sabato 20 aprile 2013

Corriere 20.4.13
La nostra rabbia:  una legge contro la strage
di Laura Boldrini


Caro direttore, ormai è un appuntamento pressoché quotidiano. Le donne italiane incontrano quasi ogni giorno la morte, la violenza sanguinaria e incontrollata di uomini che non si rassegnano a considerarle persone.
 La violenza travestita da amore. Ho vissuto questi ultimi giorni sullo scranno più alto di Montecitorio, ed ho avvertito l'affetto e l'orgoglio di tante donne che, fuori e dentro il Parlamento, mi hanno considerata come un'espressione delle loro battaglie di anni per annullare le disparità di genere. Ma mi sento anche espressione di quella rabbia che tra noi sta montando di fronte ad un orrore sempre più pressante.
Sui giornali di ieri, nelle prime pagine occupate dalle cronache parlamentari, si è ritagliata un piccolo spazio la consueta razione di ferocia: alla periferia di Roma, una donna inseguita in auto e uccisa dall'ex marito. La sequenza la conosciamo fin troppo bene. Una separazione che lui non accetta, appostamenti sotto casa, minacce. E poi le violenze, non denunciate per paura o forse anche perché non si vuole prendere atto fino in fondo della cruda realtà. Infine arriva una scarica di pallottole, ed è troppo tardi per capire. Oppure l'acido in faccia. I maschi violenti interpretano a modo loro la globalizzazione, importando le pratiche più infami in uso nelle società che chiamiamo «arretrate», e che, in tema di diritti delle donne, certamente lo sono. Mi ha toccato in modo particolare la notizia arrivata tre giorni fa da Pesaro: una giovane avvocato ora è col volto devastato perché il suo ex compagno e collega ha incaricato un sicario di punirla. Nella mia precedente attività a sostegno dei rifugiati ho incontrato donne che avevano subìto questo oltraggio, e quando ho potuto le ho aiutate a ricostruirsi il viso e una vita. È triste constatare oggi che questa pratica è messa in atto anche da noi. Un motivo in più per affermare — in nome di una metà almeno del popolo italiano — che la misura è colma, e che la violenza sulle donne reclama un'attenzione maggiore da parte di tutti, ed in particolare da chi di noi si trova a ricoprire ruoli istituzionali. È un'urgenza che il Parlamento spero avverta come incalzante, non appena l'attività legislativa potrà dispiegarsi pienamente. Intanto, tra le centinaia di proposte di legge depositate nei primi giorni di vita delle nuove Camere, è promettente che già alcune chiedano su questo tema norme più incisive.
Non è soltanto un problema di leggi, è vero. C'è una mentalità diffusa, sulla quale bisognerà continuare a lavorare in profondità. C'è anche una comunicazione che ci rimanda, ogni giorno da mille schermi, un'immagine falsa di noi: corpo esibito, merce che serve a vendere meglio altre merci, richiamo sessuale. La vita quotidiana, con le nostre fatiche e i nostri tanti percorsi, viene cancellata. E in cambio ci vediamo ridotte a nudi oggetti, consegnate ad una dimensione umiliante che prepara il terreno alla violenza.
Si tratta di cambiare le teste, dunque, ed è notoriamente il lavoro più lungo e difficile. Ma dal Parlamento può venire un segnale importante. Nella «casa della buona politica» le donne devono trovare ascolto e risposte concrete. E una legge, ora, per cominciare a fermare la strage.
Presidente della Camera dei Deputati

l’Unità 20.4.13
Affondato Prodi, Bersani lascia
Cento franchi tiratori contro il Prof
Il leader Pd: mi dimetto dopo l’elezione del presidente
L’addio di Bersani: «Uno su quattro tra noi è un traditore»
Il Pd nel dramma. Anche Bindi si dimette
Nella notte drammatica assemblea del Pd
Il guanto della sfida non è più tra manettari e garantisti: ormai è una piccola guerra civile


