lunedì 15 aprile 2013

l’Unità 15.4.13
Quirinale, i giorni dei veti
Pd-Sel: inaccettabile il veto su Prodi
Lo strappo di Renzi: no a Marini e Finocchiaro
La consultazione dei parlamentari democratici: cercare l’intesa per l’elezione al primo voto
di Ninni Andriolo


Apochi giorni dall’elezione del Capo dello Stato Berlusconi gioca sui veti, ma cambia tattica e gioco. E dopo aver sbarrato la strada a ipotesi diverse da quelle del governissimo, affida a Bondi il compito di indicare altre strade. «Se dovesse persistere l’indisponibilità del Pd a far nascere un governo politico sottolinea il coordinatore del Pdl l’unica soluzione seria che resterebbe è quella di un governo del presidente o di scopo». Dopo aver arringato la folla di Bari ripetendo lo slogan “governissimo o voto” il leader Pdl rende ufficiale la posizione che traspariva nelle sue dichiarazioni della scorsa settimana. La disponibilità, cioè, a individuare variabili all’esecutivo delle larghe intese, costretto a prendere atto della indisponibilità del Partito democratico.
La dichiarazione di Bondi conferma che il Cavaliere, al di là della propaganda, considera le elezioni una extrema ratio da utilizzare come «arma di pressione». La conversione al governo di scopo non rappresenta «uno scivolo» verso il governo di cambiamento che propone Bersani. Ma sussurrano dal Pdl un modo per creare «difficoltà» al segretario democratico. L’ipotesi di uscire dallo stallo con un governo di scopo o del presidente riscontra consensi anche dentro il Pd e il Cavaliere prova a incunearsi nel dibattito interno al partito, se non addirittura ad anticipare scelte che potrebbero rivelarsi obbligate dopo l’elezione del Capo dello Stato. La richiesta Pdl di una soluzione “condivisa” per il Colle è stata accompagnata sabato scorso dal perentorio veto di Berlusconi contro Romano Prodi.
Bruciano ancora le ferite delle sconfitte elettorali che il Professore ha inferto al Cavaliere: «Se sarà eletto presidente andremo tutti all’estero», ha avvertito da Bari. «Non vorrei che si creasse un problema di emigrazione di massa questa la replica l’ex presidente della Commissione Ue Nella cosiddetta corsa per il Quirinale non ci si iscrive e non ci si deve nemmeno pensare». L’attacco del leader Pdl al padre fondatore del Pd crea malumore nel partito di Bersani. «È assurdo parlare dell’ex premier come di una figura che divide», spiega il deputato democratico Sandro Gozi. «In una democrazia parlamentare i veti sono inaccettabili sottolinea Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd E lo sono in modo particolare se sono diretti contro personalità politiche che hanno dato molto all’Italia».
Nichi Vendola, intervistato da Lucia Annunziata, trova «intollerabile che si possa pensare all’esclusione di Prodi» per il Quirinale. Vendola auspica il metodo Boldrini-Grasso anche per l’elezione del Capo dello Stato sollevando dal Pdl un coro di polemiche contro la sinistra che «vuole occupare anche il Quirinale». Berlusconi mette le mani avanti e non si fida, pur sapendo che Bersani ricerca «con onestà» una soluzione condivisa da far decollare il 18 aprile, giorno delle prime votazioni. Il Pd farà di tutto per battere questa strada. Segretario e capigruppo alla Camera e al Senato proseguono le consultazioni con le altre forze politiche avviate la scorsa settimana. Zanda e Speranza incontreranno domani il M5S, Bersani dovrebbe rivedere Berlusconi nelle prossime ore.
Le presidenze Pd a Montecitorio e Palazzo Madama sondano i parlamentari ai quali, prima di giovedì, Bersani avanzerà la proposta definitiva per il Colle. «Una parte molto ampia dei senatori democratici, anzi la quasi totalità spiega Zanda è favorevole a una scelta largamente condivisa che possa portare a eleggere il nuovo presidente nelle primissime votazioni». Marini, Amato, Finocchiaro: questa la rosa delle candidature più probabili che verrebbe avanzata alle altre forze tenendo conto della necessità di ricercare figure di alto profilo politico-istituzionale per un settennato che si preannuncia difficile.
Dopo aver detto «no» a Franco Marini, Matteo Renzi ieri ha aggiunto al suo personale elenco di bocciati anche il nome di Anna Finocchiaro. «Sarebbe bello un presidente donna, ma leggo nomi sui giornali che sono improbabili ha affermato il sindaco di Firenze Finocchiaro la ricordiamo per la splendida spesa all’Ikea con il carrello umano».
Un attacco senza sconti all’ex capogruppo al Senato che ricorda la stagione delle primarie e della rottamazione. Veti ad esponenti di primo piano del Pd, dal Pdl ma anche dallo stesso del Partito democratico. Senza un vasto accordo parlamentare, anche con il partito di Berlusconi, alla quarta votazione è certo che tornerà in campo anche il nome di Prodi, emerso tra l’altro dal referendum on line del M5S (che oggi indicherà la candidatura definitiva). Nel Pd c’è molto fermento in queste ore. Tra i parlamentari non solo renziani c’è chi annuncia battaglia perché «la ricerca di una figura d’alto profilo non va sacrificata sull’altare di una candidatura condivisa ad ogni costo».
Dal Nazareno, però, assicurano che le scelte per il Colle non saranno «al ribasso» e che la condivisione, anche con il Pdl, verrà perseguita «fino a prova contraria». Il Pd «sta lavorando affinché il presidente della Repubblica sia individuato a larghissima maggioranza, visto che deve rappresentare l’unità della nazione chiarisce Davide Zoggia, deputato del Pd. I giudizi superficiali letti in queste ore sulle persone servono non a individuare un nome rispondente alle caratteristiche auspicate, ma solo a creare confusione e divisioni».

l’Unità 15.4.13
Fassina: «Eleggere subito un presidente di garanzia»
«Inaccettabili le sortite di chi dice no a questo o quel nome: si antepone l’ambizione personale all’interesse generale del Paese»
intervista di Maria Zegarelli


«Il nostro obiettivo deve essere quello di eleggere il nuovo presidente della Repubblica giovedì stesso». Stefano Fassina, responsabile Economia del Nazareno, teme che il paziente lavoro di questi ultimi giorni per trovare l’intesa con il Pdl e con le altre forze politiche in Parlamento, Grillo permettendo, possa saltare. «Un’ipotesi da scongiurare perché sarebbe un messaggio davvero brutto per il Paese», commenta.
Fassina, il rischio è che ci arriviate voi del Pd spaccati. Gli ex popolari vorrebbero Marini, Renzi lo ha già bocciato, come ha bocciato Finocchiaro. Non mi sembra un buon inizio.
«Vorrei ricordare a tutti che abbiamo dato un mandato all’unanimità al segretario, prima in direzione e poi nei gruppi parlamentari, per cercare una soluzione in grado di raccogliere un’ampia convergenza sul presidente della Repubblica. Una figura di garanzia per la Costituzione e che raccolga il consenso di un ampio schieramento politico. Non capisco, dunque, le continue sortite di singoli parlamentario o di Renzi che dicono sì o no a questo o quel nome. A che titolo parlano e come si collocano rispetto al mandato che abbiamo dato a Bersani? Forse i sondaggi iniziano a dare alla testa anche nel nostro partito».
Ammetterà che quello è lo snodo cruciale.
«A me sembra che chi fa questo gioco continua ad anteporre ambizioni personali all’interesse generale del Paese». Da Sel Vendola sostiene intollerabili i veti su Romano Prodi. Il punto è che il veto più grande lo ha posto Berlusconi. Come ne esce il Pd?
«I veti non vanno messi nei confronti di alcuno, tantomeno nei confronti di una personalità autorevole e del rango di Prodi. Dopodiché ritorno al nostro obiettivo, quello che il Pd si è dato: la ricerca di una soluzione autorevole, riconosciuta dai cittadini e da un ampio arco di forze politiche. Non possiamo permetterci di sbagliare su questo per un’uscita concordata dalla seconda Repubblica».
Crede che alla fine i gruppi parlamentari terranno sul nome che il segretario vi proporrà o ci saranno franchi tiratori?
«In un partito si discute nelle sedi previste, in questo caso i gruppi parlamentari, seguendo i criteri che ci si dà. Se è necessario si può anche votare a maggioranza sulla decisione finale, ma da quel momento in poi si rispetta la maggioranza e non esistono franchi tiratori».
Malgrado Bersani dica che si tratta di due partite distinte è evidente che chi punta ad andare al voto non ha alcun interesse a che si arrivi ad un presidente largamente condiviso.
«Non c’è dubbio che c’è, a partire da Berlusconi, chi vorrebbe fare uno scambio tra presidente della Repubblica e governo. Questo è inaccettabile, il principio di corresponsabilità si declina in modo diverso sul versante della riscrittura delle regole e del Presidente della Repubblica da un lato e dall’altro per il governo. Sul primo versante la corresponsabilità deve essere piena, sul secondo deve prevalere la coerenza rispetto al programma di governo».
Ma al governo di cambiamento sono sempre di meno quello che ci credono nel suo partito. Da Veltroni allo stesso D’Alema, sono sempre di più quelli che lo ritengono di difficile realizzazione. «Qualunque altro governo, diverso da quello di cambiamento proposto da Bersani, sarebbe un governo di piccolo cabotaggio, di continui compromessi al ribasso, che amplierebbe il divario tra istituzioni e cittadini. La determinazione a perseguire un governo di cambiamento non è un capriccio di Bersani ma la convinzione che il Paese ha bisogno di misure incisive, forti, soprattutto in tema di economia, welfare, lavoro e moralità nella vita pubblica».
Le ripeto: nel suo partito c’è chi non ci crede. Perché con il nuovo presidente della Repubblica dovrebbe essere possibile ciò che finora non lo è stato? «Perché cambierebbe il clima, ci sarebbe minore conflittualità tra le forze politiche dopo aver condiviso la scelta di un presidente della Repubblica. Un presidente che, nel pieno dei propri poteri, potrebbe anche sciogliere le Camere. Sinceramente non capisco quanti fin da ora si rassegnano rinunciando a fare un tentativo, che invece ritengo necessario, per dare al Paese un governo di cambiamento vero».
Nel Pd intanto si è già aperta la fase congressuale. Gli ex popolari non gradiscono l’idea di un partito con Sel e il Manifesto di Barca. Tutta questa carne al fuoco non rischia di far bruciare il Pd? «Queste mi sembrano discussioni premature, sarebbe meglio concentrarci tutti sulla stretta attualità. È una discussione insopportabilmente politicista. La Memoria di Barca è la Memoria di Barca, non il manifesto di una parte del Pd. Il congresso si dovrà fare in modo serio, ripensando profondamente al Paese e all’Europa, le risposte alle nuove sfide un partito non può darle aggiungendo pezzi alla sua sinistra o alla sua destra. C’è bisogno di una visione all’altezza del tornante storico nel quale siamo interloquendo anche con quella parte di pensiero cattolico critico verso il liberismo e che parla di crisi antropologica. A chi teme uno spostamento a sinistra del Pd dico che dobbiamo confrontarci nell’analisi della fase e nella visione per affrontare le sfide inedite che abbiamo di fronte per contribuire a riportare l’Ue verso obiettivi di progresso. Nessuno vuole tornare indietro a modelli inservibili».

l’Unità 15.4.13
Un presidente senza diktat
di Michele Prospero


UN’AMPIA CONVERGENZA PER L’ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO CONTINUA AD ESSERE UNA NECESSITÀ ineludibile per preservare un delicato spazio simbolico e istituzionale comune in un sistema tripolare attraversato da profonde linee di frattura. In situazioni estreme, il Pd potrebbe anche tentare la carta di una conduzione solitaria della partita per il Colle. Ma un presidente della Repubblica eletto manu militari da una coalizione blindata, che a febbraio ha ottenuto solo il trenta per cento dei voti, sarebbe il segno di una inaccettabile volontà di potenza che approfondirebbe le tracce della crisi.
Esprimere con responsabilità larga un presidente all’altezza della crisi del sistema, questo è il compito che sta dinanzi ai grandi elettori nei prossimi giorni. Cercare di individuare una figura di garanzia e di equilibrio, quando è franato malamente il terreno del tradizionale sistema dei partiti, non è un lavoro agevole.
Per questo è importante condividere anzitutto il discorso sul metodo. Che significa non certo una divagazione sui massimi sistemi ma un sobrio tentativo di concordare una tipologia di capo di Stato non partigiano, da investire con un puntuale mandato storico-politico: conservare le condizioni di agibilità di una democrazia rappresentativa avvolta in una spirale distruttiva che potrebbe spingerla verso derive carismatiche e plebiscitarie.
Questo sforzo di disegnare un inquilino del Quirinale che unisca nelle situazioni critiche le irriducibili differenze politiche, nel senso più autentico di un regime parlamentare, e non sia agitato da uno spirito di fazione, esige una maturità politica degli attori che purtroppo non è presente in tutte le forze ospitate in Parlamento.
La commedia ancora una volta recitata da Berlusconi nella piazza di Bari appare di una enorme e disarmante gravità. Come un nipotino (ridicolo) del D’Annunzio fiumano, il Cavaliere nel suo spettacolo (improponibile chiamarlo comizio) ha giocato con l’abituale disco rotto dell’acclamazione. Ha nominato cioè Romano Prodi gettandolo in pasto alla folla per ricevere delle prevedibili e sollecitate manifestazioni rumorose di disapprovazione e di irrisione. Inqualificabile sceneggiata. La (in)cultura istituzionale di Berlusconi del resto non finisce di colpire e non trova mai argini fermi la sua incontenibile rincorsa del peggio. Una cosa è comunque chiara. Prodi, per il suo prestigio, per la sua credibilità anche internazionale, per la sua trasparente correttezza istituzionale dimostrata alla guida del governo, rientra a pieno titolo nella ristretta rosa di personalità provviste di grande autorevolezza (da Marini a Violante, da D’Alema a Finocchiaro) intorno alle quali il centrosinistra può ottenere una generale convergenza dei gruppi parlamentari.
Il cammino accidentato che conduce a una elezione del capo dello Stato con il sostegno di una larga maggioranza non autorizza plateali poteri di veto, calcoli puerili, ricatti risibili, miraggi di scambi improbabili. E questo riguarda tutti: compreso chi nel Pd vorrebbe esercitarsi in pericolosi e sgradevoli diktat. Un presidente, inteso come figura di equilibrio e di rassicurazione, è un tassello centrale nell’opera di ricostruzione democratica da avviare con coerenza per restituire funzionalità a un sistema parlamentare in affanno. È un interesse di tutte le formazioni rappresentate nel nuovo sistema politico progettare per il Quirinale una dimora di stabilizzazione e di garanzia. Senza gesti provocatori e senza uno spirito di fazione è ancora possibile trovare l’inquilino giusto.

l’Unità 15.4.13
Barca e il rinnovamento della politica
Bisogna rimotivarci all’antica idea che vi sia un’ingiustizia da abbattere e che ci sia
un giudice a Berlino
di Gianni Cuperlo


CONOSCO FABRIZIO BARCA PER IL SUO PROFILO E LA QUALITÀ DEL LAVORO MA OGGI LA PRIMA REAZIONE CHE SUSCITA IN ME È DI GRANDE SIMPATIA. Quella che si prova quando incroci uno intento a fendere la folla nella direzione opposta al flusso. Barca è uno dei pochi che dopo un sacco di tempo anziché muovere da un partito verso le istituzioni sceglie la strada inversa: via dal governo per tuffarsi nell’impresa di rifondare un partito. Lo ha fatto con un pamphlet sui motivi e le pratiche di un nuovo Pd. È un testo meditato e rivolto a una sintesi piena di ambizione sulla svolta che la politica dovrebbe coltivare. Vi si descrive la separazione tra Stato e partiti, le procedure di una partecipazione diversa alle scelte, i principi di una sinistra in osmosi con la società che vorrebbe ripensare, le regole per una trasparenza delle condotte.
C’è anche molto altro. Lo stesso Barca ha avuto modo di descrivere queste sue idee in una batteria di televisioni e su parecchi giornali. Personalmente ho trovato buona parte di quelle riflessioni acute e tutte tese a invertire la deriva di un Paese scollato da ogni ambito della mediazione culturale e politica. Forse anche per questo l’autore ha scelto la modalità meno convenzionale per rivolgersi ai più. In fondo, sono tempi questi dove funzionano meglio strumenti diversi: video-box e tweet da 140 caratteri. Qui, al contrario, la scelta è caduta su un documento che richiede qualche sforzo da parte del lettore e dove alla fine non vale cavarsela con uno sbrigativo «mi piace». Allora, tutto bene? Quasi. Per due motivi che proverei a dire. Il primo di metodo, l’altro di sostanza. Dunque, sul metodo. Barca è stato correttissimo, si è iscritto al Pd come con puntiglio ha ricordato lui stesso giovedì nel pomeriggio tardo e la sera ha raccolto l’invito di Lilli Gruber a raccontare le linee del suo impegno futuro. Da lì la pubblicazione del contributo e l’auspicio di un confronto con chi lo volesse, nel segno di una partecipazione rinnovata. Il punto è che da quando la folla si è mossa nell’unico senso che dal partito portava alle istituzioni e ai governi cioè più o meno gli ultimi vent’anni si è anche imposta una prassi personalizzata della leadership con i protagonisti che, di volta in volta, si sono identificati nel «loro» partito. La tendenza ha riguardato l’intero sistema politico e talvolta con tratti di patologia: pensiamo ai soggetti fondati sulla proprietà esplicita o sul controllo autoritario del consenso e dei rappresentanti. Inutile far nomi. A sinistra il fenomeno è stato meno clamoroso anche se non siamo rimasti estranei a rischi di cesarismo. In queste dinamiche l’influenza mediatica si è fatta sentire, spesso alterando i tempi che contrassegnavano la costruzione o distruzione di un consenso (per dire, non è curioso che due figure sconosciute sino a un mese fa come i capigruppo 5Stelle godano già della loro caricatura televisiva?). L’aspetto curioso è che Barca suggerisce un testo ambizioso e per nulla sensibile alle scorciatoie, salvo elaborarlo e farlo debuttare dentro lo schema che ha segnato tutta la stagione più recente: una prova individuale di virtù patrocinata da un robusto supporto mediatico. Diciamo che la logica invalsa ancora in questo caso ha declinato il verso di De Andrè, «mi spiega che penso e bevimm’ò cafè». Poi Barca, a suo modo, il tema lo affronta e non per caso discute i metodi necessari a coinvolgere i singoli. Anzi, direi che l’intera piattaforma si concentra su questo e però proprio qui vive l’altro tema, quello di sostanza. La novità del suo ragionamento è nel ripristinare un legame tra il partito e una società tanto mutata che lo disconosce da tempo. Che sconfessa in generale i partiti, ma qui parliamo di noi. Per rinsaldare quella relazione Barca suggerisce alcune chiavi. Lo fa con un coraggio che legittima il richiamo alla mossa del cavallo, perché senza timori spiazza logiche vecchie e rendite di posizione. A me convince. Ma su un punto vorrei discutere e lo riassumo così: quella frattura tra partiti e democrazia, e soprattutto tra sinistra e realtà, non è sanabile solo con una mossa del cavallo sul metodo e neppure soltanto con una cura da cavallo organizzativa.
L’unico modo per riassorbirla è nel muovere tutti i pezzi, torri e sovrani, cavalli e pedoni. Il che, uscendo dai simboli, significa rimotivare la politica all’antica idea che vi sia un’ingiustizia da abbattere e che esista un giudice a Berlino ma per arrivarci serva mettersi in cammino. Se un limite mi pare di vedere è nell’immaginare che una nuova dignità della politica transiti esclusivamente dalle motivazioni dei singoli a sperimentare un’altra lingua, nuove sedi e strumenti meno logori. Questo certamente conta ma quella dignità, almeno da quando a Parigi si piantò l’albero della libertà, è una conquista comune e tale ha da restare a meno di ricusare la più travolgente delle rivoluzioni che è stata quella delle coscienze. In particolare l’idea che gerarchie e rapporti di forza si potessero modificare sulla base di interessi e bisogni da emancipare. Il Partito Democratico lo abbiamo voluto esattamente per questo, perché pensavamo a torto o a ragione che le famiglie da cui in tanti venivamo non avessero più parole sufficienti a rinnovare quella spinta. Né credevamo bastasse sommare le fragilità per compensare il passaggio del tempo. Dovevamo andare alla ricerca di un’identità attuale.
Che anch’io, per quanto vale, vivo in coerenza coi valori della sinistra ma che non può ritrovarsi solo nella sinistra che il passato si è trattenuto per sé. Da qui la scelta di allargare lo sguardo e convogliare tradizioni diverse, culture destinate in anni lontani a combattersi, ma oggi accostate nell’identico bisogno di guardare al mondo per ripensarlo. Direi che il tema riguarda l’Europa intera, e se solo ci riferiamo alla crisi più grave dell’ultimo secolo si muove anche più in là, a come si espandono confini e categorie di una sinistra che non se la caverà più mescolando il keynesismo migliore col welfare protettivo.
Come Barca sa meglio di me serviranno ricette originali ma scritte sulla base di un’altra diagnosi: che tradotto equivale a pensare una diversa economia macro-economia in questo caso a fondamento di un altro racconto della società, della sua crescita, delle sue attese. «Aggio perduto ‘o suonno e ‘a fantasia», citava ieri mattina Tullio Gregory in una bella intervista, dove fantasia sta per la capacità di immaginare il dopo. È mica poco. Se tutta la politica si riduce a togliere qualche incubo ai sonni della povera gente, non potrà che fare del bene. Ma l’altro suo compito, da che la ragione ha fatto presa sulla storia, è garantire agli ultimi della fila di farsi padroni della loro fantasia. E quando il mondo cambia, come succede a noi, quella sfida riacquista di senso perché la posta in palio è chi ridarà un valore alla speranza. A volte ci è riuscita la destra, altre noi. Ed è il tema che ci interroga adesso. Per fortuna, anche grazie a Fabrizio, se ne può tornare a discutere.
Ps. L’altro giorno il sindaco di Firenze ha detto che si è «stufato di prendere schiaffi in faccia tutti i giorni». Ora, nei mesi, settimane e giorni passati ha sobriamente liquidato D’Alema e Veltroni dal Parlamento. Ha chiosato come vile l’atteggiamento della Bindi. Ha precluso il Quirinale a Franco Marini perché ottantunenne sottolineando che neppure gli abruzzesi lo hanno votato e ha dissertato sulla dignità di Bersani «umiliato» in diretta streaming dai grillini. Ecco, ho pensato, Renzi questa volta ha ragione e fa bene a stufarsi di prendere ceffoni. Mi chiedo soltanto cosa dirà il giorno che dio non voglia gli schiaffi sceglierà di darli anziché riceverli?

