma riserva della Repubblica.
Tutti questi calcoli, ed altri ancora, fanno sì che la strategia delle larghe intese, quantomeno per la scelta del prossimo Presidente, nonostante tutto resista. O perlomeno: ieri sera non risultava fosse definitivamente crollata. Tuttavia, ecco spuntare un ulteriore possibile inciampo. Ai negoziatori berlusconiani, guidati da Verdini, è giunta dall’altra sponda una soffiata: martedì Bersani martedì sottoporrebbe a Zio Silvio (così l’ha accolto il sindaco Pd di Bari, Emiliano) non una rosa di 4-5 nomi, ma una candidatura secca: prendere o lasciare. La personalità che lascia interdetti i «berluscones» si chiama Anna Finocchiaro, già presidente dei senatori Pd. Il Cavaliere invece vorrebbe poter scegliere tra Marini, D’Alema, Violante, con una predilezione con quanti vengono dal vecchio Pci. Non lo confesserà mai, ma senza i «comunisti» si sentirebbe solo.

il Fatto 14.4.13
Gli eletti fanno pressing: “Per favore votiamo un altro”
L’ex premier e Emma Bonino nella rosa di nomi dei 5 stelle
I parlamentari e i “consigli” alla rete per il ballottaggio
di Paola Zanca


Scusate, sono in vestaglia, senza barba fatta e spettinato, ma non riesco a non sfogarmi: sono a-l-l-i-b-i-t-o dalla scelta di questi dieci nomi, in particolare per Prodi e la Bonino. Non posso accettare che gli iscritti al Movimento li abbiano votati”. I risultati delle Quirinarie sono pubblici da più di un’ora. Ma Salvo Mandarà non ha ancora smaltito la botta. Così, di getto, accende la telecamera e manda in rete tutta la sua delusione. Mandarà è stato l’ombra di Grillo durante la campagna elettorale, l’inventore de La Cosa, il pioniere dei ritrovi virtuali in hang out. Tra una tappa e l’altra, lavava i piatti. E anche se lo Tsunami tour ha spento i motori da più di un mese, è interessante risalire su quel camper per capire dove va, il Movimento. Ecco, nel giorno in cui le Quirinarie incoronano i dieci nomi papabili per il Colle, nelle ore in cui tutti sottolineano il fiuto politico di chi ha scelto Prodi e Bonino (prima e settimo, in ordine alfabetico), sul camper, i tre compagni di viaggio di Grillo, ingranano la retromarcia. Mandarà si è già sfogato, l’autista, Walter Vezzoli, scrive “Gabanelli for President! ”, mentre il genovese Fulvio Utique, factotum del tour, pubblica l’elenco degli “eletti”, ma al posto di Prodi, scrive “Topo Gigio”.
IL QUARTETTO del camper, però, ormai è cresciuto. Anche se è impossibile sapere di quanto. Sul blog Grillo che gli aventi diritto al voto (iscritti al Movimento entro il 31 dicembre 2012 che hanno inviato il loro documento d’identità entro il 31 marzo 2013) sono 48.282. Ma il numero di chi davvero ha votato, nessuno lo dice. Lo staff ha la consegna del silenzio assoluto, pure sull’ordine della classifica. Perché, se tra il camper e oggi ci sono di mezzo le elezioni, il fallimento di Bersani e i Cinque Stelle in trincea, il distacco tra i nomi è la vera incognita del futuro Colle e della presente legislatura. Quanti hanno votato Prodi? È lui, il nome del dialogo con il Pd, quello che più spaventa o galvanizza, a seconda delle inclinazioni, i sostenitori del Movimento. Per la verità, di nomi che possano avvicinare grillini e democratici ce ne sono altri. Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, perfino Emma Bonino. È che solo i primi due garantirebbero ai Cinque Stelle di rivendicare una vittoria sul fronte della “purezza”, gli unici che consentirebbero al Movimento di dire che è stato il Pd a doversi “piegare” alle proposte del nuovo corso. Per questo, anche fuori dal camper, i risultati delle Quirinarie fanno paura. Grillo, annunciando l’apertura del voto on line, aveva chiesto nomi fuori dalla politica, senza incarichi istituzionali, lontani dalle “foglie di fico” come Pietro Grasso. Eppure, era stato lui stesso a strizzare l’occhio a Prodi, l’unico che “cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche”. Quel nome c’è. Ma gli eletti fanno a gara a dire che non l’hanno votato. Potrebbero farlo dalla quarta votazione in poi (“Non ci sarebbero difficoltà a convergere, visto che è stato espresso dalla base”, ha detto ieri Claudio Messora a InOnda), ma non possono dirlo sin da ora. Così, in un giro di mail tra deputati e senatori, è partita l’operazione “pressing” in vista del ballottaggio di domani. Dichiarazioni di voto che arrivino dritte ai 48 mila della base. “La Bonino e Prodi sono espressioni tipiche della sinistra, la sinistra malinconica – scrive la deputata Giulia Di Vita, dimezzando la platea - Grillo è incandidabile. Dario Fo e Milena Gabanelli hanno già detto di no in svariate occasioni”. “Informatevi sulla Bonino e Prodi! ”, insiste il vice-capogruppo Riccardo Nuti. “Lunedì prossimo scelgo di nuovo Milena Gabanelli”, dichiara il senatore Vito Petrocelli. Sergio Puglia è disperato: “Aiuto! C'è anche Prodi e la Bonino! X favore votiamo altro! ”. Walter Rizzetto si diverte con i giochi di parole: “Perchè Ritorna Ostinatamente Diventando Inutile”. Solo Aris Prodani confessa di aver votato Bonino. E solo Giuseppe D’Ambrosio difende le scelte della Rete: “Vorrei avvisare tutti i tifosi del M5S (avete capito bene... parlo degli interni) che criticare i nomi usciti dalle Quirinarie, vuol dire che non si è capito nulla di quello che rappresentiamo”. L’ideologo Paolo Becchi non se ne fa una ragione: “Avrei preferito un secondo attacco hacker. Se il nuovo che avanza è Prodi siamo messi male, molto male”.

il Fatto 14.4.13
Prodi c’è, ora la partita si sposta in Parlamento
Quello del professore è con Rodotà, Bonino e Zagrebelsky il nome che può aprire al voto assieme ai democratici
di Eduardo Di Blasi


Inaspettato lo era. Romano Prodi, già due volte presidente del Consiglio alla guida di governi di centrosinistra e due volte non arrivato in sella alla fine della legislatura, è nella decina votata dalle Quirinarie del Movimento Cinque Stelle. E anche se la questione provoca malumori tra vecchi e nuovi militanti, e la decina dovrà essere raffinata nei giorni a venire fino ad arrivare a un singolo nome o a una terna (la questione è tuttora argomento di dibattito), l’indicazione c’è. Non c’è solo quella, beninteso.
TRA QUELLI USCITI dalla “quirinarie”, i nomi più prossimi alla politica oggi rappresentata in Parlamento (gli unici sui quali si possano far convergere i voti di uno o più gruppi politici) sono almeno tre: quello di Romano Prodi, per l’appunto. Quello della Radicale Emma Bonino. E quello di Stefano Rodotà, professore anche lui, giurista, che già sette anni fa fu vicino all’elezione al Quirinale sul treno del centrosinistra che poi portò al Colle Giorgio Napolitano. Difficile immaginare infatti che le forze politiche possano convergere sui “non politici” espressi dalla rete: da Milena Gabanelli a Gino Strada, da Beppe Grillo a Gian Carlo Caselli, da Dario Fo a Ferdinando Imposimato, pare difficile l’impresa di sommare i voti dei 162 grandi elettori grillini con quelli del Pd o del Pdl (gli unici in grado di elevare un candidato al Colle a presidente della Repubblica). A metà del guado c’è Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista presidente emerito della Consulta, animatore di Libertà e Giustizia. Un nome alto, non prettamente politico, che può aprire a un certo mondo democratico. Ha meno chances dei politici, certo.
Quindi Emma Bonino, radicale che non dispiace a destra e che il Pd ha candidato alla passata tornata elettorale come presidente della Regione Lazio. Quindi Stefano Rodotà, che nel Pds, il partito che ha dato poi vita al Pd, ha ricoperto anche incarichi di responsabilità. Soprattutto Romano Prodi, che ieri, giustamente, ha espresso il proprio passo indietro più per forma che per sostanza. “Non ho nessuna candidatura al Quirinale - ha detto a margine della presentazione di un libro a Lucca - io sto semplicemente a guardare”. Ha anche voluto rafforzare questo concetto: “Per il resto io sono fuori”.
Quando poi un amico di vecchia data lo ha accolto con un “benvenuto a Lucca al futuro presidente”, lui ha fatto un grande sorriso battendogli una pacca sulla spalla. Ha detto poi: “Spero che l’Italia abbia un futuro migliore e che si esca da questa difficile congiuntura economica e politica”. Infine, uscito dalla sala è stato raggiunto da una turista tedesca: “Professore - gli ha detto - faccia lei il presidente della Repubblica”. E l’ex premier, fuori dall’auditorium di San Romano a Lucca assieme al suo ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick ha scherzato: “Lo dice perchè è tedesca”. Lo stesso Guardasigilli, mentre Prodi si allontanava, ha chiarito: “Meno si dice, meglio è, per scaramanzia”.
MA COME PUÒ succedere che il Pd (a cui, in verità mancano meno di dieci voti per potersi eleggere “da soli” il futuro capo dello Stato) decida di appoggiare Romano Prodi? Per adesso nelle tribù democratiche il nome del Professore è fatto a bassa voce dai renziani e da qualche sparuto veltroniano (cui non dispiace nemmeno l’ipotesi di Giuliano Amato, da condividere con il Pdl). Anche Massimo D’Alema, lo stesso che gli successe con l’appoggio di Cossiga alla guida del Paese nel 1998, da retroscena dell’ultima ora sembra uno dei pontieri di questa ipotesi assieme al sindaco di Firenze. E Bersani? Il leader del Pd per adesso non dà indicazioni (i democratici dovrebbero riunirsi martedì per scegliere la propria rosa di nomi da portare in aula assieme alla strategia d’aula), ma il legame tra Bersani e Prodi è di lunga data.
Chi non lo vuole? Il Pdl. Con Berlusconi che da Bari tuona: “Con Prodi tutti all’estero”. È un messaggio a quella parte del Pd che ritiene che dopo aver eletto i “propri” presidenti di Camera e Senato a maggioranza, ora non si possa procedere nel medesimo modo.

l’Unità 14.4.13
Il portafoglio della Lombardi
di C. Fus.


Le hanno rubato il portafoglio. Proprio a lei, la più attenta, la più severa, quella con la parola sempre giusta e sempre pronta. Quella che «la società civile siamo noi e non serve che la incontriamo». Soprattutto quella che ride sempre. Di che cosa poi, non s’è capito.
L’ha denunciato, direttamente su Facebook, la cittadina portavoce Roberta Lombardi, nonchè capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, quarantenne, professione arredatrice d’interni per ricche magioni, emiri, miliardari e cose così.
«Ieri sera mi hanno rubato il portafoglio dalla borsa» spiega la solerte capogruppo che quando una volta il povero Crimi l’ha chiamata «onorevole» quasi lo sbrana. «Oltre l’immane seccatura di rifare carte prosegue patente, codice fiscale e il piccolo dispiacere per l’oggetto in sé, ho perso tutte le ricevute delle spese sostenute finora... Poca roba, circa 250 in un mese. Poiché è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso che compongono il mio stipendio solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio? Aspetto vostri consigli».
Gli amici non l’hanno presa bene. «Cittadina Lombardi, se non è in grado di risolvere queste cose da sola e perde tempo a postarle su Facebook e leggere tutti i consigli, mi chiedo come faccia a risolvere i guai ben più seri del Paese che dovreste governare. Premetto, ho votato M5S», scrive un suo fan. Giulia Musella, propone la colletta. Barbara scrive: «Cittadina, ci sono cittadini che con 250 euro devono arrivare a fine mese, eviti di rendere pubbliche certe sciocchezze che fa solo ridere noi, poveri polli». Altri la invitano a prendere in considerazione opzioni non riferibili, «Vai a farti...», «Attaccati al...».
La cittadina portavoce Lombardi non specifica dove sia avvenuto lo sgradevole accidente. Immaginiamo non alla Camera perché, visto l’andamento settario del gruppo, sarebbe costretta a dover cercare in casa propria. Su Fb e twitter viene travolta in poche ore da molto sarcasmo e anche qualcosa di più. «E sticazzi non ce lo mettiamo, Sora Roberta? C’è un limite anche all’autoparodia, su» scrive Andrea Scanzi del Fatto Quotidiano.
Capita l’antifona, e l’autogol, la cittadina Lombardi, cerca di chiudere il caso con «sono stata distratta e giustamente mi toccherà rinunciare ai rimborsi». Ma sembra solo l’ultimo grano di un lungo rosario. Quanto durerà ancora il regno della cittadina-portavoce Lombardi ?

il Fatto 14.4.13
Scontrini addio
Lombardi rapinata Internet senza pietà


La Rete porta consiglio, ma a Roberta Lombardi, la prossima volta, conviene fare di testa sua. Ieri la capogruppo dei 5 Stelle alla Camera ha raccontato agli “amici” di Facebook che le è sparito il portafoglio. Rubato. E stavolta non ha solo carte e documenti da recuperare. l’ dentro erano anche conservati con cura gli scontrini delle spese sostenute in questo primo mese di legislatura. Una minuta per ogni caffè, autobus e bloc notes comperato: 250 euro, o giù di lì. Ma il ladro si è portato via anche quelli. E la Lombardi chiede pietà on line: “Poichè è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso che compongono il mio stipendio solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio?”. L’onda la travolge. E lei, che in queste settimane non ha avuto modo di conquistare simpatie, si arrende 4 ore dopo: “Sono stata distratta e quindi, giustamente, mi toccherà rinunciare ai miei rimborsi spese, come qualsiasi altro dipendente”.

