mercoledì 17 aprile 2013

NDR: sul tema oggi più che mai intricatissimo della elezione del Capo dello Stato, sul quale la dialettica tra le testate è essa stessa evidentemente parte integrante del complicato gioco politico in corso, preferiamo oggi segnalare gli articoli che abbiamo scelto semplicemente suddivisi per testate piuttosto che cercare come facciamo di solito una concatenazione logica.
Nell’ordine qui proponiamo di seguito: alcuni articoli da La Stampa, l’Unità, il Fatto, il Corsera e La Repubblica.

La Stampa 17.4.13
Bersani, l’ultimo braccio di ferro
Nella “rosa” dei democratici spunta il nome di D’Alema
Renzi non sarebbe contrario. Ma gli ex popolari puntano sul Professore emiliano
Rodotà, l’idea più temuta. Spunta a sorpresa Cassese
Fabio Martini


Ora che Beppe Grillo è entrato decisamente in partita, al quartier generale del Pd vorrebbero fare in fretta. Ma in serata, dopo una giornata di trattative riservate per provare a chiudere la partita Quirinale entro le prime tre votazioni, il quadro si era vieppiù complicato: Giuliano Amato, gradito a Bersani, non decollava; saliva - ed era la vera sorpresa della giornata - Massimo D’Alema. Ma la difficoltà, comunque, a trovare un accordo soddisfacente tra le varie anime del Pd, in nottata rendeva plausibile lo scenario più temuto dall’entourage Bersani: l’irrompere di Stefano Rodotà, portato dal Cinque Stelle e capace di «partire da un plafond iniziale di 200 voti», faceva notare un battitore libero come il Pd Pippo Civati, immaginando una saldatura tra grillini, Sel e sinistra Pd. Certo ne mancherebbero ancora tantissimi di voti, circa 300, per superare la soglia presidenziale, ma quella di Rodotà sarebbe una candidatura spostata a sinistra verso la quale il Pd avrebbe difficoltà ad opporre veti. Rodotà è stato presidente del Pds, a lungo parlamentare del partito «genitore» del Pd e l’unico «neo» dovrebbero semmai denunciarlo i «nuovisti», visto che nel passato fu proprio Beppe Grillo ad obiettare sulla corposa, legittima pensione di Rodotà.
Per tutta la mattinata Pier Luigi Bersani e i suoi, ben conoscendo il gradimento di Silvio Berlusconi per Giuliano Amato, hanno cercato di capire di quale entità fosse dentro al Pd la fronda nei confronti del «dottor Sottile», due volte presidente del Consiglio, un tempo vicino a Bettino Craxi, oggi al Pd. Ma col passare delle ore nei gruppi parlamentari democratici la candidatura di Amato, pur restando autorevolmente in campo, non decollava (anzi scontava l’anatema di Beppe Grillo, «cassiere di Craxi! ») e sotto traccia invece prendeva quota Massimo D’Alema. Nelle ultime 24 ore è proprio lui, il primo presidente del Consiglio ex Pci della storia italiana - il candidato emergente di un possibile accordo che tenga assieme Pd, Pdl, Lega e Scelta Civica di Mario Monti. Sul nome di D’Alema è d’accordo Silvio Berlusconi - che nel leader democratico vede una personalità capace di mantenere gli impegni - dovrebbe essere d’accordo Pier Luigi Bersani e, a quanto pare, non ci sarebbe l’ostilità di Matteo Renzi.
Del faccia a faccia fiorentino tra D’Alema e Renzi poco si è saputo, ma è molto significativo quanto dice Dario Nardella, uno dei 51 parlamentari renziani, già vicesindaco a Firenze e vicinissimo al sindaco: «Se il Parlamento individuerà una personalità in grado di rappresentare al meglio l’Italia a livello internazionale, farà la scelta migliore. Amato potrebbe essere un nome che risponde a questo profilo, così come Prodi o D`Alema. Se decidessimo subito sarebbe un bel segnale». Certo, dal fronte renziano arrivano segnali discordanti su D’Alema (da Matteo Richetti) e anche gli ex popolari (Franceschini, Bindi, Fioroni) non sembrano entusiasti e dunque la pur autorevole candidatura fatica a fare il «pieno» nel Pd. E d’altra parte anche nel 2006 D’Alema entrò quasi Papa nel Conclave che poi elesse Napolitano.
Ed è proprio questo il problema, sempre lo stesso, che impedisce a Bersani di chiudere su uno dei suoi candidati. Per questo motivo in serata, dalla segreteria Pd, facevano trapelare tre nuovi nomi, quelli di tre giudici costituzionali: il presidente della Consulta Franco Gallo; un giurista di lungo corso come Sabino Cassese, vicinissimo a Giorgio Napolitano; Sergio Mattarella, ora giudice costituzionale, ma a suo tempo esponente della sinistra Dc, poi esponente del Ppi, vicepresidente del Consiglio (con D’Alema presidente), un cattolico democratico di tutto punto, la tipologia meno gradita da Berlusconi. Ma anche gli altri due costituzionalisti sono sgraditi al Pdl e dunque senza chances di decollare.
Giornata di trattative, segnali di fumo, ma anche di incontri di Bersani con le due personalità del Pd Anna Finocchiaro e Franco Marini che nei giorni scorsi erano stati attaccati da Matteo Renzi, indirettamente riducendone le chances. Anche se nell’incontro con Marini, il leader del Pd ha tenuto il punto, assicurando che il nome dell’ex presidente del Senato resta nella rosa ristretta del Pd. Ma verrà mai presentata una rosa di nomi al Pdl?
E sarà compreso Romano Prodi? Il Professore anche ieri si è chiuso nel silenzio e confida che le prime tre votazioni, quelle che richiedono una maggioranza dei due terzi, producano fumate nere. Dalla quarta in poi, Prodi lo sa: i suoi tanti detrattori potrebbero «convertirsi». Ieri gli è arrivato un segnale anche dagli ex popolari.

La Stampa 17.4.13
Da Civati a Giachetti, il nome del giurista agita i democratici
di Francesca Schianchi


«Rodotà è una personalità di alto profilo, su cui credo il Pd dovrebbe fare una riflessione». Seduto a un computer nella Galleria dei presidenti, il neodeputato democratico Pippo Civati consulta le agenzie che hanno appena battuto le ultime dichiarazioni di Beppe Grillo: «La Gabanelli è una mossa vincente e straordinaria, ma Rodotà è perfetto e deve essere votato: è un altro nome spendibile benissimo dalla sinistra», invita il comico genovese dal Friuli, dove sta tenendo un comizio elettorale. Civati legge le parole del leader del Cinque Stelle e sospira: «Finalmente sono scesi dall’Aventino, hanno fatto un primo passo verso di noi. Ma – ribadisce - la domanda è: davanti all’ipotesi Rodotà, il Pd che cosa dice? ». Già, che dice il partito di Bersani, se dietro alla candidata numero uno Milena Gabanelli se ne affaccia un altro, molto meno eccentrico rispetto alla politica e alle istituzioni, uno col curriculum da deputato della sinistra indipendente, presidente del Pds, garante della privacy come Stefano Rodotà? Uno stimato giurista con radici a sinistra che ha firmato l’appello per l’ineleggibilità di Berlusconi, un candidato con un profilo che renderebbe impraticabile la condivisione con il Pdl?
A poche ore dall’inizio delle votazioni per individuare il nuovo presidente della Repubblica, succede infatti che nel Palazzo si diffonde il risultato finale delle «Quirinarie», la selezione on line fatta dal Movimento Cinque Stelle per individuare il proprio candidato. I primi due nomi sono professionisti completamente estranei al mondo della politica – la conduttrice di «Report» Milena Gabanelli («ci penso stanotte, non saprei cosa rispondere», reagisce «riconoscente e imbarazzata» all’incoronazione via web) e il fondatore di Emergency Gino Strada -, mentre il terzo nome è, appunto, l’ex presidente dell’Authority per la privacy. Ed è se i primi due candidati dovessero declinare l’offerta e i 109 voti dei Cinque Stelle dovessero convergere tutti su Rodotà – o se decidessero di poterlo comunque votare a partire dalla quarta votazione, quando la maggioranza richiesta diventa semplice – che al Pd potrebbe presentarsi l’imbarazzo della scelta.
«Rodotà non sarebbe una candidatura condivisa con lo schieramento di centrodestra. E noi quello dobbiamo cercare», ragiona Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera del Pd. Vero, ma un collega romano interrompe un’animata discussione sulle vicine elezioni al Campidoglio per sottolineare che il problema si porrebbe eventualmente alla quarta votazione. «Se non troviamo l’accordo su un nome con Berlusconi, allora dal quarto scrutinio il Pd dovrà chiedersi: vogliamo un politico o una figura diversa? In questo secondo caso, su Rodotà bisogna ragionare». L’hanno capito bene i grillini di essere riusciti a seminare qualche preoccupazione nel Pd: qualcuno lo sottolinea, mentre vanno a chiudersi in una riunione a Montecitorio, e quando già si vocifera di una possibile raccolta di firme a favore di Rodotà da parte di amministratori locali del Pd.
«Il Pd lavorerà fino all’ultimo per una soluzione largamente condivisa per la scelta del futuro presidente, così come richiede la nostra Costituzione. A Grillo diciamo che invece di imporre condizioni, dovrebbe rispettare questo principio e adoperarsi per un esito positivo», la reazione ufficiale alla terna di nomi, per bocca del deputato bersaniano Davide Zoggia. La parola d’ordine, per ora, resta soluzione condivisa. Almeno fino «a prova contraria». Ed è in quel caso che Rodotà potrebbe entrare in campo.

La Stampa 17.4.13
Le quirinarie dei 5 Stelle spingono all’intesa Pd-Pdl
I big spaventati dall’effetto Gabanelli. Bersani gelido sull’apertura di Grillo
di Ugo Magri


Avrà domani la Repubblica il suo undicesimo Presidente? Se ciò avverrà al primo tentativo (inizio delle votazioni alle ore 10) oppure al secondo (nel primo pomeriggio), il merito involontario sarà tutto di Grillo. Con le sue «quirinarie», che hanno lanciato in orbita la Gabanelli, l’ex comico ha sparso un tale terrore nel Pd e nel Pdl, da costringere i due partiti a darsi una mossa e a tentare un’intesa che fino a ieri mattina sembrava bloccata. Bersani e Berlusconi ci stanno provando sul serio. Il Cavaliere è piombato a sera nella Capitale, lasciando prevedere una notte non certo dedicata alle sue feste eleganti bensì agli «inciuci» della politica. Il segretario Pd ha speso invece la giornata a mettere ordine nel puzzle delle candidature. Colloqui con Marini, con Violante, con la Finocchiaro. Si sentono tutti ancora in corsa, ma Amato sembra avere un’incollatura di vantaggio su di loro. Se non altro, perché non è stato silurato da Renzi. Il sindaco rifiuta di pronunciarsi sul conto dell’ex «Dottor Sottile», segno che non lo giudicherebbe una scelta indecente. Però il suo cuore, si sa, batte per Prodi. E comunque, visto che Bersani l’ha tagliato fuori dalle decisioni, si limiterà a dire la sua stasera a «Invasioni barbariche», quando forse i giochi saranno stati già fatti.
Amato è il nome su cui potrebbe più facilmente convergere il centrodestra, visto che privatamente Berlusconi gli attribuisce «uno standing internazionale senza paragoni, l’unico in grado di trattare con l’Europa». Gianni Letta ha spezzato più di una lancia per il suo amico Marini, finora però senza grandi risultati. Dalle parti di Arcore nemmeno viene presa in esame l’autorevole figura di Cassese, giudice costituzionale al pari di Gallo e di Mattarella. Ben altra accoglienza riceverebbe il nome di D’Alema, col quale Berlusconi non ha mai nascosto il feeling: se Bersani lo proponesse al Pdl, riceverebbe un entusiastico sì.
È possibile che oggi, o domattina, le due B della politica nostrana si incontrino per siglare il patto. L’ostacolo è sempre quello: la richiesta berlusconiana di partecipare con dei ministri al futuro governo. Se con Bersani non dovessero intendersi, oppure per le 10 non avessero concluso il tirae-molla, Pd e Pdl manderebbero avanti i candidati cosiddetti di bandiera. Quello del centrodestra si può intuire chi sarebbe. Per il centrosinistra, la scelta andrebbe a rappresentare un ulteriore rompicapo. Altra ragione per concludere il fretta la partita del Quirinale: dalla quarta votazione in poi, entrerebbe in scena la Gabanelli, con effetti incalcolabili. Molti deputati Pd, specie le nuove leve, potrebbero preferire la coraggiosa tele-giornalista alle personalità di lungo corso, il brivido della novità alla sapienza dei mandarini cinesi. È possibile che la Gabanelli non si senta all’altezza dell’incarico super-partes, e al suo posto subentrino Strada (secondo piazzato nelle votazioni on-line), oppure Rodotà. Il cui appeal sul Pd sarebbe perfino maggiore. Nella hit parade grillina, Prodi si è piazzato ottavo, troppo indietro per chi spera nel ripescaggio.
La novità è che Grillo scende dal pero e per la prima volta tende la mano a Bersani: «Voti la Gabanelli, potrebbe essere l’inizio di una, chissà, collaborazione... Ricominciamo di lì, poi vedremo». Troppo tardi, però. Ormai Bersani sembra avere scelto. Gelo dal Pd, che vive la profferta M5S come un tentativo grossolano di spaccare il partito. Silenzio da Vendola. Tabacci, senza peli sulla lingua: «Quella di Grillo è una mossa da politicante».

l’Unità 17.4.13
Grillo vota Gabanelli e lancia Rodotà
La giornalista «commossa» dirà oggi se accetta
Il leader scavalca il secondo, e punta sul terzo, il giurista
Al Pd dice: «Votate il nostro e vediamo per la fiducia. La legge contro la salma è già pronta»
Imbarazzo tra i deputati per l’assenza di dati, numero dei votanti e gradimento dei candidati
di Claudia Fusani


Un colpo di reni. In apparenza ragionevole, nella sostanza soprattutto furbo. Un trucco per buttare tutto all’aria. Forse. Di sicuro per tirarsi fuori dall’imbarazzo delle Quirinarie, esempio controverso di web demoracy e democrazia diretta. E poter dare nuovamente le carte della partita politico-istituzionale. Beppe Grillo dà la linea durante i comizi in Friuli dove nel fine settimana si voterà per la regionali. I suoi «meravigliosi» ragazzi i 162 parlamentari Cinquestelle lo seguono in tarda serata dopo una lunga e anche controversa riunione a Montecitorio dove sotto inchiesta non è finito tanto il merito i nomi dei candidati al Quirinale quanto il metodo del voto. E dove sempre di più arrivano al cuore le critiche di elettori e simpatizzanti che, digitali e in carte ed ossa, cominciano a chiedere conto della sfilza di no paralizzanti messi in fila in un mese da M5S.
Se non è esattamente un inciucio, il rito delle Quirinarie gli assomiglia molto. Ieri mattina escono i nomi dei prescelti: prima classificata Milena Gabanelli, la giornalista d’inchiesta autrice e conduttrice di Report; secondo il fondatore di Emergency, il medico chirurgo Gino Strada, terzo il giurista e a lungo presidente dell’Authority per la Privacy Stefano Rodotà. Il problema è che non si sa quante persone hanno votato, quanti voti ha ottenuto ciascuno di loro, come si è “formato” il voto. Se aggiungiamo che tutto, dalla piattaforma software fino allo spoglio, è stato gestito dalla Casaleggio e associati, sono comprensibili la delusione degli elettori Cinquestelle e i dubbi degli stessi parlamentari che fino a pochi giorni fa immaginavano «almeno quattrocentomila votanti» e si riempivano la bocca del miracolo della «democrazia diretta». Nel frattempo, tra l’incursione degli hacker e le varie sessioni di voto, Casaleggio e il professor Becchi hanno fatto piazza pulita a modo loro di quei candidati che facevano a cazzotti con l’ideologia Cinque stelle: Prodi, Bonino e Caselli.
Insomma, avuto il risultato finale, Grillo lo usa a modo suo offrendo a Bersani un frutto che malizia suggerisce essere avvelenato: appoggia il nostro candidato e poi discutiamo di fiducia. «Dico a Bersani senza retorica, senza battute, senza niente, di votare la Gabanelli. È un nome vincente e straordinario, provate ad andare incontro al cambiamento, e poi vediamo. Si prenda le sue responsabilità, sarebbe il primo passo per governare assieme». E questo anche per calmare le acque agitate dei supporter stufi dei no del leader. Alcune cose da fare insieme, «e già pronte» come dice Grillo, sono «la legge sull'incandidabilità della salma (Berlusconi, ndr) e sul conflitto d'interessi». A seguire il solito repertorio: «Siamo la Rivoluzione francese senza ghigliottina» e «se falliamo noi, arriva la ghigliottina».
Ora il punto è che Gabanelli, da grande professionista qual è, s’è detta «onorata e commossa per il grande riconoscimento, il più grande avuto finora». Deciderà stamani cosa fare: «È una cosa più grande di me e per ricoprire un ruolo così alto serve una competenza politica che non credo di avere».
Se lei gentilmente declinasse, Grillo prende in conto il secondo classificato Gino Strada ma spinge soprattutto su Rodotà sapendo benissimo che è un nome familiare per il Pd. L’offerta è questa, molto di bandiera e poco condivisa che resta ancora l’obiettivo di Bersani.
Nell’attesa è stato rinviato a oggi l’incontro tra il segretario del Pd e i capigruppo Crimi e Lombardi. Che ieri sera, nella riunione con i parlamentari rigorosamente top secret e senza streaming, hanno discusso sulla linea decisa e comunicata tramite web da Grillo (non tutti hanno gradito e la parola pigiatasti ricorre sempre più spesso, specie tra i senatori). Il tifo per Gabanelli è trasversale, uomini e donne. «È una donna, grande professionista, personalità positiva sotto tutti i profili. Bersani ha davanti il bivio di Ercole, tra Piacere e Virtù... se prende la strada giusta» ossrva la deputata Carla Ruocco. Entusiasta Riccardo Nuti, che prenderà presto il posto di Lombardi come capogruppo («la giornalista rappresenta lo spirito M5S»). «Scelta straordinaria» per Roberto Fico che pure ha votato Rodotà e il senatore Tommaso Campanella che così valuta il penultimo posto riservato a Prodi: «È il segno della sinergia che c’è tra la base e gli eletti del Movimento». Insoddisfatta invece Giulia Sarti, ingroiana doc: «Avevo votato Zagrebelsky...».
Ora ci sarà da spiegare, in assenza di numeri e cifre, per quale gioco di prestigio Rodotà, arrivato terzo, dovrebbe sopravanzare Strada (arrivato secondo) e questo sempre che Gabanelli rinunci. Ci sarà da spiegare perchè anche tra i Cinque stelle alla fine il nome sarà frutto di una mediazione. E perchè non può essere la scheda digitale la cura radicale per una democrazia rappresentativa certamente da rigenerare.

l’Unità 17.4.13
Piccoli segnali dietro i vecchi tatticismi del leader
Il M5S comincia a porsi il tema del «che fare». Il nome di Rodotà è un messaggio al Pd
ma restano i dubbi sulle reali intenzioni del comico
di Giommaria Monti