l’Unità 15.4.13
Un sintetico compendio di quanto doveva fare BersanI
di Enzo Costa


BERSANI DOVEVA VINCERE LE ELEZIONI, E NON LE HA VINTE. Bersani doveva ottenere la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato, e l’ha ottenuta solo alla Camera. Bersani doveva dimettersi, mica come Berlusconi nel ’94, che al Senato la maggioranza non l’aveva ottenuta, ma tutti noi commentatori dicevamo in coro che aveva stravinto. Bersani doveva perdere le elezioni, così commentavamo più contenti. Bersani doveva fare una campagna elettorale più combattiva, più riflessiva, più mediatica, più in piazza, più di sinistra, più vicina a Monti. Bersani doveva fare come non ha fatto, a prescindere di cosa dicevamo in quei giorni, e di come ha fatto. Bersani doveva lasciare il posto a Renzi come candidato premier, così il centrosinistra avrebbe vinto. Bersani, per lasciare il posto a Renzi, non doveva fare le primarie, così avremmo detto che non le faceva perché aveva paura. Bersani doveva fare le primarie e perderle. Bersani dove-
va fare le primarie e vincerle, ma poi dimettersi lo stesso. Bersani doveva evitare di parlare ai Cinquestelle in quell’umiliante diretta streaming. Bersani doveva non piegarsi all’arroganza del MoVimento, così avremmo scritto che incarnava la solita sinistra elitaria, che, come già con la Lega, non ascolta chi porta in Parlamento il disagio degli elettori, e non dialoga con gli avversari perché si considera moralmente superiore. Bersani doveva non pretendere l’incarico da Napolitano: in fondo, fra i leader dei tre partiti più grandi, era solo l’unico candidatosi a premier, l’unico non condannato e non processato, quello del partito più votato, e quello con maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato: e che sarà mai? Bersani doveva fare in un altro modo, in politica e in generale. Bersani più che altro, in sintesi, non doveva.

Repubblica 15.4.13
Il pericolo è l’autodistruzione
di Claudio Tito


C’È QUALCOSA nello scontro che sta dilaniando il Partito democratico che va ben oltre la battaglia per imporre una linea o una scelta. La verità è che nel duello tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi è in gioco anche – e soprattutto – il destino dei due contendenti. Quel che entrambi faranno da grandi. Perché dopo le elezioni della “non-vittoria” si è riaperta di fatto la corsa a Palazzo Chigi.
Enon importa se il nuovo presidente della Repubblica non sia stato ancora eletto né se le urne non siano state ancora convocate. Ogni singola decisione che in questa fase viene assunta, infatti, favorisce o penalizza gli obiettivi dell’uno o dell’altro. La tattica del segretario e quella del sindaco non possono che essere divaricate.
Bersani coltiva ancora l’idea di poter approdare a Palazzo Chigi facendo valere la forza di numeri: la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato. E si muove cercando di assecondare un passo alla volta il suo disegno. Nel suo partito sta crescendo il numero di persone che lo accusa di voler agevolare la nomina di un capo dello Stato che possa condividere le sue aspirazioni governative. Il dubbio di molti di loro si concentra su un sospetto ben preciso: la volontà di ricevere l’incarico pieno di formare l’esecutivo anche a rischio di non conquistare la fiducia in Parlamento.
Secondo una buona parte del Pd, quel passaggio costituirebbe formalmente una sconfitta e potrebbe essere la premessa per reclamare una seconda chance per la premiership. Il segretario, in sostanza, farebbe valere il suo ruolo di presidente del Consiglio dimissionario per condurre la nuova campagna elettorale. E cogliere forse l’ultima occasione – per una questione generazionale – di portare un ex comunista alla guida di un governo.
Le mosse di Renzi si muovono in senso diamentralmente opposto. Il sindaco fiorentino vuole accelerare per andare a votare il prima possibile. Sicuro di potere essere il nuovo sfidante di Silvio Berlusconi. Convinto di poter sconfiggere l’avversario storico del centrosinistra nella fase declinante della sua parabola politica e di poter approfittare della oggettiva contrazione dei consensi a favore del Movimento 5Stelle. Anche perché i grillini hanno mostrato limiti consistenti nel personale politico approdato in Parlamento e nella capacità di elaborare una linea politica non solo produttiva per il Paese ma semplicemente condivisa dagli oltre 150 deputati e senatori eletti. Per questo, Renzi è pronto anche a spaccare il suo partito pur di ritrovarsi al Quirinale un uomo che – a suo dire – non si faccia condizionare dall’attuale vertice dei democratici. Un “garante” non solo delle Istituzioni e del Paese, ma anche della contesa in corso nel Pd. Il suo cannone puntato contro Marini e contro la Finocchiaro rappresenta la prima mossa di una campagna elettorale già avviata e che per lui non può che avere come caposaldo il rinnovamento della politica. O più semplicemente la “rottamazione” della precedente classe dirigente. Il primo tassello, dunque, di una “corsa” in cui i nemici sono due: il Cavaliere e l’antipolitica di Beppe Grillo.
Ma il punto è proprio questo: la “guerra democratica” contiene al suo interno un rischio che entrambi sembrano sottovalutare. Ossia la distruzione dello stesso centrosinistra. E anche la fiches giocata in questi giorni da Fabrizio Barca sembra in primo luogo
il modo, per il gruppo che più si sente legato alle radici dell’ex Pci, di fermare l’avanzare del sindaco di Firenze. Bersani e Renzi non si parlano, sempre più pronti a guardarsi come nemici. Un errore. Nemmeno la Dc delle molteplici correnti ha mai anteposto lo scontro personale alle sorti del partito. Ieri il “rottamatore” si è sfogato con alcuni esponenti del Pd dichiarandosi pronto a fare un definitivo passo indietro: «Se volete Barca, se pensate che lui possa battere Berlusconi io mi faccio da parte in buon ordine. Ma mi sono stancato di essere trattato come un appestato». Ovviamente si tratta solo di un modo per tenere alta l’asticella della trattativa. Ma lo strappo tra Bersani e Renzi con il passare del tempo sembra sempre più dilatato e quasi incomponibile. Si avvicinano alla battaglia finale – che comunque nel giro di un anno ci sarà – esponendo il lato più debole del centrosinistra. Quello che potrebbe restituire a Berlusconi la settima chance di vincere le elezioni.

Repubblica 15.4.13
“Non basta la fede per salire al Colle”
di Matteo Renzi


“Non basta essere cattolici per il Colle serve un garante per tutti gli italiani”

CARO direttore, nel delicato puzzle che i partiti stanno componendo per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica torna in queste ore prepotentemente in voga l’espressione: “Ci vuole un Presidente cattolico”. In particolar modo questa espressione viene richiamata dai sostenitori, bipartisan, di Franco Marini che provano a giustificare così la candidatura del proprio beniamino.
NON è questa la sede per pronunciarsi sulla possibile scelta. Se la politica non avesse perso i legami con il territorio basterebbe una banalità: due mesi fa Marini si è candidato al Senato della Repubblica dopo aver chiesto (e ahimè ottenuto) l’ennesima deroga allo Statuto del Pd. Ma clamorosamente non è stato eletto. Difficile, a mio avviso, giustificare un ripescaggio di lusso, chiamando a garante dell’unità nazionale un signore appena bocciato dai cittadini d’Abruzzo. Dunque, non è il no a Marini — già candidato quattordici anni fa — che mi spinge a riflettere sulla frase “Ci vuole un Presidente cattolico”.
Mi sembra invece gravissimo e strumentale il desiderio di poggiare sulla fede religiosa le ragioni di una candidatura a custode della Costituzione e rappresentante del Paese. Faccio outing: sono cattolico, orgoglioso di esserlo e non mi vergogno del mio battesimo. Cerco, per quanto possibile, di vivere la fedeltà al messaggio e ai valori di Cristo e — peccatore come tutti, più di tutti — vivo la mia fede davanti alla coscienza. Nell’esperienza da Sindaco, naturalmente, agisco laicamente: ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo. Rappresento la città, tutta intera, non solo quelli con cui vado alla Messa la domenica. E sono tuttavia convinto che l’ispirazione religiosa, non solo cattolica non solo cristiana, possa essere molto utile alla società.
In queste ultime settimane la Chiesa Cattolica ha scelto (in tempi decisamente più rapidi della politica, ma questa è un’altra storia) una guida profondamente innovativa. Papa Bergoglio sta rendendo ragione della speranza cristiana con gesti di altissimo valore simbolico e di rara bellezza. Muove e commuove il pontefice argentino, parlando al cuore dell’uomo del nostro tempo, con uno stile che regala emozione e suscita pensieri. Francesco parla anche alle altre confessioni, ai non credenti, agli agnostici: si pone come portatore di entusiasmo e di gioia di vita. Questo, del resto, dovrebbe essere il Vangelo, la Buona Notizia.
I politici che si richiamano alla tradizione cattolica, invece, sono spesso propensi a porsi come custodi di una visione etica molto rigida. Non c’è peggior rischio di incrociare il cammino con i moralisti, specie quelli senza morale. Personalmente dubito di chi riduce il cristianesimo a insieme di precetti, norme etiche alle quali cercare di obbedire e che il buon cristiano dovrebbe difendere dalle insidie della contemporaneità. Questo atteggiamento, così frequente in larga parte del mondo politico cattolico, è a mio giudizio perdente. Ma ancora più in basso si colloca chi utilizza la propria fede per chiedere posti. Per pretendere posti. Per reclamare posti non in virtù delle proprie idee, ma della propria confessione.
Proprio ieri il Vangelo della domenica riportava l’entusiasmo di Pietro
sulla barca incontro al suo Signore. Quanta bellezza, quanta umanità, quanto impeto. Poi ti capita di tornare alla politique politicienne
e trovi il candidato che si presenta in quanto cattolico, riducendo il messaggio di fede a un semplice chiavistello per entrare nelle stanze dei bottoni.
Mi vergogno, da cattolico ma prima ancora da cittadino, di una così bieca strumentalizzazione. Non mi interessa che il prossimo presidente sia cattolico. Per me può essere cristiano, ebreo, buddista, musulmano, agnostico, ateo. Mi interessa che rappresenti l’Italia. Che sappia parlare all’estero. Che sia custode dell’unità in un tempo di grandi divisioni. Che parli nelle scuole ai ragazzi. Che spieghi il senso dell’identità in un mondo globale. Che non sia lì per accontentare qualcuno. Mi interessa che sia il Presidente applaudito per le strade come è stato quel galantuomo di Giorgio Napolitano. E che sappia dialogare, ascoltare, rispettare. Che sia al di sopra di ogni sospetto e al di là di ogni paura. Mi interessa che sia il Presidente di tutti, non solo il Presidente dei cattolici.
Chi rivendica spazio in nome della confessione religiosa tradisce se stesso. E strumentalizza la propria fede. Tanti, forse troppi anni di vita nei palazzi, hanno cancellato una piccola verità: non si è cattolici perché si vuole essere eletti, ma perché si vuole essere felici. C’è di mezzo la vita, che vale più della politica. E il Quirinale non potrà mai essere la casa di una parte, ma di tutti gli italiani.

Repubblica 15.4.13
Stefano Fassina: lui non dà patenti
“Delirio di onnipotenza la maggioranza del Pd non vuole stare con lui”


ROMA — Renzi ha dato l’altolà alle candidature di Finocchiaro e Marini al Quirinale e attacca Bersani “alzo zero”. Nel Pd, volano gli stracci, Fassina?
«Renzi continua a fare prevalere le sue pur legittime aspirazioni personali rispetto agli interessi del paese e mi sembra irresponsabile. Ormai è evidente che i sondaggi creino deliri di onnipotenza... non si capisce a quale titolo il sindaco di Firenze dia patenti per l’accesso o meno al Quirinale».
L’unico metodo per scegliere un nome per il Colle è solo quello della condivisione, secondo lei?
«Se l’obiettivo è quello di uscire dalla Seconda Repubblica l’unica strada è un consenso largo, una condivisione».
Una condivisione che spacca i Democratici, però
«Ritengo che nel Pd, che guarda agli interessi del paese, la stragrande maggioranza sia per questa linea. Andiamo avanti lungo la via intrapresa di ricerca di un nome in comune con le altre forze politiche. Se vogliamo affrontare le nuove sfide e andare verso la Terza Repubblica, la rotta è questa».
Il Pd dice “no” a Prodi, che è il “padre” fondatore del partito?
«Prodi è una delle personalità più autorevoli e di prestigio internazionale che l’Italia abbia. Ma prima di tutto viene il mandato che al segretario Bersani hanno dato i gruppi parlamentari e la direzione del partito».
Quale è il mandato?
«Noi riteniamo che per il Colle sia necessaria, come del resto prevede la Costituzione, una figura in grado di avere un riconoscimento ampio delle forze politiche. Oltre a essere garante della Carta, deve rappresentare l’unità nazionale».
L’intesa sul Quirinale sembra a questo punto, a tre giorni dal voto, ancora lontana?
«Non siamo vicini, è vero, ma neppure così lontani».
(g.c.)

Repubblica 15.4.13
Beppe Fioroni: il suo veto è miope
“Matteo deve smetterla sta diventando offensivo e fa implodere il partito”


ROMA - «Così Matteo Renzi continua a mettere costantemente sotto tensione il Pd. Il mio invito è di fermarsi, perché il punto di rottura dell’equilibrio è vicino. E se si raggiunge, non è di scissione che si tratterà, ma di implosione. Non ne soffrirà insomma solo il partito, ma tutto il paese».
Onorevole Fioroni, è la bocciatura a Marino e alla Finocchiaro che mette a rischio l’unità?
«Questa sorta di veto è un modo offensivo e miope di considerare la storia di personalità che tanto hanno fatto per la democrazia italiana. Ma è solo l’ultimo episodio. Il vero leader è chi rinuncia a qualcosa oggi, per il bene di tutti domani».
Tira e tira, la corda rischia di spezzarsi.
«Renzi è una risorsa, ma deve smetterla di fare il gioco delle tre carte. Capisco la sua smania legittima di scendere in campo, e che per chi aspetta il tempo non passa mai. Si è proclamato alfiere del rinnovamento, ma il vero cambiamento è eleggere un capo dello Stato con la convergenza più larga possibile e mandare un soffitta la politica del nemico da abbattere».
Che cosa rimprovera al sindaco di Firenze?
«Gli consiglierei di non tirare in ballo una volta il governissimo, un’altra l’elezione di un presidente della Repubblica che divide, visto che appunto boccia nomi che invece possono unire. Il tutto per arrivare magari al suo obiettivo: quello di andare a votare subito, e a questo punto con il Porcellum che pure per il sindaco di Firenze è una legge orribile».
Ha lanciato la sua Opa sul Pd, con gli attacchi a Bersani?
«Lo inviterei a non tentare di mutare geneticamente il Pd, trasfor-mandolo in una contrapposizione fra lui e Barca, in un soggetto di sinistra contendibile solo o una sinistra socialdemocratica o da una sinistra liberal. Di fatto, così, rimuovendo un elemento fondante quale il cattolicesimo democratico e popolare'.
(u.r.)

Repubblica 15.4.13
“Renzi vuole le urne, da lui veti inaccettabili”
Pd spaccato, bersaniani in trincea. Cresce il fronte che tifa per Prodi al Quirinale
di Giovanna Casadio


ROMA — «Ormai è chiarissimo: Renzi lavora per le elezioni anticipate e ha deciso di andare avanti come una ruspa». C’è irritazione e sconcerto tra i bersaniani. Bersani non vuole commentare il veto del sindaco “rottamatore” a Franco Marini e Anna Finocchiaro, ma fa sapere di trovare insopportabili quelle parole così irrispettose. «Inammissibili, i veti sono inammissibili, in questo caso anche i toni», avverte Luigi Zanda. L’altolà di Renzi piomba sulla domenica di “sondaggio” che i capigruppo del Pd Roberto Speranza (con la vice Paola De Micheli) e Zanda stanno conducendo tra i parlamentari. Una sorta di “quirinarie” democratiche, per telefono o con faccia a faccia. Il caos di dissensi si amplifica. Franco Marini, preso di mira da Renzi, replica con una frecciata: «Non è mica la prima volta che mi attacca, rispetto ai problemi aperti nel paese, non mi pare determinante la posizione di Renzi. Sulla mia “bocciatura” alle ultime elezioni, ricordo che Enrico Letta mi ringraziò per avere lasciato il posto di capolista in Abruzzo a una donna, avendo ritenuto personalmente che andava valorizzata la presenza femminile». Insomma, liquida il “rottamatore”.
Il Pd è in pieno maremoto. L’uscita di Renzi al Tg5, in cui ricorda la bocciatura nelle urne di Marini e la spesa con scorta all’Ikea di Finocchiaro, è un messaggio diretto al segretario. Marini è stato presidente del Senato nella difficile e breve legislatura prodiana; è un politico di lungo corso, un ex sindacalista che non si scompone davanti agli attacchi. Ha dalla sua parte i Popolari di Fioroni, e Areadem di Franceschini. Una fetta di partito che pesa. Però i Democratici rischiano di avvitarsi e le scosse orami diventano un sisma. Stasera i bersaniani Migliavacca, Errani e Zoggia hanno convocato una riunione di corrente allargata ai dalemiani e ai “giovani turchi”.
Obiettivo è fare quadrato attorno a Bersani in trincea. «La nostra stella polare è raggiungere la massima condivisione per il Quirinale. Mi chiedo con quale senso
di responsabilità si facciano nomi e classifiche», attacca Zoggia.
Bersani continua a puntare sulla strategia della massima condivisione tra tutte le forze politiche, e in particolare con il Pdl. È convinto che questa strada sarà anche il viatico per la nascita di un governo. E il governo a cui pensa il segretario - in questo sempre meno seguito - è «il governo del cambiamento», un governo di minoranza. Questa soluzione passa attraverso l’esclusione di Prodi, fumo negli occhi per Berlusconi. A Bologna, a casa di Romano Prodi, ieri Sandra Zampa leggeva sms e mail di incoraggiamento e di sostegno al Prof. «Un ragazzo mi ha scritto: “Un Pd che disconosce il proprio padre, è un partito che non merita” », racconta Zampa, per la quale è impensabile che «Pierluigi non si renda conto che accantonare Prodi sarebbe un’ombra per sempre sul partito». Così la pensa Sandro Gozi. Il fronte prodiano si salda con i renziani. Non solo. Rosy Bindi è una prodiana di ferro. E anche Enrico Letta, il vice segretario, se si andasse al muro contro muro con il Pdl, voterebbe Prodi. Letta di Prodi è stato sottosegretario ed è legato da amicizia e stima personale con il Professore. Lo ha ribadito nei giorni scorsi in una riunione di corrente: «Se si va a un muro contro muro si torna ai punti di riferimento naturali», ovvero a Prodi.
I “giovani turchi” masticano amaro. «A Renzi consiglierei di non distruggere e di fare qualche proposta, con la consapevolezza che Prodi spacca», ripete Matteo Orfini. Rincara Pippo Civati: «Bene Prodi, non è vero che spacca il Pd». Bersani quindi è tra due fuochi anche nella partita Quirinale, che si trascina quella politica: da un lato l’offensiva di Renzi (che punta alle elezioni) e si salda con i malumori nei suoi confronti; dall’altro le offerte di Berlusconi. Daniele Marantelli lavora a mantenere i contatti con Maroni e con la Lega. Ammette che la cifra prevalente nel Pd in questo momento è quella della confusione. Chiara Geloni, direttore di Youdem, bersaniana, reagisce alle bordate di Renzi: «Le reazioni di Matteo mi fanno grande tristezza. Può darsi che sia eletto un presidente della Repubblica a lui non gradito. Se ne faccia una ragione, io voterei volentieri Prodi, ma capisco che l’argomento per cui per una metà del paese Prodi è una scelta divisiva». Il Pd rischia di votare per il Quirinale in ordine sparso, e lo spettro della scissione è evocato da tanti.

