giovedì 18 aprile 2013

l’Unità 18.4.13
Bersani: sì a Marini. Scontro nel Pd
Forti tensioni nell’assemblea dei parlamentari democratici. I dissidenti: «È una scelta che divide»
La minaccia di Grillo «Verremo sotto casa»
Il leader del M5S lancia Rodotà per il Quirinale e poi attacca il Pd: fa patti con il Pdl e si suicida
Renzi contro: è il peggio noi non lo voteremo. Un dispetto al Paese
Vendola perplesso, prodiani critici
Il fronte Prodi non smobilita


l’Unità 18.4.13
Mail bombing ai deputati piddì: «Sostenete Rodotà»

«Da diverse ore è in atto un attacco informatico sotto forma di mail seriali inviate alle caselle di posta elettronica istituzionali dei parlamentari del Pd per sostenere la candidatura alla presidenza della Repubblica di Stefano Rodotà. È una forma di pressione mediatica ai limiti della legge, che nulla ha a che vedere con l’esigenza di riattivare un rapporto dialettico e democratico tra elettori ed eletti». A lanciare l’allarme, a metà pomeriggio, è Federico Fornaro, senatore Pd indignato dal mail bombing: «Sono certo che il professor Rodotà sia all’oscuro di tutto e penso che questo sia anche il peggior modo per sostenere la sua candidatura. Un’azione di disturbo come questa dice Fornaro è antitetica allo spirito delle sue battaglie in materia di diritti individuali».

l’Unità 18.4.13
A sinistra e sul web cresce il fronte per il giurista
L’ex Garante della Privacy «icona pop» per il Colle
Piace, da Vendola ai giovani Pd come Civati e Serracchiani
Sul web tanti appelli a Bersani
di Natalia Lombardo


Èmontata una marea nel corso della giornata. A tempo di post e di tweet, di hashtag e di like, più che un sostegno alla candidatura di Stefano Rodotà come presidente della Repubblica dai social network è scattato un pressing, anzi, un «bombing» sul Partito democratico, perché Bersani si convinca a fare proprio il nome del giurista, ex presidente dell’Authority per la Privacy, e a girare la testa verso il Movimento Cinque stelle piuttosto che ostinarsi a cercare un nome condiviso con Berlusconi. Lo sostiene Nichi Vendola per una volta con poche parole e un messaggio secco rilanciato su Facebook: il leader di Sel chiude a qualunque mossa che possa portare al «governissimo» Pd-Pdl e registra come novità «la disponibilità concreta del M5S a offrire i nomi di grandi protagonisti della vita democratica». Quindi Vendola invita Bersani e il Pd a riflettere e a scegliere: «Per un voto con i due terzi o si guarda a destra o a sinistra. Guardare a destra è un suicidio, guardare a sinistra un’opportunità»
Rodotà, che pure ha i suoi ottantanni tondi tondi, è stato il primo presidente del Pds nonché deputato, così come lo fu da indipendente per il Pci e firmatario dell’appello per Bersani «Italia bene comune». Un politico del Pd, insomma, peròè la terza carta che Beppe Grillo ha messo sul tavolo del Gioco del Colle, dopo due «mani» consumate rapidamente con le carte di bandiera Milena Gabanelli e Gino Strada, che hanno declinato la proposta uscita dalle «quirinarie» o dalla testa del comico e del guru.
Anche nel Pd non sono pochi i supporter dell’anziano docente di Diritto civile alla Sapienza di Roma. Lo ha detto apertamente Pippo Civati, fan di prima ora della Leopolda renziana dalla quale si è poi distaccato mantenendo un’impronta da rottamatore soft. La (relativamente) giovane (38 anni) new entry del Parlamento fino a due giorni fa vedeva Rodotà come seconda opzione dopo Romano Prodi, definendo il giurista «una figura di grandissimo prestigio, che il Pd deve assolutamente prendere in considerazione nelle prossime ore». L’ex Garante della Privacy, voce garbata dell’antiberlusconismo, convince e piace a quella parte più giovane dalla galassia democrat, che in questa legislatura per altro ha una forza consistente.
A sorpresa per il segretario del Pd l’outing di Alessandra Moretti, deputata che è stata tra i portavoce di Bersani nella campagna per le primarie: «Stefano Rodotà? Lo voterei anch’io. È un nome di altissimo profilo di cui si parla fin dall’inizio». Lo ha detto su RadioDue, quasi a voler mandare un messaggio al leader: «Bersani Ha un asso nella manica, una carta segreta: un nome che non è tra quelli indicati finora e su cui le forze politiche potrebbero trovare un’intesa». Parole dal microfono fuggite? Dopo poco Moretti smentisce: «Mai detto che Bersani ha una carta segreta, serve un nome condiviso». E nel Pd c’è chi sbotta contro l’invasione di appelli per il voto al giurista, il mail bombing organizzato dal blog «rodotàpresidente» con tanto di mail dei parlamentari democratici da bombardare, appunto.
Ma dai supporter bersaniani in campagna elettorale anche Tommaso Giuntella si stacca in sostegno di Stefano Rodotà. È alla testa dell’agguerrito plotone di trecento «spartiani» democrats, i guerrieri del wireless che assediano il Nazareno. A colpi di tweet comunicano i risultati delle loro #Quirinarie. «Ha vinto Stefano Rodotà con il 59% di preferenze. 2° Romani Prodi. 3° D’Alema». Stop, passo e ritwitto. Anche a Deborah Serracchiani, altra giovane big candidata del centrosinistra alla presidenza della Regione Friuli, «non dispiacerebbe» Stefano Rodotà.
Insomma, il giurista noto come difensore della Costituzione, con un aplomb anglossassone, lui calabrese discendente della comunità italo-albanese, se pure ha quattro legislature alle spalle viene considerato dai grillini, dal popolo del web, dai giovani e da chi è stanco dell’impasse politico, quasi una figura «vergine» rispetto ai politici navigati i cui nomi sono nelle rose per il Quirinale. Grillo annuncia trionfante che «Rodotà accetta la candidatura», un ottantenne «felice come un bambino», purificato, secondo il comico, dall’essere stato «fuori dal giro» partitico.
Così nel battito di un giorno il giurista diventa una «icona pop» su tutti i social network, definizione dell’attenta Sofia Ventura, la pre-futurista che diede inizio all’offensiva finiana, già finita. L’icona di chi vuole girare pagina, come l’ex presidente della Federazione della Stampa, Paolo Serventi Longhi, che su Fb ricorda come la proposta di Rodotà «in molti l’abbiamo sostenuta sul web prima che lo facesse Grillo» e, da non grillino, invita i parlamentari a votarlo, anche perché il Pd non corra verso «una sconfitta allucinante, un autogol, il suicidio della sinistra. Il segretario del Pd entrerà nella storia».
In favore di Rodotà si fa risentire anche Antonio Di Pietro, ancora sotto botta: «È una personalità di alto profilo che in questi anni ha sempre avuto la schiena dritta, ed è stato arbitro imparziale a difesa della Costituzione».

l’Unità 18.4.13
Il partito di Prodi scalda i motori. Con Renzi al volante
Se saltasse l’intesa su Marini, dal quarto scrutinio il nome del Prof potrebbe saldare un asse che va da Vendola al sindaco di Firenze. Passando per Grillo
di Andrea Carugati


Un partito trasversale, che trova il suo epicentro nel Pd, ma che si estende anche a Sel e potrebbe coinvolgere i 5 stelle. Se si arrivasse alla quarta votazione, il «partito» degli estimatori di Romano Prodi potrebbe tradursi in un numero di voti sufficiente per portare al Quirinale il Professore di Bologna. Sono ore di grande fibrillazione, ieri Prodi ha pranzato nella sua città con alcuni imprenditori, poi ha visto in piazza Santo Stefano alcuni fedelissimi, oggi si imbarcherà su un aereo per l’Africa. Low profile, dunque, ostentato distacco dalle vicende romane. In serata, l’accordo su Franco Marini, con l’intesa tra Pd, Pdl, Lega e montiani, sembra chiudere ogni spiraglio per la salita del Prof sul Colle più alto. Anche perché ieri Andrea Olivero di Scelta civica ha pubblicamente bocciato Prodi «perché non è in grado di raccogliere una ampia maggioranza». Ma la storia delle «quirinarie», quelle vere, racconta di tantissimi candidati entrati «Papi» nel conclave delle Camere riunite e usciti cardinali.
E se Marini non dovesse farcela stamattina alla prima votazione, questo significherebbe che il partito di Prodi si è davvero messo in moto. Probabilmente con un alto numero di voti per Stefano Rodotà, ben superiori ai 163 grillini che hanno già ufficializzato la scelta per il giurista. Oppure con delle schede bianche dei renziani. Attorno a Prodi, a quel punto, potrebbe saldarsi un fronte assai variegato, che va da Sel ai 50 grandi elettori renziani, passando per i 5 stelle e per i parlamentari Pd che si raccolgono attorno a Pippo Civati, che proprio ieri ha avuto un colloquio in Transatlantico con il dissidente a Cinque stelle Tommaso Currò, invitando i grillini a confluire su Prodi. Sul nome del Prof qualora saltasse l’intesa su Marini potrebbe magari confluire una larga fetta di parlamentari Pd, che stima l’ex premier ma che, in prima battuta, preferisce un presidente della Repubblica «meno divisivo».
Renzi non ha mai fatto mistero delle sue preferenze per Prodi e ieri la sua fedelissima Simona Bonafè ricordava che «moltissimi di noi hanno iniziato a fare politica negli anni Novanta proprio nei Comitati Prodi e nell’Ulivo». Chissà quanti parlamentari 5 stelle, al di là del voto su Rodotà, sono davvero pronti a convergere. Il Professore viene visto dai grillini come uno che «è sempre stato bastonato dai partiti e dalla partitocrazia». È arrivato solo ottavo nella consultazione via Internet dei militanti, ma resta uno della top ten. «Se si arrivasse a Prodi, personalmente, voterò quella scelta fatta dalla Rete e credo che tutti i parlamentari lo faranno», ha spiegato ieri il capogruppo al Senato Vito Crimi. «Non possiamo non votare il nostro primo candidato disponibile». E Roberta
Lombardi: «Chi convintamente, chi per senso del dovere, alla fine lo voteremmo...».
Ai fedelissimi del Professore in queste ore stanno arrivando numerose dichiarazioni di parlamentari Pd pronti a sostenerlo. Alcuni con dei distinguo, che subito infiammano la polemica. «Io lo vorrei al Colle, sia chiaro però che vuol dire andare a votare subito dopo», scrive su Facebook la deputata bolognese Donata Lenzi. Parole che fanno scattare l’immediata reazione dei prodiani. «È falso», dice Sandro Gozi. «Prodi ha detto già tre volte che non si torna a votare con questa legge elettorale». Altri prodiani come l’ex ministro Giulio Santagata e la portavoce Sandra Zampa mettono in chiaro la loro contrarietà all’«inciucio» tra Pd e Pdl. «Con Prodi subito al voto? Mi domando perché si diffonda una informazione così impropria», dice Zampa. «Si vuole forse dire che per non tornare alle urne non esiste altra strada che rassegnarsi a un accordo con il Pdl guidato da Berlusconi? Spero davvero di no. Significherebbe tradire l’impegno con i nostri elettori». Sembra un ritorno agli anni ruggenti dell’Ulivo. Al Professore schierato contro il Cavaliere, con i suoi che accusano i vertici di Ds e Margherita (poi Pd) di non sostenerlo a sufficienza. Di cercare un dialogo col Cavaliere invece di assumere una posizione netta. Tra i prodiani non viene digerito il dialogo istituzionale con Berlusconi proprio nei giorni in cui emergono dettagli inquietanti dall’inchiesta sulla compravendita di senatori che nel 2008 portò alla caduta del governo del Prof. E viene fatto notare anche un certo «strabismo» di Bersani, che per settimane «ha corteggiato i grillini», ma ora «trascura le aperture dei 5 stelle» sul nome del fondatore dell’Ulivo.
Argomenti che vengono condivisi da una certa platea di parlamentari democratici. A partire dall’area di trenta-quarantenni attorno a Civati, ma soprattutto da Sel. Vendola non vuole l’accordo col Pdl. «Guardare a destra è un suicidio», ha detto ieri a Bersani. La sua prima scelta è quella di convergere su Rodotà. Ma il governatore pugliese sa bene che l’intesa coi grillini, se ci sarà, non potrà che essere su Prodi. Non subito, però. Per arrivare a quel punto bisogna sabotare l’intesa su Marini. Una missione che appare molto ardua. E anche molto pericolosa per la tenuta del centrosinistra.

il Fatto 18.4.13
Marini, che “bella sorpresa”
Bersani prova a tenere insieme il partito accordandosi con Berlusconi
di Fabrizio d’Esposito


La montagna del Pd, alla fine, non partorisce il topolino Amato ma la Repubblica di San Marini, nel senso di Franco, non Francesco come il nuovo pontefice, pilastro ottantenne della nomenklatura di partito, fatta di postcomunisti e postdemocristiani. A Montecitorio, l’annuncio arriva alle sette di sera, accompagnato dalla relativa Garanzia, con la maiuscola iniziale. Bersani ha appena detto, dopo una faticosa e convulsa giornata di trattative, che “farà un nome secco” all’assemblea dei parlamentari democratici e i deputati presenti ancora alla Camera confermano: “Il nome è Marini e ha già incontrato Berlusconi”. È questa, appunto, la Garanzia dell’inciucio edizione 2013. Marini non solo è un trombato eccellente delle ultime elezioni politiche, cui si è presentato grazie a una deroga alla rottamazione, ma entra Papa in conclave con ben 14 anni di ritardo, come ricorda un furibondo Matteo Renzi, che aveva lo aveva impallinato con una lettera a Repubblica. Era il 1999 e Marini fece un patto con D’Alema: “Tu a Palazzo Chigi io al Quirinale”. Invece l’intesa non fu rispettata e al Colle ci finì Ciampi.
La soluzione Marini è l’ultimo rigurgito dell’oligarchia del Pd, l’epilogo di un ventennio gestito sempre dalle stesse facce. Bersani sfonda e tritura ogni senso del ridicolo quando alle venti, poco prima della riunione dei gruppi democrat al teatro Capranica di Roma, spiazza i cronisti: “Sarà una bella sorpresa”. Suspence. Forse il nome di Marini è un depistaggio, la bella sorpresa non può essere lui. Invece no. È proprio così. Il segretario sale sul podio e spiega ai parlamentari: “Siamo in mare mosso, insieme a una larga coesione servirà esperienza politica, capacità ed esperienza per questo avanzo la candidatura di Franco Marini. Sarà in grado di assicurare la convergenza delle forze politiche di centrodestra e centrosinistra, ha un profilo per essere percepito con un tratto sociale e popolare. È personalità di esperienza con carattere per reggere le onde e con radici nel mondo del lavoro, ed è persona limpida e generosa. Costruttore del centrosinistra”.
TRADOTTO VUOL DIRE: Marini è il male minore per tentare di non spaccare il partito, con D’Alema e Amato sarebbe stato peggio. È la vittoria degli ex dc come Beppe Fioroni. Ma i fatidici mal di pancia non si fanno attendere, grazie ai social network. I primi a sparare sono Renzi e i renziani, che chiedono un voto interno su Marini. Dice il sindaco di Firenze: “Preferisco Rodotà a Marini”. Anche i giovani turchi come Matteo Orfini non sono entusiasti della bella sorpresa che ha compiuto 80 anni il 9 aprile scorso e chiedono tempo: “Aggiorniamo la riunione”. I prodiani sono furiosi come i renziani. Minaccia Sandra Zampa: “Non voterò mai Marini”. Figuriamoci i filogrillini come Pippo Civati, quasi tentato di non andare all’assemblea per protesta. Dov’è il paravento dell’unità e della condivisione dietro cui Bersani nasconde il candidato Marini? Fuori il recinto del Pd non va tanto meglio. Vendola di Sel, che ha lavorato tutto il giorno per Rodotà, fa sapere che deciderà stamattina. La Lega di Maroni è possibilista ma ufficialmente voterà una propria parlamentare. Dubbi persino tra i centristi di Scelta Civica. Tutti indizi, questi, che portano in una sola direzione: l’accordo di Bersani e della ritrovata nomenklatura del Pd, che aveva sopportato senza fiatare gli schiaffi di Grillo, con l’impresentabile Berlusconi. Tra Bersani e il Cavaliere, tra voci di telefonate e incontri segreti tra i due, è rimbalzata una rosa di cinque nomi, di cui i primi tre veri candidati: Amato, D’Alema, Marini, Finocchiaro, Mattarella. B. avrebbe preferito Amato o D’Alema ma di fronte al diktat bersaniano sulla sopravvivenza del Pd e sulla necessità di isolare Renzi (sponsor di Amato e in seconda battuta di D’Alema) ha accettato l’anziano ex leader della Cisl, con una lunga militanza nella Democrazia cristiana. I due, Berlusconi e Marini, si sarebbero pure incontrati nella mattinata di ieri, presente anche Gianni Letta, abruzzese come il candidato del nuovo inciucio. In serata, il capo del centrodestra spiega così la scelta ai parlamentari del Pdl: “Marini è una persona che conosciamo da tempo, non ha militato nelle nostre file, ma viene dal popolo, lo conosciamo da tanto tempo come segretario della Cisl, sindacato legato alla Dc. Sindacato capace e di buone autonomie. È stato presidente del Senato e con lui Schifani ha avuto degli ottimi rapporti”.
Berlusconi, però, ai suoi fa anche un avvertimento: “Attenzione, non è detto che vada bene tutto al primo voto”. I sospetti sono concentrati sui franchi tiratori del centrosinistra che potrebbero sabotare l’intesa. Qualcuno, tra Pd e Pdl, pronostica pure l’ipotesi di bruciare Marini per far salire il vero candidato dell’inciucio: Massimo D’Alema. Tutto da vedere. Così come la seconda parte dell’intesa: cioè il tipo di governo che nascerà con Marini al Quirinale. Bersani, in assemblea, ha negato un intreccio tra Colle e Palazzo Chigi, ma circolano già le varie formule di esecutivo. La più gettonata è un governo di scopo, che duri da uno a due anni, magari guidato dallo stesso Bersani e senza un impegno diretto del Pdl nella compagine dei ministri. In ogni caso l’inciucio nasce oggi. Il resto verrà da sé.

il Fatto 18.4.13
“Addio Pd” rivolta non solo in rete
Sulla pagina Facebook del segretario appelli a ripensarci
Contrari anche i neo eletti
di Wanda Marra


Marini? Non lo votiamo”. Matteo Renzi l’aveva già detto e lo ribadisce a scelta ancora non ufficializzata. “Non si fa un piacere al Paese”, dice poi alle “Invasioni barbariche”, mentre Bersani annuncia ai gruppi riuniti in plenaria la “bella sorpresa” (parole sue), accolta con pochissimi applausi. Quello dei renziani è il malumore più compatto. Ma le dichiarazioni contrarie dei parlamentari Democratici e della cosiddetta “base” non si contano. “Ho perso. O forse ha perso il Pd. O forse c’è ancora modo di evitare un errore che la Bicamerale era Disneyland, al confronto”. Pippo Civati posta questo commento sul suo blog subito dopo che il nome di Franco Marini è diventato praticamente ufficiale. Commenta un accorato Stefano Ragusa: “Mi dispiace. Abbiamo perso. Addio PD. ” L’altra voce tempestiva è quella di Ezio Mauro, che schiera Repubblica contro la scelta del segretario democratico: “#Quirinale, avevamo chiesto al Pd una scelta autonoma per un nome degno. Non c'è autonomia e non c'è il nome”.
IL NOME Marini arriva come una doccia gelata su moltissimi elettori democratici. I commenti sulla pagina Facebook di Bersani sono feroci: “lo so che il mio voto non fa la differenza. se il pd dovresse votare amato (36.000 euro di pensioni varie), d'alema bocciato alle urne (non ammesso) e marini bocciato dagli elettori, sicuramente non vi voterò più e inviterò i miei amici a fare altrettanto. Ci pensi segretario passare alla storia per quello che ha resuscitato il nanetto non è certo piacevole”, scrive Anna Marchini. Ci sono le minacce. Caterina Grisorio: “Non potete ricordarvi di noi solo per le primarie per le elezioni o per fare volontariato sole pioggia o .... neve! pensate bene a quello che vorrà dire il vostro voto.... Rodotà senza se e senza ma! ”. Poi le richieste. Scario Lante: “Rodotà... capito PB? Guai se non lo eleggete”. E le preghiere. Monica Salsi: “Scegliete Rodotà, fareste un grande favore all'Italia e in tantissimi te ne saremmo riconoscenti! Non ci deludere adesso!!!! ”. Ma Bersani è pronto a deluderli i suoi elettori. Nonostante i social network tutti - non solo Facebook, ma anche Twitter - siano pieni di commenti contrari. Nonostante il mail bombing che ha preso di mira le caselle di posta dei parlamentari democratici. Centinaia di messaggi ad ognuno, con il testo: “Caro deputato, vota Rodotà presidente”. Una iniziativa, con mittenti singoli, non noti e non direttamente riconducibili a qualcuno. Nonostante la manifestazione di ieri davanti al cinema Capranica con lo slogan: “Se non votate Rodotà non vi rivotiamo”. Usano i social network anche molti parlamentari Pd. Se è per la Madia: “Non solo i renziani non lo voteranno”. E per la prodiana Zampa: “Non voterò mai Franco Marini”. Mentre Marco Di Maio, neo eletto ventotettene, affida a Facebook la sua dichiarazione di voto per Prodi. Un dissenso che si allarga via via che la serata procede. Una quarantina di neodeputati under 40 ieri pomeriggio ha cercato di fare una riunione autonoma. Il capogruppo Speranza li ha bloccati. Temeva dissensi. Anche perché loro - non abituati alle dinamiche distorte dei Palazzi romani - volevano discutere, ognuno con il suo candidato: Prodi o Rodotà, Amato o D’Alema. Molti non voteranno Marini.

