venerdì 19 aprile 2013

il Fatto 19.4.13
L’ex garante a Left il 12 luglio
“Democrazia elettronica=populismo”

“Grillo è figlio di tutto quello che non è stato fatto”. Lo disse Stefano Rodotà a Left il 12 luglio, aggiungendo: “Lui afferma che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in Rete: rischia di dare ragione a chi dice che la democrazia rappresentativa è il populismo del Terzo millennio”

La Stampa 19.4.13
I vecchi battibecchi con l’ex comico
«Pensionato d’oro». «Nel suo movimento populismo pericoloso»


Tra Beppe Grillo e Stefano Rodotà non c’è un rapporto organico. Anzi, non sono mancate le critiche reciproche. Rodotà nel 2010 è finito nella «black list» grillina dei pensionati d’oro: in un articolo dal titolo «Maledetti, non vi pensionerò», Grillo lo ha inserito nell’elenco dei privilegiati della «casta» per la sua pensione da 8.455 euro al mese (deputato dal ’79 al ’94, per quattro legislature). Intervistato da «Left» nel 2012, Rodotà dichiara: quando «si scopre che Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio del ceto politico, allora vediamo che il tessuto di questi movimenti è estremamente pericoloso». E ancora: «Anche oggi vedo grandi pericoli. Il fatto che Grillo dica che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in Rete, rischia di dare ragione a coloro che dicono che la democrazia elettronica è la forma del populismo del terzo millennio. Queste tecnologie vanno utilizzate in altri modi: l’abbiamo visto con la campagna elettorale di Obama e nelle primavere arabe». Ma «Grillo - spiegava Rodotà - è figlio di tutto quello che non è stato fatto: la perdita di attenzione per le persone, la corruzione, la chiusura oligarchica. Gli ultimi due Parlamenti li avranno scelti al massimo 20 persone»

l’Unità 19.4.13
La protesta
Militanti occupano le sedi: «Niente accordi con il Pdl»


In Toscana la votazione per il Quirinale scatena «Occupy Pd»: militanti dei Giovani democratici che occupano in segno di protesta alcune sedi del partito: prima a Prato, poi a Capannori ed Empoli. A protestare non sono, come poteva sembrare ovvio, solo i renziani, ma anche molti di coloro che è il caso della “rossa” Livorno alle primarie hanno scelto Bersani contro il sindaco di Firenze. La federazione del Pd livornese per il suo no alla scelta di Bersani ha usato le parole dell’arte, con uno dei «tagli» di Lucio Fontana accompagnati dalla frase «Il dissenso è un altro modo di sognare». Più esplicito il segretario della federazione del partito, Samuele Lippi: «Bersani, faccio appello al tuo buon senso. Lascia stare accordi con il Pdl, è l’ultima occasione».
I giovani del Pd pratese alla finestra della sede hanno steso un lungo lenzuolo con scritto «Un presidente per il cambiamento. Occupy Pd». Per tutto il giorno la pagina facebook del partito pratese aveva accolto proteste dei singoli militanti, molti i favorevoli a votare Stefano Rodotà.
«Noi siamo la generazione nata politicamente col Pd, e al Pd crediamo e teniamo profondamente. Per questo spiegano i ragazzi lucchesi come Giovani democratici di Lucca e Capannori abbiamo deciso di occupare simbolicamente la sede di Capannori, per rafforzare la linea già espressa da tutto il partito lucchese di dissociazione dalla scelta dell’indicazione di Franco Marini».
Non pochi parlamentari toscani, e non solo renziani, fanno intanto sapere, via web, di non aver votato Marini e di attendere ora un nome condiviso su cui trovare una larga convergenza e in grado di ricompattare il Partito democratico.

l’Unità 19.4.13
Il gelo fra i Grandi elettori «Dove ci sta portando?»
Litigi, molti «io l’avevo detto», il tentativo di ritrovare una comunità d’intenti, la battuta:
«Se nemmeno la Moretti ha votato per Marini...»
di Maria Zegarelli


Si incrociano in un corridoio che corre lateralmente al Transatlantico ed è come una scintilla che fa scoppiare l’incendio. «Vi avevamo avvertito di fermarvi ieri sera, durante l’assemblea e invece vi siete ostinati ad andare avanti. Era evidente che sarebbe andata a finire così». «Stai insinuando che noi di Areadem abbiamo imposto un candidato a tutti i costi? È questo che stai insinuando?». Andrea Orlando e Francesca Puglisi alzano la voce, niente cortesia, non oggi, a prima votazione avvenuta, quella che ha visto il Pd andare in pezzi e Franco Marini, il candidato al Colle, fermarsi a quota 521. Troppo bassa per provarci una seconda volta, prova plastica, semmai ce ne fosse bisogno del marasma democratico. «Ieri sera al Capranica vi abbiamo chiesto di rinviare il voto dei gruppi a stamattina, di prenderci qualche ora in più perché era evidente che Marini era un candidato che divideva», ripete Orlando. «Noi lo abbiamo fatto per salvare la linea del segretario, rinviare tutto avrebbe significato sfiduciarlo», replica la parlamentare Areadem. «E invece andando avanti lo avete salvato? Te lo chiedo: avete salvato il segretario?» rilancia Orlando. «Il fatto è che si è rotto il patto su cui si teneva la coalizione: quando si decide a maggioranza tutti rispettano la decisione e invece persino la portavoce alle primarie di Bersani ha votato scheda bianca», replica Puglisi in aperta polemica con Alessandra Moretti. L’emorragia dei consensi al segretario è l’altro tema che tiene banco: i bersaniani, quelli ritenuti tali fino ad ora, sono disorientati. «Dove ci sta portando?», chiede una parlamentare che alle primarie ha battuto palmo a palmo la Lombardia. Dall’Emilia Romagna arrivano i segni evidenti della frana: i parlamentari della regione di Bersani e Vasco Errani (uno dei pochissimi consiglieri del segretario in questi ultimi mesi) sono in tutto 40, 28 deputati e 12 senatori. «Siccome non mi rassegno, sto telefonando a tutti i parlamentari Pd che conosco per chiedere di non votare Marini. Nulla contro l’uomo, ma è la scelta politica ad essere sbagliata, per questo non mi rassegnerò ad essere un semplice passacarte, ma farò la mia battaglia», scrive su Facebook Paolo Calvano, coordinatore dei segretari provinciali Pd in Emilia-Romagna. E infatti decidono per l’astensione: è troppo forte la pressione che arriva dal territorio. Anna Finocchiaro racconta che a un certo punto della notte ha smesso di contare gli sms e del mail di amministratori e dirigenti che minacciavano le dimissioni. Caterina Pes è al telefono, «come è stato possibile che non si siano resi conto di quello che stava accadendo fuori di qui? La gente non ci vuole neanche più ascoltare. Io non ho votato Marini e non lo voterò».
Matteo Orfini, «giovane turco» che nel suo intervento l’altra sera al Capranica aveva chiesto di prendere tempo, oggi vede che è a rischio non soltanto il candidato al Colle, ma tutto il partito. C’è chi parla esplicitamente di scissione, chi chiede di prendere in mano una situazione che sembra sfuggita di controllo. «Ormai non esiste più, è inutile continuare a discutere della candidatura di Marini dice ad un certo punto il responsabile Cultura -: bisogna trovare una candidatura diversa. Dobbiamo discutere con tutti, anche con il Movimento 5 stelle». Francesco Verducci propone di cambiare tutto, a partire dal metodo: «Cerchiamo di rimettere insieme il centrosinistra e la coalizione, puntiamo su una candidatura di alto profilo istituzionale e poi apriamo alle altre forze politiche». Si fanno i nomi di Laura Boldrini, Piero Grasso, il presidente della Corte Costituzionale, Franco Gallo. Il veltroniano Walter Verini propone Sabino Cassese, Walter Veltroni propone un nome esterno alla politica.
Gli ex popolari sono furibondi. «Ecco il risultato della giovane truppa arrivata con le primarie: non rispondono a nessuno, solo a Facebook». Antonello Giacomelli, vice della presidenza del gruppo, quando capisce che è andata, dice che è evidente che è stata bocciata la scelta della larga condivisione. Sotto tiro chi insegue le sirene grilline e Nichi Vendola «che fino a ieri pomeriggio ha garantito a Bersani di appoggiare Marini». Smentisce il governatore pugliese: «Non è vero, ieri ho litigato furiosamente con Bersani e Errani. Gli ho detto che stavamo andando a sbattere contro un muro, che non potevamo presentare Marini».
Il renziano Matteo Richetti prova a contenere la sua soddisfazione ma non ci riesce. «Lo avevamo detto noi, anche i bersaniani hanno mollato il segretario. Adesso però bisogna lavorare ad una linea condivisa, dobbiamo far uscire il partito dall’angolo in cui è finito». Alla prima votazione molti di loro hanno scelto Sergio Chiamparino, (Roberto Giachetti ha votato Emma Bonino), ma ora puntano su Romano Prodi. Ecco, provate a chiedere cosa ne pensa Rosy Bindi rispetto alla candidatura del Professore. «Hanno fatto una forzatura con Marini e adesso eccoci qui», commenta convinta come è che è il fondatore dell’Ulivo il candidato migliore, quello che alla fine spaccherebbe anche il M5S. «La sfida è fra Prodi e D'Alema ma in campo ci sono ancora sia Rodotà che Marini. Se dovessi metterli in ordine direi Rodotà, Prodi e D'Alema», dice Pippo Civati.
Di occhi lucidi se ne vedono parecchi, di liti consumate sotto voce anche. Quelli che mercoledì sera erano al Capranica raccontano di un’assemblea «da fine della storia», una bersaniana confessa di essere rimasta di stucco di fronte al discorso del segretario: «Nessun accenno agli altri candidati in campo, alla loro autorevolezza, nessun dubbio di fronte ad una spaccatura che era evidente a tutti».
Quando un cronista chiede ad Orlano cosa stia accadendo la risposta è rivelatoria: «Non so nulla. Ho ricevuto un sms con il quale mi si comunica che devo votare scheda bianca. Chiedete al cerchio magico cosa sta accadendo». In serata tutte le aree si riuniscono in vista di questa mattina, quando saranno chiamati a decidere con un voto quale sarà il loro candidato. Nessuno si fida più di nessuno e in tanti temono che la vendetta degli ex popolari arrivi su un piatto servito al quarto voto. «Non diciamo sciocchezze replica Giacomelli, è il momento della massima responsabilità da parte di tutti. Credo che il segretario verrà con una proposta secca per questa nuova fase e su quella ci esprimeremo anche con il voto. Poi, tutti si sta alla decisione».

l’Unità 19.4.13
Emilia, il partito in tensione: «I nostri non capiscono»
Gli appelli del segretario regionale e di quello di Bologna, i messaggi in rete: «Fermatevi»
di Paola Benedetta Manca


Giornata agitata tra i democratici dell’Emilia-Romagna. La possibilità di un’intesa con Berlusconi per la scelta di Franco Marini al Colle ha fatto saltare il «tappo» del malumore della base del Pd. E non solo: dirigenti di primo piano del partito, come il segretario regionale, Stefano Bonaccini, e quello bolognese, Raffaele Donini, di primo mattino hanno lanciato inequivocabili appelli dai social network agli esponenti democratici chiamati a votare: «Fermatevi!».
Un pressing, quello della fronda emiliana che si è ribellata alla decisione del partito guidato da Bersani, che ha inciso non poco sull’esito della votazione al primo scrutinio. I parlamentari eletti in regione si sono riuniti in mattinata a Montecitorio e hanno approvato a maggioranza una linea di astensione, un segnale di forte dissenso. E non solo: nove grandi elettori modenesi del Pd, (otto tra senatori e deputati e la presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Palma Costi) hanno addirittura prodotto un documento nel quale hanno scritto che «la candidatura di Marini non risulta in grado di interpretare quel sentimento di cambiamento emerso con tanta forza dalle recenti elezioni politiche» e hanno deciso di votare scheda bianca.
Poi, gli appelli di Bonaccini e Donini che, dalla pagina Facebook, in mattinata ha inviato una richiesta al gruppo dirigente nazionale: «Vi prego fermatevi, la nostra gente non capisce. Come può essere considerata condivisa una candidatura che spacca il Pd e sbriciola il centrosinistra, con l’unico pregio di accontentare Berlusconi? Marini faccia un passo indietro». Per tutto il giorno, la federazione bolognese è stata subissata di mail, telefonate, sms e messaggi sui social network – ne sono arrivati almeno 200 di iscritti sconcertati e arrabbiati per la candidatura di Marini che vedono come anticipatrice di un «inciucio» con Berlusconi. Il segretario Donini, già mercoledì sera, ha informato il livello nazionale e i parlamentari di cosa stava succedendo sotto le Due torri. Solo la prima elezione andata a vuoto e le successive due, dove le schede bianche hanno dominato, sono state capaci di riportare un po’ di serenità nella sede del Pd. In serata, lo stesso Donini ha mandato una lettera agli iscritti per rassicurarli, informandoli di aver chiesto ai vertici di esprimere il nome di un candidato autorevole, capace di riconciliare la politica con i cittadini, come è avvenuto con la scelta dei presidenti di Camera e Senato.
I parlamentari emiliano-romagnoli sono 40: 28 i deputati e 12 i senatori. Solo due sono renziani, Matteo Richetti e Michele Anzaldi, ma solo tre eletti, Francesca Puglisi, Gian Carlo Sangalli e Gianluca Benamati (candidato però in Piemonte), hanno votato per Marini. «Anche il peggior sordo avrebbe sentito la protesta diffusa dei nostri iscritti, dei nostri elettori, che dicevano a gran voce ’no’ a Marini» ha commentato ieri il senatore e sindaco di Crevalcore Claudio Broglia che ha votato scheda bianca. E se i parlamentari emiliani hanno praticamente boicottato in blocco la candidatura di Marini, quelli romagnoli non hanno sposato certo una linea diversa. «Ho votato in assemblea contro l’accordo su Franco Marini, perché questa candidatura divide il Pd,
la coalizione di centrosinistra e il Paese» dice la deputata riminese Emma Petitti che in aula si è astenuta alla prima votazione. Anche il cesenate Enzo Lattuca (il più giovane parlamentare di Montecitorio, 26 anni) ha preferito astenersi. Il forlivese Marco Di Maio non ha votato l’ex presidente del Senato – chiarisce «semplicemente perchè credo ci siano altre proposte in campo che possono meglio svolgere il ruolo di Capo dello Stato».
Passato lo sconcerto, ora si guarda alle possibili soluzioni della partita del Quirinale. E l’indicazione degli emiliano-romagnoli a favore dell’emiliano Romano Prodi. La pensano così sia in Regione, dove il capogruppo Marco Monari ha espresso chiaramente la sua preferenza, che fra i parlamentari. Anche i dirigenti cittadini e regionali hanno fatto un appello per la candidatura del professore. Per Prodi, infine, si sono mossi anche i renziani.

l’Unità 19.4.13
Quanto è ipocrita la ricerca del «migliore»
di Andrea Di Consoli


SOLO CHI IGNORA LA STORIA E I COMPLESSI MECCANISMI DELLE REPUBBLICHE parlamentari si può permettere il lusso, a proposito dell’elezione del Capo dello Stato, di fare i capricci sui nomi, di accapigliarsi sul «migliore». Questo lusso pre-politico è un gioco al massacro, perché ciascuno di noi ha una bandiera da sventolare più in alto, un album di famiglia da rivendicare. Ma le elezioni per il Quirinale non sono un referendum puerile sull’italiano più colto, più intelligente, più autorevole ma, al contrario, l’individuazione di un uomo saggio che sappia, con il proprio equilibrio, rappresentare un punto di convergenza e di garanzia del maggior numero di forze politiche in un dato momento storico.
Se c’è una cosa che non manca alla politica italiana è l’ipocrisia. Non dico che avesse ragione Rino Formica nel ridurre tutto a «sangue e merda», ma francamente ha qualcosa di stucchevole tutto questo pretendere, in base a simpatie personali e valutazioni puramente umorali, l’individuazione di un presidente sovrumano, perfetto in assoluto. Ma chi l’ha detto che storicamente in Italia al Quirinale è sempre andato il «migliore»? Invece è andata esattamente al contrario: al Quirinale è sempre stata eletta la figura più utile. Utile al contempo per la breve, per la media e per la lunga distanza. Perché negarlo?
Si dice che bisogna eleggere un presidente della Repubblica sganciandolo dal problema del governo e che bisogna trovare il massimo di condivisione intorno a un nome non divisivo. Queste premesse sono quasi sempre disattese. La battaglia per il Quirinale è una solenne cerimonia durante la quale i partiti di maggioranza e di opposizione, nonché le correnti interne ai partiti, si «accoltellano» da sempre con veti incrociati, franchi tiratori e calcoli di bassa cucina politica. Ma finché la nostra rimarrà una Repubblica parlamentare, le cose andranno così, e non è affatto detto che sarà un vivere migliore affidandosi a puristi, moralisti, utopisti e teorizzatori di
qualsivoglia «homo novus». Entriamo nel concreto. Si ha un bel dire che l’elezione del futuro Capo dello Stato deve essere sganciata dalle dinamiche politiche odierne e che bisogna «volare alto». Chi lo dice è solo un ipocrita, un pericoloso dilettante oppure un mentitore. Le cose vanno in maniera diversa, e cioè che in base a chi andrà al Quirinale si capirà se ci sarà un governo Pd-Pdl, un governo Pd-M5S oppure se si tornerà alle elezioni. Ma come si fa a chiedere a un segretario di partito di non tenere conto di questi aspetti vitali? E come si fa a pretendere di costruire partiti a vocazione maggioritaria senza mai «sporcarsi le mani» con i compromessi, le concessioni all’opposizione e alle correnti di minoranza? L’ho sempre detto, anche a me stesso: se non si vuole accettare i riti, i compromessi e le regole scritte e non scritte della democrazia parlamentare, allora bisogna avere l’umiltà di rimanere forza extraparlamentare. Al contrario, una volta varcata la porta del Palazzo, nessuno può pensare di non cedere un po’ delle proprie posizioni in favore di altre. Il Parlamento non è il tribunale della verità e della purezza, ma il massimo tempio della democrazia, dove non è vero che il dialogo o la concessione prefigura sempre un «inciucio».
Pierluigi Bersani, che pure avrebbe avuto il dovere nei mesi scorsi di non esporre eccessivamente a sinistra il suo partito visto che la componente centrista e cattolico-democratica è abbastanza cruciale, anche in termini elettorali ora si trova nella condizione di dover trovare un nome per il Quirinale che ricompatti il suo partito e prefiguri la possibilità della nascita di un governo. Ogni mossa che farà sortirà inevitabilmente veti e defezioni: se si esporrà troppo a sinistra sarà ostacolato dai moderati e dal Pdl, se si esporrà troppo al centro sarà osteggiato dalla sinistra più intransigente e, caso inedito, dalla componente centrista che vuole scalzarlo a qualsiasi costo. In questa condizione tutto diventa difficile, ai limiti dell’impossibile. Dunque Bersani dica apertamente quali sono le sue idee a proposito del governo. Solo così, sottraendola al gioco massacrante del «migliore», la partita del Quirinale potrà sbrogliarsi facilmente.

l’Unità 19.4.13
Larga condivisione, non subalternità
di Paolo Soldini


COMINCIAMO DALLA FINE. Se quello che abbiamo letto sui giornali è vero, Bersani aveva una terna di nomi per la presidenza della Repubblica, con quella è andato da Berlusconi e gli ha detto: «Scegli». Può darsi che le cose non siano proprio così brutalmente semplici, che non sia andata esattamente così. Sarebbe bello che qualcuno smentisse, se può. Ma nessuno negherà che questa ricostruzione è del tutto verosimile. Lo è perché mostra la sostanza dura del problema in cui il Partito democratico è immerso, secondo me fin dalla sua nascita: la drammatica incapacità di esercitare una egemonia, la sua propensione incorreggibile a rimettere agli altri l’iniziativa. Non faccio esempi perché ha poco senso recriminare. Faccio solo riferimento al modo in cui i Democratici si sono posti di fronte alla crisi del debito e dell’euro. A parte qualche caso isolato e qualche guizzo d’iniziativa, su tutte le grandi questioni si sono allineati a quello che giustamente viene chiamato pensiero unico economico per cui prima l’unica strada era quella della disciplina di bilancio «a prescindere» e poi, di fronte all’evidenza dei disastri della recessione, quella di una generica rivendicazione di una politica per la “crescita”. Tanto generica che per tanti versi sembravano più concrete persino le peggiori demagogie della destra, che le sue proposte assurde, impraticabili, antieuropee le faceva e le cavalcava con successo. E non vale l’obiezione che tutta la sinistra europea dimostra una analoga subalternità: un male non è meno grave perché è condiviso. Anzi.
Il Pd ha mancato di egemonia anche con i grillini (e li chiamo così perché, a differenza di altri, non mi faccio dettare le definizioni). Non tanto per il lungo, imbarazzato corteggiamento del Bersani incaricato presidente del Consiglio. La diretta delle trattative in streaming è stata penosissima, ma non mi sento di imputarla al segretario. Gli errori sono stati prima (e rischiano di esserlo dopo). Il movimento Cinque Stelle è stato trattato con incredibile sufficienza anche quando era evidente a tutti che esprimeva uno stato d’animo diffusissimo tra i cittadini italiani e, massimamente, tra gli elettori vicini alla sinistra. Per mesi e mesi si era discusso, e nel Pd più che altrove, di crisi della politica e di antipolitica e poi, al dunque, non si è fatto il minimo sforzo per capire dove quel comune sentire stava portando in termini di voti. Il Pd non ha fatto concorrenza a Grillo, è sceso in trincea. Ha rinnovato, bontà sua, le candidature al Parlamento, ma la cosa è stata presentata come una automatica conseguenza del metodo delle primarie in modo stanco e un po’ sciatto, quando della rivoluzione delle primarie stesse s’erano persi slancio e fede. Una rivoluzione vera, quella, di cui Bersani porta il merito ma che è stata gestita da tutto il gruppo dirigente con sufficienza. Poi si è passati alla schizofrenia. Non si chiedeva ai grillini di cominciare a fare politica, di entrare nel gioco? Non si era, giustamente, criticato il loro gran rifiuto come un enorme favore a Berlusconi? E perché allora quando hanno dato, finalmente, il primo segno di ragionevolezza non lo si è raccolto? Il rifiuto di considerare l’ipotesi della candidatura di Rodotà è stato, paradossalmente, l’ennesima manifestazione di subalternità. Al contrario, stavolta. Ancora una volta il Pd non ha deciso: si è «fatto decidere». Prima da Berlusconi, che ha scelto Marini e ha messo impunemente veti a questo e a quello, e poi pure da Grillo, che potrà andare in tutte le piazze a strillare che il Pdmenoelle preferisce l’inciucio.
Un’ultima considerazione. Apprezzo le persistenti assicurazioni dei dirigenti del Pd (non tutti) sul fatto che non si faranno governi soi-disant di «larghe intese»: piuttosto le elezioni. Li prendo in parola. Però ho l’impressione che il gran parlare che s’è fatto e si fa ancora sulla necessità di un accordo preventivo con Berlusconi per un presidente «il più largamente condiviso» poggi su un equivoco pericoloso e su un ambiguo non-detto. La «larga condivisione» non sia la copertura di un’ennesima subalternità. In tutte le repubbliche parlamentari democratiche del mondo ad eleggere i presidenti sono delle maggioranza politiche e «dopo» essere stati eletti essi diventano i presidenti di tutti.