Repubblica 15.4.13
Il presidenzialismo preterintenzionale
di Ilvo Diamanti


DA GIOVEDÌ prossimo il Parlamento si riunirà, in seduta comune, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ancora non sappiamo chi sarà. Sappiamo, tuttavia, che sarà difficile succedere a Napolitano.
Per il modo in cui ha interpretato questa carica. Ma anche per il profondo cambiamento che ha conosciuto il ruolo del Presidente, nell’ultima fase. D’altronde, è sufficiente scorrere l’andamento della fiducia espressa dai cittadini nei confronti dei principali soggetti istituzionali e po-litici, negli ultimi sette anni. Il credito attribuito al presidente della Repubblica è superiore a tutte le altre istituzioni considerate: dalla Ue allo Stato. Per non parlare dei partiti, la cui considerazione, tra gli italiani, è minima. Peraltro, la distanza, a favore del presidente della Repubblica, è cresciuta notevolmente durante il settennato di Napolitano. Attualmente (Indagine LaPolis, marzo 2013) il grado di fiducia verso il Presidente supera quello verso la Ue di circa 15 punti. Il doppio rispetto al 2007. (Anche a causa del calo della Ue). Mentre il distacco nei confronti degli altri attori istituzionali e politici – lo Stato e i partiti – risulta quasi un abisso. Oltre 50 punti. Ciò riflette l’accresciuta credibilità del Presidente e la parallela, crescente, in-credibilità degli altri organismi. Eppure, l’elezione di Napolitano era stata accompagnata da polemiche. In un clima politico reso difficile dall’esito del voto del 2006, che rammenta, in qualche misura, quello dello scorso febbraio. Anche allora il centrosinistra, o meglio: l’Ulivo guidato da Prodi, appariva pre-destinato a una vittoria di larga misura. Prevalse, invece, con pochi voti di vantaggio sulla Casa delle Libertà di Silvio Berlusconi. A differenza di oggi, però, non c’era un polo alternativo agli altri, come il M5S di Beppe Grillo, capace di intercettare oltre un quarto dei voti – contro tutto e tutti. Così l’elezione di Napolitano venne accolta come un gesto di arroganza: una scelta imposta da una maggioranza che non era tale. Il Presidente venne etichettato per la sua storia “comunista”. Un marchio (ab) usato da Berlusconi per dividere il mondo. Fra i suoi amici e i nemici. I comunisti, appunto. Anche da ciò deriva l’insofferenza verso Prodi. L’unico ad averlo battuto – per due volte. Non a caso, il Cavaliere, nella manifestazione di sabato, ha annunciato che, se venisse eletto Prodi al Quirinale, non esiterebbe ad andarsene dall’Italia. (Per molti elettori, un auspicio più che una minaccia…) Napolitano, peraltro, succedeva a Ciampi. Il quale aveva rafforzato l’immagine e la credibilità dell’istituto presidenziale in misura rilevante, dopo le tensioni degli anni Novanta. Segnati da Tangentopoli, dalla caduta della Prima Repubblica e dalla sfida secessionista della Lega.
Napolitano, tuttavia, non ha impiegato molto tempo a riconquistare la fiducia popolare. Già nel novembre 2008, infatti, oltre il 70% degli italiani esprimeva (molta o moltissima) fiducia nei suoi confronti (indagini Demos e LaPolis). Cioè, 12 punti in più, rispetto al momento dell’elezione, un anno e mezzo prima. “Premiato”, già allora, per le qualità che ne caratterizzeranno il percorso. A) La capacità di “unire” un Paese diviso. Politicamente e non solo. B) Il ruolo di supplenza, dapprima, e, dunque, di guida in un sistema frammentato e impotente.
In altri termini, Napolitano offre un riferimento comune a una società dove l’antiberlusconismo si incrocia con l’anticomunismo. Dove la Lega continua a evocare l’indipendenza padana. Dove gli schieramenti sono, a loro volta, attraversati da fazioni e frazioni. Dove, quindi, è difficile ogni maggioranza stabile.
L’occasione definitiva, che ha permesso a Napolitano di rafforzare questo ruolo è, sicuramente, costituito dalle celebrazioni del 150enario dell’Unità nazionale. Nel corso del 2011. Quando il Presidente gira l’Italia, facendosi testimone e sostenitore dello spirito unitario. A cui offre e da cui ricava grande legittimazione. Tanto che, durante l’anno, avvicina e talora supera l’80% dei consensi, fra gli italiani. Un riconoscimento così elevato, tuttavia, riflette anche ragioni “politiche”. In primo luogo, la capacità di Napolitano di garantire rappresentanza a un Paese provato dalla crisi. E da un governo debole e poco credibile. In ambito nazionale e internazionale. Così, l’Italia evolve in una Repubblica quasi-presidenziale.
Dove i poteri del Presidente sono dettati e moltiplicati dall’impotenza altrui. Delle istituzioni e degli attori politici più importanti. Il Parlamento, i partiti. I leader. L’esperienza del “governo tecnico”, guidato da Mario Monti, ne è la logica conseguenza. È, infatti, il “governo del Presidente”. Napolitano, non Monti. Perché è Napolitano che lo sceglie e lo propone. Anzi, lo impone ai principali partiti e al Parlamento. Ed è Napolitano che lo sostiene gli fornisce il consenso – personale e istituzionale – di cui dispone. Venendone, a sua volta, influenzato. Perché l’andamento della fiducia nel Presidente riflette quello nel governo Monti. Dal 78%, nel novembre 2011, all’avvio del governo tecnico, il consenso declina, seppure in modo non lineare, nel corso del 2012. Al momento delle dimissioni di Monti, a dicembre, scende al 55% e tale resta fino alla vigilia delle elezioni. Per poi risalire un mese dopo, verso metà marzo, fino quasi al 67%. Oggi dispone di un grado di fiducia elevato dalla maggioranza di tutti gli elettorati, salvo i leghisti. Anche dagli elettori del Pdl e del M5S. Secondo i dati di Ipsos, la fiducia nei confronti del Presidente sarebbe ulteriormente cresciuta (circa 5 punti in più nell’ultimo mese). Per la dissociazione di Napolitano da Monti, dopo la “scelta politica” del Professore. Ma, soprattutto, perché il Presidente è tornato a costituire un riferimento unitario — forse l’unico esistente — in un Paese di minoranze incomunicanti, nella società e in Parlamento. Ancor più diviso di prima.
Da ciò il motivo che rende particolarmente critica la scelta del prossimo Presidente. Ancor più di prima. Perché l’Italia è divenuta una Repubblica a “presidenzialismo preterintenzionale”. Dove le riforme istituzionali avvengono quasi per caso. Prodotte da pressioni sociali e colpi di mano. Dove le riforme sociali ed economiche vengono spinte dall’emergenza. Per questo occorre scegliere bene il prossimo Presidente. L’unico potere certo in questo Paese incerto. Cercando intese larghe. Se possibile “larghissime”. Ma non “basse”. E, comunque, non ad ogni costo.

l’Unità 15.4.13
Grillo: «L’Italia brucia» Ma lui si tira fuori
Il Capo dei 5 Stelle accusa «il balletto dei partiti» nei giorni drammatici della crisi
Dimentica che proprio il suo movimento ha ostacolato dall’inizio la nascita di un governo
Oggi il ballottaggio via web tra i dieci candidati scelti nelle quirinarie
di Toni Jop


Tempi da peplum, oppure da toga-party? Fatto sta che ieri Grillo ha deciso di parlare al mondo per bocca di Tito Livio, gran storico latino, limpido scrittore. «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur» (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata), titolava ieri il suo messaggio sulle pagine di quella cornucopia che lui chiama Blog. In vena di perifrasi da decubito da un po’ fa fatica ad occupare la scena il leader assoluto dei Cinque Stelle intendeva avvertire con bella enfasi che, dal suo personale punto di vista, mentre a Roma ci si ostina a pettinare le bambole, l’Italia brucia. Si riferiva, con ogni evidenza, alla situazione di avvento che sta congelando l’attività di governo in attesa che un nuovo inquilino occupi il Quirinale. Passaggio obbligato dopo che con il suo personalissimo «no» a Bersani, bene interpretato dai suoi in Parlamento, aveva provveduto a inchiodare il quadro di questo Paese alla parete più luminosa della sua villa fronte-mare. Immobile: quel «no» beffardo, pronunciato dai capigruppo Cinque Stelle Crimi e Lombardi con una strafottenza che si è meritata un boomerang di reazioni negative, è esattamente la zeppa che ha fermato, in Italia, le lancette di tutti gli orologi. Mentre Sagunto viene espugnata, il Paese brucia e lui conta gli incassi del blog.
IL COLLE
L’altro giorno, tra l’altro, la voce «cassa» ha dato più soddisfazioni del solito: la doppia votazione interna destinata a cogliere la rosa dei nomi da cui, con altre votazioni, uscirà il candidato Cinque Stelle per il Colle, è stata commovente per generosità nei confronti della ditta e dei suoi bilanci. E, vero o fasullo fosse l’allarme lanciato, la storia dell’hackeraggio ha regalato ai contabili del Blog privé inarrivabili emozioni. Fantastico, poi, che negli altri blog nelle ore successive i commando grillini si siano sbracciati per sbattere in faccia al «nemico» «putrefatto» la gratuità del loro voto. Tacendo, o ignorando, come ogni click in quelle pagine corrisponda ad un incremento della ricchezza prodotta da quella formidabile macchina da soldi che ogni cittadino italiano con la testa sulle spalle e i piedi ben piantati nel rogo del Paese invidia alle due badesse, Grillo e Casaleggio.
Con tutto questo alle spalle, appare decisamente divertente il richiamo «imperativo» lanciato sulle onde del web dal grande Megafono: «Il balletto dei partiti per non decidere nulla e mantenere posizioni di privilegio e impunità decennali continua imperterrito senza vergogna». Grillo avrà chiesto a Casaleggio: che ti pare, non è esagerato? E l’altro avrà risposto: ma scrivi quello che vuoi, tanto ormai è uguale, chissenefrega. Ah sì? avrà rilanciato il primo, allora prendi questa: «Il Paese ha bisogno di leggi e riforme ma il Parlamento è paralizzato.... i parlamentari sono diventati emanazioni dei segretari di partito... lacché di partito che premono pulsanti a comando». Il virgolettato è trasposizione letterale del messaggio del capo, non ce lo siamo inventato. È evidente che il duo è, sotto il profilo della fantasia, in fase di stallo; per questo, si mangia la coda e mentre ritiene di parlar male degli altri, traccia un affresco che pare spudoratamente una foto del rapporto che sta legando le badesse al distaccamento del convento grillino accomodato in Parlamento. Un fuoco d’artificio, inoltre, il lamento per quel «premere pulsanti a comando» mentre è ancora nell’aria l’eco della volontà di Grillo di fare a pezzi l’articolo 67 della Costituzione, quello che garantisce piena autonomia di scelta e di voto, rispetto ai partiti di appartenenza, a qualunque parlamentare. E siccome è in corsa, Grillo si spinge dove osano le aquile: dice che sono «cialtroni» tutti quelli che hanno impedito di avviare le Commissioni pur in vacanza di un nuovo governo. Dal che si capiscono alcuni spunti delle sue attuali sofferenze: la vicenda delle mancate commissioni gli serve a coprire il gesto simpaticamente colluso con cui, sbattendo la porta in faccia alla sinistra, ha provveduto a riportare Berlusconi nella stanza dei bottoni, a riconsegnargli un ruolo decisivo nello scacchiere.
In più, fin qui gli è andata male: il rifiuto, infatti, doveva servire a spingere Bersani e la sinistra tra le braccia del Caimano, che è l’obiettivo della sua partita; così la sinistra esplode, lui ne raccoglie i pezzi e alle prossime elezioni raddoppia il botto. Invece niente, Bersani non molla, Berlusconi deve fino a questo punto ringraziare solo la collusione di Grillo e intanto pare che il Movimento stia perdendo charme elettorale: i sondaggi lo danno in calo marcato rispetto alle politiche. Più il tempo passa e più le previsioni sono grige. Quindi, non gli va più di correre alle urne, meglio aspettare un’onda più favorevole e così si infiamma sulle commissioni, cita Tito Livio, sposa l’impasse e attende che il bollito prima o poi sia misto, come piace a lui.

l’Unità 15.4.13
La sora Roberta sempre meno tollerata dai suoi grilli
Dopo una sfilza di gaffe ed errori, tra due mesi la portavoce Lombardi sarà sostituita da Nuti
Secondo regolamento. Ma c’è chi vorrebbe anticipare
di Claudia Fusani


Emeno male che tra poco toccherà a Riccardo...». Ci mancavano le performance della cittadina portavoce Roberta a complicare il fine settimana grillino stretto tra le Quirinarie-parte prima che sono andate come si sa e il ballottaggio di oggi che potrebbe anche servire su un vassoio a Bersani la via d’uscita Prodi, eterogenesi di un finale di partita imprevisto. La quota maschile degli eletti 5 Stelle non se la tiene proprio: «Due mesi al massimo, ma se continua così anche prima, e la finiamo con gli acuti e le gaffes di Roberta, quel tono da spaccapalazzi per poi finire sbertucciata dalla Rete». Due mesi e al suo posto arriverà il toscano Riccardo Nuti, «sarà lui, come prevede la rotazione, il nostro portavoce e capogruppo».
Più clemente la quota rosa delle grilline che si limita a un diplomatico: «È l’apripista di una storia nuova e sarebbe sbagliato introdurre nel giudizio la categoria del simpatico e dell’antipatico». Dopo di che, è «oggettivamente non troppo simpatica» e quella di chiedere consigli alla Rete che fare per recuperare i 250 euro di scontrini rubati con la borsa, è stata una mossa «a gradimento zero». Anche tra le deputate 5 Stelle.
Ieri la cittadina Lombardi ha provato ad occuparsi d’altro, il decreto Ilva, rifiuti zero. Ha pensato bene di stendere un velo pietoso sul post «Borsa e scontrini rubati, mi date un consiglio» consegnato a Facebook sabato all’ora di pranzo e fonte inesauribile di ironie e sarcasmo. Ci ha pensato una penna impietosa come quella di Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere della Sera ad immortalare per sempre «la vertigine del potere di una cittadina maldestra». «I vecchi peones osserva Grasso che hanno riscaldato gli scranni del Parlamento almeno non facevano danni ed erano coscienti della loro nullità. Questi sono pasticcioni e presuntuosi. E strologano...».
Circa lo «strologare» la cittadina portavoce dei Cinque stelle alla Camera Roberta Lombardi supera di varie lunghezze il collega del Senato Rocco Crimi, uomo con minori certezze ma maggiore garbo istituzionale.
A lei invece, Roberta, 40 anni, romana, viene naturale dire quello che le attraversa il cervello. Gli indizi erano già evidenti nel suo profilo di presentazione (oggi scomparso dal sito di Grillo): laurea in Legge, inglese come l’italiano, «smanettona al computer», decine di lavori e «da nove anni in un’azienda che fa arredamento d’interni chiavi in mano per clienti Top Spender (emiri, miliardari vari, oligarchi russi etc etc) in tutto il mondo. Lavoro quindi nel settore del Lusso e del Made in Italy». Meraviglioso il passaggio sui cani: «Ho un compagno che amo, un bimbo bellissimo di 10 mesi e una cagnetta pestifera che risponde al nome di Mirtilla. L’esperienza con lei e prima di lei con la mitica Matilda mi ha davvero aiutato tantissimo nella mia nuova vita da mamma: la comunicazione non verbale che abbiamo con i nostri amici cani è prezioso bagaglio di esperienza». Fin qui, però, la personalità brillante di una donna di carattere, vivace e con le idee chiare.
Il problema è nato un secondo dopo che è diventata portavoce per acclamazione, il 10 marzo. Ha esordito con il «fascismo buono» e ha definito l’articolo 18 «un’aberrazione». Ha cominciato subito dicendo che era stata colpa dei giornali («complottismo mediatico») che, ovviamente, non ama.
Nel suo primo discorso alla Camera ha fatto di testa sua, senza tenere conto dei suggerimenti dei colleghi, autonomia che non è piaciuta. Qualche giorno dopo, il 27 marzo, ha attaccato a testa bassa il decreto per i pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese creditrici. «È una porcata di fine legislatura arringò l’aula i soldi vengono restituiti agli istituti di credito e non alle stesse imprese». Peccato sia obbligatorio visto che si tratta di debiti che le imprese hanno già contratto con le banche. Una figuraccia globale. Per cui il deputato Adriano Zaccagnini cominciò a chiedere la sua testa perchè «non è capace di lavorare in gruppo e non sa gestire le persone».
Uno può anche glissare sul sorrisino che sfoderò a Bersani per dirgli, «la società civile siamo noi». Ma non sulla mancanza di educazione verso un Capo dello Stato di 87 anni a cui ha suggerito di «andare a fare il nonno».
La storia degli scontrini rubati ha definitivamente condannato il suo gradimento. Umiliata dalla sua stessa arroganza. In attesa di sostituzione.15.4.13

La Stampa 15.4.13
Quando la gaffe è a Cinque Stelle
Fascismo, microchip e denaro Cinquestelle campioni di gaffe
Parlamentari incontenibili, ma la rete non perdona le figuracce
di Mattia Feltri