il Fatto 20.4.13
Suicidio collettivo
di Antonio Padellaro


L’unico consiglio che ci sentiamo di dare al Pd (o forse all’ex Pd) è quello di evitare con tutti i mezzi e in tutti i modi nuove elezioni, barricandosi magari tra le macerie di largo del Nazareno, poiché a questo punto per Berlusconi e per Grillo sarebbe un gioco da ragazzi spartirsi le spoglie di un partito tenacemente proiettato verso un suicidio politico collettivo. Con l’imperdonabile colpa di aver coinvolto nella propria autodissoluzione la passione e le speranze di milioni di elettori e militanti che da giorni assistono sgomenti a quella specie di vendetta tribale che è diventata l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un “tutti contro tutti” dove killer e vittime si scambiano di ruolo a giorni alterni con il risultato condiviso di sputtanarsi (e sputtanarci) davanti al mondo intero. Dopo aver affondato l’anziano e incolpevole Franco Marini, hanno coinvolto in una situazione umiliante che certo non meritava un altro padre fondatore, Romano Prodi, ormai da anni lontano dal maleodorante cortile italiano, mandato a schiantarsi mentre operava nel Mali come inviato speciale dell’Onu. Non serve a nulla adesso domandarsi chi abbia armato la mano dei 101 cecchini irresponsabili: se il disinvolto Renzi, se l’astuto D’Alema, se gli obliqui margheriti o se addirittura il pugile suonato Bersani. Forse neppure loro sanno quello che fanno. Dio acceca chi vuole perdere.