l’Unità 19.4.13
Il talent show del Quirinale, presidenzialismo 2.0
di Sara Ventroni


A QUESTO PUNTO ANCHE I COSTITUZIONALISTI SI ARRENDONO. Ognuno interpreta la Carta a proprio gradimento. Il riflusso dei social network è già democrazia reale, quintessenza della volontà mediatica. Anche l’elezione del presidente della Repubblica diventa un talent show, una distrazione da brivido per il popolo. Qualcosa per cui vale la pena twittare un’opinione, anche se nessuno ce la chiede.
Dobbiamo partecipare a tutto, a tutti i costi. Ingannare il tempo nell’attesa che i partiti decidano cosa vogliono fare da grandi. Mentre la crisi rosicchia i piedi della Repubblica, la politica cade vittima dell’opinionismo muscolare della rete. Segno dei tempi o crisi di senso. Fino a mercoledì, il lavoro di tessitura tra Alfano, Errani e Letta (Enrico) procedeva di buona lena. Poi Bersani annuncia una sorpresa. Il colpo di teatro al Capranichetta, però, finisce male. Mentre il segretario del Pd, gravato dalla responsabilità del pre-incarico, disvela il nome della rosa, si scatena la gogna mediatica. Dai quotidiani on line ai tg, dagli account personali alle pagine facebook corre veloce una voce: no, Marini no.
E basta un bombardamento di mail per crepare la delicata tessitura istituzionale. Il sondaggismo apocrifo dei social network arriva, in tempo reale, anche sugli iPhone dei grandi elettori del centrosinistra. Ed è subito crisi interiore. Come fronteggiare il mostro acefalo della rete? Come giustificare, agli occhi degli internauti, il fatto che il popolo non può proclamare ora, adesso, il candidato che ha più X factor per il Quirinale?
Sono domande difficili. E la Costituzione, inutilmente recitata dai 5 Stelle, resta lettera morta. Muta. Proprio ora che potrebbe tornare utile, tutti la rottamano come carta straccia. Roba vecchia. Ma ormai il contagio è iniziato: un virus si aggira per Montecitorio e rende tutta la classe dirigente improvvisamente inadeguata alla dittatura degli opinionisti anonimi. Mentre Sel abbandona la riunione, il Pd si divide in tribù, tra nativi digitali, rottamatori, indecisi, attendisti e rassegnati. La rete incalza, aggressiva: votate Rodotà, o vi copriamo di insulti.
Così, per eterogenesi dei fini, in tarda serata il popolo della rete si scopre onnipotente. Mette becco pure sul Colle. Una divinità incorporea, invasata, minacciosa. E molto esigente.
Tutto è cominciato con il gioco a premi delle Quirinarie. La pattuglia striminzita dei votanti 5 Stelle dice la sua sul presidente della Repubblica. I profili dei candidati guerreggiano bonariamente come alla finale di Amici. Si vota per il carisma. Anche se la votazione non è a norma: l’elezione del presidente della Repubblica qualcuno forse lo ricorderà non spetta ai cittadini (perché in quel caso saremmo in un regime presidenziale). Ma cosa importa, adesso.
E così, da un piccolo equivoco nasce un grande fraintendimento. Nessuno si prende la briga di segnalarlo. Tutti stanno al gioco. Forse per timore di immediate ritorsioni on line. Non ci resta che registrare il passaggio storico dal populismo al popolarismo. Un salto d’epoca. L’indice di gradimento batte le istituzioni. Touché. Chi ha il polso dei grandi numeri di facebook può decidere il destino del Paese. Siamo al puro dadaismo. Bisogna essere aperti a tutti i suggerimenti, anche a chi vuole il conte Raffaele Mascetti, il cinico e disperato Ugo Tognazzi di Amici Miei, al Colle più alto.
Quella che finora doveva essere una figura di garanzia, il presidente della Repubblica, persona sopra le parti (per questo, e non per cattiveria verso i cittadini, viene votato dal Parlamento) diventa di colpo un’icona pop. Glamour. Alla Andy Warhol. Il testimonial eccellente di qualcosa giornalismo, teatro, solidarietà che non si sa bene cosa dovrà fare, ma quello che conta è che ci piace da morire. L’importante è dare al popolo un nome da sbranare, e sul quale dividersi. Bartali contro Coppi. Totti contro Del Piero. Così anche noi possiamo sentirci importanti. A questo punto ci spetta di diritto, anche se non è scritto nella Costituzione. La voce della rete lo pretende. Questo 18 aprile resterà agli annali. Non è il Quarantotto ma quasi. Grande è la confusione sotto il cielo. E se siamo al presidenzialismo 2.0, qualcuno venga ad avvisarci.

l’Unità 19.4.13
I 5 Stelle esultano per Rodotà La carta coperta è Prodi
La linea ufficiale è per il giurista «fino in fondo». Ma non si chiudono le porte all’ex premier
Stretti nell’angolo dei no i 5 Stelle rivendicano: «Stavolta siamo noi a dividere il Pd»
di Claudia Fusani


La mossa del cavallo questa volta l’hanno fatto loro, Grillo e i suoi grillini. Mescolando populismo (il candidato Rodotà è stato spesso massacrato dal comico per la superpensione ma ora è il candidato perfetto) e opacità (ancora non conosciamo numeri, voti, procedure e percentuali delle Quirinarie) sono i veri vincitori della partita Quirinale. La portavoce Lombardi, ieri con abito nero e maniche a petalo bordate di cremisi, il tutto con scarpe parigine, può sfoggiare, prima dei risultati della prima votazione, una buona dose di sarcasmo: «Ma non doveva essere il Pd che faceva scouting tra i nostri? Da quello che vedo e sento mi sa che accadrà il contrario, ma le nostre regole non lo consentono, ognuno sta a casa sua».
Quando poi lo scrutinio consegna 243 voti per Rodotà, ben oltre i 162 disponibili tra i Cinque stelle e Sel e al netto dei renziani che hanno “giocato” su Chiamparino, è chiaro che lo scouting lo sta facendo Grillo. Molti del Pd hanno raccolto il canto della sirena genovese. E sono soprattutto giovani, le matricole, quelli più connessi al web strumento straordinario in questa fase più coerenti con la parola, e il concetto, di cambiamento.
All’ora di pranzo, mentre il Paese agonizza in uno stallo politico ormai di mesi, i Cinque stelle si godono la loro vittoria. Chissà quale, poi. E quasi fossero in un locale pubblico, o in gita scolastica, scattano foto di gruppo stretti in tondo come le squadre di rugby come le squadre di rugby. Si chiamano a raccolta, zaini in spalle, ed escono fuori dal palazzo per comunicare la vittoria agli elettori assiepati in piazza con cartelli tipo «Rodotà è il cambiamento e Marini il fallimento», «No all’abbraccio mortale con il Caimano». Dicono siano «giovani del Pd». Giovani lo sono. Del Pd non lo conferma nessuno. Che sia una kermesse organizzata? Il sospetto è legittimo. Vito Crimi, il capogruppo al Senato va loro incontro come un Mosè, circondato da telecamere e microfoni a cui dispensa certezze: «Rodotà è e resta il nostro candidato fino alla fine. Abbiamo tra le mani un’occasione unica. Avanti tutta e forza con Rodotà presidente»». Prodi a maggioranza alla quarta votazione? «E perché non Rodotà?» replica.
Si vede che sono in buona, oggi, i Cinque stelle. Roberto Fico si concede pure al microfono del finto Vespa che staziona davanti a Montecitorio. Racconta che «l’abbraccio in aula tra Bersani e Alfano è l’immagine triste di quella piccola parte del Paese che non vuole cambiare». Una manifestante, invitata sulla tv web 5 stelle La cosa, chiede al Pd di votare Rodotà e mostra la sua tessera del Pd bruciata. La foto volo subito sul web. «Il Pd ha chiuso la porta in faccia al paese, non a noi» insiste Crimi. Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, si affida a twitter: «È caduta la mascherina, di Bersani però».
USCIRE DALL’ANGOLO
Insomma, da stretti com’erano nell’angolo del «no a tutto» e puniti dai sondaggi che li danno in calo del due per cento, la pattuglia grillina sfrutta «l’assist» fornito dal Pd e ora va in giro reclamando «vittorie» e «coerenza». Il Pd voleva dividerli.  E alla fine sono loro ad aver diviso il Pd. Grillo osanna da Udine, in piena campagna elettorale: «Volevano dare la colpa a noi del M5S» ma in realtà è colpa del centrosinistra che «da vent’anni fa finta di fare l’opposizione» visto che con Berlusconi «si sono tenuti a braccetto e come Bartali e Coppi si sono scambiati la borraccia».
Ora però, come spesso accade tra i pentastellati, la voce della propaganda non corrisponde a quella della realtà. E il ritornello «Rodotà presidente» non va da nessuna parte perché, nonostante tutti gli strappi nel Pd, mai potrà avere i 504 voti necessari per essere eletto a maggioranza dalla quarta votazione in poi. A meno che anche il Pd non converga sul giurista.
Quando sono chiari i voti della seconda votazione (230 voti per Rodotà) i Cinque stelle capiscono che corrono il rischio di tornare di nuovo nell’angolo dei no ad oltranza a tutto, per questioni di bandiera. E tornano a ragionare su Prodi. È una trattativa laterale, nasce nel pomeriggio, non alla luce del sole, che in fondo piace anche a loro giocare ai politici, fare tattiche in nome di grandi scelte. Il tessitore è Pippo Civati che incontra e parla al telefono con colleghi Cinque stelle. «Più di tanto per Rodotà non si può fare -spiega puntiamo su Prodi e venite anche voi, è uno dei vostri nomi». Civati pensa ad un appello da lanciare insieme a Matteo Renzi e ai giovani del Partito democratico (un centinaio circa) per votare il Professore di Bologna. Ma ancora una volta, come sempre in questa paralisi politica a tre, da solo il Pd non può fare nulla e ha bisogno dei Cinque stelle. Un gruppetto di ambasciatori grillini ascolta Civati. Non dice no. Neppure sì.
Nella riunione serale sembra prevalere la linea dura. Quella della propaganda. È sempre Crimi a parlare: «Prodi non è il nostro candidato. È entrato nella rosa dei dieci nomi scelti con le Quirinarie. Se Rodotà rinuncia, voteremmo il quarto classificato, cioè Zagrebelsky». Il punto è che Prodi alle votazioni on line degli attivisti Cinque stelle è arrivato ottavo e non ha molte chance di essere adottato come candidato ufficiale. «Grillo dicono fonti del Movimento non chiederebbe mai a Rodotà di ritirarsi. Ecco perché lo sosterremo fino in fondo». Ma la carta Prodi non è del tutto tramontata. Aggiungono le stesse fonti: «Certo, se si arrivasse a un quarto scrutinio nel quale fosse in corsa Prodi, un po’ dei nostri nel segreto dell’urna lo voterebbero. Magari senza ripetere il caos del caso Grasso al Senato».

l’Unità 19.4.13
Il giurista: vado avanti. Il web rilancia accuse a Grillo
Il candidato dei 5 Stelle sostenuto anche da Sel era oggetto di accuse
del comico. Ma ricambiava: «Il tessuto del M5S estremamente pericoloso»
di Marcella Ciarnelli


Dalla lettura dei voti che sancirono l’elezione al Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro ad ascoltare il proprio nome scandito nelle votazioni per il dodicesimo presidente della Repubblica. Sono trascorsi ventuno anni e Stefano Rodotà, allora vice presidente della Camera in quota Pds che rappresentò anche nella Bicamerale, ora candidato dal Movimento 5 Stelle per il Colle su indicazione della piazza virtuale che, per sostenere il giurista, non ha esitato a diventare concreta ed a far sentire la propria voce davanti a Montecitorio ma anche lungo il Paese.
A dispetto degli ottanta anni che proprio quest’anno compirà alla fine di maggio, nonostante una lunga e gloriosa carriere nelle istituzioni, politiche e universitarie, Stefano Rodotà piace ai grillini. E non solo. Dato che per lui si sono espressi anche i grandi elettori di Sinistra, ecologia e libertà, granitici nel sostenere il professore di origine calabrese con le radici antiche in quell’Albania che sulla punta dello stivale vanta un insediamento da alcuni secoli.
Non gli hanno fatto mancare il consenso nel segreto dell’urna anche altri esponenti del centrosinistra.
Si è affidato «alla volontà dei mille elettori» Rodotà, che vanta un curriculum di tutto rispetto sul versante politico, dall’iniziale adesione ai radicali al Pds di cui è stato il primo presidente e ministro della giustizia nel governo ombra di Occhetto, passando da indipendente nel Pci all’impegno mai trascurato di docente universitario e poi di primo garante della Privacy, incarico che ricoprirà per cinque anni, dal 1997 al 2002. Accettando la candidatura il giurista dopo il no di Milena Gabanelli e Gino Strada, non ha celato la sua soddisfazione per l’essere arrivato sul podio di una gara che stando ai dettati del movimento che l’ha votato non lo avrebbe dovuto vedere protagonista della rivoluzione a 5 Stelle.
Viene da consideralo dando un’occhiata proprio a quella rete sovrana in cui ogni posizione, ogni parola detta (sia chiaro è legittimo cambiare idea) restano indimenticabili anche per chi ha poca memoria. Dunque Grillo non ha mai avuto Rodotà in simpatia e il giurista è stato più volte portato ad esempio dei «privilegi della casta» che quegli 8.455 euro lordi di pensione, stando ai dati dell’Espresso, che suonavano come uno schiaffo alla gente in difficoltà. All’ex comico, che mai avrebbe allora immaginato di sostenere Rodotà per il Colle, il nome del giurista non era venuto in mente quando nel 2006 si trovò a dire quali erano le sue preferenze. C’erano Giovanni Sartori, Margherita Hack, ed anche, guarda un po’ Mario Monti...
L’antipatia di un tempo non si può dire che non fosse ricambiata. In un’intervista a Left, solo nel luglio scorso, affermava che «il fatto che Grillo dica che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in rete, rischia di dare ragione a coloro che dicono che la democrazia elettronica è la forma di populismo del terzo millennio. Queste tecnologie vanno utilizzate in altri modi: l’abbiamo visto con la campagna elettorale di Obama e nelle primavere arabe. Poi si scopre che Grillo al nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al sud che la mafia è meglio del ceto politico, allora vediamo che il tessuto di questi movimenti è estremamente pericolo». Rischiando di congiungersi «con quello che c’è in giro nell’Europa a cominciare dal terribile populismo ungherese al quale la Ue non ha reagito adeguatamente».
Il conflitto è rientrato ed ora il giurista, strenuo difensore della Costituzione, non nasconde la soddisfazione per essere stato richiamato sulla prima linea della politica dopo tanti anni in nome dei diritti e della persona.
Di Rodotà vanno ricordate le sue battaglie contro il disegno di legge sulle intercettazioni proposto dall’ultimo governo Berlusconi e lo scontro con l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano nella tragica vicenda di Eluana Englaro e l’essere tra gli autori della carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. È stato anche componente del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie.

l’Unità 19.4.13
Vendola al Pd: «Adesso serve più coraggio»


«Credo che il Pd possa davvero convergere su Rodotà. Lo auspico, sarebbe un segnale di speranza per il Paese». Lo ha detto ieri Nichi Vendola, a Montecitorio in occasione della seconda votazione per il Capo dello Stato. «Il disorientamento non è tra gli elettori, il nostro popolo ha le idee chiare, il disorientamento è nel Palazzo», spiega Vendola che ammonisce: «Ogni volta che si sono seguite le dinamiche di Palazzo si è andati a sbattere. Oggi serve un’alleanza non tra le nomenclature ma tra noi e il nostro popolo, altrimenti si andrà di nuovo a sbattere. Oggi non possono dominare gli strateghi della tattica: spero di poter incontrare Bersani, e insieme trovare il bandolo di una matassa ingarbugliata, e lo si trova ascoltando non solo il cervello, ma anche il cuore e la pelle di un Paese che è ormai intollerante verso la cattiva politica. E Rodotà è invece la buona politica».
Per Vendola «c’è materia per riflettere dentro il palazzo e fuori il Palazzo. Dentro perché l’esito della prima votazione creda debba insegnare a tutti qualcosa. Fuori, perché nel Paese c’è attesa di segnali che concretamente possano offrire speranza. Un’attesa che non possiamo tradire».
A proposito della mancata alezione del candidato «condiviso», Franco Marini, il presidente della Regione Puglia ha aggiunto: «Per Marini è stato un risultato sconfortante, non per la persona certo, ma per ha ricompattato l’altro fronte non il centrosinistra. Serve coraggio, lo stesso coraggio che c’è stato con Boldrini e Grasso».

il Fatto 19.4.13
L’intervista Michele Serra
Marini? Il Pd ha fatto un gran favore a Grillo
di Silvia Truzzi


Oltre al conte Mascetti, Sophia Loren, Valeria Marini, Veronica Lario, Sabelli Fioretti e Rocco Siffredi anche lui si è aggiudicato una preferenza nella seconda votazione per l’elezione del Presidente. Michele Serra, editorialista di Repubblica, scoppia a ridere. Ma la parte divertente finisce qui.
Serra, ha firmato una lettera assieme a Barbara Spinelli e altri intellettuali a favore di Rodotà: perché?
Ritengo Rodotà una delle migliori persone che la sinistra italiana abbia mai espresso. Votarlo avrebbe riaperto la speranza di poter fare quel governo “di cambiamento” che lo stesso Bersani aveva indicato, dopo il voto, come il solo possibile valore d'uso di questa difficile legislatura. Quando M5s ha indicato Rodotà, ho pensato che la sinistra aveva un'occasione imperdibile servita su un piatto d'argento. E l'ha perduta.
Deluso dal fatto che Bersani abbia preferito un ex democristiano come Franco Marini all'ex presidente del Pds?
Deluso è dire poco. Ma non perché Marini sia un ex democristiano. A fronte di molti politici odierni, la Dc è stata una vera e propria fucina della classe dirigente; e poi i popolari fanno parte a pieno titolo del Pd, tanto quanto gli ex comunisti. Deluso per il decrepito metodo consociativo adottato nella scelta; per il potere di veto e di scelta concesso a Berlusconi; soprattutto per la totale impenetrabilità dimostrata dal Pd alle “voci di fuori”, quelle dei suoi elettori, della sua gente, dei tempi che corrono a velocità doppia, tripla di quella del potere politico.
Troppo libero, Stefano Rodotà?
Troppo Rodotà. Cioè troppo indigeribile per Berlusconi, e poco manovrabile dalle consorterie di partito.
Ci crede alla tesi della candidatura Marini come tattica, per far passare magari Prodi?
Di quelle alchimie non capisco niente, quando me le spiegano ho difficoltà perfino a capire qual è il soggetto, quale il verbo, quale il complemento oggetto. E poi Prodi è detestato da Berlusconi tanto quanto Rodotà: perché mai il Pd dovrebbe rompere con Berlusconi appoggiando Prodi, se non ha avuto il coraggio di rompere con Berlusconi appoggiando Rodotà o Cassese?
Voto a Bersani che abbraccia Alfano in aula?
Prima di dare voti a qualcuno, devo dare uno “zero” a me stesso per avere creduto che questo Pd, messo alle strette dalla mezza sconfitta elettorale, fosse capace di un colpo di reni.
Possibile che i democratici non abbiano capito che le "larghe intese" con Berlusconi non piacciono ai loro elettori?
Evidentemente è possibile. Temo che alcuni di loro attribuiscano il vero e proprio moto pro-Rodotà a umori settari, i salotti radical-chic contro il sindacalista Marini, uomo del popolo. Non hanno capito che la radicalità di queste ore non ha proprio niente di chic. È pop. Radical-pop. Sono gli elettori di sinistra, è la gente che vuole bene al Pd che si sente abbandonata. Non sono i nemici del Pd, sono gli amici del Pd che chiedono a voce alta di ripensarci. Tanto è vero che i tantissimi disobbedienti non sono nei salotti o nei girotondi, sono tra i grandi elettori, dentro lo stato maggiore del partito.
I (pochi) sostenitori della linea Bersani lo "giustificano" dicendo che convergere su Rodotà sarebbe stata una resa ai grillini. D'accordo?
No. Il favore (enorme) a Grillo è stato fatto proponendo Marini, in combutta con il Pdl. Io ho molti dubbi – e alcuni sono gravi – sui Cinque Stelle, ma i fatti dicono che l'onda del cambiamento ha scelto quella strada e non altre. Come si fa a non tenerne conto?
Bersani ha continuato a ripetere di non voler fare un governo con Berlusconi ("Ti conosco, mascherina"). Però ha cercato l'intesa per il Quirinale. Gli elettori saranno disorientati?
La partita del Quirinale e quella del governo sono tecnicamente molto diverse. Nei fatti, credo siano strettamente intrecciate, specie in un momento come questo. È inevitabile che gli elettori del Pd pensino che Bersani ha cercato l'accordo con Berlusconi per il Colle perché prevede, in seconda battuta, di giovarsene per formare un governo. Se non è vero, se non c'è alcun secondo fine nella scelta di Marini, non sarebbe la prima volta che il Pd fa una figura molto peggiore delle sue intenzioni reali.
Dopo aver "non perso" le elezioni, Bersani ha fatto un passo falso con Marini che molti, anche nel partito, non gli perdonano. Dovrebbe dimettersi?
Per la persona ho molta simpatia. C'è chi può consigliarlo molto meglio di me: spero che non si barrichi tra pochi scudieri e che ascolti il suo partito, tutto, dai deputati e senatori ribelli a un elettorato che chiede di essere ascoltato.