Corriere 14.4.13
Roberta, la vertigine del potere di una «cittadina» maldestra
La grillina Lombardi fa l’antipatica tra gaffe e svarioni
di Aldo Grasso


Non si pretende cortesia istituzionale, ma solo cortesia. Quando Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, ha commentato con i giornalisti le ipotesi di un nuovo mandato a Giorgio Napolitano, invitandolo a fare il nonno, a godersi la vecchiaia, ha mancato di sensibilità. Napolitano le avrà anche confessato la fatica del Colle, ma la cosa doveva finire lì, non giocata come alibi.
Non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Irretiti dalle loro certezze, intolleranti verso chi non vuole infeudarsi alle allucinazioni ideologiche.
Eterodiretti dalla Grillo & Casaleggio Associati, suppliscono alle scarse doti politiche con la supponenza e il disprezzo. I vecchi peones che hanno riscaldato gli scranni del Parlamento almeno non facevano danni, erano coscienti della loro nullità.
Questi sono pasticcioni e presuntuosi.
Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori. Se si rivolge a un giornalista avverte: «Casaleggio mi ha cazziata perché vi dico troppo». In diretta sul canale web La cosa annuncia che la sala riunioni assegnata al M5S (si chiama ora Sala Tatarella) verrà dedicata a Giancarlo Siani. Lei però lo chiama Angelo. Ieri le hanno rubato pure il portafoglio con gli scontrini delle spese, addio trasparenza!
La Rete — elevata dai grillini a entità metafisica, hacker compresi — si è riempita di parodie e di sberleffi nei suoi confronti. Su Raitre, Andrea Sambucco e Brenda Lodigiani fanno la parodia di Lombardi e Crimi.
A lei tocca la parte dell'antipatica.
«Noi non abbiamo bisogno di parlare con la società civile, noi siamo la società civile»: solo lo «smacchiatore» Bersani poteva farsi umiliare da questa coppia di comici tristi, Vito lo Smentito e la «cittadina» Roberta.
Però fanno paura gli sprovveduti che mirano al potere e lo raggiungono per l'effetto combinato di astuzia e naïveté.

il Fatto 14.3.13
Sondaggi: scende Grillo, crescono Bersani e Berlusconi


SECONDO gli ultimi sondaggi di Mannheimer sul Corriere della Sera, il Movimento Cinque Stelle starebbe affrontando una fase di calo. Dal 25,6% delle elezioni di febbraio l’M5S ora si aggirerebbe intorno al 23, 7%, perdendo più di un punto percentuale in una discesa che, secondo il sondaggista, sarebbe “costante”. Potrebbe essere un calo fisiologico, dato dal ritorno alle vecchie preferenze da parte di coloro che a queste politiche avevano prestato il loro voto al movimento di Grillo. Il Partito democratico. invece, registra un +3%, portandosi al 28,6%. Secondo Mannheimer "i voti dati a Grillo e tornati oggi al Pd costituiscono l'8% del seguito attuale del partito di Bersani. In misura però nettamente minore, a Scelta civica di Monti”. Il sondaggista riporta anche l’innalzamento del Pdl, che dal 21,6% alle elezioni ora va al 24,5%. Silvio Berlusconi, però, ieri era di un altro parere. Alla manifestazione di Bari ha parlato di sondaggi che ponevano il Popolo della Libertà ancora più su, al 34%, a 4 punti percentuali di distanza dal Pd. Non ha, però, citato l’istituto da cui ha attinto le informazioni.

l’Unità 14.4.13
La politica della cabala
di Sara Ventroni


Ora che abbiamo la lista dei dieci quirinabili a Cinque Stelle il quadro cabbalistico è completo. D’altronde, non ci resta che dare i numeri, computando i multipli del nulla. Non riusciamo a fare un governo ma ci affidiamo, baldanzosi, alla mistica algebrica.
Dalle elezioni del 24 febbraio stiamo vivendo in una bolla scaramantica. Ci siamo convinti che per uscire dallo stallo basta trovare la misura matematica delle cose: la cifra esatta che manca, prima di dichiarare bancarotta morale. Si tratta di un rito collettivo che non risparmia niente e nessuno: dal Colle alla ricevitoria del lotto, tutti vogliono enumerare la crisi. Salire sul pulpito mediatico con la tabellina in mano e una lista di punti in tasca.
Dopo il fallimento dei sondaggi preventivi, è arrivato il tempo dei pronostici fatti in casa. Siamo all’eterno presente dei pazzi, ai giorni che mancano da strappare fino al 18 aprile, e a quelli che ci restano da vivere prima dell’aumento dell’Iva. Evidentemente i numeri funzionano più degli slogan: dieci sono i saggi nominati di Napolitano, otto sono i punti di Bersani, e otto per dispetto quelli di Silvio Berlusconi. La vera novità di questa crisi è che non c’è un boom economico all’orizzonte. Siamo in un dopoguerra senza guerra. Siamo all’agonia della Repubblica, ma non facciamolo sapere in giro.
Mentre inganniamo il tempo con i dadi a grandi falcate e senza troppi complimenti crolla la classe media, con tutti i suoi piccoli e medi imprenditori, i giovani, gli studenti, i cassintegrati, i pensionati. L’ascensore sociale sprofonda nel seminterrato. Stiamo tutti un po’ impazzendo e l’Europa rischia di implodere come un vecchio palazzo, sotto demolizione controllata. Per fortuna ogni giorno ci somministrano numeri: i cari estinti parlano dall’aldilà per darci una mano. Berlinguer e Moro direbbero: 1976. Ma come in una commedia di Eduardo De Filippo, ci litighiamo la titolarità della giocata, a colpi bassi.
A quanto pare, oggi non è tempo di cercare soluzioni ragionate. Si tenta il colpaccio della fortuna. O la va o la spacca, è l’antifona di questi tempi spericolati. Oggi solo i numeri ci rassicurano: non hanno troppi significati. Chiunque può darli, come i matematici pazzi, alla «Beautiful mind», incapaci di stare in empatia col mondo, o come un Casaleggio in versione apocalittica: dopo la guerra tra Oriente e Occidente, nel 2040, saremo tutti cittadini di Gaia, avatar senza corpo. Arricchiremo i server del popolo, come Google, con i nostri miliardi di click.
Poi però ci sono i numeri cattivi: quelli che fanno arrabbiare Giorgio Squinzi. Ci sono i numeri ancora e sempre da definire degli esodati. Ci sono i numeri dei disoccupati. Quasi tre milioni sono quelli che il lavoro non lo cercano più. Ci sono i numeri dei nuovi poveri, più o meno il 12 per cento delle famiglie italiane. Ci sono i numeri di quelli che cercano lavoro, quasi sette milioni. Ci sono i numeri dei giovani che vanno all’estero. I numeri dei suicidi per lavoro. A oggi ne contiamo 63.
Siamo colpiti, ma fino a un certo punto. Si tratta pur sempre di numeri. Le persone sono dietro lo schermo, oltre la rete: vivono anche loro in forma di bit. Tra i numeri che verranno sicuramente a mancare c’è «il 27 del mese». Una formula che oggi ispira tenerezza, come l’album dei ricordi di famiglia. Il salario è un’idea da collezionisti, come i gettoni di rame o un mangiadischi 45 giri. Il massimo che possiamo fare è aprire una fan page e confidare in un bel numero di tweet: non abbiamo nulla da dirci, ma siamo in molti. Così è, anche se non ci piace.

Repubblica 14.4.13
L’amaca
di Michele Serra


Con la sola eccezione di Grillo, la diecina quirinalizia indicata dai militanti delle Cinque Stelle è formata esclusivamente da personalità di sinistra. Secondo logica, e secondo statistica, un movimento che ritiene insignificante la differenza tra destra e sinistra avrebbe dovuto esprimere una rosa molto meno orientata, più “spalmata” sulle varie tradizioni politiche e culturali del nostro Paese. Macché: paiono, i candidati grillini per il Colle, il sunto perfetto delle varie anime della sinistra italiana, da quella goscista (Fo, Strada, Gabanelli) a quella azionista (Zagrebelsky), da quella radicale (Bonino) a quella socialista (Rodotà) a quella cattolica (Prodi) a quella comunista (Caselli, Imposimato). L’incaponirsi dei grillini nel loro anatema antipartitico li porta a cancellare, per comodità dialettica, la stessa realtà politico-sociale nella quale si muovono. Salvo tradire continuamente (è già accaduto per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato) questa pretesa equidistanza, per il semplice fatto che alcune contiguità e parentele con la sinistra sono evidenti, quelle con la destra inesistenti. Viene il sospetto che l’ossessivo ritornello “Pdl e Pdmenoelle” serva alle Cinque Stelle soprattutto per rastrellare un bel po’ di voti anche a destra. Ma è un sospetto infamante: vale ad accusarli di politicismo.

l’Unità 14.4.13
Le Quirinarie e il disguido tecnico
Anche la Rete si ribella a Grillo
di Maria Novella Oppo


L’INCIDENTE TECNICO CHE HA INTERROTTO LE COSIDDETTE «QUIRINARIE» DI BEPPE GRILLO NON È TECNICO PER NIENTE. Anzi, mai un incidente è stato più politico di questo, visto che internet, per Grillo, non è un mezzo, ma una teoria politica, una ideologia, una religione. E una religione non può non «funzionare». Sarebbe come se papa Francesco, affacciandosi alla sua finestra sul mondo, anziché dire, come fa, buongiorno (o addirittura buon pranzo e buona digestione), dicesse ai fedeli sorridendo: «Scusate il disguido, ma non credo in Dio».
Perciò, se il mezzo è il messaggio e la Rete è la democrazia stessa, non esistono incidenti tecnici: il mancato funzionamento della democrazia non si chiamerà golpe (come urla Grillo a ogni pie’ sospinto), ma attentato alla costituzione sì. E per fortuna non si tratta della Costituzione della Repubblica italiana, ma della non costituzione del non partito, organizzato attorno al non statuto imposto dai non (?) dittatori Beppe Grillo e Renato Casaleggio.
È nato infatti un nuovo non libero stato di Bananas, le cui leggi non esistono perché neppure le norme del commercio sono in vigore, ma che è riuscito a raccogliere milioni di voti dai cittadini di un altro stato, che si chiama Italia e ha una certa quantità di Storia alle spalle. E se noi, per qualche sciagurata e momentanea assenza di coscienza, fossimo stati tra quegli elettori che hanno abboccato all’amo di Beppe Grillo per rabbia, per protesta o per fare un’esperienza di sedicente democrazia diretta, ora che abbiamo scoperto come sia invece eterodiretta (da Grillo, Casaleggio o un hacker qualsiasi), non avremmo pace finché non avessimo l’opportunità di riprenderci quel voto sbagliato. Perciò, a quelli che hanno gridato con supponenza «arrendetevi», noi replichiamo cristianamente: pentitevi!

il Fatto 14.4.13
Problema atavico
Dici “antiberlusconismo” e al Pd saltano i nervi
di Furio Colombo