La Stampa 20.4.13
C’era una volta il Pd
di Mario Calabresi


C’era una volta un partito che appariva come il più attrezzato per affrontare l’antipolitica, che era rimasto l’unico organizzato sul territorio e che si poteva permettere il lusso di lasciare in panchina un leader giovane che pescava consensi trasversali. Quel tempo era soltanto tre mesi fa.
Ora c’è un partito senza direzione, senza guida e diviso in correnti che si fanno una guerra spietata arrivando a usare le schede per l’elezione del Presidente della Repubblica come uno stratagemma per contarsi e controllarsi. Ogni corrente ha un modo diverso di scrivere il nome del candidato: solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo.
Questo partito non è più in grado di decidere quali sono gli amici con cui allearsi e quali i nemici a cui dare battaglia e allora si è cullato nell’illusione di un’autosufficienza impossibile. Questo partito in sole 24 ore ha bruciato due linee politiche, il padre ispiratore e il segretario, lo ha fatto perché ha smarrito ogni solidarietà interna e perfino l’istinto di sopravvivenza, cancellato dalle paure, dagli egoismi e dalla mancanza di visione. Pierluigi Bersani ha annunciato ieri sera le sue dimissioni, ma lo ha fatto quando ormai il disastro della sua indecisione aveva già prodotto i massimi risultati possibili: il primo partito italiano non è riuscito ad andare al governo e nemmeno a indicare il Presidente della Repubblica, dopo aver rinunciato a mettere uomini suoi alla guida di Camera e Senato. Questo è successo perché la legislatura è cominciata senza una visione generale delle cose, in cui ogni passaggio è una tessera del mosaico. Prima di tutto si doveva decidere una strategia per eleggere il successore di Giorgio Napolitano, non era tanto importante il nome ma il metodo e soprattutto con quali compagni di strada. Da questa scelta era chiaro che sarebbe disceso tutto il resto, le presidenze delle Camere, le alleanze di governo e il futuro della legislatura.
Invece ogni mossa è apparsa non coordinata con le altre, tanto che si sono annullate a vicenda. Se la tua preoccupazione è parlare a Grillo e recuperare gli elettori conquistati dall’antipolitica allora Grasso e Boldrini hanno un senso, ma allora non puoi presentare una rosa a Berlusconi per eleggere il nuovo capo dello Stato con lui. Perché se avverti l’urgenza di dare segnali di novità e cambiamento, tanto da aver eletto capogruppo alla Camera un trentenne alla prima esperienza parlamentare, poi non candidi l’ottantenne Franco Marini, segretario del Ppi in un’altra era politica.
Se invece pensi che la pacificazione italiana passi dalla fine della guerra con il Cavaliere, allora hai il coraggio di incontrarlo alla luce del sole per definire i termini di una collaborazione.
Ma perché tutto ciò accadesse bisognava aver prima capito che forma ha preso oggi la società italiana, quali sono le pulsioni che la agitano e dove stanno andando interi settori di elettorato. Operazione non certo semplice e che mette tutti a dura prova, ma senza la quale si procede a tentoni.
Ieri mattina Mario Monti ha accusato Bersani di aver anteposto l’interesse del partito, scegliendo Prodi per provare a ricompattare il Pd, all’interesse generale, che sarebbe stato invece quello di pacificare la politica italiana. Questa tesi è in parte vera, ma non basta più a spiegare la situazione nella quale ci troviamo: nello schema classico la guerra era fra destra e sinistra e dall’intesa tra questi due campi passava la pace. Ma oggi l’Italia è tripolare e la pacificazione non è solo interna agli schieramenti ma anche e soprattutto tra politica e antipolitica.
Dopo aver provato a eleggere il Presidente della Repubblica insieme a Berlusconi, il Pd si è reso conto che la guerra di cui ha più paura è quella con Grillo e con quella parte ampia della sua base che gli sta voltando le spalle, conquistata dalle parole d’ordine della rete e della lotta alla casta. E’ una battaglia che sente di non poter vincere o di cui ha troppa paura, perché avviene dentro casa, nella propria metà del campo, perché sfascia appartenenze, amicizie e fedeltà antiche. Per questo ieri hanno preferito tornare alle vecchia – e rassicurante – battaglia con Berlusconi, pensando che perlomeno si sarebbe svolta su un terreno conosciuto e che avrebbe ricompattato sia i parlamentari sia l’elettorato.
Non è successo. Perché mentre Bersani temporeggiava la Storia correva avanti strappandogli il partito e approfittando delle sue indecisioni, delle giravolte e dei silenzi. Il tempismo spesso è tutto, saper spiegare le proprie scelte con chiarezza è il resto: Prodi come scelta iniziale poteva essere vincente, mentre ora ogni nome appare vecchio e la mancanza di una strategia comprensibile ha avvelenato ogni passaggio.
Ora il Pd è lacerato da spinte che tirano in direzioni opposte e sembrano inconciliabili tra loro, ma soprattutto ha perso lucidità di analisi.
Una parte dei suoi deputati è angosciato dalle pressioni della base e degli intellettuali storicamente di area e vive con il telefono in mano compulsando con ansia l’ultimo messaggio su twitter o su facebook. Perdendo però di vista il fatto che tre quarti degli elettori non hanno votato per Grillo e magari preferirebbero partire dai problemi più urgenti, che sempre più spesso sono legati al lavoro e a un’esistenza decente, piuttosto che dalla riduzione del numero dei parlamentari.
L’altra parte invece parte dalla constatazione che ci sono più italiani nel centro e nella destra che nelle 5 Stelle e che a questi bisogna guardare per ricostruire il tessuto sociale lacerato del Paese, sono questi i deputati che spingevano per Marini e ora guardano a Cancellieri, Grasso o a una soluzione istituzionale e non partigiana. Il loro problema è che non sentono quanto forte è la stanchezza diffusa tra gli italiani per un certo modo di fare politica e così non si preoccupano di spiegare i passaggi con la dovuta trasparenza e efficacia.
Berlusconi silenziosamente gongola, Grillo invece lo fa rumorosamente e con il nome di Rodotà ha lanciato la sua opa sugli elettori del Pd. Probabilmente questa mattina le persone che sorridono sotto i baffi per le disgrazie del Pd e di Bersani sono maggioranza nel Paese, ma se alzassero gli occhi vedrebbero un cumulo diffuso di macerie da cui è difficile immaginare come ricostruire.
Se non passa di moda in fretta il gusto di sfasciare e non ci liberiamo dall’idea che sia necessario avere sempre un nemico da eliminare, o a cui dare la colpa, rassegniamoci a uno spettacolare declino.