C’è ancora molto tatticismo nell’uso che Beppe Grillo sta facendo del nome di Milena Gabanelli, indicata dal web come candidata alla presidenza della Repubblica. Ma c’è una novità nel merito e nei toni che sarebbe un errore sottovalutare. Il M5S, ma soprattutto Grillo, si stanno forse ponendo il problema del «che fare», cioè come rendere determinanti nelle scelte politiche quegli 8 milioni di voti ottenuti alle elezioni. Un risultato inaspettato in quella misura da loro stessi, che paradossalmente forse avrebbero preferito un riconoscimento meno traumatico. Perché li sta mettendo da quasi due mesi davanti a una grande responsabilità.
La bravissima ideatrice di Report (le uniche inchieste televisive in grado di mettere in seria difficoltà il potere economico e politico) viene utilizzata da Grillo per lanciare un messaggio al Pd: possiamo parlare, possiamo trovare un punto di convergenza per fare le cose. Per la prima volta non è il Pdmenoelle ma il Pd. E chiama il suo segretario per nome, non apostrofandolo: «Bersani voti la Gabanelli, potrebbe essere un punto d’incontro», dice dalla sua tv in streaming La cosa. «Potrebbe essere veramente l’inizio di una...collaborazione? Può darsi, chi lo sa. Una convergenza, e se non con lei con i giovani del Pd», conclude. Intanto perché non è detto che Milena Gabanelli accetti. E poi perché Grillo non vuole inchiodarsi a un nome, ma a un metodo. In realtà ha in testa Stefano Rodotà, nome di peso che non è certo un giovane del Pd, ma che è stato nel giovane Pds: ne fu il primo presidente. Grillo, e questa è davvero tattica, descrive il grande giurista come «perfetto, spendibile dalla sinistra». Sa benissimo che il nome di Rodotà potrebbe mettere in difficoltà il Pd, aprendo una nuova faglia tra favorevoli e contrari. Perché è il Pd che il leader 5 stelle vuole colpire. Non Berlusconi, non la Lega. No, è il Pd che, almeno fino a ieri, era il bersaglio di tutte le invettive. Adesso Grillo, sia pure con i toni che gli provengono dal suo primo mestiere, dice «caro Bersani, te lo dico di cuore, di tenerezza, non ti prendo più per il culo, non ti chiamo più Gargamella: siamo a disposizione, a disposizione per cambiare. Ci serve un segnale».
La sostanza sta in quelle parole: a disposizione per cambiare. È forse il segnale che da Grillo ci si aspettava. Per mesi ha picchiato duro contro tutto e contro tutti. Erano il Pdl e il Pdmenoelle i responsabili di ogni malefatta di questo Paese, dalla crisi economica alla corruzione. La furia di Grillo (non a caso si chiamava tsunami tour: un’onda devastante che travolge tutto) ha imposto alla politica temi, ritmi e strategie del tutto nuove. Affidandosi alla consultazione on-line (con gli enormi limiti di partecipazione reale che il web comporta) per passare dalla democrazia rappresentativa alla democrazia partecipativa. Come ha rilevato proprio Rodotà, la rete doveva servire a far saltare le barriere. E infatti Grillo la usa come un grimaldello per scardinare il sistema. Naturalmente non stiamo dicendo che Grillo ha cambiato improvvisamente finalità e modalità. L’invettiva ieri è continuata con le parole consuete: i politici vogliono fare scempio, vengono con l’accento emiliano-romagnolo e ci chiedono di fare le cose, hanno cercato di comprare i nostri senatori e via proseguendo.
Niente di nuovo. Ma la diga sembra cominciare a scricchiolare. Perché quello che è nato come un movimento anti-sistema, con parole e toni che ricordavano gli anni ’70 (una risata vi seppellirà, lo stato borghese si abbatte non si cambia e così via), si è trasformato man mano che cresceva in un movimento che inizia a porsi il problema di rifarlo il sistema. Non solo abbatterlo, ma ridisegnarlo. Deve assumersi delle responsabilità impegnative davanti ai suoi elettori e alla volontà di cambiamento che hanno incarnato. Quella frase («siamo a disposizione per cambiare») può essere una novità. Ma Grillo deve mettere da parte i tatticismi. Se quella volontà di trovare un punto d’incontro è reale (e se non lo fosse probabilmente Grillo non l’avrebbe mai detta così) vuol dire che la soluzione non è poi più così lontana. Il problema è riuscire a superare lo stallo, notoriamente la condizione più pericolosa per gli aerei. Quella nella quale possono precipitare.

l’Unità 17.4.13
Quella inaspettata finestra sul futuro
di Toni Jop


Adesso Grillo dice che se ne può parlare. Ha fatto sapere che le operazioni di voto «quirinarie» si sono concluse con la vittoria di Milena Gabanelli. Un pugno di cittadini avrebbero firmato questa candidatura Cinque Stelle per il Colle.
È interessante che, ascoltata la base dei fedelissimi, ora la coppia padrona annunci di essere disposta a scendere a patti – voce generica, chi vivrà vedrà con la sinistra se si eleggesse assieme il presidente. Cioè: sui ninnoli si sente la base, sulle cose che contano decidono loro.
Diranno che la sinistra non ci ha neppure provato a mettere la scelta del candidato nelle mani delle piazze. Avranno ragione, ma solo perché, come da dettato costituzionale, l'elezione del presidente spetta al Parlamento. Siamo rispettosi di quel dettato. Ci stanno a cuore il Paese, la sua sofferenza, la sinistra, la nostra avventura.
A questa «avventura» appartiene il nome di Stefano Rodotà. Non solo il suo, tra i candidati che in queste ore si agitano. Ma è un nome che non sta nei reticoli organizzati di nessuno dei piani in cui la sinistra si articola, ed è il nome che, lo si vede, tiene assieme la sinistra, la sua base e gran parte della sua dirigenza e si è affacciato con successo anche nell'immaginario Cinque Stelle. Poi, guarda caso, questo stesso nome sembra avere il potere di aprire finestre su un futuro che non avremmo sospettato, non sponsorizzato da Berlusconi. Per amore di tutto questo, anche, Rodotà presidente sarebbe bellissimo.

il Fatto 17.4.13
Rodotà, l’ex presidente Pds piace solo a un pezzo del Pd
di Wanda Marra


LA MORETTI: “A ME COME PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ANDREBBE BENE” MA VECCHIE E NUOVE CORRENTI PUNTANO SUI LORO “PROFESSIONISTI” AI RENZIANI VANNO BENE AMATO E D’ALEMA. GLI EX POPOLARI TIFANO MARINI

Stefano Rodotà? Io sono una giurista, a me come Presidente della Repubblica piacerebbe”. Alessandra Moretti spezza una lancia a favore del costituzionalista. Una lancia che ha un certo peso, provenendo da una delle fedelissime di Bersani. Tentazioni. In realtà la pro-offerta di Grillo (“Se la Gabanelli rinuncia, il Pd può votare Rodotà. E sulla fiducia vediamo... ”) al solito dilania il partito. Il Pd è ancora alla ricerca di un accordo con il Pdl. Ma Rodotà è un nome al quale è difficile dire di no. “Già il fatto che Grillo ci chieda di votarlo è un buon motivo per non farlo. Anzi, lui dovrebbe rifiutarsi di farsi candidare dai 5 Stelle”. Il giovane Turco, Matteo Orfini lo dice con veemenza, ma molti nel partito sono sulle sue posizioni. “Come facciamo a fidarci adesso? Come facciamo a credere che davvero Grillo sia pronto a un accordo? ”, commenta Andrea Orlando. I Democratici ragionano secondo schemi di gioco: c’è quello che contempla un accordo con i grillini, che dovrebbe portare a un governo a 5 Stelle, sul quale in questa fase sono scettici tutti. E quello che vede Amato, o magari D’Alema, in chiave di un accordo con Berlusconi. La partita personale di Bersani passa per un Capo dello Stato che gli dia l’incarico: e dunque la tentazione Rodotà in questa chiave esiste, visto che Amato e D’Alema potrebbero ragionare sulle larghe intese propriamente dette, facendolo fuori. Ieri, a proposito dell’offerta di Grillo dallo staff del segretario chiarivano che il metodo è sbagliato: se il leader dei 5 Stelle vuole trattare, deve venire a parlare con noi. E vale per tutti: non si può dire “o questo, o niente”. Oggi intanto dovrebbero vedersi i capigruppo di Democratici e M5S. “Rodotà è un nome autorevole, che potremmo votare - commenta Civati - ma per spuntarla nel Pd per noi sarebbe stato più facile Prodi”. Non è detto che non risalti fuori al quarto scrutinio.
POI CI SONO i giochi e le strategie personali dei vari leader, che rendono il tutto piuttosto ingovernabile. Gli ex popolari Rodotà non lo vogliono. Perché non vogliono l’alleanza con l’M5S. “Io sono per un candidato condiviso, che passi già nei primi scrutini - spiega Beppe Fioroni - il problema non è Rodotà, ma è la modalità: Grillo non sta cercando una condivisione, ma sta invitando a votare il suo”. Renzi sarebbe pronto a votare Prodi o Amato. Entrambi gli garantirebbero il prossimo futuro: Prodi non piace al Pdl e potrebbe velocizzare la strada verso le elezioni; e Amato, soprattutto, significherebbe un governo di qualche mese con Matteo candidato naturale alle prossime elezioni. Secondo lo stesso ragionamento, potrebbe andar bene anche D’Alema,. “Perché Rodotà? Come facciamo a sapere che non è la Gabanelli”, fanno melina i fedelissimi Lotti e Bonifazi. “I 60 parlamentari di Renzi, Rodotà non lo votano, pure andando contro l’indicazione di Bersani”, va sicuro uno degli uomini vicini al Sindaco. Perché Rodotà è troppo di sinistra, perché vorrebbe dire chiudere con il progetto del Pd. Perché non piace ai cattolici. E perché a Grillo sono già state date le presidenze delle Camere, con un’operazione fallimentare, argomentano. Renzi ieri non s’è espresso, per dire la sua aspetta che il nome gli venga fatto ufficialmente (ma Marini e Finocchiaro li ha bloccati sul nascere). Parlerà stasera in diretta alle “Invasioni barbariche”. Pronto a sparare la sua. Proprio mentre il segretario dovrebbe riunire i parlamentari per informarli sul nome da votare. Sono in corso riunioni, incontri, telefonate. Ma in realtà, un nome che non rischi di spaccare il partito Bersani non ce l’ha. Se non si trova un accordo interno, dal quarto scrutinio il Pd rischia di andare in ordine sparso. E mentre ieri Sel apriva a Rodotà, contro Amato c’era una rivolta tra i neo eletti democratici alla Camera. Tanto che Enrico Letta andava in giro a dire che l’alternativa non c’è, perché l’accordo col Pdl sarebbe fatto. O l’unica sarebbe D’Alema, meno indigesto ai giovani Pd del Dottor Sottile.

il Fatto 17.4.13
Stefano, l’intellettuale di minoranza
di Marco Palombi


Stefano Rodotà è un uomo dalle molte vite, com’è normale che sia per un intellettuale ottantenne (in realtà li compirà a fine maggio) con una passionaccia per la politica e, dicono gli antipatizzanti, per le cariche istituzionali. Se verrà eletto, sarà il primo capo dello Stato a provenire da una minoranza: Rodotà è infatti un figlio della comunità arbëreshë (italo-albanese) calabrese, la sua famiglia viene da Santo Stefano Ullano, paesino montano in provincia di Cosenza. Provenienza che in parte forse spiega la sua tenace difesa, in ogni fase della sua vita, dei diritti della persona. Laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, l’università in cui ancora insegna diritto civile, la sua prima esperienza politica la fa col Partito Radicale di Mario Pannunzio. Col Pr versione Marco Pannella, invece, non s’è mai preso molto: è tanto vero che nella prima delle sue quattro legislature in Parlamento, nel 1979, si fa eleggere da indipendente nelle liste del Pci dopo aver rifiutato a più riprese le offerte di viale Argentina. “Ci eravamo lasciati già 17 anni fa”, gli scrisse acido Pannella in una lettera aperta: “Eravamo dei pazzi, e Stefano era un savio. Siamo dei pazzi, e Stefano si conferma un savio”. Risposta: “Sono probabilmente colpevole d’aver accettato, come Marco scrive, di farmi ‘tranquillamente eleggere deputato indipendente dalla direzione del Pci’, invece che personalmente da lui”.
ALLA CORTE DEL PCI, ha spiegato lui stesso, l’aveva portato Luigi Berlinguer, ma prima di accettare la candidatura volle parlare con Ugo Pecchioli, il “ministro dell’interno” comunista: sui diritti possiamo essere in contrasto, gli disse quello, ma non sulla fermezza (il riferimento era al recente caso Moro). Così Rodotà fu eletto e passò quella legislatura (anche) a combattere contro il cosiddetto “teorema Calogero”, la tesi del giudice di Verona che aveva fatto arrestare tutti i leader di Autonomia operaia da Toni Negri in giù, accusati di essere i veri capi delle Brigate rosse.
Fu rieletto a Montecitorio nell’83, quando fu capogruppo di Sinistra indipendente, nell’87 e ancora nel 1992, quando divenne vicepresidente della Camera e pure uno dei candidati al Quirinale, dove però – al sedicesimo scrutinio – venne eletto Oscar Luigi Scalfaro (con grande delusione del nostro, dicono i soliti cattivi). Nel frattempo Rodotà era diventato il primo presidente del Pds, ovviamente a garanzia delle minoranze interne, e aveva ingaggiato un’aspra battaglia col precedente inquilino del Quirinale, Francesco Cossiga. I due avevano polemizzato su Leoluca Orlando, padre Pintacuda e l’antimafia palermitana e per il picconatore fu guerra aperta: tra le altre cose lo irrise come “leader del proletariato mondiale, campione imperituro del marxismo-leninismo”; “piccolo arrampicatore sociale”; “uomo senza radici, parvenu della politica”. Il giurista, alla fine, se ne uscì con l’unica sua battuta memorabile: “Propongo a Cossiga un accordo: lui smette di dire falsità sul mio conto, e io smetto di dire verità sul suo”. Nel 1994, dopo un quindicennio di politica, Rodotà torna al suo lavoro: insegnerà spesso anche all’estero e, soprattutto, tra il 1997 e il 2005 sarà il primo Garante della privacy italiano (attività per la quale riceverà anche alcuni premi internazionali). Campione di laicità in tema di diritti civili e bioetica – vedasi le sue posizioni su matrimonio gay e fine vita – Rodotà, a differenza di molti altri candidati al Quirinale della lista 5 Stelle, è un prodotto della società civile corretto con una robusta dose di politicismo: sa come muoversi in quel mondo e ha una certa propensione per il potere. Il che non è affatto una critica.

Corriere 17.4.13
Il Cavaliere: con Bersani è fatta Una «stretta di mano» al telefono
Berlusconi evoca un «accordo di ferro» con il leader democratico
di Francesco Verderami


ROMA — «Direi che è fatta con Bersani», annunciava nel tardo pomeriggio di ieri Berlusconi, che proclamava «la fine della fase tattica» e parlava di un «accordo di ferro» per il Colle con il segretario del Pd sul nome di Amato, ritenuto «l'unico spiraglio». Diceva la verità il Cavaliere o stava bluffando? Tutte e due le cose, l'uso del condizionale — quel «direi» — lo testimoniava. E non perché dovesse solo far finta di aver preso una decisione, ma perché la corsa per il Quirinale è sempre piena di insidie: in passato è bastato un niente per far saltare patti più saldi di quello che il leader del Pdl sostiene di aver stretto con il capo dei democrat.
Di certo c'è che i due si sentono ormai assiduamente e non hanno più bisogno di intermediari. Ma siccome una stretta di mano telefonica non basta a chiudere un simile negoziato, alla vigilia delle votazioni Berlusconi mantiene — al pari del suo interlocutore — un atteggiamento non ambiguo, bensì prudente. E c'è un motivo se dalla sua corte è iniziato a filtrare il nome di D'Alema, se il primo presidente del Consiglio post comunista è stato accreditato come «il candidato»: Amato era e resta la prima scelta per il Cavaliere; D'Alema è la carta di riserva, su cui puntare nel caso in cui l'accordo sull'ex sottosegretario di Craxi non dovesse reggere, e Berlusconi volesse evitare di restar fuori dai giochi, ritrovandosi al Quirinale una personalità non gradito se non ostile.
Il punto è che Amato produce anticorpi all'interno dei due schieramenti: inviso a molti nel Pd e osteggiato da Vendola, determina lo stesso effetto in un pezzo del Pdl e nella Lega. Perciò, se davvero — come sostiene Berlusconi — è stata trovata un'intesa con Bersani sul candidato, il problema è come farlo eleggere, mettendo a punto la tempistica per ufficializzare quel nome e sottoporlo ai grandi elettori. Per esempio, riuscirebbe Amato a superare le forche caudine del voto segreto già alla prima chiama? È stato calcolato che — in caso di accordo tra Pd, Pdl e Scelta Civica — ci sarebbe un margine di centosessanta senatori: basterebbe o sarebbe preferibile aspettare le successive due chiame? E se si optasse invece per la quarta votazione — quando servirà la maggioranza semplice — non ci sarebbe il rischio di aprire le porte ad altri giochi, scatenando i franchi tiratori?
Insomma, un passo falso e Amato sarebbe bruciato. Di qui la carta D'Alema, che Berlusconi ha valutato con lo sguardo però sempre rivolto agli amatissimi sondaggi: perché — agli occhi del suo elettorato — l'ascesa dell'ex segretario del Pds al Colle con il supporto del Pdl saprebbe di «inciucio», avrebbe un impatto maggiormente negativo rispetto ad Amato, che certo non è considerato una «novità». Tuttavia, pur di non dover stare a guardare per la seconda volta l'elezione del capo dello Stato, il Cavaliere non ha escluso D'Alema dal mazzo. Preferirebbe Marini, «peccato che — giura scaricando le responsabilità sul fronte avverso — siano quelli del Pd a non volerlo». Ancora una volta dice il vero o bluffa?
Di sicuro Amato incontra il gradimento di Berlusconi, che è in piena sintonia con Napolitano, da tempo sponsor dell'esponente socialista. Ma se il patto Pd-Pdl dovesse saltare, l'inquilino del Colle avrebbe un altro candidato che vedrebbe di buon occhio come suo successore. Sarà una semplice coincidenza, ma non c'è dubbio che il giudice costituzionale Cassese incontra i buoni uffici del capo dello Stato uscente, ed è il nome con cui Bersani potrebbe evitare di venire travolto da Grillo, che ieri pronto ha iniziato la manovra di accerchiamento al Pd e gli ha di fatto proposto un accordo su Rodotà. Con Cassese, Bersani si precostituirebbe un'exit-strategy, ecco perché ne ha fatto cenno l'altra sera a Monti.
Il premier uscente però vuole che sul Quirinale ci sia una «scelta condivisa» con il Pdl, e la reazione istintiva di Berlusconi all'ascolto di quel nome non è stata entusiastica: «Cassese chi? Quello che ha lavorato per bocciare il lodo Alfano?». Chissà se Gianni Letta sarà riuscito a persuaderlo, spiegandogli che l'ex ministro di Ciampi «si è mosso sempre di intesa con il presidente della Repubblica». Napolitano, appunto. Da quell'orecchio però Berlusconi non ci sente, e infatti nella rosa predisposta dal capo dei democrat ci sono Amato, D'Alema, Marini e la Finocchiaro, che ieri ha chiesto e ottenuto di non venire esclusa dalla lista. È sui primi due nomi però che si gioca la partita per il Colle. Berlusconi dice che «è fatta». Sicuro che non si vada ai supplementari?