Eccoci, vent'anni dopo, di fronte allo stesso problema. Il problema, ricordate, che era stato liquidato autorevolmente, da sinistra, con un imperioso “basta con l'antiberlusconismo. Dobbiamo tornare a fare politica. In politica decidono i cittadini chi è incluso e chi è escluso. La maggioranza ha votato Berlusconi e dunque ha diritto di governare”.
Eppure il problema era semplice: truffa e furto aggravato di voti e di media. Riepiloghiamo per chi fosse giunto in Italia ora. Berlusconi era fuori dalla legge nel momento in cui ha detto che sarebbe “sceso in campo”. Si candidava a guidare un governo, vantando la sua qualità di imprenditore di successo. In quel modo si era onestamente autodenunciato: viveva dei proventi, trovati con abilità, allargati con bravura e difesi con grande determinazione (a quel tempo si facevano saltare in aria le antenne dei concorrenti) di una concessione di licenze televisive ricevuta dallo Stato (e dunque dal capo del governo) che gli consentiva di trasmettere accanto e nonostante il monopolio di Stato.
NIENTE da dire per il monopolio, sarebbe finito comunque. Ma impossibile, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche (e anche a causa di una legge in vigore) che il permesso di uso delle frequenze televisive fosse dato e concesso dalla stessa persona. Il caso è semplice. Si chiama ineleggibilità (legge 361 del 1957). Avrebbe potuto risolversi subito, ma non si è risolto mai. Questo fatto ci ha gradatamente allontanati dal resto del mondo democratico, perché una simile sequenza (la persona che ha il potere di concedere l’uso delle frequenze televisive, le concede a se stesso) non avrebbe dovuto verificarsi mai. La prima parte di questa storia è dunque una pretesa avanzata con solenne finzione patriottica (“L'Italia è il Paese che amo... ”), prepotenza da mobbing (si circonda di gente rissosa che a voce altissima gli dà ragione) e violazioni di normali percorsi fin dal primo gesto: far pervenire al Tg1 una dichiarazione pre-registrata che, per normali ragioni di etica giornalistica, non avrebbe dovuto essere accettata (che venga l'interessato di persona a rispondere alle domande) ed è invece andata in onda su tutte le reti. La seconda parte della storia è ancora più anomala. Si è diffuso quasi subito uno spensierato atteggiamento tipo: “Ormai è accaduto, cosa vuoi andare a rinvangare? ”.
Seguito da due affermazioni identiche di due gruppi diversi (o forse il contrario, due affermazioni diverse di gruppi identici). Le frasi erano: “Lasciatelo lavorare”. E “Il conflitto di interessi non interessa nessuno”. Chi lo diceva? Tutta l'opposizione. Badate che quando dico “tutta” (con l'esclusione occasionale di Di Pietro e poi del suo partito Italia dei Valori), intendo dire tutta. La sinistra detta “estrema” (perché andava ancora ai cortei della Cgil, proibitissimi ai seri e pacati militanti Pd) era sempre impegnata in un nuovo convegno sul tema “che cosa è la Sinistra”, mai sulla ineleggibilità di Berlusconi. L’opposizione tenace a Berlusconi fuorilegge (stiamo parlando della violazione fondamentale, non delle sue frequenti avventure con la Giustizia e del rincorrersi delle imputazioni) è cominciata presto ad apparire una stravaganza caratteriale, ossessione forse frutto di squilibrio, una mania fastidiosa. C’era chi tentava benevolmente la cura di questa sindrome ossessiva, ammonendo ora sul voto degli italiani (non puoi offendere milioni di elettori) ora sul fatto che la maggioranza ha diritto di governare. C'era chi diagnosticava il fatto come cattiva politica “che ci farà restare inchiodati all’opposizione per i prossimi vent'anni”. C'era chi invocava l’Italia come bene comune che dovevi servire “assieme alla maggioranza” perché chi ha cultura di governo partecipa per contribuire, per non danneggiare il nostro Paese, anche migliorando leggi sgradite.
C'ERA chi assumeva toni punitivi, sia mostrando disprezzo per questi ostinati oppositori, sia considerandoli un insopportabile peso negativo di fronte a un’opinione pubblica immaginata come identica a Berlusconi. Tutto ciò, occorre dolorosamente ricordare, avveniva dentro lo schieramento che avrebbe dovuto essere l'argine invalicabile di contestazione del nuovo regime. Persone come Tabucchi e Sylos Labini potevano anche smetterla di com-portarsi come non richiesti e non graditi compagni di strada. Quando al giornale L'Unità che a quel tempo (2001-2005) dirigevo assieme a Padellaro, il gruppo senatoriale Pds e poi Ds ha fatto sapere che stavano pensando di ritirare il contributo del gruppo senatoriale Ds a causa del nostro imbarazzante “antiberlusconismo”, noi abbiano risposto: “Ne avete il diritto. Ma i fatti sono i fatti e noi continueremo a narrarli. E pazienza se mancherà il vostro sostegno”. “Antiberlusconismo”, ecco la parola che di frequente ha fatto saltare i nervi a buona parte della sinistra. Non sto pensando al mega-inciucio, ma proprio per questo mi sono sempre guardato intorno stupito. Avrebbero dovuto capire che se i Berlusconi erano così infastiditi da quella nostra insistenza sulla legalità dell’intera vicenda, qualcosa doveva esserci di politicamente utile e di moralmente irrinunciabile. Ma tutto questo mi serve per spiegare a Bersani perché adesso in tanti, nel Pd, lo guardano come un matto che non capisce i ragionevoli argomenti di Brunetta e Cicchitto, e dei “Saggi” del Colle. Continua a dire no al Pdl, Bersani, no al governo insieme. Impossibile che non sia matto. O che cominci a esistere il Pd.

l’Unità 14.4.13
Le primarie di Roma e il voto degli immigrati
di Marco Pacciotti


LE PRIMARIE PER IL FUTURO SINDACO DI ROMA SONO STATE UNA BOCCATA D’OSSIGENO PER LA CITTÀ E PER LA NOSTRA DEMOCRAZIA. Il fatto che oltre centomila cittadini abbiano scelto di partecipare non era facile né scontato, specie se guardiamo al clima generale del Paese. Potevano essere di più? Certamente sì, e in occasioni diverse così è stato, ma potevano anche essere di meno o magari potevamo cavarcela come altri, con poche centinaia di partecipanti on line.
Allora la prima cosa da fare è non sottovalutare questa bella prova di civismo e ringraziare, uno per uno, tutti gli elettori, i volontari e i candidati che hanno reso possibile un risultato simile. Fra i tanti che si sono messi in fila ai gazebo, alcuni erano stranieri. Un valore aggiunto a mio modo di vedere, un problema forse per altri. Come a volte accade quando si commenta il voto dei cittadini stranieri alle primarie, anche stavolta si è riaffacciata l’idea che diversi tra questi dovessero per forza essere stati circuiti a mezzo di denaro e quindi che la loro sia stata una partecipazione tale da inquinare la trasparenza del voto. Un rischio che non si può escludere, almeno in via di principio. In fondo il voto di scambio in Italia è una pratica antica e assai antecedente al coinvolgimento dei migranti. Quel che contrasto con forza è la tendenza a generalizzare, con denuncie fondate sul sentito dire e col bagaglio di stereotipi che quel modo di ragionare si porta appresso. Mi permetto di dire che l’equazione secondo cui un migrante al seggio qualunque seggio sia con ogni probabilità prezzolato da qualcuno e comunque incapace di giudicare sul merito delle cose, rischia purtroppo di prendere piede e persino di diventare l’ennesimo strumento di polemica autolesionistica fra schieramenti, dentro e fuori il Pd. Insomma sono preoccupato perché il chiacchiericcio fondato sui «si dice» può, quello sì, sfigurare l’esito del voto e lasciare un’ombra sulla battaglia culturale e politica più importante che il nostro partito sta sostenendo da anni.
Battaglia che si può riassumere nell’idea di un corpo di diritti da garantire a ogni cittadino migrante. La questione non riguarda solo la cittadinanza per i bambini nati o cresciuti in Italia, traguardo su cui oltre il 70% degli italiani si dice d’accordo e sulla quale Bersani si espone da tempo. La questione investe un intero spettro di diritti sociali e politici tuttora negati o rimossi. Fra i secondi c’è anche il diritto di voto alle elezioni amministrative per tutti gli stranieri regolarmente residenti in un comune da almeno cinque anni. Cosa che da anni avviene in gran parte del nostro continente in base a una Direttiva europea recepita dal Parlamento italiano nel 1994 e mai attuata pienamente. Su questa proposte, nei mesi passati, il Forum Immigrazione del Pd si è impegnato a raccogliere moltissime firme e lo stesso segretario del partito fu tra i primi a sottoscrivere la campagna «l’Italia sono anche io». Per noi è una sfida culturale, prima che politica, utile a tutto il Paese e non solo a chi vi risiede da pochi anni. Estendere i diritti non significa regalare un privilegio, ma corresponsabilizzare alla vita di una comunità anche i nuovi cittadini. Renderli partecipi significa farli uscire dallo status di immigrato per entrare in quello più inclusivo di cittadino. In breve, vuol dire costruire una maggiore coesione sociale. In questo il nostro partito è impegnato, ma è una battaglia dura, perché la crisi economica e le campagne xenofobe di questi anni si sono rafforzate a vicenda, distorcendo la realtà e facendo breccia anche nei nostri insediamenti sociali. Il punto è che una società impaurita risulta meno disponibile ad accogliere, vede l’altro come un competitore da respingere, a cui negare anche i diritti fondamentali come quelli all’assistenza sanitaria o alla scuola. Per queste ragioni ritengo l’ennesima polemica alimentata sul voto degli immigrati alle primarie dannosa. Si rischia di far del male alle nostre buone ragioni, e questo non possiamo permetterlo. Sia chiaro che se ci sono episodi provati di inquinamento del voto, quelli non solo vanno denunciati ma sanzionati, la denuncia però deve essere circostanziata e puntuale per non cadere nella facile strumentalizzazione della destra più becera.
L’alternativa, temo, è ciò che alcuni quotidiani riportano con enfasi. La messa sub iudice delle primarie e la riproposizione di stereotipi anacronistici sui migranti. Ritengo invece che abbiamo bisogno di costruire percorsi di partecipazione democratica dei cittadini stranieri alla vita sociale e politica e che questo percorso sia ancora pieno di ostacoli. Ostacoli che è compito della buona politica rimuovere accogliendo l’invito dell’articolo 3 della nostra Costituzione. Le primarie sono per questo un momento decisivo, basterebbe guardare le facce contente dei tantissimi bengalesi, albanesi, romeni, e donne e uomini di altre nazionalità, che votando alle primarie si sono sentiti meno immigrati e un po’ più romani. Su questo sentimento deve investire una grande forza come il Pd e più in generale l’Italia perché abbiamo tutti bisogno di più cittadini e non di «braccia» invisibili.

l’Unità 14.4.13
«Così insabbiarono il raid con Alemanno jr»
Indagati due poliziotti: uno portò via il figlio del sindaco dal pestaggio. L’altro agente ostacolò le indagini
di Nicola Luci


Omessa denuncia, favoreggiamento, falso in atto pubblico: sono le accuse a due poliziotti. In sostanza avrebbero insabbiato l’indagine della Procura di Roma sul pestaggio di stampo fascista al quale aveva assistito il 2 giugno del 2009 Manfredi Alemanno, il figlio del sindaco di Roma, Gianni. Per la procura i due poliziotti hanno avuto un ruolo diverso ma secondo il pm Barbara Zuin avrebbero entrambi fatto sparire dalla scena del reato l’allora 14enne Alemanno. Tutto si consumò in una festa nella piscina di un condominio della zona romana della Camilluccia. Erano presenti quattro coetanei di Manfredi e quattro ragazzine. La vicenda è stata raccontata dal Fatto quotidiano: un raid fascista in piena regola.
I due poliziotti coinvolti sono Roberto Macellaro, autista personale nel tempo libero del sindaco, e Pietro Ronca, ispettore capo prima del commissariato Flaminio, poi trasferito a Primavalle. Per inquadrarli le colpe bisogna tornare ai fatti del giorno della Festa della Repubblica di 4 anni fa. I giovani, una volta nel comprensorio, iniziarono cori che inneggiavano al duce e alzarono le mani per il saluto romano. Un gesto che il rampollo della famiglia Alemanno ripeterà anche nell’estate del 2012: verrà fotografato in vacanza in Grecia con amici mentre fieramente esibisce la stessa posa fascisteggiante. Il pomeriggio di quel 2 giugno, però, canti e gesti furono bloccate da chi aveva organizzato la festicciola: uno degli adolescenti presenti zittì il gruppetto e lo invitò a lasciare la piscina. Uno degli amici di Manfredi, dopo aver fatto presen-
te di far parte del Blocco Studentesco (l’organizzazione giovanile di CasaPound della quale Alemanno jr diventerà nel 2011 rappresentante nel suo liceo) annunciò vendetta. Col suo cellulare chiamò rinforzi. Di lì a poco arrivò un gruppo di maggiorenni, 4-5 ragazzi secondo i testimoni, che iniziò a picchiare, anche con un casco, l’adolescente che si era opposto alle loro manifestazioni fasciste. Manfredi è stato presente alla spedizione punitiva ed è fuggito soltanto quando il raid punitivo è terminato: a bordo di un’auto di un amico, dirà lui: falso. Qui entrano in gioco gli agenti. Il poliziotto autista, Macellaro, che era proprio fuori dal cancello del comprensorio, fa salire in macchina Manfredi e lo porta a casa senza mai far parola con nessuno della vicenda e negando persino ai pm di aver visto entrare e uscire gli autori del pestaggio.
L’altro ispettore, invece, Ronca, in forza al commissariato Flaminio, prende a verbale una delle ragazzine che aveva assistito dall’inizio alla fine al blitz, e la convince a dichiarare nero su bianco che non era sicura se nel comprensorio, insieme agli aggressori, ci fosse Manfredi. Così, la verità viene nascosta alle indagini. E se l’inchiesta sul pestaggio va tristemente verso l’archiviazione, quella sui due insabbiatori va avanti.