il Fatto 19.4.13
Il carrello dei bolliti
di Antonio Padellaro


Sorbole ragassi noi vogliamo il cambiamento, sono stato chiaro???”: da sei mesi almeno il Bersani-Crozza ci rompe i timpani con il cambiamento qua e il cambiamento là, salvo poi barricarsi nel fortino della conservazione sua e dei suoi cari. Nelle primarie pd si autodefinisce l’“usato sicuro” come unico argomento per battere Matteo Renzi, che da parte sua non ha la forza di buttare all’aria le polverose liturgie di partito e se ne torna a Firenze con la coda tra le gambe. E che dire della propaganda elettorale condotta sull’antiberlusconismo di maniera (con l’agghiacciante giaguaro da smacchiare), ventennale espediente per abbindolare gli ingenui, sempre di meno visto il desolante esito finale. Poi, dopo averlo insultato su tutte le piazze d’Italia, Bersani avvia lo sfibrante corteggiamento del movimento 5Stelle. E fa finta di non capire che con un altro candidato premier, Grillo potrebbe anche ragionare: e infatti il leader di Bettola resta piantato lì. Segue la pantomima dal titolo: con Berlusconi giammai le grandi intese, perché, ci mancherebbe altro, “noi vogliamo il cambiamento”. Il popolo democratico non fa in tempo ad apprezzare ed ecco la “bella sorpresa”: concorda a quattr’occhi con l’ex nemico pubblico B. il nome del nuovo capo dello Stato, distogliendo l’ottuagenario Franco Marini da un giusto e meritato riposo. Risultato: il Pd a pezzi, i militanti in rivolta, gli elettori in fuga. Più che un errore politico quello di Bersani è la caporetto di un metodo ormai insopportabile, intriso di vecchiume e supponenza. Solo poche settimane fa astenendosi o votando Grillo più della metà del popolo italiano ha dato un segnale di rivolta così forte e sonoro che solo una politica imbecille o in malafede poteva non sentire. Infatti, tutto continua come prima e peggio di prima. Le inutili consultazioni al Quirinale. Le inutili pause di riflessione. Gli inutili saggi nominati per espettorare inutili documenti programmatici. E adesso anche le inutili tre prime votazioni alla Camera, in un tripudio di schede bianche e ridanciani omaggi a Marini (Valeria) e al conte Mascetti di Amici miei mentre l’uomo del cambiamento abbraccia con trasporto Angelino Alfano, e vai. Seguiranno altri inutili voti in attesa che dal carrello dei bolliti venga estratta qualche altra bella sorpresa. A un Paese che avrebbe bisogno come il pane di energie fresche e di teste abituate a ragionare con la velocità di Internet e l’acume di Obama si vogliono somministrare delle cariatidi condivise che già brigavano ai tempi di Craxi, o vispi nipotini di Togliatti o giuristi emeriti, campioni mondiali di consulenze e arbitrati. Chi ci salverà?

il Fatto 19.4.13
Perché
di Marco Travaglio


Quello che accade lo vedono tutti. Ma a molti sfugge il perché. Il gruppetto dirigente del centrosinistra, sempre lo stesso che da vent’anni non ne azzecca una e salva sempre B. che garantisce la reciproca sopravvivenza, cerca ancora una volta di salvare se stesso (e dunque B.) mandando al Quirinale un uomo controllabile e ricattabile, anche in vista di un governo di largo inciucio. Ma la parola inciucio è riduttiva, perché non siamo di fronte a un accordo momentaneo, provvisorio. Ma a un patto permanente e strategico che regge dal 1994, a una Bicamerale sempre aperta, anche se mascherata qua e là con finti scontri per abbindolare gli elettori e trascinarli alle urne agitando gli speculari spauracchi dei “comunisti” e del “Cavaliere nero”. Se la memoria degl’italiani non fosse quella dei pesci rossi, che dura al massimo tre mesi, i contestatori in piazza o nel web contro Marini e chi l’ha scelto ricorderebbero che sono vent’anni che manifestiamo per la stessa cosa. Dal popolo dei fax ai girotondi, dal Palavobis al popolo viola, da 5Stelle alle altre emersioni del fenomeno carsico che Ginsborg chiama “ceto medio riflessivo”, l’obiettivo è sempre il compromesso al ribasso destra-sinistra contro la Costituzione, la legalità, la magistratura indipendente e la libera informazione. È ora di cambiare slogan e prendere atto della realtà: urlare “Perché lo fate? ” o “Non fatelo! ” è troppo ingenuo per bastare. Perché l’hanno sempre fatto e sempre lo faranno. E non perché si sbaglino ogni volta. Non si può sbagliare sempre, ininterrottamente, per vent’anni. Se uno, rincasando ogni sera, trova la moglie a letto con un altro, sempre lo stesso, deve rassegnarsi al suo status di cornuto e al fatto che la signora e il signore si piacciono. Perciò le domande da porre al Pd sono altre.
Perché nel ’94 avete “garantito a B. e Letta che non gli sarebbero state toccate le televisioni” (Violante dixit)?
Perché per cinque legislature avete sempre votato per l’eleggibilità di B., ineleggibile in base alla legge 361/1957?
Perché nel ’96 D’Alema andò a Mediaset a definirla “una grande risorsa del Paese”?
Perché nel ’96 avete resuscitato lo sconfitto B. promuovendolo a padre costituente per riformare la Costituzione e la giustizia?
Perché nel 1996-2001 e nel 2006-2008 non avete fatto la legge sul conflitto d’interessi? Perché avete demonizzato i Girotondi, accusandoli di fare il gioco di B.? Perché non avete spento Rete4, priva di concessione, passando le frequenze a Europa7 che la concessione l’aveva vinta? Perché nel 1996-2001 avete depenalizzato l’abuso d’ufficio, abolito l’ergastolo, depotenziato i pentiti, chiuso le supercarceri del 41-bis a Pianosa e Asinara? Perché, negli otto anni in cui avete governato da soli, non avete mai cancellato una sola legge vergogna di B.? Perché le vostre assenze hanno garantito l’approvazione di molte leggi vergogna, dallo scudo fiscale in giù, che non sarebbero passate a causa delle assenze nel centrodestra? Perché nel 1999 una parte di voi salvò Dell’Utri dall’arresto? Perché nel 2006 i dalemiani chiesero a Confalonieri, Dell’Utri e Letta i voti per D’Alema al Quirinale? Perché nel 2006 faceste un indulto esteso ai reati di corruzione, finanziari, fiscali e al voto di scambio politico-mafioso? Perché nel 1998 e nel 2008 avete affossato i due governi Prodi? Perché nel 2011, anziché mandarci a votare, avete scelto di governare con B., salvandolo da sicura sconfitta, all’ombra di Monti? Perché preferite accordarvi al buio con B. per Marini, D’Alema, Amato sul Colle, anziché scegliere Rodotà e dialogare con i 5Stelle per il nuovo governo, come vi chiedono i vostri elettori? Tante domande, una sola risposta: o siete coglioni, o siete complici. Tertium non datur.

il Fatto 19.4.13
Tesserati inferociti: “Presi a schiaffi”
La protesta davanti a Montecitorio: “Noi umiliati, con questi abbiamo chiuso”
di Beatrice Borromeo


Pier Luigi “mezza scoreggia”. Perché “la scoreggia intera è Berlusconi, e Bersani – a furia di andargli dietro – puzza di... ”. Solo che l’impietoso epiteto non arriva dagli elettori a Cinque Stelle, e nemmeno dai sostenitori di Renzi. Sono i bersaniani furenti che – raggruppati ieri davanti alla Camera – si accaniscono più di tutti contro il loro segretario. E mentre una tessera del Pd viene data alle fiamme (“perché ho resistito a tutto: a D’Alema, a Roma consegnata ad Alemanno, alle primarie losche; ma candidare Marini accordandosi sottobanco con Silvio, questo mai, Bersani è il sicario del Pd”, dice Claudia Costa, tra i volti della protesta), la signora Giuseppina srotola uno striscione scritto a penna (“Prima solo Berlusconi mi faceva vomitare, adesso anche tu Bersani”) e i ragazzi fanno partire un coro: “Marini, D’Alema, Amato... Bersani: ma che ti sei fumato?! ”. Però sono proprio loro, i giovani del Pd, quelli in fondo più diplomatici.
COSIMO E CARLO, 30enni arrivati il primo da Barletta e il secondo da Catania solo per assistere all’elezione del capo dello Stato, ragionano sul fatto che la rottura non è più tra Bersani e Renzi, ma “tra Bersani e la sua base: che siamo noi. E noi, che l’abbiamo purtroppo votato alle primarie, non capiamo la scelta di Marini. Come gli è saltata in mente? Ci sentiamo traditi, umiliati, presi a schiaffi”. Perché dopo l’elezione di Laura Boldrini alla presidenza della Camera, “avevamo creduto in un Pd meno autolesionista, che potesse sposare il cambiamento e appoggiare Stefano Rodotà. Mai più Pd. La tessera 2013? Ma neanche per sogno”. E mentre i giovani democratici cominciano a occupare le sedi del Pd in tutt’Italia, e in piazza di Montecitorio si vede qualche maschera di Anonymous, sono i tesserati più anziani, gli ex fedelissimi del Partito, a essere più spietati. Dice la signora Paola: “Bersani perdi sempre, hai perso tutto, e non te ne vai mai. Sei ultravecchio: devi spa-ri-re” (parte l’eco: “Bersani evapora! Sei sconnesso”). Non va meglio al mancato presidente Franco Marini, destinatario di un imprecisato numero di “vaffanculo” prestati per l’occasione dai grillini ai bersaniani. Lui che “puzza di inciucio”, un “residuo andreottiano”, l’“anticristo”, azzarda qualcuno. Ma la rabbia delle piazza non è solo per loro. “Finocchiaro maledetta, tornatene all’Ikea”, urla un gruppo di iscritti al Pd prima di farsi distrarre dall’arrivo di Rocco Buttiglione, che incautamente cammina tra la gente. “Parassita, torna tra le mummie! ”, gli gridano. Il signor Luciano, coppola e barba bianca, protesta perché “noi non possiamo entrare alla Camera ma lui può venire qui a rompere”. Poi c’è Roberto Formigoni che, ignorando le suppliche delle sue guardie del corpo, si fa strada tra i manifestanti salutandoli come fa il papa. “Buffone! ”, “ladro”, “porco schifoso”. E ancora, mentre passa un camion dei rifiuti: “Raccogliete quel sacco d’immondizia prima che si metta a puzzare sotto il sole”. E soprattutto: “Vi rendete conto che si sono accordati con quelli lì? Con quello lì? ”, gridano indicando l’ex presidente della Lombardia. Poi Marini viene bruciato, e tra gli applausi sollevati c’è chi evoca il senso civico: “L’unica cosa che si ricicla in Italia, cari onorevoli, siete voi”.

il Fatto 19.4.13
Bandiera rossa
In piazza compare il vessillo del Pci


Alle manifestazioni più o meno spontanee organizzate ieri in Piazza Montecitorio per sostenere la candidatura di Stefano Rodotà e soprattutto per protestare contro il voto a Marini del Pd, è comparsa anche una rossa bandiera del vecchio Partito comunista italiano.

il Fatto 19.4.13
Bersani versione serial killer uccide il Pd con un abbraccio
L’ultimo giorno del segretario: la fotografia con Angelino Alfano prima del voto a Marini che dilania il partito e fa rivoltare la base
di Antonello Caporale


Quindi è giunta Marianna Madia: “Mi sono chiesta: vuoi vedere che Bersani mette in scena un apparente suicidio per mascherare il suo vero piano? Sta seguendo un copione che ha un senso, una logica. Dici che sono molto ottimista, eh? ”. Nei giardinetti di Montecitorio, dove il Pd si ritrova esausto e sbandato siamo alla lettura giallista della politica di Pier Luigi Bersani. Che oggi appare al suo partito come un serial killer. In effetti nel corteo funebre che si allarga per fargli spazio, Pier Luigi si mostra insolitamente sereno, con un bel sorriso saluta l’inquietudine che lo accompagna.
I GIOVANI TURCHI danno forza alle gambe e girano al largo. I renziani si raccolgono nell’angolo di sinistra, come muta di cani in attesa di azzannare. C’è Franceschini che segue, ed è giusto. Poi Enrico Letta, il giovane Speranza, l’anziano Zanda, la Finocchiaro vestita di bianco. Se le sono date l’altra sera di santa ragione, e si vede. Zanda ha chiesto, come si fa al liceo, di mettere ai voti finanche la scelta di votare il nome di Marini, “la bella sorpresa” l’aveva chiamata il segretario. Ma oggi eccolo lì Bersani, pimpante. La giornata deve dare i suoi frutti e la sua mano fascia nell’aula la spalla di Angelino Alfano. Un flash, due tre quattro. L’icona dell’inciucio, la fotografia del governissimo è bell’e fatta. Vendola assiste con raccapriccio, ma anche la bionda Alessandra Moretti, che fino a due sere fa comunicava in televisione le direttive dell’uomo di Bettola, sforna un colpo di tosse. Su Facebook inizia a scrivere del turbamento e dell’apprensione. Le biondine e le carine del Pd sono quasi tutte turbate, quelle del Pdl piuttosto colpite dalla voragine che sta inghiottendo il partito dirimpettaio.
La voragine assume il senso fisico di un anello che si chiude intorno a Bersani, una zona d’interdizione e di pericolo. Possibile che il Pd si stia suicidando in diretta? Possibile che non abbia valutato la disgrazia di un’operazione politica così opaca? “Ci penso da ore, e non riesco a darne una spiegazione plausibile”, borbotta Nicola La-torre. Rumori di fondo provengono dalla piazza che lentamente ma inesorabilmente si avvicina al Palazzo e sembra sfiancarlo con le sue urla. Nessuno esce dai giardinetti, nessuno si schioda dal Transatlantico. La questione si va facendo psicoanalitica. A riprova un piccolo saggio della paura che esonda nella postura. Colpisco con un lieve colpo di mano la spalla di Zingaretti, il presidente del Lazio, grande elettore: “E lei chi voterà? Marini? ”.
D’impeto allunga il passo, come per distanziare la sua persona dall’abisso. “Non capisco: per 55 giorni abbiamo invocato il cambiamento e corteggiato Grillo. E nel momento in cui ci fornisce una prospettiva di accordo noi gli voltiamo le spalle? ”, chiede Laura Puppato. Chiede si fa per dire. Perchè ognuno si fa le domande e si risponde da solo. E ognuno ha i suoi pensieri. Sposetti, il tesoriere bravo con la calcolatrice, è in grado di assicurare, per esempio, che la pensione di Rodotà, del probo Rodotà, non è da meno di quella di Amato, il cattivo per l’opinione di sinistra. È chiaro che Sposetti milita nel Pd lato Verdini, sottosezione poco frequentata ma attiva. Enrico Letta, il vice segretario o vice disastro, invoca l’impossibile: “Unità, unità, unità. Serve unire il partito”. Lo dice con la sincerità di un viaggiatore anonimo, turista per caso. Sbandati, impensieriti i grandi elettori vagano senza ricordo e senza meta. “E adesso? ”, mi chiede il presidente della Basilicata. Vorrebbe una parola di conforto ma ha davanti solo il grande fumo che sprigiona il sigaro dalle dimensioni delle dittature centroamericane di Pierferdinando Casini. “È un sigaro all’altezza della bassezza dei tempi. Temo le elezioni anticipate”. Il timore è fondato e ragionevole è la premura con la quale, si dice, abbia bussato alla porta di Berlusconi. Un colloquio di mezz’ora per riannodare i fili e intravedere una via di speranza per il suo piccolo e oramai inerte Udc. La chiama per votare dura tre ore, e il passeggio – iniziato alle dieci – ha termine solo per pranzo. Il Pd appare un partito squisitamente peripatetico. Fioroni gioca con l’ipad, Bersani dice ancora “calma ragazzi” e si intuisce che è un grido d’aiuto. Non c’è null’altro da fare che inoltrarsi alla buvette. Arancini per tutti.

il Fatto 19.4.13
La rivincita di Renzi Adesso dà le carte al Pd
Ieri sera a Roma cena con i suoi parlamentari
Sogna Chiamparino, punta su Prodi. Ma D’Alema non gli va male
di Wanda Marra


Marini? È evidente che è saltato”. Sono quasi le 18 e tocca a Matteo Renzi un’altra volta chiarire il punto. A Montecitorio non c’è ma la sua assenza è più forte di una presenza. Ironie della sorte, visto che l’apparato l’ha escluso dai Grandi elettori. Contro l’ipotesi di riproporre il lupo marsicano alla quarta votazione, con un accordo B & B, il Sindaco di Firenze si fa sentire. Prima con i fatti: fa votare ai suoi Sergio Chiamparino. Un Presidente “da sogno”, che però serve più che altro a chiarire che la bocciatura di Marini è definitiva e che la candidatura di Rodotà non è in campo. Poi con la fuga di notizie. Sta arrivando a Roma per vedere Bersani. No, arriverà a Roma stamattina perchè Bersani non ha chiesto di incontrarlo. Anzi, forse è già partito. Alla fine arriva in serata e cena con i suoi parlamentari. Da Eataly, il tempio del cibo fondato da uno dei suoi grandi sponsor, Oscar Farinetti.
L’EX ROTTAMATORE ha già vinto e lo sa: ha detto di no a Marini e a Finocchiaro, e quando poi il segretario ha proposto il primo, è riuscito a impallinarlo, prima in diretta alle “Invasioni barbariche”, poi con il voto. Il Pd si è contato durante la votazione per il Capo dello Stato, si è spaccato praticamente davanti a tutte le telecamere italiane. E adesso, se e come si potranno raccogliere i pezzi non è chiaro a nessuno. “Sanno di non poter fare a meno di me”, chiarisce il Sindaco il Firenze. La strategia è in fieri: comunque vada, non ci sarà un Presidente che lui non vuole. E comunque vada, l’obiettivo è Palazzo Chigi, il più presto possibile. Oggi vedrà il gruppo dirigente democratico. Forse Bersani. Nessuno dei due ha fatto la prima mossa verso l’altro. Tra i renziani riuniti a cena ieri sera si parlava di “cavallo ferito, che va abbattuto”. Matteo fa il magnanimo e prende le distanze: “Espressioni lontanissime da me”. Le prove di forza continuano a ridurre in mille pezzi un partito sulla cui resistenza nessuno è pronto a scommettere. Fonti a lui vicine, raccontano che Renzi stia cercando di chiudere un appoggio per Prodi al Quirinale. Con lui ci sono i giovani fuori dalle correnti e i prodiani. Significherebbe elezioni subito, con lui candidato e Pd intatto. Incontra le resistenze di chi preferirebbe D’Alema, che sarebbe votato pure dal Pdl. Che poi il Lìder Maximo al Giovane Matteo non andrebbe bene è tutto da vedere. Non si sa cosa i due si siano detti la scorsa settimana a Palazzo Vecchio: sono circolate pure versioni che volevano Baffino pronto a incaricarlo non appena al Colle.
Per il resto del Pd “va male”. Non a caso l’espressione più gettonata di ieri. A urne aperte, i fotografi immortalano Bersani che dopo il voto abbraccia Alfano in Aula. Brutte immagini. E a spoglio ancora in corso incontra Berlusconi. Contro Marini (e contro di lui) si schierano renziani, prodiani, giovani senza correnti e una parte dei giovani turchi. “Servirebbe una gestione collegiale del partito: nessuno lo sta guidando”, commenta Matteo Orfini. Si astiene persino Alessandra Moretti, la bionda ex portavoce del segretario alle primarie. Occhi lucidi. Mentre Bersani va a pranzo con Errani, Migliavacca, Letta e Franceschini. (evidentemente non molla), le trattative sono incrociate, le ipotesi e i veti pure. I renziani votano Chiamparino. I turchi parlano di “personalità istituzionale”. Circolano i nomi di Draghi (con battuta: “Così trombiamo pure lui”) e Boldrini. Rebus Pd. “Dobbiamo trovare una candidatura che unisca prima di tutto il partito”. Parola di Walter Verini: sarebbe normale, sembra un’utopia.
NEI CORRIDOI si litiga. È Francesca Puglisi che chiede conto ad Andrea Orlando: “Ci eravamo dati delle regole: le state facendo saltare tutte”. “Sono già saltate”, dice lui. In quel momento passa Stefano Fassina. “Tanto ora andiamo subito al voto”, si lascia sfuggire. A metà pomeriggio arriva una nota ufficiale di Bersani: “Bisogna prendere atto di una fase nuova. A questo punto penso tocchi al Pd la responsabilità di avanzare una proposta a tutto il Parlamento. Questa proposta sarà, come nostro costume, decisa con metodo democratico nel-l’assemblea dei nostri grandi elettori”. Parte l’esegesi: è un cambio di schema di gioco. Stamattina alle 8 e 15 i grandi elettori sono convocati per discutere. Prima ci sono gli uffici di presidenza e i caminetti per stabilire le regole: se votare su un nome, o forse su più d’uno. Si va verso il voto segreto su una rosa di nomi: un sondaggio improvvisato sul Capo dello Stato. Intanto, il Pd brucia. Non solo metaforicamente. - In Toscana e' ''Occupy Pd” si trasforma in occupazione di alcune sedi del partito da parte dei giovani democratici: prima a Prato, poi a Capannori ed Empoli.

il Fatto 19.4.13
In fondo a sinistra
Barca defilato evoca il padre e il Pci, pensando al futuro