il Fatto 18.4.13
Ma i franchi tiratori sono pronti a sparare sul lupo marsicano
Sessanta renziani bastano e avanzano per bloccare l’elezione al Colle dell’ex sindacalista
E tra i democratici non sono gli unici a dissentire
di Antonello Caporale


Non sono franchi, ma santi tiratori. I corpi immobili che ieri dondolavano nel Transatlantico in attesa di conoscere chi diavolo votare, su quale faccina mettere la croce, oggi trasformeranno la matita in freccia e inizieranno il tiro al bersaglio contro Franco Marini, vittima – forse inconsapevole – di una ribellione imprevedibile in queste dimensioni che forse lo trasformerà da annunciato Papa in cardinale. Candidato di bandiera, bruciato e poi dimenticato. Forse. Se la dissidenza nel Pd superasse i 54 grandi elettori (solo i renziani sono una sessantina) Marini non potrà essere eletto nei primi tre scrutini. Non è tanto e non è solo Matteo Renzi, che pure conta nel Pd qualche grande elettore, ad aver innescato la più potente e schierata falange di contrari, di coloro che a viso aperto diranno no e no. Sotto la cenere covava il sentimento e il risentimento, la voglia di rompere le righe e il desiderio di affermare una novità. Che è anche questione anagrafica. “Il Parlamento non è più quello che ricorda Bersani. Ho 47 anni e sono nella media dell’età, ma quando stamane ho incontrato un signore anziano (che poi ho riconosciuto come mio collega) mi è venuto da pensare a lui come a uno dello scorso secolo, di una storia passata e finita. In aula diremo tanti no, e li diremo ad alta voce. Io voterò Bonino”, annuncia Ivan Scalfarotto. Ecco la conversione antropologica del franco tiratore, omino nascosto dietro la segretezza del voto, potente velato, tiratore per scelta cinica non per amor di patria.
ALLE QUATTRO del pomeriggio treni e aerei trasportano nella Capitale il primo battaglione di delegati regionali. Alla Camera arriva un gruppo di pingui e attempate signore lucane, dalla Campania c’è il presidente Stefano Caldoro che attende. Ecco il lombardo Maroni, fantuttone leghista: presiede la giunta e presiede il partito. Comanda di qua e di là come del resto aveva smentito: “Se vinco le regionali mi dimetto da segretario”. S’è visto. Toh! Seduto sul divano Vladimiro Crisafulli, anziano portavo-ti siciliano, bruciato dalla sicura rielezione per un problema di presentabilità. Il Pd l’ha candidato e poi rimosso. Un po’ simile a quel che aspetta Marini. Sarà sulla graticola per due giorni e poi? I parlamentari sembrano tronchi d’albero buttati nella piena di un fiume. Vanno dove li porta la corrente. “E dove? ”, chiede la deputata Ferrante, già pubblico ministero, da due legislature rappresentante del Pd. E boh! “Io non so, si dice Marini. Certo Rodotà non lo voto. Neanche se mi tagliano tutt’e due le mani”, garantisce Marina Sereni. Dipende sempre da dove ti metti nel Transatlantico per illustrare la scena. Quelli laggiù, i berlusconiani, non fiateranno.
Ognuno farà quel che prescrive l’intesa. Il capo ha detto Marini, ed è piatto ottimo e abbondante. Non è un caso che l’unico corpo monolitico sia la formazione, il Pdl, che si dice liberale, che è contraria agli intruppamenti. È la realtà che sta rivoltando le basi dell’aritmetica, ed è un mistero come Bersani faccia fatica a coglierne il senso che oramai lo circonda. “Noi di Sel siamo per Rodotà. Punto. Solo un pazzo non comprende perchè le larghe intese debbano intendersi come un accordo con un trenta per cento della rappresentanza parlamentare lasciando senza intesa l’altro trenta. Io per esempio, voglio le larghe intese con il M5S”, spiega Nicopla Fratoianni, lato Vendola.
“IO MARINI non lo voto”, statuisce con un tweet Edoardo Nesi, scrittore facente parte di Scelta civica, formazione di centro. Tweet a cui ha aderito Andrea Romano, altro centrista. “Ma siamo pazzi? Ma è un sogno o un incubo questo nome? ”, domanda incredulo Pippo Civati. Tanti tiratori, di ogni colore e camicia. “I franchi tiratori hanno sempre salvato l’Italia”, dice Walter Tocci. Renzi è un diluvio, attacca che è una meraviglia. Dal Friuli la Deborah Serracchiani, che si gioca il voto regionale previsto per domenica, si dispera. Rosy Bindi, persino lei, risulta imbambolata, inabile a fornire una logica, un senso compiuto alla scelta di Bersani: “Se Marini sarà il presidente delle larghe intese non sarà il mio presidente”. L’impressione è che serviranno più notti del previsto, e più coltelli di quelli appena sfoderati. L’elezione del Quirinale è, del resto, dentro la storica cornice dell’impallinamento. Tenete a portata di mano un pallottoliere, ci sarà da divertirsi.

il Fatto 18.4.13
Lo scacco matto del Movimento “Perché dite no a Rodotà?”
Si ritirano Gabanelli e Strada, in corsa l’ex presidente Pds
di Emiliano Liuzzi e Paola Zanca


Mandate un messaggino a Vito, lo deve sapere!!! ”. Nella stanza dello staff comunicazione del Senato, appena il blog pubblica quelle tre righe che segnano lo “scacco matto”, scatta la corsa a chiamare il capogruppo. È là, riunito con i presidenti degli altri parlamentari, stanno decidendo il calendario dei lavori di oggi, non può non sapere che nel frattempo Milena Gabanelli ha rinunciato, Gino Strada ha preferito Rodotà e la classifica delle Quirinarie è scorsa giù, fino al nome che incastra il Pd. Eppure, un minuto dopo Vito Crimi compare al secondo piano di palazzo Madama. Cammina svelto sul velluto rosso, abbraccia le persone che incrocia, è raggiante. E con il Pd ci ha già parlato. Prima che la notizia finisse sul blog, è stato avvertito del nuovo nome. E così, di fronte a Luigi Zanda che gli chiedeva lumi, ha potuto sfoggiare l'asso nella manica: noi, come Capo dello Stato, scegliamo il primo presidente del Pds. Una bomba, un miracolo. Che oggi, oltre ai 163 voti dei grillini eletti, ne dovrebbe prendere quasi un altro centinaio: i 47 di SeL, altrettanti “dissidenti” del Pd. Non basteranno, però.
I CINQUE STELLE lo capiscono quando nel cortile di Montecitorio sta scendendo il tramonto. Il nome di Franco Marini comincia a passare di telefonino in telefonino. Beppe Grillo a quell’ora è a Pordenone, davanti a una piazza piena: “Quando mi hanno detto Marini, ho pensato: Valeria? Non pensavo avesse fatto la sindacalista”. Scherza, si scatena. Poi si fa serio: “Vi rendete conto che hanno scelto un nome chiusi in una stanza? Lo propone il Pd, lo voteranno quelli del Pdl. Sono spacciati”. Era entusiasta, fino a pochi minuti prima, quando descriveva il candidato dei Cinque Stelle, “un signore di 80 anni, capace di emozionarsi come un ragazzino”. Qualcuno, da sotto il palco, gli urla che è troppo vecchio. Lui risponde: “Arriveremo anche a un giovane. Sì è vero. Forse è troppo vecchio, ma ci arriveremo. Forse era presto per qualcuno di più giovane. Ci stiamo lavorando. Dateci tempo”. Poi si interrompe un attimo, ci ripensa, e rivolto al pubblico: “Se è per questo anch’io sono troppo vecchio, non dovrei essere qui a parlare su questo palco, dovrebbe esserci un ragazzo di vent’anni. Ma succederà. Fidatevi succederà, ma da qualche parte dovevamo pur cominciare”.
Dalle parti dei democratici sembravano aver apprezzato. Tutti a balbettare, di fronte a quel nome così vicino a loro. Tutti a sgranare gli occhi, di fronte alle centinaia di mail che hanno inondato le caselle di posta dei parlamentari Pd chiedendo di votare Rodotà. Qualcuno sospetta che dietro il mail bombing ci sia la mano di Gianroberto Casaleggio. Pippo Civati sbrocca: “Ma non l'avete ancora capito che sono i nostri elettori?! ”. Il pressing è stato insistente per tutto il giorno. Lo stesso Ci-vati ha parlato con i grillini Tommaso Currò e Alessandro Di Battista. Il Cinque Stelle Roberto Fico, invece, si è rivolto ai giovani del Pd e di Sel: “Non esiste un solo motivo valido per non votarlo, se non i giochi di palazzo, gli inciuci, gli equilibri, insomma la vecchia politica che ha caratterizzato gli ultimi vent'anni”. Grillo, dal Friuli, intanto sta dicendo raccontando di quando è andato al Quirinale per le consultazioni: “I corazzieri mi strizzavano l’occhio, stavano dalla mia parte. Quello che abbiamo iniziato non lo fermano più, sono gli ultimi colpi che sparano”.
SE SARÀ davvero Marini, lo scopriremo solo oggi. Non è ancora detto che i Cinque Stelle non si trovino davanti al dilemma più duro. Quello di un nome che non è Rodotà, ma che non è nemmeno quello dell’inciucio. Un Romano Prodi, per esempio. Due sere fa, in assemblea, gli eletti del Movimento hanno discusso anche di questa eventualità. Non si sono contati, ma si sono già divisi. Dare al Paese un presidente di alto profilo o rimanere fedeli al codice di comportamento firmato prima delle elezioni? È più grave la responsabilità di mandare al Colle per sette anni l’uomo “sbagliato” o pesa di più il tradimento dell’accordo fatto con il popolo delle Quirinarie? Se mai si dovesse arrivare a rispondere a queste domande, il verdetto verrà affidato a una riunione tra la terza e la quarta votazione. Se a qualcuno restano dubbi, in Aula, c’è sempre il voto segreto.

il Fatto 18.4.13
Appello a Pd e Sel Il candidato 5 Stelle
Non abbiate paura Votate per lui, è un uomo vostro


Chiediamo ai deputati e alla direzione del Partito Democratico di rompere ogni indugio e di votare fin dal primo scrutinio, per la Presidenza della Repubblica, Stefano Rodotà. Beppe Grillo ha annunciato che sarà lui il candidato del Movimento 5 Stelle, e allo stesso modo si è pronunciato Sel, organicamente legato al Pd e il cui parere non può in alcun modo esser trascurato dai Democratici. Stefano Rodotà è per la maggior parte degli italiani, e certamente per il vostro elettorato, un punto di riferimento ideale.
HA COME BUSSOLA costante la Costituzione italiana e la Carta dei diritti europei, ha sempre avversato i compromessi con la corruzione, è uno dei più strenui difensori della libertà dell’informazione, compresa la libertà conquistata ed esercitata in rete. È un segno altamente positivo che il Movimento 5 Stelle l’abbia scelto come proprio candidato, ma Stefano Rodotà non è una sua invenzione. Il suo profilo è improntato a massima indipendenza, e le sue radici sono anche nella storia migliore della sinistra italiana. Non abbiate paura, votatelo con convinzione e fin da subito: sarete molto più credibili e forti se non tergiverserete, presi da timori di varia natura, e non accetterete in nessun caso candidati che dovessero nascere da un accordo con Berlusconi.
Ve lo chiediamo da cittadini, convinti che non sia ancora troppo tardi: non riconsegnate l’Italia al tragico ventennio dal quale cerchiamo faticosamente di uscire. Abbiate il coraggio di cominciare a costruire un futuro diverso. Il momento è ora.

Remo Bodei
Salvatore Settis
Tomaso Montanari
Michele Serra
Barbara Spinelli
Roberta De Monticelli

il Fatto 18.4.13
Risponde Furio Colombo
Il Quirinale dei Cinque Stelle


CARO COLOMBO, non le sembra che i nomi indicati dai 43 mila Cinque Stelle nelle loro quirinarie vadano votati subito?
Adriano

GABANELLI, Strada, Rodotà, Zagrebelsky, Imposimato, Bonino, Caselli, Prodi e Fo non possono essere votati tutti insieme, ma tutti insieme rappresentano un fior d’Italia di cui andare fieri almeno quanto gli americani quando hanno scoperto Barak Obama. La cosa che colpisce di più, in una folla di elettori (piccola, è stato detto, ma certamente un mega sondaggio) è che ciascun nome indicato ha tutto il valore e tutti i titoli e tutta la storia personale per ricoprire con onore e bravura il ruolo per il quale tanti maxi esperti della politica sembrano intenti a cercare, contraddicendosi e ritirandosi in lunghe, segrete riunioni. Anche se prendete i nomi secondo la classifica che ci è stata comunicata, avete un risultato grandioso. L'inclusione della Gabanelli fa onore ai vo-tanti non tanto per il primo posto (la sua visibilità è grandissima) quanto per il fatto di averci pensato. In giorni come questi si dicono tanti nomi anche di valore. Qui c'è stata una scelta specifica in base a una specifica capacità di saper rappresentare i fatti veri. È stato apprezzato e premiato un merito rarissimo. La presenza di Emma Bonino mostra la stabilità dell'orientamento di questi votanti. L'avevano detto prima e l'hanno fatto dopo, prendendo come motivazione ciò che sanno e ciò che ricordano personal-mente. Hanno tenuto duro su Prodi accettando soprattutto il grido di Berlusconi ("Prodi mai!") una vera e propria lettera di raccomandazione. Non devo dire di Fo, che fa onore comunque e fa parte della casata. Ma la scelta dei giuristi dimostra, con coraggio e intelligenza che, volendo, tutto il meglio è disponibile. Certo che i votanti Cinque Stelle conoscono bene, come ogni italiano, Rodotà e Zagrebelsky. Ma proprio per questo hanno avuto coraggio. Niente in loro (Rodota e Zagrebelsky) assomiglia alla politica così come la conosciamo, benché Rodotà sia stato anche senatore (dimostrando che la casta non coincide col Parlamento e viceversa). Ma Caselli è una vera sfida agli infiniti dibattiti su giudici, Stato e mafia. È un grande simbolo. E Ferdinando Imposimato dimostra che, anche se la fama (grande e meritata, giuridica e politica) e la celebrità non coincidono, ci sono italiani che conoscono e riconoscono. Il curriculum di Imposimato è segnato di rischio e di coraggio, l'esposizione mediatica è minima. Ma i vo-tanti Cinque Stelle si sono orientati guardando ai fatti, non poco per la vita pubblica che viviamo, quasi del tutto falsificata. Forse Grillo ha teso una trappola. Mette Rodotà in testa e la squadra a disposizione e sfida i suoi rivali politici: “Avanti, dite di no, se potete”. Niente impedisce di fare un sogno. Che il Pd cada a occhi chiusi nella “trappola” e l'Europa si volti a guardarci con ammirato stupore.

La Stampa 18.4.13
La tempesta perfetta del partito
In un solo colpo il partito è riuscito a rinnegare il suo passato e il suo futuro
Questa elezione sarebbe l’ultima vittoria del “vecchio Pd”
Le nuove leve convinte che i dirigenti difendono solo la propria roccaforte
di Federico Geremicca


È un partito ben strano quel partito che nel passaggio più delicato di questa confusa e interminabile fase di postvoto, riesce a ferire e mortificare contemporaneamente il suo passato, il suo presente e il suo futuro. E però è precisamente quanto accaduto ieri al Pd nell’arco di una giornata dura e tesa, conclusasi con l’indicazione di Franco Marini per il Quirinale, tra la rabbia e la protesta della base scatenatasi sul web. I big del Pd sembrano sempre più lontani dall’ala più giovane del partito. Ma anche tra i leader ci sono distinguo Bindi, nella foto tra Franceschini e Bersani, ha dichiarato che se Marini è il presidente delle larghe intese, non sarà il suo
E’ furioso Matteo Renzi, cioè il futuro del Pd, il leader che domani dovrebbe e potrebbe riportarlo alla vittoria, secondo un giudizio che però pare radicato sempre più fuori che dentro il partito; è scettico e perplesso il presente del Pd, con Ignazio Marino (candidato sindaco a Roma) contrario all’indicazione di Marini, la candidata governatore in Friuli (Debora Serracchiani) che punta l’indice contro «una scelta gravissima» e la tenuta della coalizioni cioè il rapporto con Sel - che rischia di andare in frantumi; ed è probabilmente assai turbato (per usare un eufemismo) il passato del Partito Democratico, cioè il professor Romano Prodi, visto che Sandra Zampa, deputata da sempre a lui assai vicina, annuncia: «Non voterò mai per Marini, è l’uomo che ha distrutto il governo ulivista, il più amato di questi venti anni».
Il quadro è pesante, il barometro indica burrasca e gli effetti di tanto nervosismo rischiano di deflagrare già stamane nella prima votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica. A fronte dei 672 voti necessari per essere eletti (maggioranza dei due terzi nelle prime tre votazioni) Franco Marini dispone sulla carta di 739 voti. Ma sulla carta, appunto. Il margine di vantaggio è esiguo: una settantina di voti scarsi. E considerato che i renziani, parte dei giovani turchi, i prodiani e perfino molti veltroniani potrebbero non votare per Marini, si vede bene come la partita sia ad altissimo rischio per il candidato-presidente e per l’intero stato maggiore del Pd. Se ne è avuta una avvisaglia già ieri sera, nel voto con il quale i grandi elettori del Partito democratico hanno dato il via libera al nome di Marini: solo 222 i sì (su un totale, ma molti erano gli assenti, di 436).
La base in subbuglio, i giovani del partito in rivolta, Vendola che chiude la serata dicendo «se insistessero su Marini mi metterei di traverso e sarebbe la fine del centrosinistra»; e in più, gruppi di militanti arrabbiati davanti al teatro dove i grandi elettori davano l’ok alla candidatura di Marini. La giornata, insomma, si chiude peggio di come fosse cominciata: tanto che a sera tarda erano davvero in pochissimi disposti a giurare che Franco Marini sarà eletto - già stamane - Presidente della Repubblica. Un fallimento farebbe ripiombare la situazione nel caos più completo: e mostrerebbe una volta di più le difficoltà in cui si trovano le vecchie leadership.
Infatti è difficile sfuggire alla sensazione che - a dirlo con approssimazione - intorno alla partita dell’elezione del Capo dello Stato si sia giocato all’interno del Pd uno scontro durissimo tra «vecchi» e «giovani». Non è questione che riguardi solo il lungo duello Bersani-Renzi, perché la sensazione è che molte altre energie giovani comincino a scalpitare, insofferenti alle vecchie leadership. Se Franco Marini oggi dovesse farcela, potremmo esser però di fronte a quella che si potrebbe definire l’ultima vittoria del «vecchio Pd», di un gruppo dirigente - cioè - che fa quadrato, difende le proprie roccaforti e impone scelte che i «giovani» non sono più disposti ad accettare senza discutere e senza votare. Se Franco Marini dovesse invece soccombere sotto i colpi dei «franchi tiratori», è chiaro che la resa dei conti all’interno del Pd non potrebbe che esser accelerata, attraverso percorsi e atti perfino traumatici.
Oggi si capirà da che parte soffia il vento, e il rischio è che soffi così forte da far tornare in alto mare la soluzione dei doppio rebus (Quirinale-governo) che da quasi due mesi ormai paralizza la vita politica e le istituzioni del Paese. Per altro, di governo si continua a non parlare. A meno che, come ipotizzano Vendola e i critici verso un possibile accordo con Berlusconi, il patto stipulato da Bersani per Marini al Quirinale, non preveda un esecutivo di larghe intese col Cavaliere. Fosse così, però, la tenuta del Pd sarebbe davvero a rischio. Tanto che perfino una sostenitrice dichiarata di Marini, come Rosy Bindi, avverte che «se lui fosse il Presidente delle larghe intese, non sarebbe il mio Presidente»...