il Fatto 14.4.13
Linciata sul web la donna che vuole la verità da Alemanno
Insulti a Marida Lombardo: a casa sua i fascisti picchiarono un ragazzo davanti al figlio del sindaco
L’x missino: “Manfredi era solo imbucato alla festa”
di Marco Lillo e Ferruccio Sansa


“Malati mentali”, “Vergognati”, “Cure psichiatriche”. Dopo i calci agli amici di suo figlio, dopo che i picchiatori fascisti erano entrato impunemente nel suo condominio il 2 giugno del 2009. Dopo che l’inchiesta sull’episodio di cui sarebbe stato testimone il figlio di Gianni Alemanno è stata – secondo i pm – insabbiata dalla polizia, a Marida Lombardo Pijola tocca anche il linciaggio via Twitter. A Roma l’estrema destra si mostra sempre più arrogante perché impunita. Lombardo Pijola ha avuto solo la “colpa” di scrivere una lettera privata ad Alemanno dopo quello che era successo. Mentre suo marito, Carlo Vitelli, aveva “osato” presentare un esposto contro il raid. Ieri la giornalista del Messaggero, che abita nel comprensorio della Camilluccia teatro del pestaggio, ha trovato il suo account su Twitter invaso da insulti.
MA È ALTRO che colpisce Lombardo Pijola: “Gli stessi messaggi”, spiega la giornalista, “sono stati postati sul mio account e su quello di Alemanno". Come se gli autori volessero farsi belli con il sindaco. Dal primo cittadino, però, finora non sembrano arrivare commenti sugli insulti alla donna. La giornalista, da sempre impegnata contro il bullismo, commenta: “Sono sempre più delusa dall'atteggiamento di Alemanno e di sua moglie Isabella Rauti, due genitori ma anche due persone che ricoprono cariche istituzionali”. Il sindaco e la giornalista hanno visioni opposte sull'aggressione, come emerge dai verbali dell’istruttoria condotta dall’Ordine dei giornalisti contro i due autori di questo articolo e dell’inchiesta giornalistica che ha portato la Procura di Roma a riaprire il fascicolo indagando due poliziotti per falso, favoreggiamento e omessa denuncia. Nell’inchiesta sono stati sentiti per la prima volta Manfredi Alemanno (non indagato) e i suoi amici nella veste di testimoni, ma con le garanzie previste per l’indagato di reato connesso. Alemanno, forse male informato, fornisce una versione che pare contrastare con quella di alcuni testimoni. Manfredi Alemanno quel giorno è arrivato al comprensorio sulla Camilluccia accompagnato da un poliziotto fuori dall’orario di servizio che guidava l’auto della moglie del sindaco, Isabella Rauti. L’autista-poliziotto si chiama Roberto Macellaro ed è rimasto nella Mercedes di Rauti, parcheggiata fuori dal cancello chiuso del comprensorio, mentre all’interno tra un amico del figlio di Alemanno e uno del figlio di Lombardo Pijola – infastidito da saluti romani ed espressioni fasciste – scoppia un battibecco. L’autista era sempre lì quando sono arrivati correndo 4 o 5 ragazzi più grandi per picchiare l’amico del figlio di Lombardo Pijola. L’autista-poliziotto era lì anche quando alcuni dei ragazzini, amici di Manfredi, tenevano aperto il cancello permettendo ai picchiatori di entrare. Il quindicenne dopo aver litigato con la vittima del pestaggio aveva telefonato a due persone in orari compatibili con il pestaggio: Guelfo Bartalucci del Blocco Studentesco e Luigi Bisignani, padre di un ragazzo che ha fatto parte di CasaPound. Le indagini della polizia mostrano lacune: nessuno ha individuato chi fossero i ragazzi più grandi giunti su chiamata di un ragazzino piombato in casa altrui facendo saluti romani. Mentre i ragazzi entravano, mentre riempivano di botte l’amico del figlio di Lombardo Pijola, mentre un dipendente dell’ambasciata americana che scendeva con la sua mazza da baseball temendo un assalto al condominio, mentre il marito di Lombardo Pijola (Carlo Vitelli, stimato primario) correva in soccorso della vittima, il poliziotto amico degli Alemanno, rimaneva lì. E non faceva nulla.
Quando i ragazzi, grandi e piccoli, uscivano correndo tra grida e lacrime delle ragazzine presenti e uno dei grandi – secondo i testimoni – aveva le mani insanguinate. Lui non vedeva, non interveniva, non denunciava. Anzi qualcosa Roberto Macellaro ha fatto: è partito a tutto gas portando via Manfredi Alemanno e alcuni amici. Quando (qualche giorno dopo il pestaggio, su richiesta di Lombardo Pijola) Isabella Rauti si presenta a casa Vitelli-Lombardo per discutere l’accaduto in una sorta di assemblea di autocoscienza con i genitori degli amici di Manfredi (quelli che avrebbero potuto aiutare le indagini) ecco che il marito della giornalista, Carlo Vitelli, riconosce il poliziotto-amico-autista che ancora una volta accompagna Rauti. “Io la conosco”, gli dice, “perché è fuggito mentre la rincorrevo? ”. Macellaro, allora e sempre, ripete di non essersi reso conto di nulla. Una bugia secondo la Procura che lo indaga per favoreggiamento e omessa denuncia. Ma Alemanno sostiene di credere alla versione dell’amico della moglie, come lo chiama lui. Secondo la Procura, in questa storia né i poliziotti né i ragazzini dicono la verità. Ma anche la versione di Alemanno lascia dubbi: “La cosa più grave che si può contestare (al figlio Manfredi, oggi maggiorenne, ndr), ma non credo che sia realmente accaduto, è che si sia imbucato in una comitiva che è entrata a fare il bagno in una piscina”.
COSÌ DESCRIVE il ruolo del figlio il sindaco di Roma parlando all'Ordine dei Giornalisti, al quale aveva denunciato i giornalisti del Fatto. “L'episodio in sé”, ammette Alemanno, “è sicuramente brutto, nel senso che, per quello che ne so io e che ho potuto ricostruire, è successo che mio figlio, che all’epoca aveva 14 anni, va in questo condominio invitato da alcuni amici, poi in questi casi quando si muovono i gruppi giovanili il tizio comincia ad invitare quello, poi quello ad invitare quell’altro, poi finisce nella classica cosa degli imbucati... quindi una cosa abbastanza banale. In questo contesto c’è un diverbio fra uno dei ragazzi presenti e la persona che poi fu aggredita e, per quello che abbiamo capito, questo ragazzo chiama un suo amico più grande. Questo viene con altri amici suoi e se la prende con l'altro ragazzo che aveva litigato. Mio figlio sta là, assiste a tutta questa scena... stava là semplicemente per divertirsi, poi arriva questo poliziotto che nel tempo libero faceva da autista a Isabella e qualche volta a Manfredi... lo viene a prendere, prende le persone che stavano con lui... È un episodio brutto sicuramente perché c’è una aggressione, però in cui mio figlio ha un ruolo marginale”. Alemanno non pensa forse che il figlio e i suoi amici avrebbero dovuto testimoniare subito come e chi era arrivato a picchiare il ragazzo vittima del pestaggio. Allora Federica Sciarelli, membro dell’Ordine, gli chiede: “Suo figlio conosce l'autore del pestaggio? ”. Il sindaco: “No. Per quanto ne so io un amico di mio figlio ha chiamato questo ragazzo più grande e... mio figlio non lo conosceva”.
BEN DIVERSA la versione di Lombardo Pijola: “Le indagini sono state insabbiate. Il ragazzino che aveva fatto la telefonata era... (omettiamo il nome, ndr). Il poliziotto che indagava ha preso i tabulati di questo ragazzino e ha visto che erano partite a quell’ora telefonate a membri di Blocco Studentesco piuttosto che di CasaPound (due organizzazioni di estrema destra, ndr) tra cui una di queste all’utenza di Luigi Bisignani, quello della P4. Il poliziotto ha convocato quello della P4, non suo figlio, per chiedergli spiegazioni... e lui ha detto ‘non so, il telefono era in uso a mio figlio’. Da quel momento - dice la giornalista - l’inchiesta si è fermata in maniera clamorosa”. Lombardo Pijola poi racconta l’incontro tra i genitori delle vittime e dei picchiatori, pochi giorni dopo l’aggressione: “Isabella Rauti era imbarazzatissima e non ha pronunciato una volta la parola scusa e questa è la cosa che più ha ferito la mamma del ragazzino pestato che ha subito un trauma dal quale non si riprenderà mai più. È venuta solo per dire, insieme agli altri, che i loro figli non avevano alcuna responsabilità, ma la responsabilità era dei grandi... Accanto a lei c’era anche il padre del bambino che aveva fatto la telefonata (…) Comunque loro non hanno negato niente di quello che era successo, hanno ammesso che la macchina era di Alemanno e questo signore, che era accanto alla signora Rauti, è stato riconosciuto da mio marito come quello che guidava la macchina. A questo punto quando mio marito lo ha riconosciuto è andato lì come un pazzo e gli ha detto ‘ma scusi era lei quello che scappava’ e lui ha risposto: ‘Sì, ma credevo fosse una festa tra ragazzi’”, ha concluso Lombardo Pijola. Ora i poliziotti, sia quello che guidava la Mercedes di Alemanno, sia quello che indagava e ha omesso di segnalarne la presenza, sono indagati. E il sindaco tace.

Repubblica 14.4.13
Roma, le mani dei clan sulla metro C “Così venivano spartiti gli appalti”
A “Report” anche la cena di Alemanno con l’ex ad di Finmeccanica
di Daniele Autieri


ROMA — Mafia, ’ndrangheta, criminalità vicina alla destra estrema e un giro di tangenti che lambisce il Comune di Roma. Sono questi gli appetiti obliqui scatenati dalla linea C della metropolitana e raccontati nella puntata di Report dal titolo “Romanzo Capitale” che andrà in onda stasera. Al centro, la più grande opera pubblica italiana oggi in costruzione: un costo di 3,4 miliardi di euro per 21 chilometri che uniscono la periferia al Colosseo. E degli affari sulla metro C – rivela Report – avrebbero parlato in una cena l’ex-ad di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini, il suo superconsulente Lorenzo Cola, il sindaco Gianni Alemanno e l’exdelegato alle politiche agricole del Campidoglio Pietro Di Paolantonio. I diretti interessati smentiscono, ma sia gli inquirenti che altre fonti sentite nell’indagine confermano che oltre alla metro si sarebbe discusso della dismissione del patrimonio immobiliare del Campidoglio.
E oggi le briciole di pane lasciate dai protagonisti di questa vicenda portano alla crosta di affari sedimentata intorno ai cantieri dell’opera realizzata dal consorzio costituito da Astaldi, Vianini Lavori, Ansaldo Sts, Cmb e CCC. L’attenzione degli inquirenti si concentra su alcune aziende, alla ricerca dei legami con il mondo criminale. Tra queste il Consorzio Stabile Roma Duemila che, in Ati con la Marcantonio Spa, ha ottenuto appalti per 16 milioni. Presidente del Consorzio è Maurizio Marronaro, membro della stessa famiglia di imprenditori di Lorenzo Marronaro, che fino al 9 febbraio del 2011 è stato socio di Marco Iannilli, il commercialista di Cola indagato sia per le tangenti Enav che per quelle dell’appalto romano sui filobus affidato a Finmeccanica. E i legami con il mondo vicino all’amministrazione comunale vengono confermati a Report da un imprenditore. «Dal 2008 è Riccardo Mancini (l’uomo di fiducia di Alemanno arrestato 20 giorni fa per le tangenti sui filobus pagate da Finmeccanica) che si mette al tavolo con le imprese e spartisce subappalti per realizzare la metro C». Tra queste – secondo la fonte – ce ne sarebbero alcune espressione degli interessi di Massimo Carminati, già membro della banda della Magliana, considerato oggi uno dei boss più potenti della Capitale. E proprio l’Ati Marcantonio-Consorzio Stabile Roma Duemila ha affidato diversi subappalti ad aziende intrecciate alla criminalità organizzata.
Tra loro la Fravesa, di proprietà dell’imprenditore Giovanni Tripodi di Melito Porto Salvo, in Calabria. Per gli inquirenti, la forza della Fravesa e di Giovanni Tripodi è legata «all’appoggio derivante dall’appartenenza ad una cosca ben radicata sull’intero territorio nazionale, qual è la cosca Iamonte».
L’informativa interdittiva della Prefettura di Roma nei confronti della Fravesa arriva il 28 gennaio del 2010 a lavoro già affidato. La famiglia Tripodi di Melito Porto Salvo entra nei cantieri della metro anche attraverso un’altra azienda, la Tripodi Trasporti. E anche questa partecipazione viene bloccata dopo l’intervento della Prefettura. La Palma srl, specializzata nell’affitto di macchinari e movimentazione di terra, ottiene invece 4 appalti, 3 dei quali arrivano dall’Ati Marcantonio-Consorzio Stabile Roma Duemila. I subaffidamenti vanno dal 29 luglio 2008 al 10 giugno 2009 e vengono interrotti il 2 febbraio del 2010 dall’interdittiva antimafia. Nel documento interno della Prefettura si legge: «La famiglia Farruggio (Angelo Farruggio è proprietario e procuratore de La Palma srl) è notoriamente vicina alla mafia di Palma di Montechiaro, contando su vincoli di parentela con esponenti di spicco della criminalità organizzata locale». Negli ultimi anni la Prefettura di Roma ha risposto a 5.265 richieste di informative antimafia sulla metro C; 12 sono stati gli interventi per bloccare gli appalti e 11 le informative atipiche su aziende vicine ad ambienti criminali. Un’attività intensa che non è bastata a fermare le infiltrazioni e a saziare gli appetiti.