Mentre la Seconda Repubblica affoga tra Franco Marini e le schede bianche, in una elegante sala di Palazzo Venezia, cinque minuti da Montecitorio, si evoca la Prima Repubblica preparando la terza. Di cui Fabrizio Barca vuol essere protagonista.
La coincidenza pare simbolica: il Partito democratico si squaglia tra gli insulti attorno a Pier Luigi Bersani mentre il ministro per la Coesione che quel partito vorrebbe rivoluzionare siede in quarta fila, non parla e ascolta. Il pomeriggio è dedicato a celebrare la figura di suo padre, “Incontrare Luciano Barca”. Si parla di sinistra, di Pci, tutta l’esperienza Pds-Ds-Pd è come se non ci fosse mai stata. Luciano Barca è morto a novembre 2012, a 92 anni, dopo aver passato una vita nel Partito comunista, a lungo parlamentare ma prima giornalista, direttore di Rinascita e dell’Unità (il suo primo capo servizio era Pietro Ingrao, che non apprezzava le sue frasi con troppe subordinate). L’attore Stefano Accorsi legge brani del diario di Luciano Barca, memorie di vita militare su un sottomarino durante la seconda guerra mondiale che stanno per essere ripubblicate, “Buscando per mare con la Decima Mas”. E Fabrizio, il ministro, ascolta e basta. Seduto in un angolo, visto di spalle, pare il padre, le cui immagini scorrono su un maxi-schermo: tiene le braccia strette allo stesso modo, la testa inclinata verso sinistra con la medesima angolazione. L’effetto di sovrapposizione non è ricercato o artificiale, ma certamente previsto. Il messaggio del capo dello Stato Giorgio Napolitano ricorda Luciano, ma pare un viatico anche per Fabrizio.
IL DIBATTITO vintage tra Emanuele Macaluso e Ciriaco De Mita, moderato da Paolo Franchi, indica il livello cui Barca vorrebbe riportare la politica. In una tribuna politica d’archivio Luciano Barca parla di valori con Eugenio Scalfari, cita papa Giovanni, ma a differenza di quanto fece Bersani durante le primarie, aggiunge Karl Marx, Albert Einstein e Bertolt Brecht (archeologia? Nel film Viva la libertà di Roberto Andò un pazzo diventato per caso leader del Pd vince citando proprio Brecht a piazza del Popolo). “È bravo questo Fabrizio, non lo conoscevo, ma con suo padre Luciano il discorso cominciò parlando proprio di libero mercato e di Adam Smith”, dice De Mita sulla terrazza di Palazzo Venezia. Quelle argomentazioni sulla necessità di regolare il mercato, suggerite da Barca padre, De Mita rivela di averle usate per provare a mitigare Margaret Thatcher. Politica di un altro secolo. Eppure è con quella che Barca junior vuole stabilire un legame. Per lanciare il suo percorso (lui non direbbe mai scalata) nel Pd ha cancellato le sue diverse vite: la Banca d’Italia, la ricerca economica (con il suo memorabile “Storia del capitalismo italiano”), il ministero del Tesoro dove ha lavorato con Giulio Tremonti e legato con Gianfranco Micciché, il tecnocrate europeo che riforma la politica regionale consigliando il commissario Johannes Hahn. Perfino il ministro sbiadisce. Quello che conta è il militante, l’intellettuale di sinistra. Marketing politico che può funzionare soltanto se anche il partito è disposto a ricominciare dalla svolta della Bolognina, dal Pci. Vista l’attuale spinta all’autodistruzione, ai dirigenti democratici potrebbe non rimanere altra scelta.

il Fatto 19.4.13
M5S: “Sì al governo se il Pd vota Rodotà”
di Paola Zanca


L’OFFERTA DEI CINQUE STELLE AI DEMOCRATICI A SPINGERLI, LA PAURA DI PRODI: IN 30 GIÀ PER LUI

A metà strada tra la piazza e l’Aula, nella terra di mezzo che separa le persone che gridano “Ro-do-tà” e le schede che cadono nell’urna con scritto sopra il nome di Franco Marini, lì, nel cortile di Montecitorio, al senatore Cinque Stelle Andrea Cioffi viene in mente un funerale di vent’anni fa: “Te la ricordi la moglie dell’agente della scorta di Falcone cosa diceva? Io vi perdono, diceva, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare”.
La metafora è decisamente tragica. Eppure, racchiude in pieno il senso delle tre ore di assemblea con cui i grillini hanno chiuso la prima giornata di votazioni per il Presidente della Repubblica: i Cinque Stelle questa volta fanno sul serio. Se il Pd dovesse chiamarli, oggi, sentirebbe parole mai udite: “Se votate Rodotà - questo il senso del ragionamento - Noi facciamo il governo con voi”. È la prima, ed evidentemente anche ultima, offerta concreta che il Movimento mette sul piatto della XVII legislatura. E i Cinque Stelle sarebbero disposti a farla anche rinunciando alla diretta streaming. Vogliono far capire ai democratici che la questione è seria, che non ci sono trappole, che si devono fidare.
D’altronde, al primo giorno di voto per il Colle, la soddisfazione di aver visto Rodotà prendere quasi 80 voti più del previsto, non basta. E i grillini non vogliono sprofondare di nuovo in mezzo al guado: se si arrabbiano con i democratici che hanno voltato le spalle al loro cavallo, hanno paura di ritrovarsi di nuovo, oggi, con le mani al muro. “Continueremo a vo-tarlo fino alla quarta votazione – ribadisce Grillo da Trieste - potete farci tutte le critiche del mondo, ma non quella di incoerenza”.
Il terrore ha il nome di Romano Prodi. Tra i Cinque Stelle si conterebbero già almeno 30 voti per l’ex presidente del Consiglio. Servirebbe un passo indietro di Rodotà (pare ci sia già un accordo: con lui non si va oltre la quarta votazione, quella decisiva), a chiudere il cerchio arriverebbero tre righe di Beppe sul blog. Lo dice chiaro e tondo il deputato Girolamo Pisano: “Se mette un post con scritto ‘votiamo Prodi’ io ci metto la firma immediatamente”. Prodi, è risaputo, è un nome che non dispiace né a Grillo né a Casaleggio, ma quella di Pisano è una posizione minoritaria nell'assemblea. E se si arrivasse ai voti, creerebbe non pochi problemi ai 162. Da una parte quelli che non vorrebbero mai dire sì al penultimo della classifica delle Quirinarie, dall’altra quelli che vedrebbero in Prodi l'unica carta che può far diventare questa legislatura meno inutile.
NON SAREBBE un tradimento, spiegava lo stesso capogruppo Vito Crimi: “Non ho mai detto che voterei Prodi. Dico solo che, se tutti i nomi in rosa prima di lui dovessero rinunciare, non me la sentirei di tradire quel che ci ha chiesto Rete. Che mi piaccia o no, come potrei? ”.
Raccontano che ieri abbia bussato alla porta dei Cinque Stelle per sondare il terreno anche la presidente della Camera Laura Boldrini. Poi, a chiedere un incontro, sono arrivati i giovani del Pd. E ieri sera è arrivato l’apertura dell’assemblea del Movimento. Ieri mattina, nei corridoi del palazzo si incrociavano scene di autentica disperazione: “Ma perché prima ci cercavano e adesso che vogliamo starci non ci chiamano più? ”, si domandano i grillini. “Perché non vogliono Rodotà? – si chiede la deputata Vega Colonnese – Non siamo noi che l’abbiamo scelto, sono persone che magari prima votavano Pd: sul blog non ci sono più solo i meetuppari come noi”. “Io stanotte non ho dormito – dice Vincenzo Caso – Non ci posso credere a quello che stanno combinando! ”. “Ma avete visto cosa c'era in giro l'altra sera per Roma? ” sgrana gli occhi Tatiana Basilio che per sbaglio era passata fuori dal Capranica appena dopo l’habemus Marini. “Se davvero il problema è che non vogliono fare il nostro nome, giuro che vado in aula prendo il microfono e gliele canto: che ci vogliam fare, sett'anni di D’Alema?! ”, sbotta il fiorentino Massimo Artini. Forse la soluzione la diceva Cioffi. Un po’ il coraggio di cambiare, un po’ mettersi in ginocchio. Un po’ per uno.

La Stampa 19.4.13
Un disastro che viene da lontano
di Mario Calabresi


Il disastro a cui abbiamo assistito ieri, quello del partito di maggioranza in Parlamento che propone un suo candidato alla presidenza della Repubblica trova il voto degli avversari ma non riesce a portare i suoi, è la logica conseguenza di ciò che è avvenuto negli ultimi cinque mesi.
È figlio della mancanza di coraggio e di idee forti, chiare e comunicate in modo convincente. Per questo il Pd non ha vinto le elezioni, per questo non si è ancora riusciti a formare un governo, per questo ha una base divisa, arrabbiata, incredula o sgomenta. Perché bisogna saper dare un colore e un sapore alle cose se si vuole che gli italiani le capiscano e le facciano proprie.
Può darsi che questa sera avremo un nuovo capo dello Stato, figlio di una qualche alleanza o forse di un sano ripensamento dell’ultima ora, ma purtroppo non nato da un progetto organico e credibile su cui poggiarsi e da cui partire.
L’unica scommessa fatta da Bersani nei 53 giorni che ci separano ormai dal voto è stata quella di prendere tempo, di rinviare, nella speranza che il passare delle settimane potesse miracolosamente sciogliere i nodi irrisolti.
Già in campagna elettorale non era stato capace di dare un messaggio riconoscibile, un’indicazione di rotta per il Paese e gli italiani, una ricetta di speranza e di cambiamento comprensibile a tutti. Eppure l’uomo era dotato di buon senso, di una visione pragmatica ed efficiente e di una buona dose di ironia. Ma una sorta di paralisi e l’errata convinzione che bastasse restare fermi - distinguendosi dagli altri per sobrietà e per la serietà di non fare promesse impossibili - per arrivare naturalmente a Palazzo Chigi avevano prodotto un risultato monco e deludente.
Non averne preso atto subito, aver ripetuto come un mantra che al Pd «spetta» l’azione, o la proposta o la guida, ma senza avere poi la forza di guidare i processi (a dire il vero nemmeno di metterli in moto) ha distrutto una leadership e la tenuta di un partito e del suo mondo di riferimento.
Se non hai i numeri devi decidere con chi ti vuoi accompagnare per averli, ma il compagno di viaggio deve essere d’accordo e il percorso deve essere chiaro. Si è corteggiato Grillo e si sono inventati due presidenti delle Camere non ortodossi e non di partito per compiacere lui e tutta quella parte di opinione pubblica che in modo ossessivo riconosce valore soltanto a ciò che è nuovo e diverso. Ma ciò non è servito a costruire nessun progetto perché il Movimento 5 Stelle non ne voleva sapere di assumersi la sua parte di responsabilità. Prendere atto di questo portava a un bivio obbligato: dialogare con Berlusconi o rivendicare il diritto ad eleggersi un Presidente a maggioranza semplice per poi tornare a votare con un volto e un programma nuovi, variando insomma l’offerta politica.
Nessuna delle due strade è stata scelta, si è rimasti nel limbo continuando a vagheggiare di una terza via che permettesse il crearsi di convergenze magiche sia per eleggere il successore di Napolitano sia per dare il via a un governo di minoranza.
Tutto questo fino a un paio di giorni fa, quando – proprio nel momento in cui arrivavano aperture da Grillo – all’improvviso è emerso un accordo con Berlusconi, un accordo che doveva essere talmente forte e stringente da giustificare anche la rottura dell’alleanza con Vendola e la frattura interna al partito. Un accordo che però non è mai stato spiegato, nelle sue linee, nel suo progetto e nemmeno nelle sue conseguenze. Un accordo che portava a eleggere Franco Marini senza far comprendere all’opinione pubblica ma nemmeno ai propri parlamentari il significato e il senso della scelta.
Viviamo un tempo in cui i cittadini pretendono di capire, si sono abituati alle narrative e a dare un volto ai progetti: le chimiche partitiche, i candidati che servono solo a sbloccare altre geometrie sono incomprensibili e inaccettabili. Eppure la storia di Marini aveva elementi degnissimi che avrebbero contrastato l’ondata che si è riversata su di lui: un alpino che ha passato la vita a preoccuparsi del lavoro, un uomo dai gusti semplici che probabilmente avrebbe fatto partire il suo settennato nel Sulcis o tra le vittime dell’Ilva a Taranto. Nulla di ciò è stato offerto al Paese, se non un nome scelto da Berlusconi in una rosa che cercava un minimo comun denominatore. Così si è scatenata la rivolta, parlamentare e popolare.
Le persone, e non solo quelle che in queste ore si scatenano su twitter e facebook – con tassi di faziosità e accuse deliranti che fanno francamente spavento –, vogliono al Quirinale qualcuno di cui capiscono il senso, di cui possono apprezzare il percorso e di cui si possono fidare.
Le forze politiche hanno il diritto, anzi il dovere di scegliere, indicare e governare, è questo il senso della democrazia rappresentativa e dovremmo tenercela cara di fronte a tentazioni totalitarie di minoranze rumorose, ma per farlo devono mostrare coraggio e idee chiare. Se non si è capaci di guidare allora sarebbe giusto farsi da parte o perlomeno cercare di ricostruire la propria parte del campo partendo dal basso, restituendo la parola alla base.
In questo caso la base sono i grandi elettori della coalizione di centrosinistra, che questa mattina verranno interpellati per evitare nuove figuracce laceranti. È giusto e molto più in sintonia con i tempi e con gli umori del Paese andare a vedere qual è il nome su cui si possa coagulare il maggior numero di consensi, ma poi si chieda a tutti di rispettare lealmente l’indicazione, ripartendo da quell’altro principio basilare che si chiama maggioranza.

La Stampa 19.4.13
La Caporetto di Bersani lasciato solo anche dai suoi
Bocciato l’asse con il Pdl: nel partito c’è chi chiede le dimissioni Tabacci: “Non dovevamo far scegliere il nome a Berlusconi”
di Federico Geremicca


Una foto: l’abbraccio in Transatlantico con Angelino Alfano. Un grido fuori da Montecitorio: «Rodotà è il cambiamento, Marini il fallimento». E un affondo, quello di Michele Emiliano, sindaco di Bari. «Non c’è altra possibilità che chiedere le dimissioni della segreteria del Pd». Ed eccolo, allora, in tre immagini, il giovedì nero di Pier Luigi Bersani: una sorta di Via Crucis che, cominciata il pomeriggio del 25 febbraio, sembra non dover finire mai... Ma anche le vie Crucis hanno passaggi più difficili di altri: e le ultime 24 ore del leader Pd sono state aspre e dure. Dure come forse prima mai.
Il peggio, naturalmente, si è manifestato ieri poco dopo ora di pranzo, quando i risultati della prima votazione per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica hanno certificato quella Caporetto che Bersani temeva solo, e della quale tutti gli altri - invece - erano già sicuri: soltanto 521 voti per Franco Marini, candidato concordato tra Bersani e Berlusconi. 521 voti, una miseria rispetto ai 672 del quorum necessario per l’elezione ed ai 799 su cui poteva godere in partenza. Peggio di una sconfitta: una sorta di vero e proprio rigetto rispetto al nome proposto, all’ipotesi politica che aveva alle spalle (una intesa con Berlusconi anche per il governo) ed al metodo spiccio e solitario utilizzato da Bersani per tentare di venire a capo della complicatissima situazione determinatasi.
Appena appreso il risultato della votazione, il leader Pd ha lasciato Montecitorio per riunirsi - in un ristorante dietro Campo de’ Fiori - col solito gruppetto di fedelissimi (Migliavacca, Errani e Letta) da tempo e sprezzantemente definito il «tortello magico». Lì, il leader Pd ha cercato di fare il punto della situazione per decidere come ripartire: ma in un clima e in un contesto che si andava facendo pesante ogni ora di più. Franco Marini rifiutava di sottoscrivere qualunque dichiarazione di ritiro; i grandi elettori Pd alternavano ironie e contestazioni rispetto alla gestione di un passaggio così delicato; il centrodestra rigirava il coltello nella piaga dicendo «andiamo avanti con Marini, che alla quarta votazione ce la fa» e dalla periferia - ma perfino dal Pd di Parigi - si moltiplicavano accuse e appelli a cambiare strada ed a lasciar perdere ogni intesa con Berlusconi.
A metà pomeriggio uno sconsolatissimo Bruno Tabacci sintetizzava il disastro più o meno così: «Due giorni fa ho mandato un sms a Bersani: Pier, facciamo un solo nome - Amato - perché se andiamo da Berlusconi con una rosa ci indeboliamo e finiamo per far scegliere a lui il Presidente... Non mi ha risposto. In cambio, però, ha spaccato la coalizione e ha ottenuto che dei cinque partecipanti alle primarie solo lui voterà Marini: Vendola, Renzi, la Puppato e io, infatti, votiamo altro. Anzi, visto che sta per iniziare la seconda votazione, io comincio a scrivere il nome di Prodi fin da ora... E un’ultima cosa: ho chiamato Renzi per dargli atto della battaglia condotta a viso aperto e del coraggio dimostrato... ».
Intorno a Bersani, insomma, tutto andava lentamente decomponendosi. Il segretario dava indicazione di scheda bianca per la seconda votazione così da aver ancora un po’ di tempo a disposizione per decidere il che fare. Alla fine, però, decideva di non fare: di fronte al ribollire del partito, abdicava a ogni ruolo di direzione, convocando (pare su proposta di D’Alema) i Grandi elettori per stamane, così che decidano loro - attraverso primarie lampo - il nome del nuovo candidato Pd per il Quirinale... La confusione giungeva dunque al massimo. E così, mentre Enrico Letta proponeva a Berlusconi un cambio di cavallo - Sergio Mattarella invece che Marini - ricevendo un no, Beppe Fioroni si precipitava a palazzo Giustiniani per chiedere all’ex Presidente del Senato un passo indietro, ricevendone un altro no...
Alla fine, mentre Matteo Renzi si metteva in treno per venire a Roma e festeggiare con i suoi parlamentari la sconfitta del tandem Bersani-Marini, il leader dei democratici cercava di recuperare il recuperabile. Le richieste di dimissioni si moltiplicavano, le critiche grandinavano e trovare la rotta risultava sempre più difficile. Difficile perché il segretario sentiva l’ostilità e l’isolamento crescere intorno a lui. E intanto ancora pensava a com’era stato possibile che perfino la prima delle sue fedelissime, Alessandra Moretti, avesse bocciato la scelta di puntare su Marini, decidendo di votare scheda bianca. La più dolorosa, forse, delle schede bianche...

La Stampa 19.4.13
Il giorno blindato di Rodotà e quell’amarezza per il Pd
L’ex presidente Pds: non hanno considerazione per la mia biografia politica
di Giuseppe Salvaggiulo


Il giurista Stefano Rodotà è stato Garante della privacy dal 1997 al 2005 Eletto in Parlamento con il Pds nel 1992

«È andata molto bene», dice Stefano Rodotà agli amici che gli telefonano nella casa ormai assediata dalle telecamere e dalla quale nel pomeriggio riesce a organizzare una fuga tattica per riparare in quella di un parente. Il giurista è felice per i 240 voti, che considera una vittoria, ma guarda oltre. Sa di non essere un candidato di bandiera da sventolare e bruciare, ma il terminale di un sistema nervoso che affonda nella carne della società italiana. Ne ha parlato a lungo anche con Ignazio Marino. «Un candidato dell’Italia», non di un partito. E non nasconde incredulità per il fatto che il Pd non abbia ancora riconosciuto che si è creata una «connessione sentimentale» tra la pressione popolare e la sua storia di sinistra, tutt’altro che estremista o forcaiola. Comunque vada, non uscirà di scena.
L’altra sera, quando ha ricevuto la telefonata di Beppe Grillo («due minuti in cui ci siamo fatti un sacco di risate») era appena tornato da Lisbona, dove aveva partecipato a un convegno internazionale sulla privacy. E si è ritrovato candidato presidente della Repubblica. Non che ignorasse, da qualche settimana, i segnali di attenzione che giungevano da più parti. Una settimana fa, a Roma, il teatro Valle dove ha lanciato la «costituente dei beni comuni» era gremito come neanche per i concerti pop: seicento persone, diversi parlamentari del M5S e in platea anche Miguel Gotor, senatore Pd e braccio destro di Bersani. Così l’indomani a Torino per Biennale Democrazia. Sapeva che decine di «grandi elettori» di Pd e Sel erano pronti a sostenerlo. Poi la trasferta portoghese, durante la quale si era tenuto informato, ma senza immaginare quello che stava per succedere. Gli appelli di amministratori locali del Pd. Lo strappo di Vendola. Gli intellettuali – prima Carlo Freccero e Ugo Mattei, gli altri a valanga – e gli attori come Elio Germano. E i parlamentari Pd costretti a filtrare le mail con la parola «Rodotà» per non intasare la posta elettronica. I sit-in spontanei da Milano a Matera, gli striscioni nelle piazze, le tessere elettorali bruciate per protesta... Come il referendum sull’acqua pubblica del 2011, col Pd recalcitrante e poi costretto a sostenerlo a furor di popolo. E, pochi giorni fa, le primarie romane, col trionfo di Ignazio Marino, pubblicamente sostenuto da Rodotà.
Ieri il giurista aveva in agenda un’altra riunione al Valle, per mettere a punto il progetto sui beni comuni, con assemblee in tutta Italia. È questo profilo di «federatore» di movimenti, con una leadership prima intellettuale e poi politica ma non salottiera né partitica, unito a una limpida storia nella sinistra (a febbraio era al seminario dei socialisti europei, organizzato da D’Alema a Torino), che Grillo ha colto al volo. Altri, meno.