La Stampa 18.4.13
E la folla urla “traditori, traditori”
di Carlo Bertini


Due ore dopo l’annuncio urbi et orbi di Bersani, la fotografia di un Pd balcanizzato si materializza nella sua devastante chiarezza, la conta finisce 222 a 90 con 21 astensioni, 150 assenti e la folla fuori urla «traditori, traditori».
Il fronte dei contrari a viso aperto a Marini già annovera renziani, vendoliani, metà dei «giovani turchi», prodiani e veltroniani. Il silenzio imbarazzato quanto eloquente di lettiani e dalemiani accompagna un esito dagli esiti imprevedibili e che certifica la netta spaccatura dei 490 e passa grandi elettori di centrosinistra.
«Ora si apre una partita tutta interna nel Pd e Bersani si gioca l’osso del collo», scuote la testa un dirigente poco prima del fischio di inizio previsto alle 21 con la comunicazione del nome prescelto e frutto di intesa con Pdl e Scelta Civica. Il terrore che nello spazio di una notte le truppe di franchi tiratori lievitino è concreto, il dissenso del resto è palese e il fantasma di un flop si materializza tra le mura del Teatro Capranica dove son riuniti i grandi elettori di Pd e Sel. Gelo, nè applausi, nè buuh, un silenzio tombale saluta la novella dell’accordo col Pdl sul Colle. Anzi subito parte la contraerea. Vendola boccia una scelta che «sarebbe la fine del centrosinistra»; e arriva al punto di difendere Renzi, dicendo che non si può rompere con lui. Civati «da elettore e non da dirigente» riporta l’umore del Paese, molti «ragazzi», cioè i più giovani deputati, raccontano di ricevere mail contrarie dagli elettori.
Da ore le truppe sono in subbuglio. A Otto e mezzo la Bindi ha già lanciato il suo vaticinio, «se Franco Marini fosse il Presidente delle larghe intese, non sarebbe il mio presidente». Anche il candidato per il Campidoglio, Ignazio Marino lo boccia via twitter, perché «non può rappresentare l’Italia di oggi e di domani». I renziani lo prendono come un atto di ostilità politica, «è uno sgarbo a Renzi», scandisce Andrea Marcucci dal palco del Capranica, chiedendo che la riunione si concluda con un voto segreto. Il clima si infuoca, la platea rumoreggia. I prodiani non ne vogliono sapere e sono pronti alla diserzione, «non voterò mai Marini, è l’uomo che ha distrutto il governo ulivista», promette Sandra Zampa, portavoce di Prodi. I dalemiani non escono allo scoperto ma non è un mistero che non gradiscano e non disperano in un ripescaggio di D’Alema se Marini non passasse le forche caudine.
In un partito così balcanizzato le correnti stesse sono dilaniate al loro interno. I «giovani turchi» sono divisi, l’ala più «sindacalista» benedice la scelta, gli altri no: Stefano Fassina lo considera un buon candidato, «io lo voto», Orfini no e dà battaglia contro una decisione che spacca il partito. Tutti gli under 40 sono sulle barricate, ad un certo punto del pomeriggio si riuniscono, la Madia fa sapere che «non solo i renziani non lo voteranno».
Vendola è infuriato, nel pomeriggio Bersani prova a convincerlo ma lui voterebbe Rodotà insieme ai grillini. Soluzione gradita a molti giovani Dem più sensibili al richiamo del «nuovo» e più timorosi delle accuse di inciucio che da qui in avanti pioveranno addosso a tutti i piddì. Da ore sui social network esce fuori ogni tipo di maldipancia: e non sono solo i vendoliani a nutrire il sospetto che un accordo col Pdl sia prodromo di una qualche forma di governissimo...
Bersani lo sa e si riunisce a casa di Enrico Letta con la cerchia più ristretta, Franceschini, Errani e Migliavacca. Dalla mattina tiene i contatti diretti con Berlusconi, di prima mattina il leader Pd scopre le carte: una rosa di nomi con Amato, Marini, D’Alema e Sergio Mattarella, da sottoporre al vaglio del partito del Cavaliere. Ma il segnale che per gli ex Dc il primo round della partita può considerarsi vinto è il volto rubizzo di Beppe Fioroni che, quando molti ancora danno per certo un voto su Amato al primo scrutinio, finge di esser sconfitto, sapendo invece di esser sul punto di vincere la prima battaglia. Senza facili entusiasmi, come la vecchia scuola insegna, perché oggi sarà il giorno della verità.

La Stampa 18.4.13
Gli under 40 sulle barricate “Così perderemo sempre”
L’obiettivo era la convergenza con il M5S su Rodotà
La base si ribella
Insulti su twitter e agli onorevoli: «Domani scendiamo in piazza»
di Andrea Malaguti


Non saranno solo i renziani che non voteranno il candidato Franco Marini Marianna Madia Giovane deputata del Partito Democratico Marini? Un errore molto grave. Lo stimo, ma penso che il Paese abbia bisogno di un’altra persona Debora Serracchiani Deputata al Parlamento Europeo per il Partito Democratico Sono nettamente contrario alla candidatura di Marini e soprattutto allo schema delle intese con il Pdl Giuseppe Civati Membro del consiglio nazionale del Partito Democratico
Poi, alle sette di sera, nel cortile della Camera, il mondo si ribalta. È il tempo che va al contrario, direzione passato, immutabile orizzonte della politica di sempre. Il telefono del piddino Pippo Civati squilla impazzito. Lui ascolta. Sbianca. Si appoggia alla panchina verde con la testa bassa, come se gli avessero tirato una martellata alla nuca. «Marini? Il candidato del secolo scorso? Dopo non cominciamo con le analisi sul perché perdiamo voti». I suoi uomini - «la non corrente», la chiama - si sparpagliano sotto i gazebo. «Chi è disposto a dire no assieme a noi? ». Fronda. Riempiono i block notes di nomi. E per la prima volta, fisicamente, un pezzo giovane di Pd si fonde con i parlamentari Cinque Stelle con un riflesso quasi involontario. Calamitati gli uni dagli altri, pesci dello stesso mare. Adesso, quando forse è troppo tardi. «Che cosa è successo? Come possiamo rimediare a questo incubo? ». Già, che cosa è successo?
Si sono annusati tutto il giorno gli ultimi arrivati del Pd - «il 60% di noi è all’esordio a Montecitorio» - e i dialoganti del MoVimento. Un gruppo disomogeneo che mette assieme almeno un centinaio di persone. Era stato proprio Civati, al mattino, a fermare in Transatlantico Tommaso Currò, il primo grillino a reclamare il dialogo con il centrosinistra. «La contaminazione tra noi e voi è necessaria», aveva detto Currò. E Civati: «Sì. Ma non fatevi prendere dal panico. Parliamo. Perché se voi ci considerate appestati, noi finiamo per considerarvi allo stesso modo». Noi e voi. Insieme. Erano ancora le ore in cui sembrava che fosse Milena Gabanelli la candidata Cinque Stelle al Quirinale. Lo schema era chiaro e piaceva persino a Grillo e ai suoi talebani. Ai primi tre turni il Movimento avrebbe indicato la giornalista. Quindi, alla votazione decisiva, avrebbe riversato i propri consensi sull’uomo Pd, presumibilmente Romano Prodi.
Poco dopo - mentre Casaleggio raccontava ai suoi uomini al Senato che una candidatura di Amato o di D’Alema avrebbe messo a repentaglio la pace sociale - la Gabanelli si sarebbe tolta volontariamente dalla corsa e lo stesso avrebbe fatto Gino Strada, forse consigliato dal papa ligure, che in questo gioco dei dinieghi si sarebbe ritrovato così con il jolly in tasca. Il terzo classificato delle Quirinarie, l’ex vicepresidente Pds della Camera Stefano Rodotà, un nome irrinunciabile. Lo schema Grasso-Boldrini rovesciato. Un uomo prestigioso, riconosciuto e d’area, a cui il Pd non avrebbe potuto dire di no. «Chi è in trappola adesso? Gli diamo l’ennesima possibilità di spazzare via Berlusconi». Possibilità respinta. Bersani e Berlusconi stavano organizzando un destino diverso.
Alla notizia della scelta Marini il popolo inquieto del Pd si scatenava su twitter. «Una vergogna. Fate schifo. Non vi voteremo mai più. Domani scendiamo in piazza per Rodotà». E la piddina Maria Chiara Gadda mostrava imbarazzata il suo cellulare pieno di insulti della base, mentre i colleghi Luca Pastorino e Alessia Rotta si infilavano in dialoghi fitti con i Cinque Stelle veneti, siciliani e friulani. «Tra noi, voi e Sel siamo almeno 250. Impediamo questo disastro». Il cittadino-parlamentare Girolamo Pisano alzava le spalle disarmato. «Rodotà era il loro candidato. Significa che vogliono stare col Pdl». «Vediamo quello che succede alla Camera», lo tranquillizzava Luigi Di Maio. Sarà lui a presiedere la seduta stamattina. E si aspetta nuove sorprese dai peones silenziosi. Quelli scriverebbe Carrére - che in un museo guardano il nome sulla targhetta prima del quadro per sapere se devono andare in estasi. Tocca a loro riscrivere la storia?

La Stampa 18.4.13
Il peso del fattore “vecchia Dc”
di Marcello Sorgi


La corsa al Quirinale, si sa, è tradizionalmente ricca di colpi di scena, e la tela che si fa di giorno, si disfa la notte. Questa per il dodicesimo Presidente, poi, è una trattativa così difficile e impervia, per il risultato sterile delle urne del 25 febbraio, che c’è poco da scommettere su come finirà. Ma se davvero sarà Franco Marini ad essere eletto Presidente della Repubblica, questa mattina alla prima votazione delle Camere riunite, si potrà dire, a ragion veduta, che a vincere, o a rivincere, è la vecchia Dc. Parafrasando il grande Luigi Pintor, fondatore del «manifesto», che esattamente trent’anni fa titolò speranzoso «non moriremo democristiani», a denti stretti si dovrà ammettere che sarà proprio grazie ai democristiani, invece, se anche stavolta sopravviveremo.
La ragione di questa conclusione che ieri notte, va detto, è stata quasi capovolta nell’assemblea dei grandi elettori Pd e rifiutata da Vendola - è molto semplice: in mezzo a un mare di suoi colleghi, intenti, chi per dilettantismo e chi per risentimento, a farsi una guerra senza esclusione di colpi, Marini, senza muovere un dito, come insegna la più antica scuola Dc, ha infilzato uno dopo l’altro i suoi concorrenti. A far fuori Prodi, il suo più insidioso rivale, ci hanno pensato Berlusconi e Grillo. Di eliminare Amato, che fino a martedì sera era in pole position, se ne sono fatti carico Rosy Bindi e i prodiani. D’Alema, pur non dichiaratamente, aveva contro Bersani, perché un comunista al Quirinale avrebbe sbarrato al leader del Pd la strada per Palazzo Chigi. E con il suo attacco frontale contro la Finocchiaro e lo stesso Marini, Renzi ha sortito l’effetto opposto. Quanto a Berlusconi, avrebbe votato chiunque, l’ha detto fin dal primo momento, pur di non andare all’opposizione. Servirgli su un piatto d’argento il candidato Marini, legato a Gianni Letta dalle comuni radici e da una consuetudine inossidabile, è stato un altro capolavoro del leader Pd, che oggi rischia di essere contraddetto dai suoi parlamentari. Bersani, d’altra parte, non poteva fare altro. La strada dell’intesa con i 5 Stelle s’era chiusa con il tentativo fallito di farci insieme un governo. E se Grillo avesse voluto riaprirla, doveva gigioneggiare un po’ meno, e smetterla di giocare per due giorni con la Gabanelli. Quanto ai professori, ai tecnici e agli alti magistrati che si sono affacciati nella trattativa, da Cassese, a Mattarella a De Rita, entrando e uscendo dalle molte rose circolate in questi giorni, avevano quasi tutti in comune una caratteristica e un limite: o erano democristiani o parademocristiani. Ma tra un Dc surgelato o spedito in pensione, e uno genuinamente ancora in servizio, come Marini, non c’era match. Bersani, come titolare della trattativa, ha pensato che questa fosse l’unica via d’uscita. Senza tener conto degli umori ribollenti delle varie anime del suo partito che sono esplosi nella notte e adesso puntano a sconfessare l’intesa siglata dal segretario.
Diceva Giulio Andreotti, suo mentore e avversario nell’epica battaglia per la presidenza del Senato, l’ultima combattuta dal Divo Giulio: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi! ». Marini, già leader sindacale, ministro, segretario del Ppi, con un soprannome, «lupo marsicano», che tradisce le sue radici abruzzesi, quel viale non ha fatto in tempo a imboccarlo, che subito è stato richiamato in servizio. Eppure, come erede della grande tradizione scudocrociata, Franco il lupo, che ha appena compiuto ottant’anni, occorre riconoscerlo, è un po’ anomalo. Gran parte della carriera, infatti, l’ha costruita nella Cisl, che ha guidato per sei anni, dal 1985 al ’91, in tempo per ereditare, alla morte di Carlo Donat-Cattin, la corrente di Forze Nuove e il posto di ministro del Lavoro nel VII governo Andreotti.
Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica Marini aveva dato un contributo notevole, con la sua testardaggine abruzzese, a salvare il salvabile di quel ch’era rimasto della Dc. E di Prodi che voleva scioglierla nell’Ulivo, non a caso, è sempre stato un leale oppositore. Come segretario, dal ’97, del Ppi, primo erede del vecchio partitone cattolico (Margherita e Pd verranno dopo), aveva stretto due rapporti, solidi e decisivi, con D’Alema e Berlusconi, che gli sono tornati utili anche adesso. Era stato Marini, in alleanza con Cossiga, che aveva fondato apposta un suo partitino personale, a portare D’Alema, primo (post) comunista a Palazzo Chigi, nel ’98. E sempre lui a impostare il rapporto con il Cavaliere in termini di amicizia, alla democristiana, e solo successivamente di collaborazione-competizione. La battaglia del2006, con il centrodestra che gli schierò contro come avversario per la presidenza del Senato nientemeno che Andreotti, poté svolgersi così in termini civili. Tanto, come dimostrarono i franchi tiratori, gli avversari di Marini stavano più nel centrosinistra che tra i berlusconiani, e l’osso più duro sarebbe stato naturalmente un Dc, Clemente Mastella.
Il passaggio decisivo, con Berlusconi, avvenne due anni dopo: Marini, ricevuto il mandato esplorativo come presidente del Senato, dopo la crisi del secondo governo Prodi, quando Berlusconi gli comunicò che non c’era spazio per il suo tentativo, non si espresse né in un senso né in un altro. Non insistette, non fece una piega, limitandosi a una pura registrazione istituzionale. «Con la sua correttezza, lei s’è guadagnato un credito», si congedò da lui, soddisfatto, il Cavaliere. Chissà se il lupo marsicano con la coppola e la pipa immaginava che il tempo di riscuoterlo sarebbe arrivato così presto.

La Stampa 18.4.13
Il Signore del diritto che seduce sinistra e liberali
Dai radicali di Pannunzio al Pci: il suo nome legato alla privacy
di Antonella Rampino


«Sto qui, e decideranno in 1007... ». Stefano Rodotà ripete quel che ha detto a Beppe Grillo, «è bastato un minuto di telefonata», quando il gran capo pentastellato, acquisiti i rifiuti di Milena Gabanelli e Gino Strada, ha chiamato per accertarsi che almeno il suo fosse un sì. Del resto, «ho ottant’anni, e la rete si ricorda che esisto... come posso non esserne felice? », aveva detto Rodotà quando il nome è cominciato a circolare. Non è solo l’understatement di un gran signore del diritto, è lo stupore di un gentleman di lungo corso nelle istituzioni, se si ricorda che fu proprio lui a scandire il nome da vicepresidente della Camera - di Oscar Luigi Scalfaro che - da presidente della Camera - non poteva pronunciare l’investitura a se stesso come capo dello Stato.
In famiglia lo chiamano «il Garante», perché se è vero che Giuliano Amato è il fondatore dell’Antitrust, Stefano Rodotà è il padre italiano della Privacy. Un uomo la cui esistenza ha sempre ruotato attorno alla parola «diritti». È dai diritti che si rifonda la sinistra, è dai diritti che si misura il tono di una società, essendo quella di oggi ormai diventata «cittadinanza censitaria».
Non è strana dunque la sterminata popolarità in rete, che scavalla di molto l’esiguo numero di votanti alle «Quirinarie» grillesche, e nemmeno il mailbombing pentastellato che s’è scatenato sulle caselle dei parlamentari del Pd, o l’endorsement - addirittura - di Celentano che ciclicamente smette di essere il miliardario del pentagramma e torna alla nativa origine di ragazzo della via Gluck... Tutte, semmai, attività che dispiacerebbero a quel giurista di studi e insegnamento e caratura internazionale, da Stanford alla Sorbona. E dunque, diritti del corpo, riservatezza e oblio telematico, bioetica e tecnopolitica, biodirittoe biotestamento, beni comuni e acqua... «Il diritto di avere diritti», come recita il titolo del suo ultimo libro pubblicato dall’amico Pepe Laterza, per il quale ha anche inventato l’annuale «Festival del diritto» a Piacenza.
Se Stefano Rodotà dovesse indicare l’articolo preferito della Costituzione, sarebbe il numero 3, quello dell’uguaglianza tra i cittadini. Valore negletto nell’Italia di oggi, ma da difendere «da Pomigliano fino ai cinesi della Foxconn», come disse una volta per rendere plastica idea della necessaria globalizzazione da contrapporre a quella, irrefrenabile, dei mercati. E dunque, amatissimo dai liberali sino alla sinistra, Rodotà è la bestia nera di chiunque abbia inviso l’universalismo, e l’ammodernamento continuo dell’habeas corpus.
Il candidato al Colle ha una passione politica antica, sin dagli anni dell’adolescenza, quando correva nella notte all’edicola ad attendere l’uscita del mitico «Mondo» di Mario Pannunzio. Bambino, nella piccola casa del padre che era un semplice insegnante di matematica di origine albanese, in quella Cosenza in cui si sciolse il Partito d’Azione, passavano personaggi del calibro di Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa. Passione politica divampata subito, nell’animo del giovane Stefano, che s’iscrive al partito radicale di Pannunzio, che conosce insieme a Luigi Spaventa e Tullio De Mauro su presentazione di Elena Croce, ma poi rifiuta di candidarsi in Parlamento per il partito di Pannella. Radicale nella difesa del principio di uguaglianza, in Parlamento Rodotà approda come indipendente nelle liste del Pci e poi arriverà a presiedere il partito, quando trasfigurerà in Pds. Tutto un altro mondo, rispetto al Pd di oggi. Capogruppo Giorgio Napolitano, gli indipendenti decidono di battersi contro il famoso decreto di San Valentino, che fu il primo colpo agli adeguamenti automatici dei salari, e cominciano l’ostruzionismo. Si accampano in Parlamento, Natalia Ginzburg si accascia alle due di notte, Rodotà e Laura Balbo la sostengono perché lei non rinunci. Il governo chiede di non essere presente in Parlamento, Rodotà si impunta con Napolitano, alla fine vincono quel passaggio della battaglia, e Rodotà viene complimentato da Enrico Berlinguer in persona.
Un partito - il pci di allora - nel quale il dissenso non era maltollerato, e nemmeno tollerato: era il quadro di un confronto necessario, con i rappresentanti di istanze forti nella società. E oggi non in pochi potrebbero votarlo anche dalle fila dell’odierno Pd, che sono buona parte di quei 2007.

Corriere 18.4.13
I segreti di un patto (che già vacilla)
Assedio a Bersani dopo la scelta
Il segretario: ho le mie cose da gestire nel partito. La trattativa su cinque nomi
di Francesco Verderami


Almeno la prima postilla dell'accordo ha retto, così come Bersani e Berlusconi avevano concordato ieri pomeriggio al telefono prima di congedarsi: «Allora, dovrò essere io ad annunciare che si va su Marini», aveva detto il segretario del Pd. E il Cavaliere aveva accolto la richiesta: «Certo, riunirò il mio gruppo dopo il tuo».
Più che un gentleman agreement era stata una richiesta politica, un modo per il capo dei Democrat di affermare il suo ruolo di mediatore nel negoziato per il Colle. Se poi l'accordo si tramuterà nell'elezione dell'ex presidente del Senato a capo dello Stato, lo si capirà solo oggi visto che il Pd ribolle come una tonnara. Un problema che era parso chiaro a Berlusconi nel corso della mediazione, quando Bersani — tra una candidatura e l'altra che saltavano — aveva confidato al suo interlocutore: «È che ho le mie cose da gestire...».
Le «cose» si erano manifestate durante il negoziato, che era partito su quattro nomi: Marini, Amato, D'Alema e Finocchiaro. Tranne l'ex capogruppo del Pd al Senato, la lista coincideva con quella che il Cavaliere aveva fatto consegnare un paio di settimane fa al leader del Pd e «per conoscenza» anche a Napolitano. E per arrivare preparato al gran finale, mentre Bersani stava appresso alle sue «cose», Berlusconi aveva visto riservatamente i tre candidati più accreditati. L'altra sera D'Alema aveva avvisato il segretario del Pd dell'appuntamento, che — a quanto pare — si era concluso freddamente. Amato non avrebbe avuto forse bisogno di incontrare il Cavaliere per sentirsi dire ciò che già sapeva, e cioè che «non è colpa mia se quelli sono spaccati e non ti votano».
Con l'ex segretario del Ppi, invece, Berlusconi si è visto ieri in mattinata, quando l'intesa ormai pareva chiusa. E dopo averlo riempito di complimenti, «hai una grande esperienza istituzionale», «hai fatto molto bene il presidente del Senato», «ti sei meritato il rispetto di tutti», «eppoi vieni dalla trincea del lavoro», il capo del Pdl si era congedato con un «sei l'unico che può farcela». Il lupo marsicano — che a quattordici anni di distanza avverte ancora sulla propria pelle il bruciore della sconfitta nella corsa al Colle — si era messo a fare gli scongiuri, e aveva pronunciato il suo proverbiale «mo' vediamo». Non si era sbagliato, Marini, perché nel corso della giornata — tentando di tenere a bada le sue «cose» — Bersani aveva infilato nella lista dei candidati anche Mattarella.
L'operazione era stata vissuta da Berlusconi come un tentativo di spaccare l'area popolare e di far saltare l'intesa. Più o meno quello che aveva subito pensato anche l'ex presidente del Senato: «È vero che anche Enrico Letta lo sostiene?». Tuttavia il Cavaliere ci metteva poco a chiudere la questione, ponendo il veto sull'ex membro della Consulta, che più di venti anni fa — insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc — si era dimesso dal governo Andreotti in segno di protesta contro la legge Mammì sulle tv. Figurarsi se Berlusconi se l'era dimenticato: «Non esiste che lo votiamo», aveva spiegato a Bersani, rammentandogli peraltro che «non sono stato io a dire di no a D'Alema e Amato». Più chiaro di così.
Il punto è che le «cose» per il segretario del Pd diventavano di minuto in minuto più complicate. Vendola — che al nome di Marini sentiva aria di governissimo — si smarcava e si faceva attrarre dalla candidatura di Rodotà, annunciata da un Grillo travestito da sirena per marinai di sinistra senza più rotta. Veltroni poi si imbufaliva, lui che dal giorno prima — evocando il «metodo Ciampi» — si era messo a fare lo sponsor di Cassese tra gli amici più fedeli del Cavaliere, e per irretire i suoi interlocutori aveva spiegato che «certo Prodi no, nella logica di una scelta condivisa per il Quirinale, una sua candidatura sarebbe uno strappo».
E mentre le «cose» di Bersani diventavano un casino — con i renziani e i giovani turchi pronti alle barricate — Casini riuniva i propri grandi elettori annunciando «magnum gaudium» che «habemus un democristiano» candidato all'ex residenza dei papi. «Magari fosse Marini», aveva detto il leader dell'Udc giorni fa. Quantomeno faceva mostra di essere contento. Più scettica invece l'altra parte di Scelta civica, che informata dal nunzio del Cavaliere, Alfano, prima storceva il naso e poi si insospettiva. «Non possiamo votare per Amato perché il Pd è spaccato e perché noi ci spaccheremmo con la Lega», spiegava il segretario del Pdl anticipando la conversione su Marini. «La Lega?». Se ne sono accorti adesso i berlusconiani che il Carroccio non avrebbe appoggiato l'ex braccio destro di Craxi? E oggi come si comporterà Maroni con Marini? Se è vero che l'ha chiamato per dirgli «tu sei un uomo di popolo e noi ti votiamo», come mai ieri sera non l'aveva ancora ufficializzato?
L'impressione dei post montiani nel pomeriggio era che l'appoggio di Berlusconi all'ex presidente del Senato fosse solo una mossa tattica, in attesa di veder saltare per aria il Pd e di puntare poi su un candidato coperto. Ragionamento tortuoso, visto che il capo del Pdl teme la deflagrazione dei Democratici durante le votazioni per il Colle e l'avvento di un capo dello Stato a lui ostile, frutto di un accordo con i Cinquestelle. Ma il dubbio è rimasto, ed è alimentato anche da un indizio, dalla confidenza cioè che Sposetti — ex tesoriere dei Ds e assai vicino a D'Alema — ha fatto ieri a un democristiano di lungo corso: «Stiamo lavorando per avere Massimo alla quarta votazione, e farlo eleggere con un po' di soccorso azzurro...».
Il vecchio lupo marsicano non è sorpreso dalle manovre dalemiane, ne aveva già scorto l'ombra dietro l'attacco di Renzi. Perciò non precorre i tempi, e stoppa le voci che lo vorrebbero al Quirinale con Gianni Letta come suo segretario generale: «Fermi, state fermi». Lui aspetta, come Berlusconi, pronto all'accordo per il governo. Anche perché è Bersani che deve mettere a posto le «cose»: sul nome di Marini, infatti, il segretario del Pd è come se avesse posto la fiducia. E se salta lui salta «la ditta».