La Stampa 14.4.13
“Socialismo reale? Qui anche la destra dice cose di sinistra”
Bertinotti osservatore a Caracas: c’è partecipazione
di Francesca Sforza


Due italiani tra i 170 osservatori internazionali invitati dal Consiglio Elettorale Nazionale venezuelano per seguire le elezioni in corso: il senatore grillino Luis Alberto Orellana, che a Caracas è nato, e Fausto Bertinotti, che ci è andato per vedere da vicino come la grande ondata emotiva che ha accompagnato la morte di Hugo Chávez si trasformerà in un risultato politico, e in un nuovo presidente.
Fausto Bertinotti, che aria si respira nella Caracas del dopo-Chávez?
«Quella del farsi mito di Chávez, un mito che scavalca le figure in competizione e i punti programmatici: la politica in questo momento è sovrastata da una religione popolare».
Un esempio?
«Non mi è capitato di vedere comizi elettorali in senso proprio, ma ho visto donne in fila per baciare manifesti in cui campeggiava il ritratto di Chávez, o cartelloni elettorali con scritte tipo “Noi ti amiamo”. Fiumi di persone che vengono chiamate a partecipare da chi è in corteo, è la manifestazione di un popolo costituente più che di un corpo elettorale. È come se ognuno di loro dicesse: “io non riesco a soddisfare i miei bisogni ma questa comunità mi sostiene nel mio cammino”».
Vittoria scontata per l’erede del comandante dunque?
«Davvero non so come questo fenomeno possa tradursi in risultato politico, perché può essere che votino Maduro in nome della continuità, o che invece, proprio per devozione nei confronti dell’assenza di Chávez, decidano di cambiare. Non è detto che il mito si traduca in un voto coerente».
Qual è il tratto che la colpisce di più nella sinistra venezuelana?
«Qui tutti sono a sinistra, pensi che Capriles ha fatto una campagna proponendo il raddoppio del salario minimo... Anche lui parla il linguaggio dell’identità, più che della politica. Il video con cui Lula ha salutato Maduro dice tutto: sebbene le posizioni siano diverse, e il Brasile non sia il Venezuela, si tratta dello stesso mondo, le differenze non impediscono di sentirsi da una stessa parte. Esattamente il contrario di ciò che accade in Europa, in cui anche la sinistra è a destra, e più si dice sinistra e più è di destra».
Un sondaggio Gallup, americano, dice che il 73% dei venezuelani soffre per la corruzione. Che ne pensa?
«Il problema della corruzione attraversa l’intera contemporaneità, l’Europa e l’Italia non fanno eccezione. E del resto sarebbe stupido negarne l’esistenza in America Latina. Attenzione, non sono società pacificate, ma violente, siamo nel pieno di un processo tormentato, dove il tentativo di rifarsi degli interessi colpiti è fortissimo. Non voglio fare apologia, ma riconosco che la ricerca di uno sviluppo originale, iniziato con la sottrazione al controllo del Fmi, ha un suo valore».
Com’è l’Italia vista da lontano?
«Qui la politica è dramma, da noi è farsa».

l’Unità 14.4.13
La sfida laica delle donne sotto al Muro del pianto
Arrestate per aver pregato come uomini, irritano le gerarchie ultraortodosse e interrogano i laici di Israele: che cosa faranno per arginare l’integralismo
di Umberto De Giovannangeli


L’«altra Israele» combatte sotto il Muro. Stavolta, però, non è il «muro» che separa lo Stato ebraico dalla Cisgiordania palestinese. Stavolta, è il luogo più sacro per il popolo ebraico: il Muro del Pianto. Cinque donne hanno sfidato i giudici indossando lo scialle riservato agli uomini durante la preghiera al Muro del Pianto e sono state arrestate. Partecipavano alla protesta organizzata dall’associazione «Donne del Muro». In un centinaio si sono ritrovate come sempre ogni primo giorno del mese secondo il calendario ebraico, sono entrate nell’area loro destinata ma adottando comportamenti vietati dalla Corte Suprema come recitare ad alta voce i versi sacri. «Quello che è accaduto mostra bene, purtroppo, quali sono le reali intenzioni del governo israeliano», dice a l’Unità Tamar Zandberg, deputata del partito Meretz (sinistra). «È evidente che non si vogliono garantire gli stessi diritti agli uomini e alla donne in questo luogo di preghiera».
La spiegazione degli arresti sta in una sentenza della Corte Suprema, che qualche anno fa ha stabilito che «condurre cerimonie religiose contrarie alle pratiche accettate», che potrebbero «offendere i sentimenti degli altri fedeli» nei pressi di un luogo sacro costituisce un reato. Il Muro, il luogo più sacro dell’ebraismo, è attualmente diviso in due settori distinti per la preghiera. Le autorità israeliane hanno appena proposto di creare una parte mista. «Un tradimento dell’ortodossia» per i rabbini che si oppongono strenuamente. Per il Rabbinato ortodosso quello che fanno le «donne del Muro» non è semplicemente un comportamento sconveniente: è un vero e proprio insulto alla religione e alla comune decenza. Durante l’intervento della polizia è stato arrestato anche un uomo, un religioso ultra-ortodosso, che si era scagliato contro una delle attiviste del gruppo, strappandole il libro di preghiere e bruciandolo. Per la leader del gruppo di attiviste, Lesley Sachs, l’episodio «riporta alla mente periodi bui della nostra storia».
Le donne sono state rilasciate dopo alcune ore a seguito della decisione di un giudice del tribunale di Gerusalemme che ha stabilito che il loro comportamento non era stato di disturbo all’ordine pubblico.
MONOPOLIO RELIGIOSO
Il gruppo «Women of the Wall» (Wow) è nato nel 1988 quando, la mattina del primo dicembre, circa 70 donne decisero di marciare al Kotel (il Muro Occidentale) con in mano i rotoli della Torah e un tavolo dove appoggiarli. Indossavano il talled (scialle), i tefillin (astucci che si portano durante la preghiera) e la kippah (copricapo), paramenti riservati agli uomini. Non appena iniziarono la lettura e la preghiera collettiva un’altra donna presente cominciò ad urlare richiamando gli uomini e scatenando i loro insulti e proteste. Negli anni le militanti di Wow hanno ricevuto il sostegno di molte comunità ebraiche nel mondo e delle femministe soprattutto statunitensi. La loro rivendicazione è diventata molto popolare dopo che, nel febbraio scorso, la comica Sarah Silverman ha scritto su Twitter che la sorella e la nipote erano state arrestate al Muro del Pianto per essersi comportate come gli uomini e dunque per aver violato la legge.
«Da un punto di vista teologico mi oppongo al monopolio ultra-ortodosso sull’ebraismo. Per convinzioni democratiche sono contraria all’idea che un gruppo di cittadini spadroneggi sugli altri», sostiene decisa Susan, la sorella di Sarah Silverman, che vive a Gerusalemme ed è tra le animatrici del movimento. Vivere laicamente una professione di fede. È questa la sfida lanciata dalle Donne del Muro non solo agli ultraortodossi ma anche a chi ha vinto le elezioni dello scorso gennaio proprio sul tema della laicità: Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid (C’è un futuro), neo ministro delle Finanze nel governo guidato da Benjamin Netanyahu, il primo esecutivo dopo una lunga serie senza i partiti ultraortodossi.
«Non è nostra intenzione ingaggiare una battaglia politica dice a l’Unità Anat Hoffman, fondatrice del movimento, una delle cinque donne arrestate ma una chiamata in causa di chi si è fatto portatore di istanze di modernità e di rigetto di ogni spinta integralista, ottenendo su questo un importante consenso elettorale. In questo senso, sostenere le nostre richieste è una prova, concreta, di coerenza, e un atto di libertà». Il riferimento a Lapid, per quanto implicito è chiarissimo.
Con la loro azione, e con il loro arresto, le «Donne del Muro» pongono un interrogativo che riguarda l’intero Israele, la sua identità: è accettabile che in un Paese democratico si possa arrestare una donna per il solo «reato» di indossare uno zucchetto?

l’Unità 14.4.13
«La trappola della follia» Come interpretare il senso dietro al sintomo
Nuova edizione del libro di Cancrini e Harrison sul significato dei segnali lanciati dal paziente schizofrenico
di Luigi Cancrini


QUELLO CHE VIENE RIPRESENTATO OGGI AL LETTORE ITALIANO «LA TRAPPOLA DELLA FOLLIA» DIECI ANNI DOPO LA SCOMPARSA DI MARIA GRAZIA CANCRINI E LIETA HARRISON, È UN PICCOLO GRANDE LIBRO. Piccolo perché rapido, essenziale, facile da leggere. Grande perché nessuno, dopo i lavori pionieristici del gruppo di Bateson e dei suoi collaboratori, era riuscito a fornire un’evidenza clinica così ricca e così clamorosa sul significato profondo della comunicazione inviata con i suoi sintomi dal paziente che vive una situazione schizofrenica. Osservato all’interno del contesto in cui si produce avevano osservato Bateson e i suoi collaboratori -, il sintomo di questi pazienti non è il segno di un disordine del loro cervello, come sostenuto dalla psichiatria tradizionale, ma una «metafora senza virgolette»: una indicazione preziosa, in codice, del gioco tragico che si sta giocando nella famiglia e/o all’interno di un sistema terapeutico inadeguato. Del modo in cui Lieta e Grazia e i loro colleghi hanno decodificato queste comunicazioni (questi sintomi) c’è un numero di esempi nel libro che non ha paragoni nella letteratura sull’argomento ma c’è soprattutto una indicazione di metodo (la griglia, schematizzata nell’ultimo capitolo) originale e straordinariamente preziosa per chi voglia muoversi ancora oggi sulla strada maestra del capire cosa si nasconde dietro l’apparente assurdità del sintomo schizofrenico.
Rivisitati oggi, a distanza di molti anni (il libro è del 1983), gli esempi proposti da Lieta e Grazia ripropongono la possibilità di entusiasmarsi per la freschezza e l’efficacia di descrizioni che dovrebbero trovare posto, a mio avviso, nella formazione degli psichiatri che si preparano all’incontro con le manifestazioni insieme più comuni e più drammatiche della follia. Per chi, come me, già ne aveva ragionato insieme alle autrici del libro, importante, oggi, è il tentativo di inquadrarle all’interno di una rilettura più complessiva del contributo fornito dai terapeuti della famiglia alla clinica e alla terapia dei disturbi psichiatrici. Sottolineando, prima di tutto, che le riletture proposte qui da Lieta e Grazia si riferiscono soprattutto ai sintomi acuti di un disturbo che può essere o diventare compiutamente (e cioè «cronicamente») schizofrenico solo se il bisogno (la necessità o la costrizione) a utilizzare «metafore senza virgolette» diventa stabile: per ragioni ancora oggi difficili da capire sino in fondo e attribuibili comunque, almeno in ipotesi e almeno in alcuni casi, anche al modo in cui il sistema terapeutico è stato coinvolto, per la sua incapacità di decodificarla, nella «trappola della follia» con cui si è confrontato.
Malinconicamente rifletto, concludendo questa mia introduzione alla ristampa del libro che il lettore ha fra le mani, sul contributo che avrebbero potuto dare Grazia e Lieta per diradare ancora un po’ il mistero che si cela, ad un secolo da quando Bleuler ne parlò per primo, dietro il grande groviglio dei disturbi che si manifestano nel «gruppo delle schizofrenie». Tocca ad altri, e purtroppo senza di loro, il continuare a farlo. Senza dimenticare, però, il contributo lasciato dalle autrici di questo libro: prezioso in particolare oggi, nel tempo in cui il medico così spesso annulla dietro la coltre soffocante degli psicofarmaci (per ignoranza? per pigrizia? o per paura del coinvolgimento e delle responsabilità?) la sua possibilità di ragionare e di intuire sul senso del sintomo suggerita già da Bleuler e straordinariamente ampliata poi dalle ricerche del gruppo di Bateson sulla famiglia dei pazienti schizofrenici. Riportandoci all’entusiasmo creativo dei terapeuti, come Grazia e Lieta, che su questa strada così bene erano riuscite a muoversi.

l’Unità 14.4.13
Note per Montale
Un omaggio al poeta di Giovanna Marini


Il 16 aprile Giovanna Marini torna alla Sala Petrassi Studio dell’Auditorium Parco della Musica di Roma per raccontare in musica Montale con un Oratorio dal titolo «Spesso il male di vivere ho incontrato», ma anche per ripercorrere con La Terra del sacro i canti sacri della tradizione orale. Al fianco della Marini saranno: il Quartetto Urbano di Germana Mastropasqua, Flaviana Rossi, Michele Manca e Xavier Rebut; Patrizia Rotonda e il Coro Favorito.