Corriere 19.4.13
La base in rivolta. E c'è chi brucia la tessera
Sedi occupate da Bolzano a Bari No a Marini anche dai giovani all'estero
di Alessandra Arachi


ROMA — Claudia Costa prende tra le mani la sua tessera del Pd, la mostra alle telecamere, ai fotografi, ai cronisti. La brucia, lentamente. Pezzetto per pezzetto. Sdegnata. È l'ora di pranzo nella piazza di Montecitorio. Claudia Costa mostra con sdegno anche il suo cartello: «Bersani, sicario del Pd». Era una militante di vecchia data. Adesso abbandonerà la politica, dice.
All'ora di pranzo di ieri nella piazza della protesta sono rimbalzati gli esiti di Montecitorio: fumata nera per la prima votazione, Franco Marini non ha raggiunto il quorum per lo scranno del Colle. I voti del Pd sono stati determinanti.
La spaccatura dentro il Partito democratico è stata devastante. La riunione di mercoledì sera al teatro Capranica è candidata a entrare nella storia del partito, detonatore di una giornata inquietante come quella di ieri con una protesta intestina che si è diffusa in tutta Italia con la velocità della Rete.
È bastato un hashtag su twitter: #occupypd. E da Bolzano a Bari le occupazioni sono scattate, sul serio. Con un passaparola inarrestabile. I militanti sono esausti e questa volta lo vogliono far sapere. «Non moriremo di tattica», lo striscione che campeggia fuori dalla sede del Pd di Padova. E da Prato gli fanno eco una ventina di militanti democratici: «Per un presidente di cambiamento occupy il Pd».
A Roma i protestanti non ce la fanno a occupare la sede nazionale, ma davanti al Nazareno un drappello di militanti si mette lì, a far sentire con chiarezza la voce: chiedono a Bersani un cambiamento vero. Chiedono tutti la stessa cosa al segretario Pier Luigi Bersani: decidi di votare Rodotà, il candidato del Movimento 5 Stelle.
Lo chiedono i militanti che occupano la sede di La Spezia, di Lucca. Alla Federazione provinciale del Pd di Bari i militanti giocano con le parole, in un cartello che postano su twitter: «Noi MARINIamo il Colle».
Persino a Bolzano «occupy Pd» va a coprire la scritta della targa all'ingresso della sede del partito. E, accanto, un altro cartello: Rodotà presidente.
Mercoledì sera dopo riunione al teatro Capranica persino uno pacato come Matteo Orfini non aveva esitato a postare fino a tarda notte il suo appello: ripensiamoci. Inutilmente.
La protesta ha avuto la velocità della Rete. E dunque non ha impiegato che poche ore a fare il giro del mondo, letteralmente, perlomeno a giudicare dal comunicato che già alle cinque di ieri pomeriggio è stato diffuso dalla Consulta italiani nel mondo del Pd. Già, anche dai dirigenti del Pd all'estero arriva l'appello per Bersani: votiamo Rodotà.
«Sono già oltre 200 i dirigenti ed esponenti della circoscrizione estero del Pd che chiedono di votare Stefano Rodotà», spiega Luciano Neri, responsabile della Consulta italiani del Mondo e componente del Consiglio generale italiani all'estero. Poi aggiunge: «La scelta di un candidato come Marini ha diffuso un motivato sconcerto che dai gruppi parlamentari agli iscritti, ai simpatizzanti, agli elettori sta dilagando anche nelle nostre realtà all'estero. È una scelta incomprensibile e certamente suicida, non condivisa dalla maggioranza dei militanti e degli iscritti del Pd».

Corriere 19.4.13
La colonna emiliana nell'esercito dei franchi tiratori
L'olimpionica Idem: neanche uno dei miei 9 mila elettori condivide la linea del Pd
di Fabrizio Roncone


ROMA — Arriva il senatore del Pdl Augusto Minzolini, abito blu e scarpe nere lucide, tutto in ghingheri come per un matrimonio, però di nuovo con il passo del cronista, l'odore del Transatlantico deve avergli riscatenato il vecchio istinto.
«Dicono che i franchi tiratori siano oltre duecento» (mette su il ghigno beffardo di uno che ti sta dando una notizia certa).
Il senatore del Pd Nicola Latorre si volta di scatto (lui, invece, mette su uno sguardo dove non si capisce se prevalga il panico, o l'incredulità). «Cosaaa? Ma no... ma dai, Minzo... ma è impossibile... ma che dici... ma figurati...».
E invece, un'ora dopo, eccoci qui a fare la conta del primo scrutinio, e la conta è inesorabile: a Franco Marini sono mancati ben più di 200 voti.
«Allora, vediamo un po'...»: questa è la voce di Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, uno che ha studiato dai Radicali prima di arrivare al Pd.
«Mhmmm... Beh, i renziani, intanto, sono una cinquantina... poi io aggiungerei che una settantina di voti sono andati smarriti tra Fratelli d'Italia e Lega, e tra quelli di Tabacci e di Monti... A quanto siamo? A 120, giusto? Beh, tutti gli altri voti, almeno un centinaio, non sono arrivati dal Pd».
Il suo, Giachetti, l'ha dato a Emma Bonino. Rosario Crocetta ha votato per Piero Grasso. La Pezzopane per Rodotà. Anche Ignazio Marino, candidato sindaco al Campidoglio, per Rodotà. Passa la Madia: «Nemmeno io ho votato per Marini...». Qualcuno ha provocato: voti all'attrice Valeria Marini e a Veronica Lario, moglie di Berlusconi. Genialata situazionista di chi, sulla scheda, ha evocato il Conte Mascetti (Ugo Tognazzi nel film capolavoro «Amici miei»).
L'onorevole Michele Anzaldi viene a sedersi su un divanetto: «Visto quante preferenze per Chiamparino? Ben 41. E sono quasi tutti voti renziani... destinati, vedrete, a crescere, a raddoppiare nel secondo scrutinio».
Gira voce che decine di parlamentari del partito democratico provenienti dall'Emilia-Romagna siano stati raggiunti da email e sms, tutti messaggi in cui si chiedeva, e in qualche caso ordinava, di non votare per Marini.
«Guardi che non è una voce, è la realtà» (questa è la senatrice Josefa Idem, canoista olimpionica da Ravenna).
Può essere più precisa?
«Sa con quanti voti sono stata eletta? Circa 9 mila... e non uno, di quei miei elettori, non uno sarebbe stato contento di ritrovarsi con Marini al Quirinale...».
Quindi lei...
«No, aspetti, mi faccia finire: perché, vede, io ci sto pure a subire il lancio di uova marce dai miei elettori, però ne deve valere la pena. Invece il segretario ieri sera ci ha convocati in fretta e furia in un cinema, alle otto e mezza di sera, e cosa ha fatto? Ci ha presentato la lista della spesa...».
È un giudizio severo, senatrice.
«Era la lista della spesa: votate per quello, fate così, che abbiamo deciso così».
E lei...
«Ho votato scheda bianca».
Scheda bianca pure per Tabacci. Cesa: «No... ehm... no, non mi risultano schede bianche tra noi di Scelta civica...». Civati, Pd: «Io ho votato per Rodotà». Verini, Pd: «Io mi ero permesso di chiedere a Marini un passo indietro». La Moretti (persino lei, una delle poche autorizzate a sedere alla tavola del cosiddetto «tortello magico» bersaniano): «Scheda bianca, sì». Orlando, giovane turco molto richiesto dalle tv, e molto amareggiato, tagliente: «Diciamo che parecchi bersaniani e tanti del gruppo di Letta oggi hanno giocato a fare i franchi tiratori...».
Colpisce che una volta, per scoprire un franco tiratore, dovevi star lì a investigare per ore. Qui invece tutti vengono e ti spiegano, confessano, tutti senza un filo di pentimento.

Corriere 19.4.13
Anarchici e autolesionisti nel Pd
Il partito esplode, le macerie sul Colle
di Antonio Polito


Visto il risultato, si direbbe che nel Pd i «franchi tiratori» sono stati quelli che hanno votato con il segretario. Nemmeno Alessandra Moretti, portavoce di Bersani, ha sostenuto la candidatura Marini: come se Paolo Bonaiuti prendesse le distanze da Silvio Berlusconi.
Un partito può avere dissidenti, ribelli, contestatori, correnti; ma quando arriva all'esplosione anarchica e autolesionistica cui abbiamo assistito nel voto di ieri a Montecitorio, quando non c'è più né legame ideale né solidarietà personale né interesse politico a tenerlo insieme, vuol dire che il partito non c'è più, o che non c'è mai stato.
Di chi è la colpa di questo disastro, che si riverbera anche sulle istituzioni? È facile rispondere: del leader e del suo gruppo dirigente. In pochi mesi è stato dilapidato un capitale politico immenso, ed è stata bruciata l'unica alternativa di governo che l'Italia aveva dopo il fallimento del centrodestra di Berlusconi, travolto dalla crisi finanziaria del 2011. Prima in campagna elettorale si è investito quel capitale nella ridotta di una sinistra storicamente minoritaria, con l'arroganza di chi mostra di non aver più bisogno di nessuno. E dopo il voto si è tentato di fare, nel giro di un mese, prima un governo con Grillo e poi un Presidente della Repubblica con Berlusconi, come se le due cose fossero compatibili, come se si potesse nutrire la base di carne di giaguaro e poi chiederle di farsi vegetariana. Il Pci poteva votare per il democristiano Cossiga; il Pds poteva votare per il democristiano Scalfaro. Ma il Pd non riesce a eleggere un candidato che non sia abbastanza antiberlusconiano. Ed è questo che ha condannato Marini.
La maledizione della Seconda Repubblica continua. Se dopo la vittoria mutilata di Prodi nel 2006 ci vollero due anni perché fosse chiaro che il centrosinistra non era in grado di governare il Paese, stavolta sono bastati due mesi e la coalizione elettorale con Vendola si è già dissolta.
Ma dato a Bersani ciò che è di Bersani, sarebbe sciocco non guardare più in profondità alle cause di questo disastro. Il fatto è che un terremoto politico sta squassando l'Italia, e il Pd ha costruito la sua casa e il suo insediamento elettorale proprio sulla faglia dove si scontrano la placca della conservazione e quella dell'innovazione, la democrazia parlamentare e quella plebiscitaria del web, lo Stato e il mercato. Questa collocazione avrebbe potuto essere felice, farne il protagonista del cambiamento, il partito meglio posizionato per guidare l'Italia fuori dalla sua crisi. Invece il Pd ha fallito la sua missione, e ora dovrà ricominciare daccapo, con altri leader e altri programmi, e chissà se ce la farà.
Non è casuale che l'esplosione di un partito chiamato Democratico sia avvenuta sull'elezione del Presidente della Repubblica. Non c'è niente di più novecentesco nella politica italiana, niente che strida di più con la dittatura dell'opinione pubblica che ormai regge le società post-moderne. Come si può pensare di scegliere il Capo dello Stato riunendosi in tre o quattro persone in località segrete, scambiandosi rose di nomi come fossero figurine Panini, mentre là fuori impazzano sondaggi, test, interviste per strada, lobby organizzate, autocandidature, concorsi di bellezza, sfilate di star, editoriali di giornali? Ieri l'aula di Montecitorio ha dato 240 voti a un candidato arrivato terzo in un sondaggio tra frequentatori di un sito web, dei quali non sappiamo niente, nemmeno quanti sono e se sono veri: Stefano Rodotà è in politica dal 1979, tredici anni prima di Marini, ma il bacio del web lo ha fatto «nuovo». Perfino un fuggevole abbraccio in Parlamento tra Bersani e Alfano diventa oggi, nel tam tam della Rete, la prova provata dell'inciucio e la condanna finale del malcapitato segretario del Pd.
È il nostro sistema di democrazia parlamentare che non regge più: dal dicembre del 2010, da quando Fini uscì dal centrodestra e vi entrò Scilipoti, viviamo di fatto in una crisi di governo perenne. La sinistra ha perso anni a difendere il sistema per mancanza di coraggio riformista, temendo che cambiarlo avrebbe portato il cesarismo, e ora è rimasta intrappolata sotto le sue macerie. Lì fuori c'è un tizio che le urla: arrendetevi, siete circondati. Metà delle sue truppe stanno già uscendo a mani alzate. Vedremo se l'altra metà obbedirà agli ordini ed eleggerà il Presidente che lui vuole.

Repubblica 19.4.13
Parte la protesta contro il segretario
Tende e striscioni nasce “Occupy-Pd” anche l’Emilia si ribella al suo capo
di Giovanna Casadio


Da Torino a Bari, i militanti processano la linea-Bersani. Molte sedi invase dai militanti. A Roma bruciate tessere in piazza. “Cambiate o non vi rivotiamo”
Striscioni e tende, parte Occupy-Pd anche l’Emilia si ribella al suo leader
Grandi manovre tra capicorrente. Letta a Renzi: è urgente ricucire

La protesta si accende lungo la dorsale appenninica, nell’Emilia bersaniana, e si estende a macchia d’olio. La prima votazione è ancora in corso quando i “grandi elettori” modenesi del Pd, una decina, decidono di rendere pubblico il loro dissenso: «Voteremo scheda bianca, Marini è una persona di sicuro prestigio ma non è questa la strada del cambiamento». A fine giornata poi, tutti gli emiliani, dalla vice presidente del gruppo Paola De Micheli al giovane ex segretario modenese del Pd, Davide Baruffi al cattolico Edo Patriarca (in tutto sono 54) si riuniscono per riemergere dal «disastro Pd». «Abbiamo le federazioni occupate... «, compulsa le notizie «che arrivano dal territorio», Matteo Orfini. Nell’aula di Montecitorio, il voto per Franco Marini frantuma i Democratici: Laura Puppato tiene i conti («Mi sembra di essere diventata una statistica») e calcola che più della metà dei pd hanno votato contro. «La nave democratica era a un passo dal porto — ragiona — e stiamo per farla affondare sullo scoglio dell’intesa con Berlusconi ». Intanto a Torino, comincia l’occupazione della federazione. Occupazione a Bari. Una ventina di militanti di Prato si riuniscono nella federazione e espongono uno striscione: “Per un presidente di cambiamento occupy il Pd».
Il partito è nel caos. La rivolta della base, le occupazioni, le valanghe di tweet, mail e sms si saldano con il “no” dei parlamentari alla linea di Bersani, alle larghe intese con Berlusconi sul nome per il Quirinale che, nelle file democratiche, è liquidato semplicemente come «inciucio». Stefano Bonaccini, segretario del Pd dell’Emilia Romagna, bersaniano, scandisce l’alt: «Non è per Marini, ma questo metodo non va. I segretari dei circoli emiliani sono pronti a dimettersi». Attorno alla sede democratica, a Largo del Nazareno, si temono contestazioni e il partito allerta la Digos. Il Pd ribolle. I renziani ripetono: «Abbiamo interpretato bene il sentimento del nostro elettorato». Renzi lancia altre bordate contro il segretario, e arriva a Roma in serata. Non c’è l’incontro tra il sindaco “rottamatore” e Bersani per dare almeno l’idea che i cocci dei Democratici si possano ricomporre. Però Enrico Letta sente Renzi: «Dopo la deflagrazione del partito a cui abbiamo assistito — gli dice — vediamo di riunire i pezzi». La soluzione starebbe nella candidatura di Prodi, che peraltro Letta ha sempre ritenuto il possibile approdo, una volta tramontato l’abbraccio con il Pdl. In realtà, nell’assemblea dei gruppi di oggi — senza l’alleato Vendola — il match per la candidatura al Colle sarà tra Prodi e D’Alema, forse con voto segreto. «Evitando di ripetere l’errore — spiega Francesco Verducci, uno dei “giovani turchi” — di cercare la condivisione con l’altro schieramento mentre la condivisione indispensabile deve esserci nel partito». Stessa opinione di Stefano Fassina: «Abbiamo sottovalutato la difficoltà, il nome per il Quirinale deve tenere soprattutto insieme il partito». Walter Verini, veltroniano, prende fiato: ora un’altra partita è possibile, la linea fin qui era «de-sintonizzata dalla base».
C’è chi come il sindaco di Bari, Michele Emiliano chiede le dimissioni di Bersani. Ci pensano anche i renziani: «Cavallo ferito va abbattuto», mormorano. Ma nel vortice di riunioni di corrente, di incontri, il Pd è a un passo dall’implosione. Areadem, la corrente di Dario Franceschini, è sotto stress. Franceschini è stato uno dei registi della scelta del nome condiviso e di Marini. Beppe Fioroni, leader dei Popolari, si sfoga: «Chi ha rovesciato il tavolo delle larghe intese, adesso trovi la soluzione, perché è chiaro che questa è un’altra linea politica organizzata ». Sospetti, stillicidio di dichiarazioni alle agenzie di stampa per prendere le distanze dalla sconfitta. Daniela Sbrollini, deputata vicentina, afferma che non ce l’ha fatta a votare come voleva Bersani e mostra gli 80 “no” che i presidenti dei circoli vicentini le hanno inviato per mail: ha votato Rodotà. «Ora si cambia schema di gioco», è la certezza del prodiano Gozi. «L’ho detto anche a Errani: non volete bene a Pierluigi per avergli lasciato prendere questa strada», commenta Sandra Zampa. Chiti è «preoccupato »; Bindi amareggiata. Il renziano Gentiloni sostiene che se si fosse eletto Marini, Bersani avrebbe messo la capsula alla pentola a pressione che il Pd oramai è, ma ora... Molti vanno a complimentarsi con Walter Tocci, a cui si deve l’elogio del “franco tiratore”Pd, in realtà una truppa, più di 200.

Repubblica 19.4.13
Il mondo fuori e il mondo dentro
di Concita De Gregorio


L’ABISSO che separa il mondo fuori dal mondo dentro non ha mai fatto paura come adesso. Lo leggi negli occhi colmi di lacrime delle deputate che ti mostrano lo schermo dei telefonini che si accendono di messaggi increduli e sprezzanti, “ci scrivono i figli, capisce?, i nostri studenti, le famiglie e gli amici: ma cosa state facendo?”, dice Grazia Rocchi che faceva il preside a Livorno.
Cosa state facendo?, chiedono i segretari del Pd dell’Emilia Romagna che provano a redigere un appello, quelli di Roma che avvisano che così dovranno chiudere i circoli, i Giovani Democratici che manifestano davanti a Montecitorio e hai voglia a dire che sono infiltrati, che sono proteste organizzate. Basta uscire e guardarli negli occhi, parlarci un momento per capire chi sono. Basta ascoltare le parole del presidente della Camera Laura Boldrini, che si concede il tempo di un caffè alla buvette: «Abbiamo dovuto mettere il filtro alla parola Rodotà nel sistema informatico di Montecitorio. Sono arrivate duecentomila mail in poche ore, il sistema è andato in tilt due volte». Basta sentire la pensionata di Venezia che pretende di entrare, «ho mandato un fax molti giorni fa, il mio nome dovrebbe essere in lista », la signora Lombardo, elegante e gentile, che dice: «Non capisco, davvero, cosa stia succedendo ». Il decano dei commessi che le spiega che oggi no, oggi non può entrare, scuote la testa e ricorda di quando vide in una saletta al primo piano di Montecitorio Andreotti e Forlani farsi i complimenti «e poi elessero Scalfaro», solo che Forlani fu impallinato da una manciata di franchi tiratori, non da duecento come accade oggi a Marini: la metà del Pd che non sta ai patti.
Il metodo Bersani-Berlusconi ha fallito, i cinquanta giorni di inutile attesa hanno partorito un cadavere. Lo vedi dal nervosismo con cui La Russa conta i voti sullo schermo in cortile, ma come si fa a dare credito a qualcuno che non controlla i suoi, «il vero problema è che non si può stringere un patto con chi non ha le truppe ». Lo senti nelle parole di Luciana Castellina, che appoggiata al suo bastone, altera, dice: «Non è che non sentano il mondo fuori, che non vedano le tessere che bruciano che non capiscano l’aria che si respira nel mondo: non vedono nemmeno il mondo dentro, non hanno nemmeno contezza dei loro».
Marini, per la terza volta nella sua vita tirato in ballo per una corsa a perdere, non lo meritava – si dispiace persino chi non gli vuol bene. Un massacro, «una gestione dissennata» la definisce il montiano Bruno Tabacci che ha votato scheda bianca e che descrive l’intesa fra Bersani e Berlusconi come «una trattativa umiliante in cui Berlusconi prendeva in mano i foglietti e li buttava via: Mattarella no, D’Alema insomma, facciamo Marini». Col risultato, si dicono tra loro tre deputati emiliani eletti fra Parma e Reggio, che «abbiamo dato l’impressione di accettare il candidato di Berlusconi e di non averlo nemmeno votato perché spaccati in due». Josefa Idem, che ha votato bianca: «Una lose-lose situation. Come ti muovi perdi. Quando è così bisogna cambiare schema di gioco. Anche a me arrivano i messaggi, io la sento la gente che mi parla. Sono convinta che la disciplina di partito sia essenziale, si vota chi ha deciso la maggioranza, ma in canoa se arrivo alla cascata scendo, non mi butto di sotto. Qui ci chiedono di sfracellarci».
Nel centrodestra sono furiosi. C’è stato bisogno della stampella della Lega, per eleggere Marini, e non è bastata neanche quella. Eppure l’accordo era chiaro, spiega tonante Guido Crosetto. Marini avrebbe garantito l’incarico a Bersani, che avrebbe poi fatto un governo senza l’appoggio esplicito di Berlusconi ma coi voti della Lega. Anche Laura Puppato, che ha votato Rodotà: «Un bruttissimo pasticcio. Il minimo risultato col massimo sforzo. Nessuno riesce a capire perché le riforme si debbano fare con Berlusconi e non con i cinque stelle, che hanno proposto Rodotà e Prodi, una notevole apertura, no?, una possibilità».
Nessuno riesce a capire, nemmeno Anna Finocchiaro che da candidata alla presidenza del Senato aveva già scritto il suo discorso, «ruotava intorno al tema dell’impazienza, perché non c’è più tempo da perdere, io mi vergogno quando di fronte a quello che c’è fuori, la vita delle persone, mi chiedono cosa state facendo? Hanno ragione, bisogna essere impazienti», ma Bersani non ascolta nessuno, adesso è fuori a pranzo coi compagni che chiamano “il tortello magico”, i suoi consiglieri emiliani, è solo con loro. E neppure capisce, Anna Finocchiaro, e non solo lei, perché sia cambiato il metodo che ha portato all’elezione di Boldrini e Grasso, quello in nome del quale le è stato chiesto di farsi da parte. Si è smarrito, quel metodo, nel tragitto breve tra il Senato e il Quirinale. Dice Nichi Vendola, con un sorriso triste, che «Bersani mi ha detto che dei grillini non si fida perché lo insultano su Facebook. Ma la politica non è Fb!», almeno non solo. Berlusconi è livido, sussulta quando arriva un voto per Veronica Lario, la sua ultima possibilità di rientrare in gioco era tutta in questa intesa e difatti manda avanti Alfano a insistere: proviamo ancora, chiede. Proviamo a eleggere D’Alema al quarto scrutinio, quello in cui bastano 504 voti, coi consensi di una parte del Pdl e di una parte del centrosinistra. La partita si sposta su D’Alema, ora. D’Alema contro Prodi. «Ma perché il Pd e Sel dovrebbero accettare un candidato indicato dal centrodestra quanto possono eleggerne uno loro», si domanda Rosa Calipari, chiede la segretaria d’aula Caterina Pes, si dicono i giovani neoeletti che dovrebbero aver paura di non essere rieletti ma non ce l’hanno, evidentemente, invece. E poi chi ha detto che Rodotà scioglierebbe le Camere, dice Fico dei Cinque stelle, chi ha detto che non si possa governare, invece, e fare le riforme che servono. Alessandra Mussolini prova a immaginare un Prodi presidente che dia l’incarico a Rodotà. Chissà se è per questo che prende tanti voti alla seconda, inutile votazione. In un altro pomeriggio perso, quello del secondo voto in bianco («vincerà, questa Scheda Bianca», ridono sullo scranno Grasso e Boldrini), corrono i nomi di Rocco Siffredi la pornostar, di Trapattoni, un voto ad Arnaldo Forlani in memoria del suo ’92, la Caporetto sua e della Dc. Ci vollero altre dieci votazioni, allora, per arrivare a Scalfaro. Soprattutto, disgraziatamente, ci volle Capaci.
È buio a Roma quando il decano dei commessi sgombra la sala stampa. Sarà D’Alema, vedrete, dice agli ultimi che accompagna alla porta. Pazienza per il mondo fuori: questa è la fortezza Bastiani, è l’ultimo giro di giostra della vecchia politica, l’ultima partita dei condannati a morte. A meno che la notte, come sempre accade da che Quirinale è Quirinale, non porti consiglio. E allora chissà se la domanda semplice – ma perché non Rodotà? – o una candidata fin qui non emersa – Severino? Fernanda Contri? Ma davvero abbiamo scartato Emma Bonino? – non riesca ad avere ragione della dissennatezza, della paura, del calcolo. Napolitano, dal Colle, vigila e ascolta, se necessario chiama.