Corriere 17.4.13
Pdl ottimista: «Intesa vicina» Si tratta anche su Palazzo Chigi
Per Berlusconi, un presidente del Pd favorirebbe le larghe intese
di Paola Di Caro


ROMA — La linea ufficiale è che l'accordo è possibile «al 50 per cento». Quella ufficiosa, in una giornata in cui le acque si sono mosse e la trattativa è arrivata alla stretta finale, è che «l'intesa è vicina». Tanto che Berlusconi e Bersani potrebbero vedersi «nelle prossime ore». E in ogni caso entro la tarda mattinata di oggi, prima che si riunisca l'ufficio di presidenza del Pdl, per decidere la linea da tenere domani alla prima votazione per il Quirinale.
Insomma, dopo giorni di fredda e l'interruzione delle comunicazioni di lunedì corso, ieri i contatti sono ripresi. C'è chi assicura che Berlusconi e Bersani si siano già parlati, ma se ancora non è avvenuto è sicuro comunque che ieri le conversazioni sono state al massimo livello. E la grande paura del Cavaliere — quella di un'intesa che salta e la convergenza alla quarta votazione tra Pd e Movimento 5 Stelle sul nome di Prodi — sembra essere un po' scemata.
La prima richiesta del Cavaliere è sempre la stessa: una rosa dalla quale scegliere, e nelle ultime ore sarebbe informalmente arrivata con i nomi di Amato, D'Alema, Marini e Finocchiaro. La seconda, forse perfino più pressante, è che con l'elezione condivisa del nuovo capo dello Stato si apra anche il percorso che porta a un governo di larghe intese. Tanto più nel caso in cui il prescelto fosse un esponente organico del Pd come Massimo D'Alema.
E però, su questo secondo punto, si va ancora con i piedi di piombo. Ragione per cui Berlusconi — che ha chiesto il legittimo impedimento per le sue udienze del 18 e del 23 in Cassazione e alla Consulta sul conflitto con i giudici — non avrebbe ancora deciso quale candidato indicare fra quelli della rosa. Il dubbio in realtà è su due, quelli ritenuti i veri uomini forti al momento, almeno se non ci sarà una «carta coperta» di Bersani che nel Pdl comunque non escludono: Amato e D'Alema. Il primo, raccontano, andrebbe benissimo al Cavaliere: «Lo conosco da tantissimi anni, è capace, e sicuramente per il nostro elettorato sarebbe un nome facile da accettare». Ma le controindicazioni ci sono: «Rischia di essere meno forte di D'Alema: non ha un partito alle spalle, non si sa se ha la forza di imporsi per decisioni impopolari e dare le garanzie che noi chiediamo». E, fatto da non trascurare, la Lega ha posto esplicitamente il veto. D'Alema invece ha problemi diversi: «Un patto con lui è garanzia assoluta che verrà rispettato, perché conosce uno a uno gli esponenti del suo partito, ha ancora forza nel Pd, e su molte questioni, a partire dalla giustizia, non abbiamo visioni così lontane...».
È vero però che, per votare un esponente organico del Pd che «il nostro elettorato accetterebbe male» serve un patto chiaro sul governo, a quel punto vere larghe intese. E, in caso di urne anticipate, il rischio sarebbe alto. Ma Berlusconi sembra ormai pronto all'accordo: «Dal Pd — ha spiegato ai suoi — sembra esserci l'intenzione di chiudere la partita con noi, anche i centristi sono d'accordo. Ma ci hanno anche avvertito che o si chiude subito, alla prima o al massimo alla seconda votazione, o dalla quarta tutto è possibile». Anche che la pancia del Pd trovi l'intesa con i grillini su un candidato come Rodotà, o che ritorni prepotentemente il nome di Prodi. Uno scenario che nel Pdl viene vissuto come un incubo, con Berlusconi che minaccia in quel caso di «occupare le piazze, bloccare il Parlamento».
Oggi appunto il rischio di un esito di massima rottura sembra più lontano, così come sembrano non decollare candidature di «tecnici» come Sabino Cassese e Giuseppe Tesauro. E il Cavaliere avrebbe testato direttamente nel suo incontro con Renzi lunedì scorso che il sindaco di Firenze non farebbe le barricate su Amato o D'Alema, ma anche che — in caso emerga la candidatura di Prodi in assenza di intesa forte tra Pd e Pdl — allora lo voterebbe.
Per questo, è l'ora del bassissimo profilo: Berlusconi ha annullato ieri sera una cena allargata che doveva tenere con i suoi, e ha tenuto un incontro molto più ristretto. Meglio evitare che escano troppe voci, meglio tenere qualche segreto se c'è. «L'accordo è vicino — scherza un ex ministro — ma come direbbe Trapattoni, non dire gatto se non l'hai nel sacco...».

Corriere 17.4.13
Le incursioni grilline rendono evidente la crisi dei partiti
di Massimo Franco


L a nebbia non si dirada, e probabilmente è inevitabile. A un giorno dall'inizio delle votazioni per il Quirinale, le tensioni stanno aumentando. E l'ipotesi di una candidatura trasversale deve confrontarsi con la tenuta soprattutto del Pd. È la forza che ha il maggior numero di grandi elettori, grazie anche al premio di maggioranza alla Camera conquistato nel voto di fine febbraio. Ma fa fatica a contenere le spinte centrifughe e le incursioni polemiche di altri partiti decisi ad acuire le difficoltà di Pier Luigi Bersani. Di fronte, il segretario del Pd non ha soltanto la prospettiva di una possibile lacerazione, se le cose dovessero andare male nella scelta del capo dello Stato.
Davanti a lui si staglia anche il pericolo concreto di perdere la leadership e molti voti alle prossime elezioni politiche. E dunque non si può escludere che nelle decisioni finali pesi la necessità di puntare al male minore pur di tenere il Pd più compatto possibile intorno a un candidato. A guardare bene, la situazione del partito di Bersani ricorda quella nella quale si trovava il Pdl nel dicembre scorso. Anche allora, la guida di Silvio Berlusconi sembrava in bilico, e il centrodestra sull'orlo della frantumazione. Togliendo l'appoggio al governo tecnico di Mario Monti, invece, e dunque scaricando su palazzo Chigi la propria crisi, il Pdl si ricompattò.
In questo caso, si tratta di Quirinale; e la garanzia che il Pd resti unito non c'é comunque. Ma la tentazione di far scattare un meccanismo simile non appare scongiurata. Quando il capo del movimento 5 Stelle (M5S), Beppe Grillo, sostiene che Bersani «si suicida» se appoggia un candidato «di tutti», tocca un nervo scoperto in alcuni settori della sinistra. Ed evoca una campagna elettorale tesa non a sottolineare la bontà di una tregua ma l'«inciucio» fra Pd e Pdl. A Grillo non importa che un'intesa possa scongiurare la fine della legislatura e offrire un segnale alla comunità internazionale.
Anzi, l'obiettivo semmai è opposto. Nell'ottica dello sfascio del sistema, il M5S punta a un'elezione nella quale non esista una regìa di concordia, ma soltanto una scelta da far maturare dopo le prime tre votazioni. In queste, a un candidato è necessario avere due terzi dei voti dei 1007 «grandi elettori», dunque 672; e dunque un accordo fra sinistra e destra è indispensabile. Dalla quarta la percentuale si abbassa alla metà più uno dei voti, 504. E in quel caso le maggioranze possono cambiare, e il potere di condizionamento dei grillini aumenta.
Sempre che anche i vertici del M5S siano in grado di dare indicazioni rispettate docilmente dai propri parlamentari. Ma è chiaro che non si può imputare a Grillo di fare i propri calcoli. Di nuovo, il problema rimbalza sui partiti che sono usciti dalle urne con una vittoria a metà; e che stanno valutando quanto sia conveniente, o anche solo possibile, trovare un capo dello Stato in grado di fare uscire la situazione dall'immobilismo e dai veti incrociati in cui si è impantanata. Lo stallo sta esasperando l'inquietudine dell'opinione pubblica e suscitando uno stupore e una perplessità crescenti a livello europeo. Può darsi che una soluzione condivisa spunti comunque, alla fine. Ma sarebbe l'esito di un pericoloso gioco d'azzardo.

Corriere 17.4.13
Consensi per Amato E restano in gioco Prodi e D'Alema
L'incontro tra Alfano e i montiani
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Amato, Prodi, D'Alema, Gabanelli... e Rodotà. A poche ore dall'inizio delle votazioni che porteranno a scegliere il successore di Napolitano come presidente della Repubblica, nessuno scopre le proprie carte. L'impressione è che stia prevalendo la pretattica in vista della battaglia campale che si giocherà a partire da domani, quando a Montecitorio si riuniranno in seduta comune deputati e senatori, assieme ai grandi elettori espressi dalle Regioni. A fare il nome di Amato, come il candidato più idoneo, sono Rino Formica e Emanuele Macaluso in una lettera al direttore del Foglio Ferrara. Entrambi fanno parte dell'inner circle di Napolitano, sebbene abbiano storie politiche diverse: Formica proviene dal Psi craxiano mentre Macaluso faceva parte della corrente migliorista del Pci, la stessa alla quale apparteneva Napolitano. Li accomuna il giudizio (positivo) sul Dottor Sottile. «Amato — scrivono — ha l'esperienza e può esprimere al meglio l'unità nazionale da realizzare anche con il concorso di forze sociali e culturali con le quali Giuliano ha intrecciato la sua vicenda personale». Amato piace al centrodestra e trova consensi anche nel centrosinistra, anche se potrebbe trovare sulla strada del Quirinale, come concorrente, Romano Prodi. Il Professore, già presidente della Commissione europea, è gradito soprattutto a una parte del Pd, quello di osservanza renziana, come conferma Matteo Richetti: «Lo voterei con grande slancio e convinzione. Per ora, il nome di Prodi è il più autorevole e credibile a livello internazionale. Certo qualche problema di convergenza con il Pdl ci sarebbe». Richetti ritiene, inoltre, che «la candidatura di D'Alema non rappresenterebbe l'unità del Paese e creerebbe qualche problema».
Prodi, però, sarebbe come fumo negli occhi di Silvio Berlusconi. Se dovesse salire al Quirinale, fanno sapere da Palazzo Grazioli, l'opposizione del Pdl sarebbe durissima, sia in Parlamento sia nelle piazze. Diverso, invece, il giudizio su D'Alema, con il quale Berlusconi non ha mai incrociato i guantoni (a differenza di Prodi che lo ha battuto due volte: nel 1996 e nel 2006) e aveva trattato direttamente ai tempi della Bicamerale. Al momento, quindi, l'ex presidente del Copasir sarebbe il candidato sul quale il Pdl potrebbe convergere senza reticenze.
In ogni caso, in questa fase, spetta a Pier Luigi Bersani, quale leader del Pd, avanzare una rosa di nomi, come era stato richiesto nei giorni scorsi dallo stesso Cavaliere. E questa richiesta è stata di nuovo fatta ieri, durante il faccia a faccia tra Andrea Olivero, coordinatore di Scelta civica, e Angelino Alfano. «È stato — puntualizza — un incontro positivo e costruttivo. Con Alfano si è parlato di criteri anche se l'auspicio comune è che si arrivi a una candidatura condivisa fin dalle prime votazioni. Parliamoci chiaro: se si vuole un'intesa, bisogna vedersi non ci sono scappatoie». Ed ecco il possibile punto di convergenza, tra Pdl e Scelta civica, più volte auspicato: «Se il Pd proponesse il nome di Amato e il Pdl fosse concorde, credo che non faremmo mancare il nostro appoggio».
Parallelamente a questi colloqui il M5S rende noti i risultati delle Quirinarie fatte in rete. E si scopre che la più votata è Milena Gabanelli, seguita da Gino Strada, mentre al terzo posto si piazza il giurista Stefano Rodotà, già parlamentare della Sinistra indipendente ed esponente del Pds. La Gabanelli è incerta se accettare, Strada non sembra interessato. Resta Rodotà, sul quale Grillo e i suoi potrebbero tentare l'accordo con il Pd, qualora Bersani non stringesse un'intesa con Pdl e montiani. Infine, tra i nomi circolati anche quello del giudice costituzionale Sabino Cassese, mentre Famiglia cristiana dice no a Emma Bonino.

Corriere 17.4.13
Il rebus dei veti incrociati: prodiani ed ex dc in fermento. Renzi: chiedo solo rispetto
Il sindaco: «Nessuna scissione». E non stoppa Amato
di Monica Guerzoni


ROMA — «Ma che partito è mai questo?». Sono le quattro del pomeriggio e Rosy Bindi, nel Transatlantico di Montecitorio, sta perdendo la pazienza per il modo (per nulla compatto) in cui i democratici si preparano al voto sul Quirinale: «Chi lo ha detto che con Amato si fanno le larghe intese e con Prodi si va a votare? Il governissimo non si farà perché il Pd non lo vuole...». Così la presidente del partito, che da prodiana non accetta «veti» sul fondatore dell'Ulivo, prova a stoppare le tentazioni di larga parte del Pd.
Manca una manciata di ore e Bersani gioca ancora a carte coperte, l'incontro con Berlusconi è possibile ma non scontato e la strategia di Grillo sta mettendo in difficoltà il Pd. «Rodotà è un ottimo candidato», ammette il bersaniano Corradino Mineo. Il segretario ha anche i suoi problemi sul fronte interno, a cominciare dal Problema con la maiuscola: Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze ha impallinato Marini e Finocchiaro e ieri l'ex presidente del Senato e la ex capogruppo sono andati al Nazareno per un chiarimento con il leader, che ha visto anche Luciano Violante. Bersani ha detto loro che «non sarà certo Renzi a decidere chi deve andare al Quirinale e chi no», rassicurandoli sul fatto che sono ancora della partita. «Marini e Finocchiaro restano assolutamente in campo», conferma Stefano Fassina.
Sul punto cruciale il segretario non ha cambiato idea: «La crisi del Paese è tale che serve il consenso più ampio su una figura politica forte e in grado di unire, nel Pd e fuori». Massimo D'Alema? O Giuliano Amato? Il «dottor sottile» non pesca voti da Sel, non convince i «giovani turchi», scontenta i prodiani ed è fumo negli occhi per i «popolari» amici di Marini, che ieri hanno spinto molto sul nome di Amato come «candidato di Renzi», con la segreta speranza che il sindaco di Firenze si adoperi per bruciare anche lui. Renzi però è stato alla larga dalla questione e tanti, nel Pd, ne hanno dedotto che Matteo ha cambiato linea e non spinge più per Prodi: in fondo un governo di larghe intese, se fosse breve e mirato alla modifica della legge elettorale, potrebbe far comodo anche a lui... Renzi avrebbe qualche mese per organizzarsi e tentare, magari in autunno, la corsa per Palazzo Chigi. Per tutto il giorno, a chi gli ha chiesto se davvero sia pronto a far votare Amato ai suoi parlamentari, Renzi ha risposto «io non so nulla, sono fuori dai giochi, Bersani non mi ha chiesto niente». Stasera il segretario riunirà i gruppi e allora anche i renziani, forse, potranno capire il da farsi.
La tensione resta, ma i toni si fanno meno taglienti. «Non ci sarà nessuna scissione — assicura Renzi — L'importante però è che ci sia un po' di rispetto». Quando l'inviato di Striscia la notizia gli ha consegnato il tapiro bianco per gli insulti volati nel Pd, l'inquilino di Palazzo Vecchio è stato al gioco: «Noi non sbianchiamo, né smacchiamo. Continuare a parlare delle offese non ha senso». E ora tra i fedelissimi si insinua il dubbio che il loro leader abbia un po' esagerato. «Matteo ha sbagliato, non doveva fare quella battuta cattivissima su Finocchiaro», lo rimprovera Andrea Marcucci. Matteo Richetti pensa che ci vorrà tempo «per lenire le ferite» e Dario Nardella propone di «voltare pagina» e concentrarsi sul Quirinale. Molti renziani ritengono, come Roberto Reggi, che Prodi abbia «il profilo ideale». L'ex premier ha tenuto una lectio magistralis all'Angelicum e ha schivato abilmente tutte le domande sul Quirinale, ma non si è tirato fuori dalla corsa...

Repubblica 17.4.13
I deputati grillini tra dubbi e paure “Se propongono Prodi ci spacchiamo”
L’incubo degli scrutini ad oltranza per la corsa al Quirinale
di Tommaso Ciriaco


ROMA — L’incubo del Movimento Cinque Stelle ha l’accento bolognese e va in bicicletta. E’ Romano Prodi a turbare i sogni dei grillini, soprattutto se nell’infinito risiko del Quirinale ci si dovesse avventurare sul terreno scivoloso del quarto scrutinio. E’ proprio sul nome del Professore che i 162 parlamentari del M5S potrebbero tornare a dividersi, piegandosi alla logica del “meno peggio” esplicitata da Beppe Grillo pochi giorni fa in un casale della periferia romana: «E’ meglio Prodi di D’Alema o di Amato».
L’ex premier, in realtà, può vantare un rapporto cordiale con il guru Gianroberto Casaleggio. E, nonostante le critiche ricevute dagli attivisti, è comunque arrivato nono alle recenti Quirinarie. Davanti solo a Dario Fo, ma comunque nella top ten dei preferiti per il Colle più alto. Il problema, serio, è che il Professore non è giudicato all’altezza dalla base del movimento. La Rete lo spernacchia, i duri e puri lo bocciano senza appello. Vito Crimi, che intravede il rischio di una spaccaturra interna, prova a scacciare l’incubo mentre la porta di un ascensore di Palazzo Madama si chiude alle sue spalle: «Se il Pd propone Prodi? E’ arrivato nono, non esiste...».
Il movimento siede sulla bocca di un vulcano e un assaggio del rischio si è toccato con mano ieri sera. I parlamentari si sono ritrovati a Montecitorio, al chiuso di una sala e senza streaming. E hanno duellato fino a tardi, divisi tra chi reclama il confronto e chi ha già deciso di arroccarsi in difesa della candidatura unica di Milena Gabanelli. Per una mediazione si è speso proprio Crimi, che già nel pomeriggio aveva anticipato la linea: «Quarto scrutinio? Un passo alla volta, stasera discuteremo delle prime tre votazioni...».
Eppure, la fazione del dialogo non ha mancato di mettere pressione al resto del gruppo. Quattro senatori, nel corso del summit serale, hanno lanciato un’idea choc, capace di rimettere tutto in discussione: «Perché non proponiamo noi ai partiti di scegliere uno dei primi quattro nomi eletti con le Quirinarie?». Altri parlamentari, più semplicemente, hanno implorato libertà di coscienza dal quarto scrutinio, con l’obiettivo di evitare una nuova frattura, dopo quella consumata sulla Presidenza del Senato.
Ma i falchi del movimento hanno tenuto duro, ribadendo la linea: almeno per le prime tre votazioni sosterremo Milena Gabanelli (o, in caso di rinuncia, chi le sta immediatamente dietro). Qualcuno l’ha detto alzando la voce e guardando negli occhi i colleghi di gruppo: «La nostra candidata è lei. Dobbiamo rispettare la volontà della Rete. Punto e basta». Ed è su questa posizione che — senza contarsi e senza votare — nel corso della lunghissima serata sembra essersi coagulato il consenso della maggioranza della pattuglia 5Stelle. Il nome di Gabanelli ha il pregio di mantenere compatto, almeno per il momento, l’eterogenea armata grillina. Se la giornalista dovesse rinunciare, toccherebbe a Gino Strada sostituirla. Ma nessuno nel movimento nasconde che l’asso nella manica resta quello di Stefano Rodotà. Il giurista è considerato un autentico jolly capace di lasciare il Partito democratico senza parole. E senza argomenti per rifiutare. Anche in vista di questo scenario, i pontieri democratici si sono confrontati ieri con la diplomazia a cinque stelle. Soprattutto a Palazzo Madama. E in vista dell’incontro tra capigruppo democratici e grillini in agenda per oggi.
In attesa di toccare con mano la tenuta delle truppe di Grillo, il movimento si confronta con il caso del senatore Marino Mastrangeli. Il parlamentare amante dei talk show è sul banco degli imputati e nel corso della riunione serale di ieri si è stabilito di affrontare il capitolo solo dopo l’elezione per il Colle. L’esito del confronto interno — dopo aver saggiato l’opinione della Rete — potrebbe addirittura essere il ritiro dell’autorizzazione a utilizzare il simbolo del movimento.
Nei prossimi giorni, infine, il M5S riceverà da cinque economisti cinque diversi scenari macro economici. La traccia affidata agli esperti dal M5S è più o meno questa: l’Italia e l’euro, cinque progetti alternativi. Le proposte saranno raccolte, elaborate e sintetizzate dai parlamentari cinquestelle. E, c’è da scommettere, faranno discutere.