La Stampa 14.4.13
Democrazia elettronica necessaria ma non sufficiente
di Juan Carlo De Martin


Alla Biennale, la sfida di far evolvere la partecipazione alle scelte politiche grazie a Internet. Superando la contrapposizione con il sistema rappresentativo

Parlando di democrazia, la discussione politica italiana sembra polarizzata: da una parte c’è chi prospetta, come il Movimento Cinque Stelle, una democrazia elettronica diretta, con la riduzione del ruolo dei parlamentari a quello di semplici esecutori. Dall’altra c’è chi difende la democrazia rappresentativa così come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi decenni in Italia, ritenendola, pur coi suoi difetti, il migliore dei sistemi possibili.
È necessario superare questa contrapposizione e aprire nuove strade al pensiero: le prospettive più promettenti per il futuro della democrazia, infatti, risiedono altrove. Prima di rivolgerci al futuro, però, è opportuno ricordare alcuni elementi di contesto senza i quali è difficile comprendere la situazione attuale.
Primo dato: i partiti politici italiani risultano da anni l’istituzione meno gradita agli italiani, con indici di gradimento che, a seconda dei sondaggi, scendono spesso sotto il 10%. Questo dato, oggettivamente clamoroso, non significa che gli italiani rigettino la forma partito in quanto tale; significa solo gli italiani non apprezzano i partiti italiani nella loro forma attuale. A questa crisi di legittimità – aggravata da un sempre più forte astensionismo – i partiti non hanno finora reagito in maniera adeguata.
Il secondo dato è che alla massima sfiducia nei confronti dei partiti corrisponde ancora un potere enorme, un vero e proprio monopolio della vita pubblica, senza più neanche la legittimazione derivante dall’avere molti iscritti.
Il terzo e ultimo dato è il processo noto come globalizzazione, che a partire dagli Anni 70 ha progressivamente ridotto la capacità delle democrazie di controllare l’economia, provocando, oltre al resto, un’aumento generalizzato delle diseguaglianze.
Nel complesso, dunque, non sorprende che molti cittadini ritengano di vivere in un sistema politico opaco, in cui la loro voce conta solo in occasione delle elezioni, e anche in quel caso solo all’interno di un’offerta politica che non hanno avuto alcun modo di influenzare. Una democrazia, insomma, che potremmo definire debole.
Nei decenni in cui si consolida la democrazia debole, però, ha luogo anche un altro processo, ovvero il diffondersi della rivoluzione digitale, che prima riguarda il mondo sviluppato e poi parti sempre più estese del resto del mondo (sia pure con forti limitazioni anche all’interno degli stessi paesi ricchi). Un numero crescente di persone, dotate di computer, inizia a usare Internet per comunicare, per organizzarsi, per esprimere il proprio pensiero, per informarsi e per molto altro ancora. Sono, quindi, ormai milioni i cittadini che – reagendo, anche se a volte confusamente, alla democrazia debole – hanno imparato a informarsi in maniera autonoma e pretendono coinvolgimento e trasparenza. Le loro attività online sono un magma che a volte include – come è inevitabile che sia – superficialità e paranoia, ma anche molti cittadini salutarmente critici, desiderosi di accedere alle fonti, di ripensare con la propria testa questioni fondamentali, come testimoniano i forum online di tutta Europa. Discussioni che è facile ridicolizzare, ma che – è bene ricordarlo – non sono molto diverse da quelle che hanno partorito la modernità, dalla Rivoluzione inglese in avanti.
Ma mentre milioni di cittadini usavano sempre di più la Rete per informarsi, discutere e organizzarsi, i partiti politici ignoravano – e in larga parte continuano a ignorare – la trasformazione in atto in milioni di loro potenziali elettori (soprattutto i più giovani).
Inoltre, i partiti via via al governo non hanno ritenuto che fosse una priorità introdurre – nel solco della democrazia parlamentare definita dalla Costituzione e nel rispetto del ruolo della politica – nuovi strumenti di democrazia diretta nelle istituzioni. In questo momento storico di democrazia debole nuove forme, ben calibrate, di democrazia diretta avrebbero potuto – e potrebbero ancora – acquisire una grande importanza, sia simbolica sia sostanziale.
In altre parole, mentre le conseguenze politiche di Internet sulle persone crescevano e si consolidavano, le conseguenze sulla politica rimanevano del tutto trascurabili.
Questa inerzia partitica ha consentito che si radicasse – prima in cerchie ristrette di persone e poi in settori sempre più ampi della popolazione – un interesse verso forme di democrazia diretta elettronica. In altre parole, al sistema dei partiti, visto come opaco, autoreferenziale e spesso corrotto, si è arrivati a contrapporre la democrazia diretta, giudicata intrinsecamente superiore a quella rappresentativa. Sono, però, molte le critiche che si possono fare alla democrazia elettronica applicata a comunità ampie come quelle nazionali. Innanzitutto, la critica, spesso fondata, del sistema politico italiano non deve far dimenticare che l’attività politica è un’arte essenziale per la democrazia, come scriveva Bernard Crick nel 1963 nel suo classico Difesa della politica; un’arte basata su virtù come prudenza, conciliazione, compromesso e adattabilità. La seconda critica è che c’è differenza tra sondaggio permanente e voto: la democrazia richiede ponderazione, attenta valutazione dei pro e dei contro, capacità di dare senso e coerenza ai percorsi politici. Infine la terza difficoltà è il divario digitale: un italiano su due non è digitale, e molti di coloro che non sono online sono soggetti sociali deboli, come gli anziani e le famiglie di lavoratori non qualificati, che non è accettabile escludere.
Più proficuo, dunque, riflettere su come far evolvere la democrazia rappresentativa verso forme più partecipate, verso quella che potremmo chiamare, seguendo Stefano Rodotà, democrazia continua. Le proposte in questa direzione non solo non mancano, ma in alcuni casi sono già state sperimentate con successo. Oltre al dialogo continuo eletti-elettori di cui parla Nadia Urbinati, si spazia dalle consultazioni ai bilanci partecipativi (nota è l’esperienza di Porto Alegre), dai sondaggi deliberativi proposti da James Fishkin ai referendum propositivi, dall’obbligo di discutere in Parlamento le proposte di legge d’iniziativa popolare al débat public francese. O ancora, a livello europeo, le direttive di iniziativa popolare, una novità introdotta dal Trattato di Lisbona.
Si tratta di proposte che la Rete consente di realizzare in maniera non solo più efficiente, ma anche con maggiore trasparenza e dando potenzialmente più voce a chi finora ha in genere fatto fatica a farsi sentire.
I partiti dovrebbero fare proprie queste proposte per applicarle innanzitutto a loro stessi e poi declinarle a livello locale, nazionale ed europeo. In altre parole, la via d’uscita dalla crisi attuale non è né la democrazia diretta elettronica, né la difesa dello status quo, ma un’evoluzione – condotta da partiti profondamente rinnovati (o da partiti del tutto nuovi) – della democrazia rappresentativa verso forme più partecipate: ci sarà qualcuno, nel panorama politico italiano, all’altezza della sfida?

Repubblica 14.4.13
Tullio Gregory
Storico del pensiero e gourmet il filosofo racconta le sue passioni
Oggi l’inferno non è fiamme e forconi, è la vita quotidiana di un disoccupato
“Studiando il diavolo, Galileo e Cartesio ho capito che gli spaghetti sono meglio del Prozac”
intervista di Antonio Gnoli


Tullio Gregory è nato a Roma nel 1929.
Accademico dei Lincei e professore emerito, è stato a lungo titolare della cattedra di Storia della filosofia presso “La Sapienza”

Singolare che a 84 anni Tullio Gregory abbia sentito l’urgenza di misurarsi con il diavolo. Di solito è un’età in cui ci si rivolge a Dio e alle mani benedicenti dei santi. Ma le tentazioni, a volte, non badano troppo alla carta d’identità. Perciò da questo tardivo incontro con Belzebù ne è venuto fuori un libretto arguto, leggero e dotto. Gregory vive al quinto piano di un edificio umbertino proprio di fronte a quello che i romani chiamano il “palazzaccio”, un tempo sede della Giustizia.
Vado a trovare l’uomo che con eguale acribia si è occupato del cogito cartesiano e della storia del pomodoro, di Montaigne e Carnacina, dell’io penso e dell’io mangio. Mi aggiro per la vasta casa con curiosità. Pareti di libri ovunque. Il professore (oggi emerito, un tempo ordinario di storia della filosofia a Roma) dichiara di possederne trentamila. In una stanza di passaggio fa bella mostra un oggetto che a prima vista non riconosco. Scopro essere un carrello per i bolliti. Lì, nella penombra che le tende semichiuse creano, volge la sua sagoma di alluminio e legno allo sguardo sorpreso: «Lo presi da una vecchia trattoria di Modena che stava chiudendo», dice il professore mentre accarezza la superficie del parallelepipedo.
Cosa l’ha divertita di più: occuparsi di filosofia o di cucina?
«Entrambe in modi diversi sono entrate nella mia vita. L’importante era non confondere i piani, non mescolare i codici. Insomma non fare pasticci. Occorre essere equi, dare a ciascuno il suo».
L’equità richiama il senso di giustizia, lei vive permanentemente sotto lo sguardo del “palazzaccio”. Cosa le suggerisce?
«La giustizia è una struttura burocratica lenta che va difesa. Se la mettiamo in discussione è finita. E quel palazzo di fronte che vede dalla mia finestra ha un’aria ammonitoria. Fu una delle grandi imprese umbertine. Di cui resta ben poco. È il simbolo di una città abbandonata a se stessa».
Lei è nato a Roma?
«Sì, ma da un padre milanese e una madre spezzina. Ho sempre vissuto, studiato, lavorato in questa città che, malgrado tutto, continuo ad amare».
Malgrado cosa?
«L’indifferenza, lo sbraco, la corruzione e una pubblica amministrazione che fa il possibile per renderla invivibile. La mancanza di attenzione per i nostri beni culturali fa spavento. Ma il disastro è più generale. Siamo senza attese. Come dice una canzone napoletana: “Aggio perduto ’o suonno e ’a fantasia”. Dove la fantasia è la capacità progettuale. L’uomo vive di progetti e non di pura contemplazione dei fatti. Ma il paese è stanco e senza esempi».
La filosofia aiuta?
«È uno strumento che serve a fare chiarezza nel pensiero. Ma sono scemenze le argomentazioni che dicono che essa aiuta a trovare la felicità».
Lei perché si è occupato di filosofia?
«Ebbi la fortuna a 14 anni di conoscere Ernesto Buonaiuti. Frequentai le sue lezioni sul greco nel Nuovo Testamento. Vide questo ragazzino con i pantaloni alla zuava e mi chiese che ci facevo io lì. Risposi che mi piaceva il greco. Mi venga a trovare, disse. E aggiunse: sappia però che sono un prete scomunicato. Cominciai, grazie a lui, a interessarmi di storia del cristianesimo. E poi il passo verso la filosofia non fu così lungo. Mi laureai nel 1950 con Bruno Nardi, un grande medievista e studioso di Dante».
I suoi studi sono stati a cavallo tra il Medioevo e il mondo moderno. Qual è la differenza fra queste due età?
«È nei modi di pensare. Anche se la cultura medievale entra in quella moderna — e quindi permane, sopravvive, la alimenta — in realtà c’è una frattura. La storia è fatta di smottamenti e rotture, ma è necessario capire il contesto in cui si forma la cultura dei vari Montaigne, Descartes, Galileo, per fare i nomi di alcuni protagonisti assoluti. Il loro apprendistato avviene nell’ambito della cultura scolastica».
Cosa si intende con “scolastica”?
«Una cultura di base aristotelica accomodata ad alcune esigenze della tradizione cristiana. Uscire da questo ambiente significava cambiare modo di pensare e di scrivere».
Ci faccia capire bene. Per esempio in che cosa consiste il contributo di Montaigne?
«È il primo a intuire gli effetti della scoperta del nuovo mondo. Quando negli Essais dice che tutto crolla intorno a lui, intende non solo che il mondo è finito, ma che uno nuovo si approssima. Le conquiste del moderno servono a Montaigne per negare la possibilità di soluzioni definitive».
È uno dei primi esempi di un sistema aperto e rivedibile. Diverso da Descartes che, con l’elogio del metodo, esibisce il volto duro della modernità.
«La sicurezza trionfale che mostra per le sue scoperte e intuizioni filosofiche è stupefacente. Non a caso sarà accusato di essere l’iniziatore di una nuova scolastica. Le sue analisi sul cogito sono una parte importante della rivoluzione copernicana».
E poi c’è Galilei.