Repubblica 19.4.13
Larghe intese al tramonto
di Claudio Tito

NELLA drammatica giornata di ieri, il centrosinistra è riuscito in poche ore nell’impresa di spaccarsi in mille pezzi e di passare dal ruolo di coalizione “non vittoriosa” delle elezioni a quello di “riperdente”. Ha di fatto bruciato uno dei suoi leader storici, Franco Marini, senza averne calcolato le conseguenze e senza aver adottato tutte le precauzioni prima di buttare nella mischia il suo nome.
L’ex presidente del Senato è stato ghigliottinato al primo voto non tanto o non solo per un giudizio negativo nei suoi confronti, ma per lo schema che rappresentava. La base del Pd, i militanti di Sel e soprattutto quasi metà dei loro parlamentari, si sono ribellati all’idea che la legislatura potesse prendere il via attraverso un patto con il centrodestra di Silvio Berlusconi. Ecco cosa è saltato ieri. È stato archiviato il metodo che prevedeva un accordo con il Cavaliere. Quel sapore di “inciucio” che ha impastato ogni soluzione e che ha reso brutale la reazione degli anticorpi. Con quel metodo è stata dunque bocciata anche la linea sostenuta in questi giorni da Pierluigi Bersani. È stata cestinata l’idea che dopo l’elezione di un capo dello Stato concordato con il Pdl si potesse contare su un sostegno indiretto o almeno sulla disattenzione del gruppo berlusconiano per la nascita del nuovo governo.
Questo disegno è stato plasticamente cancellato nelle urne di Montecitorio. Ora il Partito democratico è costretto a invertire la tattica. In gioco non c’è solo la scelta del nuovo presidente della Repubblica, ma la salvezza del Pd e dell’intero centrosinistra. Il segretario democratico sa che a questo punto una soluzione in grado di tenere uniti i gruppi parlamentari costituisce l’unica strada per evitare la deflagrazione totale e la scomparsa del fronte progressista in chiave governativa. Il livello di protesta tra i militanti e la soglia di contestazione dentro la classe dirigente ha infatti raggiunto livelli senza precedenti. Bersani oggi proverà a formulare un nome, quello Romano Prodi, il capo dell’Ulivo e l’uomo che ha sconfitto due volte il Cavaliere. Ma la confusione all’interno del Pd è tale che nessun candidato ha ormai la certezza non tanto di essere eletto, ma persino di raccogliere tutte le preferenze della sua coalizione. Anche Massimo D’Alema, non a caso, vuole giocarsi le sue chance.
L’ex premier è convinto di potercela fare soprattutto se i gruppi parlamentari dovessero scegliere il proprio “campione” a scrutinio segreto ricorrendo a una sorta di “primarie”. Un’ipotesi che rinverdirebbe il duello storico tra Prodi e D’Alema. Ma per qualcuno rappresenterebbe anche la riproposizione della “guerra” del 1992 tra Andreotti e Forlani che portò all’elezione di un outsider (Scalfaro) e, soprattutto, all’implosione del loro partito: la Dc.
Un quadro che rende il Partito democratico un meteorite senza controllo con ogni singola componente pronta a porre un veto e a scontrarsi con ogni vero o presunto avversario. Lo ha fatto Matteo Renzi che ha misurato le sue forze nei primi due scrutini e che ora sta impostando la partita pensando ai tempi supplemen-tari: a quando, cioè, potrà ripresentarsi come candidato premier del centrosinistra. E indica tra i potenziali successori di Napolitano quelli che a suo giudizio possono ragionevolmente assicurargli il ritorno alle urne in tempi brevi. Il medesimo veto lo hanno posto il gruppo dei “Giovani turchi”, i veltroniani e i prodiani. E sull’onda del sindaco di Firenze si è aperto un vero e proprio conflitto generazionale. I giovani contro gli anziani, al di là della linea politica. Lo scossone che sta disarcionando Bersani è stato assestato anche in questa chiave. Sebbene il primo responsabile di questa guerra tra nuove e vecchie generazioni è forse lo stesso segretario che, per liberarsi dalle camarille correntizie, a dicembre scorso ha inventato le primarie per i parlamentari. Risultato: si è trovato i gruppi della Camera e del Senato del tutto ingestibili, con una quota imponente di eletti che preferisce rispondere a esigenze esogene rispetto al partito che li ha portati in Parlamento. Guardano solo al web senza tenere presente le buone esigenze della politica.
Alla fine, quando sarà eletto il presidente della Repubblica, la prima conseguenza — se davvero salterà il patto con il Pdl — consisterà nell’addio di Bersani al proposito di guidare il governo. Cambiare lo schema per il Quirinale significa mutarlo pure per Palazzo Chigi. Anche perché l’alleanza Pd-Sel ha scricchiolato alla prima prova. Il partito di Vendola, nonostante i buoni propositi della campagna elettorale, ha subito dimostrato di non volersi adattare alle scelte di coalizione e al principio delle decisioni a maggioranza.

Repubblica 19.4.13
La rivolta di una generazione
di Curzio Maltese


LA CORSA di Pierluigi Bersani si è fermata ieri alle due e un quarto, quando Laura Boldrini ha letto il risultato del primo voto per il presidente della Repubblica. Una disfatta. Con la carta dell’accordo per Franco Marini presidente, il segretario (o ex?) del Partito democratico aveva provato a vincere su tre tavoli in contemporanea.
Quello di grande elettore del prossimo capo dello Stato, l’altro di premier del possibile governo di larghe intese, il terzo di un congresso di partito parallelo. Ebbene, ha perso su tutta la linea. Da ieri pomeriggio è chiaro che non sarà Pierluigi Bersani a scegliere il presidente della Repubblica, non sarà mai premier di nessun governo o governissimo e già non è più lui, di fatto, il leader del Partito democratico. Forse non esiste neppure più un Pd, a giudicare dal voto sparso in cinque o sei tronconi. Spetterà al successore di Bersani rimettere insieme i pezzi del partito, trasformato da una scelta insensata nel più grande gruppo misto nella storia del Parlamento italiano.
Ora si dirà che è stata questa o quella corrente ad aver affondato il progetto di Bersani. Si contano i renziani e i prodiani, s’indaga sulla fedeltà dei veltroniani e perfino dei dalemiani, come si sarebbe fatto nella Prima Repubblica con le correnti democristiane. Ma è una falsa prospettiva. La verità è che nel Pd c’è stata una gigantesca rivolta generazionale. Con in prima fila proprio molti giovani portati in Parlamento da Bersani.
Non i giovani turchi di Fassina, che si erano già allineati. I giovani e basta, in maggioranza donne. «I giovani del Pd stanno con noi», aveva detto Beppe Grillo alla vigilia, a ragione. L’età media dei parlamentari del Pd è più o meno quella del Paese, un po’ sopra i 45 anni, e quello è stato lo spartiacque. Sotto i 45 anni quasi nessuno, al di là delle correnti di appartenenza, ha seguito le indicazioni di inciucio della leadership e la scelta di Marini, vista come un arroccamento della nomenclatura, una strada senza futuro. Un suicidio assistito. Per giunta, assistito da Silvio Berlusconi. Si può essere cinici e intelligenti e astuti. A volte la sinistra italiana lo è stata. Per esempio, ai tempi della Bicamerale di Massimo D’Alema. Ma cinici, ostinati e dilettanti no. In ogni caso, i giovani del Pd non sono nessuna delle tre.
Fine corsa di Bersani, dunque. Per quanto, probabilmente fosse finita molto prima. In politica, come nel cinema e nella vita, la fine reale della storia non sempre coincide con l’ultimo atto. Nel caso di Bersani, i titoli di coda del suo film di leader erano già scorsi dopo la vittoria delle primarie. Da allora in poi il segretario non ne ha più azzeccata una. Una campagna elettorale grigia e moscia, un dopo elezioni da temporeggiatore confuso, infine la catastrofe di questi giorni. Gli dei accecano coloro che vogliono perdere, ricordava ieri il pindarico Nichi Vendola. Così è andata. Accecato dall’insuccesso, che dà sempre molto alla testa, Bersani non ha visto quanto si muoveva nella società italiana, nel cuore del popolo del centrosinistra, negli stessi uomini e donne che lui aveva fatto eleggere. Incapace a lungo di decidere, ha scelto alla fine da solo e contro tutti, imboccando alla massima velocità una strada senza uscita, fino all’inevitabile schianto.
Ora al centrosinistra, o quanto ne rimane, restano soltanto due possibilità di sopravvivenza. Andare in ginocchio dall’unico che potrebbe rimetterne insieme i cocci. L’unico candidato presidente che avrebbe un senso agli occhi del mondo, ammesso che all’Italia interessi ancora farne parte: Romano Prodi. Oppure riversare il voto su quel gran galantuomo di Stefano Rodotà, un simbolo di che cosa la sinistra italiana potrebbe o avrebbe dovuto essere, ma accettando di capitolare di fronte alla superiore intelligenza politica di un ex comico. La terza via, perseverare diabolicamente nel patto con Berlusconi, con il povero e incolpevole Marini o un altro, a questo punto significa
l’estinzione.

Repubblica 19.4.13
Lo stupore del giurista candidato “Ho preso 32 voti in più del previsto”
Intanto sul web rispunta una vecchia polemica con Grillo
di Sebastiano Messina

ROMA — «Rodotà, duecentoquaranta» annuncia la presidente Boldrini nell’aula dove ancora rimbombano i colpi dei 151 franchi tiratori che al primo scrutinio hanno abbattuto la candidatura di Franco Marini. «Ro-do-tà, Ro-do-tà», gridano in piazza Montecitorio. Ma Rodotà dov’è, cosa fa, cosa dice? E’ da tutt’altra parte, in uno studio Rai: per farsi intervistare da Paolo Mieli sul rapporto tra Internet, la democrazia e i diritti delle persone, ovvero quello che negli ultimi quindici anni è diventato il suo pane quotidiano. E la sua candidatura? Su quella non vuol dire nulla, o quasi. «Non mi aspettavo questo risultato ammette - perché i numeri sono andati al di là delle mie previsioni e credo che questo qualcosa voglia dire. Mi aspettavo i voti del Movimento 5 Stelle e di Sel, ma se ho fatto bene i conti ne ho ottenuti 32 in più...». E quei 32 voti in più venivano di sicuro da quei grandi elettori del Pd che lo avrebbero voluto come candidato ufficiale del partito, al posto di Marini. Ma lui che in Parlamento c’è stato per quindici anni, partecipando alle elezioni di due capi dello Stato e mancando per un soffio l’elezione a presidente della Camera, sa bene quanto la prudenza, in questi casi, sia la virtù più preziosa. «Ora non so che cosa possa accadere, bisogna attendere domani. Non credo di dover dire nulla, se non ringraziare chi mi ha votato e coloro che sostengono la mia candidatura».
Comunque vada a finire, lui ne uscirà con la soddisfazione di essere votato da un Parlamento di cui non fa più parte, messo in campo da un partito che non è nemmeno il suo. E anche se il suo stile gli detta regole diverse da quelle che hanno fatto dire a Beppe Grillo che «alla notizia Rodotà era felice come un bambino», quella candidatura deve avergli dato un’emozione almeno pari a quella che provò a 26 anni trovando nella prima pagina del “Mondo” l’articolo che, speranzoso, aveva mandato a Mario Pannunzio. Il giovane Rodotà, arrivato a Roma dalla Calabria per studiare legge in quella facoltà che poi gli avrebbe dato la cattedra di ordinario, non immaginava che intrecciando settimana dopo settimana - prima sul «Mondo», poi su «Panorama» e infine su «Repubblica » - la riforma del diritto e le utopie della politica avrebbe disegnato un’originalissima figura: quella del giurista che diventa opinion maker.
Negli anni in cui bisognava andare controcorrente, per evocare i tre articoli della Costituzione (41, 42 e 43) che parlavano della prevalenza dell’«interesse generale» sulla proprietà privata e della sua «funzione sociale», Rodotà faceva parte - con Galgano, Lipari, Irti, Rescigno, Barcellona e Berlingieri - di quel gruppo di giovani studiosi di diritto civile che lo facevano, da un convegno all’altro. Fu lui nel 1964 a teorizzare la «funzione sociale del contratto», che era una tutela ante litteram dei consumatori, e da allora ha sempre esplorato le nuove frontiere, prima del diritto civile e poi - a partire dagli anni Settanta - dei diritti di libertà. Fino a diventare, nel 1997, il Garante della Privacy, dove ha dato una dimensione istituzionale alle sue intuizioni giuridiche sull’informazione come bene tutelato, le stesse che oggi lo spingono a battersi per un «Internet Bill of Rights» e a chiedere l’aggiunta di un nuovo articolo alla Costituzione: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet».
Tra la partenza e il traguardo ci sono stati 15 anni di vita politica. Radicale in gioventù con Pannunzio, nel 1979 accettò dal Pci la candidatura come «indipendente di sinistra», entrando nella formazione di cui quattro anni dopo diventò il capogruppo. L’«indipendenza» finì insieme al Pci, e Occhetto volle che fosse proprio Rodotà il presidente del nuovo partito, il Pds. Gli ex comunisti, però, non l’hanno mai considerato davvero uno dei loro: quando si trattò di eleggere il successore di Scalfaro alla presidenza della Camera, per esempio, lui era il favorito ma il partito gli preferì Napolitano. E così lui è tornato sul suo terreno preferito, il diritto. Perorando cause che poi sarebbero state fatte proprie da Grillo, come quella per il «reddito di cittadinanza
» o per il referendum sull’acqua pubblica. E dev’essere nato da lì il feeling con il Movimento 5 Stelle, che a sorpresa lo ha messo ai primi posti delle sue Quirinarie, passando sopra i severi giudizi che Rodotà dava solo pochi mesi fa su Grillo (e che l’ex grillino dissidente Giovanni Favia ha rispolverato ieri, postandolo sul suo blog). «Il fatto che Grillo dica che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in Rete - diceva il professore in un’intervista a “Left” - rischia di dare ragione a coloro che dicono che la democrazia elettronica è la forma del populismo del terzo millennio. (...) Poi si scopre che Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio del ceto politico, allora vediamo che il tessuto di questi movimenti è estremamente pericoloso». Una perfidia, certo: ma la Rete, quella Rete studiata da Rodotà e adorata da Grillo, è fatta anche di questo.

Repubblica 19.4.13
Soddisfazione per l’appoggio di Sel alla candidatura del giurista. “Non dobbiamo farci fregare con un altro nome”
Grillo: con Rodotà fino in fondo Ma se si arriverà alla sfida Pd-Pdl i parlamentari vogliono In trenta pronti a sostenere Prodi. Civati fa il pontiere
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — C’è Beppe Grillo che naviga tranquillo da Grado a Trieste, impegnato nei comizi elettorali per le regionali del Friuli Venezia Giulia. Ci sono i suoi parlamentari alle prese con un mare più periglioso: la loro prima elezione di un presidente della Repubblica. «Dura sette anni. È una responsabilità enorme», dice per tutti Roberto Fico. I grillini arrivano in Parlamento emozionati e nervosi. Scattano foto ricordo con l’iPad nel cortile, sono arrabbiati col Pd: «Perché Marini? Perché non Stefano Rodotà?». Dopo l’esito del primo scrutinio, dopo la bocciatura dell’ex presidente del Senato, contano i voti andati al loro candidato. Ci sono quelli di Sel. E più di 20 pd. Fico e Bonafede si fermano ad ascoltare quel che Nichi Vendola dice ai giornalisti. Gli stringono la mano. Non si fidano però: «Il problema è se vanno avanti con il nostro nome, o ne tirano fuori un altro per fregarci, com’è successo con la presidenza della Camera».
L’atteggiamento però è cambiato rispetto a quando si parlava di fare un governo. L’apertura al dialogo di due giorni fa da parte di Grillo ne è la prova: quella del Colle è una partita che i 5 stelle vogliono giocare. Dopo i primi due voti, alle otto di sera, si riuniscono tutti insieme, deputati e senatori. Devono capire cosa fare visto che Rodotà non riesce a calamitare i voti del Pd («I cattolici non lo vogliono »). Devono valutare ogni ipotesi: anche quella di una possibile convergenza sul nome di Romano Prodi, che è comunque nella rosa dei più votati alle “quirinarie”, sebbene in fondo.
E quindi, mentre ufficialmente Roberta Lombardi, Vito Crimi, Roberto Fico continuano a spiegare che andranno avanti con il candidato scelto dalla Rete, e che per arrivare a Prodi dovrebbero rinunciare tutti gli altri - da Zagrebelsky in giù - la realtà è che si rendono conto di aver bisogno di un piano B. Basta un’Ansa targata Beppe Grillo a seminare il panico. «Il Movimento porterà avanti il nome di Stefano Rodotà fino alla quarta votazione», dice il capo politico in un comizio a Trieste, dove il suo arrivo in barca a vela è stato accolto da alcuni contestatori in gommone (gli avversari di una lista legata al Pdl muniti di megafono). Capannello di deputati con lo staff della comunicazione: «Forse intendeva la quarta esclusa. E dopo c’è libertà di coscienza? Come lo decidiamo?». Qualcuno stempera: «Voleva solo dire fino in fondo ». Lontani dai taccuini, ammettono che se di un’apertura a Prodi bisognerà parlare, si farà oggi, dopo il fallimento di ogni altra via. «Per cambiare dovrebbe arrivare una proposta nuova e forte da parte del Pd», dice sibillino il senatore siciliano Francesco Campanella. «Non conta solo il nome. Conta la proposta». Le voci girano impazzite: su una senatrice bolognese amica di famiglia del Professore. Su Grillo e Casaleggio che lo vedono di buon occhio, come sancito dalla riunione in agriturismo, quando il capo disse: «Meglio lui di altri». Il calabrese Francesco Molinari invita alla cautela: «Rodotà non è un pollo da bruciare. Il destino ci ha unito: mia nonna era quella che da noi si definiva la sua “mamma di latte”». Qualcuno chiede ai parlamentari di stare attenti: «Continuate a dire sì solo al nome di Rodotà, ma non fate alcuna valutazione su Prodi. Nessuna critica pesante. Non leghiamoci le mani».
Vorrebbero più tempo, i grillini. Qualcuno avanza l’ipotesi di bruciare la quarta votazione, d’accordo col Pd, per aspettare una notte e arrivare a una quinta. Magari fare una rapida consultazione on line e chiedere libertà di coscienza sui nomi rimasti in pista. «Molto difficile, non c’è tempo», sarebbe la risposta arrivata dallo staff. «Prima dovrebbe ritirarsi Rodotà. Grillo deve sentirlo», spiega uno degli uomini della comunicazione. Girolamo Pagano discute con Massimo Artini appena fuori dall’aula. Vorrebbe che si parlasse subito col Pd per decidere le mosse. Che non si rimanesse a fare ipotesi chiusi nel proprio guscio. Nella riunione della sera prevalgono gli ortodossi: «Il Pd ci sta ignorando. A questo punto si votino da soli chi vogliono. Noi abbiamo fatto un figurone. Non potranno più dirci che non abbiamo i nomi». Si va a casa così, ma l’ipotesi Prodi resta, ed è forte. In 30 sono pronti a votarlo in qualunque caso. Gli altri aspettano segnali dall’alto. Uno dei dialoganti, fiducioso: «Stavolta siamo noi che stiamo portando Beppe dalla nostra parte. Adesso dipende tutto dal Pd».

l’Unità 19.4.13
Il prezzo della libertà negata dentro un Cie
di Luigi Manconi e altri


Lo scorso 15 marzo è stata depositata al Tribunale civile di Roma la sentenza che motiva il risarcimento danni dovuto dal ministero dell’Interno a un signore straniero, trattenuto «illegittimamente» nel Centro identificazione ed espulsione di Ponte Galeria.
Questi i fatti: dopo il rigetto della domanda di asilo, nel 2007, era stato notificato al signore in questione il decreto di espulsione e, contestualmente, un decreto di accompagnamento alla frontiera. Quest’ultimo passaggio però non è stato convalidato e, perciò, è stato predisposto dalla Questura competente il trattenimento del signore presso il Cie, prorogato di ulteriori trenta giorni affinché avvenisse l’identificazione. Contro tale decisione, presa dal Giudice senza la presenza delle parti, l'uomo ha presentato ricorso per «violazione del diritto di difesa», a cui un anno dopo ha dato ragione la Cassazione: la proroga del trattenimento veniva così annullata. Il signore, però, a quel punto volle andare oltre e nel 2011, seguito dall’avvocato Alessandro Ferrara, chiese al ministero dell’Interno di essere risarcito del «danno patrimoniale e non» derivatogli da quella proroga.
Il ministero dell’Interno rispose che quei trenta giorni erano leciti dal momento che si trattava di una persona a cui lo status di rifugiato e, più in generale, il diritto d’asilo, erano stati negati. Questa motivazione, però, non è bastata al Tribunale civile di Roma per cui il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione è una misura che incide sulla libertà personale «alla stregua della detenzione» e, dunque, «esige tutte le garanzie processuali e sostanziali previste per quest’ultima». Si evidenzia, inoltre, come «la restrizione, sia pure avente le caratteristiche di un centro di accoglienza, configura lesione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione».
E con sentenza numero 5764 del 2013 è stato riconosciuto «il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (...)» quantificato per analogia a quello «per ingiusta detenzione». Esso prevede che per ogni giorno di «ingiustificata privazione della libertà» siano corrisposti alla persona 235,82 euro. Si dice sempre che «la libertà non ha prezzo», e in questo caso il costo per una giustizia ingiusta non è particolarmente oneroso ma si tratta di un precedente che non sarà facile d’ora in poi ignorare. Si noti anche che la sentenza ha superato, come dire, d’un balzo, tutte le distinzioni tra detenzione carceraria e trattenimento, assimilando e come poteva fare altrimenti? la permanenza in cella a quella nel Cie, privilegiando come fattore dirimente, al di là della forma, la sostanza della privazione della libertà e di ciò che comporta in termini di attentato alla dignità e alla salute in uno o nell’altro dei due istituti. Non più ospiti dunque, come recita il capitolato del ministero in riferimento ai trattenuti nei Cie, ma detenuti. A tutti gli effetti.