Corriere 18.4.13
Strappo di Renzi, partito dilaniato No dalla Bindi e dai Giovani turchi
Nel Transatlantico di Montecitorio Stefano Fassina confida a un'amica: «Dopo Marini, c'è D'Alema»
Riunione drammatica degli eletti pd. E fuori c'è chi contesta: traditori
Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Transatlantico di Montecitorio Stefano Fassina confida a un'amica: «Dopo Marini, c'è D'Alema». Non è esattamente un buon viatico per l'ex presidente del Senato. Ma il responsabile economico del Pd, uomo pratico e intuitivo, si rende conto che l'elezione del candidato democratico al Quirinale non è affatto scontata. E infatti la proposta di Pier Luigi Bersani spacca il Partito democratico e l'alleanza con Sel.
Il primo a uscire allo scoperto è Matteo Renzi: «Questo è uno schiaffo agli elettori e un dispetto al Paese. Meglio Bonino, Prodi, Amato e Rodotà di Marini. La verità è che Bersani ha come primo interesse quello di sistemarsi a palazzo Chigi e fa tutto in questa funzione». Quel che il sindaco di Firenze non sa è che a spingere Bersani ad appoggiare la candidatura di Marini c'è anche un'altra ragione. Il segretario l'ha spiegata così ad alcuni fedelissimi: «Se non candidiamo lui, il malcontento degli ex ppi dilaga, così Renzi lancia un'Opa su Franceschini e i suoi per prendersi il partito». Ecco, allora un altro motivo che ha convinto Bersani a sfidare la sorte e a dividere il partito su questa candidatura. Sì perché come dice Marianna Madia «non saranno solo i renziani a non votare Marini».
Quando Bersani di fronte all'assemblea dei parlamentari del partito fa il nome di Marini scende il silenzio. Poi tutti si esprimono. Chi intervenendo nella riunione, chi lanciando twitter in rete. Laura Puppato preferisce Rodotà e lo dice chiaramente. Ignazio Marino sostiene che l'ex presidente del Senato «non rappresenta l'Italia di oggi e di domani». La vice presidente del Senato Valeria Fedeli ha deciso di uscire dall'aula al momento del voto. L'area dalemiana dei "giovani turchi" rumoreggia e sbuffa. Matteo Orfini cerca di tenere insieme la corrente e Bersani e propone: «Sono contrario alla candidatura di Marini perché divide il Pd e la coalizione. Votiamo domani, non decidiamo stasera, vediamo se è possibile raggiungere l'unità». Sandra Zampa annuncia il suo no: «Non voterò mai Marini: è il responsabile della caduta del governo Prodi». Il pugliese Michele Bordo commenta con un compagno di partito: «Se proprio dobbiamo fare un accordo con Berlusconi, almeno facciamolo per uno come D'Alema». Bindi scandisce il suo no a Marini, perché sente odore di larghe intese.
Dal Friuli Debora Serracchiani fa sapere che Marini «è la scelta peggiore». E dalla Sicilia Crocetta sconfessa la scelta romana. A sorpresa anche una franceschiniana come Pina Picierno dice: «Sommessamente dico che non possiamo eleggere un presidente con Berlusconi e Maroni senza Renzi e Vendola». Insomma, è il delirio. E' la rivolta contro la proposta del segretario. L'assemblea si allarga anche a Sel, che ha avuto prima una riunione in proprio. Tra Franceschini, che sostiene Marini, e Vendola volano gli insulti. Per il governatore della Puglia «Marini sarebbe la fine del centrosinistra». Per questo oggi Sel deciderà se votare Rodotà dal primo scrutinio.
Fuori del Capranica grillini e girotondini chiedono ai parlamentari del Partito democratico un atto di coraggio: «Votate Rodotà», urlano. I deputati e i senatori del Pd, asserragliati dentro il teatro si scontrano e si confrontano. Il segretario vuole il voto per sfidare i suoi parlamentari a esprimersi contro la sua proposta. I renziani lo accettano ma chiedono lo scrutinio segreto. Orfini propone una sospensiva. I veltroniani con Andrea Martella chiedono anche loro tempo per «trovare un candidato più unitario». Il segretario ottiene il voto e vince: 222 sì, 90 no, 21 astenuti, una settantina di parlamentari è già via. I parlamentari del Pd escono e vengono investiti dalle urla di una piccola folla lì davanti: «Vergogna, traditori, non vi votiamo più».
Massimo D'Alema, ovviamente, non è lì. C'è chi sostiene che sia stato il segretario del Pd a togliere l'ex premier dalla rosa. Ma c'è invece chi racconta che D'Alema, nel corso della giornata, abbia detto lui a Bersani di mandare in campo Marini e lasciar perdere la sua candidatura: «Lui ha meno franchi tiratori». Generosità o tattica in attesa della quarta votazione, quella in cui non c'è più bisogno della maggioranza qualificata?

Repubblica 18.4.13
I ribelli del Capranica “Così il partito muore”
Il Pd si spacca e scatta la rivolta no di renziani e Giovani turchi
di Goffredo De Marchis


«SIETE matti», urla un gruppo in fondo alla sala. «Così si sfascia tutto», rumoreggia un altro drappello. «Se andiamo avanti muore il Pd e muore la coalizione. Fermiamoci finché siamo in tempo », grida nel microfono Matteo Orfini e scrosciano gli applausi. Il cinema Capranica di Roma, dove sono riuniti i 495 grandi elettori del centrosinistra, è il luogo della rivolta contro la scelta di Franco Marini per il Quirinale.
DENTRO e fuori, perché i parlamentari Pd sono circondati da una manifestazione di piazza a favore di Stefano Rodotà. Molti vorrebbero essere lì con i manifestanti. Ecco servita la resa dei conti che mancava dal 25 febbraio, il giorno della mezza vittoria che adesso sembra trasformarsi in sconfitta piena. È una notte da incubo per Bersani. Contestato nel cuore del suo partito. E nel momento della verità. La scena è surreale. Matteo Renzi spara cannonate dalla tv e l’eco risuona nel cinema, sul web corrono gli insulti del popolo democratico, chi twitta veleni dall’interno, chi manda sms, chi fa liveblogging, la cronaca in tempo reale. Nella riunione dei parlamentari di Pd e Sel c’è aria di ammutinamento. È una strada senza uscita, un tunnel senza luce, dicono i dissidenti. I “no” a Marini rimbalzano subito su Internet appena si sparge la notizia dell’intesa con il Pdl. Diventano un’onda all’ingresso del Capranica, si trasformano in uno tsunami democratico con gli interventi dal palco. Il segretario sorride entrando: «Avrete una bella sorpresa », dice. Non è vero, tutti sanno. «Solo quattro interventi, due a favore e due contro», aggiunge chiudendo il suo discorso. A questo punto scatta la sollevazione. Vogliono parlare quasi tutto. Altro che chiudere in fretta. Ma Bersani deve andare fino in fondo, tenere. E alle richieste di rinvio risponde con il voto finale: 222 sono favorevoli a Marini, 90 contro, 21 astenuti. Mancano all’appello 160 parlamentari. Sono sufficienti a far saltare l’intesa quando oggi si comincerà a votare. Tra astenuti, contrari e assenti, il segretario perde il controllo dei gruppi parlamentari.
Bersani ha lavorato tutto il giorno sul nome di Sergio Mattarella. Non ce l’ha fatta, ha gettato la spugna, Berlusconi ha opposto il veto. Ed è spuntato Marini. «La sua candidatura è quella più in grado di realizzare le maggiori convergenze. Dobbiamo eleggere il presidente della Repubblica. È sempre stato difficile, richiede un’assunzione di responsabilità soprattutto da chi ha più numeri». Parole che suonano poco convinte. Ma il segretario definisce quella di Marini «una scelta forte», non racconta degli sforzi su Mattarella per non indebolire l’ex presidente del Senato che ha già moltissimi oppositori. Gli applausi a Bersani sono stentati. Si fanno i conti: i contrari in partenza sono renziani (51 parlamentari), giovani turchi (60), veltroniani (10-12). I prodiani sono ormai con l’elmetto: «È un suicidio. Neanche assistito», scolpisce la portavoce del Professore Sandra Zampa. Una pattuglia nutrita e alla luce del sole, che non ha alcuna voglia di rifugiarsi nel segreto dell’urna. Non ci sta a passare alla storia dei franchi tiratori. E vuole dimostrare di avere la forza di bocciare Marini mandando all’aria il partito.
E Bersani. Poi, c’è Nichi Vendola che alza un muro, chiede il cambiamento, è attirato dal nome di Stefano Rodotà, il candidato perfetto dei 5stelle: ha il profilo e spacca il Partito democratico. Doveva essere il Pd a intaccare il monolite del Movimento. Sta succedendo l’opposto. Matteo Orfini, leader dei giovani turchi, avverte: «Io Marini non lo voto. Tra lui e Rodotà, scelgo Rodotà. Registriamo bene i fatti politici. Renzi dice di no ed è un fatto politico. Sel dice di no ed è un enorme fatto politico. Cambiamo strada». Stefano Fassina però appoggia la decisione del segretario: «Un segnale per il mondo del lavoro».
Comincia il rosario degli interventi. Qualcuno tiene il “punteggio”. Guglielmo Epifani si schiera a favore. Dario Franceschini pure: «Non rincorriamo le favole della rete. Non dev’essere il web a decidere». Su Twitter e su Facebook, certo, è un plebiscito. Contro Marini e contro Bersani. Al Capranica, il leader invece ha la maggioranza. Ma a quale prezzo? Con quali conseguenze? Walter Tocci tesse l’elogio dei franchi tiratori. Non è un gran tifoso dell’ex segretario della Cisl. Il veltroniano Andrea Martella chiede «un supplemento di riflessione. Marini non intercetta sostegni nell’opinione pubblica e divide pure tra di noi». Il gruppo di Veltroni continua a sperare che spunti Sabino Cassese. I renziani sono feroci con Bersani. «Anziché proporre rose condivise abbiamo fatto una mediazione incomprensibile — attacca Andrea Marcucci —. Nessuno è mai stato consultato su questa decisione. Avete fatto tutto da soli». È un delirio, racconta chi è dentro. «Andiamo a farci del male», commenta Ugo Sposetti, persino lui che con Marini al Colle avrebbe non un pasdaran del finanziamento pubblico, ma neanche un fanatico dell’abolizione. «Andiamo a sbattere», è la formula che risuona più spesso. Persino i bersaniani sono freddi, dubbiosi, spiazzati. E la mossa di Grillo funziona in chiave anti-democratici. Il derby Rodotà-Marini diventa scontro di ultras al Capranica. Fassina dice: «Mio cognato lavora alle Poste e non sa chi è Rodotà». Franceschini gioca in difesa: «Il giurista non avrebbe dovuto accettare la candidatura di Beppe Grillo». Mugugni in sala.
Fuori dal cinema i manifestati gridano “traditori”. «Hanno ragione», dicono dall’interno. L’atmosfera, anche nella fila dei fedelissimi bersaniani, è triste, poco convinta, anche fredda. Stavolta non c’è stato il colpo di reni delle presidenze delle Camere, con l’elezione di Boldrini e Grasso. Vasco Errani, il tessitore, spiega che il tentativo su Mattarella è stato serio. «È importante la tenuta democratica, per questo avevamo fatto il nome di una personalità nuova ma esperta. Noi pensiamo al Paese e alla Costituzione». Il rifiuto di Berlusconi ha rovinato i piani. Ma certo per Bersani Marini non è una seconda scelta. Il segretario ne apprezza la forza, la solidità, l’adesione incondizionata al campo del centrosinistra fin dall’inizio senza mai un tentennamento. Ma anche da Scelta civica arrivano i dubbi di Andrea Romano e Edoardo Nesi. Sono altri voti a rischio. Pier Ferdinando Casini però rimette le cose a posto, almeno per il suo spicchio di Centro. «Marini sarà il Pertini cattolico», sentenzia. Ed è un piccolo raggio di luce in una serata scura e difficile sia per il candidato al Quirinale sia per il suo king maker.
Ci vuole tenuta, come dice Errani, per reggere a una rivolta vera, a numeri incertissimi, a un piano complicato da realizzare. Anche perché l’eventuale fallimento di Marini non aprirà la strada a un’altra soluzione semplice. Se prima nella corsa al presidente eletto a maggioranza semplice, Romano Prodi era il favorito, adesso che Rodotà è diventato la bandiera anti- Marini, come può finire?

Repubblica 18.4.1
Drammatica assemblea assediata dai militanti “Mai patti con Berlusconi”
La folla: traditori. Mail bombing sul partito
di Tommaso Ciriaco


ROMA — A tarda sera la rabbia dei militanti del Pd si sfoga in piazza. Teatro Capranica transennato dalla polizia, cartelli e slogan per contestare la candidatura di Franco Marini, grandi elettori democratici rinchiusi dentro a leccarsi le ferite. L’ultimo fotogramma è quello del segretario Pierluigi Bersani che sceglie di andar via dall’uscita secondaria, mentre la folla urla “traditori, traditori”.
La frustrazione dei militanti fatica a rimanere negli argini per l’intera giornata. Basta raccontare la scena che si svolge a metà pomeriggio in Transatlantico. Il deputato del Pd Guido Galperti, curvo sul suo I Pad, è nel bel mezzo di un’emergenza: «Ho già cancellato quattrocento mail, la casella è intasata. Chi scrive mi chiede di votare Rodotà». Stessa sorte tocca a buona parte dei parlamentari democratici, che quasi impazziscono per svuotare caselle trafficatissime, vittime di mail bombing. Un altro deputato dem, Giorgio Brandolin, tormenta gli occhiali da sole mentre ammette sconsolato: «Non è un problema di D’Alema, di Amato o di Marini. Il fatto è che molti elettori non vogliono l’accordo con Berlusconi. Pensi che ieri mi ha chiamato mio fratello per chiedermi: ma davvero vi accordate con il Cavaliere?».
La base del Partito democratico è una pentola a pressione. Meglio Stefano Rodotà, ripetono ossessivamente. Si attaccano al telefono e bombardano i parlamentari con mille chiamate, li martellano con sms e li marcano a uomo con infinite mail, respinte a stento da un filtro attivato dal gruppo. E la Rete si scatena. Ad aprire le danze è il disegnatore Sergio Staino: «Appello a Bersani — scrive su Twitter — facciamo i seri: o Prodi o Rodotà. Non fatemi “suicidare” Bobo un’altra volta». Nessun valore statistico, ma certo è che i delusi del centrosinistra si mostrano sconfortati. Come Gianluca, che si dichiara “ex iscritto e forse a breve ex votante Pd” e cinguetta così: «Marini, Amato, D’Alema? No, Rodotà per non distruggere il Pd e unire il buono del Paese».
Da una parte c’è chi si iscrive al partito del giurista calabrese — «se il Pd dovesse votare Amato e non Rodotà non glielo perdonerò mai» — dall’altra chi contesta la rosa di nomi dem: «Mattarella, Amato, D’Alema. Siamo ancora in tempo per De Mita e Pomicino in nomination». È una pioggia incessante, un pressing asfissiante. Molti sospettano che sia un’operazione organizzata. Tutti pregano di «non fare inciuci». O più ruvidamente, di «non fare stronzate».
Anche Facebook è una polveriera. Sboccia immediato il gruppo “Marini o Rodotà?” e si dà appuntamento per stamane a Montecitorio. Sui profili non ufficiali di Fb che si richiamano al segretario Pd, infine, è quasi un coro unanime: «Per favore, Marini no!», «non vi insulto, ma sono incazzatissima », «così mettete su un piatto d’argento milioni di voti a Grillo».

Repubblica 18.4.13
Vendola: il nome di Marini non tiene conto della richiesta di cambiamento emersa con le elezioni
Anche Sel si smarca dall’ex sindacalista “Noi siamo pronti a votare per Rodotà”


ROMA — I più freddi sul nome di Marini, nell’assemblea congiunta col Pd al Capranica, quelli di Sel. Nichi Vendola, al banco della presidenza accanto a Bersani, non ha nascosto la voglia dei suoi 45 grandi elettori di votare Stefano Rodotà. Quello dell’ex presidente del Senato infatti, pur degno sul piano personale, «sul piano politico non intercetta e accoglie la fortissima domanda di cambiamento che sale dal paese ». E poi, ha aggiunto il governatore nel suo intervento, «basta vedere l’entusiastica reazione di Berlusconi per far sorgere molti dubbi». Ovvero, il fantasma del governissimo dietro l’intesa sul Colle. «Il nostro non è un no a Marini — spiega poi Nicola Fratoianni, braccio destro del governatore pugliese — ma un sì a Rodotà: sarebbe un grande presidente della Repubblica». Pesa dunque come un macigno sulle decisioni di Sel, che ha lasciato la riunione prima del voto e rinviato a stamattina la propria scelta definitiva, l’ipotesi che l’accordo col Pdl sul candidato comune Marini apra le porte alla grande coalizione, la bestia nera di Vendola.
Una giornata che ha rischiato di far saltare l’asse fra Pd e Sel, cominciata un faccia a faccia fra Bersani e Vendola a Largo del Nazareno, passata per una lunga assemblea del gruppo Sel a Montecitorio con moltissimi mal di pancia su Marini e Amato, e chiusa con i tanti no confermati nella riunione notturna congiunta con i democratici. «Se queste sono le prove generali del governissimo — avverte Vendola — non ci sto». Un niet ad personam su Marini?
«Non è una questione di nomi — ha spiegato il leader di Sel — tutti meritano rispetto, ma la discussione riguarda il merito e ha delle ragioni politiche di fondo: se lavoriamo nella direzione dell’inciucio non stiamo facendo l’interesse del Paese, mentre invece bisogna guardare con attenzione alle proposte del Movimento Cinque Stelle». Non è in discussione dunque la figura dell’ex presidente del Senato — hanno detto in molti nella riunione del guppo di Sel — che è di primo piano ed è da sempre attento al mondo del lavoro, anche per i suoi trascorsi da leader sindacale. Ma si contesta il «metodo» che ha portato Marini a incassare il gradimento di Berlusconi. Ed è un nome — altra obiezione ricorrente — che non «intercetterebbe» quel cambiamento che «il voto di febbraio ha reso evidente». Alcuni deputati hanno già fatto “outing” a favore di Rodotà. Come
Stefando Boccadutri e Alessandro Zan su twitter. La deputata Celeste Costantino ha lanciato un link per “Rodotà presidente”. Pronto a votarlo anche Claudio Fava, «sarebbe una scelta coraggiosa, limpida, capace di parlare al Paese migliore». E per il deputato Giulio Marcon il candidato del cambiamento è proprio il giurista: «Sel, Pd, M5S lo sostengano dalla prima votazione».
Per Vendola, il passaggio è decisivo. «Si decide non solo chi andrà al Quirinale ma il futuro politico del paese» Mette due punti fermi. Primo: se le intese sul Colle fossero «le prove d'orchestra per un governissimo», Sel non potrebbe che esprimere contrarietà. Secondo: «Dobbiamo cogliere il terreno avanzato che ci offre M5S, facendo la tara alle polemiche ». Nella rosa di nomi di Grillo «sono rappresentate tutte le sfumature della sinistra».
(u.r.)