Repubblica 14.4.13
Scalare con i colori la montagna Sainte-Victoire

L’ossessione che sconfisse Cézanne
di Melania Mazzucco

Un paesaggio, un edificio o un semplice oggetto, attrae irresistibilmente il pittore e lo risucchia in una sorta di vortice. Finisce per concentrarsi su quello, come se in esso fosse racchiuso il segreto della sua opera, o della sua vita. E lo dipinge da diversi punti di vista o dallo stesso, in un solo periodo o a distanza di anni. Creando una serie, come Claude Monet con la cattedrale di Rouen e le ninfee, oppure opere indipendenti, diverse una dall’altra, come Paul Cézanne con la montagna Sainte- Victoire. L’ha dipinta quaranta volte a olio, e altrettante ad acquarello.
La ripetizione è caratteristica della sua pittura analitica — tant’è che si concentrò sempre sugli stessi motivi: i bagnanti, le mele, i giocatori di carte, la moglie. Ma se queste opere sconcertanti — ritenute quasi subito la matrice dell’avanguardia del Novecento — mi lasciano ammirata e però impassibile, quelle sulla Sainte-Victoire esercitano su di me la stessa fascinazione ossessiva, quasi ipnotica, che la montagna esercitava su di lui. E quando sono andata in Provenza, mi sono accorta che la montagna non c’era più. Cioè: dopo aver visto una Sainte-Victoire di Cézanne, non si può più vedere la montagna vera, ma solo quella dipinta da lui. Così, per me, fanno le opere d’arte. Non aboliscono la realtà, ma la sostituiscono. Creano un mondo parallelo.
La Sainte-Victoire l’aveva sempre avuta sotto gli occhi, poiché era l’attrazione turistica di Aix-en-Provence, la sua città natale: cartolina già usurata dai paesaggisti locali, meta di escursioni e di scavi (vi erano stati rinvenuti fossili e uova di dinosauro). Ma Cézanne dovette consumare quasi tutta la vita per scoprire che quel blocco di calcare, mille metri di altitudine a dominio della piana circostante, non era solo una montagna.
All’inizio, era stata lo scenario romantico della sua adolescenza. Nella sottostante valle verde dell’Arc, prendeva il sole e faceva il bagno coi suoi amici del College Bourbon, fra cui l’inseparabile Émile Zola. Non pensava ancora di dipingerla: figlio di un banchiere, era destinato a studiare legge — e comunque sognava solo di andar via dalla provincia. Come fece quando, a 22 anni, raggiunse Parigi per diventare pittore. Lo notarono per il caratteraccio, la barba selvaggia, il linguaggio scurrile, lo stile brutale — insomma per il personaggio del pittore anti-accademico, rifiutato dai Salon. Dagli impressionisti, il cui movimento costeggiò, apprese la lezione decisiva: dipingere all’aperto, nella natura. Però, salvo una volta, la montagna sembrava scomparsa dalla sua memoria e dalla sua pittura. Finché, nel 1886, lasciò Parigi per stabilirsi definitivamente ad Aix.
Voltò le spalle alla metropoli, alla speranza di gloria e alle relazioni sociali, e scelse di vivere isolato, dedicandosi solo all’esercizio della pittura, come un artigiano (dissero che vestiva «come un vetraio»). E quasi subito, la Sainte-Victoire diventa il motivo dominante. Prima la dipinge da lontano, dalla casa della sorella; poi dalle cave abbandonate di Bibémus. Infine, dopo il 1902 identifica il punto giusto. Quell’anno, infatti, Cézanne si trasferisce nella casa-atelier che si è fatto costruire a Les Lauves, su una collina sopra Aix. È come una rivelazione.
Cézanne esce dalla sua casaatelier con la scatola di colori, risale la collina per un chilometro e sistema il cavalletto in un uliveto. Tutte le ultime Sainte-Victoire (una decina a olio, 17 ad acquerello) sono dipinte da questo stesso punto di vista frontale, con spostamenti a sinistra o a destra che sembrano corrispondere al movimento reale del pittore. Sono quadri molto simili, spesso dello stesso formato: la montagna invade la superficie pittorica. La Sainte-Victoire di Zurigo è una delle ultime. Cézanne la dipinge forse intorno al 1904: è invecchiato precocemente, soffre di diabete, lamenta la crescente miopia.
Il quadro sembra dipinto in fretta, con una fitta trama di pennellate verticali, furiose, frante, quasi febbrili. Si ha l’impressione di guardare un’immagine fuori fuoco, un flusso di sensazioni a colori, un quadro astratto, una foresta vibrante, una tappezzeria indecifrabile. La visione è così sintetica che solo aguzzando lo sguardo nella tessitura cromatica si riconoscono le forme e i volumi: la macchia ocra in basso sulla sinistra riassume una casa, i tocchi di verde sono gli olivi della piana, i bianchi della canapa
non dipinta i riflessi della luce sui campi. La montagna è una massa blu che si erge a due terzi della tela: la linea parallela all’orizzonte rende l’estensione, la linea perpendicolare la profondità; le nuvole verdi del cielo riflettono gli alberi, perché ciò che vediamo non è l’apparenza del paesaggio colto in un istante, ma la sua essenza unitaria e armoniosa nella persistenza della durata. Forse il quadro fu lasciato incompiuto. O forse Cézanne ritenne che il non-finito fosse il linguaggio più appropriato per restituire la sensazione esatta della sera — quando i contorni fluttuano, la montagna sta per essere inghiottita dall’oscurità, la pesantezza si dissolve e lascia spazio alla malinconia.
A un amico, in quei giorni, scrisse di essere vicino alla realizzazione
di sé in arte: l’esperienza di una vita intera gli aveva infine permesso di appropriarsi dei mezzi per esprimere l’emozione. Nell’ottobre del 1906, durante una sessione di pittura all’aperto, fu sorpreso da un temporale ed ebbe un malore. Fu ritrovato più tardi, fradicio e intirizzito. Aveva sempre detto di voler morire col pennello in mano e quasi ci riuscì: la polmonite se lo portò via in pochi giorni. Guardando le sue estreme Sainte- Victoire, dipinte da Les Lauves, si comprende che quel monolite roccioso, duro, frustato dal vento, che svetta solitario sulla pianura sottostante, assomigliava a lui — e per questo in esso si era riconosciuto. Cézanne è seduto davanti alla montagna. Elimina dal quadro tutto ciò che disturba: le tracce degli uomini, le strade, il viadotto — perfino le case e gli alberi. Dialoga con lei, da solo a sola: guardandosi
come in uno specchio.
Paul Cézanne: La montagna Sainte-Victoire (1904-1906) olio su tela, Zurigo Kunsthaus

Repubblica 14.4.13
A 1700 anni dall’Editto di Milano arriva, ampliata, nella capitale la mostra sull’imperatore che si convertì al cristianesimo e concesse la libertà di culto
Costantino. Al Colosseo la storia dell’uomo che cambiò il mondo
di Giuseppe M. Della Fina


Costantino 313 d. C., arriva al Colosseo ampliata rispetto a quella di Milano, e nella capitale il tema prevalente diviene il rapporto tra l’imperatore e Roma, più problematico di quello che si sarebbe indotti a pensare.
Da un lato dobbiamo considerare infatti il poco tempo trascorso da Costantino nell’Urbe dove entrò, per la prima volta, dopo la vittoria riportata nella battaglia di Ponte Milvio e vi ritornò soltanto in altre due occasioni: è stato calcolato che complessivamente, in più di 31 anni di regno, non vi trascorse che qualche mese. Va ricordata poi la sua attenzione per altre grandi città, prima fra tutte Costantinopoli che ne fece, come ha osservato Ranuccio Bianchi Bandinelli: “la nuova capitale dell’Impero, più prossima alla difficile frontiera orientale, la nuova Roma, lontana dalle ingerenze politiche dell’aristocrazia senatoria”. E ancora una certa freddezza con l’aristocrazia della capitale restata in buona parte fedele alla religione tradizionale. Un distacco che diviene evidente nella frase attribuita a Costantino: “Serdica [l’attuale Sofia] è la mia Roma”.
Dall’altro lato occorre osservare che gli interventi nell’assetto urbano di Roma furono numerosi e arrivarono a mutarne l’aspetto: si è parlato a ragione della nascita di una Roma di Costantino in grado di condizionare il paesaggio urbano per decenni. Lungo il percorso espositivo le tracce di questa intensa attività edilizia, finalizzata all’affermazione di una Roma cristiana accanto a quella pagana, sono presentate attraverso capitelli, lesene, fregi architettonici, frammenti di lastre di soffitto, fusti di colonna. Le decorazioni rinviano a motivi tradizionali, ma tra essi s’inseriscono schemi e temi nuovi. Reperti non particolarmente preziosi, ma che riescono a dare un’idea della vitalità dei cantieri in attività e della trasformazione sociale e culturale in atto.
Una fretta di portare a termine edifici, chiese, dimore, singoli monumenti che prende spesso la scorciatoia del riuso – talora quasi del saccheggio – delle costruzioni precedenti: fortemente indicativo in proposito è il materiale di spoglio utilizzato nella costruzione dello stesso Arco di Costantino: rilievi traianei, adrianei, dell’epoca di Marco Aurelio. In questa frenesia compositiva non deve sfuggire la volontà di onorare Costantino attraverso il ricordo di tutti gli imperatori più venerati, dopo Augusto, nella memoria dei romani. L’aspetto pratico del riuso non deve arrivare a cancellare il valore simbolico riconosciuto ad opere (o a frammenti di esse) testimoni di un’epoca precedente con la quale occorreva misurarsi sia che s’indulgesse al rimpianto sia che la si volesse superare.
In mostra sono confluiti poi – con notevole merito - reperti di recentissimo ritrovamento come i gioielli rinvenuti nel luglio del 2012 in una tomba a pavimento scoperta all’interno di una basilica “a deambulatorio” (una caratteristica architettonica comune proprio a un gruppo di edifici del suburbio di Roma costruiti in età costantiniana) rinvenuta sulla via Ardeatina. In essa si è voluta riconoscere la chiesa fatta edificare da papa Marco nel 336 d.C. per svolgere la funzione di luogo di sepoltura per la comunità cristiana grazie anche al sostegno finanziario di Costantino. Essa accolse, con ogni probabilità, la stessa tomba del pontefice.
Infine si può menzionare un capolavoro assoluto: il pannello a intarsio di marmi policromi appartenente alla decorazione delle pareti della Basilica di Giunio Basso: il centro della scena è occupato da un magistrato su una biga che guida la pompa circensis, la parata che apriva i giochi. Di nuovo un alternarsi tra la Roma pagana e quella cristiana.