La Stampa 20.4.13
Il «giovane turco» Fausto Raciti
“Siamo il peggior gruppo di tutta la storia. Un covo di irresponsabili”
intervista di Francesca Schianchi


Fausto Raciti esce dall’Aula con uno sguardo stralunato, la giacca storta, una sigaretta in mano da andare ad accendere in cortile. «Non so come leggere quello che è successo. La vicenda Marini era chiarissima, ma questa no», sospira lui, neodeputato, uno dei cosiddetti «Giovani turchi» del Pd, segretario nazionale dei Giovani democratici.
Non se li aspettava cento franchi tiratori?
«Venti, trenta, ma cento no. Poco fa ero in Aula a commentare, eravamo in sette colleghi: significa che, statisticamente, uno di loro non ha votato Prodi. Eppure tutti si battevano il petto a dire ma come, cosa sta succedendo».
Lei lo ha votato Prodi?
«Prodi non è un candidato che mi entusiasma, ma oggi l’ho votato, esattamente come ieri (giovedì, ndr) avevo votato Marini».
A cosa è servita l’assemblea di stamattina (ieri, ndr), in cui eravate tutti d’accordo sul nome di Prodi?
«Appunto, a niente è servita. Stiamo giocando con la presidenza della Repubblica. Mi spiace dirlo ma siamo il peggior gruppo parlamentare della storia, un covo di irresponsabili. E non è colpa dei giovani».
Di chi è la colpa? Cosa è successo?
«Non me la sento di buttare la croce su nessuno. Mi pare evidente che stiamo implodendo. C’è una crisi strutturale del gruppo parlamentare».
Che ne pensa delle dimissioni di Bersani: sono opportune?
«No. Non c’è più niente da cui dimettersi».
È il caso però che ci sia un chiarimento col gruppo?
«Mi pare che avremmo bisogno di guardarci in faccia un’ora e parlarci con chiarezza. È evidente che qualunque nome del Pd è ormai un problema per il Pd. È come un chirurgo che sbaglia due operazioni semplici: significa che non deve più operare».

La Stampa 20.4.13
Un partito allo sbando che non sa decidere
Il problema non sono i “traditori”, ma l’ambiguità delle scelte. E la bocciatura del Professore segna un punto di non ritorno
di Federico Geremicca