l’Unità 19.4.13
Controllo delle armi Il Senato Usa dice no
Respinte le verifiche sui precedenti di chi acquista, niente da fare su fucili d’assalto e caricatori multipli
Il presidente: «Giornata vergognosa per Washington. Non finisce qui»
di Marina Mastroluca


Il sangue dei venti bambini di Newtown non è bastato e nemmeno le lacrime e gli appelli delle loro famiglie spezzate, che hanno cercato di trasformare la perdita in un’opportunità per l’America. Obama ha il volto teso dei momenti neri e non nasconde la sua rabbia, quando è ormai chiaro che l’accordo bipartisan non produrrà nessuna legge per il controllo delle armi: non ci sono i numeri, nemmeno per il «background check», il certificato che avrebbe dovuto attestare che chi si appresta ad acquistare pistole e fucili è mentalmente sano e non ha precedenti per reati violenti. «Oggi è una giornata piuttosto vergognosa per Washington. Gli americani cercano di immaginare come qualcosa sostenuto dal 90% della popolazione non sia accaduto». I sondaggi dicono appunto che il 90% degli americani vuole quei controlli, un freno alla follia omicida vista in Colorado e Connecticut. Circondato dai familiari delle vittime di Newtown, dal vicepresidente Joe Biden e Gabrielle Giffords, l’ex parlamentare democratica sopravvissuta miracolosamente alla strage di Tucson dove era stata gravemente ferita alla testa, il presidente promette che «non è finita qui». «La mia amministrazione farà di tutto per proteggere la nostra comunità dalla violenza delle armi».
Non saranno però tempi brevi. Se già era stretto il passaggio per arrivare ad una qualche forma di regolamentazione, adesso lo è ancora di più. La lobby che ha temuto di perdere terreno nei giorni dopo la strage di Newtown canta vittoria. «Confidiamo che questo metta la parola fine al controllo sulle armi nel 113° Congresso», dice Michael Hammond, rappresentante di Gun Owners of America. La National Rifle Association, Nra, la principale lobby di produttori di armi, incassa: le sue tesi sono state sostenute da 41 senatori repubblicani e quattro democratici, lasciando lo schieramento favorevole ai controlli ad appena 54 voti, ben sotto la soglia necessaria di 60. Non sono bastati i quattro voti conservatori scivolati a sinistra, è prevalsa la paura che la norma aprisse la strada ad un registro delle armi, considerato un’indebita invasione dello Stato a scapito del diritto alle armi sancito dalla Costituzione. Una bugia bella e buona, secondo l’amministrazione Obama, che si era data un obiettivo più modesto rinunciando anche ai controlli sul passaggio delle armi regolarmente acquistate ad amici o parenti. Niente controlli, dunque, e si è persino rischiato il peggio: l’emendamento repubblicano che estendeva il diritto di girare armati è riuscito a raccogliere 57 sì. Si è sfiorata la maggioranza, tanto che era stata ventilata l’ipotesi che i democratici lasciassero cadere l’intera legge, per evitare di incassare una normativa di segno diametralmente opposto. Nulla da fare, neanche a dirlo, sull’ipotesi di bandire le armi d’assalto e i caricatori multipli.
«I senatori hanno preso la loro decisione in base alla paura politica e al freddo calcolo sul denaro di speciali interessi come quelli della Nra, che alle ultime elezioni ha versato 25 milioni di dollari di contributi e lobbying», si infuria Gabrielle Giffords dalle pagine del New York Times, invitando gli elettori a esprimere il loro disappunto ai senatori, inchiodandoli alle loro responsabilità. Un’azione dal basso, su questo punterebbe anche l’amministrazione Obama per rilanciare la battaglia al Congresso. O un percorso Stato per Stato: un po’ come si è fatta strada la legge sulle nozze gay, allargando le isole anti-gun un pezzo alla volta.
Le prossime occasioni utili saranno le elezioni di mezzo termine nel 2014 e il voto del 2016. Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che guida la schiera dei sindaci contro le armi illegali, ha già promesso che userà il tema del controllo delle armi in campagna elettorale. Bloomberg ha già speso 12 milioni di dollari in 13 Stati nelle scorse settimane a favore di una normativa che imponesse il controllo su chi compra delle armi. I mezzi non gli mancano ma i suoi sforzi non preoccupano la Nra: finora non hanno spostato di una virgola gli schieramenti al Congresso. Al contrario, la campagna sul controllo delle armi, divampata sull’ondata emotiva della strage di Newtown, sembra paradossalmente aver chiamato a raccolta i sostenitori del secondo emendamento, mentre sono schizzate alle stelle le vendite di armi d’assalto e munizioni multiple nel timore di un giro di vite.
«Torniamo a casa delusi ma non sconfitti. Determinati a capovolgere quello che è successo. Andremo avanti», promette il padre di una delle piccole vittime di Newtown. «Non finisce qui», è la promessa di Obama.

l’Unità 19.4.13
John Podesta, Presidente del Center for American Progress:
«I terroristi vogliono porci di fronte al dilemma fra libertà e maggiore sicurezza»
«Usano la paura per azzerare l’agenda della Casa Bianca»
«È come se le forze più ostili alla presidenza abbiano deciso di entrare in azione»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Il rischio è che l’America finisca per essere o prigioniera della paura e del più retrivo conservatorismo. Ha ragione Obama: il voto del Senato sulla legge “anti-armi” segna una pagina gravissima, una ferita profonda per il Paese e le sue istituzioni». A denunciarlo è una delle figure-chiave nella politica dei democratici Usa: John Podesta, già capo di Gabinetto di Bill Clinton nei suoi anni alla Casa Bianca, l’uomo che Barack Obama scelse per selezionare il suo team presidenziale nel primo mandato. Attualmente, Podesta è presidente del Center for American Progress, il più autorevole think tank democratico americano. Dal dolore di Boston alla ferita politica di Washington: il duplice filo conduttore del colloquio de l’Unità con John Podesta.
Il Senato ha silurato il patto bipartisan, bocciando la legge anti-armi voluta da Obama. Qual è la sua lettura di quel voto?
«Ciò che è avvenuto è preoccupante non solo per il fatto in sé ma per quello che proietta nel futuro. Il condizionamento esercitato dalla National Rifle Association (la lobby delle armi, ndr) è stato pesantissimo. Più che di una pressione parlerei di ricatto. È una sfida diretta alla Casa Bianca e alle istanze riformatrici del presidente Obama. E questo mentre nel Paese, non solo a Boston, si torna a respirare un clima di paura e di insicurezza dopo l’attentato di Boston e le lettere avvelenate. Spetta alle agenzie investigative consegnare alla giustizia esecutori e mandanti di quello spregevole attentato. Ma non c’è dubbio che chi ha colpito a Boston mirava a riscrivere l’agenda delle priorità della Casa Bianca e della politica Usa: la sicurezza piuttosto che l’occupazione, lo sviluppo delle riforme nel campo dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione. Un Paese impaurito chiede ordine piuttosto che trasformazioni sociali»
Gli avversari del patto bipartisan hanno accusato Obama di una forzatura «rivoluzionaria».
«È un’accusa ridicola. Quel disegno di legge non era dettato da nessuna velleità “rivoluzionaria” ma dal buon senso. Ciò che si chiedeva era rendere obbligatori dei controlli molto elementari. Ma anche questo buon senso è stato percepito dalla lobby delle armi come una dichiarazione di guerra a cui ha reagito portando all’estrema l’opera di lobbing. E ciò è inaccettabile».
Dal voto di Washington al sangue di Boston...
«È come se le forze più ostili alla presidenza Obama abbiano deciso di entrare in azione, ognuna con i suoi metodi, anche i più estremi. Sia chiaro: non si tratta di indicare un legame tra il modo in cui si è giunti al voto in Senato e l’attentato di Boston. Non ho mai amato la dietrologia, tanto meno in vicende così drammatiche. Ma ciò che colpisce e non può non destare preoccupazione è l’humus culturale, il retroterra ideologico in cui sono cresciuti in questi anni, non a caso dall’ingresso di Obama alla Casa Bianca, dei gruppi di estrema destra: neonazisti, suprematisti, fondamentalisti cristiani... Per costoro, il nemico è la società multietnica, è qualsiasi politica inclusiva. Questi gruppi concepiscono come un diritto naturale vivere armati e considerano tutti coloro che mettono in discussione questo “diritto” come nemici da eliminare, direttamente o indirettamente».
A Boston, Obama si è fatto portatore di un messaggio di fiducia: l’America non si farà terrorizzare.
«Obama difende il diritto dell’America di vivere da Paese normale. Un Paese che vuole e sa difendersi dai nemici interni ed esterni senza però mettere in discussione i principi fondamentali delle libertà individuali e collettive. Dobbiamo contrastare il terrore senza intaccare la nostra democrazia. La paura non deve cambiare le nostre vite libere. Difendere la normalità è la prima risposta a chi vorrebbe violentarla. So che è una prova difficile, ma non dobbiamo trasformare le nostre città in fortezze blindate. I terroristi, qualunque casacca ideologica essi indossino, vogliono di nuovo porci di fronte al dilemma: scegliere ancora una volta fra libertà e maggiore sicurezza. Come dopo l’11 Settembre. La sfida che deve vederci impegnati tutti, dal Presidente all’opinione pubblica, è dimostrare che è possibile difendere la sicurezza senza rinunciare alle libertà».
C’è chi pensa che la sicurezza, personale e collettiva, si ottenga con più armi. «Una società militarizzata non è una società più sicura, tutt’altro. L’idea di trasformare i cittadini in “giustizieri” è una cosa riprovevole, da contrastare su ogni piano, da quello culturale a quello legislativo. E questo impegno deve creare alleanze trasversali a livello politico, come era avvenuto sulla legge “anti-armi”. Non è un caso che oltre che ad Obama, le lettere “avvelenate” siano state spedite al senatore repubblicano Roger Wicher e a senatori democratici, come Carl Levine, “colpevoli” di voler introdurre controlli sulle vendite delle armi. Occorre difendere lo spirito bipartisan che si era creato attorno a quella legge: nelle battaglie di civiltà occorre ricercare il consenso più ampio, trasversale. Senza cedimenti, però. C’era tanta politica, alta, nobile, nell’appello accorato, lanciato a senatori, da una mamma di Newtown, (Connecticut), una delle madri di quei venti bambini uccisi nella più folle delle carneficine, perché cercassero di porre un argine alla catena delle stragi. Quella battaglia di civiltà va continuata. Ne va del futuro di un Paese “normale”».

Repubblica 19.4.13
L’infamia dei senatori: così si sono arresi ai signori delle armi
di Gabrielle Giffords

I SENATORI dicono di aver paura della National Rifle Association e della lobby delle
armi. MA CREDO che la loro paura sia poca cosa se paragonata alla paura che hanno provato i bambini di sei anni della scuola elementare Sandy Hook mentre la loro vita finiva sotto una pioggia di pallottole. O la paura che quei bambini che sono sopravvissuti al massacro devono provare ogni volta che ricordano le loro insegnanti che li ammassavano negli armadi e nei bagni e gli sussurravano che gli volevano bene, perché l’ultima parola che sentissero, se l’assassino li avesse trovati, fosse una parola d’amore.
Mercoledì una minoranza di senatori ha ceduto alla paura e ha bloccato una legge di buon senso che avrebbe reso più complicato per criminali e individui affetti da disturbi mentali entrare in possesso di armi letali, una legge che poteva impedire tragedie future come quelle di Newtown, in Connecticut, di Aurora, in Colorado, di Blacksburg, in Virginia, e di un numero incalcolabile di altre città e paesi negli Stati Uniti.
Alcuni dei senatori che hanno votato contro gli emendamenti per imporre il controllo dei precedenti di chi acquista un’arma hanno incontrato i genitori dei bambini assassinati alla scuola Sandy Hook di Newtown. Alcuni dei senatori che hanno votato no mi hanno anche guardata negli occhi mentre parlavo di cosa si prova ad avere qualcuno che ti spara alla testa da distanza ravvicinata, come mi è successo due anni fa nei sobborghi di Tucson, e hanno espresso simpatia per quelle 18 persone colpite dall’attentatore oltre a me, 6 delle quali sono morte. Questi senatori hanno sentito la voce degli elettori dei loro collegi. Eppure hanno deciso di non fare niente. Devono vergognarsi.
Io guardo la televisione e leggo i giornali, come chiunque altro. Sappiamo già che cosa sentiremo: banalità fumose come «voto spinoso» e «questione complicata». Questi senatori hanno preso la loro decisione per paura politica e calcoli cinici sui soldi versati da gruppi di interesse come la National Rifle Association, che alle ultime elezioni ha speso circa 25 milioni di dollari in contributi, lobbying e pubblicità elettorali.
Parlare rappresenta una fatica fisica per me. Ma i miei sentimenti sono chiari: sono infuriata. Non avrò pace finché il torto che questi senatori hanno commesso non sarà stato raddrizzato e finché non avremo cambiato la legge in modo da poter guardare in faccia le mamme e i papà e dire: stiamo impegnandoci per garantire che i vostri figli siano al sicuro.
La gente mi dice che sono coraggiosa, ma ho visto esempi di coraggio più grandi del mio. Gabe Zimmerman, il mio amico e collaboratore, a cui questa settimana abbiamo intitolato una sala del Congresso, vide l’attentatore che mi sparava alla testa e che rivolgeva l’arma su altre persone. Gabe corse verso di me mentre ero riversa a terra sanguinante. Corse verso le pallottole. Poi l’attentatore gli sparò e Gabe morì. Il suo corpo rimase sul marciapiede di fronte al supermercato Safeway per ore.
Ho pensato moltissimo a perché Gabe sia corso verso di me invece di scappare. Il servizio era parte della sua vita, ma era anche il suo lavoro. I senatori che hanno votato contro l’obbligo di verificare i precedenti di chi acquista armi su Internet e alle fiere, e quelli che hanno votato contro i controlli per impedire che persone con disturbi mentali possano acquistare armi, non hanno fatto il loro lavoro.
Hanno guardato questa proposta, la soluzione più benigna e concreta possibile, elaborata dai moderati dei due partiti, e poi hanno guardato dietro di sé, in direzione della potente e oscura lobby delle armi: e hanno gettato vergogna su se stessi e sul nostro Governo scegliendo di non fare niente.
Cercheranno di nascondere la loro decisione dietro grandi parole, dietro descrizioni deliberatamente distorte degli effetti che avrebbe potuto avere la legge – fidatevi, so come parlano i politici quando vogliono distrarvi – ma la verità è che la loro decisione è stata basata su una percezione errata del loro interesse personale. Dico errata perché per preservare la propria dignità e la propria eredità avrebbero dovuto dare ascolto alle voci dei loro elettori. Avrebbero dovuto rendere onore alla memoria delle migliaia di vittime delle armi da fuoco e dei loro familiari, che li hanno implorati di agire, non perché questo potesse servire a riportare in vita i loro cari, ma perché ad altri venisse risparmiato quello strazio.
Questa sconfitta è solo il capitolo più recente di un percorso che ho sempre saputo che sarebbe stato lungo e difficile. La storia della nostra democrazia è disseminata di nomi che non ricordiamo e non celebriamo, persone che hanno cercato di ostacolare il progresso per proteggere i potenti. Mercoledì molti senatori hanno votato per aggiungersi a questo elenco.
Prestate bene attenzione alle mie parole: se non riusciremo a rendere le nostre comunità più sicure con questo Congresso, useremo ogni mezzo a nostra disposizione per fare in modo di avere un Congresso diverso, un congresso che metta gli interessi dei cittadini davanti a quelli della lobby delle armi. Non fare niente mentre altri sono in pericolo non è nello spirito dell’America.

Gabrielle Giffords ferita in un attentato nel 2011 È nella top 100 delle persone più influenti del 2013 di Time deputata democratica dell’Arizona dal 2007 al 2012, è la fondatrice di Americans for Responsible Solutions, un’associazione che si occupa del problema della violenza con armi da fuoco negli Stati Uniti (©The New York Times La Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)


l’Unità 19.4.13
Grecia, spari sui braccianti ribelli
Immigrati dal Bangladesh chiedevano la paga: 29 feriti, uno è grave
Lavoravano da sei mesi per un’azienda agricola che produce fragole
Arrestate due persone, tre ricercati
di Teodoro Andreadis


Un nuovo episodio di estremo razzismo, che trova terreno fertile anche nella crisi economica, crea sconcerto in tutta la Grecia. Ventinove immigrati del Bangladesh, sono stati feriti da un proprietario terriero e da tre suoi collaboratori, perchè hanno chiesto con insistenza di poter ricevere la paga dopo sei mesi di lavoro. Gli immigrati avevano lavorato senza sosta, per la raccolta delle fragole, in campi che si trovano a Manolada, nella regione Ilia, una delle più note del Peloponneso. A chiedere il salario sono stati oltre ducento raccoglitori e come riferiscono rappresentanti sindacali che si trovano nella zona, il fenomeno dello sfruttamento di lavoratori stranieri, è ormai, sempre più diffuso.
Secondo le ricostruzioni , il proprietario dell’appezzamento agricolo in questione, un cinquantasettenne, aveva cercato di ingaggiare nuovi immigrati, senza prima pagare quanto dovuto ai braccianti che avevano lavorato per lui nei mesi scorsi. Alle loro insistenti richieste di poter ricevere almeno parte del compenso, l’uomo raccontano testimoni oculari si è allontanata insieme ai suoi tre «caporali» per tornare poco dopo con due fucili da caccia ed una pistola. I quattro hanno hanno aperto il fuoco ad altezza uomo, una scena che potrebbe forse ricordare solo le piantagioni di cotone, prima della guerra civile americana.
I ventinove feriti sono stati trasportati in ospedale della città di Pirgos, dove hanno ricevuto i primi soccorsi. I medici hanno confermato che uno di loro è in condizioni critiche, anche se si spera che possano stabilizzarsi. Il proprietario terriero è stato arrestato ed è accusato di tentato omicidio e di mancato rispetto della legge sull’immigrazione, mentre i suoi tre scagnozzi, di trentanove, ventisette e ventun’anni, sono ancora ricercati. Un altro uomo di trentotto anni è stato condotto nel carcere della zona, con l’accusa di aver offerto ospitalità, nelle ore immediatamente successive a questa tentata strage, a due dei tre caporali. «Vogliamo rassicurare tutti che faremo tutto quel che è in nostro potere perché fenomeni del genere non si ripetano più. Si tratta di episodi che offendono la civiltà del nostro paese», ha sottolineato in un comunicato, la direzione della polizia greca.
SFRUTTATI
Il fenomeno dello sfruttamento del lavoro di greci e, soprattutto, di cittadini stranieri, tuttavia, sembra essere tutt’altro che isolato. Una realtà esacerbata anche dalla giungla provocata dalla crisi economica, che ha spazzato via molti diritti. A volte, anche quelli minimi. «Ieri, finalmente, speravamo di venire pagati. Ci hanno detto, invece, di tornare al lavoro, senza darci neanche un soldo. Abbiamo iniziato a protestare e in risposta, sono arrivate le pallottole», hanno dichiarato diversi immigrati scampati alla furia degli sfruttatori. Le immagini dei lavoratori feriti, trasmesse da tutte le televisioni greche, hanno provocato profondo sconcerto ed una fortissima emozione. Molti immigrati del Bangladesh, per riuscire a salvarsi, hanno iniziato a correre per i campi, cercando di nascondersi tra la vegetazione. Per mesi, erano stati costretti a vivere stipati all’interno di tre serre, senza letti, con a disposizione pochissime coperte e cuscini, senza neanche l’acqua potabile. Il loro orario di lavoro, se di lavoro si può parlare, superava le dodici ore al giorno, in cambio di ventidue euro, che però, non sono mai arrivati.
Tutte le forze politiche hanno condannato duramente i fatti di Manolada. La sinistra eurocomunista di Syriza parla di «attacchi di tipo razzistico che hanno già numerosi precendenti nella stessa zona».

il Fatto 19.4.13
Norvegia “Breivik è un’icona”


L’avvocato di Anders Breivik - il killer delle stragi di Oslo e Utoya del luglio del 2011 con 77 morti - si è detto preoccupato che l’estremista di destra possa diventare una “icona in certi ambienti”, ma ha difeso il diritto del suo cliente a esprimere opinioni, modo migliore per ridurne l’influenza. Ansa

Repubblica 19.4.13
Nuovi 007 del Mossad la ricerca ora è online
I servizi segreti israeliani lanciano un’inedita campagna di reclutamento su siti web e social network
Lo slogan della réclame in stile hollywoodiano è: “Con nemici come questi, abbiamo bisogno di amici”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME «Cerchiamo giovani audaci, intelligenti, creativi che amino le sfide, pronti ad avventure oltreoceano. Sei hai valore, intelligenza e abilità mentale, puoi realizzare il sogno di compiere una missione nazionale e personale». È questo il messaggio centrale della vasta campagna di arruolamento lanciata su siti web israeliani e social network dal Mossad, il servizio segreto israeliano, che cerca nuove reclute da avviare nel “mondo delle ombre” dove serve «carisma, capacita di leadership, e fascino».
La racconta un po’ troppo in stile hollywoodiano il Mossad per attirare aspiranti 007 nella sua campagna pubblicitaria che si intitola “Con nemici come questi, abbiamo bisogno di amici”, ma è evidente che anche il mondo dello spionaggio ha bisogno di messaggi accattivanti.
I posti disponibili per uomini e donne riguardano incarichi diversi, ed è possibile presentare candidature per un massimo di tre offerte di lavoro. Ma c’è certamente meno fascino e glamour vedendo le posizioni vacanti. L’Istituto per l’intelligence e i servizi speciali è alla ricerca di persone altamente qualificate che siano veterani delle unità di intelligence dell’esercito israeliano, persone che parlino lingue straniere — in particolare il persiano e l’arabo — , insegnanti di lingue straniere, specialisti nell’hi-tech, chimici, tecnici scientifici, graphic-designer, avvocati, psicologi, ma anche un magazziniere e un falegname.
Accolti con favore gli aspiranti con doppia cittadinanza e doppio passaporto.
Il Mossad è una delle agenzie di intelligence più famose al mondo. I suoi numerosi successi gli hanno procurato una solida reputazione di efficienza, spesso ingigantita dai mass media e resa mitica dagli arabi che tendono a enfatizzare le risorse del nemico. Due anni fa il governatore del Sud Sinai accusò lo spionaggio israeliano di aver addestrato pescecani per attaccare i turisti nei resort sul Mar Rosso per far fallire l’industria turistica egiziana. La notorietà dell’Istituto è tale che spesso le sue imprese sono oggetto di romanzi e film di spionaggio. Ma negli anni non è sfuggito a grandi fiaschi e disfatte, che però non hanno intaccato il mito della sua efficienza. L’operato del Mossad resta il più efficace baluardo contro la minaccia nucleare iraniana.
La sede ufficiale dell’Istituto è a Tel Aviv, dove la sua torre di comunicazione svetta su ogni altra costruzione: la chiamano “il dito di Dio”, perché “Dio” è anche il soprannome del Mossad nel linguaggio di strada. A dispetto di quel che si crede fra le tre agenzie che si occupano di sicurezza in Israele — lo Shabak (meglio noto come Shin Bet), competente per la sicurezza interna dello Stato, e l’Aman, quello militare — è quella meno numerosa. I dipendenti ufficiali dell’Istituto fondato da David Ben Gurion nel 1949 sono poco meno di 2mila — anche se stime ufficiali non ce ne sono — organizzati in sei diversi dipartimenti, fra cui le Operazioni Speciali, da cui dipendono le Kidon (baionette), le micidiali unità di eliminazione. Un tempo la parola Mossad non si poteva scrivere sui giornali per non incappare nella censura e il nome del suo “ramsad”, capo, poteva essere indicato soltanto come “Mr. M.”. Adesso gli si può mandare una e-mail.