Repubblica 18.4.13
Rodotà è stato in Parlamento con Pci e Pds, poi è stato Garante della privacy
Il giurista che scalda la sinistra “Mi sono consultato con Beppe ora mi affido ai mille elettori”
di Silvio Buzzanca


ROMA — «Ho parlato con Beppe e adesso taccio. La parola passa ai 1007 grandi elettori». Stefano Rodotà alla vigilia del primo voto per eleggere il nuovo capo dello Stato non vuole dire altro. Aspetta di vedere come andrà a finire. «L’ho sentito. Era contento come un bambino, perché la rete ha pensato a lui. Metterà d’accordo tutto e tutti», ha dichiarato Beppe Grillo. Intorno al suo nome e al suo identikit politico crescono i consensi e la mobilitazione. Da Torino, per esempio, arriva un appello promosso da militanti e dirigenti dell’area di sinistra del Pd. L’iniziativa è di Roberto Placido, vice presidente del Consiglio regionale, e ha subito raccolto l’adesione di consiglieri comunali di Torino e Novara. Ma adesione arrivano anche dai democratici trentini, liguri, marchigiani e laziali. La proposta, inoltre, trova una sponda in una parte di Sel. Giorgio Airaudo, indipendente eletto nelle liste vendoliane, ha già espresso il suo appoggio.
Il candidato indicato dai 5 Stelle il prossimo 30 maggio festeggerà il suo ottantesimo compleanno. E potrebbe spegnere le fatidiche candeline al Quirinale. Dove potrebbe arrivare anche qualche dolce calabrese. Di quella Calabria che conserva antiche radici albanesi. Perché, come denota il suo cognome e quella a finale accentata, il giurista nato a Cosenza nel 1933 discende da una famiglia arbereshe, una delle tante arrivate nel Mezzogiorno italiano fra il ‘400 e il ‘700 sotto la pressione dell’espansione turca.
Rodotà si è laureato in giurisprudenza alla Sapienza di Roma nel 1955. Anno in cui inizia la sua avventura politica nel neonato Partito radicale. Un legame che però si interrompe negli anni Settanta, quando rifiuta le offerte di Marco Pannella che lo voleva portare in Parlamento. Il giurista accetta invece le proposte del Partito comunista italiano e viene eletto nel 1970 come indipendente di sinistra. Pannella non ha mai perdonato a Rodotà questo rifiuto e non perde occasione per attaccare lui e gli altri indipendenti di sinistra.
Una volta giunto alla Camera, Rodotà approda alla commissione Affari costituzionali e vi ritorna nel 1983, quando diventa presidente del gruppo Misto e nel 1987. Intanto si avvicina la caduta del Muro, la fine del Pci e la nascita del Pds. Rodotà diventa prima ministro ombra della Giustizia di Occhetto e poi il primo presidente del nuovo partito della sinistra. Quindi ha fatto parte delle commissioni bicamerali Bozzi e De Mita-Iotti per la modifica della Costituzione. Esce dal Parlamento nel 1994 e torna all’insegnamento universitario.
Ma nel 1997 diventa il primo presidente dell’Autorità per la privacy e vi rimane fino al 2005, accompagnando il lavoro universitario agli interventi nel dibattito politico e giuridico. Si spende molto sui temi etici e dei nuovi diritti. Non a caso il suo ultimo libro si chiama “Il diritto di avere diritti”. Si è impegnato molto sui referendum sui beni comuni e questo gli consente di avere rapporti privilegiati e consensi nel mondo della sinistra radicale e adesso dei grillini.

Repubblica 18.4.13
“Ma come fanno a dirci di no?” la delusione dei grillini dialoganti
Appello ai deputati democrat: “Ribellatevi”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Si erano guardati con occhi nuovi, i democratici e i cinque stelle. Per la prima volta dopo un mese, si erano cercati, annusati, parlati. Le parole di Beppe Grillo in Friuli avevano allentato la tensione: un nome da votare insieme per la presidenza della Repubblica. Poi chissà, forse un governo. Non era più una pazza idea da dissidenti. Era, finalmente, la linea.
Nonostante le accuse di Grillo a Bersani a metà giornata, nonostante la possibilità che il capo avesse già cambiato idea, o che fosse tutto un bluff per mettere in difficoltà il Pd, loro ci avevano creduto. Per questo, quando alle sette di sera la notizia di un accordo Pd-Pdl piomba nel cortile della Camera, raffredda di colpo una serata quasi estiva. Il catanese Tommaso Currò scuote la testa: «Non può essere, così crolla tutto. A questo punto vanno contro di noi che lavoravamo per il dialogo. Danno ragione a Beppe». Walter Rizzetto è sconvolto. «Non ci posso credere, mi devo sedere». E poi: «Noi presentiamo Rodotà e loro vogliono Marini? È surreale». Alessia Rotta, Luca Pastorino, Marco Di Maio - giovani deputati pd - si avvicinano ai veneti pentastellati Matteo Fantinati e Francesca Businaroli. Insieme cercano di capire se il dialogo si può salvare, che margini restano per un accordo, quanti sono nel Pd quelli disposti ad andare incontro ai 5 stelle, e viceversa. «Ma che cazzo state facendo?», chiede qualcuno a Pippo Civati, che da giorni tiene i contatti con i grillini. Lui sorride amaro: «Mi dicono che c’è un mail bombing per Rodotà nelle caselle di posta dei parlamentari. Non hanno capito che non sono gli hacker, ma i nostri elettori, a bombardarci». Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio parla col compagno di partito Girolamo Pagano (uno di quelli che nell’assemblea dei 5 stelle, martedì sera, aveva preso la parola in favore di un’apertura): «Pazzesco. Non vogliono Rodotà che è uno di loro». L’elegante Giulia Sarti fuma una sigaretta e dice scorata: «Ieri sera quelli del Pd ci dicevano che se facciamo i nomi li bruciamo. Ma che modo di ragionare è? Allora parlassero pure col Pdl, che tanto usano la stessa lingua». Ritiene Rodotà la migliore scelta possibile, la deputata romagnola. Lo difende davanti a chi ricorda che ha 80 anni. Alla buvette, un altro confida: «Comunque vada con questi nomi abbiamo fatto un figurone. Se solo li avessimo tirati fuori anche per il governo...».
E quindi, non era così peregrina l’idea di cercare una convergenza col Pd alla quarta votazione. Anche prima che Gabanelli e Strada si tirassero fuori, i grillini avevano deciso di vedersi in assemblea dopo ogni scrutinio. E avevano chiesto all’ufficio di presidenza che il quarto voto si tenesse sabato mattina, per avere più tempo e capire cosa fare. A mezzogiorno, in Transatlantico, Currò si ferma a lungo con Civati. Gli mostra i titoli dei giornali sull’apertura di Grillo: «Occhio che è un’occasione imperdibile. È un punto d’arrivo, non possiamo sfuggire questa possibilità. Dobbiamo per forza contaminarci: noi del Movimento, voi del Pd».
Civati vorrebbe che il suo partito desse prova di buona volontà ai grillini sostenendo Rodotà alle prime tre votazioni. Poi, magari, trovare l’accordo su Prodi. «Non è vero che dicono solo no - si sfoga in cortile - non è vero che non ci sono fatti nuovi, sono clamorosi.
Per la prima volta loro ci chiedono il dialogo». Perfino l’ortodosso Roberto Fico si mette a parlare con la pd campana Valeria Valente. Le chiede di fare come per la Boldrini, appoggiare un nome fuori dagli schemi. Poi si ferma, la guarda dritto negli occhi:
«Avete una possibilità, ed è vera». Pausa. «Pensateci». Lei va via con l’aria di chi sa che non sarà così facile pensarci davvero. Lui, quando scopre di Marini, affonda: «Il Pd o vota Rodotà o a breve non esisterà più. Faccio un appello a tutti i parlamentari che in queste settimane ci hanno cercato: se non si ribellano, se non votano una persona libera, indipendente, di sinistra, garante della Costituzione, non venissero più a raccontare chiacchiere. Solo con i fatti, solo con il voto di domani, possono pensare di avvicinarsi al Movimento». Anche per un governo, è sottinteso. Ma forse, è troppo tardi.

Repubblica 18.4.13
Il metodo sbagliato
di Massimo Giannini


Nel merito, Marini merita il massimo rispetto. La sua storia personale parla per lui. Esponente della sinistra sociale della Dc di Donat Cattin, democratico sincero e antifascista convinto. Segretario generale della Cisl ai tempi di Lama e Benvenuto, presidente del Senato, poi senatore. Non è sospettabile di cedevolezze, sulla linea del Piave della difesa della Costituzione e dei poteri dello Stato, sistematicamente attaccati e delegittimati nel quasi Ventennio berlusconiano. Uomo di esperienza politica collaudata, e oltre tutto con il cuore e il cervello immersi da sempre nel corpo vivo della società italiana, che soffre i morsi della recessione e della disoccupazione. Chi meglio di lui, dall’alto dell’istituzione più rappresentativa della Repubblica, può interpretare i bisogni e i disagi del Paese reale, travolto dalla crisi globale?
Nel metodo, Bersani aveva di fronte a sé una strada maestra. Da vincitore virtuale delle elezioni, aveva il diritto- dovere di fare un nome degno, di sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, individuato preferibilmente al di fuori dalla nomenklatura di partito. Aveva il diritto-dovere di presentare quel nome agli italiani, di offrirlo e di spiegarlo come fattore di coesione e di garanzia, per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche. Aveva il diritto-dovere di chiedere, su quel nome, il voto unanime dei gruppi parlamentari. Con un percorso aperto, lineare, trasparente. Che parlasse al Paese, molto più che al Palazzo.
Il leader del Pd ha imboccato invece un’altra via. Infinitamente più tortuosa, contraddittoria e a tratti incomprensibile. E a un giorno dall’inizio del voto dei Grandi Elettori, con una sorprendente rinuncia all’esercizio della leadership, ha inopinatamente consegnato la decisione finale nelle mani di Berlusconi, sottoponendogli non un nome, ma una rosa. Così il Cavaliere ha potuto scegliere la soluzione per lui più vantaggiosa, lucrando una golden share sul settennato impropria e immeritata rispetto ai numeri e ai rapporti di forza tra i due poli.
Non è tutto. Dopo la mossa vincente e convincente sui nuovi presidenti di Camera e Senato, Bersani aveva anche indicato i due requisiti fondamentali per la selezione del nuovo Capo dello Stato. “Competenza” e “cambiamento”: queste erano le password che avrebbero aperto le porte del Colle al nuovo inquilino. Qui c’è uno scarto visibile tra obiettivo e risultato. Marini ha certamente grande competenza (anche se, per usare il linguaggio dei costituzionalisti, non ha alle spalle né standing internazionale né expertise da grande «meccanico nell’officina delle istituzioni »). Ma in tutta onestà non si può affermare che Marini rappresenti il “cambiamento”. Può darsi che Matteo Renzi abbia torto, quando sostiene che è «uomo del secolo scorso». Tuttavia ha qualche ragione quando aggiunge che la sua candidatura è «uno schiaffo al Paese», che invoca inutilmente la rifondazione della politica e il ricambio delle classi dirigenti. Non si può certo dire che Marini sia una risposta alla domanda di futuro che sale dall’Italia e che ispira il “Pd possibile” sognato dal sindaco di Firenze.
E qui la scelta di metodo nasconde il problema politico. Era già accaduto dopo il voto del 24-25 febbraio, per la formazione del nuovo governo: usando la vecchia metafora andreottiana, anche per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Bersani aveva due “forni” ai quali rivolgersi per impastare il suo pane: il forno di Grillo e il forno di Berlusconi. Sul governo, il leader del Pd ha inutilmente provato a rivolgersi al forno di Grillo, umiliandosi persino di fronte ai suoi “pizzaioli”, e gli è andata male. Sul Quirinale, ha ostinatamento bussato al forno di Berlusconi, cedendogli la prima scelta, e ora rischia di andargli male ugualmente. Perché mentre nel primo caso il pane di Grillo era immangiabile, visto che i Cinque Stelle non fanno coalizione con nessuno, nel secondo caso era invece commestibilissimo.
La candidatura di Stefano Rodotà, inventata ad arte dall’ex comico, apriva e forse aprirebbe ancora un terreno nuovo (e non banalmente “nuovista”, in stile Milena Gabanelli) che il Pd avrebbe potuto utilmente esplorare. O “appropriandosi” per tempo di quello stesso candidato, che è un fior di costituzionalista ed è stato a suo tempo presidente del Pds. O proponendo un candidato simile, come ad esempio Sabino Cassese, a sua volta simbolo di quel rinnovamento sul quale si fondano le istanze della società civile e di una larghissima fetta di elettorato della sinistra, riformista o radicale che sia.
Con la candidatura di Marini, Bersani rinuncia a questa “esplorazione”. Non sappiamo se dietro ci sia un calcolo inconfessato sulla nascita di un possibile “governo di minoranza”, magari con la non sfiducia del Pdl. Ci rifiutiamo di crederlo. Ma vediamo il risultato che questa decisione del segretario ha prodotto. Il Pd che si conta e si spacca, lungo una faglia che non attraversa solo i renziani ma anche le altre correnti interne. Sel e Vendola che si sfilano. Il centrosinistra che offre ancora di più il suo fianco già martoriato alle sciabolate impietose di Grillo e Casaleggio, e si allontana ancora un po’ dal suo elettorato, confuso e sgomento. E infine il pericolo che tutto questo precipiti nella rappresentazione plastica dell’ennesimo paradosso: Marini, voluto da Bersani e scelto da Berlusconi, che viene eletto solo da una “scheggia” di Pd e da un blocco mono-litico di centrodestra, occasionalmente “ricostituito” da Pdl, Lega e Scelta Civica.
Un bel capolavoro, che si poteva e si doveva evitare. E che il Partito democratico, più lacerato che mai ed esposto al napalm del suo Vietnam interno, rischia di pagare carissimo nell’immediato futuro.

Repubblica 18.4.13
I tre illusionismi e il principio di realtà
di Giancarlo Bosetti


Anoi italiani serve, in queste ore di decisioni importanti, uno sforzo di fantasia per guardarci sobriamente dall’alto, con il “terzo occhio”, non quello dei chiaroveggenti o dell’illuminazione induista, ma quello del distacco dagli istinti di parte, come suggeriva ai suoi tempi Norberto Bobbio, per giudicare noi stessi con qualche obiettività. Con un po’ almeno di quel distacco riusciremmo a vedere che la paralisi seguita alle elezioni non è solo conseguenza dell’ingorgo istituzionale o di una sfortuna aritmetica, ma la semplice diretta conseguenza delle scelte degli elettori che si sono lasciati conquistare (in modo ripartito per tre, con qualche resto) da leadership indecise, pigre, illusioniste ed evasive. Nonostante le apparenze e le declamazioni in contrario, una vera radicale svolta dell’economia e della società per rimettere l’Italia in linea con la competizione internazionale non la voleva davvero nessuno. Hanno tergiversato loro, non i saggi nominati da Napolitano.
Le tre minoranze, vincenti/perdenti, hanno variamente eluso il problema delle riforme radicali (dolorose, ma cariche di futuro migliore) che sono necessarie per portarci strutturalmente fuori dalla recessione. La paralisi, in sostanza, non è solo dovuta alle geometrie politiche sbilenche e a una orribile legge elettorale, ma è proprio di sistema. Gli italiani non vogliono cambiare, o meglio vorrebbero ma senza pagarne il prezzo. E nessuno ha carattere e autorità sufficienti per dare la scossa. È come se il paziente avesse in mano il bisturi per incidere il bubbone, ma non lo fa perché fa male. E neppure i candidati dottori lì intorno hanno il coraggio di sfidare la paura del paziente, perché dipendono dal suo voto, ora non dopodomani. Il risultato è la cancrena avanzante. La scossa non è venuta dalle elezioni perché le elezioni democratiche in fase di recessione sono una gara a chi le spara più dolci. Eppure una soluzione può venire solo dall’alto di una politica, che sapesse stare in alto, perché gli impulsi dal basso, a quanto pare, spingono ad evadere a oltranza.
Dubbi sul fatto che gli illusionismi sono tre, di tutti e tre: centrosinistra, centrodestra e Cinque Stelle? Si può concedere al Pd che è andato un po' più vicino a una proposta di cambiamento e di verità, anche perché era il più convinto di vincere, e governare subito dopo. Ma non tanto più vicino. Bersani nell’alleanza con Sel e facendosi scudo del sindacato ha scelto, delle due possibili, la via più tranquillizzante e più elusiva: la manutenzione (sperata) del suo pacchetto elettorale, poco attraente per l'Italia dei giovani disoccupati al quasi 40 per cento, non incisiva rispetto alle plaghe in mano alla crimina-lità, ai vizi della spesa pubblica e della macchina dello Stato, alla rabbia nei confronti del ceto politico.
Berlusconi ha confermato la sua palese vocazione professionale a eludere le questioni sgradevoli: negazionismo sistematico, non c’è una crisi italiana, le colpe sono dell’Europa, degli eurocrati e dei comunisti; ci sono dei persecutori da cacciare e sono peraltro gli stessi che si accaniscono contro di lui e le sue aziende, sono le toghe rosse, i media avversi. Regolati quei conti, i problemi si risolverebbero da sé.
E, terzo, Grillo – più ancora dei primi due – ha scelto la strategia illusionistica e ne ha fatto il suo efficacissimo carburante: ma quali riforme difficili? È tutto semplicissimo, basta liberarsi dai cialtroni che sono al comando, che sono mascalzoni o pazzi, puttanieri e/o da ricovero. Impediscono di applicare ricette semplicissime come la svolta energetica, la rivoluzione del web e dei trasporti (ma cancellando la Tav), l’introduzione di una lira parallela all’euro e altro ancora. Togliamo a questo paese il coperchio dei gruppi di potere, dei burattinai della finanza internazionale e d'incanto va in scena il mondo nuovo della sostenibilità e della felicità, da lasciare di stucco anche i più arditi teorici dell’economia “senza crescita”, senza benzina e senza petrolieri. Avete poi sentito in campagna elettorale qualcuno parlare dello stock del debito pubblico?
Tre modi diversi, dunque, di eludere. Per questo siamo fermi. Nessuno voleva davvero una guerra di movimento per cambiare la faccia di questo paese. Tutti volevano lisciare il pelo a un animale che non aveva voglia di correre. E tuttavia, a un certo punto della legislatura, al momento opportuno, qualcuno ha provveduto al contropelo e a rimettere in circolazione il principio di realtà, con le sue indesiderabili amarezze. E a prendere qualche indispensabile misura. A farlo è stato il Quirinale, una istituzione che non a caso è nelle mani di un Presidente che non viene votato direttamente dal popolo sovrano, ma è il frutto di una elezione di secondo grado. È assai probabile che questa condizione, insieme alle sue personali caratteristiche, abbia consentito a Giorgio Napolitano, decisioni che difficilmente sarebbero germinate da una campagna elettorale e da un partito. E non c’è chi non veda che, alla fine del 2011, questo è stato un bene prezioso. Il principio di realtà, nonostante le debolezze del sistema politico, ha avuto sul Colle il suo presidio. Ora che il Parlamento deve eleggere il nuovo inquilino, approfittiamo della imperdibile occasione di una elezione di secondo grado. Teniamola cara visto che la Costituzione ce l’ha data e difendiamo il presidio, con la preoccupazione essenziale di garantirne la continuità e di difenderla dagli illusionismi: realismo e capacità di usare il “terzo occhio”. Almeno lì.

l’Unità 18.4.13
Camusso: da Fornero parole gravi sulla Cig
La ministra: «Svuotiamo tutti i fondi del lavoro». I deputati: spetta al governo trovare le risorse
di B. Dig.