La vera difficoltà è ricordarle tutte, le gaffe: ci si riempiono pagine di taccuino perché, puntuale come il sole che sorge, il cittadino a cinque stelle infila il gioiello quotidiano. L’ultimo è della più prolifica, Roberta Lombardi, capogruppo alla Camera che in un eccesso di minimalismo ha sottoposto a referendum la questione degli scontrini per 250 euro smarriti nel furto del portafoglio. Che fare? Rinunciare al gruzzolo o chiedere comunque il rimborso? La democrazia diretta e dal basso ha risposto col rituale vaffa: con quel che guadagni, rinuncia ai due soldi e non romperci le scatole. Pensa un po’ che destino per una che aveva esordito nella carriera istituzionale con una cantonata ad amplissimo respiro: il riconoscimento di un fascismo buono. Erano gli stessi giorni nei quali il collega Paolo Bernini esprimeva preoccupazione per il controllo globale tramite microchip sottocutanei.
Come si vede, il catalogo è ricchissimo, e non lo si propone per gusto dello sfottò o per bocciare i grillini a prima vista. Semplicemente per ricordare che la vita nella scatola più pubblica d’Italia - il Parlamento - è ricca di effetti collaterali. Anche gravi, e all’inizio spesso sottovalutati. Il capogruppo al Senato, Vito Crimi, dopo essere stato a colloquio col presidente della Repubblica, riferì ai suoi che «Napolitano è stato attento, non si è addormentato: Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». Non è vero che la prodezza della Lombardi sia stata equivalente: lei effettivamente riferiva una confidenza del capo dello Stato («vado a fare il nonno»), ma come ha sottolineato Aldo Grasso sul Corriere, le confidenze tali dovrebbero restare, se si posseggono i principi della buona creanza. Il punto è che il grillino medio ritiene necessario testimoniare la tempra rivoluzionaria con l’impudenza: Gessica Rostellato la esibì con Rosi Bindi, rifiutandosi di stringerle la mano, e la Lombardi con Pierluigi Bersani nella celebre diretta streaming: «Sembrava di essere a Ballarò». Lei si è armata della sfrontatezza grillesca ma ancora non pare averne lo spessore. Altrimenti sarebbe dura spiegarsi l’aggettivo - «porcata» - con il quale la Lombardi definì lo stanziamento di fondi alle amministrazioni perché paghino i debiti ai privati.
È presumibile che la capogruppo sia oggi in testa alla speciale classifica proprio perché è più esposta. Anche Crimi del resto ci sta dando dentro. Quando dichiarò Bersani un premier preferibile a Mario Monti, dovette risistemare le cose Beppe Grillo: per noi pari sono. E dunque resta da stabilire di chi fosse la gaffe. Anche il sommo Beppe, infatti, ha avuto le sue giornatacce, come quella delle quirinarie sabotate dagli hacker; poi si attribuì al Megafono l’intenzione di voler risistemare il risultato, e l’accusa era deboluccia. Piuttosto non ci si aspettava un tale sacrilegio nella cattedrale della web-democracy.
Non c’è la controprova, ma sarebbe bello sentire i commenti di Grillo se le medesime faccende riguardassero altri. Che direbbe del cittadino Andrea Colletti che dopo la prima e fin qui unica votazione intervenne per denunciare il sistematico ricorso ai pianisti? «Lei non mi può interrompere», disse poi Colletti al presidente di turno, Maurizio Lupi, in un’interpretazione innovativa della prassi parlamentare. Che direbbe del cittadino Adriano Zaccagnini (e commensali affini) fotografato durante un pranzo neo-castale ai tavoli del ristorante della Camera (15 euro a carico del deputato, 80-90 della comunità). Si tratta invece di piccole manchevolezze, e col tempo saranno corrette. Ma bisogna affrettarsi visti i ritmi vertiginosi con cui fioccano. Specialmente i primi giorni, i ragazzi a cinque stelle guardavano tutti in cagnesco e se ne andavano in giro per il transatlantico coi bicchieri di Coca Cola o senza giacca, rincorsi da dipendenti imploranti e disperati («lei non può dirci che cosa dobbiamo fare», si inalberò la Lombardi. «Siamo pagati per quello», replicò l’altro). Insomma, tutto un po’ confuso, un po’ amatoriale. Come le riunioni segrete e a porte chiuse, da quelle all’hotel Saint John all’alba della legislatura a quella di Fiumicino, coi cronisti all’inseguimento dei pullman: trovate che hanno il solo risultato di restituire un ambaradan psichedelico, per il gusto da commedia di chi scrive e di chi legge.

Repubblica 15.4.13
“Prodi e Bonino? Meglio Gino Strada” l’imbarazzo dei deputati cinquestelle
Oggi l’esito delle “quirinarie”, base spaccata
di A. Cuz.


ROMA — È come se Narciso si guardasse riflesso in uno specchio d’acqua, e non si riconoscesse più. Fieri delle loro idee, del loro essere diversi, nuovi, “anti”, i parlamentari pentastellati si ritrovano nella rosa dei nomi da votare per la presidenza della Repubblica persone che loro stessi definiscono «impresentabili» (copyright del comunicatore Claudio Messora).
E hai voglia a dire che la Rete è sovrana, la democrazia diretta è il futuro e «faremo quello che ci dice la base». Più di uno in queste ore ha cercato di sapere quanti voti si nascondono dietro le facce di Bonino, Fo, Gabanelli, Grillo, Prodi, Rodotà, Strada, Zagrebelsky. Senza successo. La classifica è segretissima, come il numero dei votanti (gli aventi diritto sono poco più di 48mila. Il numero di quanti hanno effettivamente partecipato, per ora, non è stato comunicato). Così, Marco Scibona dalla Valsusa spera solo di non dover apporre sulla scheda il nome del procuratore Gian Carlo Caselli, che i no Tav vedono come fumo negli occhi per i processi contro alcuni di loro. «In teoria quella che ha votato è la nostra base, ma non è che ti fanno l’esame del sangue. Mandi solo una carta d’identità - spiega rassegnato il senatore - non mi vorrei fasciare la testa prima del tempo però. Credo che quelli per Caselli, Prodi e Bonino siano voti minoritari». Promette fedeltà alla linea in qualunque caso, Scibona. Come il siciliano Francesco Campanella: «Se facessimo di testa nostra perché non ci piace un nome che senso avrebbe?». Voterà chiunque? «Con minore o maggior piacere. Sarebbe bellissimo se riuscissimo a trovare una sintesi, una persona che ha il gradimento di gran parte della popolazione ». Non pensa né all’ex premier né alla leader radicale, però. Forse è più in linea con quanto dice il deputato laziale Adriano Zaccagnini: «Rodotà è un’ipotesi concreta, una persona validissima, un vero custode della Costituzione. Se verrà scelto dai cittadini ci aspettiamo che Sel e Pd convergano su di lui». Ragionamento analogo a quello del collega Manlio Di Stefano, secondo cui «sarà difficile per il Pd dire di no ai nostri nomi se escono, ad esempio, un Rodotà o uno Zagrebelsky». Il capogruppo al Senato Vito Crimi ha detto di essere stato sorpreso dal nome del Professore: «Io che voto Prodi!», dice scorato al telefono. «Se devo lo farò. È la democrazia, bellezza. Però certo...». Di Stefano è meno sorpreso: «La Rete può essersi fatta influenzare da alcuni articoli che hanno accostato il nome di Prodi al Movimento». Ne aveva parlato anche Grillo alla riunione in agriturismo? «Aveva solo detto: “Meglio lui che altri, come Amato”». E quindi, se non fosse possibile mandare avanti il loro nome, cosa faranno i grillini dopo le prime tre votazioni? «Gli scenari sono ancora tutti possibili», dice Di Stefano. Molti parlamentari: «Faremo una riunione, troveremo il modo di decidere».
Intanto tifano. La deputata Giulia Di Vita fa campagna per Gino Strada. Sulla pagina Facebook del gruppo 5 stelle alla Camera il fondatore di Emergency vince un sondaggio lanciato per “anticipare il blog”. I fan dei deputati grillini mettono al secondo posto Imposimato, poi Gabanelli, Rodotà, Grillo, Bonino. Prodi è ultimo, che però non vuol dire nulla. Tutto dipende dalla votazione on line che oggi sceglierà il vincitore. E da quanto il nome che ne uscirà potrà essere portato in fondo.

Repubblica 15.4.13
Le ombre vaticane sui grandi elettori
di Concita De Gregorio


IL BACIO dell’anello è una questione di geografia, l’Italia essendo l’unica nazione al mondo che custodisce la Città del Vaticano all’altezza dello stomaco. Di storia, che da millenni intreccia dei due governi i due destini.
L’ombra del Vaticano sul Colle quando il “bacio dell’anello” diventava una ragion di Stato
Ma con Papa Francesco la politica italiana è più lontana

DI SOLDI, poiché da sempre e molto strettamente i bilanci dell’uno dipendono dalle decisioni dell’altro. È grosso modo per questo che non c’è paragone tra il livello di attenzione che il Vaticano dedica alla politica italiana, anche minuta e minutissima — i consigli regionali, per dire, i candidati sindaci, persino — e l’interesse che riserva alle presidenziali francesi, alle elezioni andaluse, alle lotte di potere messicane. È per le stesse ragioni — di vicinanza, di confidenza con la materia, di interesse economico diretto — che la Curia romana destina la massima attenzione alla formazione dei governi, un’ancora stretta ma meno severa vigilanza all’elezione del capo dello Stato. I governi decidono: di scuole private, di sanità, di tasse sui beni immobili, di diritti in
materia di famiglia, libertà della persona. I presidenti no. Almeno, non direttamente.
Lo ha spiegato in estrema sintesi, una decina di parole, Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio: “L’attività di governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa”, ha detto il 6 giugno del 2008 reduce da un lungo e cordialissimo colloquio col Pontefice, presente come sempre Gianni Letta. Non può che compiacere. Di più, sempre da presidente del Consiglio, in un telegramma per gli 80 anni del cardinale Ruini: “Auspico che continui ad essere con la sua saggezza ed esperienza fonte di riflessione e di guida per tutti noi”. Il presidente della Conferenza episcopale guida del capo del governo italiano e, per estensione, di tutti noi.
Gennaro Acquaviva è stato a metà degli anni ‘80 l’uomo che per conto di Craxi ha portato a termine la revisione del Concordato, assiduo sherpa tra le due sponde del Tevere: “Montini, Siri, Silvestrini facevano politica direttamente con grande intelligenza. Negli ultimi trent’anni la classe dirigente della chiesa è progressivamente decaduta. Ha fatto campagne elettorali, certo, ha sostenuto i suoi interessi attraverso i suoi candidati. Ma da molto tempo non è più decisiva nell’elezione di un presidente della Repubblica: almeno dai tempi di Pio XII”. Dalla fine degli anni Cinquanta, dice Acquaviva. In realtà qualcosina dev’essere successo anche dopo, di certo almeno fino al pontificato di Paolo VI se — ha raccontato il corrispondente di Le Monde dell’epoca, Jacques Nobecourt — fra il 17 e il 22 dicembre 1964, cinque giorni, andarono in tre a casa di Fanfani per tentare di dissuaderlo dalla tentazione di fare il Presidente. Nell’attico di via Platone arrivò prima Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di stato vaticana, poi il segretario particolare del Papa monsignor Macchi, infine l’assistente generale dell’Azione cattolica Franco Costa. Esasperato, l’impulsivo Fanfani rispose: “Riferisca a chi la manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come regolarmi in queste faccende verrò tra breve a prendere la parola in concilio per insegnargli come si deve dire messa”. In ogni caso, passato il momento di comprensibile fastidio, Fanfani rinunciò. Preferì trasformare — come si usa in questi casi — il sacrificio in un credito.
Il bacio dell’anello, o per i più atletici la genuflessione fino alla pantofola, è rimasto nei decenni successivi un gesto simbolico relegato alle personali inclinazioni e sensibilità. Oscar Luigi Scalfaro, che pure era un terziario francescano ed andava col Papa ad Assisi in visita al Sacro convento, aveva nei confronti di Giovanni Paolo II una devozione pari all’indifferenza con la quale si divertiva ad ignorare i cardinali. Consegnava chiuse ai suoi collaboratori le buste con gli stemmi dorati che arrivavano dal Vaticano — racconta il Segretario generale del tempo — in occasione dei conferimenti di incarico per i governi: “Ti do due buste, conservale. Le apriamo dopo”, sorrideva.
Dice Ciriaco De Mita che la Curia romana ha sempre avuto molta miglior disposizione di quanto non si creda verso i comunisti, erano semmai i socialisti a impensierirla. “Ricordo che appena eletto segretario Dc andai a Genova, mi dissero che Siri voleva vedermi. Avanzava maestoso, pareva un principe rinascimentale. ‘Hanno fatto bene a scegliere lei, che è un birbante’, mi disse. Feci qualche osservazione a proposito delle dinamiche verso il Pci. ‘Ma no, è la cultura socialista, piuttosto, a darmi pensiero’, mi rispose”. Era in carica Pertini, in quegli anni. E anche in questo caso i rapporti del presidente (socialista) con la Curia erano tanto ruvidi quanto disinvolta era la relazione con Papa Wojtila, col quale andava sull’Adamello a sciare. Quando il presidente fu ricoverato all’Umberto primo per un malore, nel 1987, Wojtyla andò in ospedale da lui e rimase mezz’ora fuori dalla porta senza poter entrare. “E’ stato mio amico fin dal primo incontro — disse alla moglie — se domanderà gli dovete dire che il Papa era qui ma l’ha trovato in sonno e non l’ha voluto disturbare”.
Con Ratzinger che — dice Acquaviva per raccontare della sua estraneità alle lotte di potere — “era un papa che suonava il pianoforte” la pratica della gestione degli affari correnti è passata del tutto nelle mani delle seconde linee. “Se ne occupava Bertone, salesiano molto operativo al quale dovrei anche essere grato: ha inventato l’8 per mille, il Concordato me l’ha risolto lui”. L’ha risolto con una percentuale sulla dichiarazione dei redditi, tanto per essere chiari e capire di cosa si tratti davvero. “Bertone era ed è grande amico di Tremonti. Si intendono e si assistono sulle questioni di loro pertinenza. Non dico che siano tutte questioni di conti ma in prevalenza, diciamo, potrebbero”. Bertone è l’uomo dello Ior, la banca vaticana nella black list del sistema di vigilanza mondiale, il grande pozzo da cui transitano denari della cui provenienza da decenni procure d’ogni dove chiedono invano di sapere. Lo Ior è al centro della vicenda — Vatileaks — che ha portato alla rinuncia di Benedetto XVI, il papa del pianoforte. De Mita: “Ratzinger aveva una dimensione molto religiosa. Ad essere presenti sulla scena politica erano altri. Ruini per esempio. Molto presente. Direi troppo presente”.
Ma d’altra parte, passa in rassegna la storia Acquaviva, “non c’è mai stato nessun Ruini che abbia mosso ciò che non poteva, o che in fondo non interessava. Dossetti voleva Sforza presidente e non lo ebbe, dissero che era donnaiolo e massone, liquidarono la faccenda così. L’elezione di Gronchi fu un piccolo golpe contro la Dc ordito dai socialisti che volevano rientrare in gioco. L’ascesa di Leone una partita tutta interna alla Dc contro la sinistra.
Sì, Silvestrini interveniva, consigliava. Montini avrebbe voluto Moro. Ma il peso della Chiesa è andato negli anni indebolendosi insieme alla consistenza intellettuale e in qualche caso morale degli uomini”. Sono sul tavolo questioni sempre più pratiche, sempre meno ideali. Anche quando lo sembrano — quando hanno l’aria di battaglie etiche — nascondono interessi d’altro tipo. La gestione dell’immenso patrimonio immobiliare. Dell’istruzione e delle cliniche private. La sanità, la scuola, le tasse. “Oggi, poniamo, monsignor Crociata segretario generale della Cei può fare campagna elettorale per opporsi alla Bonino alla Regione Lazio, trovando magari complicità inaspettate a sinistra. Ma quanti voti sposta, in un sistema sempre più disgregato? Qual è davvero la compattezza della falange politica che risponde al mondo cattolico e soprattutto: quali sono le ragioni che la muovono?”.
“Il dramma dei divorziati esclusi dalla comunione”, era il titolo di un editoriale del
Giornale di Berlusconi qualche anno fa: seguì fitto e pensoso dibattito tra i massimi esponenti delle gerarchie e del credo religioso. Persino in un ambito come questo, non immediatamente misurabile in termini di cassa né di primaria urgenza per le sorti del Paese, si fa tuttora qualche fatica a non rilevare una sovrapposizione di interessi: personale, pastorale, elettorale. Nei giorni del recente conclave c’era chi diceva che sarebbero bastati “sei mesi di pontificato di Carlo Maria Martini per cambiare il destino della Chiesa, molto in subordine anche quello dell’Italia”. E’ stato eletto Papa Francesco, che di Martini era il candidato nel 2005. “C’era un cardinale in più, in cielo, a votare per Bergoglio”, sorride don Virginio Colmegna che di Martini a Milano è stato il braccio destro: “Francesco sarà un Papa capace di cambiare la storia della Chiesa e certo del-l’Italia non con le parole ma coi fatti. Col tempo, e coi gesti che sono anche omissioni”. Il non dire, il non fare. In questa vigilia di conclave laico, a pochi giorni dal voto per il Colle, non c’è chi senta — neppure tra i suoi uomini più fidati — la voce del Papa. Un silenzio che rovescia gli animi e svapora le intenzioni. Che molti rende inquieti, nella Roma dei Papi e dei Re, molti altri rincuora.
(7 — fine)

La Stampa 15.4.13
Pedofilia: arrestato il prete che gestiva l’oratorio di Omegna
La Procura indaga su sei vittime. Il vescovo gli aveva accordato una pausa
di Massimo Mathis


Ieri avrebbe dovuto partecipare alla festa di commiato prima di prendersi un «periodo di pausa». Ma don Marco Rasia, 41 anni compiuti il 12 marzo, già coadiutore della parrocchia di Castelletto Ticino (Novara) e poi a Omegna (Verbano-Cusio-Ossola), la domenica l’ha trascorsa da solo e in cella dov’è stato condotto in manette venerdì sera. L’accusa: pedofilia. A dare la notizia dell’arresto, ieri pomeriggio, è stata la Diocesi di Novara che in un comunicato ha espresso «sorpresa, sgomento e tristezza» per il provvedimento di custodia cautelare emesso a carico del sacerdote e, in attesa degli sviluppi della vicenda, ha garantito la «massima trasparenza nei confronti della comunità civile e ecclesiale».
Una prassi inconsueta quella del vescovo monsignor Franco Giulio Brambilla, che su richiesta dello stesso don Rasia aveva acconsentito alla rinuncia all’incarico in oratorio, concedendogli «un periodo adeguato in cui potesse staccarsi dagli impegni pastorali». La decisione - fanno sapere dalla Curia - «era motivata da elementi per i quali non era possibile prevedere gli sviluppi. Ora - si legge nella nota - in attesa di prendere esatta conoscenza delle imputazioni, la Diocesi esprime profonda fiducia nella magistratura e attende sviluppi».
Brillante e spigliato, in oratorio a Omegna, sul lago d’Orta, don Marco andava forte. Nelle foto sorride, occhiali da sole blu e jeans, in maschera rosa da imbianchino alla sfilata dell’ultimo Carnevale. Ad arrestarlo sono stati i poliziotti della Squadra mobile di Novara dopo aver ascoltato dalle presunte vittime storie pesanti di abusi, palpeggiamenti ma anche violenze. Il prete «amico», il confidente capace di trasformarsi in orco cattivo: «Non devi preoccuparti, è una cosa normale». Sono stati proprio loro, i «suoi ragazzi», a fermarlo: si parla di almeno sei vittime, tutte sarebbero adolescenti.
Il sacerdote, secondo le accuse dei pm di Novara Irina Grossi e Giovanni Caspani, si sarebbe macchiato di abusi quando prestava servizio a Castelletto. Alcuni episodi contestati risalirebbero ai primi anni 2000, qualcuno è addirittura già prescritto.

l’Unità 15.4.13
Il Papa: l’incoerenza mina la Chiesa
Nell’omelia a San Paolo, Francesco invita i fedeli a spogliarsi dei tanti idoli «piccoli e grandi»
di Virginia Lori


ROMA «L’incoerenza dei fedeli e dei Pastori tra quello che dicono e quello che fanno, tra la parola e il modo di vivere mina la credibilità della Chiesa». Lo ha denunciato Papa Francesco nell’omelia pronunciata ieri sera nella Basilica di San Paolo fuori le mura, dove si è recato questa sera per la prima volta dopo la sua elezione del 13 marzo scorso.
Secondo Bergoglio, «chi ci ascolta e ci vede deve poter leggere nelle nostre azioni ciò che ascolta dalla nostra bocca e rendere gloria a Dio». Dobbiamo, ha scandito, «testimoniare Cristo con il dono di noi stessi, senza calcoli, a volte anche al prezzo della nostra vita». Con parole molto forti, il Pontefice ha quindi esortato tutti i credenti a interrogarsi sugli «idoli» che troppo spesso occupano nel nostro cuore il luogo che dovremmo riservare a Dio.
L’invito del Papa argentino è dunque a «spogliarci dei tanti idoli piccoli o grandi che abbiamo e nei quali ci rifugiamo, nei quali cerchiamo e molte volte riponiamo la nostra sicurezza». «Sono idoli ha spiegato Francesco che spesso teniamo ben nascosti». «Possono essere ha elencato l’ambizione, il carrierismo, il gusto del successo, il mettere al centro se stessi, la tendenza a prevalere sugli altri, la pretesa di essere gli unici padroni della nostra vita, qualche peccato a cui siamo legati, e molti altri». «Questa sera ha confidato Papa Bergoglio agli ecclesiastici e ai fedeli presenti nella Basilica di San Paolo vorrei che una domanda risuonasse nel cuore di ciascuno di noi e che vi rispondessimo con sincerità: ho pensato io a quale idolo nascosto ho nella mia vita, che mi impedisce di adorare il Signore?». «Adorare ha ricordato spogliarci dei nostri idoli anche quelli più nascosti, e scegliere il Signore come centro, come via maestra della nostra vita». «Cari fratelli e sorelle, il Signore ha concluso ci chiama ogni giorno a seguirlo con coraggio e fedeltà; ci ha fatto il grande dono di sceglierci come suoi discepoli; ci invia ad annunciarlo con gioia come il Risorto, ma ci chiede di farlo con la parola e con la testimonianza della nostra vita, nella quotidianità. Il Signore è l’unico, l’unico Dio della nostra vita e ci invita a spogliarci dei tanti idoli piccoli o grandi che abbiamo, e ad adorare Lui solo».
Intanto il vescovo Marcello Semeraro, nominato dal Papa segretario di questo organismo costituito da 7 cardinali e dal presidente del Governatorato Vaticano ha sottolineato che «la svolta nella direzione della collegialità» impressa da Papa Francesco al suo Pontificato con l’annuncio della costituzione di un «gruppo» di cardinali che lo affiancherà per «consigliarlo» nel governo della Chiesa Universale, e per «studiare» una riforma della Curia Romana, si può «inquadrare anzitutto nell’accoglienza d’istanze, emerse a più voci nel corso delle Congregazioni Generali anteriori al Conclave».