Repubblica 19.4.13
Varsavia anno zero
A settant’anni dalla rivolta pubblicati gli appunti dello storico Ringelblum
In armi contro i nazisti per le strade del ghetto
di Susanna Nirenstein


Nel gennaio del 1943 apparvero i primi appassionati manifesti sul muro alto 4 metri che circondava il ghetto di Varsavia: «Svegliati o popolo e lotta! … Che ogni madre diventi una leonessa in difesa dei suoi piccoli! Che nessun padre veda con rassegnazione la morte dei figli! Che il nemico paghi col proprio sangue la vita di ogni ebreo! Che ogni casa diventi una fortezza! Nessun ebreo deve più morire a Treblinka! Preparatevi ad agire! Siate pronti! ». E fu davvero così, quasi tutti uniti nell’Organizzazione Ebraica di Combattimento (la Zob, Zydowska Organizacja Bojowa) comandata dal 24enne Mordechai Anielewicz, da agnelli si trasformarono in tigri e volpi. Non si fecero più prendere e uccidere senza resistere, senza colpire il nemico. Prima con l’azione del 18 gennaio, quando una dozzina di uomini armati di pistola si infiltrarono nella colonna di uomini, donne, bambini condotti verso la Umschlagplatz dove i treni per Treblinka aspettavano, e aprirono il fuoco sulle SS liberando tutto il gruppo, mentre un altro nucleo forzava un vagone blindato facendone uscire i deportati. Poi con la grande rivolta del 19 aprile, esattamente 70 anni fa.
La volontà del Terzo Reich di cancellare gli ebrei dall’Europa era ormai chiara. Ogni illusione di rimanere in vita era svanita. In quella prigione a cielo aperto istituita dai nazisti nell’ottobre 1940, 403 ettari in cui erano stati trasferiti e rinchiusi più di 450.000 ebrei (con una densità di 14 persone per stanza e con le 184 calorie al giorno che secondo i tedeschi dovevano bastare ad ogni ebreo – ma a loro stessi ne andavano 2.613, mentre ai polacchi 669) dopo le grandi deportazioni dell’estate 1942 (310.000 gli abitanti portati allo sterminio, circa 6000 al giorno) e le morti per fame e malattia erano rimasti solo 50.000 i residenti nel ghetto. Ora si trattava di morire in piedi.
Quell’imbarbarimento, quell’incubo senza risveglio durato più di due anni e mezzo è stato raccontato fin dall’ottobre 1939, giorno per giorno, da Emanuel Ringelblum, storico sociale, sionista, organizzatore di mense e assistenza, ma soprattutto creatore degli archivi clandestini della “Oneg Shabbat” (Delizia del Sabato, un termine ebraico che faceva riferimento al giorno dedicato alla riunione), una cronaca minuziosa divisa in sezioni economiche, culturali, sociali – e capitoli sulle donne, i bambini, la gioventù, la salute, lo humour, l’educazione, la religione, le attività illegali –, che fu sepolta in 10 bidoni del latte sottoterra quando si comprese che tutto era perso. Materiale ritrovato a guerra finita. Oggi di quell’opus magnum raccolto perché il mondo sapesse, gli appunti scritti di persona da Emmanuel Ringelblum sincopati, veloci, fitti come foglie di quercia, diseguali, a tratti cifrati, quasi sempre espliciti, sono stati finalmente pubblicati in italiano con il titolo Sepolti a Varsavia (Castelvecchi, a cura di Jacob Sloan, pagg. 284, euro 22). Parlano di tutto, dalle norme che via via stringono e oscurano gli spazi vitali, alle battute (moltissime), le voci che circolano, l’odiosa polizia ebraica, gli judenrat, gli sbarramenti costruiti in quella o quell’altra strada, le punizioni inflitte a chi non si toglie il cappello, e poi rastrellamenti, rastrellamenti, rastrellamenti, piccoli rimasti soli, fame, morti, morti, morti, gesti pusillanimi, tradimenti, coraggio, lavoro, teatri, musicisti e vecchi e donne costretti a ballare per strada, contrabbandieri, quasi “eroi” a cui Emmanuel vorrebbe erigere in monumento. Una cronaca della catastrofe completa, difficile e senza fiato.
Torniamo alla Rivolta, a cui per altro partecipò anche Ringelblum naturalmente, anche se negli ultimi giorni, visto il suo ruolo, accettò l’invito a scappare, per poi essere ricatturato, internato, e infine rifuggire, venire scoperto e ucciso il 7 marzo 1944 insieme alla moglie, il figlio Uri e i compagni che erano nascosti con lui nella città cristiana. Dunque gli ebrei di Varsavia erano pronti all’ultima battaglia (perché non l’avevano fatto prima? Per fede a volte, ma soprattutto perché all’inizio non si poteva capire che si stava svolgendo uno sterminio su scala industriale e si era cercato di sopravvivere sperando di arrivare alla fine della guerra, in attesa dei russi, degli americani...): adesso, i combattenti della Zob, ragazzi e ragazze, erano circa 500 (ma ce n’erano altri 250 della Zzw – i sionisti revisionisti, di destra) e si erano faticosamente procurati, con scarsissimi aiuti da parte della resistenza polacca, un centinaio di fucili, tre mitragliatrici leggere, un migliaio di bombe a mano, alcune mine a pressione, cariche esplosive e bottiglie molotov. Un ben piccolo tesoro in confronto a quello dei 2500 uomini armati fino ai denti del comandante delle SS Jurgen Stroop, con i loro obici, cannoncini, lanciafiamme, carri armati, autoblindo. Però i combattenti avevano costruito centinaia di bunker e nascondigli anche a 5 metri di profondità, un reticolo nascosto e ben conosciuto.
Il 19 aprile i tedeschi circondano il ghetto per distruggerlo, l’ordine è di Himmler. I piccoli gruppi di resistenti li colpiscono con le bombe. Vedono finalmente il sangue dei nazisti, a cui prendono le armi. Stroop cambia tattica. È guerriglia, le SS avanzano con stivali di gomma per non farsi sentire, gli ebrei fasciano le scarpe con gli stracci e passano da un bunker all’altro dove di giorno si nascondono sdraiati e vicini, corrono tra le soffitte, le fogne, poi emergono di notte e colpiscono. Le ragazze catturate sfilano le pistole dalla biancheria e esplodono i proiettili contro i soldati. Ora se prendono i partigiani ebrei, i nazisti li fanno spogliare nudi. E danno fuoco alle case, ai sotterranei, al mondo intero. Tutto scotta. Gli ebrei agli ultimi piani, si buttano di sotto per non essere fatti prigionieri, molti altri vengono rastrellati. Quelli nei bunker soffocano dal caldo, ma appena saltano fuori sparano, e di fronte all’ipotesi della resa, spesso preferiscono tornare dentro e morire tra le fiamme.
Resistettero ventisette giorni, fino al 16 maggio. Anielewicz mentre difende le ultime posizioni scrive all’amico Cukermann che compra armi nella parte ariana «Ti saluto mio caro. Chissà se ci incontreremo ancora. Il sogno della mia vita, la resistenza armata degli ebrei, è ormai realizzato».
IL LIBRO Sepolti a Varsavia di Emmanuel Ringelblum (Castelvecchi pagg. 284, euro 22)

Repubblica 19.4.13
Hitler, Tito e Stalin a Vienna in un quartiere si fece la storia
Inchiesta Bbc: nel 1913 vivevano nel raggio di pochi isolati
di Andrea Tarquini


BERLINO — Lev Trotskij capì subito che quell’uomo dal falso nome greco, esule come lui, non ispirava nulla di buono. Adolf Hitler, respinto due volte dall’Accademia delle belle arti, già covava rabbia da frustrato contro il mondo, e contro quella mescolanza di etnie che lo circondava. Josip Broz, il futuro maresciallo Tito, si guadagnava il pane in una fabbrica Daimler, e le belle ragazze erano già il suo hobby. Sigmund Freud era già un affermato medico.
Vivevano tutti non lontano dai castelli dell’anziano, triste imperatore reso vedovo da un anarchico italiano, e dell’arciduca, di fatto numero due dell’Impero. Non è fantapolitica, è un dettaglio della storia contemporanea, ben narrato ieri in un reportage della Bbc: era il 1913, coabitarono a poca distanza a Vienna tutti quei personaggi, che sarebbero stati poi protagonisti di conquiste, svolte e soprattutto tragedie del ventesimo secolo. La capitale del multietnico Impero austroungarico al tramonto era rifugio prediletto per talenti e rivoluzionari esuli, intellettuali di punta e giovani falliti ma ambiziosi.
Se visitate Vienna, provate a immaginare quei tempi, magari dopo aver appreso dalle pagine di Musil e Zweig un po’ di quell’atmosfera. Stalin vi arrivò nel giugno 1913, scampando all’Okhrana (la polizia segreta zarista) con un treno da Cracovia austroungarica a Vienna. Stavros Papadopoulos era scritto sul suo passaporto. «Baffuto, pelle grigiastra, non ha nulla di amichevole», scrisse poi di lui Trotskij che si occupò
del fuggiasco georgiano, al secolo Josif Vissarionovic Zhugashvili. Entrambi abitarono nella parte ovest della capitale imperiale, la più affollata di stranieri. Massimo un paio di chilometri dal centro, dalla Hofburg dove Francesco Giuseppe regnava stanco e dal Belvedere dove Francesco Ferdinando non temeva ancora di cadere nell’attentato a Sarajevo. Vissero tutti nel melting pot dove Alma Mahler, vedova di Gustav, divenne la musa di Oskar Kokoschka e Walter Gropius.
Ignorando ognuno il suo futuro e quello dell’altro, erano solo semplici parti di quel tutto viennese che non c’è più. Magari s’incontrarono senza ovviamente pensare a come il futuro li avrebbe divisi. Frequentavano tutti i mitici caffè del centro, luogo di incontri e dialogo senza sosta su cultura, politica o Weltanschauung del mondo. Freud che nella Berggasse aprì il primo studio di psicanalisi al mondo, prediligeva il Café Landtmann, Trockij e Hitler amavano il Café Central. E in quell’operaio croato, Josip Broz, nessuno avrebbe immaginato allora il mitico Tito, il leader jugoslavo che poi sconfisse prima Hitler in guerra, poi “Stavros Papadopoulos” (Stalin appunto) nella guerra fredda. Oggi Vienna è la splendida capitale d’un paese piccolissimo, ma se viaggiate nelle città-melting pot di oggi, da New York a Londra, da Berlino a Hong Kong, guardatevi attorno: chi sa che cosa c’è nel futuro del vicino.

Repubblica 19.4.13
La Repubblica delle idee Bari 20-21 aprile
Scienza e fede a confronto
di Ezio Mauro


SCIENZA e fede vengono a confronto, nell’anteprima di «Repubblica delle idee» che va in scena a Bari sabato e domenica. Due giorni di incontri e dibattiti tra scienziati e studiosi laici con uomini di Chiesa e intellettuali cattolici, insieme con le grandi firme e gli editorialisti del nostro giornale.
È la seconda anteprima dell’anno, dopo quella di Torino a febbraio dedicata al tema del lavoro, e in preparazione del festival delle idee nazionale che si svolgerà quest’anno a Firenze per quattro giorni, dal 6 al 9 giugno.
Bari è qualcosa di più di una grande tappa di avvicinamento. Attorno allo specifico confronto sui temi della scienza e della religione sulle grandi questioni aperte dell’etica, dell’inizio della vita e della morte, della generazione e dell’evoluzione, la discussione sarà più ampia: il festival tratterà infatti l’argomento della laicità dello Stato in relazione alla libertà religiosa, le autonomie reciproche e il diritto di protagonismo e di soggettività per tutti nello spazio pubblico.
I protagonisti sono da anni al centro di questa discussione nel Paese, e sono ben noti ai lettori di Repubblica: dal professor Umberto Veronesi, intellettuale e scienziato, al cardinal Camillo Ruini, che è stato Vicario di Roma e ha guidato per lunghi anni i vescovi italiani, dal Priore di Bose Enzo Bianchi a Stefano Rodotà, da Umberto Galimberti a Vito Mancuso, da Piergiorgio Odifreddi a Remo Bodei, dal direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Sciortino a Giovanni Valentini.
Sul palco del Teatro Petruzzelli — dove sabato sera Riccardo Luna presenterà «Next», una carrellata sui talenti del futuro — si parlerà dunque di verità e di laicità, del significato umano dell’esistenza e della ricerca del trascendente. Sapendo che la scienza può aiutare la fede a guardarsi dagli eccessi del fanatismo, la fede può aiutare la scienza a proteggersi dai rischi di onnipotenza. Per un giornale, che vive di attualità e dentro l’attualità, l’appuntamento di Bari non poteva cadere in un momento migliore, con le grandi novità da indagare e da comprendere della rinuncia al soglio pontificio di Joseph Ratzinger e della nomina di Papa Francesco, con il suo impegno di rinnovamento nella povertà e nell’umiltà.
Tutt’attorno al festival, sul palco e in città, le grandi firme di Repubblica che incontreranno i lettori, com’è ormai tradizione, nel teatro, alla mostra delle prime pagine del nostro giornale, negli scatti di fotografia davanti alla gigantesca «R» che simboleggia non solo il quotidiano ma il rapporto stretto con la sua community: che si raduna nelle grandi città italiane, insieme alla festa delle idee.

Repubblica 19.4.13
L’Italia di “In Treatment”
risponde Corrado Augias


Caro Augias, la serie TV “In treatment” è stata criticata per non aver dato spazio all’inconscio preferendo descrivere un trattamento centrato sull’immediatezza dei comportamenti dei pazienti.
Duole dirlo, ma è un fotogramma abbastanza fedele della realtà. La pratica clinica accoglie una sofferenza diffusa, un disorientamento che supera censo, provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute. Non mente il film quando mostra un tale sporco, alcolista e tossicomane, che confligge con una certa idea della pratica clinica come balocco di lusso o disciplina d’élite. La gente vera che bussa alla porta d’un analista, corrisponde sempre meno ai casi clinici esposti nei congressi. Il consumismo salutista ha riempito gli scaffali di farmaci pronto uso per affanni dell’anima. Anni ed anni di negazione dell’interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che non all’introspezione. “Dicono che sono brava ad insegnare, vorrei che lei mi dicesse di cosa soffro, e cosa secondo lei posso fare” dice la giovane ragazza anoressica che sta “un po’ male”. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh. Questi sono gli italiani del contemporaneo. La psicoanalisi oscilla, oggi, tra l’essere una asfittica religione per pochi adepti di un tempio ormai svuotato, con sedute da centinaia di euro per pochi minuti di lettino, e uno strumento pronto uso buono per ogni malanno. Non è un caso che tante persone cadano così vittime delle chimere farmacologiche, disponibili come saponette in ogni farmacia.
Maurizio Montanari, psicoterapeuta — Modena

La serie “In treatment” protagonista Sergio Castellitto con tanti ottimi attori, è stato un grosso flop. Peccato, è un programma ben fatto e recitato benissimo che presenta casi legati alla nostra attualità come sottolinea il dottor Montanari. Nato in Israele, poi passato negli Usa, il format è arrivato in Italia dov’era prevedibile che non sarebbe piaciuto molto. Una seduta di psicoanalisi è antiteatrale per eccellenza. Non c’è vero dialogo, non c’è aperto conflitto, non c’è dialettica scoperta. Ci sono tensioni certo, fortissime a volte, che però non esplodono. L’analista non dà pareri, non consiglia, ascolta, di tanto in tanto chiede qualcosa ma è l’altro, il paziente, che deve trovare dentro di sé la risposta. Il risultato, televisivamente parlando, può essere un dialogo che sembra spento e bisogna fare parecchia attenzione per scorgere i meccanismi psicologici anche violenti che si agitano sotto l’apparente calma. Un pubblico abituato alle raffiche di mitra o, nel migliore dei casi, agli insulti, era difficile che apprezzasse un prodotto all’apparenza così pacato. E dire che c’è molta più “Italia” lì che non nelle scazzottate verbali di tanti talk-show.

La Stampa 19.4.13
Scoperti i due pianeti più simili alla Terra
Colpo del satellite Kepler della Nasa: sono nella fascia della vita
di Piero Bianucci


Acqua come da noi. Può trovarsi allo stato solido, liquido e gassoso perché sono alla distanza giusta dal loro sole
La temperatura è nella finestra da 0° a 100°C favorevole agli esseri viventi del nostro Pianeta

Prima o poi doveva succedere. Il satellite della Nasa «Kepler», specializzato nella caccia a pianeti di altre stelle, ha scoperto una Terra bis. Cioè un pianeta che si trova alla distanza giusta dal suo sole per poter avere acqua allo stato solido, liquido e gassoso, e quindi ghiaccio, mari, nuvole. Siamo nella finestra di temperatura da 0° a 100° C tipica della vita come noi la conosciamo. La notizia compare sulla rivista «Science» di oggi. L’articolo del team di Kepler, guidato da William Borucki, è cauto ma ottimista: gli strumenti attuali non permettono di stabilire se quel pianeta ha un’atmosfera né tanto meno di analizzarla alla ricerca di segnali di vita (sarebbe fantastico trovare la «firma» della molecola di clorofilla!) però ci siamo vicini, e comunque la scoperta di questo pianeta suggerisce che le Terre bis sono tutt’altro che rarità. Intorno alla stessa stella, sulla soglia della fascia di abitabilità, l’articolo di «Science» annuncia l’esistenza di un altro pianeta di taglia terrestre. Lì probabilmente il caldo è più che tropicale, forse però non proibitivo.
Lanciato nel 2009 e battezzato in onore di Keplero (che esattamente 400 anni prima pubblicava l’«Astronomia nova» e la scoperta che le orbite dei pianeti sono ellittiche mentre Galileo insisteva sui cerchi perfetti), questo satellite esplora una regione di cielo di 115 gradi quadrati a lato della costellazione estiva del Cigno, esaminando tutte le stelle simili al nostro Sole. La tecnica è quella dei «transiti»: quando un pianeta passa davanti alla sua stella ne abbassa lievemente la luminosità (di un millesimo e anche meno) e così svela la propria presenza. In questo modo Kepler ha già trovato migliaia di candidati pianeti, persino uno più piccolo di Mercurio.
Le stelle osservate dal satellite, che a bordo ha un telescopio dal diametro di 95 centimetri e una camera fotografica da 95 megapisxel, prendono a loro volta il nome di Kepler e sono contraddistinte da un numero. I pianeti ricevono una lettera in ordine alfabetico. Nel nostro caso la stella è Kepler 62, i pianeti sono targati «Kepler 62e» e «Kepler 62f». La stella è un po’ più piccola del Sole, circa i due terzi. Siamo dunque davanti a una copia quasi perfetta del nostro sistema solare con sei pianeti. La Terra bis più convincente è Kepler 62f, misura 1,4 volte il nostro pianeta.
Il 27 febbraio scorso la Nasa ha fatto il punto sui 2.321 candidati pianeti scoperti da Kepler nei suoi primi 16 mesi di attività, dal maggio 2009 al settembre 2010. Il dato più interessante è che 46 di questi pianeti sono vicini alla zona abitabile del loro sistema planetario. Istruttiva è anche la statistica delle loro dimensioni. Dei 2.321 candidati pianeti, quelli con un raggio inferiore a 1,25 raggi terrestri (sotto gli 8.000 chilometri) sono 246. Le super-Terre (con raggio tra 1,25 e 2 volte il raggio terrestre, cioè fino a 13.000 km) sono 676. Gli oggetti paragonabili a Nettuno (da 2 a 6 raggi terrestri) sono i più numerosi: 1118. Vengono poi 210 pianeti con taglia gioviana (da 6 a 15 raggi terrestri) e 71 pianeti più grandi di Giove (oltre i 15 raggi terrestri). Il satellite Kepler ha una massa di poco più di 1.000 kg e orbita intorno al Sole in 372 giorni. Questo il suo sito: http://kepler.nasa.gov/