La questione cig in deroga continua a provocare polemiche. «Il dramma è dinnanzi a tutti ha detto ieri Susanna Camusso, leader della Cgil la cassa integrazione è l’unico strumento che c`è per tutelare il reddito. Per la cassa integrazione in deroga mancano le risorse. Il ministro ieri ha detto una cosa che noi riteniamo grave: svuotiamo tutti gli altri fondi che finanziano il lavoro. Così è facile: provo ad affrontare il problema e ne apro un altro».
Svuotare un ammortizzatore per riempirne un altro non sembra una risposta alla crisi. La matassa cig in deroga in queste condizioni sarà difficile da sbrogliare, se l’esecutivo Monti non prenderà un’iniziativa. Prima di tutto bisogna fare chiarezza sulle somme necessarie. Attualmente è già stanziato nella legge di Stabilità poco più di un miliardo e 600 milioni di euro, di cui circa 200 milioni vanno sbloccati dalla cassa professionisti con un’intesa delle associazioni. Quale cifra si vuole raggiungere? Se si vuole stanziare quanto è stato utilizzato nel 2012, servirebbero altri 800 milioni (l’anno scorso si è arrivati a 2,4 miliardi). La tendenza di oggi, però, è in aumento. Proprio ieri la Confindustria ha segnalato che a marzo le ore di cig sono aumentate del 4,2% rispetto a febbraio. Il bollettino di Viale dell’Astronomia aggiunge che «nei prossimi mesi il ricorso alla cig potrebbe diminuire», non certo per la ripresa, ma per l’esatto contrario. «Per la maggiore espulsione di manodopera scrive Confindustria date le attese occupazionali delle imprese». Va da sé che allo stato nessuno sa bene come finirà l’anno. Per questo le cifre aggiuntive restano ballerine, passando da 800 milioni al miliardo o addirittura al miliardo e mezzo.
CHIAREZZA
Fare chiarezza sui numeri spetta all’esecutivo, e reperire le risorse, spetta all’esecutivo, che però l’altroieri ha passato il cerino al Parlamento, aprendo anche alla possibilità di un emendamento al decreto dei debiti della Pa, che tuttavia per regolamento sarebbe inammissibile. «Una cosa dev’essere chiara dichiara Giovanni Legnini, relatore del provvedimento del Pd Il Pd ha chiesto un decreto ad hoc, che riteniamo possibile anche con questo governo in presenza di un’emergenza. Se poi in questo momento l’emergenza non c’è, dovrà farlo il prossimo governo. Ma ci saranno tali e tante voci da coprire, che probabilmente si dovrà ricontrattare qualcosa in Europa». E l’emendamento? «Chi propone l’emendamento deve sapere che ci sono due ostacoli da superare continua Legnini Serve l’unanimità, e questa si può trovare. Ma poi servono anche le risorse, e non è certo il parlamento che può trovarle. Il governo deve dare indicazioni precise al riguardo».
Ma dall’esecutivo non arrivano segnali positivi. Ieri la Regione Lombardia ha annunciato di non poter anticipare i fondi per la cig in deroga, denunciando l’indisponibilità di Elsa Fornero a reperire le risorse. Molti parlamentari stanno intervenendo con mozioni e richieste, ma la ministra sembra irremovibile.
Intanto alla Camera procede l’esame del decreto sui debiti della Pa. «Il provvedimento sarà cambiato e migliorato assicura Legnini In particolare il nostro lavoro si concentrerà su alcune fondamentali modifiche di alcuni punti, tra cui: una puntualizzazione della tipologia dei crediti ammessi alla procedura e dei soggetti destinatari delle risorse aggiuntive; una valutazione sul maggior coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti; l’ampliamento della possibilità di compensazione tra crediti e debiti fiscali; una semplificazione degli adempimenti burocratici; la possibilità di sbloccare risorse per i Comuni virtuosi che hanno interrotto lavori per rispettare il patto di stabilità interno; una più attenta valutazione degli interventi finanziari per le Regioni sul piano di rientro dai deficit sanitari».

l’Unità 18.4.13
Nazi, terrorista fai-da-te l’incubo di «lupo solitario»
Gli inquirenti escludono la pista del terrorismo organizzato: il video della bomba fatta in casa, i precedenti, l’humus dei «Gruppi dell’Odio»
di Umberto De Giovannangeli


Un «Unabomber» con casacca nera (nazista) o verde (jihadista). Un «lone wolf» che ha acquisito i rudimenti del terrorismo fai-da-te attraverso siti qaedisti o neonazi. A dimostrarlo, secondo alcuni esperti, sarebbero le bombe usate per l’attentato, facilmente costruibili e già usate da altri «lupi solitari» per attentati progettati o falliti, come quello ai soldati di Fort Hood, in Texas (2011), e a Times Square, a New York, nel 2010. Ordigni «consigliati» da Al Qaeda, ma usati anche da estremisti di destra negli Stati Uniti. Ed è la pista più difficile da seguire, perché i «lupi solitari» non lasciano tracce. Bombe simili sono state sponsorizzate da al Qaeda nella penisola araba (Aqap), ma usate anche da Eric Rudolph per l’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996.
L’ADDESTRAMENTO VIA WEB
Tutto nasce da quella «pentola» esplosiva che ha seminato morte e terrore a Boston. Si tratta di pentole a pressione, prodotte da una ditta spagnola, con il marchio «6L» ovvero contenenti 6 litri. Le bombe «a pressione» erano piene di schegge metalliche, chiodi e cuscinetti a sfera, collegate a detonatori. Si tratta di un tipo rudimentale di bomba la cui fattura veniva insegnata alle reclute nei campi di Al Qaeda in Afghanistan ed è stata poi realizzata in più occasioni: dagli attentati sui treni di Mumbai in India (130 morti) nel 2006 alla fallita autobomba di Times Square del 2010 confezionata dal pakistano-americano Faisal Shahzad. Il Wall Street Journal sottolinea che il materiale per una bomba molto simile era stato preparato da Naser Jason Abdo, il giovane soldato texano arrestato dall’Fbi nel 2011, prima che mettesse in atto l’attentato a un ristorante frequentato dai commilitoni. Un esperto dell’Fbi ha spiegato, durante il processo ad Abdo, che quel tipo di bomba con una pentola a pressione, timer, polvere da sparo e nastro elettrico può essere costruito in trenta minuti. Abdo, 23 anni, è stato condannato lo scorso anno all’ergastolo.
Come realizzarla? Il web è il «campo di addestramento» del «lupo solitario». Il magazine di Al Qaeda in Yemen «Inspire» nel 2010 mise online le istruzioni per realizzarla il titolo del video è tutto un programma: «Fai la bomba nella cucina di tua mamma» che da quel momento sono a disposizione di chiunque. La costruzione di ordigni costituiti da pentole a pressione non è un’esclusiva di Al Qaeda, ma, secondo gli esperti di terrorismo, come Jessica Stern dell’Hoover Institute, sarebbe stata oggetto di siti web dell’estrema destra americana come Stormfront. D’altro canto, le pentole a pressione sono state usate dai terroristi per decenni, dall’Italia al Medio Oriente, da estremisti di destra come da anarchici, da mujaheddin pachistani ai separatisti dell’Eta.
La possibilità che si tratti di un attentatore il quale avrebbe agito da solo sembra avallata anche dal fatto che per l’innesco sarebbe stata impiegata una «miscela esplosiva improvvisata a combustione lenta»: per esempio clorato di potassio misto a zucchero oppure la cosiddetta «flash-powder», un tipo di polvere pirica in genere utilizzato per confezionare petardi o fuochi di artificio. Si tratta in entrambi i casi di sostanze comunissime, efficaci e il cui acquisto non desta sospetti.
Un garage, un seminterrato, la cucina si trasformano nel laboratorio dove mettono a punto le trappole attivate spesso da un cellulare. Ancora sotto shock, indignata e impaurita, l’America fa i conti con il «lone wolf» di Boston: un terrorista isolato e auto-sufficiente, senza legami e senza complici. «È l’eventualità che ci preoccupa maggiormente», hanno ammesso le fonti anonime. «Nessuna traccia, nessun elemento, nessuna informazione».
Se anche ha agito da solo, l’humus su cui «lone wolf» è cresciuto, più che all’arcipelago qaedista sembra essere quello degli «Hate Groups». I Gruppi dell’Odio sono aumentati in modo esponenziale negli ultimi anni. Sono passati dai 149 del 2008 ai 1.360 del 2012. È stato l’effetto Obama: con un afro americano alla Casa Bianca, alcuni settori della società americana si sono radicalizzati. Il Ministro della Giustizia Eric Holder ha più volte puntato il dito verso di loro come potenziale minaccia per la sicurezza. Ricordando che anche in passato, in momenti in cui si era discusso di possibili leggi restrittive sulle armi, i segnali di pericolo provenienti da questa galassia si erano moltiplicati. E non erano solo parole: tra il 1990 e il 2011, gli attacchi riusciti, falliti o sventati in extremis, di gruppi o individui di estrema destra negli Usa sono passati da 35 a 350 all’anno. Il top del terrorismo nazionale si regista nel 2008, con l’inizio della Presidenza Obama: 550 attacchi. Contro le tasse. Contro i neri. Contro i gay...Seminare il terrore. Destabilizzare. È il credo che ha mosso il «lone wolf» di Boston. Un credo di morte.

l’Unità 18.4.13
L’esperto Usa «C’è chi vuole il caos e il terrore»

di U.D.G.

«A Boston può anche aver agito un “lupo solitario”, ma non c’è dubbio che l’obiettivo che ha inteso perseguire è lo stesso di quello che aveva armato la mano di Eric Rudolph (il killer dei Giochi olimpici di Atlanta, ndr) e di quanti in questi anni hanno praticato il “terrorismo diffuso” di matrice interna: tenere l’America in ostaggio. Ostaggio della paura». A sostenerlo è John Prendergast, analista di punta di sicurezza e terrorismo del Center for American Progress, il più autorevole think tank democratico Usa diretto da John Podesta. L’attenzione si concentra sui gruppi nazisti, ultra-cristiani, suprematisti made in Usa: «Non è un caso rimarca Prendergast che il loro numero sia proliferato con l’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama. Questi gruppi hanno in odio il cambiamento, ritengono una minaccia mortale chiunque si batta per una società inclusiva. E Obama è il primo della lista».
Le indagini sull’attentato di Boston sembrano orientarsi verso l’azione di un «lupo solitario» e, comunque, sembra rafforzarsi la pista interna su quella qaedista.
«È ancora presto per tirare conclusioni. Ma il tipo di ordigno utilizzato pentole a pressione imbottite di chiodi, lamette...farebbe propendere verso un terrorismo fai-da-te che per entrare in azione non ha bisogno di strutture particolarmente sofisticate. Sulla matrice ideologica sarei più possibilista, anche se la pista interna appare al momento quella più accreditabile».
Dalle bombe di Boston alle lettere avvelenate inviate a Obama e al senatore Wicker...
«Allo stato delle indagini, non si può parlare di un legame tra i due eventi. Ma la coincidenza temporale non può essere sottovalutata: si punta al caos, si vuole creare una situazione di emergenza, da Nazione assediata: una situazione che giustifichi lo stop a quel processo di “normalizzazione” che vede impegnato il presidente Obama».
A cosa si riferisce?
«Penso alla battaglia condotta dal presidente per limitare il commercio di armi da fuoco. Così come le proposte di legge per un’amnistia agli immigrati senza documenti: per i gruppi di estrema destra si tratta di provocazioni che meritano una risposta durissima. Con ogni mezzo». L’America sotto assedio. Come dopo l’11 Settembre?
«C’è chi punta a ricreare quel clima. E questo può essere un terreno di convergenza tra jihadisti e neonazi».

La Stampa 18.4.13
Armi, il Senato vota contro Il presidente: vergognoso
Bocciata l’intesa bipartisan sull’estensione dei controlli
L’ira di Barack: «Non finisce qui. La mia Amministrazione farà di tutto contro la violenza»
di P. Mas.


E’ una sconfitta cocente per il presidente Obama, ma soprattutto uno schiaffo in faccia ai genitori dei bambini uccisi nella strage di Newtown, il voto con cui ieri sera il Senato ha bloccato tutte le iniziative per limitare il commercio delle armi in America. Una conferma della forza della lobby dei produttori, la National Rifle Association, e l’impotenza di chi vuole approvare anche le minime misure di buonsenso. Obama infatti ha reagito con risentimento, quasi con rabbia, dicendo che ieri è stato «un giorno vergognoso per Washington».
Sul floor del Senato erano arrivati diversi provvedimenti, che non costituivano ancora l’intero impianto delle leggi volute dalla Casa Bianca. Il loro passaggio, però, doveva rappresentare un primo passo, per aprire la porta ad una riforma complessiva. La misura più significativa era l’emendamento proposto dal senatore democratico della West Virginia Joe Manchin, e dal collega repubblicano della Pennsylvania Pat Toomey, che aveva lo scopo di aumentare i background check, ossia i controlli dei precedenti penali sulle persone che vogliono acquistare armi. Un compromesso minimo, pensato da due tradizionali sostenitori della lobby dei produttori, che era stato molto annacquato proprio per cercare un consenso bipartisan. Neanche questo emendamento, però, è riuscito a raccogliere una maggioranza di 60 voti, necessaria per mettere la legge al sicuro dalle pratiche dell’ostruzionismo che ora possono affondarla. Il testo ha ottenuto 54 sì e 46 no, compresi quelli di quattro senatori democratici: Mark Begich dell’Alaska, Heidi Heitkamp del North Dakota, Mark Pryor dell’Arkansas e Max Baucus del Montana.
Con loro, si sono opposti al passaggio il 90% dei repubblicani. In rapida sequenza, poi, sono stati bocciati anche provvedimenti che miravano a diminuire le armi da guerra in commercio, e ridurre la capienza dei caricatori che consente di fare stragi come quella avvenuta a dicembre in Connecticut.
Nella galleria del Senato erano presenti anche i genitori di alcuni bambini uccisi a Newtown, ma questo non è servito a bilanciare il peso della Nra. Dopo il voto negativo Patricia Maisch, che nel 2011 a Tucson aveva disarmato l’uomo che aveva sparato alla deputata Gabrielle Giffords, si è alzata in piedi e ha gridato: «Vergognatevi». La Giffords ha aggiunto su Twitter: «Il Senato ha ignorato la volontà del popolo».
Obama ha usato lo stesso tono, parlando poco dopo alla Casa Bianca. «E’ un giorno vergognoso per Washington», ha esordito, senza nascondere la sua rabbia. Il presidente ha detto che «la lobby delle armi e i suoi alleati hanno mentito», eppure tanto i repubblicani quanto i democratici «hanno ceduto alla pressione di una minoranza che parla a voce molto alta. Non esiste un argomento coerente per spiegare perché non hanno passato queste misure. È solo politica». Obama poi ha attaccato chi aveva criticato i famigliari delle vittime di Newtown per le loro prese di posizione: «Dite sul serio? davvero pensate che le migliaia di famiglie che hanno visto le loro vite distrutte non hanno diritto di avere un peso? ».
Il presidente ha promesso che farà «tutto il possibile per proteggere gli americani», ma ha già emesso tutti i decreti che erano in suo potere. Ora le legge sulle armi verrà congelata, nella speranza di poterla riprendere, se la pressione degli elettori costringerà i parlamentari contrari a cambiare.

Repubblica 18.4.13
Navalnyj, l’antieroe russo “Vogliono mettermi in carcere ma per il regime sarà la fine”
Processo aggiornato al dissidente. “È solo strategia”
Dopo l’udienza del processo, Navalnyj ha ribadito la sua innocenza definendo “inventato” il caso contro di lui
di Nicola Lombardozzi


KIROV — Nessuna vocazione al martirio. Aleksej Navalnyj ha l’aria consapevole di chi è appena entrato in un tunnel e non sa quando ne verrà fuori. Nemico numero uno di Vladimir Putin, anima e leader delle manifestazioni di piazza che hanno spaventato il Cremlino negli ultimi due anni, sa che è giunto il momento di pagare i primi prezzi per cotanta sfida: «Hanno giurato di mettermi in carcere e molto probabilmente ci riusciranno ». Un sorriso: «La cosa alla fine si ritorcerà contro il regime». E un sospiro: «Ma non subito».
Attorno a lui si alzano i cori dei 500 fedelissimi che lo hanno seguito fin qui a 900 chilometri da Mosca in questa cittadina di boscaioli e segherie dove si celebra il primo processo a un dissidente dell’era Putin che rischia dieci anni di carcere. I giovani urlano “Putin Ladro” e “Russia libera”. Distribuiscono a passanti distratti, volantini e adesivi contro la persecuzione giudiziaria del loro trascinatore. Jiulia, la moglie di Navalnyj, li segue con lo sguardo ma si capisce che pensa a un futuro prossimo di amarezze e separazioni. Lui le sta vicino, non la molla un secondo: «Sa quello che mi aspetta. Ne parliamo da tempo. Ho già studiato la valigia da portarmi, fatte tutte le deleghe, scelti i libri da leggere».
Ma è proprio sicuro che tutto andrà nel verso sbagliato?
«Da quando ho tirato fuori lo slogan del Partito dei ladri e dei truffatori mi arrivano segnali che dicono che vogliono sbattermi dentro. Questo processo, inventato, assurdo, riesumato dopo due proscioglimenti, ne è la conferma».
È certo che l’ordine sia partito dal Cremlino?
«E da chi altri? Non vede la repressione che si estende in Russia, gli arresti, le minacce, le leggi speciali. Vogliono metterci tutti dentro prima che noi li possiamo spazzare via. Sanno che la gente li detesta, devono farci tacere a tutti i costi».
Oggi però le hanno dato subito una settimana di rinvio per riesaminare le carte. Non è un buon segno?
«Strategia. Quanta gente, quanti giornalisti verranno la prossima settimana? E dopo? Sempre meno. Vogliono colpire in un momento di stanca dei media, magari in estate».
E sarà carcere?
«Non lo so con certezza. Hanno due possibilità: condannarmi con la condizionale o rendere la pena esecutiva. Nel primo caso partirà la grancassa di quelli che dicono che sono in realtà una quinta
colonna del Cremlino, un agente infiltrato di Putin. Lo fanno già adesso, figuratevi in quel caso».
E la seconda?
«La più lineare: galera. La mia fondazione anticorruzione continuerà a lavorare, le donazioni per sopravvivere arriveranno ancora, ma l’efficacia, ammettiamolo, sarà ridotta al minimo».
Ma lei diventerà un’icona, la sua lotta sarà ancora più mitizzata...
«Questa storia mi irrita davvero. Non ho nessun piacere a finire in carcere per aumentare il mio prestigio di dissidente. Per rispetto per i tanti arrestati non voglio
drammatizzare, ma penso ogni giorno a quello che mi aspetta e non sono per niente felice».
Ha mai pensato di scappare?
«È quello che vogliono. Per loro sarebbe il colpo di immagine più azzeccato. Anzi ci hanno pure provato. Sono sempre stato avvisato per tempo delle cause contro di me. L’ultima volta mentre stavo partendo per una vacanza in Portogallo. Un suggerimento chiaro. Ho mandato figli e moglie al mare e sono rimasto a Mosca».
La sindrome dell’eroe?
«Piuttosto una questione di coerenza. Io vivo delle donazioni della gente che crede in me e nelle mie denunce. La loro rabbia potrà aiutarmi in carcere. Se li deludo scappando, perdo ogni ragione di esistere».
E in famiglia sono tutti d’accordo?
«Hanno indagato mio fratello, i miei genitori, tutti i miei parenti e quasi tutti i miei amici. Posso lasciarli e andarmene? Anche i miei due figli lo sanno. Il più piccolo Zakhar, cinque anni, sa che papà è in guerra contro i truffatori e che uno vuole mettere dentro l’altro. Lo segue come un gioco. A Dasha, che ha 12 anni, volevo fare un discorso più articolato ma mi hanno anticipato le sue compagne di scuola che un giorno le hanno detto: tuo papà lotta contro i criminali e per questo verrà arrestato».
Ha una linea difensiva precisa?
«Risponderò a tutte le accuse come ho già fatto sul blog. Ma è una storia troppo assurda. Non c’è alcun reato. È dimostrato. Sono accusato di aver rubato 450mila euro in un affare lecito che è fruttato poco più di 3mila euro. Un po’ come il processo a Khodorkovskij».
Si sente come il famoso oligarca ribelle in carcere da dieci anni?
«Con tutto il rispetto, credo che per me, che dovrò rinunciare a una casa di periferia di 70 metri quadri, le privazioni saranno più facili da sopportare che per lui che era uno degli uomini più ricchi di Russia».
Sepolta ogni speranza?
«Macché. Il mio processo come la persecuzione di tanti altri faranno crescere la rabbia. L’unica strada è quella, la piazza. Prima o poi si riempirà di nuovo e il sistema crollerà perché il consenso popolare è pari a zero e tutto finirà per implodere».
Ma quanto tempo ci vorrà?
«Due anni. Forse un po’ di più ma i russi sono sempre più stanchi, lo vedrete ».
E continua a pensare di candidarsi alla Presidenza?
«In elezioni libere e reali? Perché no?».

Repubblica 18.4.13
Vicino al nuovo museo che apre a 70 anni dall’insurrezione il governo vuole onorare i “giusti” che aiutarono la comunità sotto i nazisti. Ma è polemica: “Non qui”
Varsavia, un memoriale nel Ghetto divide gli ebrei
di Andrea Tarquini


BERLINO — Apre a Varsavia quello che sarà forse il più importante museo ebraico d’Europa, ma le polemiche sulla Memoria unita o divisa esplodono anche in Polonia. Nel settantesimo anniversario dell’eroica insurrezione del Ghetto contro gli occupanti nazisti, il museo narra la storia millenaria della comunità ebraica polacca. Accanto al nuovo museo, il governo vuol costruire un memoriale per i “giusti fra i non ebrei”, cioè i polacchi che rischiando la vita, e spesso pagando (in seimila) con la vita, nascosero ebrei o cercarono di salvarli dall’Olocausto. «Non è il posto giusto né il momento giusto, ora in quel luogo della rivolta e della sofferenza parliamo del dolore degli ebrei, non dell’eroismo polacco », è scritto in una lettera aperta del Centro polacco di ricerche sull’Olocausto dell’Accademia delle scienze. Eppure quello che è forse il più autorevole e influente intellettuale ebreo polacco di oggi, Konstanty Gebert, già eroe della rivoluzione di Solidarnosc, non è d’accordo: «Se minimizziamo l’eroismo polacco, come possiamo
aspettarci che i polacchi accettino i lati bui della loro Storia?».
Il museo del ghetto documenta mille anni di vita ebraica, nel tollerante e multietnico Regno di Polonia e Lituania, le tensioni con i nazionalisti negli anni Venti e Trenta, l’Olocausto, l’eroica rivolta, che tenne testa alla Wehrmacht per ben un mese, molto più dei dieci giorni della Francia invasa nel ’40.
«Questo luogo è un luogo della Memoria speciale», dice la lettera aperta, «là ci fu prima di tutto dolore degli ebrei…la Polonia è grande, ci sono abbastanza altri luoghi per onorare i giusti polacchi, ma lasciamo il ghetto come un rifugio intoccabile di memoria degli ebrei assassinati». Barbara Engelking, direttrice del Centro di ricerche sull’Olocausto, ha scritto su Gazeta Wyborcza: «Ci vuole un’area di silenzio, dedicata solo agli ebrei». Governo liberal sotto accusa, quindi. Ma non tutti nella comunità ebraica sono d’accordo. «Secondo me non c’è posto migliore che accanto al museo per ricordare gli eroi polacchi», afferma Sigmunr Rolat, sopravvissuto alla Shoah. E soprattutto Konstanty Gebert insiste: proprio mentre nazionalismi e tensioni rialzano la testa ovunque, «negare ai giusti polacchi un monumento sarebbe un trionfo dell’indifferenza nazionale, i polacchi non lo capirebbero, e non lo capirei io come ebreo».