Repubblica 15.4.13
Il referendum sulla scuola che spacca in due Bologna. E anche il Pd si divide
di Michele Smargiassi


UN SESSANTENNIO di buongoverno val bene una messa? A Bologna il Pd rischia un clamoroso autogol sul fiore più bello al suo occhiello, le scuole dell’infanzia comunali. È un paradosso micidiale: nella terra dove la sinistra ha inventato la cultura dell’educazione infantile gratuita e per tutti, la regione degli “asili più belli del mondo”.

BOLOGNA E LA città dove quasi otto bambini su dieci, tra i tre e i cinque anni, vanno alla scuola pubblica, ebbene proprio qui il Pd viene messo nell’angolo da un referendum “laicista”, e si trova costretto a difendere a spada tratta il finanziamento pubblico a un mazzetto di materne private, ovverosia a quelle cattoliche, che sono venticinque sulle ventisette “paritarie” a cui va un milione di euro l’anno, tolto da un bilancio comunale sempre più magro.
Si voterà il 26 maggio su due opzioni: B, lasciare tutto com’è, oppure A, prendersi indietro quel milione e darlo solo alle scuole pubbliche. Non è, come si può immaginare, una semplice questione amministrativa: è già scontro tra massimi sistemi, “scuola di tutti” versus “ sussidiarietà”. E neppure una questione locale. Il comitato Articolo 33 (l’articolo della Costituzione che autorizza le scuole private ma «senza oneri per lo Stato») ha alzato al massimo la posta, ha reclutato un plotone di testimonial di gran nome, Andrea Camilleri, Salvatore Settis, Margherita Hack, Angelo Guglielmi, Sabina Guzzanti, Moni Ovadia, Isabella Ragonese, il collettivo di scrittori Wu Ming che sta conducendo un autentico battage su Internet, e soprattutto il “quirinabile” Stefano Rodotà, che appoggia convinto «un’iniziativa rispettosa dei valori della Repubblica». E il partito di governo, che aveva preso sottogamba la sfida («È un sondaggio del cuore», minimizzava il segretario Pd Raffaele Donini) da qualche giorno è diventato molto, molto nervoso. «Marziani che non sanno nulla della situazione di Bologna», reagiscono al partito contro le intrusioni eccellenti, e rispondono con Massimo Cacciari e l’economista cattolico di punta Stefano Zamagni. Ma scontano anche l’appoggio entusiasta e imbarazzante del centrodestra («Uniti al sindaco Merola nella lotta! »), e il fiato sul collo della Curia, perentoria e ultimativa: «Se dobbiamo morire moriremo, ma ai nostri 1700 bambini chi ci penserà? ». La linea di difesa della giunta assediata, per sfuggire al fuoco ideologico incrociato, punta su considerazioni pratiche: «Con quel milione non riusciremmo a dare un posto nelle scuole comunali a tutti i bambini che lo vorrebbero ma restano esclusi, e le scuola paritarie hanno per legge una funzione pubblica ». Insomma, quei soldi servirebbero a dare una risposta alle famiglie lasciate a piedi dalle graduatorie d’accesso. La realtà non è così semplice. All’inizio di quest’anno, è vero, c’erano 463 bambini esclusi e “in lista d’attesa”, ma via via, anche grazie all’apertura di nove classi comunali, sono scesi a 103. E il paradosso è che ci sono ancora 95 posti vacanti nelle paritarie. A quanto pare molti genitori non vogliono comunque mandare i figli nelle scuole confessionali. Oppure non possono: perché, nonostante i finanziamenti, per “rifugiarsi” nelle private si paga, e non poco. Rette che vanno da duecento a sei-ottocento euro al mese e oltre.
Ma il punto in realtà non è l’emergenza posti. Perché quando il sistema del finanziamento alle private fu creato, quasi vent’anni fa, quel problema non c’era affatto: le materne pubbliche davano risposte a tutte le richieste. Perché allora si decise la generosa dazione? Per ragion politica. Era il ‘94, e a Bologna, incubatore civico dell’imminente Ulivo, stava maturando l’incontro fra exdc ed ex-pci, il sindaco Vitali portava in giunta i cattolici, e l’accordo con la Fism, influente associazione nazionale delle scuole cattoliche, fu il pegno d’amore di quel matrimonio. Che adesso non si può rompere per ragioni analoghe, infatti già i cattolici del Pd scalpitano: «No all’anticlericalismo e al razzismo contro le scuole cattoliche », intima Giuseppe Paruolo, ex assessore, renziano, ma a loro volta i laici mugugnano. A Roma sono allarmati: non serve proprio un’altra fonte di tensione interna, in questo momento.
Così, il gioco si fa duro. La tardiva richiesta del Comune allo Stato perché «faccia la sua parte» non basta più. Piazze e contropiazze sono già prenotate. La Curia scende in campo direttamente, il vicario episcopale Silvagni sprona i parroci a non restare inerti, la giunta cede i suoi spazi istituzionali ai difensori dell’“opzione B”, il sindaco accusa i referendari di sprecare ben mezzo milione di euro (tanto costa la consultazione) per risparmiarne uno. Poi però li fa imbestialire annunciando che, comunque votino i suoi concittadini, per lui non cambierà nulla: «Sono stato eletto per sostenere il sistema integrato pubblico e privato e lo manterremo fino alla fine del mandato». «E allora cancelli i referendum dallo statuto comunale», reagisce inferocito il fronte dell’A. «Non sei più il mio sindaco! », tuona l’attore Ivano Marescotti. La tensione riesce a spiazzare perfino i grillini, ufficialmente pro-referendum, ma col capogruppo Massimo Bugani che frena: «I finanziamenti potranno continuare, magari ridotti». Un mese ancora di questa escalation promette molto male. E un eventuale disarcionamento della giunta di sinistra dal suo storico cavallo di battaglia non resterebbe senza conseguenze, non solo a Bologna.

La Stampa 15.4.13
La crisi. Strage infinita
È emergenza suicidi Otto da inizio aprile
L’ultima vittima è una contabile di Bologna: senza lavoro da un anno
di Flavia Amabile


Si può andare avanti così? A questa domanda in troppi, stanno rispondendo di non essere in grado di farcela. L’ultima è una donna di 55 anni, D.C., di Bologna separata, disoccupata. Tre giorni fa era scomparsa da casa. Nell’auto lasciata sul molo c’erano alcune lettere in cui spiegava di aver deciso di uccidersi perché aveva perso il lavoro, era contabile in un’azienda del bolognese ma era stata licenziata un anno fa. Inutili le ricerche di un’altra occupazione, dopo un po’ la donna non ha retto e ha preferito buttarsi nello specchio d’acqua tra il porto di Vallugola e Gabicce mare.
Due giorni fa è stato un uomo di 38 anni ad impiccarsi nella sua abitazione di Isola Liri, in provincia di Frosinone. Professione operaio, in realtà disoccupato da tre mesi con una moglie e un figlio nato da poco, ha spiegato in un biglietto la sua disperazione.
L’elenco è lungo, purtroppo, siamo già a otto persone dall’inizio di aprile, e non siamo ancora nemmeno a metà mese. È un dramma dai contorni sempre più vasti, un’emergenza - come gridano le associazioni dei consumatori - da affrontare prima che si estenda ancora di più, con il suo carico di dolore per chi lascia e per chi resta.
Sempre due giorni fa ha scelto di farla finita un uomo che un lavoro l’aveva. Si chiamava L. M., aveva 62 anni ed era il titolare di una piccola azienda ortofrutticola a Torino. Aveva anche molti debiti, doveva decine di migliaia di euro al fisco. Ha preferito spararsi un colpo con uno dei suoi cinque fucili da caccia, tutti regolarmente registrati «Non ce la faceva più, diceva che voleva farla finita - racconta la compagna alla polizia - Aveva bisogno di aiuto ma non l’ha avuto».
«Non c’è più tempo da perdere, lo Stato deve intervenire garantendo assistenza, non solo economica ma anche psicologica, ai tanti piccoli imprenditori schiacciati dalla crisi che possono compiere gesti estremi», denuncia il Comitas che chiede «uno sportello ad hoc» presso la Prefettura o la Camera di Commercio, dove gli imprenditori possano andare a parlare della loro situazione e a ricevere ascolto e aiuto.
In Sardegna i suicidi sono stati tre in poche ore: un operaio edile di 47 anni di Serramanna, un imprenditore di 53 di Macomer e un piccolo impresario edile di 47 di Orotelli. «Non sono suicidi ma omicidi, una strage che giorno dopo giorno miete sempre più vittime», ha denunciato un comitato spontaneo locale.
È l’indice di un allarme particolarmente grave in una regione dove la crisi sta colpendo tanti. Secondo la Confesercenti l’indebitamento delle imprese è alto: ci sono circa 70mila partite Iva della regione che devono un totale di oltre 4,2 miliardi a Equitalia ed è un dato aggiornato al gennaio del 2011. «Con l’acuirsi della crisi è possibile stimare che oggi il debito sia salito a 5 miliardi e mezzo di euro e sappiamo che l’80 per cento delle imprese non sarà in grado di pagare quanto deve», ha spiegato Davide Marcello, vicepresidente di Confesercenti. L’associazione ha infatti attivato un numero verde anticrisi per imprenditori in difficoltà. «Non siamo la Asl spiega il presidente regionale dell’associazione, Marco Sulis - ma possiamo cercare insieme a chi ci chiama soluzioni tecniche al problema. Parlarne con i nostri esperti può aiutare a trovare concrete vie d’uscita». «Cresce il disorientamento - avverte don Marco Lai, responsabile della Caritas di Cagliari - perché non ci sono state risposte. Noi ci proviamo con iniziative su microcredito e prestiti della speranza. Abbiamo ottenuto anche dei buoni risultati ma, nel quadro generale di drammatica difficoltà, tutto questo è insufficiente».

La Stampa 15.4.13
«È il Paese che crolla su se stesso»
domande a Alessandro Meluzzi Psichiatra
di A. Ros.


C’è un’epidemia dietro l’angolo, racconta lo psichiatra Alessandro Meluzzi. Lo dice perché anni fa ha analizzato il rapporto tra crisi e suicidi. E adesso che siamo al culmine c’è un pezzo d’Italia - della sua storia, del suo Dna - che rischia di essere travolto.
Perché parla di una categoria di persone a rischio suicidio?
«La piccola impresa, il “chi fa da sé fa per tre” sono un tratto distintivo del Paese. Un universo quasi bipolare: fasi di euforia, quando tutto gira bene, poi momenti di disperazione. Ma quando si perde tutto c’è chi vede nel suicidio l’unica via d’uscita. È un rischio che riguarda molti. E non è una fuga; è un grido disperato».
Rivolto a chi?
«Famiglie, dipendenti, clienti, fornitori, creditori, debitori. È molto più che perdere il lavoro. Tanti imprenditori sono persone volte all’auto sfruttamento: lavorano anche 20 ore al giorno, il sabato, la domenica, trascurano la famiglia. Il loro non è un modo per procurarsi da vivere. Ce ne sarebbero di molto meno totalizzanti. È la realizzazione del sé più profondo. Quando quel mondo viene travolto non resta più niente».
E allora che cosa succede?
«Se prima ci si sentiva quasi onnipotenti, ci si sente dei falliti. Soli. Ci si vergogna. Sa qual è la più grande differenza tra un imprenditore e un lavoratore? ».
Quale?
«Se un lavoratore perde il posto non viene oppresso dal senso di colpa. In famiglia trova comprensione. Lo stesso tra i colleghi. Si sente parte di un destino comune, anche se triste: si perde il posto insieme, si protesta, ci si rivolge ai sindacati. Si ha qualcuno con cui parlare. Ci sono gli ammortizzatori sociali. Ma un imprenditore con chi parla? È persona abituata a fare da sé. Non sa nemmeno a chi chiedere aiuto. E per cosa, poi? Anche in famiglia rischia di non trovare appoggio: spesso c’è un alto tenore di vita, alte aspettative; la caduta può essere rovinosa, il senso del fallimento ancora più forte».
Cosa bisognerebbe fare?
«Provare a istituire più centri d’ascolto. Fare uscire allo scoperto gli imprenditori che sono falliti e si sono ripresi, per mostrare che un epilogo positivo può esserci. Altrimenti sarà una catastrofe».

il Fatto 15.4.13
La psicoanalista
“Perdere il posto è un lutto”


La parte più difficile nel restare senza lavoro è spiegarlo alla propria famiglia. Una pila di bollette che aspettano sulla scrivania, l’affitto da pagare, gli studi dei figli e lo sguardo severo di mogli e mariti una volta tornati a casa. Il dolore del nuovo millennio si chiama disoccupazione e sempre più persone faticano ad affrontarlo. Per cercare di capire questo nuovo fenomeno, abbiamo parlato con Paola Golinelli, analista membro della Società Psicoanalitica Italiana.
Dottoressa, ci potrebbe spiegare che cosa vuol dire a livello psichico per una persona perdere il lavoro?
Perdere il lavoro è a tutti gli effetti un lutto che l’essere umano deve riuscire ad elaborare. Noi siamo “homo faber” e abbiamo bisogno di agire attivamente sulla realtà che ci circonda. Perdere quel ruolo ci fa sentire esclusi e inutili.
Soprattutto quando questo avviene a 50 anni.
Nella vita di un adulto che si trova senza lavoro, il problema non è solo andare incontro a una mortificazione sociale, ma sentirsi venire meno alla propria funzione genitoriale, per quanto riguarda il sostegno economico. L’individuo sente che la famiglia dipende da lui e una volta disoccupato non sa più come svolgere quella funzione. Lo stesso succede se invece parliamo di single: la persona si vede declassare dal ruolo di adulto a quello di precario, all’improvviso dipendente da qualcun altro.
E a quel punto cosa succede?
Sono due le reazioni. Da una parte l’individuo può reagire rifiutando la realtà che si presenta come troppo angosciante e arrivare fino ad una negazione estrema. Droga, alcool, gioco d’azzardo possono essere alcuni degli agiti di chi non vuole prendere atto di quello che è successo. È un atteggiamento di stampo paranoide tipico di chi è stato abituato a vivere in ambienti di lavoro molto aggressivi, ad esempio i manager, e tende a vedere il colpevole sempre all’esterno.
Oppure si ha una reazione depressiva.
Sì, in quel caso si ha un atteggiamento più realistico, dove ci si rende conto di quello che è successo, cercando di non scoraggiarsi troppo. Il rischio è quello di entrare poi in una vera depressione con reazioni di auto-accusa e svilimento molto profondi.
Come può un individuo reagire ad una tale situazione?
Il compito degli analisti non è quello di dare soluzioni, ma di ascoltare. Posso dire però che è molto importante in questi contesti che la persona faccia affidamento a una sua flessibilità interna. Bisogna trovare il modo di rendersi conto che una nuova vita ricomincia e probabilmente niente sarà come prima.
Come dire, non tutto è perduto.
Quello che vedo nella mia attività di analista è una società caricata di un grande dolore. Perdere il lavoro è una crisi molto grave e profonda. Per questo credo che la nostra epoca stia affrontando una rivoluzione vera e propria, nella quale trova una sua dimensione solo chi riesce a trovare un nuovo modo di costruire la realtà.
m. c.