Il padre fondatore pugnalato alle spalle; la madre fondatrice che sbatte la porta e si dimette. E il segretario, infine, che farebbe lo stesso e scapperebbe in un deserto ma non può: può solo annunciare che non vede l’ora, e che un minuto dopo l’elezione del nuovo Presidente getterà la spugna anche lui e se ne andrà. E così, nel Pd che va liquefacendosi sotto il caldo sole di aprile, accade che l’imprevedibile diventi inevitabile: e al secondo giorno di votazioni per l’elezione del successore di Napolitano, e dopo aver bruciato due nomi eccellentissimi – Marini e Prodi – i democrats ufficializzano e mettono in piazza la loro crisi.
Via Rosy Bindi, presidente del partito; via il segretario, Pier Luigi Bersani; furioso e amareggiato Romano Prodi; gruppi parlamentari allo sbando; periferia in rivolta e stallo, lo stallo più assoluto, lungo la via che porta all’elezione del nuovo Presidente e del governo. Troppo perché sia solo questione e colpa di franchi tiratori: e infatti, puntare l’indice semplicemente contro di loro sembra un modo per svicolare di fronte ai problemi veri che stanno disintegrando il Pd.
Il primo e più serio di questi problemi – forse l’origine di tutto – lo espone con impietosa chiarezza Nicola Latorre, senatore formatosi alla scuola di D’Alema: «Noi dobbiamo decidere se vogliamo eleggere il nuovo presidente e il futuro governo con il Movimento Cinque Stelle, oppure se questo lavoro vogliamo farlo con Berlusconi. L’unica cosa che non possiamo fare e non scegliere. O meglio: scegliere cose diverse a giorni alterni, per cui il giovedì si vota Marini con il Pdl e quello dopo Prodi da soli». È un problema politico, dunque, non di franchi tiratori: un problema irrisolto dal 25 febbraio, giorno in cui le urne consegnarono alla politica un risultato di difficilissima gestione.
E che sia così lo conferma un furibondo Beppe Fioroni che alle sette della sera lascia scuro in volto l’aula di Montecitorio che ha appena affondato la candidatura di Romano Prodi: «Qui non è questione di franchi tiratori, qui 50 dei nostri hanno votato per Stefano Rodotà, il che vuol dire che il voto in dissenso contiene una indicazione politica: cercare un rapporto con i grillini a partire dal voto per il loro candidato al Quirinale. È questa la via del Pd? Bene, lo si dica e ognuno si regolerà di conseguenza. Ma se non è questa, allora tutto quel che sta accadendo è realmente inaccettabile».
L’intera giornata era trascorsa in attesa del voto su Romano Prodi, che tutti nel Pd consideravano un vero e proprio spartiacque, non solo per la vicenda-Quirinale ma anche per il futuro del Partito democratico. A tutti, infatti, era chiaro che un fallimento sul nome del padre fondatore del Pd avrebbe rappresentato un punto di non ritorno. Si sono perse ore a tentare di ipotizzare il numero dei franchi tiratori – trenta, quaranta, cinquanta, che sarebbe già stato un disastro – e tutti i sospetti si concentravano su D’Alema (possibile candidato dopo Prodi), Matteo Renzi (rottamatore di professione) e gli uomini vicini a Marini (sedotto e abbandonato in 24 ore). Quando i voti mancanti si sono rivelati oltre 100, allora si è capito che la frittata era definitivamente fatta, e che il problema non era più semplicemente archiviabile sotto la voce franchi tiratori...
«Sono affranta, non capisco più in che partito sto» (Alessandra Moretti, portavoce di Bersani durante le primarie) ; «Stiamo trasformando la Camera in un mattatoio» (Rosy Bindi, dimissionaria subito dopo) ; «Ecco il risultato che si ottiene con gruppi parlamentari deboli e scelti con primarie improvvisate» (Lapo Pistelli, rivale di Renzi alle primarie per Firenze). Il ribollire e il dolore dei parlamentari Pd si fondeva con le ironie e i lazzi degli esponenti del centrodestra, che avevano a lungo temuto che Prodi ce la facesse e che dopo il fallimento potevano tirare un sospiro di sollievo e lasciarsi andare a malizie e piccole vendette.
La malizia di Augusto Minzolini – del senatore Minzolini, anzi – per esempio: «Sapete perché Prodi non ce l’ha fatta? Perché a dargli la notizia che volevano candidarlo è stato il governatore della Liguria, quello che porta sfiga, quello col cognome in gerundio... Ma non disperino, Berlusconi è pronto ad aiutarli. Gli diano una rosa e il presidente si elegge in mezza giornata. Ma senza trucchi, come è accaduto per la prima rosa: dalla quale il nome di Amato è stato sfilato dal Pd, non dal Cavaliere». Ironie e malizie: ma ci sta, in una giornata che per il centrodestra poteva essere esiziale e che alla fine si risolve quasi in una festa.
Dall’altra parte, a sera ormai fatta, si celebrano invece dei funerali. Quello del Pd, forse; quello di un presidente democratico, sicuramente. Nella notte la scelta sembra essere tristemente semplice: cedere a Grillo e votare Rodotà o cedere a Berlusconi e votare la Cancellieri. Imprevedibile un paio di giorni fa: ma forse inevitabile, a meno di miracoli nei quali nessuno crede più...