Repubblica 17.4.13
I prodiani in attesa a bordo campo puntano sulle spaccature del Pd “Amato rischia i franchi tiratori”
Il Professore: “Io divisivo? Chiedete a mia moglie”
di Giovanna Casadio


ROMA — «I prodiani? Sono una categoria dello spirito...». Arturo Parisi, il fondatore dell’Ulivo, ci scherza su. Ha sentito Romano Prodi ma «per parlare della situazione politica in generale, come sempre». Scambio di idee, prima che il Prof, a Roma per una lezione alla Pontificia università “Angelicum”, si lasci andare a un paio di battute sulla sua candidatura al Quirinale. Una candidatura che agita e divide un Pd alla ricerca delle larghe intese con il Pdl per il Colle, pensando alla partita per il governo. «Che effetto mi fa essere tirato in ballo tutti i giorni per la presidenza della Repubblica? Nessuno», risponde l’ex premier ai cronisti. E quando lo incalzano perché, dicono nel Pd, il partito che lui ha più di tutti voluto, «Romano è “divisivo”», allora ironizza: «Divisivo io? Chiedetelo a mia moglie Flavia», e la indica, accanto a lui.
Prodi attende. A lui, a Sandra Zampa, sua ex portavoce, oggi deputata, arrivano mail e sms che lo sollecitano a farsi sentire, a stare in campo. Durante la “lectio”, una docente sostiene con foga di volerlo al Quirinale e lo esorta a non farsi da parte. Prodi alza gli occhi al cielo e, ridendo, risponde: «Ma il suo è proprio un vizio, signora!». Ma il fronte prodiano si sta organizzando nel Pd, e alla quarta votazione rischia di diventare molto ampio. Rosy Bindi l’ha detto e lo ripete: Prodi è il candidato naturale del Pd. A chi le domanda cosa ne pensi della “rosa” dei 5Stelle, ribatte che è un’altra la sua rosa. Enrico Letta ha ribadito che, prima viene la linea bersaniana della candidatura condivisa, ma poi si passa a Prodi. Anche Areadem di Franceschini non potrebbe non convergere sul cattolicodemocratico ex premier. Vendola, il leader di Sel, domenica scorsa in tv a “In mezz’ora” da Lucia Annunziata, ha rilanciato: «Indicare un candidato può voler dire bruciarlo, ma sono intollerabili i veti su Prodi». I prodiani possono contare su Sel. Puntano anche sul fatto che contro i nomi di cui si parla in questo ore — da Amato a D’Alema, che sembrerebbero avere le simpatie del Pdl, in realtà si scatenino i franchi tiratori. Sandro Gozi, prodiano, è convinto che «su Amato e D’Alema rischia il Pd». Nel senso che Amato è la scelta che presterebbe il fianco ai 5Stelle, e Grillo avrebbe buon gioco a impallinare i Democratici sull’incapacità di un ricambio. D’Alema non piace a un’altra fetta del partito. «Qual è il punto vero? Vedere se il presidente della Repubblica partorisce il governo », chiosa Giovanni Legnini. Per Gozi le chance del Professore sono al 50%. «Davvero Berlusconi pensa che Prodi non abbia l’equilibrio che il ruolo istituzionale richiede? Si sbaglia», sempre Gozi. I prodiani ricordano che quando a Strasburgo, il Cavaliere diede del kapò a Martin Schulz, Prodi evitò di infierire. Ai bersaniani rivolgono una rassicurazione: «Perché il Professore dovrebbe avere la tentazione di sciogliere il Parlamento, una volta diventato presidente della Repubblica?».
La partita per il Quirinale e quella per il governo sono strettamente intrecciate. Nel Pd in fibrillazione, in cui lo spettro della scissione è il convitato di pietra, impazzano anche i sospetti. Che Renzi abbia chiamato Prodi e abbia garantito al professore un appoggio “senza se e senza ma”. «Siamo prodiani sì, ma prodiani flessibili», afferma Dario Nardella. Matteo Richetti, altro renziano, dichiara: «Voterei Prodi al Quirinale con slancio e convinzione. Che differenza c’è con la Finocchiaro? Immaginatevi una telefonata dagli Usa o da altre cancellerie con Prodi o con la Finocchiaro, già questo basta. Finocchiaro sarà un nome che unisce Pd e Pdl, non il paese». Rincara: «Il nome di Prodi è il più autorevole e credibile a livello internazionale».

Repubblica 17.4.13
Berlusconi teme il quarto scrutinio “Accordo prima o vince la sinistra”
E a Renzi chiede: se si vota non penserai davvero di correre?
di Carmelo Lopapa


ROMA — «Dobbiamo evitare a tutti i costi la quarta votazione, dobbiamo sbarrare la strada a Romano Prodi». Eccola, la priorità che Silvio Berlusconi prospetta e di fatto impone alla cerchia ristretta, riunita a tarda sera al rientro a Palazzo Grazioli. Ma il cammino è tutto in salita, a fine giornata non c’è uno straccio d’accordo sul governo che verrà, il Cavaliere è nervoso e il faccia a faccia con Bersani per ora slitta. Forse a oggi, secondo alcuni si terrà il più tardi possibile, magari in serata, per evitare che l’eventuale «papabile» prescelto — semmai ci sarà — venga bruciato.
Ad ascoltare il leader Pdl di rientro dalla lunga permanenza in Brianza, con Verdini, Brunetta, Schifani e Alfano, anche Gianni Letta. Sono i pontieri che per tutto il giorno hanno chiamato, sentito e, secondo qualcuno, anche visto i dirigenti del Pd che stanno curando la trattativa sul Colle, da Enrico Letta ad Errani e Migliavacca. Relazionano al capo e raccontano della famosa rosa finalmente «offerta» dai loro colleghi del Pd. Una rosa a quattro, in cui compaiono i nomi di Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Franco Marini e, a sorpresa, Sabino Cassese. Petali che Silvio Berlusconi si rigira per tutta la sera, nel salotto coi suoi. Racconta chi lo ha visto che, senza alcuna esitazione, l’ex premier ha già inserito Giuliano Amato in cima alla sua personalissima lista. «Da lui saremmo garantiti più che da altri, sono certo che il giorno dopo si metterebbe al lavoro su un governo di larghe intese» confida un Berlusconi che, nonostante la propaganda, continua ad avere perplessità sul ritorno immediato alle urne. Soprattutto se dall’altra parte prendesse forma per davvero la sagoma di Matteo Renzi. Tant’è che l’altra sera, nel breve faccia a faccia avuto proprio col sindaco di Firenze al Teatro Regio di Parma, tra una battuta e l’altra, alla fine il Cavaliere l’ha buttata lì: «Matteo, ma non correrai mica per davvero?» Prima che lo scontro elettorale, tuttavia il leader Pdl ha l’esigenza di disinnescare la mina Prodi. E in quest’ottica, spiega uno dei fedelissimi, il Cavaliere non fa mistero di prendere in grossa considerazione anche la soluzione D’Alema. Il rapporto personale tra i due, del resto, è stato sempre improntato alla reciproca correttezza. Mentre quello non idilliaco dell’ex ministro degli Esteri con una fetta del suo partito, di recente, viene considerato a Palazzo Grazioli un buon viatico. Il problema, ripete Berlusconi, è come spiegarlo poi al loro elettorato. Senza tener conto del vero timore espresso ieri sera ai dirigenti Pdl: il rischio cioè che tanto Amato quanto D’Alema vengano fatti fuori dal fuoco amico dei democratici, soprattutto nelle prime tre votazioni. Ecco perché qualcuno ha suggerito al capo di temporeggiare fino alla terza votazione (dei due terzi) di venerdì mattina, scrivere fino ad allora «Berlusconi presidente» sulla scheda e infine sbloccare il tutto alla quarta.
Il Cavaliere tuttavia non è affatto appagato dalle notizie portate da Alfano e Verdini sulle trattative sul governo. Loro hanno chiesto garanzie, aperture. Enrico Letta, Errani, Migliavacca hanno ribadito ancora una volta la linea Bersani: sostegno esterno del Pdl a un governo di minoranza in cui verrebbero inserite delle figure tecniche, magari di area. Tra i nomi dei ministri è circolato anche quello del direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni. Per Berlusconi non è una strada percorribile. «Dovete ripeterlo loro e lo dirò anche io a Bersani: o governo di larghe intese, con nostri ministri politici, o elezioni anticipate». Da questa posizione il Pdl non si sposterà. E se la rottura dovesse travolgere anche la partita per il Quirinale, se approderà al colle più alto Prodi o il Rodotà sponsorizzato dal M5s, insomma, allora il leader si prepara fin dai prossimi giorni a denunciare il «golpe». La nuova manifestazione di piazza è stata già programmata per sabato 11 maggio, dopo Bari stavolta il Nord: la piazza di Brescia. Data lontana, non a caso: sarà l’avvio della campagna elettorale se tutto andasse a rotoli, al contrario verrà cancellata se il Pdl sarà nel pieno delle trattative per formare il governo.

Repubblica 17.4.13
Civati: sono due nomi che piacciono ai nostri elettori, il vero compromesso storico oggi si fa con i 5Stelle
“Tifo per Romano, ma discutiamo su Rodotà”


ROMA Civati, il Pd si sta impantanando nella scelta di un nome per il Quirinale?
«No, perché non c’è ancora una candidatura del Pd. E questo per una ragione pratica - siamo un gruppo molto numeroso e le consultazioni sono state lunghe; e per un motivo politico. Aleggiano una serie di questioni nelle file democratiche, e cioè: o si guarda al Pdl oppure ai grillini. Sullo sfondo c’è evidentemente la partita per il governo, ovvero la scelta tra governo di cambiamento o governo di scopo, il cosiddetto esecutivo del “presidente”».
Lei è per votare Prodi “senza se e senza ma”?
«Il nome migliore da proporre per il Quirinale è quello di Romano Prodi. Penso però che l’apertura di Grillo sul nome di Stefano Rodotà - anche se ancora mediato, perché c’è la Gabanelli come candidatura di bandiera - abbia un valore. Rodotà è una figura di grandissimo prestigio, che il Pd deve assolutamente prendere in considerazione nelle prossime ore».
Non tutto il partito è concorde su Rodotà, non i cattolici, ad esempio?
«E’ giusto parlarne, aprendo un dibattito».
Comunque sia Prodi che Rodotà non sono viatico per larghe intese.
«Ma le larghe intese si possono fare da una parte o dall’altra. E il compromesso storico, visto che siamo nel 2013, è più storico con i 5Stelle che con il Pdl. Evidente che sono entrambe candidature che a Berlusconi non piacciono. Da quello che capisco dai sondaggi, dalla lettura dei giornali, dall’opinione dei nostri elettori, sia Prodi che Rodotà, sono molto apprezzati dagli italiani. Allora noi del Pd dobbiamo metterci d’accordo: l’unità nazionale la facciamo perché dipende da Berlusconi o perché convince gli elettori?».
Amato viene dato in pole position?
«Amato è l’alternativa a questo ragionamento, esattamente il rovescio. Un candidato che va bene a una grande maggioranza deve evidentemente imporsi subito. Vedremo se ha l’adesione del Pd o solo di una parte».
Pensa insomma che Amato sarebbe impallinato dai “franchi tiratori”?
«Il pericolo di “franchi tiratori” ce l’hanno tutti, per essere sinceri. Ma da Bersani ci attendiamo una mossa coraggiosa. L’unità ci deve essere all’inizio, prima di entrare in aula, altrimenti è chiaro che i malumori nel partito rischiano di avere il sopravvento».
I renziani, secondo lei, saranno prodiani fino in fondo?
«Intanto se evitassimo di parlare per correnti, proprio mentre ci prodighiamo a trovare un presidente di unità nazionale, sarebbe meglio. Mi dispiace che Renzi non sia tra i Grandi elettori, e l’ho già detto: sarebbe stata una responsabilizzazione per lui e per noi. Mi pare che tra “i renziani” ci siano estimatori di altre soluzioni».
(g.c.)

Repubblica 17.4.13
Il coraggio della solitudine
di Barbara Spinelli


SE LA sinistra di Bersani e Vendola ha memoria della propria storia migliore, se vuole rinnovarsi ascoltando quel che tanti cittadini desiderano, non ha davanti a sé molte vie ma una, nell’elezione del nuovo capo dello Stato. Non può che scegliere un Presidente che nell’ultimo ventennio abbia avversato l’anomalia berlusconiana, e pensato più di altri l’intreccio fra crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità, crisi dell’informazione, crisi dell’Europa. Non può che meditare sul vincitore finale delle Quirinarie di Grillo: Milena Gabanelli è emblema dell’indipendenza giornalistica, della lotta alla corruzione, e di tale indipendenza e lotta la nostra democrazia ha bisogno come dell’aria, per tornare a respirare. Non può che votare uno dei tre nomi politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky. Non li ha inventati Grillo questi nomi, non sono suoi: sono figli — soprattutto i primi due — della sinistra. Non è faziosità difenderli. In passato cosa ha contato che Einaudi, Pertini, e poi Scalfaro, Napolitano, fossero stati “di parte” prima dell’elezione? Solo la persona pesa, non l’astuto reticolo di accordi che l’intronizza. Eletto al primo turno, Cossiga fu pessimo Presidente. Il timore d’apparire partigiano rischia di immobilizzare il Pd, accentuando un attaccamento a larghe e sotterranee intese che l’hanno consumato fino a polverizzarlo. La ricerca di brevi vantaggi, la spartizione di cariche e potere: ecco cosa regala il connubio con una destra numericamente pari a Grillo, ma ben più potente e ricattatoria di lui. I tre contendenti citati sono europeisti, hanno come bussola la Costituzione, sono stimati fuori Italia, e non partecipano al coro conformista che bolla 5 Stelle come antipolitica. Uno di essi, Zagrebelsky, ha detto: «Antipolitica è parola violenta e disonesta». Altri nomi sono possibili, purché l’identikit sia lo stesso.
L’accordo fra sinistra e 5 Stelle sul nome del Presidente è infecondo solo se teniamo il naso schiacciato sull’oggi, anzi sull’ieri (le larghe intese erano solo con la destra). Se guardiamo lontano, se vediamo lo sfaldarsi del Pd non come una sciagura ma come un’opportunità, l’accordo con Cinque Stelle può essere reinvenzione democratica. Tra le righe è quel che dice Fabrizio Barca, nel programma presentato il 12 aprile in favore di un Pd disfatto e rifatto a nuovo.
I militanti di 5 Stelle preconizzano ad esempio l’immissione nella democrazia rappresentativa di esperienze sempre più estese di democrazia deliberativa, diretta. Non siamo lontani dallo sperimentalismo democratico che secondo Barca deve innervare il futuro Pd, e abituarlo ad ascoltare quel che la cittadinanza vuol poter discutere e decidere fra un voto e l’altro. I due termini sono diversi ma non la sostanza, che rimanda tra l’altro all’Azione Popolare teorizzata da Salvatore Settis. Ambedue puntano il dito sull’odierna anchilosi dei partiti. Ambedue pensano la crisi come svolta positiva, e nell’impoverimento della nostra economia scorgono una realtà non occultabile ma nemmeno fatale, se altri modelli di sviluppo saranno sperimentati in Italia e in Europa.
L’imminente elezione del Presidente è una di queste occasioni, da cogliere allungando la vista ed evitando di scoraggiarsi in anticipo. L’accordo con Grillo è difficile, dicono: ma non è del tutto escluso che sia possibile, se il Pd considererà come proprio uno dei nomi usciti dalle Quirinarie, e accetterà all’inizio di restare in minoranza. Alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza semplice, un nome non partitico potrebbe passare.
L’occasione è tutto, dunque. Ma ci sono due metodi per affrontarla, analizzati da Barca: il metodo minimalista, o quello sperimentale deliberativo. Il primo si adagia sullo status quo: ha la forza delle abitudini ai vecchi ordini. Il secondo tenta nuove vie, prova e riprova imparando da conflitti e errori.
Chi adotta il metodo minimalista non crede che lo Stato possa molto, per curare la democrazia malata o attenuare la povertà sociale. Quel che gli importa, è preservare una chiusa élite (di esperti politici, di tecnici) che prenderà decisioni senza curarsi se funzionino, convinta com’è che i piani di austerità daranno ineluttabilmente frutti anche se immiseriscono popoli interi.
Il candidato al Colle preferito da simili élite non deve essere popolare, non deve nemmeno rappresentare un emblema ideale per i cittadini: deve essere abile, e soprattutto omogeneo alle oligarchie che lo faranno re. Meno popolare sarà, più sarà scongiurato il pericolo, temuto dai benpensanti del vecchio ordine, del populismo. A parole, i minimalisti si augurano uno Stato leggero, non invadente. Nei fatti, le oligarchie partitocratiche vivono in osmosi con lo Stato e rendono quest’ultimo più che pervasivo, indifferente alla voce di chi (localmente, nelle Azioni Popolari, nei voti online) reclama cambiamenti.
Tutt’altra l’idea degli sperimentatori, o della democrazia deliberativa: è il metodo sfociato nel voto, da parte degli attivisti di M5S, dei candidati al Colle. L’esperimento è difficile, ma innovativo e molto più onesto di quel che era stato pronosticato. Non tutti i candidati vincenti erano graditi ai vertici del Movimento: tuttavia il verdetto è stato accolto democraticamente e con responsabilità istituzionale.
Molte cose sono state dette, nei giorni scorsi, liquidatrici delle Quirinarie e d’una prassi deliberativa che avrebbe fatto cilecca. È la miopia di chi non intuisce l’ovvia difficoltà dei nuovi inizi. È la miopia di chi rifiuta di istituire subito le Commissioni parlamentari chieste dal M5S. I cittadini chiedono misure rapide contro la crisi, ma i partiti restano sordi: prima devono sapere come lottizzare posti e presidenze, cosa impossibile se non si sa il governo che verrà! La verità, pochi la dicono. Interessante non è il marchingegno più o meno fuorviante del voto in rete a due turni. Interessante è che dovendo indicare ben 10 nomi, un movimento qualificato di fascista, o demagogico, o populista, non sia stato in grado di trovarne neppure uno sfacciatamente demenziale o di estrema destra.
Stupidità fanfaronesche s’incrociano spesso sul web. Ma ancor più funeste dilagano nei non meno virtuali palazzi del potere. Le cerchie partitiche, o tecniche, mostrano una conoscenza del pubblico interesse infinitamente meno vigile. Sono le cerchie contro cui si scaglia Barca, quando denuncia i «partiti di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto: prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni, idee». Berlinguer usò parole quasi eguali, quando ruppe col compromesso storico e denunciò la degenerazione dei partiti, Pci compreso («I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo», disse a Eugenio Scalfari su Repubblica, il 28-7-81).
Perfino sull’articolo 67 della Costituzione, giudicato comunemente intoccabile ma criticato da Grillo, Barca sembra dubbioso: vero è che i costituenti respinsero il «vincolo di mandato» dei parlamentari, ma non all’unanimità. Il comunista Ruggero Grieco difendeva la libera coscienza dei deputati, ma sosteneva che l’esclusione di ogni vincolo «favorisce il sorgere del malcostume politico». Il ventennio berlusconiano non gli ha dato torto.
Non sappiamo ancora se le strade di Barca e di Grillo si incontreranno. Se dall’eventuale incontro la democrazia uscirà più forte. Se il M5S intirizzirà, a forza di rifiutare alleanze. Resta che l’Italia ha bisogno di sperimentatori, non di minimalisti. Che solo i primi sono in grado di guardare in faccia la crisi, e di mutare anche l’Europa. Di ripensare l’austerità come aveva provato Berlinguer nel 1977, quando il capitalismo aveva appena cominciato a vacillare.