La Stampa 15.4.13
Dimenticano il figlio di 9 anni dopo una sosta in autostrada


Dimenticato nello spiazzo autostradale dai genitori poi ripartiti in camper. Brutta disavventura per un bambino di 9 anni della provincia di Bergamo lasciato a piedi, accanto all’A22, mentre la sua famiglia riprendeva la marcia per raggiungere una località del Trentino dove la famiglia aveva deciso di trascorrere il week end. I genitori, durante il viaggio, si erano fermati con il camper in un centro commerciale vicino alla stazione autostradale di Affi. Il bimbo era addormentato sul retro, ma si è svegliato ed è sceso dal camper per giocare. Al ritorno, i genitori non si sono accorti della sua assenza e sono ripartiti insieme alla figlia più piccola. Il bambino, quando si è accorto della partenza del camper, lo ha rincorso fino all’ingresso dell’autostrada, ma senza riuscire a farsi vedere da mamma e papà. A notarlo, invece, un casellante che ha subito avvertito la polizia stradale di Trento. I poliziotti, dopo essersi fatti raccontare dal bambino quale fosse la destinazione dei genitori, hanno intercettato il camper e hanno avvertito la famiglia ancora ignara di quanto accaduto. I due genitori sono tornati alla stazione di Affi un’ora più tardi e hanno recuperato il bambino.

l’Unità 15.4.13
Se il migrante è trattato da pazzo
di Flore Murard Yovanovitch


AL DI LÀ DI QUELLE SBARRE, DELLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI AL LORO INTERNO CHE CONTINUANO A DOVER ESSERE DENUNCIATE, i Centri di detenzione e espulsione (Cie) per migranti devono iniziare ad essere analizzati e visti anche per quello di cui sono il sintomo: una patologia dell’Occidente. Questi centri recludono infatti i migranti, che non hanno commesso alcun reato ma sono solo sprovvisti di documenti, sulla base non di cosa hanno fatto, ma sulla base di ciò che «sono». Sulla base di un pensiero, che dal «pacchetto sicurezza» definisce la persona senza permesso come propensa a delinquere. Questa persona la si rinchiude a tempo indeterminato senza informarla della durata della detenzione, in uno limbo totale. Con i Cie, l’istituzione-Occidente controlla, sorveglia, punisce, rende il migrante mero oggetto. Da perquisire nudo, trasferire, spostare, rispedire al mittente, nei Paesi di origine, i potenziali richiedenti asilo senza neanche verificare il rischio della persecuzione. Quella violenza istituzionale che il documentario «Vol Spécial» di Fernand Melgar, girato per la prima volta per 9 mesi all’interno di un Cie svizzero, svelava. Ma l’originalità di questo film unico di denuncia, sta in primis nel rendere tangibile la violenza invisibile il «piano d’annientamento» dell’altro (G. Cassarà) che deruba i migranti della loro identità, vitalità, speranza, dei loro progetti e sogni.
Il Cie è un’istituzione totale che, come qualsiasi altra struttura psichiatrica annienta i dissidenti, i marginali, i pazzi, in questo caso i «pazienti-migranti», azzerra la loro capacittà di reagire. La genialità di Melgar è di aver saputo cogliere e rivelare che oggi, i migranti sono trattati da «malati», perché sognano la libertà andata perduta in Europa, tra arresti arbitrari, espulsioni collettive e respingimenti sommari. Nel film, i detenuti hanno ancora la dignità di chiedere di venire trattati da essere umani, mentre è proprio questa loro identità umana che viene negata, in un conflitto tra identità migrante «sana», vitale e libera, quella «malata» di sicurezza. Con la sua comparsa questa identità irrazionale mette in crisi l’identità razionale del vecchio continente: è pericolosa perché potrebbe portare proprio ad una trasformazione.
La detenzione arbitraria per soli migranti, non può quindi essere capita né demolita dalle chiavi di lettura tradizionali. La realtà della «detenzione per migranti», deve essere l’oggetto di una ricerca psichiatrica nuova sulla dimensione nascosta, per cercare quale patologia dell’inconscio collettivo, permetta oggi l’esistenza dei lager nelle nostre periferie. Il disumano in corso ha un nome, anestesia collettiva del sentire, anaffettività di massa o «pulsione di annullamento» del diverso. I 473 carceri per migranti eretti sul territorio dell’Unione Europea, potrebbero essere solo il sintomo o l’avamposto della barbarie a venire, di cui la realtà dei Cie annuncia il possibile ritorno.

l’Unità 15.4.13
Se Kim avvicina la mezzanotte nucleare
Il trattato di non proliferazione del 1970 ha mancato l’obiettivo di allontanare la minaccia
di Pietro Greco


Oggi in Corea del Nord si celebra il Giorno del Sole. Perché il 15 aprile (del 1912) è nato Kim Il-sung, l’uomo che nel 1948 ha fondato la Repubblica Democratica Popolare e l’ha governata con pugno di ferro fino alla morte, avvenuta l’8 luglio 1994. Per celebrare il 101° anniversario della nascita del nonno, l’attuale e giovanissimo dittatore, Kim Jong-un, ha pensato bene di tentare il lancio di un nuovo missile balistico intercontinentale.
È solo l’ultima sortita di un’escalation di atti e dichiarazioni con cui da alcune settimane Pyongyang ci ricorda con sistematica puntualità quattro verità.
Primo, che l’orologio atomico continua a ticchettare molto vicino alla mezzanotte e che lo spettro di una guerra termonucleare non ha lasciato il mondo. Secondo, che esiste un trattato internazionale il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) che non impedisce al fantasma di affacciarsi con una certa frequenza alla finestra e di spaventare il pianeta. Terzo, che per cacciarlo definitivamente via quello spettro, che è tutt’altro che un ectoplasma, bensì una concretissima minaccia, c’è una sola possibilità: realizzare il sogno di alcuni scienziati come Albert Einstein, Bertrand Russell e Joseph Rotblat, e creare «nuclear-free world», un mondo completamente libero da armi nucleari. Quarto, che il sogno di quegli scienziati non è affatto irrealizzabile.
Che i primi due punti siano realtà auto evidente è la cronaca a dircelo. E non solo quella coreana. Una delle crisi aperte più pericolose è quella iraniana, che è appunto una «crisi nucleare», generata dal tentativo, vero e presunto, di Teheran di dotarsi dell’arma atomica. Inoltre sappiamo che la proliferazione dell’arma atomica, sia in senso verticale sia in senso orizzontale non è affatto banale. Stati Uniti e Russia, sebbene abbiano firmato il trattato di non proliferazione, continuano a possedere migliaia di armi nucleari capaci di distruggere, più e più volte, la civiltà umana in caso di guerra termonucleare totale. Che anche Cina, Gran Bretagna e Francia, sebbene abbiano firmato il Tnp, possiedono corposi arsenali atomici per così dire «legali». Che ci sono altre due potenze, l’India e il Pakistan, che non hanno firmato il Tnp e possiedono a loro volta arsenali atomici dichiarati. Che c’è un paese, Israele, che non ha firmato il Tnp e possiede un arsenale nucleare anche se non lo ha mai ammesso ufficialmente. Che, infine, esiste un paese, la Corea del Nord appunto, che pur avendo firmato il Tnp possiede in maniera illegale un piccolo ma pericoloso arsenale.
Il Tnp è entrato in vigore nel 1970. Ma non ha raggiunto il suo principale obiettivo: che era quello di allontanare la minaccia nucleare sia impedendo la proliferazione orizzontale, ovvero l’aumento del numero di paesi in possesso dell’arma atomica, sia di ridurre la proliferazione verticale, ovvero diminuire il numero di testate atomiche in possesso delle attuali potenze nucleari. Se è vero, infatti, che Stati Uniti e Russia, erede dell’Unione Sovietica, hanno ridotto i loro arsenali, non altrettanto hanno fatto Cina, Francia e Gran Bretagna, né India, Pakistan e Israele. Il Tnp non ha impedito neppure che altri paesi, firmatari del Trattato, si dotassero dell’arma atomica (la Corea del Nord) o che tentassero in modo più o meno esplicito di dotarsene (Iran, ma in passato anche la Libia e forse la Siria). Solo due paesi hanno volontariamente rinunciato al loro arsenale nucleare: il Sud Africa e l’Ucraina.
La Corea del Nord dimostra che, a 70 anni dall’avvio del Progetto Manhattan, persino un paese poverissimo, se è fortemente determinato, può ottenere l’arma atomica. Tutti i possessori, legali e illegali, di arsenali nucleari sono motivati dal fatto che «il mio vicino e/o nemico ce l’ha». Per cui il Giorno del Sole ci ricorda che per allontanare lo spettro atomico dal mondo c’è una sola opzione: quella proposta sessant’anni fa, negli ani ’50 del secolo scorso, da Albert Einstein e Bertrand Russell. Un «nuclear-free world», la distruzione completa e certa di tutti le ami atomiche.
La guerra fredda e la forsennata corsa al riarmo nucleare da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni successivi, determinata anche dallo sviluppo di quei missili balistici intercontinentali che oggi testa la Corea del Nord, sembravano aver ridotto al rango di mera utopia il progetto di Einstein e Russell: ricacciare completamente e per sempre lo spirito nucleare nella bottiglia.
Tuttavia la portata realistica di quell’idea politica l’unica azione in grado di bloccare la proliferazione è riemersa nella seconda metà degli anni ’80 nel secolo scorso. Quando la guerra fredda è finita e, subito dopo, l’Unione Sovietica si è dissolta. Non solo perché in quegli anni il fisico di origine polacca Joseph Rotblat, presidente del Movimento Pugwash, lo ripropone. Occorre cogliere subito le opportunità create dal nuovo scenario politico, sosteneva, e distruggere in maniera controllata e volontaria tutti gli arsenali nucleari. Il progetto fu fatto proprio anche dal giovane Presidente dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, che in un famoso incontro a Reykjavík, in Islanda, tra l’11 e il 12 ottobre 1986, propose al presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, di fare proprio quel progetto e creare finalmente un «nuclear-free world».
Reagan fu colpito dalla proposta. E ne discusse con i suoi capi militari. Non se ne fece niente. Ma si avviò il processo almeno per una riduzione degli arsenali delle due superpotenze. Processo, peraltro, ancora in atto.
Nel suo ultimo libro, appena pubblicato in Italia, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, Gorbaciov ribadisce esplicitamente che quell’idea e, in generale, il suo spirito pacifista debbono molto al pensiero di Albert Einstein.

La Stampa 15.4.13
Corea, in gita al 38° parallelo aspettando il missile di Kim
Viaggio con i turisti che da Seul sfidano le minacce del Nord per il brivido della guerra
di Ilaria Maria Sala


Nel villaggio di Panmunjeom i sudcoreani hanno due minuti di tempo per fissare i soldati di guardia dall’altra parte del confine

Le tensioni fra le due Coree sono leggibili in parallelo nelle misure di sicurezza che vengono prese per portare i visitatori alla Dmz (la «zona demilita- Lrizzata» vicino al confine, in realtà piena di armi e mine) e alla Jsa, l’Area di sicurezza congiunta, metà in Corea del Sud e metà al Nord.
È una visita fuori dal comune, quella al 38° parallelo: turistica, prenotabile da qualunque albergo di Seul, con opzioni spiegate in una brochure colorata, e che rende l’armistizio fra le due ICoree una gita come un’altra, dritta
nel cuore di uno dei luoghi più tesi che ci siano. Per chi vuole tornare indietro dopo pranzo, c’è la Dmz. Chi vuole passare un’intera giornata lungo il 38° parallelo – la linea di divisione fra la Corea del Nord e quella del Sud –, se è vestito «bene», non ha tatuaggi esposti e ha superato gli undici anni, può visitare anche il villaggio di Panmunjeom (che tecnicamente è al Nord, e si può solo vedere da lontano), e la Jsa.
Si parte di buon mattino, e man mano che ci si avvicina alla zona demilitarizzata si vedono barriere di filo spinato che emergono dalle acque del fiume Imijingang: come spiega Jang, la guida, parlando nel microfono dell’autobus turistico, «la Corea del Nord ha cercato di infiltrare il Sud con sommozzatori che si erano immersi nella parte del fiume a Nord. Quando ho fatto il servizio militare, ho passato due anni a guardare le acque del fiume».
La prima fermata è Imjingak, dove sono controllati passaporti e permessi. Qui c’è una locomotiva arrugginita, ferma dai tempi in cui si poteva andare in treno da Seul a Pyongyang e oltre, e alcuni monumenti alla pace e al dolore provato dalle famiglie separate dalla divisione della penisola.
Al posto di blocco, invece, decine di giornalisti e cameramen televisivi aspettano le ultime auto di chi sta lasciando Kaesong, il cui polo industriale, fiore all’occhiello della cooperazione fra Nord e Sud, è stato chiuso da Pyongyong nei giorni scorsi. Ogni tanto arrivano dei parlamentari e fanno mini-manifestazioni infilandosi fra le telecamere e le barriere del posto di controllo: chi vuole un dialogo con il Nord, chi vuole la linea dura. I cronisti, infreddoliti e un po’ annoiati, filmano tutto, e si buttano a corpo morto sull’auto del manager con le scatole di cartone e le valigie legate sul tetto, che ha chiuso in fretta e furia il capannone a Kaesong.
Alla Dmz si è in una specie di parco tematico della Guerra Fredda. Ci sono i «tunnel di infiltrazione» – tunnel scavati a 400 metri di profondità, che il Nord voleva utilizzare per un attacco a sorpresa a Seul ma furono scoperti e messi fuori uso grazie a disertori nordcoreani che ne rivelarono l’esistenza. Poi ci sono una piccola sala cinematografica, dove viene trasmesso un documentario su quanto avviene ed è avvenuto qui, un negozio di souvenir e alcuni monumenti. Poco più in là c’è la stazione di Dorasan, che ai tempi della politica «del raggio di sole» di Kim Dae-jun, presidente della Corea del Sud dal 1998 al 2003, era stata costruita per arrivare fino a Kaesong, ma che ora fa solo due fermate. L’intera area è piena di vocianti turisti cinesi, che si fotografano davanti a tutto urlando «uno, due, tre, melanzane! » – «qiezi», l’equivalente cinese di «cheese».
Mistero del turismo, la solennità del luogo e le tensioni attuali sono del tutto sprecate con i gitanti: una signora del Fujian, nel sud-est della Cina, dice che «no, nessun’emozione particolare, sono qui solo in visita», e resta anzi perplessa dalle domande che cercano di sondare la sua opinione sul fatto che la Cina è stata fondamentale per la separazione delle due Coree. Nel 1950, infatti, quando Kim Il Sung decise di invadere il Sud, convinto che il capitalismo avesse maturato nei cittadini il desiderio di comunismo, i suoi attacchi a sorpresa sulle prime ebbero successo. Poi entrarono in campo le truppe Onu, e in particolare quelle Usa, e Kim ottenne il sostegno cinese (anche Stalin aveva offerto sostegno, ma alla fine mandò armi ma nemmeno un soldato, lasciando che ci pensassero i cinesi). Nel 1953 l’armistizio fu concluso con un nulla di fatto (la separazione continua a essere lungo il 38° parallelo, come prima degli attacchi di Kim) ma un milione di morti, fra cui anche Mao Anying, primogenito di Mao Zedong. I feriti furono cinque milioni.
Dirlo a Feng, di Wenzhou, non provoca nessuna reazione: «Sì, lo abbiamo studiato a scuola. Noi la chiamiamo la Guerra di Resistenza contro l’America. Ma sono storie di altri tempi, no? Anche se i miei amici sono un po’ preoccupati che io sia qui». Sorride, gentile, scuote la testa alle altre domande, saluta e va a fare foto insieme agli altri della sua comitiva. Molti di loro spingono un globo terrestre di bronzo, spaccato in due proprio dove si trova la Corea, e fanno finta di cercare di riunificarlo – un po’ come le foto di quelli che raddrizzano la Torre di Pisa.
Il tunnel numero 3 può essere percorso fino in fondo – e tutti i turisti devono mettere un elmetto giallo, che li rende facilmente reperibili. Ancora con il fiatone, poi, possono andare ai telescopi, che consentono di scrutare oltre frontiera, e guardare se qualcosa si muove nel «villaggio della Propaganda», o a Kaesong e nella sua moderna periferia, dove giace, inerme, il polo industriale.
Poi si passa dal souvenir shop, dove chi vuole può comprarsi anche un pezzo di filo spinato arrugginito con numero seriale Dmz, si pranza e chi ha deciso di continuare la gita parte verso Panmunjeom.
La strada fiancheggia boschi pieni di avvertimenti contro le mine. Un nuovo controllo passaporti, un breve sguardo al «Ponte Senza Ritorno», dove furono scambiati i prigionieri di guerra, poi si arriva alla Freedom House, dove è obbligatorio firmare un documento in cui si dice che si è consapevoli di entrare in una zona «ostile, con rischio di ferimento o morte». Infine si aspetta, in fila per due, che i visitatori nordcoreani escano dalla zona di Camp Bonifas per poter entrare. Il nome, «Bonifas», è del militare Usa che fu ucciso proprio qui, attaccato con un’accetta dopo un litigio fra Nord e Sud nato per via di un pioppo, che andava potato per liberare la visuale.
Negli ultimi anni i soldati nordcoreani evitano per quanto possibile di incrociare quelli del Sud e degli Stati Uniti (tutti con i Rayban neri, affinché sia impossibile seguire il loro sguardo anche da punti di osservazione dalla parte nordcoreana), così si aspetta in fila che loro, e i loro visitatori, siano usciti dall’area. Per non «provocare» o rischiare di finire su fotografie nordcoreane che ridicolizzano la missione Onu, è proibito puntare, fare gesti inconsulti o espressioni facciali bizzarre. Si hanno a disposizione solo due minuti: passati a fissare i soldati immobili con i pugni serrati, l’unico nordcoreano in piedi fuori dal palazzo di fronte e la desolazione del luogo.
La baracca di ferro dei negoziati Onu è proprio sul punto di divisione, e il tavolo con sopra i microfoni è per metà al Nord e per metà al Sud. Qui di solito si dovrebbero tenere i dialoghi fra le parti in causa, ma ciò non avviene da tempo. La guida dice: «Questi sono i microfoni della hotline fra le due Coree», e li scuote: «Adesso sono morti. La Corea del Nord li ha tagliati». E sono proprio questi microfoni ormai inutili ad essere la parte più spaventosa di tutta la Zona demilitarizzata.

Repubblica 15.4.13
Anche Putin è un copione la tesi di laurea in Economia imbarazza il Cremlino
Molte pagine riprese da uno studio Usa. Ma lui tace
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — C'è caduto pure lui. Perfino Vladimir Putin, uomo più potente di Russia, avrebbe ceduto alla tentazione di saccheggiare testi scientifici altrui pur di coronare il proprio curriculum con un prestigioso titolo di dottore. Nel suo caso, in Economia. Che poi è, come è noto, il suo punto debole personale. La materia sulla quale viene più contestato e che gli piacerebbe invece padroneggiare con assoluta sicurezza. Le indiscrezioni circolano da tempo. Da anni autorevoli studiosi americani hanno scoperto il lavoro di copiatura dello studente Putin. Il problema è che adesso il premier russo Dmitrj Medvedev ha cominciato una clamorosa crociata contro i plagi e i titoli falsi, vera piaga del sistema russo della Pubblica Istruzione. E tutte le commissioni incaricate di far pulizia si sono scontrate con il clamoroso, e anche un po' ingenuo, errore giovanile del Presidente. Cosa fare? Interrompere la crociata anti copioni? O colpire tutti gli altri tranne Lui? L'imbarazzo è evidente. E intanto la notizia riprende a girare: ieri il tedesco Der Spiegel ha paragonato Putin al ministro Guttenberg costretto alle dimissioni nel 2011 per un'analoga vergogna.
Il Cremlino tace. Gli esperti incaricati del repulisti farfugliano frettolosi “no comment”.
Vladimir Putin ha tre lauree. La prima è in Diritto Internazionale, conseguita nel 1975 nella sovietica Leningrado. Un'altra è di pochi anni dopo ed è rilasciata dall'Università del Kgb dove frattanto si era arruolato. Non si sa neanche in quale materia. I servizi segreti hanno cambiato sigla (adesso si chiamano Fsb) ma mantenuto l'inaccessibilità dei propri archivi.
La terza laurea è quella dello scandalo, ancora represso: un master in Economia presso la prestigiosa Università Mineraria di San Pietroburgo, conseguita nel 1996 quando aveva appena cominciato la sua scalata al potere. La sua dissertazione si intitolava “ La progettazione strategica delle risorse regionali sotto la formazione dei rapporti del mercato'.
Ed è stata digitalizzata e inserita nel data base della Biblioteca pubblica Nazionale russa. Particolare che ha consentito a chiunque ne avesse voglia, di verificarne l'autenticità. Il primo a fiutare l'imbroglio fu uno studioso del Brookings Institute di Washington che scoprì come interi capoversi, per il 60 per cento delle 218 pagine, e almeno sei diagrammi, fossero stati presi pari pari da un manuale di economia americano tradotto in russo nel '94 dall'Accademia del Kgb. Ma le “calunnie” di un'istituzione americana non meritano alcuna reazione ufficiale e Putin si è sempre guardato bene dall'affrontare l'argomento.
Adesso però le cose si mettono male. Il purista Medvedev, nell'ansia di riportare ordine nel mondo accademico russo, ha incaricato uno specialista nella caccia ai plagi come il fisico Andrej Rostovstev, ordinario di fisica delle particelle elementari e inventore di un software che scova i copioni in tutti gli archivi del mondo. E, arrivato a Putin, tutto si è impantanato. Intanto un sito di intellettuali come Slon (Elefante) pubblica una lista di “copioni” e ci mette dentro oltre a Putin, il suo fedele presidente- dittatore della Cecenia Ramazan Kadyrov, il neo ministro della Difesa e perfino il ministro della Cultura. I tre proclamano sdegnati la loro innocenza e la loro purezza scientifica. Putin continua a ignorare le voci. L'economista Konstantin Sonin spiega il silenzio con un pizzico di impudenza: «Il potere di Putin non è certo fondato sulle sue modeste nozioni di economia. Se venisse fuori che ha copiato tutto, la sua rep uta zione r i marrebbe la stessa».