Repubblica 18.4.13
Lo studioso racconta in un libro uscito in Francia la sua esperienza di reporter nei luoghi delle rivolte
Kepel: “Il rap è la vera rivoluzione araba”
di Pietro Del Re


PARIGI Le primavere arabe hanno smarrito il loro obiettivo originario, che era l’instaurazione di un regime democratico là dove regnava un tiranno: adesso, in società che sopravvivono grazie alla satanica manna dei petrodollari del Golfo, tutto si risolve nell’antagonismo tra sunniti e sciiti. Lo dice il politologo francese Gilles Kepel, del quale in questi giorni Gallimard pubblica Passion arabe, il suo diario delle rivoluzioni più o meno compiute che, dalla Tunisia all’Egitto e dallo Yemen al Barhein, hanno negli ultimi due anni incendiato il mondo musulmano. Per scrivere questo libro, Kepel ha smesso le vesti del professore universitario e indossato quelle dell’inviato speciale. E questa metamorfosi gli è riuscita alla perfezione, perché come Ryszard Kapuscinski o Bernardo Valli, nelle sue pagine riesce a mischiare il racconto di cose viste, che sono le immagini e le testimonianze raccolte sul suo taccuino, con la capacità di analisi di chi da quattro decenni studia l’Islam e il mondo arabo.
Professor Kepel, dal resoconto dei suoi viaggi si direbbe che le primavere arabe siano tutte abortite. E che gli ideali di libertà, giustizia sociale e democrazia siano già stati dimenticati. È così?
«Non proprio. E credo che le espressioni “primavera araba” e “autunno islamista” siano entrambe fuorvianti. In questi Paesi c’è stata una rivoluzione vera, che ha permesso agli arabi di conquistare quella libertà di espressione che gli era stata confiscata dai regimi nati dall’indipendenza. Negli ultimi due anni, quello che ho cercato di fare è stato di penetrare nella carne delle società arabe incontrando chiunque, di ogni ceto o estrazione sociale. A Bengasi, Doha o Aleppo ho parlato con salafiti e laici, jihadisti e intellettuali, militari e contadini, ministri e miliardari dell’oro nero».
Per giungere a quale conclusione?
«Alla conclusione seguente: che se la prima fase di queste rivolte è stata spesso la caduta del tiranno, e la seconda l’arrivo al potere degli islamici, oggi, un po’ ovunque, questo stesso potere è fortemente contestato. Lo scorso febbraio, dopo l’assassinio di Chokri Belaid, è accaduto in Tunisia, dove decine di migliaia di persone sono scese in piazza. E accade in questi giorni in Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno perso carisma e credibilità tra la popolazione per la loro pessima gestione del potere, e dove la gente ha ripreso a scandire gli slogan di Piazza Tahrir. In questi luoghi, numerosi tabù sono stati infranti. Al Cairo, per esempio, si tengono manifestazioni per i diritti gay e riunioni di chi professa l’ateismo. Ora, entrambe le cose sarebbero state impensabili, o comunque violentemente represse, ai tempi di Mubarak».
Si può allora continuare a sperare?
«Sì, perché le rivoluzioni arabe non sono ancora finite. E i loro protagonisti non hanno ancora pronunciato l’ultima parola. Le società civili cominciano a farsi sentire contro l’intransigenza degli islamisti. Oggi si balla ovunque l’Harlem Shake per ridicolizzare i barbuti. In Egitto e in Tunisia, i Fratelli musulmani hanno creduto, sbagliando, che l’ordine morale avrebbe appagato le rivendicazioni sociali dei rivoluzionari. C’è poi il paradosso dei salafiti, che si rivolgono ai delusi della rivolta, promettendo un’utopia radicale e un nuovo ordine sociale. Senza dire per che sono loro stessi devoti a quegli ulema stipendiati dalle monarchie del Golfo, le quali difendono l’immobilismo più totale».
C’è però il caso siriano, con i suoi orrendi massacri che sembrano destinati a durare in eterno. Perché nessuno riesce a risolvere un conflitto così sanguinoso?
«Purtroppo il conflitto siriano va ben oltre la Siria. Questo Paese, che è la chiave di volta del Medio Oriente perché coinvolge sia Israele sia i giganteschi interessi del petrolio, è preso in ostaggio dalle potenze regionali e internazionali. Gli Stati del Golfo finanziano i gruppi salafiti e jihadisti, come il Fronte al Nusra, per uccidere gli alauiti e indebolire l’alleanza sciita capeggiata dall’Iran; gli iraniani, invece, armano e sostengono il sanguinario regime di Bashar al Assad. La Siria, attraversata oggi dalla spaccatura tra sunniti e sciiti che è diventata la principale contraddizione di quella parte di mondo, è anche il luogo dove s’inabissano le più violente tensioni internazionali».
Sembra proprio che gli emiri delle monarchie del petrolio abbiano sin dall’inizio vissuto le rivolte arabe come il peggiore dei loro incubi. Ma perché si sono impegnati così tanto, spendendo miliardi di dollari?
«Perché hanno immediatamente temuto l’arrivo attraverso il Mar Rosso di masse di diseredati. Perciò hanno reagito annaffiando di soldi, chi i gruppi salafiti chi i Fratelli musulmani, nella speranza che queste organizzazioni islamiche potessero contenere o imbrigliare le rivoluzioni. Il re saudita Abdallah ha cacciato di tasca propria 130 miliardi di dollari per prevenire il contagio della rivolta in casa sua. L’Arabia Saudita e il Qatar si sono poi trovati d’accordo su un solo punto, il loro nemico comune: l’Iran. Oggi l’avversione per Teheran supera di molto quella nei confronti di Gerusalemme».
Nel suo libro lei percorre quattordici tappe, e quattordici sono le stazioni della Via Crucis. Nel titolo, c’è poi la parola “passione”, che potrebbe indurre in errore. Perché?
«Passione perché è ciò che provo per quel mondo, così come per i tanti amici, e i pochi nemici arabi, che in tutti questi anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi. Ma ho scelto questo titolo anche in senso cristico, per l’enorme sofferenza che in questi anni affligge quei Paesi. Retrospettivamente una rivoluzione può essere una tappa importante e fondatrice nella storia di una nazione. E quando la vivi puoi trovarci qualcosa di esaltante. Ma è sempre un evento atroce. Del resto, il mio diario comincia sul Golgota di Gerusalemme e finisce in cima a una montagna della Siria liberata, dove s’è svolta una battaglia particolarmente cruenta, e che chiamo il Monte Calvario».
Le sembra illusorio pensare che un giorno in questi Paesi del mondo arabo possa finalmente nascere una democrazia?
«No, anche se può trattarsi di un parto lungo e difficile. In Tunisia, per esempio, primo Paese dove è scoppiata la rivolta, c’è già una forma di democrazia, sia pure imperfetta. E nonostante le tentazioni totalitarie degli uni o degli altri, c’è libertà di parola e a Tunisi la società si esprime con forza. Altrove, la democrazia nascerà dopo un travaglio doloroso. E questa redenzione democratica fa pensare anch’essa a una forma di passione, nel senso della sofferenza di Cristo».

Gilles Kepel studioso del mondo araba ha appena pubblicato in Francia
Passion arabe (Gallimard)

l’Unità 18.4.13
Barca e il richiamo all’austerità di Berlinguer
di Andrea Ranieri


MENTRE TUTTI SONO IMPEGNATI A FARE IL TOTO NOMI PER IL QUIRINALE, tra l’altro rendendo più difficile il lavoro che con pazienza certosina sta portando avanti Pier Luigi Bersani, o a prevedere sfracelli per il Pd dopo il dato per scontato fallimento del tentativo governativo del suddetto, sfracelli ben s’intende secondo le vecchie falde politiche o generazionali, e il futuro di Renzi appassiona più di ogni altra cosa i cronisti della politica, Fabrizio Barca prova a dirci che c’è una cosa ancora più importante da discutere, più del governo, più del Quirinale, cioè se esiste, se esisterà ancora un partito di sinistra nel nostro Paese. Di sinistra, e questa è già una scelta, perché con la foglia di fico del centro premesso alla sinistra abbiamo permesso che il centro diventasse foglia di fico anche per la destra più becera che giri per l’Europa, e fatto del centro che si svuota, sia politicamente che socialmente, il punto di contesa fondamentale della competizione politica, mentre qualche milione di frammenti decentrati abbandonavano entrambi, sotto forma grillina o nel non voto. Sinistra o left per far meno paura ad un partito che, abbandonata la sinistra, fece di un loft la sua prima, modernissima sede.
Tutte le anime del Pd appaiono un po’ spiazzate dalla sua proposta, perché non è inscrivibile in nessuna delle correnti e delle sub correnti che lo attraversano, ma prova a dire quali sono i requisiti di fondo che oggi possono stare alla base di un partito nuovo e di sinistra, e ci invita a riflettere sulla lontananza da quei requisiti delle pratiche in cui un po’ tutti, di destra e di sinistra, ci siamo adagiati. E proprio per questo, per la sua radicalità, può essere la base di un discorso unitario.
Ridurre la questione del partito ad una macchina per governare, fare della presenza nelle istituzioni l’alfa e l’omega del fare politica, è la prima cosa da cui, per Barca, occorre prendere le distanze. Il partito che si fa Stato e lo Stato che si fa partito è all’origine della degenerazione di entrambi. Stato e partito devono entrambi fare i conti con i grandi cambiamenti che hanno messo in crisi il modello keynesiano e socialdemocratico, e aperto la strada alle ideologie e alla pratiche dello Stato minimo e del partito liquido. Barca lo fa giocando in positivo ed è questa la più significativa mossa del cavallo del suo documento due degli elementi che hanno determinato questa crisi. Il crescere dell’importanza delle persone, il moltiplicarsi e il differenziarsi dei bisogni e dei desideri, e il crescere dell’intelligenza diffusa, effetti entrambi della grande epoca del welfare State, ma non più compiutamente interpretabili secondo quelle categorie e quelle prassi. «Sperimentalismo democratico» e «mobilitazione cognitiva» sono le due coordinate con cui si può rispondere da sinistra a questa crisi, con uno Stato che allarga la democrazia, attraverso gli strumenti della democrazia deliberativa, e un partito che si rifà solido non perché ripropone una qualche idea di avanguardia, ma perché sa organizzare, mettere in rete, far crescere l’intelligenza delle persone e l’intelligenza che si auto organizza sulla base di interessi e di valori, o sulla base di scelte puntuali che hanno a che fare con la vita delle persone e dei territori. L’acqua, l’ambiente, la difesa del patrimonio culturale, la valorizzazione delle diversità. Dalle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, ai comitati contro la cementificazione delle città e per la difesa dei beni comuni. Tutti essenziali per costruire una alternativa politica alla crisi dell’economia e della democrazia rappresentativa, ma solo in quanto difendano orgogliosamente la loro autonomia irriducibile sia dallo Stato che dai partiti. Un partito di sinistra esiste e cresce se sa alimentarsi da quello che è diverso da sé, se alimenta invece che impaurirsene l’intelligenza politica che cresce fuori dai suoi confini.
Il partito è il ponte necessario fra il sociale e le istituzioni. La messa in discussione dei costi della politica è anche un modo per ristabilire una giusta scala di priorità nel lavoro politico. Fabrizio Barca nel suo documento si limita ad evocare le indicazioni programmatiche per affrontare la crisi economica e sociale. Presentarsi con un programma avrebbe contradetto quella necessità di attivare la mobilitazione cognitiva, a partire dai territori. E pur tuttavia un’indicazione importante c’è. È il richiamo a quell’austerità berlingueriana, diversa dall’austherity monetarista. In tempi in cui il papa si chiama Francesco può essere l’dea forte per ridare senso alla vocazione originaria del partito democratico, non per sognare un tempo che non c’è più, ma per proiettarla verso il futuro.

Repubblica 18.4.13
Dalla lettera di Kafka ai terribili Mann la letteratura è piena di faide tra genitori e figli Lo racconta ora in un saggio un grande autore come Colm Tóibín
Delitto di famiglia
Volete essere scrittori? Uccidete padre e madre
di Cristiano De Majo


Nel suo ultimo libro, How Literature Saved My Life, non ancora uscito in Italia, David Shields sintetizza in una frase una grande verità della scrittura: «È difficile scrivere un libro, è molto difficile scrivere un buon libro, ed è impossibile scrivere un buon libro se ti preoccupi di come le persone a te vicine lo giudicheranno». Sul New York Times, la scrittrice e giornalista Susan Shapiro — che nella sua biografia si definisce autrice di tre memoir che la sua famiglia odia — dice di dare agli studenti dei suoi corsi di scrittura questo semplice quanto diabolico consiglio: «Avrete trovato la vostra voce quando scriverete un pezzo che la vostra famiglia odierà. Se volete avere successo con genitori e fratelli, provate con i libri di ricette».
Sareste teoricamente disponibili ad accettare una buona recensione su un quotidiano a grande tiratura in cambio di una burrascosa interruzione dei rapporti con vostra madre? Se la risposta è sì, siete sulla strada giusta, la letteratura, fiction o non fiction che sia, è per i rapporti familiari un campo minato in cui ogni scrittore che si rispetti non solo conosce la posizione delle mine, ma trova inevitabile farle esplodere.
La delicata questione può essere considerata da due punti di vista: 1) per lo scrittore la propria famiglia è, in quanto a profili psicologici e dinamiche umane, il materiale più ricco e meglio conosciuto che ha disposizione, ma 2) non bisogna sottovalutare il potenziale vendicativo del testo letterario; scrivere può anche significare, e lo dimostrano alcuni capolavori, regolare i conti con il proprio passato.
La Lettera al padre di Franz Kafka è, in questo senso, una lampante dimostrazione di come un’intera poetica si possa articolare intorno a un tentativo di vendetta. A trentasei anni il grande scrittore praghese compone un drammatico ritratto del genitore e dei suoi abusi psicologici stilando una lista di lontani aneddoti a cui si è tentati di ricondurre tutta la sua produzione letteraria, e arrivando infine a individuare l’origine della sua vocazione proprio in quel rapporto per lui così doloroso: «Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata».
Ne sa qualcosa anche Lucie Ceccaldi, madre dello scrittore più famoso della Francia contemporanea, a cui spesso si aggiungono gli aggettivi: controverso, cinico, rancoroso, sessualmente morboso, che non equivalgono a buone notizie per chi è stato, o avrebbe dovuto essere, responsabile della sua costruzione emotiva. Nelle Particelle elementari, Michel Houellebecq, la prende di peso con il suo vero nome, Ceccaldi, e le fa interpretare il “ruolo” della madre hippie che abbandona il proprio figlio ai nonni, ubriaca di illusioni libertarie, affamata di sesso. La terribile coincidenza è che Houellebecq fu esattamente affidato ai nonni da piccolissimo e che i suoi genitori furono esattamente due giramondo imbevuti di edonismo sessantottino. Si scopre così che tutta la critica asprissima alla generazione dei babyboomer, uno dei temi centrali dei primi libri dello scrittore francese, mascherata abilmente nello stile del personaggio, un nichilista prodigo di considerazioni storico-sociali, mette radici nel risentimento personale, in una tristissima sindrome da abbandono.
Ma la storia non finisce qui. Nel 2008 Lucie Ceccaldi dà alle stampe un memoir intitolato con eloquenza L’Innocente con cui si propone di dire la sua verità e rilascia interviste in giro nelle quali dichiara di essere disposta a perdonare suo figlio solo nel caso in cui decidesse di presentarsi in una piazza brandendo Le particelle elementari e autoaccusandosi come bugiardo e impostore. La lite letteraria finisce per assu- mere connotati vertiginosi perché non solo è curioso che l’autore di un romanzo venga accusato di essere un mentitore, ma anche perché se suo figlio non fosse diventato Houellebecq, Lucie Ceccaldi non avrebbe mai pubblicato un libro.
D’altra parte, per quanto strano possa sembrare, il suo non è l’unico caso di “genitore d’arte”. Henry James e William Yeats, erano figli di due padri parecchio simili: artisti falliti e borghesi inconcludenti. Come John Butler Yeats che, dopo il successo letterario del figlio, arrivò addirittura a implorarlo di raccomandare i suoi testi teatrali. Le due vicende sono raccontate nel bellissimo libro di Colm Tóibín New Ways to Kill Your Mother: Writers and Their Families (Penguin), uno spaccato ricchissimo di fatti e documentazioni sulle famiglie di alcuni importanti scrittori dell’Otto- Novecento, che scoperchia un covo di dolori, frustrazioni, condizionamenti.
Il limite estremo della morbosità familiare si tocca nel capitolo dedicato alla famiglia Mann, condensato di distorsioni sessuali, mancanza di amore, ambiguità storiche. Klaus, secondogenito di Thomas, è la figura tragica, quasi più letteraria che reale, che ne incarna le storture. Ragazzo prodigio e di ambizioni smisurate — al punto che il padre gli autografò con ironia sprezzante una copia della Montagna incantata, scrivendo «Al mio rispettato collega, il suo promettente padre» — sessualmente incerto, ma legato più che fraternamente a sua sorella Erika, tossicodipendente e antinazista più vibrante del suo prudente e celebre congiunto, visse fino al suicidio una vita alla continua ricerca dell’approvazione paterna, anche attraverso una frustrante competizione letteraria. Nel 1936 pubblicò Mephisto, in cui la figura di un personaggio che decide di non esporsi politicamente per non rovinare il suo successo artistico è, secondo Tóibín, ispirata precisamente da suo padre. Che, d’altra parte sembra rispondergli in Carlotta a Weimar, descrivendo così il personaggio di August, figlio di Goethe: «Essere figli di un grand’uomo è una grossa fortuna, un considerevole vantaggio. Ma, d’altra parte, anche un fardello opprimente, una umiliazione permanente del proprio ego».
Si dà il caso poi, ed è un caso non meno doloroso per una famiglia, di una vita segreta rivelata post mortem da un lascito letterario. Sempre nel libro di Tóibín si può leggere della vicenda legata ai Diari di John Cheever, recentemente pubblicati da Feltrinelli, che svelarono un’omosessualità tenuta a lungo nascosta tra le mura di casa. Mary Cheever, la moglie dello scrittore della suburbia americana, decise di non leggerli, giustificando così la sua scelta: «Non posso leggerli, non è la mia vita. Si tratta di lui. È tutto dentro di lui». Ed è proprio la consapevolezza di questo scarto tra realtà esterna e vita interiore, identificato con disperata lucidità dalla moglie di Cheever, che potrebbe alleviare i dolori delle vittime del fuoco amico, o parentale, della letteratura.

Repubblica 18.4.13
L’amico immaginario di Piero Gobetti
“Mandami tanta vita”, il romanzo di Di Paolo sull’intellettuale torinese
di Paolo Mauri


C’è un paradosso nella vicenda di Piero Gobetti: il suo biografo d’elezione, Umberto Morra di Lavriano, dedicò l’intera vita, che fu lunga, a indagare l’esistenza brevissima e intensa dell’amico, scomparso a soli ventiquattro anni, e non riuscì a completare il lavoro. C’è qualcosa di imprendibile nel ragazzo che a soli diciassette anni fondava la sua prima rivista e in poco tempo era in grado di dialogare con i maggiori intellettuali italiani, da Croce a Salvemini, compagno di strada di Gramsci e presto martire antifascista: scrittore, editore, giornalista e uomo politico.
È la sua imprendibilità che un giovane scrittore, Paolo Di Paolo, celebra e racconta oggi nel romanzo Mandami tanta vita (frase di Gobetti) dove appunto è di scena un altro giovane studente, Moraldo, che di Gobetti è proprio il contrario. Incerto negli studi e nella vita, Moraldo viene dalla provincia piemontese e come Gobetti è figlio di un commerciante. A Torino Moraldo abita a pensione da una famiglia e Gobetti lo ha intravisto all’università, con i suoi occhialini tondi. Di lui si dice tra l’ammirazione e lo sfottò che ama leggere Kant con gli amici al mattino presto e c’è chi lo ha visto far lezione accanto al professor Luigi Einaudi… Paolo Di Paolo coglie bene l’atmosfera torinese degli anni Venti (sono molto intense le pagine sul Carnevale) e manda il suo Moraldo in giro per luoghi canonici, costruendogli un’avventura con una ragazza fotografa che, probabile omaggio a Gozzano, si chiama Carlotta. L’incontro avviene per via di due valigie identiche scambiate. E mentre Moraldo cerca di dare un senso alla sua giovinezza piena di incertezze, Piero Gobetti, la cui giovinezza fu, l’osservazione è di Bobbio, prodigiosa, sta già avviandosi verso la fine. I fascisti lo hanno picchiato e gli impediscono di continuare a fare l’editore, lui sposa Ada Prospero e insieme mettono al mondo Paolo. Brevi istantanee illuminano la vita della coppia, prima della partenza di Piero per Parigi, dove è già stato e dove potrà contare su qualche amico. Paolo Di Paolo lo accompagna a Parigi, dove Piero starà sempre peggio. Spedisce a Parigi anche Moraldo, che insegue Carlotta, la disinvolta fotografa con cui ha avuto una storia breve come un flash.
Paolo Di Paolo lavora ovviamente su dati veri e ci fa incrociare molti amici di Gobetti, nominandoli appena per nome, da Sapegno a Montale di cui fu il primo editore. Ma il romanzo, bello proprio per l’asciuttezza e l’equilibrio, non è un romanzo storico: tende soprattutto a recuperare un’atmosfera e il miracolo di Piero, che simile ad un giovane santo, si avvia al martirio serenamente, soffrendo per il tempo che non basta, per il lavoro che tarda, per Ada e Paolo lontani. Oltre cent’anni dopo Gobetti è ancora vivo e irrisolto: se ne parla quasi con pudore. Forse non è un caso che persino Casorati, il pittore cui Piero dedicò una monografia nel ’23, aspettasse il 1961 per disegnarne il viso.