Repubblica 17.4.13
Quattro consigli al leader democratico
di Alexander Stille


IL PARTITO Democratico si trova in un bel dilemma: è il partito più forte nell’attuale parlamento ma è incapace di formare un governo da solo. Per la prima volta ci sarebbero le condizioni per la nascita di un governo di sinistra, se fosse possibile un accordo con il M5S, ma Beppe Grillo non ci sta.
D’altro canto, il Pd è pressato dal Presidente della Repubblica per formare un governo, un governo di “larghe intese”, insieme al centro-destra di Silvio Berlusconi – cosa che vorrebbe anche Berlusconi. Per di più, il Pd è fortemente diviso al suo interno tra sostenitori ed oppositori di questo governo di larghe intese, ed è in corso una battaglia per la direzione del partito tra il segretario Pierluigi Bersani e il suo giovane rivale, Matteo Renzi. Una bella matassa da districare.
Cerchiamo di offrire a Bersani qualche suggerimento utile.
1) Fare il contrario di quello che vuole Berlusconi. Bersani ha detto più volte di no al governo di larghe intese. Ed ha ragione. Sarebbe, molto semplicemente, il suicidio politico. Vent’anni di esperienza hanno dimostrato molto chiaramente che un governo con Berlusconi, per definizione, non andrà da nessuna parte. Un governo di larghe intese non è un governo tra destra e sinistra, ma un governo con Berlusconi. Il centro-destra non esiste: esiste solo il suo padrone. Un governo con Berlusconi è per forza di cose un governo di non-cambiamento e di non-riforme, perché un monopolista che ha paura di finire in prigione non può e non vuole un paese dove la classe politica ceda il potere ai cittadini, un paese più competitivo dove oligarchie e clientele vengano sostituite con opportunità per gruppi nuovi.
I risultati delle recenti elezioni dimostrano che la gente non ne può più di questo tipo di politica, soprattutto l’elettorato del Partito Democratico, che ha perso molti voti a favore del movimento di Grillo. Sia il movimento di Grillo che Berlusconi stesso non sperano in altro che in un governo di questo tipo (un Monti-bis o, meglio, un governo Bersani) per screditare il Pd e la politica in genere. Sia il movimento di Grillo che Berlusconi sono infatti bravissimi nell’approfittare della disillusione popolare della politica – tanto che Grillo ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. Nel caso di Berlusconi, bisogna rendere omaggio alla sua capacità di essere simultaneamente il massimo responsabile della paralisi del paese e uno dei suoi principali beneficiari.
2) Non dare retta a Napolitano. Come Presidente della Repubblica, Napolitano vuole dare stabilità al paese e non bada, come è forse giusto, al colore politico di chi la può offrire, facendo quindi appello al senso comune di “responsabilità”. Ma sia Napolitano che i leader del Pd a mio avviso sentono troppo il peso dell’eredità del vecchio Pci. Soffrono ancora di un complesso che affligge gli ex-comunisti: la smania di apparire sempre “responsabili”. Sono stati esclusi per decenni dal governo nazionale perché considerati pericolosi e hanno quindi dovuto lottare per dimostrare che erano invece responsabili uomini di governo. A cominciare dalla metà o dalla fine degli anni ’80, la prima destinazione di un leader del Pci/Pds/Pd è sempre stata la City di Londra o Wall Street, per fare vedere che non erano ostili al capitalismo moderno. Ma questo complesso di inferiorità ha fatto sì che il Pd dimenticasse di costituire una forza di opposizione e di alternativa. Ha fatto bene (all’inizio) a salvare il paese dalla bancarotta appoggiando il governo Monti, ma ora deve articolare una netta alternativa alla politica di austerità, da una parte sposando alcune delle tesi più sensate del programma di Grillo e dall’altra offrendo piani di crescita e opportunità. Anche a costo di sembrare irresponsabili, i leader del Pd devono sfidare il vangelo dell’austerità anche se si tratta di mettere in discussione l’assetto attuale dell’unione monetaria. Nel governo Monti hanno scambiato stagnazione per stabilità, e hanno dato la sensazione di ascoltare di più i mercati finanziari che non i disagi del paese, pagando un prezzo altissimo.
3) Non avere paura delle elezioni. Il Pd ha fatto bene a cercare di creare le condizioni per un governo con l’assenso del M5S: c’erano i voti per un governo di sinistra e abbastanza terreno comune per portare a casa qualcosa di buono per il paese. Ha riscoperto la sua anima riformista. L’ha impedito soltanto la rigidità di Grillo, e molti elettori sia dentro il Pd che dentro il movimento hanno rimpianto l’occasione perduta. Il Pd ora può affrontare le elezioni come l’unica forza di cambiamento credibile. Deve dire all’elettorato: Berlusconi è il non-cambiamento. Se volete che tutto rimanga com’è, votate Berlusconi. Grillo dice no a tutto. Se volete un cambiamento reale – e non virtuale – votate Pd.
4) Rimanere uniti. Naturalmente, difronte alle difficoltà crescono le divisioni interne. Bersani ha lavorato bene dopo la sua pessima prestazione durante la campagna elettorale e merita un riconoscimento. Ma deve accettare per il bene del partito che in termini mediatici ed elettorali il Pd andrà meglio con Renzi come candidato. A sua volta, Renzi e i suoi dovrebbero rinunciare alle tentazioni di un altro inciucio con il centro-destra e dimostrare di avere colto bene la lezione dolorosa delle elezioni di fine febbraio. Questo stranamente creerebbe le condizioni necessarie per soddisfare le tre principali anime del partito: una politica di vera alternativa, che potrebbe piacere anche a Nichi Vendola, ma rappresentata dal personaggio considerato di destra nel partito, cioè Renzi — il tutto architettato da Bersani. Per Bersani sarà sicuramente un sacrificio personale difficile, ma è anche importante che il Pd ora chieda il consenso del paese senza essere capeggiato da un ex dirigente del vecchio Pci e che sposi il tema del cambiamento generazionale.

Repubblica 17.4.13
L’amaca
di Michele Serra


Semplificando brutalmente (a volte è necessario): per la corsa al Quirinale la sinistra deve scegliere se accontentare Berlusconi oppure accontentare Cinque Stelle. Così richiede il tripolarismo imperfetto uscito dal voto. La prima scelta (accontentare Berlusconi) equivale a un suicidio politico non solo per la sinistra, ma per l’intero assetto politico repubblicano. Sarebbe la fotografia di una vecchia classe di potere che si barrica nel Palazzo nella speranza di reggere ancora qualche mese o anno. La seconda (non scontentare Cinque Stelle) è ad alto rischio, perché le intenzioni e la natura stessa di quel movimento sono in parte imperscrutabili. Ma lascerebbe aperto un varco verso quel “cambiamento” che lo stesso Bersani, giustamente, considera sinonimo di “responsabilità”: niente è più irresponsabile, nella presente situazione, che decidere di non cambiare nulla. So che è molto comodo sputare sentenze senza mettersi nei panni degli altri. Ma fossi Bersani non avrei dubbi. A rischio di mettermi contro mezzo partito, accetterei di votare Rodotà o Gabanelli e sfiderei Grillo a trarne le conseguenze. La sinistra italiana ha quasi sempre scelto di rischiare poco, ed è rischiando poco che si è infiacchita e ha perduto molte battaglie. Qui il rischio è altissimo: ma la posta in gioco è cercare di venirne fuori da vivi, e finalmente con il vento in faccia.

Corriere 17.4.13
La libertà degli eletti
di Giovanni Sartori


Nel mio ultimo pezzo di febbraio il cui titolo doveva essere Le bugie elettorali dalle gambe lunghe scrivevo in esordio: «Che brutte elezioni». Era facile indovinarlo, ma non ho indovinato abbastanza. L'elezione è stata più che brutta, bruttissima; e il bello è che tra i suoi tre quasi-vincitori è stata quasi vinta da una organizzazione incostituzionale. Io non ho titolo per sottoporre la questione all'esame della Corte costituzionale. Ma l'Italia, mi raccontavano da bambino a scuola, è «la patria del diritto». Del diritto romano certo; ma del diritto costituzionale delle democrazie rappresentative (moderne) si direbbe proprio di no. E ancor meno ne sa, temo, la appena eletta presidente della Camera che ha esordito con questa puerile sparata retorica: «Noi abbiamo la più bella Costituzione del mondo».
Temo di no. Ho sostenuto più volte che quel testo andava emendato sui poteri del governo, che sono insufficienti; che i nostri costituenti avevano dimenticato di richiedere ai partiti dei veri e propri statuti, e che non avevano previsto lo «stato di emergenza» o di necessità: un istituto che sarebbe davvero servito, per esempio, a legittimare e rafforzare il governo Monti senza dover ricorrere alla fragile finzione del «governo del presidente». Ma salvo ritocchi come questi, ho sempre avversato l'idea di scrivere una nuova Costituzione ricorrendo ad una Assemblea costituente di politici.
Le buone Costituzioni sono sempre state stilate da giurisperiti, mentre le Costituzioni che sono un parto assembleare (vedi America Latina) sono state quasi tutte pessime (come non potevano non essere). Comunque, il primo punto da fermare è che il XX secolo ha anche prodotto Costituzioni intelligenti e innovative quali la attuale Costituzione della Germania federale, e la Costituzione semi-presidenziale (da non chiamare presidenziale, come è invalso nello sciatto giornalismo dei nostri giornali) della V Repubblica francese, la Costituzione stesa da Debré (e poi in parte modificata, ma senza danno, anzi).
Ma veniamo al punto che davvero importa. Questo: che il divieto del mandato imperativo è stato formulato dai costituenti della Rivoluzione francese, e che da allora si ritrova in tutte le Costituzioni ottocentesche e in buona parte anche in quelle del Novecento. Perché? Semplicemente perché istituisce la rappresentanza politica (di diritto pubblico) dei moderni. Senza questo divieto si ricadrebbe nella rappresentanza medioevale, nella quale, appunto, i cosiddetti rappresentanti erano ambasciatori, emissari, portavoce che «portavano la parola» dei loro padroni e signori. Il loro mandato era imperativo perché dovevano solo riferire senza potere di trattare. Esattamente come pretendono oggi Grillo e il suo guru.
Mi sembra chiaro che della ragion d'essere costituzionale (ineliminabile) del divieto del mandato imperativo (la cui formula è: «I rappresentanti rappresentano la nazione») Grillo-e-Guru non sanno nulla. Ma questo non li giustifica né li legittima. Fanno finta di praticare una nuova democrazia diretta (telematica). Ma la verità è che nel loro macchinario ha voce, e parla, solo la loro voce. Confesso che non riesco a capire come la nostra Corte costituzionale non abbia sinora veduto una così macroscopica violazione costituzionale.

l’Unità 17.4.13
Protesta dei sindacati a Roma
«Tagliare le spese militari per finanziare la Cig»
di Massimo Franchi


Di altri soldi non ce ne sono. Di decreti ministeriali Fornero non ne può fare. Ma la mobilitazione dei sindacati davanti a Montecitorio ieri mattina un primo risultato lo ottiene. La partita per trovare risorse per gli ammortizzatori in deroga passa a palazzo Chigi. Lunedì o martedì sindacati, imprese e Regioni incontreranno Mario Monti e Vittorio Grilli.
EMENDAMENTO O DECRETO
Come anticipato da l’Unità il 10 aprile da ieri anche i sindacati, Cgil in testa, sostengono che i fondi che mancano per finanziare tutto il 2013 per Cig e mobilità in deroga ammontano a 2,7-2,8 miliardi. La risposta di Elsa Fornero nell’incontro di ieri è stata in sostanza quella di proporre briciole rispetto ai grandi numeri che servono. Il ministro del Welfare ha proposto di finanziare gli ammortizzatori in deroga spostando risorse destinate ad altri comparti del settore lavoro: i già promessi 200 milioni della formazione (il cosiddetto Fondo 0,30) e 500 milioni per la decontribuzione. Sindacati e imprese (al tavolo erano presenti Confindustria, Reteimprese, Ania e cooperative) hanno fatto fronte comune rispondendo picche. «Non si può pensare che le risorse siano sempre quelle del lavoro, bisogna trovare più risorse», aveva già avvertito Susanna Camusso dal palco davanti a Montecitorio. E il segretario generale della Cgil aveva anche fatto proposte chiare su dove trovare i soldi: «Si rinviino le spese militari già programmate, si tassino le rendite finanziarie, non servono nuove manovre». Prima di lei era stato Raffaele Bonanni a chiedere «al governo i soldi e di precisare se i soldi vanno nel Def». Dopo l’incontro con i presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, il leader Cisl aveva sottolineato: «Abbiamo chiesto di usare il sistema più semplice, sicuro e veloce, cioè che le risorse vadano nel Def». «Non possiamo far subire ai lavoratori l’onta di venir privati del minimo sussidio perché il governo ha previsto che le risorse per la cassa integrazione fossero inferiori al 2012, forse sperando in un miglioramento della situazione», ha attaccato il segretario generale della Uil Luigi Angeletti. «C’è bisogno di un provvedimento ad horas che sostenga quei lavoratori che rischiano di trovarsi senza reddito», gli ha fatto eco il leader dell’Ugl, Giovanni Centrella.
Alla fine dunque anche Elsa Fornero ha dovuto cedere alla richiesta dei sindacati e chiedere a Monti e Grilli di risolvere la situazione. E in serata il ministro Grilli, dopo essersi consultato con il Quirinale, ha dichiarato in audizione alla Camera. «Stiamo discutendo per le quantificazioni precise con il ministero Lavoro e i dati precisi vengono da loro. Ritengo non sia vero che il Parlamento non possa occuparsene. Ritengo ha però precisato che non possa essere un modo per risolvere il problema quello di usare la copertura per le spese in conto capitale per la cig, ma se si trovano altre coperture è un’altra cosa».
Le richieste dei sindacati a Monti saranno due: o un emendamento al decreto sui pagamenti alle imprese («in quel decreto hanno inserito anche il rinvio della Tares che c’entra poco, quindi può starci anche il finanziamento degli ammortizzatori in deroga», fa notare Guglielmo Loy della Uil), oppure di aspettare l’approvazione del Def a fine aprile e lì prevedere la copertura della Cig in deroga per poi avere la legittimazione per fare un decreto ad hoc per rifinanziarla.
DISPERAZIONE IN PIAZZA
In mattinata in una «piazza troppo piccola per contenere il disagio dei lavoratori» la rabbia di uomini e donne (circa 400 mila in Italia) che fanno i conti con lo stop ai pagamenti degli ammortizzatori in deroga. Uno dei bersagli più forti è Beppe Grillo. A tenere lo striscione «Mentre Grillo fa il buffone noi non abbiamo più la cassa integrazione» ci sono Maria Pia (51 anni e 10 alla pensione) e Luciano (56 anni e 8 alla pensione), lavoratori dell’ex Electrolux (ora Isi) di Firenze. «Abbiamo preso l’ultimo assegno di cassa in deroga da 750 euro l’8 febbraio, ma era quello di dicembre 2012. E la Regione ci ha già detto che di soldi non ce ne sono più». Dall’altra parte della piazza ci sono altri elettori (già delusi) di Grillo. C’è Viviana che gli chiede: «Ma cosa ha ottenuto? Noi di sicuro niente». Lei e i suoi 30 colleghi della ceramica Vulcano di Civita Castellana (Vt) hanno preso l’ultimo assegno a dicembre: «Ad aprile dovremmo passare dalla cassa alla mobilità in deroga, ma senza fondi di che cosa mangeremo?».

Repubblica 17.4.13
Livorno, sfida sul nome del palasport Modigliani in vantaggio su Gramsci
“Niente sponsor”. Città divisa al voto: stasera il vincitore
di Laura Montanari e Gaia Rau


LIVORNO — Sembra un ballottaggio impossibile, Antonio Gramsci contro Amedeo Modigliani. Eppure sul rettilineo finale per battezzare con un nuovo nome il palazzetto dello sport di Livorno, sono rimasti sulla scheda quei due. Così diversi e lontani nelle loro vite. Il fondatore del Pci, l’antifascista per definizione, una delle menti politiche più illuminate e colte del secolo scorso, contro il grande artista, che fa fortuna lontano dalla sua città, forse il più parigino tra i pittori italiani, nonché il protagonista, postumo, di una delle più clamorose beffe che abbiano mai travolto il mondo dell’arte. Uno livornese (Modigliani), uno no (Gramsci). Entrambi simboli nel primo Novecento di una libertà di espressione sia pure in universi distanti. Gramsci è idealmente legato alla città rossa dal lontano 1921 che ha visto la fondazione del Partito Comunista proprio in quella parte della Toscana. Oggi si raccoglieranno ancora i voti fino alle 20, ma è l’ultimo giorno e, dopo la chiusura delle urne telematiche e non, verrà proclamato il verdetto. A guidare la consultazione e a fare da collettore delle preferenze (fino a ieri oltre 3.500, ma erano state più di 5000 nel primo turno con una rosa di undici candidati fra cui Mascagni, Fattori e Ciampi) è il sito del quotidiano Il Tirreno con la votazione online, qualche centinaio di voti sono arrivati anche tramite i coupon del giornale e via mail.
«Ci è piaciuta subito l’idea di far scegliere alla gente attraverso un sondaggio il nome della struttura» spiega il direttore del Tirreno Roberto Bernabò. A volere la consultazione diretta sono stati i quattro soci della Palalivorno scrl, la cordata di imprenditori che, da qualche settimana, ha preso in mano le redini del palazzetto, adibito a manifestazioni sportive e concerti e in passato conosciuto come PalaAlgida. «Vogliamo trasformare quello spazio in un grande tetto per la città, un posto vivo e di tutti: per questo abbiamo chiesto alla gente di sceglierne il nome. Del resto una comunità è ben più dei prodotti che consuma », spiega Massimo Gramigni, uno dei soci. Dunque basta con i luoghi targati col nome dello sponsor. Lo stesso Gramigni, qualche anno fa assieme a Claudio Bertini, socio della Prg che gestisce il palazzetto dello sport di Firenze, avevano intitolato quello spazio al Nobel per la pace Nelson Mandela, caso unico in Italia e nel mondo. A Livorno la sfida è fra Gramsci e Modigliani, ma col secondo nettamente in testa. Sono stati giorni di accese discussioni: la città, dai bar alla terrazza Mascagni si è divisa e ad un certo punto sono scoppiati anche i sospetti di brogli, il giorno in cui Gramsci ha recuperato tutto lo svantaggio (da 160 a 721): «Abbiamo fatto dei controlli online — spiega il direttore del Tirreno — e abbiamo capito che era un bombing lecito». Che si è svelato tramite il comunicato di alcuni centri sociali come la Ex caserma occupata, schierata per il pensatore comunista: «Modigliani si sarebbe rivoltato nella tomba — hanno scritto — Sebbene la città che gli diede i natali da sempre rivendichi fieramente una sorta di paternità sull’artista, tutti sappiamo cosa Livorno abbia rappresentato per Modigliani. Un inferno».

Corriere 17.4.13
La maschera anti ricchi di Anonymous fa ricca una multinazionale
I diritti sul volto antisistema vanno alla Warner
di Danilo Taino


Manifestare contro il sistema e allo stesso tempo finanziarlo. Una contraddizione? No, realtà. La maschera di Anonymous — mustacchi e pizzetto neri, ghigno inquietante — usata dai manifestanti in tutto il mondo, è tratta dal film V per vendetta. Costa da 6 a oltre 50 dollari e i ricavi vanno alla ricca famiglia Usa Beige (produttori di oggettistica per Halloween), alla Time Warner produttrice del film e ad Amazon, che del film distribuisce i costumi.