Repubblica 14.4.13
Da Ponte Milvio all’Editto di Milano
Dopo la vittoria contro Massenzio e Licinio ottenne il potere assoluto, ma mancava ancora un’ideologia
Per questo scelse il nuovo dio dei cristiani e piegò le parole di Virgilio per farlo accettare dai romani
di Maurizio Bettini


ROMA Quando Costantino, nel 312, decise di attaccare Massenzio, in realtà si era solo all’inizio. I territori dell’impero erano allora divisi fra Massimino Daia, Licinio e Costantino stesso, mentre Massenzio aveva il controllo su Roma. Costantino era animato da un progetto ambizioso, che lo avrebbe portato al dominio assoluto, e aveva deciso di cominciare da Roma. Ma quale dio avrebbe potuto garantirgli, con la sua protezione, una vittoria tutt’altro che facile?
Negli anni precedenti la religione cristiana era stata oggetto di persecuzione, prima da parte di Diocleziano, poi di Galerio. Non sorprende dunque che Costantino, alla vigilia della sua discesa verso Roma, fosse ancora incerto sulla scelta della divinità che meglio avrebbe potuto sostenere la sua impresa. Ercole? Il Sol invictus?
Oppure il dio dei cristiani? In quell’epoca erano ancora molte, infatti, le potenze divine che avrebbero potuto offrire il proprio appoggio a un comandante ambizioso. Costantino aveva visto che i suoi predecessori, fedeli agli dèi tradizionali, erano stati sconfitti; mentre si diceva che Costanzo Cloro, suo padre, fosse stato più fortunato degli altri proprio perché seguace del dio dei cristiani. Al momento, comunque, Costantino riponeva ancora la sua fiducia nel Sol invictus, una divinità che aveva raggiunto una posizione di assoluto rilievo nel pantheon dei Romani. Salvo che una volta disceso a Roma, e in procinto di affrontare truppe superiori alle proprie, egli ebbe prima un sogno, poi, a conferma, una visione: il famoso monogramma del Cristo, il Chiros del-l’In
hoc signo vinces.
Avvenne così la conversione al cristianesimo e con lei, l’insperato successo su Massenzio a Ponte Milvio. Così, almeno, narrano gli storici.
Inutile sottolineare che questo evento del 312 era destinato ad avere enormi ripercussioni sul seguito della storia europea — e non solo europea. La scelta religiosa di Costantino fu dettata da sentimenti sinceri o da calcolo politico? Questa domanda ha agitato a lungo il mondo degli studi, e non solo questo, dato che in gioco c’era una posta tanto storica quanto teologica. Si tratta ovviamente di una domanda a cui è impossibile dare una risposta. Peraltro, varrà la pena di ricordare che la presenza del
Sol invictus è ancora testimoniata nei rilievi del celebre Arco dedicato a Costantino dopo la vittoria su Massenzio, mentre monete recanti simboli del culto solare si continuarono a coniare anche dopo il 312. Senza dimenticare che, nel foro di Costantinopoli, l’imperatore fa un giorno riadattare per sé una statua colossale, già di Apollo, sostituendo alla testa del dio la propria sormontata da una corona di raggi. Segno di come i cammini della storia, anche di quella religiosa, siano tutt’altro che rettilinei. Ma abbastanza inaspettatamente, ecco entrare in scena anche un grande poeta, Virgilio. In che modo?
Negli anni successivi alla vittoria di Ponte Milvio, Costantino aveva continuato a perseguire il suo progetto, favorito dall’eliminazione di Massimino Daia da parte di Licinio. Non rimaneva che costui a sbarrargli il cammino verso il controllo dell’impero, e Costantino lo sconfisse nel 324 a Crisopoli. Nel frattempo i provvedimenti a favore dei cristiani e della loro religione si erano moltiplicati, con il famoso “editto di Milano” — emanato esattamente 1.700 anni fa — (che assegnava loro libertà di culto), il riconoscimento della domenica come giorno festivo, l’esenzione dei ministri del culto dai doveri fiscali. Ma che c’entra Virgilio?
Era accaduto che in un periodo imprecisato fra il 312 e il 324 Costantino stesso, se non qualche letterato di corte a suo nome, aveva composto un’orazione destinata a esser letta in occasione del Venerdì santo. In essa trovava posto anche una traduzione in greco della quarta Ecloga di Virgilio, l’enigmatica composizione in cui il mantovano, appellandosi a un oracolo della Sibilla, celebrava l’avvento di una nuova era di pace, propiziata dalla nascita di un misterioso puer.
In quest’ecloga Virgilio, in pieno conflitto civile fra Ottaviano e Antonio, profetizzava la rinascita del cosmo e la discesa dal cielo di una nuova progenie; la vergine, cioè la giustizia, sarebbe finalmente tornata fra gli uomini, e il misterioso bambino avrebbe infine ricevuto onori divini. Chi era questo puer?
Si trattava di un figlio del console Pollione, a cui l’ecloga era peraltro dedicata? Oppure il poeta intendeva riferirsi alla futura prole di Ottaviano e Antonia, uniti in un fragile matrimonio che non riuscì a riportare la pace fra i due contendenti?
Costantino (o l’ignoto autore dell’orazione) risolse l’enigma in modo brillante, ossia identificando il bambino con Gesù, disceso fra gli uomini per portare la salvezza, e destinato a “ricevere la vita di Dio”. La vergine giustizia fu mutata nella Vergine Maria, “che riporta l’amabile re”, e l’intera ecloga venne abilmente cristianizzata, modificandone il testo (complice la traduzione in greco) là dove occorreva, e attribuendo a Virgilio il ruolo di profeta della nuova religione. Non era cosa da poco. Il mantovano era considerato non solo il maggior poeta di Roma, ma una sorta di savio universale, e poterlo iscrivere nelle file dei cristiani non poteva che accrescere enormemente la loro autorità culturale. In realtà l’idea di avvicinare Virgilio alla nuova religione era stata già di Lattanzio, chiamato a corte per educare uno dei figli di Costantino. I cristiani sostenevano infatti che negli oracoli della Sibilla Cumana, uno dei testi profetici più autorevoli dell’antichità, sarebbe stato già preannunciato l’avvento del Salvatore. Ebbene, la quarta Ecloga di Virgilio non prendeva forse avvio proprio da un oracolo della profetessa? «È giunta l’ultima era della profezia di Cuma…» cantava Virgilio. Solo che Lattanzio non era arrivato al punto di trasformare l’intera poema in un testo cristiano, e di fare del mantovano un profeta a pieno titolo. Costantino ebbe il coraggio di farlo, e quest’abile leggenda letteraria non solo sarà accettata da Dante, ma continuerà a trovare sostenitori fino ai giorni nostri.

Repubblica 14.4.13
Augusta e santa, la leggenda della madre Elena
Un libro ricostruisce il suo ruolo chiave nella decisione del figlio
di Raffaella De Sanctis


Costantino sapeva di dover gran parte della sua fortuna a sua madre. Per questo, una volta diventato imperatore, nel 324 d. C., volle che Elena fosse qualificata Augusta, epiteto in genere destinato alle mogli. Di lei sappiamo pochissimo, ma la vaghezza delle notizie ha contribuito alla nascita della sua leggenda. Dei personaggi mitici Elena ha tutte le caratteristiche. Viene dal basso (lavorava con ogni probabilità nelle taverne come locandiera), era una concubina (Costanzo Cloro, padre di Costantino, non la sposò, preferendole Teodora, figlia dell’imperatore Massimiano), è stata un’amante abbandonata e una madre costretta a vivere nell’ombra.
Ci sono donne che non solo segnano il loro tempo, ma anticipano il futuro. Elena ha capito di vivere all’incrocio di due mondi, quello pagano e quello cristiano, e ha saputo guardare a entrambi: imperatrice e santa, donna di potere e viaggiatrice in Palestina. Sarà grazie a lei che Costantino si avvicinerà alla fede cristiana, e concederà poi la libertà di culto.
Elena era consapevole di sé, era una donna forte e lo trasmetteva anche nel modo di vestire o nelle acconciature che sceglieva, adornandosi di gioielli e impreziosendo la sua figura con un diadema incastonato tra i capelli. I suoi ritratti parlano meglio di qualsiasi lacunosa fonte scritta. Nel libro Elena. All’ombra del potere che accompagna la mostra (edizioni Electa, pagg. 96, euro 19, realizzato col sostegno della Fondazione Bracco), Elena Calandra, soprintendente per i beni archeologici del Lazio, spiega l’importanza storica della madre di Costantino analizzando le iconografie che la riguardano, dalle raffigurazioni sulle monete alle statue (in coda al volume un album di illustrazioni mostra i reperti presi in esame).
L’imperatrice amava indossare monili, ma in lei non c’era alcun tentativo di sembrare più giovane: nelle immagini che ci sono giunte il naso conserva la sua naturale curvatura aquilina (come nel solido Ticinum conservato al British Museum), il viso appare a volte troppo pieno, altre stanco e scavato (è il caso del solido Sirmium), sempre comunque segnato da profonde occhiaie, come accade in una donna matura. Elena doveva simboleggiare la Securitas e non c’è maggior sicurezza, certo, di quella di una donna che regna sovrana sul tempo che passa. Da qui la scelta di farsi effigiare con la sua età reale, puntando più sui simboli del rango e del ruolo imperiale che sulla bellezza.
Della sua vita si innamorò lo scrittore britannico Evelyn Waugh, raccontandone, in un romanzo del 1950 intitolato Helena, l’anima cristiana di pellegrina in Terra Santa all’età di settant’anni. Fu l’ultimo atto coraggioso della sua vita: il passaggio dal ruolo dinastico all’evergetismo, una forma che la spinse a costruire chiese a Gerusalemme e sul Monte degli Olivi, diventando “ambasciatrice” del potere del figlio all’interno dell’Impero. Il ritrovamento della Vera Croce inaugurerà un altro capitolo della sua storia, che Piero Della Francesca rese celeberrimo negli affreschi di Arezzo.

Repubblica 14.4.13
Lagrange. Il sistema del mondo spiegato ai politici
di Piergiorgio Odifreddi


Duecento anni fa, il 10 aprile 1813, moriva a Parigi il matematico Joseph Louis Lagrange, che era nato a Torino settantasette anni prima, come Giuseppe Luigi Lagrangia. Ma anche nella sua città natale il cognome rimane francesizzato, nella centrale Via Lagrange, e nell’adiacente Piazza Lagrange: dove ancora sorge una sua statua, con una dedica compromissoria a Luigi Lagrange. Il suo nome, rigorosamente in francese, è passato alla storia insieme a quello del collega Pierre Simone Laplace, perché i due insieme hanno rivoluzionato la matematica e l’astronomia del loro tempo. E insieme sono stati protagonisti di un curioso episodio nel 1802. L’8 agosto Napoleone assistette a una conferenza di Laplace, modestamente dedicata a spiegare “il sistema del mondo”. Alla fine l’imperatore, che era un matematico dilettante, domandò al conferenziere come mai non avesse mai fatto il nome di Dio. E Laplace rispose: «Perché non ho bisogno di quell’ipotesi». Pochi giorni dopo Napoleone incontrò Lagrange, e gli riferì l’accaduto. Ed egli rispose: «E’ vero. Però era una bella ipotesi, che spiegava facilmente molte cose».
Colloqui come quelli, tra scienziati e capi di stato, sono difficilmente riproducibili ai nostri tempi. Benché a volte anche oggi al potere ci vada qualcuno che (di scienza) capisce qualcosa. Ad esempio, la signora Angela Merkel, primo ministro tedesco, è laureata in fisica e addottorata in chimica quantistica. E Abdul Kalam, presidente dell’India, che è pure lui un fisico, è passato direttamente dalla cattedra alla presidenza. Da noi si discute invece se il nostro prossimo presidente debba essere donna, non se debba capire qualcosa (di scienza): ognuno ha ciò che si merita.

Repubblica 14.4.13
La vera materia di cui sono fatti i sogni
di Francesca Bolino


Tutti esperiamo l’alternanza di pensiero cosciente e di immagini che ci vengono incontro e che non riusciamo a decifrare e a catalogare: è il sogno. Da dove balza fuori?
Apparentemente dal nulla. Eppure questa continua oscillazione ci mette davanti alla consapevolezza che ci destreggiamo tra due universi paralleli organizzati con categorie diverse ma presenti nella mente di ciascuno. Platone aveva già capito tutto.
La “psyche” o anima diventa il vero centro della vita: un piccolissimo universo autonomo in cui si scrive la storia di ognuno e si matura la memoria di ogni esperienza. L’anima è il vero Io e «bisogna prendersene cura più che di ogni altra cosa».
Da allora il sogno è l’inseparabile Compagno dell’anima. Ed è questo il tema del saggio di Giulio Guidorizzi, ordinario di Letteratura greca all’Università di Torino. L’anima ha parti divine ma anche bestiali: quindi il sogno è ambivalente e «può esprimere ora l’una ora l’altra parte», diceva Platone. Anche Eschilo aveva ragione; aveva già descritto quello che viviamo oggi: «quando dorme la mente scintilla di mille occhi, mentre di giorno gli uomini sono di vista corta».
IL COMPAGNO DELL’ANIMA di Giulio Guidorizzi, Raffaello Cortina, pagg. 254, euro 21

Corriere 14.4.13
Una rivista sulle «ore fatali» della Storia


Da venerdì 19 aprile sarà in edicola il mensile «Mondo nuovo» (editore MyWayMedia), mensile di storia moderna diretto da Lanfranco Vaccari che, nell'editoriale del primo numero, spiega il senso editoriale del progetto: «Far rivivere gli avvenimenti decisivi del periodo attraverso quelli che Stefan Zweig chiamava le "ore stellari", che "fulgide e immutabili come le stelle risplendono sopra la notte dell'umana caducità"». Sono, in altre parole, i «momenti fatali in cui tutto si comprime e tutto si decide fino a determinare il destino di un individuo, di un popolo o addirittura dell'intera umanità». Nel primo numero, tra gli altri, Federico Bini racconta il mondo che Colombo ha creato — storia di copertina —, David Bidussa la scoperta del sesso durante l'illuminismo, Claudio Serra racconta la scoperta del cervello e Dino Carpanetto la Russia contro Napoleone.