Repubblica 15.4.13
La scelta dei gesuiti del Boston college di vietare la distribuzione di preservativi accende le polemiche
Negli Usa sono sempre più i luoghi dove l’educazione sessuale è a rischio: e la preoccupazione cresce
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Nella bacheca del Boston college, tutto stropicciato, è appeso il foglio con le raccomandazioni agli studenti, ai quali si consiglia «di tenere una condotta all’insegna del rispetto della persona e conforme agli insegnamenti della fede cattolica». Nelle pagine online delle associazioni universitarie più conservatrici appaiono riferimenti espliciti all’astinenza come «valore irrinunciabile ». Fuori, nel campus, sul marciapiede di College Road all’angolo con McElroy Building, come tutti i venerdì tra le 10 e le 2 del pomeriggio, i ragazzi del BC Students for Sexual Health sono al lavoro distribuendo preservativi colorati e opuscoli di educazione sessuale «perché è giusto essere consapevoli delle scelte che si fanno».
La frattura è quasi fisica e ora viene alla luce dopo anni di lotta sotterranea. Le autorità dell’università hanno infatti spedito una lettera ufficiale con cui invitano il gruppo a sospendere l’attività «non in linea con i principi della religione e della tradizione» e poi ancora con tono a metà tra il paternalista e il minaccioso: «Ci rendiamo conto che non volevate violare la nostra politica, ma se non fermate subito la vostra attività
saremo costretti a prendere provvedimenti disciplinari». Per fine mese è fissata una riunione per discutere dell’argomento, ma il valore simbolico di quelle poche parole accende la polemica che rimbalza su televisioni e giornali, sino alla prima pagina del
New York Times.
Il contagio non è solo mediatico. Altri istituti si schierano a favore della lettera “censoria”, le adesioni sono tante, come osserva preoccupato il Boston Globe: Notre Dame, Georgetown, University of Dayton, Catholic University of America, altri due atenei nel Massachussets: «Da noi queste iniziative non sono previste ma se i nostri studenti decidessero di fare una cosa simile verrebbero immediatamente puniti. Non permetteremo mai che vengano distribuiti preservativi », dicono i vari portavoce. Soffia un vento strano, osservano alcuni analisti. Il Daily racconta che nelle superiori di New York è tornata in vigore con forza una vecchia regola che sembrava finita in disuso: nelle scuole pubbliche che sono ospitate in edifici di proprietà della chiesa sono vietati i corsi di educazione sessuale. Alcuni professori si arrendono e li eliminano dal programma, altri con buona volontà spostano gli alunni per portare avanti l’insegnamento. Ma questo tipo di programmi sono a rischio anche in molti Stati come North Dakota, Texas e Arkansas, casualmente gli stessi governi locali che hanno o stanno per varare leggi molto più restrittive sull’aborto. Tanto da spingere la rivista The National a fare un’inchiesta dal titolo: «Dove non è sicuro essere donna». In questo campo si gioca la partita di Boston, con milioni di spettatori interessati sulle tribune. Il BC Students for Sexual Health nasce nel 2009 con un referendum che ha ottenuto il 90% dei consensi. L’obiettivo dell’organizzazione è semplice: distribuire preservativi, piazzarli nei dormitori sia maschili che femminili e creare una sorta di consultori dove i ragazzi possano trovare informazioni su tutto quello che riguarda il sesso e la prevenzione delle malattie correlate, Aids in testa. E poi discussioni online e, una volta al mese, dibattiti pubblici sugli stessi argomenti. Lizzie Jekanowski ne è la leader: «Sapevamo da tempo che la nostra azione dava fastidio alle autorità e agli altri gruppi di studenti ma non ci aspettavamo che si arrivasse a questo punto. Mi chiedo: perché succede ora? Noi comunque non cambiamo idea, la grande maggioranza degli studenti di questo college è con noi. Vogliamo aiutare e aiutarci ad essere più informati per non commettere errori che possono costare cari». E poi, con astuzia, cerca il cortocircuito: «Essere cattolici vuol dire prendersi cura del prossimo ed è esattamente quello che facciamo».
Ma la risposta che arriva dal college con un’e-mail (pubblicata dal New York Times) non sembra lasciare aperti spiragli per il dialogo: «Come università cattolica ci siamo impegnati ad avere una rettitudine morale e le nostre regole di vita non prevedono assolutamente la distribuzione di preservativi». E le associazioni più radicali degli studenti scrivono sui blog: «Non siamo bestie. Non vogliamo essere trattati come tali, siamo uomini e donne razionali con una fede e sappiamo controllare le nostre passioni. Lasciare migliaia di preservativi nei dormitori non è fare della prevenzione sanitaria ma è mettere certe idee in testa ai ragazzi ». Due anni fa i gruppi rivali quasi si scontrarono fisicamente quando gli ultracattolici misero in scena una distribuzione farsa di filo interdentale.
A fianco del BC Students for Sexual Health si schierano ora molte organizzazioni legali per i diritti civili: «Le autorità scolastiche non possono comportarsi in questo modo, violano la nostra Costituzione. Non hanno il diritto di imporre in questo modo il loro credo: la libertà degli individui è inviolabile». Ai giornali arrivano e-mail e lettere a sostegno dei ragazzi di Boston, ma la chiesa della città ha invece fatto sapere di essere «assolutamente d’accordo con il divieto».
Tutti sordi alla logica di Lizzie, che sconsolata si limita a rivelare la più evidente delle verità: «Gli studenti facevano, fanno e faranno sesso anche senza il nostro gruppo in attività. Se il sabato sera dopo il bar non trovano i preservativi, mica si fermano o cambiano idea: lo fanno senza».

l’Unità 15.4.13
Le due Americhe
Da una parte il minimalismo neoliberista dall’altra il «socialismo logico»
C’è ancora un New Deal a cui ispirarci per evitare il declino del Vecchio Continente?
Il confronto con gli States non riguarda soltanto il mercato e l’economia
Ci sono modelli politici e culturali che possono esserci utili e altri da evitare con cura
di Carlo Sini


L’APPELLO DEL DOCUMENTO DI FABRIZIO BARCA A UNA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA FONDATA SULLO SPERIMENTALISMO SUSCITA IL RICORDO DI VICENDE E DI PENSIERI che hanno contrassegnato l’orizzonte politico degli Stati Uniti nel corso del Novecento. Non a caso, infatti, Barca cita il mondo industriale avanzato degli anni Trenta in America, nato dalla grande crisi del ’29 (tante volte evocata anche ai nostri giorni) e dalla apertura del New Deal, cioè da un nuovo patto tra lavoro e industria e dalla funzione mediatrice dello Stato, volta al superamento, come dice appunto Barca, della contrapposizione tra capitale e lavoro.
Questo cammino, continua Barca, venne accantonato bruscamente negli anni Settanta, quando alla ispirazione socialdemocratica si sostituì il minimalismo neoliberista che è tuttora prevalente, nonostante i correttivi che il presidente Obama tenta, con alterna fortuna, di imporre. Barca mette in luce i limiti sia del pensiero socialdemocratico, elitario e dirigista, sia della presunzione tecnologica e formale dei neoliberisti (illusi che le organizzazioni multinazionali possano farsi carico davvero dell’interesse generale). Propone invece una diffusa mobilitazione cognitiva che esca dalle ambiguità e dalle storture della democrazia di massa e che inauguri invece una politica ampiamente partecipativa: una politica che sappia coniugare principio di competenza e principio di maggioranza, trasformando l’azione politica mediatrice dei partiti in una sorta di palestra sempre aperta delle decisioni e delle idee condivise.
Mi pare che taluni aspetti delle tesi qui molto succintamente richiamate rievochino certe vicende classiche del capitalismo americano, delle quali non sarà forse inutile fare qui un breve cenno. Anzitutto la vicenda del cosiddetto darwinismo sociale, cioè della teoria di Herbert Spencer che applicava alla società il principio darwiniano della selezione naturale. Suo massimo rappresentante fu in America William Graham Sumner, professore a Yale. Se non vogliamo la sopravvivenza del più adatto, scriveva Sumner alla fine dell’800, dobbiamo accettare la sopravvivenza del meno adatto, cioè il contrario della civilizzazione. Perciò bisogna opporsi a ogni ingerenza dello stato a favore dei più deboli. I più adatti, cioè i milionari diceva Sumner, sono invece l’evidente e benefico prodotto della selezione naturale nella società. Gli faceva eco John Rockefeller: «Io credo che la capacità di fare denaro sia un dono di Dio. È mio dovere far denaro e poi ancora denaro e sempre più denaro...». A questa filosofia dell’avidità, come la definì Charles Sanders Peirce, si opposero all’inizio del ‘900 i filosofi del pragmatismo, cioè della più grande e più originale corrente di pensiero nata negli Stati Uniti. William James dimostrò efficacemente che applicare alla società i principi della selezione darwiniana era un non senso scientifico, se non altro perché la selezione naturale si misura in milioni di anni, mentre le trasformazioni della società solo in migliaia. Peirce mostrò a sua volta che ogni comportamento egoistico è profondamente irrazionale e destinato al fallimento. Nessun individuo, sosteneva Peirce, è in grado di incarnare la verità. L’opinione individuale è sempre caratterizzata da idiosincrasia ed errore, mentre la verità è una formazione sociale, è un lungo cammino di tentativi, di ipotesi e di verifiche di fatto mai concluse. La verità è pubblica sicché, dice oggi Barca, è un errore ritenere che alcuni o pochi siano in possesso delle conoscenze adeguate per decidere dell’interesse generale. «La logicità inesorabile, scriveva Peirce, chiede che i nostri interessi non siano limitati. Essi non devono fermarsi al nostro destino personale, ma devono abbracciare l’intera comunità. Questa comunità, a sua volta, non deve essere limitata, ma deve estendersi a tutte le razze di esseri con i quali possiamo venire in relazione immediata e mediata».
Questo «socialismo logico», come venne definito, trovò la sua traduzione strumentale e scientifica in John Dewey, il filosofo più rappresentativo dell’America della prima metà del ‘900 e del New Deal. Democrazia ed educazione furono le sue parole d’ordine, volte a fare della scuola un’industria di idee al lavoro e della fabbrica un luogo di sperimentazione culturale in atto.
Idee generose e intelligenti, ma segnate da alcune contraddizioni che da sempre disegnano il doppio cuore dell’America. Da un lato la vocazione fortemente individualistica e ribellistica, ostile a ogni ordinamento statale dall’alto: una vocazione che, senza la rozzezza della sociologia da milionari di una volta, nondimeno considera ancora oggi ogni intervento a favore del bene comune e a difesa dei più deboli una eresia e un’intrusione intollerabile. Obama ne sa appunto qualcosa. Da un altro lato una forte vocazione comunitaria, con evidenti radici religiose, profetiche e millenaristiche. Idee destinate a piccoli gruppi elitari, oppure alle degenerazioni del moralismo di massa e dell’etica dei predicatori da video, dai quali Barca è ben attento a distanziarsi. Quando egli evoca la messa in opera di processi di mutuo apprendimento, che nascano dalla vita concreta, dalle esperienze dal basso, per affrontare il confronto con le conseguenze e per accogliere la necessità di continue modifiche in itinere, riproduce di fatto e alla lettera molte delle idee di Dewey. Idee destinate, nel loro tempo, a una élite politica, industriale e intellettuale che ne fu certamente influenzata. Idee che non riuscirono però a imporsi davvero, per essere infine del tutto dimenticate o disattese. Idee la cui diffusione a livello di comprensione e di condivisione popolare sembra di ben difficile attuazione anche oggi. Almeno due grandi ostacoli vi si oppongono. Da un lato la mercificazione mediatica della vita collettiva che distoglie i più da una partecipazione spontanea all’impegno politico reale. Dall’altro la grande tragedia attuale delle centinaia di milioni di lavoratori e di lavoratrici impiegati come schiavi nelle fabbriche-dormitorio cinesi, in connivenza con i capitali internazionali e con le autorità locali (si veda Pun Ngai, Cina. La società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaca Book 2012): modello di produzione globale del profitto che di fatto capillarmente e quotidianamente ci governa e che, restando egemone, riduce di molto i nostri orizzonti politici.

Corriere 15.4.13
Diritto inseparabile dalla morale, la lezione di Dworkin
di Antonio Carioti


Diritto e morale non sono universi separati, ma vi è al contrario tra di essi un legame imprescindibile, sosteneva il filosofo americano Ronald Dworkin (nato nel 1931 e scomparso un mese fa), contrastando le posizioni positiviste e relativiste di molti suoi colleghi. Una posizione la cui sostanza troviamo ora sintetizzata nel numero appena uscito della rivista «Notizie di Politeia», diretta da Emilio D'Orazio, che pubblica, con una presentazione di Salvatore Veca, il testo della conferenza tenuta da Dworkin nello scorso novembre per la consegna del premio Balzan, che gli era stato assegnato appunto per il suo contributo alla filosofia del diritto.
In questo intervento l'autore riassume le tesi esposte più ampiamente nel suo saggio Giustizia per i ricci, appena tradotto in Italia da Feltrinelli (pagine 557, € 45). Ogni interpretazione giuridica da parte di studiosi o magistrati, afferma Dworkin, deve ovviamente richiamarsi al contenuto delle norme vigenti e tener conto del loro retroterra storico, ma non può fermarsi qui. Necessita al tempo stesso di «una qualche giustificazione, per quanto debole, nel campo della moralità politica».
Insomma, nell'applicare il diritto occorre riferirsi a un retroterra filosofico che consenta d'identificare i valori meritevoli di tutela. Dworkin indica a tal proposito due principi basilari. Il primo è l'attribuzione di una pari dignità a ogni esistenza umana in modo che, per quanto possibile, «la gente viva bene», secondo le proprie aspirazioni personali. Il secondo è il richiamo alla «fondamentale, inalienabile responsabilità» di ogni individuo per le proprie scelte. In campo economico, per esempio, ciò comporta l'esigenza di fare in modo che il reddito e il patrimonio di una persona dipendano da come ha agito, non dai favori che ha ricevuto dalla sorte.
Il richiamo al significato e all'importanza oggettiva che aveva per lui la vita umana è al centro anche del suo modo di concepire la religiosità. Dworkin si era soffermato sull'argomento in un libro che uscirà postumo quest'anno da Harvard University Press, Religion Without God («Religione senza Dio»), ma di cui la rivista «New York Review of Books» ha anticipato un estratto dal primo capitolo nel numero del 4 aprile scorso.
Secondo Dworkin, è un errore pensare che tutti gli atei, intesi come soggetti che non professano alcuna fede in un dio personale, creatore e giudice, siano da considerarsi estranei alla dimensione religiosa. Del resto la stessa Corte suprema degli Stati Uniti, ricorda il filosofo, ha ritenuto che la garanzia costituzionale della libertà di religione possa essere estesa anche alle credenze dell'«umanesimo laico».
Ciò che conta nel definire una spiritualità religiosa non è infatti, secondo Dworkin, il culto di una particolare divinità, bensì un atteggiamento generale verso la vita che posa su due pilastri. Il primo è riconoscimento della dignità umana, che abbiamo già visto in opera nel campo strettamente giuridico; l'altro è la convinzione che la natura non sia solo una realtà inerte, ma abbia un proprio valore intrinseco, che ne fa qualcosa di sublime.
Su questa base, Dworkin ritiene si possano identificare valori comuni in cui credenti e non credenti si riconoscano, a prescindere da dogmi e testi sacri, scavalcando le barriere che un po' ovunque i fondamentalisti cercano d'innalzare. Ma ciò presuppone anche il superamento del naturalismo, cioè dell'idea che non vi sia niente di reale eccetto quanto può essere studiato dalle scienze empiriche. In fondo è la prosecuzione, sul terreno spirituale, della polemica condotta da Dworkin contro il positivismo giuridico.

Corriere 15.4.13
Achille sogna Patroclo Il sonno più bello della storia dell'Occidente
Pensiero cosciente e immagini emerse dal nulla: dall'epica di Omero all'interpretazione di Freud
di Pietro Citati