C'è almeno un pezzo di capitalismo che aspetta con un certo ottimismo la prossima ondata di manifestazioni e proteste contro Wall Street, contro la City di Londra, contro le banche e le grandi multinazionali. Nei giorni scorsi si è tornato a parlare del rilancio del movimento che aveva preso le piazze dopo lo scoppio della Grande Crisi, soprattutto tra il 2010 e il 2011. Dopo un anno di quasi silenzio, quelli del 99 per cento e i mascherati di Anonymous sarebbero pronti a tornare, a riprendere la strategia Occupy, l'occupazione di luoghi simbolo del sistema economico e statuale. A New York, più precisamente nel Queens, la famiglia Beige, capitalisti da quattro decenni, non vede affatto male la cosa. Lo stesso accade nel cuore di Manhattan, nel grattacielo della Time Warner. Come a Seattle, nella sede di Amazon.
I Beige possiedono una grande azienda di famiglia, con più di tremila dipendenti in 14 Paesi, la Rubie's Costume Company. Si presentano al mondo come il maggior produttore di oggettistica per la festa di Halloween. Ma hanno anche 150 licenze per produrre su larga scala costumi di film, da Superman a Batman, da Harry Potter al Signore degli Anelli. Fino a «V per Vendetta». Time Warner controlla la Warner Brothers, che incassa diritti per ogni oggetto di merchandise che faccia riferimento, tra i tanti, anche a «V per Vendetta». E questi costumi del film del 2005 dei fratelli Wachowski sono distribuiti soprattutto da Amazon.
Bene: la maschera diventata simbolo di Anonymous e indossata poi da migliaia di militanti del movimento Occupy — bianca, le guance rosate, i mustacchi e il pizzetto nero pece e il ghigno inquietante — è tratta da «V per Vendetta»: significa che quando se ne vende una, dai sei dollari in su ma anche oltre i 50, una parte delle entrate va alla famiglia Beige, un'altra va in royalties alla Time Warner, una ad Amazon. Il movimento anticapitalista ha insomma finanziato un produttore della old economy, un rentier dei media e di Hollywood, uno dei grandi protagonisti della new economy. Un paradosso antico: è la famosa capacità del capitalista di produrre la corda a cui sarà impiccato, se siete marxisti; oppure è la famosa capacità del capitalista di rigenerarsi in tutte le circostanze, se siete schumpeteriani.
Il piccolo guaio, per le tre società coinvolte nel successo della maschera di plastica, sta nel fatto che la seconda metà del 2012 non è stata granché per i movimenti sociali globali. Alla Rubie's Costume dicono di avere venduto maschere di Anonymous in gran quantità negli anni precedenti, «per più di centomila pezzi l'anno» nel 2010 e nel 2011. Periodo nel quale è stata uno dei prodotti best seller di Amazon (Time Warner non commenta sui dettagli delle royalties). Negli ultimi mesi dell'anno scorso, però, le vendite sono iniziate a calare. Non che i due grandi gruppi globali e la piccola multinazionale del Queens abbiano bisogno delle maschere di Anonymous per fare i bilanci: messe di fronte a una scomparsa del movimento o a un suo rilancio, però, probabilmente voterebbero per il secondo. Magari già a partire dal prossimo 1° maggio, come vorrebbero alcuni militanti.
In origine, la maschera è un modo per rendersi irriconoscibili alla polizia e per dare un segno di anarchismo antisistema scelto dagli hacker di Anonymous, famosi per avere mandato in tilt i siti web di imprese globali, a cominciare da Visa e MasterCard. La usarono per la prima volta nel 2008 in occasione di un'azione contro Scientology, a Londra e in 50 altre città del mondo: migliaia di volti coperti dal nuovo simbolo della protesta. Da quel momento, è diventata l'icona dei movimenti anticapitalisti e antisistema nel mondo, l'erede della mitica fotografia di Alberto Korda a Che Guevara. Fino a quando, nel settembre 2011, molti membri del movimento Occupy l'hanno fatta propria. Rappresentazione della lotta di un individuo contro uno Stato fascista, come nel film «V per Vendetta» e nel fumetto che l'ha ispirato. E, nella storia, citazione di Guy (o Guido) Fawkes, il ribelle che nel 1605 tentò di fare saltare il palazzo di Westminster a Londra (non ci riuscì e fu condannato a morte).
Per il 99 per cento, un simbolo antipolitico e antisistema, insomma, diventato poi anticapitalista. Per l'uno per cento, un altro piccolo modo per fare utili.

l’Unità 17.4.13
I neonazisti Usa che odiano lo Stato
Dal 2008 in aumento i gruppi dell’ultradestra che venerano lo stragismo modello Oklahoma City
di Umberto De Giovannangeli


Afferma Abraham Foxman, direttore deIl’Anti-Defamation League (Adl) Usa: «L’attacco terroristico di Boston è avvenuto in una settimana in cui eravamo già in allerta visto che attorno al 20 aprile i gruppi di estrema destra americani hanno agito più volte, includendo l’attentato di Oklahoma City e il massacro al Branch Davidian Compound di Waco (Texas)». E, tra gli analisti, c’è chi fa rilevare che la maratona di Boston era dedicata, quest’anno, alle vittime della strage di Newtown la cittadina del Connecticut in cui, a dicembre, un giovane esaltato uccise 27 persone, fra cui oltre venti scolari, in una scuola elementare.
RETE ARIANA
La storia degli Stati Uniti è stata minata dai gesti dei gruppi estremisti razzisti, dalle folli azioni di un lupo solitario mosso dal morboso desiderio di fare una strage. Si pensi a Eric Rudolph, il killer dei Giochi olimpici di Atlanta, 1996 (due morti): uccideva usando cilindri bomba, è stato catturato solo nel 2003, si nascondeva nei boschi della Carolina. Necessario ricordare anche la strage di Oklahoma City: era il 1995, fu un massacro provocato da un ordigno a base di fertilizzanti, autori estremisti di destra. Passiamo al 2011, quando un folle xenofobo provò a colpire la marcia per Martin Luther King, una bomba in uno zainetto. La pista del terrorismo autoctono poggia anche su una serie di coincidenze temporali: l’anniversario della strage di Oklaoma City (19 aprile), il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi (quelle tasse odiate dalla destra anti-Stato) o il Patriots Day in Massachusetts. Il movimento neonazi è in crescita su tutto il territorio statunitense: dalla California a Washington, dal Texas all’Oregon. Nel 1988 erano 1.550 sigle in dieci Stati. Venticinque anni dopo, sono oltre 6000 dislocate in almeno venti Stati. Un recente censimento del Dipartimento ricerche dell’«Adl» ha individuato anche 160 gang. I loro nomi di battaglia non si prestano ad equivoci: «SS d’America», «Resistenza ariana», «Supremazia ariana», «Fronte americano». Sono gli skinhead americani. Parte di un universo di gruppi eterogenei, a cui fanno capo milizie, suprematisti e fondamentalisti cristiani. Il capo spirituale di questi «hate group» è forse il Reverendo Richard Butler, che gestisce l’«Aryan Nation» (nonché l’affiliata «Church Of Jesus Christ Christian») dal suo quartier generale di Hayden Lake, in Idaho. Nuovi gruppi e vecchie gang si uniscono alle formazioni «storiche» del neonazismo Usa, come il Ku Klux Klan e l’Aryan Nation. Il loro proposito, ieri come oggi, resta quello di dar vita ad una sorta di «Jihad» ariana, profetizzata dai «Diari di Turner», la delirante bibbia dell’estrema destra americana che descrive il rovesciamento del governo americano per mano di «patrioti» miliziani armati. Tra i gruppi più attivi, e ideologizzati, vi sono quelli che si riconoscono nel credo della «Christian Identity», un movimento che si rifà a un oscuro «israelismo britannico», del diciannovesimo secolo, e che si raccoglie attorno alla «Church of Jesus Christ Christian». Secondo loro il popolo di Dio non sarebbero gli ebrei, ma i bianchi dell’Europa settentrionale (gli ebrei sarebbero in compenso i figli di Satana). Il nemico comune è il governo di Washington.
Ai gruppi di estrema destra che incitano alla discriminazione e all’odio razziale si affiancano i patriot movements, passati da 159 gruppi del 2008 ai 1274 del 2011, impegnati nel contestare, rinnegare e combattere con qualsiasi mezzo il potere del governo federale. Ci sono poi gruppi che si sono evoluti fino a essere inseriti dall’Fbi nella lista delle organizzazioni terroristiche statunitensi, come i sovereign citizens, un nutrito insieme di persone convinte di essere al di sopra della legge e quindi di poter decidere a quali norme sottostare, tanto convinti del fatto proprio da organizzarsi in cellule armate e progettare l’omicidio di diversi pubblici ufficiali, la distruzione di alcuni edifici federali e addirittura lo sterminio di intere cittadine grazie all’impiego di agenti chimici letali. Gruppi di neonazisti infiltrano l’esercito statunitense, tanto che ormai si trovano graffiti della «Nazione Ariana» a Baghdad. L’allarme è stato lanciato, anni fa, dal Southern Poverty Law Center (Splc), un’organizzazione che monitora le attività dei gruppi razzisti negli Usa, che ha parlato di «migliaia di estremisti di destra» tra le truppe americane. Eric Gliebe, presidente della National Alliance (uno dei più grandi gruppi neonazisti negli Usa), conferma l’aumentata presenza di nazionalisti bianchi nelle forze armate, ma non ci vede un problema. «Sono persone orgogliose della propria patria, l’esercito dà esperienza e buone opportunità di carriera, che male c’è?». Una esigua minoranza, certo. Ma non per questo da sottovalutare. Per rendersene conto basta visitare uno dei cento siti web legati all’ultradestra americana. Il «white power» viaggia via internet. E crea un sistema di alleanze, non solo «mediatiche», tra i neonazisti Usa e quelli europei. I nazi americani hanno il loro «eroe»: Timothy McVeigh, l’autore della strage di Oklahoma City (19 aprile 1995, 168 vittime). McVeigh verrà giustiziato nel 2001. Dodici anni dopo, è ancora un mito per l’ultradestra made in Usa. Da emulare. A Boston?

Repubblica 17.4.13
Nazisti, ultra-cristiani, suprematisti ecco l’integralismo Made in Usa
Tasse, gay, neri: ogni gruppo si sceglie un nemico da odiare
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON ANCHE se dal settembre del 2001 la parola “terrorismo” proietta immediatamente immagini di fanatici con il turbante e l’AK47 imbracciato. La prudenza con la quale tutte le autorità americane, da Obama allo Fbi che conduce le indagini con 700 agenti dedicati, si riservano di indicare in quale direzione puntino, è la prova che essi conoscono bene l’esistenza e la velenosità del «serpente nell’erba». 36 ore dopo l’esplosione che ha ucciso e mutilato bambini e spettatori adulti lungo il rettilineo d’arrivo della Maratona sfregiandoli con sferette di acciaio, chiodi, schegge, esplosi da un ordigno dentro una pentola a pressione, la scelta dell’etichetta sembra dipendere più dai pregiudizi ideologici di chi l’appiccica che dai fatti. Come prova il bisticcio a distanza fra la Fox News di Murdoch, l’ammiraglia della destra, già schierata per la caccia al jihadista fanatico e la più moderata Cnn, che ricorda l’esistenza e la pericolosità della violenza doc americana. Anche la pentola a pressione, usata per stragi in Pakistan, in Afghanistan ma anche da fascisti croati, prova molto poco.
Le cifre, e i fatti, registrati negli ultimi decenni confermano che se nessun gruppo ha mai raggiunto l’apoteosi d’orrore delle Due Torri, non è stato certamente per mancanza di tentativi. Dei 95 attacchi classificati come «terroristici» dall’Agenzia per Sicurezza Nazionale, sei sono sicuramente attribuibili ad al Qaeda, ad Aqap, la filiale saudita della cupole terroristica e a Tehrik-i-Taliban, la cellula pakistana. Gli altri 89 sono opera di organizzazioni come il “Dipartimento della Giustizia” che non è il ministero, ma un gruppo che chiede giustizia contro l’oppressione del governo di Washington, del KKK, e di varie espressioni dell’animalismo e dell’ecologismo violento, l’Elf, il Fronte per la Liberazione della Terra, e l’Alf, Fronte per la liberazione degli animali.
Tanto il terrorismo di matrice straniera, quanto quello autogenerato hanno in comune il bersaglio: quel governo americano che è ai loro occhi la radice di ogni iniquità. Ma le milizie e i gruppetti violenti che hanno sparso bombe, ucciso, ferito, intimidito dall’interno si sparpagliano su un arco di ideologie che coprono tutto il ventaglio dell’odio. Gli assassini dei medici e delle infermiere che praticavano aborti legittimi nel nome della difesa della vita non hanno ovviamente nulla in comune con l’uomo che colpì il parco Olimpico di Atlanta nel 1994 con una bomba a chiodi e sferette, lo stesso tipo di ordigno usata a Boston per falciare alle gambe 133 persone, uccidere un bambini e due adulti e costringere i chirurghi ad amputazioni.
Ciascuno di queste dozzine di gruppi, di cellule, di milizie organizzate secondo criteri paramilitari e localizzate soprattutto nel Mid West e nel Lontano West, dall’Illinois al Montana, ha un totem da abbattere, e il proprio da innalzare. Gli isolati, come l’Unabomber che spediva pacchi esplosivi dal proprio nascondiglio, voleva colpire il complesso accademico- industrial-finanziario e furono necessari 20 anni per catturarlo. I super cristianisti del Sud aborrono l’empietà di una Washington che vuole imporre al popolo di Dio, quale loro credono di essere, atrocità come il diritto di scelta, i matrimoni gay. Se un punto di convergenza li unisce è la lotta armata contro lo strumento più odioso ed evidente utilizzato da ogni governo per negare la libertà ai “patrioti”, come spesso si autobattezzano: le tasse. Quelle imposte che proprio il giorno 15 aprile di ogni anno sono dovute al moloch statale.
Una ricerca condotta dall’accademia militare di West Point lo scorso anno aveva notato l’aumento massiccio, eppure quasi inosservato, del terrorismo interno. Tra il 1990 e il 2011, gli attacchi, riusciti o falliti, di gruppi o individui di estrema destra negli Usa sono passati da 35 a 350 all’anno, decuplicati. Il picco, anche più alto, si nota sempre negli anni delle elezioni presidenziali, quando la campagna elettorale scatena quella follia e quell’odio che vedemmo infuriare attorno al debutto di Barack Obama sulla scena. La virulenza del terrorismo nazionale raggiunge il record storica nel 2008 con 550 attentati, scrive lo studio dell’accademia militare.
In questi mesi, molti fattori convergono per creare una possibile massa critica che gli investigatori, colti completamente di sorpresa, oggi studiano, insieme con la strada maestra del terrorismo islamista. La battaglia di Obama per limitare il commercio di armi da fuoco, il talismano dei “veri patrioti”, che vedono nel proprio fucile l’erede diretto del moschetto impugnato dai ribelli anti britannici del ‘700. Le proposte di legge per un’amnistia agli immigrati senza documenti, altro tasto dolorosissimo per la destra violenta. L’aumento delle tasse, chiesto da Obama per sostenere lo stato sociale. L’avanzata inarrestabile della legalizzazione delle nozze omosessuali. Il puro, intossicante odio per quel «negro», e «alieno» alla Casa Bianca. Un potenziale
witches’brew, un intruglio da streghe, capace di stuzzicare il serpente e spingerlo a uscire dall’erba, per mordere quell’America che essi amano al punto di odiare gli americani.

il Fatto 17.4.13
Boston, identikit di una strage

di Furio Colombo
 
Alle reclute viene detto che Dio ha aggiunto alla Costituzione americana il diritto di portare le armi per una ragione importante: se mai venisse il momento in cui il governo deviasse dal suo scopo costituzionale cristiano, la gente in possesso di armi dovrebbe usarle per costringere il governo a tornare sulla retta via. I cristiani fondamentalisti che mantengono questa visione teocratica del governo sono chiamati “dominionisti”. Anche i fedeli di Christian Identity sono dominionisti, ma la differenza è che essi desiderano stabilire una teocrazia bianca, in cui le loro interpretazioni bibliche diventerebbero la norma. Sto citando da Harvest of Rage, uno studio di Joel Dyer pubblicato nel 1998 sul problema (e la minaccia, negli Usa) del fondamentalismo cristiano armato (in Italia: Raccolti di rabbia, Fazi Editore). E nel farlo sto spostando la mia riflessione su ciò che è appena successo a Boston, verso una delle due risposte: terrorismo interno. Poiché il governo americano tarderà a prendere apertamente questa strada, mi rendo conto che corro il rischio di offrire una tesi invece che una risposta bilanciata e attenta a tutti i riflessi possibili. Ma io penso che Dyer, l'autore che ho appena citato, abbia visto giusto quando da giornalista investigativo specializzato nella vita agricola americana, si è accorto che stava nascendo e diffondendosi una nuova cultura. È un peccato che non si siano avventurati lungo lo stesso percorso i giornalisti, i sociologi, ma anche i detective federali che avrebbero potuto scoprire ben di più che la responsabilità, l'arresto e la condanna di una o due persone, colpevoli ma senza mandanti e senza il sostegno di alcuno, dopo ogni tragico evento religioso-politico americano, dall'uccisione di medici ginecologi considerati nemici della vita, a magistrati che si spingono a investigare le nuove culture pseudo-cristiane. I tragici eventi simili alla maratona di Boston, infatti, sono tanti, prima e dopo lo spaventoso choc di quell'11 settembre che si è impadronito (come poteva avvenire diversamente?) di tutta l'emozione e di tutta la forza americana. Quasi solo giornalisti non americani (nelle dirette televisive subito dopo Boston, in cui si potevano alternare i telegiornali americani e telegiornali europei) si sono ricordati di questa sequenza di eventi: aprile è il mese di molte grandi scadenze del fondamentalismo cristiano che fa capo a Christian Identity: 29 aprile 1993, l'assedio della polizia federale alla chiesa-fortino di Waco, che il pastore David Koresh aveva riempito di armi automatiche e di seguaci, tra cui molte donne e bambini, e ha preferito che tutti saltassero in aria piuttosto che arrendersi a ZOG (il governo sionista americano, nel linguaggio di quel cristianesimo); 29 aprile 1995, l'esplosione del palazzo federale (dunque del governo di ZOG) di Oklahoma City, 168 morti, oltre a tutti i bambini dell'asilo e scuola elementare interna all'edificio; il 15 aprile è il giorno delle tasse, ovvero l'ultimo giorno per presentare il proprio modulo di denuncia, una scadenza sgradita di cui si parla tutto l'anno in tutta l'America, ma che, per i Fondamentalisti è un modo di sottrarre risorse a Dio per darle a Satana. Chi è Satana, per questa parte malata della cultura cristiana americana? “Ebrei e neri sono quel che sono. È stato Dio a scegliere di fare degli ebrei la prole di Satana, e dei neri degli animali, non lo abbiamo scelto noi” (Tim Hauser, Christian Identity, 1996). Ma questo aprile è anche il mese in cui il presidente Obama ha lanciato un’appassionata campagna contro la libera circolazione delle armi. E il presidente americano, per la prima volta nella storia di questo Paese, è un nero. Per capire se ci sia un legame fra l'oscuro e profondo sottomondo del “dominionismo” cristiano e la vita politica americana di ogni giorno, basti pensare ai Tea Party. La durezza violenta e aggressiva di quei militanti, che al momento sembrano un po’ tenuti a bada dal Partito repubblicano regolare, non può essere il frutto del cattivo carattere o dell’inclinazione rissosa di alcuni. Nella predicazione del Tea Party emergono continuamente parole, modi dire, gerghi che si possono ritrovare solo nelle investigazioni e nel lavoro giornalistico dei pochi autori come Joel Dyer. È chiaro, in quello che dico, che una profonda e diffusa esitazione trattiene la cultura americana dal guardare fino in fondo al vasto deposito di pregiudizio razziale, culturale, religioso che si intravede nel “dominionismo” cristiano (la forma estrema di fondamentalismo) e in Christian Identity. Però questi sono anche i giorni di una lunga investigazione su fatti criminali completamente nuovi: l'uccisione di magistrati. Due procuratori distrettuali sono stati assassinati nelle scorse settimane in Texas (uno in casa con la moglie, eliminati entrambi ). Si sa che gli esecutori provengono dal mondo e dalla cultura di cui stiamo parlando, ma le indagini sono finora andate a vuoto. Del resto, dalla famosa e celebre mattanza di Columbine fino alla strage di bambini, avvenuta da poco a Newtown, nel Connecicut) si è mai trovato un complice, un legame, un ambiente che può avere formato o facilitato questi episodi che sembrano solo follia isolata? Torniamo sempre all'esplosione di Oklahoma City: un solo arrestato, il soldato Mc Veight, un solo condannato a morte, una sentenza eseguita subito, che ha evitato di discutere se Mc Veight fosse o no (come tutto faceva pensare) un militante di Christian Identity. Sarà semplice ed esemplare il percorso investigativo e la conclusione della vicenda se gli attentatori di Boston non risulteranno cristiani. Ma se lo sono?


il Fatto 17.4.13
Fascismo ellenico
L’Europa chiede ad Atene di mettere fuorilegge Alba Dorata
di Rob. Zun.