Mandami tanta vita di Paolo Di Paolo (Feltrinelli pagg. 158 euro 13)

La Stampa TuttoScienze 18.4.13
L’antenato a metà tra uomo e scimmia


Mezzo umano e mezzo scimmia: era l’Australopithecus sediba, un ominide di 2 milioni di anni fa, i cui segreti sono stati svelati in sei studi pubblicati su «Science». Analizzando una serie di fossili rinvenuti nel 2008 nel sito di Malapa, vicino a Johannesburg, si è dedotto che, «probabilmente, camminava in un modo che oggi potremmo trovare strano: era una sorta di bipedismo di compromesso di un ominide che ancora, in parte, si arrampicava sugli alberi», ha spiegato l'antropologo Scott Williams della New York University. «Quello di una femmina adulta, inoltre, è il primo scheletro di ominide che conserva una regione toracica terminale intatta: fornisce informazioni cruciali sulla transizione delle articolazioni inter-vertebrali e perciò sulla mobilità della parte inferiore della schiena».

La Stampa TuttoScienze 18.4.13
È ora di celebrare Wallace il genio che Darwin schiacciò
Cent’anni fa la morte dell’altro padre dell’evoluzionismo. Ora Londra lo riscopre
di Richard Newbury


Il «Ternate essay» È il nome della lettera­ saggio che Wallace spedì a Darwin dalla remota isola delle Molucche in cui enunciava la sua teoria dell’ evoluzione Quest’anno la Gran Bretagna celebra il naturalista in occasione dei 100 anni dalla scomparsa (avvenuta il 7 novembre 1913) con una lunga serie di eventi
Il 1° luglio 1858 un gruppo della Linnean Society si incontrò a Londra per annunciare la teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale di Darwin-Wallace. I proponenti erano l’amico e mentore di Darwin, Sir Charles Lyell, autore dei «Principi della geologia», e il botanico Joseph Hooker. In un «accordo riservato» i due signori avevano dato la precedenza a Charles Darwin sulla base di una bozza del 1842, trasformata nel 1844 in un saggio inedito, la cui tesi era che le migrazioni verso le isole oceaniche spiegassero il sorgere di nuove specie.
Perché tanta fretta e cosa c’entrava Alfred Russel Wallace, che quest’anno la Gran Bretagna celebrerà in occasione dei 100 anni della morte? Dal 1854 al 1862 si era dedicato alla raccolta di esemplari di flora e fauna nelle isole - a Nord e a Sud di quella che oggi è la «linea di Wallace» – dell’arcipelago malese. Ma Wallace non aveva idea che Darwin avrebbe reso pubblica la sua «Legge di Ternate» sulla tendenza degli organismi a progredire senza limiti temporali rispetto al prototipo: in altre parole era il nocciolo della futura «Origine delle specie». Ma se Wallace avesse mandato il suo saggio direttamente alla rivista «Annals and Magazine of Natural History», si sarebbe imposta - come Darwin, Lyell e Hooker temevano - la Teoria dell’Evoluzione di Wallace e il Wallaismo.
Darwin e Wallace erano diversi per ambiente di nascita e stili di vita. Ispirato da «Vestiges of the natural history of creation» di Robert Chambers, nel 1848 Wallace partì per l’Amazzonia e fu il primo a esplorare il Rio Negro. Nel 1853, poi, dichiara alla Società degli entomologi che «le specie mutano e c’è un qualche principio in natura che ne regola i mutamenti».
Mentre Darwin studia l’allevamento degli animali domestici, Wallace si cala nella natura. Se gli animali vivono secondo la selezione naturale, quelli domestici si trovano in una condizione di protezione innaturale, al sicuro dalla malthusiana sopravvivenza del più adatto. Wallace visse in Nuova Guinea e in Amazzonia con tribù dell’età della pietra e coabitò con un orangutan. Darwin non avrebbe potuto accettare che l’uomo si evolvesse, né la deriva dei continenti, né che evoluzione ed estinzione coesistessero.
«Si pensa che la natura sia ordinata e pacifica, perché si ignora il meccanismo sottostante. Questa guerra incessante è invece il mezzo da cui si generano gran parte della bellezza, dell’armonia e della piacevolezza della natura stessa e allo stesso tempo offre gli elementi fondamentali per determinare l’origine delle specie»: era questo il salto nel buio di Wallace nella giungla, salto che condivise in una lettera con Darwin, il quale, lentamente, capì, accettò e copiò.
«Gran parte dei fatti utilizzati da Wallace erano a disposizione del mondo scientifico già prima del 1858, ma fu la sua mente aperta a permettergli di apprezzarli e capirli», ha scritto Lewis McKinney. E, infatti, per Wallace, l’etnografo in comunione con gli uomini dell’età della pietra e i primati, l’uomo non era - come per Lyell, Hooker o Darwin - la vetta della creazione, ma una scimmia semi-evoluta.
Nel 1855, mentre Darwin credeva ancora che le nuove specie si formassero solo nelle isole e che non vi fosse alcuna variazione di specie in ambienti non colpiti da «catastrofici» cambiamenti geologici, Wallace pubblicava la «Legge di Sarawak» negli «Annals and Magazine of Natural History», sostenendo che le nuove specie compaiono in correlazione con quelle preesistenti e che discendono da un antenato comune. Ecco perché l’anno dopo Lyell vede in questa «Legge» una minaccia a Darwin e, spinto da Lyell, Darwin inizia il suo saggio sulla «Selezione naturale» per battere sul tempo Wallace, anche se continua a negare la deriva dei continenti di Forbes. Ma già nel maggio 1856 Wallace identifica la linea lungo le isole indonesiane (a cui sarà dato il suo nome), che separa il «biota» dell’Australia da quello dell’Asia, confutando la teoria della migrazione dei semi di Darwin e dimostrando la deriva dei continenti.
Depresso dal silenzio con cui la critica ha accolto la sua «Legge di Sarawak», Wallace sente che solo Darwin avrebbe capito le sue idee radicali, dimostrando, tra l’altro, che Lyell aveva torto e Forbes ragione. Così, di ritorno a Ternate, quando il postale recapita la risposta di Darwin, il 9 marzo, Wallace redige la sua «Legge di Ternate» in 4 mila parole (secondo la quale in natura le varietà tendono a progredire indefinitamente rispetto all’originale) nelle sei ore che mancano alla partenza della nave. L’arrivo della lettera, il 3 giugno, nella sua residenza nel Kent spaventa a tal punto Darwin da spingerlo a modificare il suo testo.
Nelle successive lettere a Wallace, che nel 1862 è rimpatriato, Darwin, Lyell e Hooper sono d’accordo nel sostenere di avere avuto un comportamento più che corretto nei suoi confronti. Wallace, che odiava medaglie e «grane», si comporta da gentiluomo, con ironia. «L’idea - scrisse - mi è venuta così come l’ho comunicata a Darwin, con un’intuizione. Non dovrei aver motivo di lamentarmi, se la divisione del merito tra Darwin e me per quanto riguarda la spiegazione del metodo di sviluppo è stata stimata in proporzione al tempo che le avevamo dedicato prima che venisse resa pubblica, 20 anni contro una settimana». Eppure «La Lettera di Ternate» era stata pubblicata nell’agosto 1858, mentre «L’origine delle specie» uscì nel dicembre 1859!
Traduzione di Carla Reschia

Corriere 18.4.13
La moglie perfetta secondo Darwin
Il metodo della selezione e del dubbio per scegliere la compagna della vita
di GIiulio Giorello


«Se dobbiamo parlare di filosofia, il luogo migliore in cui farlo è un bar», dice uno dei personaggi di L'amore è un difetto meraviglioso, con cui Graeme Simsion, sceneggiatore australiano, esordisce nella narrativa con la Longanesi. Il che ben si addice al protagonista del romanzo, Don Tillman, genetista che per ragioni di cuore darà prova di sé persino nell'arte di preparare cocktail. Comunque, pensa che ogni aspetto della biologia acquisti la sua giusta luce solo con la teoria darwiniana dell'evoluzione, e ritiene che «attacchi virulenti» di qualsiasi Chiesa contro la ricerca si rivelino infine inefficaci come lo sono stati quelli dell'Inquisizione contro Galileo, come già osservava Darwin in una lettera del 1878.
I cosiddetti creazionisti non gli paiono nemmeno capaci di quell'atteggiamento critico che consiste nel riconoscere quando le proprie idee vengono «sconfessate». Sospeso così tra Charles Darwin e Karl Popper, Don Tillman procede per congetture e confutazioni persino nella scelta della propria compagna di vita! Prepara un questionario a cui dovranno rispondere le eventuali candidate, uno strumento «comprendente gli ultimi sviluppi della scienza del test», per individuare e quindi severamente eliminare «le inconcludenti, le disorganizzate, quelle che credono ai tarocchi o all'oroscopo, quelle ossessionate dalla moda, le fanatiche religiose, le vegane, le fumatrici» eccetera; né risparmia «quelle che di scienza non sanno nulla».
Tillman non lo sa (e nemmeno l'autore lo nota), ma sta ripercorrendo le orme di uno dei più grandi scienziati dell'età moderna, Giovanni Keplero. Rimasto vedovo dopo un primo matrimonio combinato dagli amici, l'astronomo aveva deciso di risposarsi, ma... In una lettera datata Linz, 23 ottobre 1616, racconta «da filosofo» a un gentiluomo rimasto senza nome le traversie in cui era incappato, lui, giunto all'età «in cui le passioni si spengono e il corpo si dissecca e si ammollisce». La prima candidata era troppo anziana «e non aveva niente che mi piacesse»; la seconda, figlia della precedente, pareva metterlo in una condizione poco conveniente; la terza aveva concesso la promessa di matrimonio a troppi maschietti; la quarta poteva essere adatta, «nonostante la sua atletica corporatura»; la quinta era la bella, giovane e modesta Susanna Reutinger, ma «Dio permise che avesse nuove rivali» nel soddisfare il «difficile cuore dello scienziato». Però, troppo orgogliosa la sesta, troppo nobile la settima, troppo indecisa l'ottava, troppo sospettosa la nona, di famiglia agiata e parsimoniosa la decima, «ma di taglia brutta persino per un uomo dai gusti semplici»; l'undicesima opulenta, ma troppo giovane.
Mentre il circondario mormora, il nostro alla fine si risolve per la numero 5: quella che i suoi consiglieri considerano la meno adeguata, ma che lui ritiene l'unica in grado di donargli una felicità che ha finora trovato solo nella contemplazione degli astri. «Posso trovare anche in me Dio, che tocco con il dito quando contemplo l'Universo».
Con tutte le differenze del caso, lo stesso capita a Don Tillman, che scarta una candidata dopo l'altra, senza rendersi conto che quella giusta l'ha già trovata nella persona dell'irruente anticonformista Rosie, una rossa di origine irlandese che gli sconvolge abitudini alimentari e accademiche, facendo insieme la dottoranda e appunto la barista. In un suo capolavoro dedicato ai tortuosi sentieri della scoperta scientifica, I sonnambuli, (1959, in traduzione italiana Jaca Book 1981 e successive ristampe), un grande narratore come Arthur Koestler osservava che «il sistema attuato da Keplero nello scegliere una buona sposa ricordava in modo curioso il metodo delle sue scoperte scientifiche». Nel determinare la forma geometrica dell'orbita di Marte, aveva messo alla prova una curva dopo l'altra, imbattendosi quasi per caso nell'ellisse, che inizialmente aveva scartato, salvo tornare alla fine sui propri passi. Tillman, a sua volta, constata che, si tratti di donne o di problemi scientifici, la risposta è talvolta così sotto gli occhi da non essere notata, finché l'imprevisto non scioglie la situazione come un improvviso risveglio.
Carl Gustav Jung, coadiuvato dal fisico Wolfgang Pauli, ha sottoposto a un'analisi del profondo perfino Keplero, lo scopritore della forma delle orbite dei pianeti. Don Tillman si appassiona alle cause sconosciute dell'autismo. Ma i lettori scopriranno che, come l'Edipo di Sofocle, il nostro accademico sta studiando il male che divora lui stesso. Le sue difficoltà di comunicazione, la scarsa capacità di integrazione sociale, l'ossessione minuta per i particolari, l'attenzione maniacale al cibo, e soprattutto la sua apparente mancanza di empatia mostrano che egli soffre con tutta probabilità della sindrome di Asperger, in cui — a differenza di altre forme di autismo — la mente resta «ad alto funzionamento». Nell'indicare l'interprete cinematografico ideale, Simsion ha dichiarato che «sarebbe stato un Don Tillman perfetto» proprio un saltimbanco di Bristol, il signor Archibald Alexander Leach, diventato famoso come Cary Grant; ma dovrebbe pensare anche a un altro nativo della città inglese, quel Paul Dirac che ha cambiato il volto della fisica del Novecento. Questi — come racconta il suo biografo Graham Farmelo — fu veramente L'uomo più strano del mondo (libro edito dalla Raffaello Cortina): «sospettato» anche lui di autismo, ma scienziato più che geniale, si rivelò, una volta trovata la debita presenza femminile, amatore appassionato.
Non svelerò qui come Don Tillman trovi alla fine, nell'oscurità del proprio animo, il dio dell'amore. Ma poiché con Darwin si è cominciato, con Darwin mi piace finire. Il mite Charles, in un appunto probabilmente del 1838, mise su carta con metodo scientifico «vantaggi e svantaggi dello sposarsi». Una moglie, che seccatura! «Non potrei mai imparare il francese, o vedere l'Europa, o andare in America, o fare un'ascensione in pallone, o magari una gita solitaria nel Galles». Però, «fidati del destino, e tieni gli occhi aperti». Darwin sposò Emma Wedgwood il 29 gennaio 1839, e si tenne lontano dalle mongolfiere.

Corriere 18.4.13
Un algoritmo da Nobel per la felicità matrimoniale


L'idea di utilizzare la scienza economica, e in particolare la teoria dei giochi, nella ricerca della «coppia perfetta», non è soltanto materia narrativa: l'anno scorso lo scienziato americano Alvin Roth, che con Lloyd Shapley ha vinto il Nobel per l'Economia, ha inventato un algoritmo, cioè un procedimento matematico che aiuterebbe a individuare la persona giusta con cui sposarsi. Sull'argomento, oltre a Graeme Simsion con L'amore è un difetto meraviglioso (Longanesi, pp. 372, 14, in libreria da lunedì 22) sono da citare: Graham Farmelo, L'uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti (Raffaello Cortina); Charles Darwin, Autobiografia, e Lettere sulla religione (entrambi Einaudi); Chiara Ceci, Emma Wedgwood Darwin (Sironi) 

l’Unità 18.4.13
Il ritorno di Machiavelli
Una nuova biografia del pensatore per scoprire l’attualità della sua opera
di Giulio Ferroni


MACHIAVELLI
Gennaro M. Barbuto, Machiavelli pp.384 euro 23,00 Salerno Editore
Nell’anno del 500entenario del Principe, Gennaro Maria Barbuto porta in libreria una nuova biografia politico-intellettuale di Machiavelli. Il Segretario desta interesse soprattutto nei periodi più drammatici e decisivi della storia europea moderna: dalle guerre di religione alla formazione dello Stato moderno, alla crisi rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, al Risorgimento fino al tragico Novecento fra il ’14 e il ’45. La sua politica è ricerca di un bene comune, che sia espresso in leggi, non a beneficio della singola parte, ma della res publica.

Viviamo nel paradosso di una lotta politica che si svolge nella generale liquidazione della competenza
Lui invece rivendica esattamente la sua conoscenza politica frutto della sua esperienza
Nel quinto centenario de «Il principe» il libro di Barbuto inaugura una fitta serie di iniziative editoriali a lui dedicate, tra cui per la Treccani un’Enciclopedia machiavelliana diretta da Gennaro Sasso

VIVIAMO NEL PARADOSSO DI UNA LOTTA POLITICA CHE SI SVOLGE SOTTO IL SEGNO DEL DISCREDITO DELLA POLITICA, di una generale e stupida liquidazione dell’esperienza e della competenza, alla ricerca perpetua di un «nuovo» che spesso si appoggia ai più frusti modelli pubblicitari e mediatici, agli effetti dell’apparire, o a recitazioni di moralismo del tutto prive di spessore intellettuale. Avrebbe molte cose da dire in proposito il vecchio Niccolò Machiavelli, del cui Principe (o meglio della sua prima stesura) ricorre quest’anno il quinto centenario: e avrebbe da dirle non tanto per il suo acume teorico, ma per la sua stessa esperienza personale, per la competenza acquisita ed esercitata nei quindici anni (dal 1498 al 1512) del suo lavoro di segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina e per l’insistenza con cui, una volta perso il posto per il ritorno al potere della famiglia dei Medici, continuò a rivendicare quella sua competenza, la sua dedizione alle istituzioni, la sua passione per l’«arte dello stato», aspirando ancora a «voltolare un sasso» nel campo della politica.
La riflessione di Machiavelli sulla politica, non solo nel Principe, ma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e in tanti altri scritti, scaturisce sempre direttamente dal suo impegno a guardarla dall’interno, dall’averla esercitata direttamente e dal volerci tornare dentro.
Per questo è essenziale prestare attenzione alla sua biografia, al nesso strettissimo tra la sua vicenda personale e le sue grandi opere, in un’esistenza tutta calata dentro la difficile e convulsa situazione dell’Italia e di Firenze di fine Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, tra le molteplici difficoltà a cui in quegli anni erano esposti gli stati italiani, sotto la pressione delle invasioni straniere.
Particolarmente utile e tempestiva appare allora la biografia di Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli, Salerno editrice (2013, pp.380, €.23,00), che inaugura una fitta serie di iniziative editoriali previste per questo quinto centenario del Principe, tra cui per la Treccani un’Enciclopedia machiavelliana diretta da Gennaro Sasso.
Intanto procede verso la conclusione quello che può essere considerato il più importante risultato degli studi machiavelliani degli ultimi decenni, e cioè l’Edizione nazionale delle Opere presieduta da Enrico Malato, pubblicata dalla stessa Salerno editrice: dei 20 tomi previsti ne sono già usciti 14, tra cui proprio in questi giorni quello degli Scritti in poesia e in prosa, a cura di A.Corsano, P.Cosentino, E.Cutinelli-Rèndina, F.Grazzini, N.Marcelli, coordinati da Francesco Bausi (pp.648, €.).
Raccogliendo il frutto di tante ricerche egli ultimi anni, il percorso biografico di Barbuto mostra molto bene come alcune delle concezioni politiche machiavelliane (anche di quelle più rivoluzionarie e sconvolgenti) siano maturate direttamente tra i problemi, i rapporti, le difficoltà che il segretario affrontava nel concreto impegno quotidiano negli anni del lavoro di segretario (che comportava molteplici missioni sia entro lo stato fiorentino che presso stati e corti italiane e straniere, portandolo tra l’altro più volte fino in Francia).
SPREGIUDICATA VIVACITÀ
Assumono rilievo non trascurabile anche le notizie sulla vita privata (spesso troppo trascurate da filosofi e politologi), in cui spicca la spregiudicata vivacità di comportamenti che alimentano in profondità quella prospettiva antropologica, quell’attenzione alla psicologia sociale che è essenziale nell’orizzonte politico machiavelliano (e a me pare che, nel nostro tempo di studi «di genere», sarebbe interessante approfondire il tema dei rapporti con le donne, insistendo sia sul rilievo che nel Principe assume l’immagine della Fortuna come «donna», sia sui caratteri delle figure femminili nelle commedie e negli stessi scritti poetici raccolti nel volume appena uscito dell’edizione nazionale).
Dal radicamento degli scritti nella biografia ricevono qui più viva luce alcuni nodi centrali del pensiero di Machiavelli: così l’interesse che egli ebbe per la figura di Savonarola (valutato però in una chiave essenzialmente «politica», non senza ironica diffidenza); la nozione della religione come «fondamento infondato»; il distacco dai vicini modelli umanistici (pur entro una passione per la cultura classica e il mondo antico); la convergenza tra l’orizzonte teorico del Principe e quello dei Discorsi («Non esistono un Machiavelli repubblicano e un Machiavelli monarchico», dato che le due opere convergono nell’identificare la necessità di un controllo individuale del potere statale, indipendentemente dalla sua struttura istituzionale), ecc.
Oltre il percorso biografico, il libro di Barbuto è concluso da due interessanti capitoli di Confronti; con il pensiero di Guicciardini, che del resto ebbe una stretta amicizia con Machiavelli (tra convergenze e divergenze, che delineano modi diversi di rapportarsi alla concretezza del fare politico), e con l’Utopia di Thomas More (di cui forse Machiavelli conobbe l’edizione fiorentina del 1519).
Nel caso dell’Utopia, la verifica della distanza tra il modello di città ideale tracciato dall’umanista inglese e il realismo machiavelliano conduce a toccare alcune essenziali contraddizioni da cui scaturisce l’interesse attuale dello stesso pensiero del segretario, al di là delle tante correnti immagini convenzionali che ancora ne fanno cinico maestro di spregiudicatezza politica.
Si vede così come, di contro ad ogni immagine utopica di ritorno ad una natura originaria e incontaminata o di trionfo assoluto del «bene», Machiavelli rivolga lo sguardo ad «una realtà ossimorica, non pacificata né pacificabile, senza la illusione di riscoprire verità pure e di costruire una città senza conflitti».
LA TERRIBILE TEMPESTA
Così lo studioso mette a suggello di questa biografia la citazione di una eccezionale pagina delle Istorie fiorentine su di una terribile tempesta avvenuta nel 1456: in definitiva la nozione stessa di politica appare inscritta nella necessità naturale, dentro cui deve agire anche come controllo e conduzione a bene (un bene relativo, insufficiente, parziale, come ogni bene umano) dei conflitti umani; rimedio e non azzeramento, salvataggio del bene possibile e non distruzione. È questa la politica di cui abbiamo bisogno: che, insieme alle vite e ai bisogni umani, oggi dovrebbe chiamare in causa anche i «beni» naturali e ambientali.