I sogni dei tempi omerici hanno una qualità straordinaria. Quelli dei tempi moderni nascono dalla psicologia: fioriscono nell'ombra che ci accompagna, rivelano le nostre ansie e i nostri dolori, rispecchiano la tumultuosa complessità del nostro passato: mentre i sogni omerici posseggono una vita autonoma, preesistono e sono estranei alla esistenza dei sognatori. Così scrive Giulio Guidorizzi nella prima parte del suo bel libro Il compagno dell'anima. I Greci e il sogno (Raffaello Cortina). Abitano molto lontano da noi, presso la «rupe bianca» e le «porte del sole», all'estremo occidente della terra, non lontano dall'Ade. Il loro signore è il dio Ermes, che guida sia i morti sia i sogni. Li conduce con la sua bacchetta d'oro, con la quale, quando vuole, chiude gli occhi degli uomini, o li desta dal sonno. Guidati da Ermes, essi sciamano, percorrono il mare e la terra e si introducono, non sappiamo come, nelle menti degli uomini.
Chi legge l'Iliade o l'Odissea conosce la seconda qualità dei sogni omerici. Sono compatti, fluidi, narrativi: si organizzano naturalmente come racconti; a differenza dei sogni moderni, che sono un complesso di frammenti suddivisi, spezzettati, disordinati, ai quali soltanto l'interpretazione dello psicoanalista conferisce una architettura. Qualcuno potrebbe obiettare che questa compattezza dipende dal fatto che Omero li costruisce sapientemente con la ragione e quindi appartengono alla coscienza.
In realtà, la luce dei sogni omerici non ha niente a che fare con quella della ragione: è una forza molto più misteriosa, che opera nell'ombra, ha tutte le proprietà elusive e ambigue dell'ombra, e una qualità luminosa e divina, che ci rende chiari i particolari e i significati.
Credo che il sogno più bello della letteratura greca e occidentale sia quello di Achille, nel ventitreesimo libro dell'Iliade. Achille stava disteso sulla riva del mare, in un punto sgombro da navi, e gemeva dal profondo del petto. Quando il sonno lo prese, lo avvolse dolcemente, sciogliendo le pene del suo cuore e delle sue membra. All'improvviso, gli apparve l'ombra di Patroclo: simile a lui in tutte le cose, la statura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti. Come fanno i sogni, gli rimase sospeso sopra la testa. Poi prese a parlargli: «Tu dormi, Achille, e ti dimentichi di me. Non ti scordavi di me quando ero vivo, ma ora che sono morto ti scordi di me. Sono disteso fuori dal portale dell'Ade e le altre ombre non mi permettono di unirmi a loro oltre il fiume. Dammi sepoltura al più presto, in modo che anch'io possa passare. Quando mi avrai onorato col fuoco, non tornerò più dall'Ade. Mi ha ghermito la morte odiosa e non staremo mai più insieme, appartandoci dai nostri compagni, a discutere piani e progetti, come quello di conquistare Troia da soli. Presto la morte afferrerà anche te, per mano di un dio e di un troiano».
«Ma ti prego di un'altra cosa» continuò l'ombra di Patroclo. «Siamo cresciuti fin da bambini nella stessa casa, dove mi ospitò tuo padre, Peleo: e tu non mettere le tue ossa divise dalle mie; la stessa anfora d'oro, quella che ti ha dato tua madre, accolga insieme le nostre ossa». Di rimando gli disse Achille. «Certo io farò tutto per te e mi comporterò come desideri. Ma avvicinati a me. Abbracciati almeno per un istante, gustiamo insieme il piacere del pianto amaro». Achille distese le braccia attorno all'ombra di Patroclo: ma non poté stringerla al petto: il mondo dei vivi è totalmente diverso da quello dei morti; noi non possiamo abbracciare le persone morte che amiamo, come apprenderà anche Ulisse nell'Ade, cercando inutilmente di abbracciare la madre. Stridendo, l'ombra di Patroclo discese come fumo sotto la terra.
Achille si svegliò stupito, batté le mani una contro l'altra, e disse: «Ah, esiste anche nell'Ade l'ombra e la parvenza. Ma non è vita. Tutta la notte mi è stata accanto l'ombra di Patroclo, in tutto simile a lui: piangeva e gemeva e mi ha comandato molte cose, una per una». Così finiscono spesso i sogni, osserva Guidorizzi: nel momento culminante, con un desiderio incompiuto, nel passaggio dal sonno alla veglia. La immagine di Patroclo è certo un sogno: ma è al tempo stesso una realtà oggettiva, un'ombra insepolta presso le porte dell'Ade, che viene risospinta dalla realtà dei vivi a quella dei morti. Non possiamo dire se l'immagine di Patroclo svanisca perché Achille si risveglia o fugga via perché l'apertura che connette i vivi e i morti si è improvvisamente chiusa per qualche misteriosa ragione.
* * *
Questi sogni, che provenivano da lontano, guidati da Ermes, non erano visioni isolate, ma facevano parte di uno stesso sistema di segni. Come diceva Sinesio, un tardo neoplatonico, essi erano connessi tra loro in un grande libro: una catena di significati legava tra loro tutte le manifestazioni del cosmo secondo leggi ignote ai più, ma non per questo meno esatte. «Tutte le cose — scriveva Sinesio — sono collegate per parentela le une alle altre, affratellate in quell'unico organismo vivente che è l'universo». Grazie alla rivelazione onirica possiamo scavalcare le barriere che separano l'alto e il basso, il mondo divino e quello umano, quello passato e quello futuro: le anime che popolano il giardino del mondo si avvicinano: possiamo sognare per conto di altri, sognare insieme a un altro lo stesso sogno; e vedere in sogno ciò che un altro vede nella veglia. A questo punto la rivelazione onirica è un punto d'incrocio tra realtà differenti. Ma chi promuove questi incontri? La stessa fittissima e foltissima realtà dell'universo? O c'è un meraviglioso burattinaio — un dio o un demone — che gioca con i nostri sogni, si diverte a tessere tele vaste e incomprensibili?
Nella Grecia del tardo arcaismo si sviluppò l'idea che qualsiasi rappresentazione mentale — non solo quelle oniriche, ma tutte le altre forme di emozione e di riflessione — fossero il prodotto di una entità invisibile, racchiusa dentro ogni essere umano, chiamata anima (psyché). L'anima diventò così il vero io, e Socrate diceva che «bisogna prendersi cura di lei più di ogni altra cosa». Da quel momento il sogno diventò il compagno dell'anima, come scrive Giulio Guidorizzi: un compagno segreto ma inseparabile. La sua esperienza era quella dell'anima in sé stessa e per sé stessa, senza che il corpo ne fosse coinvolto; ed era la prova certa che essa ha in sé «qualcosa di divino». Quando il corpo giaceva come morto nel sonno, l'anima si ridestava. La rivelazione onirica non aveva dunque nulla a che fare con la coscienza. Durante il sonno si attivava una parte profonda dell'essere umano: ciò che l'anima vedeva mentre il corpo era addormentato, appariva come un ritorno alle origini: alle sue origini. «Quando dorme — scrisse Eschilo — la mente scintilla di mille occhi, mentre di giorno gli uomini sono di vista corta». Se il corpo riposava — disse un medico del sesto secolo a.C. — l'anima sveglia conosceva tutto, vedeva ciò che va visto, udiva ciò che va udito, camminava, provava dolore, provava ira, ricordo e amore.
Allora l'anima ascoltava voci prodigiose: un'aura amena circondava il suo letto: percepiva odori soavi: scorgeva una luce meravigliosa; le figure sacre apparivano maestose e benevole, perfette nella loro bellezza. Poi, all'improvviso, il corpo si risvegliava: l'anima si addormentava; e l'epifania divina si dissolveva, lasciando dietro di sé la delusione dell'abbandono.
* * *
Passarono molti secoli. Alla fine del diciannovesimo secolo e al principio del ventesimo, Freud e Jung tornarono, come i greci, a occuparsi sopratutto dei sogni, come se fossero l'unica strada per scoprire la verità. Nel 1897 Freud cominciò a scrivere L'interpretazione dei sogni, con una passione, un furore e un invasamento poetico, che uno scienziato non ha mai conosciuto. Lavorava dieci ore al giorno. Poi, nelle ore notturne, dalle undici alle due, restava nello studio, al pianterreno della sua casa, a fantasticare, congetturare e interpretare.
L'interpretazione dei sogni è percorsa da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l'immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni — non i discorsi e le definizioni intellettuali — hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell'inconscio. Freud scese nelle tenebre, nell'abisso, negli inferi, nel regno dell'Acheronte, dove abitavano gli dei della notte. Erano gli unici dei che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l'indimenticabile e l'indistruttibile, verso il quale provava un'infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l'archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all'ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacra dell'inconscio resta confinata nelle allusione letterarie dell'Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso e gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval o Jung. I sogni di Freud sono composti di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l'inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così leggendo L'interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato il dio della notte scompare o viene modificato. Il dio dell'inconscio assomiglia a delle figure che incontriamo continuamente nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici o tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria: mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta... Che il tremendo dio dell'Acheronte si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al secolo che inaugurava.
* * *
La rappresentazione greca del sogno, anche quella dei tempi più tardi, che Guidorizzi analizza con grande intelligenza, è molto più vasta, libera, mobile e polimorfa di quella degli psicologi moderni. Sia Freud sia Jung hanno consumato, sia pure in modi diversi od opposti, un'immensa quantità di inconscio: ma alla fine questo inconscio è stato trasformato, razionalizzato, spesso falsificato; e nei loro scritti resta pochissimo inconscio autentico. Per fortuna, la mente umana è stata salvata dai grandi scrittori, come Proust e Kafka, che percorsero la strada opposta a quella di Freud e di Jung.
Tutte le profondità della terra, le città sotterranee, le caverne incalcolabili, tutto il regno dell'ombra deve essere portato, Proust lo ripete mille volte, alla «piena luce». Quando era giovane aveva scritto: «Se il poeta percorre la notte, che sia come l'angelo delle tenebre, portandovi la luce». Ma qualsiasi illuminazione dell'inconscio, Proust lo sa egualmente bene, è estremamente rischiosa, perché l'intelligenza può cancellare e disseccare l'ombra, che dà profondità e vastità alla letteratura e all'esistenza. Quando viene alla luce, l'ombra deve riconoscere la sua vita, il suo abisso, il suo velluto, il suo setoso geranio. In un brano abolito della Recherche, Proust espose il proprio programma: era necessario che le parti inconsce dell'io conoscessero direttamente sé stesse, senza passare attraverso la coscienza, diventando riflettenti, «come ha fatto la nostra carne sotto la fronte, là dove si è trasformata in occhio».

Corriere 15.4.13
Quando le streghe spiegavano pestilenze e terremoti
di Nuccio Ordine


«E lui che vedeva tutte le cose nell'etere e sulla terra senza bisogno di occhiali, lui che discorreva di tutti gli avvenimenti passati e presenti, lui che prediceva ogni tipo di futuro, non era soltanto in grado di vedere sua moglie che si faceva scopare»: l'ironia di Rabelais contro gli oroscopi di Her Trippa (probabilmente Agrippa di Nettesheim, autore del celebre De occulta philosophia) la dice lunga sui misteriosi poteri di maghi e negromanti. Eppure, nonostante derisioni e scettici pamphlet, l'astrologia e la magia hanno conosciuto tra Quattro e Cinquecento uno straordinario successo.
La diffusione di una pestilenza, l'apparizione di una cometa, la nascita di un principe, l'elezione di un papa, le devastazioni di un terremoto, la presenza di un animale o di un uomo deforme diventavano occasioni per discutere dei rapporti vitali tra cielo e terra, tra umano e divino, tra l'energia del cosmo e quella dei corpi. Un intricato labirinto in cui si intrecciano diversi saperi: dalla filosofia alla scienza, dalla teologia alla medicina, dall'arte del governare alla matematica tutto ciò che esiste sembra essere dominato da legami e influenze, empatie e antipatie, che condizionano non solo la vita della materia, ma anche le relazioni sociali e politiche, letterarie e artistiche.
Questi temi controversi e affascinanti sono al centro di due utili volumi — Il linguaggio dei cieli. Astri e simboli nel Rinascimento (pagine 342, 29) e I vincoli della natura. Magia e stregoneria nel Rinascimento (pagine 320, 25) — apparsi di recente presso la casa editrice Carocci a cura di Germana Ernst e Guido Giglioni. Si tratta di una serie di articoli, saggiamente selezionati dai due curatori, in cui specialisti italiani e stranieri affrontano questioni legate ai grandi temi evocati nei titoli delle due raccolte di saggi. Il linguaggio dei cieli è articolato in quattro sezioni: nella prima si analizza il dibattito medievale sulle tecniche astrologiche (le riflessioni di Tommaso d'Aquino e la tradizione araba), nella seconda si passano in rassegna alcuni grandi autori rinascimentali (da Pico a Pontano, da Cardano a Campanella), nella terza si indagano i rapporti tra i segni celesti e gli eventi terreni (i riflessi dell'astrologia sulla medicina, sulla musica, sulla politica) e nell'ultima sezione si esplora il vasto influsso degli astri sull'arte e sull'editoria (dagli stupendi affreschi di Schifanoia ai tarocchi, dagli almanacchi ai libri di ventura).
Ne I vincoli della natura, invece, vengono messi in luce i nessi che hanno caratterizzato i destini della magia e della stregoneria: dall'interferenza tra filosofia e vita quotidiana (credenze popolari, l'ermetismo neoplatonico di Ficino e Agrippa, i segreti di natura, i mostri, il complesso sistema di segni e mirabilia) alla misteriosa esistenza di streghe e diavoli (testimoniata da opere e manuali dedicati a esorcismi, spettri e possessioni, ma anche contestata in accesi pamphlets) fino alla rappresentazione teatrale e iconografica (si pensi ai negromanti o alle streghe messi in scena nel Rinascimento o dipinti da grandi artisti del calibro di Dürer).
Una ragionata cartografia per aiutare il curioso lettore a orientarsi in un complicato labirinto di temi e questioni che sono alla base della cultura rinascimentale. Una cultura, come l'importante scuola del Warburg Institute ha cercato di spiegare, che non può essere afferrata senza cogliere le connessioni tra i diversi saperi (umanistici, scientifici e artistici) e tra le differenti tradizioni (orientali e occidentali, classiche e moderne, popolari e colte).

Repubblica 15.4.13
Preghiere laiche
L’elezione del Papa ha rinnovato, anche nei non credenti, l’interesse per la Chiesa
Ma una verità fondata sul credo non può essere riconosciuta dagli eredi dell’illuminismo
L’incontro tra fede e ragione è nel distacco dall’Io
di Marco Vannini


Chi passa in questi giorni in libreria resta colpito dalla quantità di libri di e sul nuovo papa: tra editori piccoli e grandi, di area cattolica (San Paolo, Jaca Book ecc.) e non (Rizzoli, Giunti, Mondadori ecc.), sono presenti più di una decina di titoli, alcuni dei quali ai vertici delle classifiche di vendite. L’elezione di Francesco e i suoi primi gesti hanno riacceso nell’opinione pubblica l’interesse per la Chiesa. Un interesse fatto di stupore, di fronte alla inaspettata vitalità dell’antica istituzione, ma anche con una notevole dose di più o meno esplicita ammirazione, che fa venire alla mente l’osservazione di un uomo non certo sospetto di apologetica cattolica: «La finezza dell’alto clero — le figure più nobili della società umana, ove domina il superiore disprezzo per la fragilità del corpo e della sorte, come è degno del soldato nato — ha sempre dimostrato per il popolo le verità della fede».
Quello che Nietzsche, perché di lui si tratta, chiama disprezzo per le vicende della propria vita fisica e della sorte, non è altro che il distacco dall’Io, ovvero quella rinuncia a se stessi che è il nucleo dell’insegnamento evangelico, e con la quale si apre la dimensione dello spirito. È il frutto di una conversione, nel senso etimologico, ovvero di un rivolgersi non più verso il mondo e i suoi valori, e di una fede nell’assoluto. Chiunque, laico o religioso che sia, avverte, tanto istintivamente quanto profondamente, la nobiltà, la bellezza di questo distacco e di questa fede, ovunque si manifestino. Peraltro, non si tratta qui affatto di adesione a un credo. Infatti questo sentimento di rispetto e ammirazione viene meno, anzi si converte in un moto di ripulsa quando sente proclamare una dogmatica, una teologia, con i suoi risvolti morali e finanche politici.
Quali sono allora le verità della fede «dimostrate per il popolo» da quelle aristocratiche figure? La risposta non è semplice. Per alcuni le verità sono la dogmatica tradizionale, come più o meno si recita ancora nel Credo, ma certo non è così per molti altri, sia pure cristiani, nei quali il passaggio per la scienza contemporanea, che chiameremo illuminismo, non è avvenuto invano. Prendendo ancora a prestito le parole di Nietzsche, «quando la mattina di domenica udiamo le campane ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo crocifisso, che diceva di essere il figlio di Dio, un Dio che genera figli con una donna mortale, un saggio che incita a non lavorare più, a non pronunciare più sentenze, a badare invece ai segni della prossima fine del mondo, una giustizia che accetta l’innocente come vittima vicaria; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; peccati commessi contro un Dio, espiati da un Dio... chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?».
È qui che il laico prende le distanze, difende la verità, guardando con commiserazione alla fede come credenza, rispettata solo per un politicamente corretto senso di tolleranza, ma in realtà considerata cosa da bambini, da sciocchi o, peggio, da ipocriti. Il problema sta infatti proprio nel concetto di fede come credenza, che, in quanto tale, confligge spesso con la verità storica, scientifica e assume perciò le vesti di una inaccettabile finzione. In realtà la fede non è affatto credenza, ma il contrario: è distacco, ovvero il movimento del pensiero che, rivolto all’assoluto, spazza via ogni credenza, riconoscendone la finitezza. Come insegna san Giovanni della Croce, la fede non produce credenza o scienza alcuna, ma conduce nella “notte”, nel “nulla” — ovvero fa il vuoto di ogni presunto sapere, rendendo l’intelligenza finalmente libera da ciò che la teneva legata. Questa è propriamente la verità della fede, non delle cosiddette “verità di fede”, intese come credenze sostitutive della scienza o integrative della medesima, come se la fede completasse la scienza con chissà quale strumento.
Il patrimonio della tradizione religiosa fornisce alimento alla riflessione senza per questo dover diventare verità di scienza. Anzi, non vuole affatto diventare tale, dal momento che il suo spazio proprio è l’interiorità, il luogo della riservatezza, del silenzio, che è, anche etimologicamente, il mistico. Così ad esempio, il racconto biblico di Abramo, che abbandona la sua patria e parte per una terra sconosciuta, sulla fiducia nella parola di un Dio che gli comanda addirittura il sacrificio del figlio, ha nutrito la profonda riflessione di filosofi come Hegel e Kierkegaard. E ciò anche se sappiamo che si tratta di un mito fondatore di una comunità, anche se non v’è mai stato un Abramo e il sacrificio del primogenito rimanda a una pratica allora comune a molti popoli semiti. O, ancor più significativamente, il racconto evangelico della concezione verginale di Gesù fa riflettere sulla nascita di un Dio che è spirito e deve perciò generarsi non al di fuori, ma nel più profondo di noi stessi. Pensare invece che descriva un “miracolo” per convincere gli increduli della verità del cristianesimo, in primo luogo riduce la fede a credenza in storie esteriori, la trasforma in una teologia, ovvero ideologia, con un dio-ente tappabuchi, supposto come trascendente, ma in realtà a servizio dell’interesse particolare.
In secondo ma non secondario luogo, se anche la ragione cade nell’errore di considerare la fede come credenza e resta priva della fede come riferimento all’assoluto, che è ciò che la fa davvero ragione in senso pieno, si situa anch’essa sul medesimo piano della credenza, ideologia a servizio del piccolo Io e dei suoi molteplici interessi. Tutto ciò è stato descritto magistralmente da Hegel, nelle pagine sul conflitto tra l’illuminismo e la superstizione della sua Fenomenologia dello spirito (attenti al titolo!). L’illuminismo combatte la fede sul terreno della storia, della scienza, e vince il confronto, perché in quel campo ha ragione. Così, magari dimostrando la falsità di un documento o di un fatto storico, sul quale la fede si basa, crede di averla sconfitta. Il punto è però che quella non è fede (Glauben), ma superstizione (Aber-glauben), perché la fede non è affatto una credenza, bensì un sapere, conoscenza non di fatti esteriori ma dello spirito e nello spirito, che non dipende da questo o quel documento o fatto storico. Il dramma è che tutto ciò è ignoto non solo alla raison illuministica, ma anche alla fede, che resta quasi sempre a livello di superstiziosa credenza e perciò genera una teologia come presunto sapere.
Il conflitto ragione-fede esiste dunque solo quando la prima non è vera ragione e la seconda non è vera fede. Alla riflessione hegeliana che abbiamo appena evocato fa perciò eco la antica parola della Chandogya Upanishad: «Solamente quando si ha fede si pensa. Chi non ha fede non pensa. Pensa solamente colui che ha fede». Quanto tutto questo sia compatibile con le forme di cristianesimo e di chiesa oggi storicamente presenti costituisce — credo — il vero problema religioso del nostro tempo. Ben oltre lo stupore e l’ammirazione, peraltro passeggeri, che abbiamo ricordato all’inizio.

La Stampa 15.4.13
Cubismo al Vittoriano
Picasso e Braque smontano le figure
di Elena Del Drago


Cubisti Cubismo: sin dal titolo questa nuova mostra al Complesso del Vittoriano promette non tanto un percorso attorno ad opere più o meno conosciute di una star (preferibilmente impressionista) della storia dell’arte com’era avvenuto in passato, ma un’immersione in un’idea che incarna talmente lo spirito del tempo, da diventare un linguaggio condiviso rapidamente, oltre le barriere linguistiche e geografiche. Ed è una promessa mantenuta: il merito di questa esposizione, meno enciclopedica di altre viste altrove, meno ricca dei capolavori più iconici, sta proprio nella capacità di raccontare quanto il cubismo sia stato si un’invenzione elaborata inizialmente da Picasso e Braque nel corso della loro leggendaria amicizia, ma poi diffusa e modificata, di studio in studio, fino a diventare un esperanto dell’arte all’inizio del Novecento.
In tre anni la scomposizione delle forme elaborata a Parigi arriva in Italia, in Spagna, in Inghilterra, in Cecoslovacchia, in Russia e poi, dall’Europa negli Stati Uniti, diventando l’immagine stessa di un nuovo secolo attraversato da cambiamenti tanto veloci quanto difficili da comprendere. Scomporre in cubi diventa una necessità dopo Les demoiselles d’Avignon, l’unica evoluzione possibile dalla lezione di Cézanne, tanto che il poeta Apollinaire nel 1913 scrive: «la geometria sta alle arti plastiche come la grammatica sta alle arti dello scrivere». Così il percorso ruota attorno ad una parte centrale che riunisce i pezzi da Novanta, come Chitarra e violino di Picasso, proveniente dall’Ermitage, o Il violinista (1912) di Braque, che indicano la direzione seguite dalle diverse interpretazioni della stessa idea, ed ecco L’autista negro di Léger accanto alle magnifiche composizioni di Gino Severini o ai ritratti di Albert Gleizes.
Ma a rendere davvero interessante questa mostra plurale sono le sale dedicate alle altri arti, dalla letteratura al cinema, dal teatro all’architettura, in uno sforzo, appunto collettivo, per riuscire a rendere attraverso le immagini quella strao rd i n a r i a accelerazione che il Novecento aveva portato con sè nel pensiero e nella società. Mentre suona la musica di Erik Satie si passa in rassegna la fusione straordinaria di parola e segno in un ritmo visivo che non vuole creare armonia, ma innovazione: tra tutte particolarmente riuscita la collaborazione tra il poeta Blaise Cendrars e Sonia Delaunay per La prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France, in mostra evocata da quattro tavole che mettono voglia di guardare oltre il racconto della storiografia ufficiale. Seguire le tracce di Sonia Delaunay che è stata, a lungo, soprattutto la moglie del più noto Robert per esempio, ci porta ad un’altra sezione, quella dedicata alla moda, ad un altro tassello di una visione complessiva, in cui il mondo delle arti visive si sforza avanguardisticamente di uscire dagli studi e dalle discussioni nei caffè per diventare vita. Dall’altra parte della Manica, le energie cubiste si applicano a piatti e tappeti grazie ai disegni di Duncan Grant, Vanessa Bell o Roger Fry, celebro storico dell’arte, che scrive: «Speriamo di decorare le nostre stanze in un modo che consenta alla gente di valutare fino a che punto le idee che sono state tanto discusse e schernite in pittura diventino apprezzabili quando si utilizzano per le arti applicate, nell’arredamento per la casa e le decorazioni murali».
CUBISTI CUBISMO ROMA, COMPLESSO DEL VITTORIANO VIA DI SAN PIETRO IN CARCERE FINO AL 23 GIUGNO

Corriere 15.4.13
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