Oltre duecento attacchi razzisti in un anno sono troppi anche per un'Europa distratta. Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, ieri ha sollecitato “le autorità greche ad agire con risolutezza nei confronti di Alba Dorata arrivando, se necessario, a bandirla”. Dopo un’ispezione in Grecia a fine gennaio, il commissario ha potuto constatare che i militanti di “Alba Dorata sono solo una parte del problema”. Il fatto grave è che il consenso nei confronti del partito neonazista guidato dall’ex militare e pregiudicato Nikólaos Michaloliákos, sarebbe alimentato dalle dichiarazioni contro gli immigrati - ammassati nel Paese anche a causa della mancanza di una sensata politica sull'immigrazione in ambito comunitario- rilasciate pubblicamente da politici e personalità del governo.
MA, SOPRATTUTTO, gli atti di razzismo contro gli immigrati sono frutto del clima di impunità dovuto “all'atteggiamento delle forze dell'ordine”, spiega il rapporto stilato dal Consiglio. Tutti sanno che circa la metà degli elettori di Alba Dorata è costituita da poliziotti e uomini in divisa. L'allarme è giustificato anche dai sondaggi che danno la formazione ancora in crescita. Se si tornasse al voto oggi arriverebbe al 15%, rimanendo il terzo partito dell’arco parlamentare.
Le preoccupazioni del commissario non si basano solo sull'analisi dell’ideologia del partito ma sui tanti raid contro bancarelle e negozi di immigrati. Oltre ai brutali pestaggi di massa realizzati dagli squadristi in maglietta nera, galvanizzati dall'ingresso in Parlamento dove hanno ben 18 seggi.
Nel rapporto il commissario specifica di aver ricevuto lo scorso settembre una lettera firmata da oltre 18mila cittadini greci che chiedevano il suo intervento e inchieste rigorose sulla questione. Muiznieks, a scanso di equivoci, ha sottolineato che mettere fuorilegge Alba Dorata, data la natura del partito e le prove raccolte contro i suoi membri, non costituirebbe una violazione degli standard del Consiglio d’Europa. Prova ne è l'iter intrapreso proprio dalla vituperata Germania per cancellare il partito neonazista locale, l'Npd.
Il governo greco difficilmente prenderà misure simili a breve anche perché tuttora impegnato a tenere a bada gli ispettori della trojka che, appena ripartiti da Atene, hanno dato il via libera alla prossima tranche di aiuti internazionali, a patto che il premier Samaras tenga fede alla sua promessa di licenziare 15mila dipendenti statali, 4mila entro il 2014

La Stampa 17.4.13
Diffusi i dati di una ricerca sull’antisemitismo
Polonia choc, il 40% dei liceali non vorrebbe ebrei in classe
I risultati del sondaggio resi noti alla vigilia del 70° anniversario della rivolta del ghetto
di Alessandro Alviani


Alla vigilia del settantesimo anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, l’insurrezione ebraica contro le deportazioni nel campo di sterminio di Treblinka scoppiata il 19 aprile 1943 e brutalmente repressa dai nazisti, un sondaggio rivela che tra i giovani della capitale polacca l’antisemitismo è oggi molto più radicato di quanto si possa pensare.
Il 40,1% dei 1.250 ragazzi interpellati, di età compresa tra 17 e 18 anni, non vorrebbe avere dei compagni di classe ebrei, il 60% preferirebbe non avere un partner ebreo e il 44% non sarebbe contento di trovarsi un vicino di casa ebreo, rivela l’indagine, commissionata dalla Comunità ebraica della capitale polacca e condotta dall’istituto Homo Homini.
Non solo, sebbene il 68% conosca la data della rivolta, il 23% ritiene erroneamente che essa si concluse con un successo degli insorti. Il 54,6% dei giovani intervistati pensa poi che l’aiuto fornito dai polacchi agli ebrei affinché potessero scampare alle deportazioni fu «sufficiente», mentre il 4,9% è di opinione contraria e l’11,2% lo giudica addirittura «eccessivo».
Il sondaggio, al quale hanno partecipato solo venti dei cento istituti superiori contattati, ha destato inevitabilmente allarme.
«Purtroppo siamo di fronte a percentuali molto alte, a confronto con gli studi nazionali di questo tipo Varsavia si presenta molto male», ha commentato sulla «Gazeta Wyborcza» Michal Bilewicz, ricercatore presso il centro di studi sulla discriminazione.
I risultati del sondaggio ci aiuteranno a preparare attività educative e sociale, che si dimostrano ancora più necessarie di quanto supponessimo, ha spiegato Joanna Korzeniewska, esponente della comunità ebraica di Varsavia.
Nel 2010 una ricerca simile condotta in Germania dall’Istituto di ricerca criminologica della Bassa Sassonia rivelò che nella lista dei vicini preferiti dai giovani tedeschi l’ultimo posto spetta ai turchi, che si piazzano dietro svedesi, italiani, africani, ebrei ed europei dell’Est: appena il 9,2% dei giovani tedeschi giudica positivamente l’idea di avere vicini turchi, mentre il 38% preferirebbe non averne.

Repubblica 17.4.13
Com’è grigia Pechino, ora la metropoli si svuota
Smog e prezzi alle stelle: la gente abbandona la città simbolo del “sogno cinese”
di Giampaolo Visetti


PECHINO — Per la prima volta dalla fondazione, cala la popolazione di Pechino e delle più importanti metropoli della Cina. La “grande fuga” è uno shock sia per le autorità che per i cinesi, costretti all’urbanizzazione di massa per aumentare i consumi e sostenere la crescita della seconda economia del mondo. In un anno la capitale ha perso un milione di abitanti, ma anche i residenti di Shanghai, Shenzhen e della stessa Hong Kong si rifugiano nelle città più piccole, che in Asia vengono chiamate «di seconda fascia». Chi può, nuovi ricchi e stranieri attratti nelle capitali dello sviluppo dagli stipendi delle multinazionali, ripara all’estero.
Per il partito comunista, che sulla trasformazione del Paese da rurale a urbano si gioca tutto, suona l’allarme. Smog, traffico, insicurezza alimentare, prezzi alle stelle, lavoro precario, welfare non garantito, spazi ricreativi assenti e censura di Internet interrompono la corsa verso le città-simbolo del “sogno cinese” rilanciato dal neo-leader Xi Jinping. Dopo Mao non era mai accaduto che il concetto di “qualità della vita”,
tra i cinesi, prevalesse sulla sete di affrancamento dalla povertà, sulla voglia di carriera, centri commerciali e opportunità migliori per i figli. Così, mentre il premier Li Keqiang promette che entro l’estate presenterà un piano per «prevenire la grande malattia delle megalopoli», cresce il numero dei migranti che ritornano nei villaggi di origine e i media di Stato intimano al governo di «fare qualcosa per il benessere di una massa da 600 milioni di individui».
Sotto accusa, la velocità e il caos della “metropolizzazione nazionale”. Negli anni Ottanta solo 200 milioni di cinesi, su 1,3 miliardi, vivevano in città. Sono triplicati in trent’anni, la popolazione neo-urbana supera ogni anno quella dell’Australia e nel 2030 sfonderà quota un miliardo: un essere umano su otto risiederà in una città della Cina. Le conseguenze si rivelano disastrose. A Pechino la ribattezzata “air-apocalypse” ha portato lo smog a superare di 40 volte i livelli massimi dell’Oms. L’inquinamento è nove volte più alto di quello di Manhattan, il traffico 44 volte più lento che a Mosca e un giorno ogni tre bambini e anziani vengono invitati a non uscire di casa. Un quinto delle città non rispetta i livelli internazionali di sicurezza per polveri sottili e biossido di carbonio e nel 2012 in Cina 1,6 milioni di morti premature sono state causate dalla drammatica situazione dell’aria. Nella capitale, come a Shanghai, si aggiungono la distruzione dei luoghi storici, l’emergenza idrica e quella alimentare. L’acqua potabile risulta contaminata da scarichi industriali e morie di animali. Il cibo a portata di stipendio medio, spesso si rivela tossico e il Paese è scosso da una nuova epidemia di influenza aviaria.
A Pechino il filetto di manzo costa più che a Londra e le case sono più care che a Tokyo. Lo scorso anno gli investimenti diretti nella capitale sono così calati del 4,2% rispetto al 2012 e uno studio dell’Accademia delle scienze rivela che il 12% di ricchi e classe media progetta di trasferirsi «in regioni dove la vita umana è meno impossibile». Anche l’8% dei 600 mila stranieri residenti nelle città cinesi, nonostante il boom di scuole internazionali, shopping center, ristoranti occidentali, strutture per lo sport e il divertimento, è andato via negli ultimi cinque anni. Prima causa dell’addio, la ricerca di un «luogo più adatto per allevare i figli». La grande fuga da Pechino, per la potenza che punta al sorpasso economico sugli Usa, tradisce un pericoloso scricchiolio. A migliorare, solo il reddito medio. Tutto il resto, ammette la tivù di Stato, peggiora. «Se il potere non cambia modello — ha scritto il Quotidiano del popolo — il “sogno cinese” non conquisterà il cuore e la mente della gente e rischia di diventare un incubo».

Repubblica 17.4.13
Oggi in aula a Kirov il leader delle proteste che ha sfidato il Cremlino: rischia 10 anni per accuse costruite ad arte
Via al processo a Navalnyj si mobilita il fronte anti-Putin
di Nicola Lombardozzi


KIROV — Sembra di essere passati attraverso una macchina del tempo. Qui, a novecento chilometri da Mosca, in una cittadina circondata dal bosco e carica di memorie delle Unione Sovietica, sta per celebrarsi il primo processo ufficiale a un dissidente dell’era Putin. Aleksej Navalnyj, anima e guida carismatica della clamorosa protesta di piazza che ha spaventato il Cremlino nei mesi scorsi, rischia dieci anni di carcere per un reato per due volte considerato inesistente dai magistrati locali e ripescato d’imperio dal Comitato investigativo di Mosca che ha imposto il processo immediato a partire da stamattina.
Niente a che vedere con il processo alle Pussy Riot, punite eccessivamente per una colpa minima ma comunque reale. E nemmeno con quello più noto al cosiddetto oligarca ribelle Mikhail Khodorkovskij, sempre mascherato da motivazioni acrobatiche ma comunque strettamente giudiziarie. A spazzare ogni equivoco ci ha pensato la scorsa settimana una gaffe del portavoce dello stesso Comitato investigativo: «Certo che se Navalnyj non avesse stuzzicato il potere in maniera tanto aggressiva, il suo reato sarebbe stato dimenticato».
Processo politico dunque e senza equivoci. Navalnyj è arrivato ieri sera con la moglie. Sembra rassegnato a un processo lungo e senza troppe speranze di venirne fuori: «Vogliono metterci tutti in prigione. All’inizio ci riusciranno, ma prima o poi li spazzeremo via». I suoi collaboratori hanno allestito da una settimana una sorta di quartier generale a due passi dal tribunale. Servirà a coordinare le manifestazioni di protesta che cominceranno oggi. Un migliaio di giovani è già arrivato da Mosca, da Kazan, da Volgograd. Molti altri viaggeranno nella notte per sorprendere la polizia locale, in auto, autobus e in treno lungo la prima tratta della Transiberiana. Probabile anche la partecipazione di altri vip della protesta che hanno già espresso solidarietà a Navalnyj, dallo scrittore Akunin, fino al campione di scacchi Kasparov, l’ex vicepremier Nemtsov. L’ecologista Chirikova e i suoi ragazzi della foresta di Khimki parteciperanno invece a una comizio pro Navalnyj nel centro di Mosca.
Sul web si smontano le tesi dell’accusa. Si tratterebbe di una malversazione di 16 milioni di rubli (400mila euro) che Navalnyj avrebbe commesso nel 2009 quando era consulente di un’azienda di Kirov. Ma sono dettagli che interessano a pochi. Tra i ragazzi di Navalnyj che distribuiscono volantini, preparano proteste su internet e aspettano i rinforzi della notte, non ci sono dubbi: «E’ un processo politico, voluto e gestito direttamente dal Cremlino contro il suo nemico più pericoloso».

l’Unità 17.4.13
Il caso Stamina
Duro attacco di Nature: malati come cavie


Nuovo attacco all’Italia da parte di Nature. Sul sito della rivista è apparso un editoriale intitolato «Smoke and Mirrors» in cui si stigmatizzano un convegno in Vaticano sulle staminali che si è tenuto pochi giorni fa e la decisione del Senato di approvare le cure con il metodo Stamina, anche se per solo 18 mesi. «Il meeting sulle cellule staminali adulte in Vaticano è stata una esibizione senza vergogna scrive la rivista bambini malati ripresi in televisione che condividevano il palco con compagnie private impegnate sulle staminali e ricercatori che chiedevano di accelerare l’uso clinico delle proprie terapie. A poco più di un chilometro il Senato italiano erodeva ancora di più le garanzie per i bambini emendando un già controverso decreto ministeriale con una clausola che equipara le cure con le staminali ai trapianti di tessuti». «Se anche la seconda camera approverà l’emendamento avverte il sito della rivista l’Italia sarà fuori dalle regole Ue e da quelle dell’Fda». Molti scienziati, ricorda Nature, sono inorriditi da quello che succede a Roma, e ne hanno tutte le ragioni: «È sbagliato usare malati terminali e disabili per promuovere false speranze ».

Repubblica 17.4.13
La rivista attacca anche il Vaticano
Stamina, negli Usa respinte due richieste di brevetto
“False promesse e pazienti-cavie” l’accusa di Nature all’Italia


ROMA Vaticano e Parlamento: uniti nell’illudere i pazienti. “Fumo e specchi” è il titolo di un durissimo editoriale della rivista scientifica inglese Nature.
Nel mirino ci sono le terapie a base di staminali che — non sottoposte a test e controlli — vengono spacciate come sogno di una cura che in realtà non è ancora pronta. Il riferimento è al metodo della Fondazione Stamina, in discussione in Parlamento. Ma anche a una conferenza che si è tenuta in Vaticano dall’11 al 13 aprile, in cui “con una vergognosa performance, bambini malati sono stati portati in parata a beneficio delle televisioni, accanto a ditte e medici che chiedevano al più presto l’applicazione delle loro terapie in ambito clinico”.
Il Vaticano da sempre promuove l’uso di cellule staminali adulte (le stesse del Metodo Stamina) nella speranza che offrano una scorciatoia rispetto alla ricerca sulle staminali embrionali. Il Senato, da parte sua, ha varato la settimana scorsa un testo che allenta i vincoli per l’uso del Metodo Stamina — una terapia non testata e i cui dettagli sono tenuti oscuri dai vertici della Fondazione — avvicinandole per quanto riguarda le regole a normali trapianti di tessuti.
“L’Italia — affonda Nature — si sta ponendo al di fuori delle regole europee e americane. Entrambe definiscono le cellule staminali modificate in laboratorio come farmaci veri e propri”. E tutti i farmaci, prima di essere somministrati alla popolazione, devono seguire regole precise per evitare che si rivelino pericolosi. Ma anche perché “è scorretto sfruttare la disperazione dei disabili e dei pazienti terminali e suscitare false speranze, come alcune persone intervenute al convegno vaticano hanno fatto. Altrettanto scorretto è usare questi pazienti come animali da esperimento, bypassando le norme fissate dalle agenzie regolatorie, come il Parlamento italiano sembra intenzionato a fare”.
Le cellule staminali non hanno ancora completato il percorso dal laboratorio alla clinica. Anche se diverse sperimentazioni hanno iniziato a coinvolgere l’uomo, non sono pronte per guarire i pazienti. Da una decina di anni sono nate “cliniche della speranza” che promettono ai pazienti metodi non testati: prima erano diffuse in Asia e in Europa dell’est, ora anche in Italia. Sul metodo della Fondazione Stamina pesa tra l’altro l’opacità. Il destino dei pazienti trattati è affidato alle sole parole di alcuni genitori, ma non a quelle dei medici.
Sottoposto a due richieste di brevetto nel 2010, tra l’altro, il metodo è stato accolto dal Patent Office americano con due bocciature. Il rifiuto è accompagnato da critiche dure. La prima richiesta di brevetto spiega come prelevare un campione di midollo osseo dalla cresta iliaca, un osso dell’anca. Da lì viene estratto un tipo di staminali dette mesenchimali. «Quella che viene presentata come invenzione è una cosa ovvia»: replica l’esaminatore. La seconda richiesta riguarda il trattamento delle cellule mesenchimali. Prima di usare questo tipo di staminali per la cura delle malattie bisogna farle sviluppare o «differenziare », trasformando le cellule immature in neuroni ben conformati. Nella domanda di brevetto Stamina sostiene di poter accelerare il processo di maturazione: non più «diversi giorni» ma «due ore» immergendo le cellule in una soluzione di alcol etanolo e acido retinoico. Secondo gli esaminatori “la procedura è descritta in maniera troppo generica”. E soprattutto è «improbabile che il differenziamento delle cellule possa avvenire in tempi così rapidi».
(e.d.)

Corriere 17.4.13
Oltre l'ombra paurosa del Nulla dove le cose non finiscono mai
L'angoscia occidentale e il vero senso della ricerca filosofica
di Emanuele Severino



Esce oggi per l'editrice Adelphi il saggio di Emanuele Severino «Intorno al senso del nulla» (pp. 212, 22), ulteriore tappa di un cammino ideale compreso fra «La Struttura originaria» (1958) e «La morte e la terra» (2011). Vi si mostra da un lato come l'ambiguità del nulla sia più profonda di quanto possa sembrare e dall'altro si indagano «le condizioni che rendono possibile la via d'uscita»
Il filosofo Emanuele Severino, nato a Brescia 84 anni fa, è autore di numerosi saggi che hanno caratterizzato il dibattito internazionale nel dopoguerra: fra i titoli più recenti ricordiamo «La Gloria», «Oltrepassare», «La buona fede», «L'identità del destino», «Democrazia, tecnica, capitalismo»

Il senso del vuoto, della privazione, dell'assenza sta al centro della storia dell'uomo. Il significato radicale che il «nulla» ha assunto nel pensiero filosofico accompagna come un'ombra non solo questa forma di pensiero, ma l'intera storia dell'Occidente. È la radice dominante dell'angoscia dell'uomo occidentale (che ormai è l'uomo planetario). Non solo perché il nulla è il nulla, ma anche per il carattere ambiguo di tale radice. Già Platone si accorge che pensare il nulla e parlare del nulla è pensare qualcosa e parlare di qualcosa. Come se il nemico che si ha di fronte si sdoppiasse. E ci ingannasse sulla sua identità.
Da gran tempo i miei scritti hanno affrontato questo evento spaesante: da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (2011). Appunto a queste due opere si ricollega Intorno al senso del nulla: da un lato mostrando come l'ambiguità del nulla sia ben più profonda di quanto possa sembrare, dall'altro approfondendo le condizioni che rendono possibile la via di uscita.
Lasciando irrisolte le aporie suscitate dal senso del nulla si lascia avvolto dall'ambiguità ciò che peraltro non può essere negato, cioè lo stesso tratto di fondo del destino della verità: che l'uomo e ogni altro ente sono da sempre salvi dal nulla. (Ma il disorientamento avvolgerebbe anche la convinzione, dominante nella storia dell'Occidente, che il tutto provenga dal nulla e vi ritorni).
Appunto a questi temi si rivolge la parte centrale di queste pagine, la seconda, che dà il titolo all'intero volume. Ritornando al tema del «senso del nulla» e ai problemi da esso suscitati, li accosta però in modi diversi da quello sviluppato nel capitolo IV della Struttura originaria. Diversi ma complementari. Anche questa Parte seconda, cioè, ritorna al tema del «senso del nulla» attraverso la considerazione dell'aporetica a cui tale senso dà luogo, ma riferendosi a tipi di aporie che differiscono da quello presente nel capitolo IV della Struttura originaria.
La Parte prima, oltre a sviluppare il senso del rapporto tra «nulla», «possibilità» e «potenza» (procedendo dal capitolo V della Parte prima di Fondamento della contraddizione), mostra un ulteriore aspetto della contraddizione dell'essenza autentica del nichilismo — l'aspetto per il quale il diventare altro, quindi il diventare nulla o l'uscire dal nulla, è un'«infinità» di contraddizioni.
Infine la Parte terza («Errare e dialogare del linguaggio che testimonia il destino e fondamento di tale testimonianza») considera la più ampia aporetica relativa al l'affidabilità del linguaggio che testimonia il destino della verità e pertanto, in esso, il destino del nulla.(...)
Gran parte delle parole che nelle lingue indoeuropee indicano la «cosa» alludono più o meno direttamente ai beni, alle ricchezze, a ciò che serve e si adopera, a ciò di cui si ha bisogno, ai valori, al bestiame, all'affare, a ciò che è pregiato, alla sostanza e al patrimonio. Qui ci si limiti a richiamare il latino res, il greco prâgma, chrêma, il tedesco Ding (inglese thing) e Sache. Perfino lo spettro semantico del participio greco tà ónta (gli essenti, le cose che sono) include le sostanze e i beni, e anche il participio ousía nomina la sostanza intesa come patrimonio. Significati che precedono quelli che a queste stesse parole il pensiero filosofico ha in seguito assegnato. Ma è rilevante che quei più antichi significati della «cosa» implichino, a volte in modo del tutto esplicito, che il loro contenuto sia tutt'altro che indifferente alle singole volontà, le quali invece se li disputano anche in tempo di pace. Quei significati implicano cioè una situazione conflittuale e il luogo in cui essa viene discussa, che vengono in luce, ad esempio, in Ding, thing, che significano anche «causa», «tribunale», «parlamento», «assemblea», «verdetto, «processo». La stessa parola «cosa» proviene dal latino «causa», intesa sia come matrice e principio del diventar altro (dynamis eis tò patheîn e dynamis eis tò poieîn), sia in senso giuridico, come motivazione del diritto al possesso di ciò che è conteso tra volontà differenti.
Che la parola «cosa» significhi questa conflittualità, mostrata nelle antiche formazioni linguistiche della terra isolata è una figura che rinvia alla conflittualità originaria, dove la «cosa» è la risultante della lotta tra la volontà e l'Inflessibile, ossia è la forma originaria (quindi preontologica) del diventar altro. Dicendo che Pólemos è il padre di tutte le cose e che quindi ogni cosa è lotta, conflitto, Eraclito dice già implicitamente che il conflitto è il significato originario dell'esser «cosa» — sì che, come altre volte ho rilevato, si può dire che, nella terra isolata, la cosa è la madre di tutte le guerre.

Corriere 17.4.13
Una guida per sbloccare strade senza uscita
Da Gilgamesh al Big Bang all'entropia: il percorso che conduce all'eterna verità
di Armando Torno


Il nuovo libro di Emanuele Severino, Intorno al senso del nulla, è dedicato a un tema a cui ha pensato da sempre. Ora l'ha scritto di getto. Per meglio comprendere il percorso di queste pagine, è il caso di prepararsi con la lettura di un saggio di Leonardo Messinese, la più recente delle ricerche riguardanti il pensatore italiano, Né laico né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia (Dedalo 2013). Di Messinese, lo stesso Severino dice: «Un filosofo che mostra la sua competenza anche nei molti scritti che mi ha dedicato».
Ma, tornando al libro che oggi esce da Adelphi, diremo che lo stesso Severino ci ha confidato in una conversazione poco prima di chiudere queste pagine: «Il tema del nulla ha essenzialmente a che fare con il tema della morte. Durante il tempo del mito, l'uomo va abituandosi al fenomeno sconcertante della morte: della morte del sole al tramonto, della morte altrui (è con sofferenza che Gilgamesh si rassegna alla scomparsa dell'amico), della morte dei vegetali e degli animali. In questo tempo una prima difesa consiste nel credere nel ritorno dei morti. Poi appare la filosofia, la quale evoca il significato radicale e tremendo della morte, che consiste nell'intenderla come l'andare nel nulla assoluto e definitivo, quel nulla da cui non si ritorna».
A tale significato del nulla comincia a rivolgersi Parmenide, il filosofo greco a cui Severino ha dedicato importanti riflessioni già negli anni Cinquanta, ed esso scandisce l'intero corso del pensiero filosofico. Non soltanto: il nulla ghermisce anche le vicende di quello artistico-poetico e della scienza stessa (a tal proposito, Severino aggiunge: «Si pensi, per esempio, al nulla da cui sostanzialmente procede il Big Bang e all'annientamento a cui conduce l'entropia cosmica o lo scontro tra particelle elementari»).
In campo filosofico il tema avvolge il cristianesimo (basterà ricordare il concetto di creatio ex nihilo), il sistema di Leibniz (Severino ricorda la sua celebre domanda: «Perché l'essere piuttosto che il nulla?»), e lo stesso Kant. Severino si sofferma, nel nostro dialogo e a tal proposito, sulla «tavola del nulla» al termine dell'Analitica trascendentale nella Critica della ragion pura; inoltre ricorda Hegel o il grande finale de Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer o l'attenzione dedicata da Heidegger al Nichts, inteso addirittura come l'«essere», contrapposto all'ente. Diciamolo senza infingimenti: non è tema che manchi nei contemporanei, tutt'altro. Severino continua: «Penso a Carnap critico di Heidegger e, prima di lui, a Frege; infine non bisogna dimenticare le indagini compiute dalla filosofia analitica sul concetto di nulla».
Anche questo libro, come indica l'autore nelle parti anticipate in questa pagina, «sblocca le aporie», ovvero le «strade senza uscita». Sono quelle — aggiunge Severino — che «qualora continuassero a rimanere bloccate costituirebbero una nube attorno alla verità essenziale. La quale può essere così indicata: il destino di ogni cosa, dalle più umili alle più alte, è di essere eterna, e cioè di non essere mai preda del nulla».

l’Unità 17.4.13
Togliatti, Giovanni XXIII e l’autonomia della politica
di Riccardo Terzi

Segreteria nazionale Spi-Cgil

SONO TRASCORSI CINQUANT’ANNI DAL DISCORSO DI PALMIRO TOGLIATTI A BERGAMO SUL «DESTINO DELL’UOMO» E DALLA PUBBLICAZIONE DELLA «PACEM IN TERRIS», LA GRANDE E RIVOLUZIONARIA ENCICLICA DI GIOVANNI XXIII. È un segno dei tempi che la politica ufficiale, presa da più contingenti interrogativi, non abbia trovato il tempo di celebrare questo anniversario e di coglierne la sua estrema attualità. Fa eccezione l’iniziativa che si è tenuta a Bergamo, il 5 di aprile, promossa dallo Spi-Cgil, dalla Fondazione Di Vittorio e dalla Fondazione Giovanni XXIII. Ciò che colpisce nel confronto tra i due testi, di Togliatti e di Papa Giovanni, è una sostanziale convergenza di metodo, in quanto l’accento è posto non sulle ideologie, ma sulle forze storiche reali, e sulla possibilità di un loro incontro di fronte alle emergenze del nostro tempo. È il rovesciamento di ogni forma di fondamentalismo, in quanto non c’è una verità data a priori, ma essa è il risultato di una ricerca, in cui si confrontano liberamente diversi punti di vista. Le ideologie sono dunque viste e interpretate nella loro evoluzione, nel loro concreto farsi storico, nella loro dinamica che resta sempre aperta a nuovi possibili sviluppi.
Non è, sia chiaro, la banalità sulla fine delle ideologie, ma al contrario è l’idea che le grandi correnti di pensiero, senza per nulla rinunciare alla loro coerenza, possono aprirsi al confronto e alla collaborazione, proprio in quanto sono un’espressione profonda della coscienza collettiva.
Nel discorso di Togliatti c’è, per la prima volta in modo così netto ed esplicito, il riconoscimento della religiosità come una forma permanente e insopprimibile della condizione umana. «Bisogna considerare il mondo comunista e il mondo cattolico come un complesso di forze reali», e il dialogo presuppone un riconoscimento reciproco di legittimità. Togliatti si muove coerentemente nel solco dello storicismo marxista, per cui il mondo delle idee non è comprensibile se non nel suo rapporto vivente con la materialità dei processi sociali.
È assai più sorprendente e innovativo ciò che avviene nella Chiesa, con l’Enciclica di Giovanni XXIII, che rappresenta un punto di rottura, in quanto lo stesso messaggio cristiano esce dalla sua astorica fissità, e va interpretato e aggiornato alla luce dei «segni dei tempi», aprendo così una nuova e avvincente dinamica tra la Chiesa e la modernità. La dimensione storica entra, per la prima volta, nel recinto chiuso della teologia cattolica.
Il punto più forte di innovazione è nell’assunzione del valore della «libertà», che viene messo sullo stesso piano con i principi di verità, carità e giustizia. Ciò vuol dire che l’uomo è giustificato non in quanto è nella verità, ma in quanto è liberamente impegnato nella sua ricerca.
Ecco allora la famosa distinzione tra l’errore e l’errante, dove forse l’errante può essere inteso in un senso più ampio e comprensivo, come colui che è in cammino. E il cammino, anche da luoghi diversi, rende sempre possibile l’incontro. Qui sta il fondamento teorico dell’autonomia della politica, in quanto spazio democratico nel quale si realizza un libero confronto tra le diverse culture, senza egemonie presupposte, senza valori non negoziabili, senza integralismi, senza mai concepire la politica come lo scontro tra il bene e il male. Ciò ha reso possibile un grande e fecondo contributo dei cattolici alla costruzione del nostro ordinamento democratico.
Colpisce, dopo cinquant’anni, la straordinaria freschezza e attualità di quel messaggio, che pone al centro il tema della pace, ma si apre ad una più larga riflessione sul destino della nostra civiltà. La lezione si può così riassumere: occorrono culture e identità forti, e in quanto forti capaci di dialogo e di apertura. La Chiesa deve riprendere il cammino del Concilio, e Papa Francesco sembra muoversi in questa direzione. Restiamo in attesa di una politica che sappia rinnovare la sua identità e la sua capacità di progetto. Un rinnovato dialogo con la Chiesa, svolto sul terreno storico-politico, capace di affrontare i grandi nodi della giustizia e dell’eguaglianza nel mondo contemporaneo, può offrire un contributo essenziale per il nostro futuro.

Repubblica 17.4.13
“Scandalismo su Levi” Scoppia la polemica sul libro di Luzzatto
La storiografia ha affrontato da anni questi temi
Quelle polemiche fuori dal tempo contro la sinistra
di Guido Crainz


Leggerò d’un fiato il libro di Sergio Luzzatto, e non solo perché il suo Il corpo del duce è uno dei libri più importanti che io abbia letto sul rapporto fra la storia e la memoria del fascismo. Lo leggerò d’un fiato soprattutto perché rinvia a più di una questione storiografica ed etica. Leggendo il libro, naturalmente, capirò come lo fa, in che modo dialoghi con riflessioni avviate sin da allora su questi temi o prenda altre vie. Nel 1945, nell’ultima pagina di Un uomo, un partigiano, Roberto Battaglia ci consegnava per intero il dramma vero che stava sullo sfondo della “giustizia partigiana”: «Nel giudicare i condannati — scriveva — si soffriva alle volte quanto essi, si era presi dalla loro stessa angoscia». In quelle pagine — ha osservato Ugo Berti introducendo per “il Mulino” la ristampa di quel bellissimo libro — «la condizione di fuorilegge-legislatore è esposta e interrogata nell’argomento cruciale, la legittimità del dare la morte».
A questo nodo, a questo tragico nodo di fondo rinviano anche episodi marginali o feroci, “atipici” eppur impastati della “normalità” della “guerra civile”. È merito di Claudio Pavone aver aperto più di vent’anni fa la riflessione su questi temi (più di vent’anni fa, si badi bene) sfidando duri fuochi di sbarramento e offrendo però strumenti preziosi ad una stagione di studi che ha rimosso tabù e reticenze. E non ha caso il sottotitolo del suo libro, Una guerra civile, è Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Quella stagione di studi, che ancora continua, ha affrontato ampiamente le pagine più aspre e dure del ’43-45 e poi il protrarsi della violenza armata contro i fascisti ben oltre il 25 aprile (il lungo protrarsi cioè dell’“ombra della guerra”). Si è interrogata non solo sulle “vulgate” ma anche su talune ipocrisie e falsificazioni della memoria pubblica.
Qualche anno fa un bel libro di Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento (Donzelli), ha illuminato di luce cruda la storia del “partigiano Facio”, combattente nell’appennino tosco-emiliano sin dalla prima fase della Resistenza (e in relazione anche con i fratelli Cervi). Insignito di medaglia d’argento nei primi anni Sessanta e un vero simbolo, in quella zona, ma ucciso in realtà da altri partigiani: non per ragioni di antifascismo ma di sopraffazione (il controllo e il comando di un’area). Un caso di ingiustizia partigiana e al tempo stesso di falsificazione di memoria: e anche qui la specifica, e feroce, “ingiustizia partigiana” rinvia — è merito di Capogreco averlo sottolineato in modo partecipe — a quel più generale nodo della “giustizia partigiana” su cui Battaglia si arrovellava con passione e tensione etica. Per molti versi, dunque, abbiamo accumulato sufficiente maturità culturale e storiografica per misurarci in modo pacato con i nodi drammatici di una guerra civile, in tutto il loro amplissimo spettro: e i ricorrenti lamenti sulle “rimozioni della storiografia” (della storiografia di sinistra, naturalmente) appaiono pateticamente fuori stagione. Forse non è ad esse che si deve se alcune grossolane letture hanno trovato ampio spazio, se troppo spesso singoli episodi sono stati ingigantiti e assunti a rovesciato simbolo, gli alberi malati sono stati utilizzati per nascondere la foresta, il dito per occultare la luna (e, soprattutto, la riflessione su di essa). Ha una data d’avvio, questa falsificazione: è a partire dagli anni Ottanta che la “riconciliazione morbida” con il passato, in primo luogo con il passato fascista, si è accompagnata alla sostanziale deformazione del dramma e delle scelte di campo del 1943-45.
Già molti anni fa Nicola Gallerano ha scritto su questo pagine illuminanti, e alla “vulgata antiantifascista” Luzzatto stesso ha dedicato di recente le acute pagine di un agile libro,
La crisi dell’antifascismo.
Una ragione in più, per quel che mi riguarda, per leggere il suo ultimo lavoro, anche per gli stimoli critici della recensione di ieri di Gad Lerner. Per il resto, da accanito lettore di quotidiani non mi stupisco certo se qualcuno non perde occasione per suonare stanche canzoni.

Repubblica 17.4.13
E’ bufera sulle tesi di Sergio Luzzatto
Studiosi e ricercatori contro “Partigia”, che racconta un episodio controverso ma già noto della Resistenza in cui fu coinvolto l’autore di “Se questo è un uomo”
Se questa è la Storia
“Su Primo Levi solo scandalismo”
di Massimo Novelli


«Il mio periodo partigiano in Valle d’Aosta è stato senza dubbio il più opaco della mia carriera, e non lo racconterei volentieri: è una storia di giovani ben intenzionati ma sciocchi, e sta bene fra le cose dimenticate. Bastano e avanzano i cenni contenuti nel Sistema periodico». Così Primo Levi scriveva nel 1980 in una lettera a Paolo Momigliano, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Aosta. Da quei «cenni» è partito lo storico Sergio Luzzatto per costruire il suo libro Partigia. Una storia della Resistenza, subito al centro di polemiche. Nel saggio, pubblicato da Mondadori e non da Einaudi, la casa editrice di molte opere di Luzzatto, si sottolinea soprattutto l’«ossessione» che lo scrittore torinese avrebbe avuto per un episodio avvenuto in quelle settimane di vita partigiana.
Rifugiatosi in Valle d’Aosta, Levi si era unito a una banda composta da comunisti legati al Partito comunista internazionalista e da anarchici. Oltretutto, dopo pochi giorni, la formazione fu infiltrata da ufficiali fascisti inviati dai caporioni aostani della Repubblica di Salò. Le spie, addirittura, ben presto assunsero il comando della banda, fino a consegnare quei ragazzi nelle mani dei loro camerati nazifascisti. La presunta «ossessione » dell’allora giovane dottore in chimica, com’era Primo Levi, sarebbe stata originata dall’avere appreso della fucilazione da parte dei partigiani di due compagni, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, accusati di furto. Avvenne quando nella formazione si erano già insediati i fascisti La vicenda rievocata da Luzzatto, così come le circostanze che il 13 dicembre del 1943 portarono all’arresto e quindi alla deportazione dell’autore di Se questo è un uomo, sono state presentate da Paolo Mieli sul Corriere della Sera come verità nascoste per anni da una certa «retorica della Resistenza». A onor del vero, però, nel 2008 il ricercatore piemontese Roberto Gremmo ne aveva dato un ampio resoconto sulla rivista Storia ribelle.
E, qualche mese fa, lo scrittore Frediano Sessi le ha raccontate diffusamente nel libro Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), senza prestarsi peraltro a operazioni in odore di “revisionismo storico”. Già: perché proprio il “revisionismo”, per giunta esercitato su Levi, morto nel 1987, sembra essere l’elemento principale colto da quanti, tra storici e studiosi, hanno seguito il dibattito che ha preceduto l’uscita del volume di Luzzatto. Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto, e autore dell’Einaudi al pari di Luzzatto, non esita a parlare di «uso scandalistico della storia». E aggiunge: «Non ho letto il libro. Nell’operazione mediatica per presentare il libro di Luzzatto, comunque, colpisce la sproporzione fra gli eventi, minimi, e il rilievo dato a questi. Mi sembra un’operazione dettata dal bisogno ossessivo di sensazionalismo, che è altra cosa dalla pratica storiografica. Detto questo, c’è poi un uso disumano di Primo Levi, un indagare in modo indiziario nelle pieghe della sua coscienza». È questo «uso» di Levi, in definitiva, che avrebbe indotto alcuni vecchi einaudiani a sconsigliare la pubblicazione del volume di Luzzatto, lasciandolo alla Mondadori? La casa dello Struzzo nega, ma il dubbio rimane.
Come restano i dubbi sull’interpretazione delle parole di Levi sulla fucilazione di Oppezzo e Zabaldano. Frediano Sessi ritiene che «negli accenni contenuti nel Sistema periodico, oltre a non esserci alcun suo giudizio negativo sulla Resistenza, esprime invece il dolore per la morte dei due ragazzi, probabilmente autori di furti, perché facevano parte della stessa comunità umana in cui era entrato lui. Ecco perché se ne sentì coinvolto, quasi corresponsabile ». Oppezzo e Zabaldano, a ogni modo, dopo la Liberazione furono fatti passare per martiri della Resistenza. Sessi lo spiega col fatto che «nessuno aveva più saputo niente di loro: si credette, pertanto, che fossero caduti in combattimento».
Anche lo storico Giovanni De Luna è molto critico: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta “vulgata resistenziale”, sulle scoperte di “verità tenute nascoste”. Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo, fin dal dibattito degli anni Settanta sulla Resistenza. Ad alcuni che oggi scrivono di Resistenza, gente che si è formata nel dibattito degli anni Novanta, rimprovero la mancanza di consapevolezza dei contesti storici». Ernesto Ferrero, a lungo dirigente dell’Einaudi e che a Levi ha dedicato vari studi, è altrettanto severo: «Capisco che una vicenda così intimamente dostoevskiana possa appassionare il narratore che sonnecchia in ogni storico. Ma mi pare di ravvedere nello sviluppo anche mediatico che se ne è fatto, una specie di uso improprio di estrogeni storiografici ». Conclude Ferrero: «Proprio perché Levi non ha creduto alla retorica della Resistenza, era profondamente amareggiato dalle furbizie del revisionismo. Antropologo scrupoloso e geniale, sulle scelte etiche non transigeva. E anche da questo episodio esce più grande che mai».