La Stampa 20.4.13
“I vertici si sono dimenticati dei problemi delle persone”
Serracchiani: “Rifondiamoci, la scelta ora è Rodotà”
intervista di Andrea Malaguti


Nuove leve. Debora Serracchiani è parlamentare europea del Pd e candidata come governatrice in Friuli Venezia Giulia
«Sono terribilmente incazzata con il mio partito. Ma noi non possiamo né dobbiamo subire gli inciuci di Roma».
Debora Serracchiani, chi è che non può subire gli inciuci?
«Ora lo spiego. Ma prima voglio dire una cosa: i vertici del Partito Democratico si sono dimenticati dei problemi veri degli italiani, del Friuli Venezia Giulia - dove sono candidata - e della vita reale, per precipitare in questo pozzo senza fondo. Però li avverto: noi non abbiamo nessuna intenzione di suicidarci con loro».
Insisto, noi chi?
«Esiste una parte del Pd ancora viva, vitale e capace. È quella che lavora nei territori, come faccio io nella mia regione. L’atteggiamento dei nostri dirigenti in questi giorni è inaccettabile».
Sbagliata la scelta di Marini?
«Tragica. Né opportuna né intelligente. Siamo finiti per l’ennesima volta nella trappola di Berlusconi che ha come unico obiettivo quello di disintegrarci. Quando ho sentito il nome di Marini ho ripensato alla Bicamerale. Poi ho anche visto la foto di Bersani che abbracciava Alfano e ho pensato: abbiamo toccato il fondo. Ma il peggio doveva arrivare».
L’umiliazione di Prodi?
«Il modo in cui è stato trattato è indecente. E pensare che ieri mattina sull’indicazione del suo nome c’era stata una standing ovation. Ma che parlamentari abbiamo? ».
Tardive le dimissioni di Bersani?
«Anche prima di questo disastro la storia aveva presentato il suo biglietto di saluti a una classe dirigente - non solo nostra - ormai fuori sincrono. Ma è inutile guardare indietro. Bersani ha dichiarato che aspetterà l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Bene. Io mi auguro solo che ci si arrivi in fretta».
Seguendo quali strade?
«La più ovvia è Rodotà. Oppure Emma Bonino. L’importante è che si tenga conto della sensibilità del Paese e non si facciano ancora scelte scriteriate».
D’Alema?
«Ecco. Per esempio».
Se ne esce?
«Nonostante questo terribile stress test ne verremo a capo. Con una nuova classe dirigente».
Lei ne farà parte?
«Credo nel Pd. Faccio politica perché c’è il Pd. Mi impegnerò non solo per tenerlo in piedi, ma anche per rivoluzionarlo».
Qual è stato il sasso che ha causato la valanga?
«Le primarie Bersani-Renzi. Alla vigilia delle elezioni è stato controproducente lanciare il guanto di sfida nel campo amico anziché in quella avversario. Io vorrei le primarie per tutto. Ma non in questo modo, che alla fine ci ha ucciso».
Bersani è al tramonto, Berlusconi riempie ancora le piazze.
«Berlusconi è una malattia da cui non guarisco. Come quei fastidi che ti fanno dire: sono 20 anni che ho la psoriasi. L’Italia merita qualcosa di diverso, ma lui spesso legge gli eventi in anticipo. E proprio qui sta il fallimento della politica».
Scusi?
«Abbiamo sulla scena un comico comunicatore e un comunicatore comico».
Troppo facile metterla così.
«Forse. Ma Beppe Grillo ha la sua storia. Così come la storia di Berlusconi è quella dell’autoproclamatosi imprenditore-operaio. Le radici non si cambiano».

Repubblica 20.4.13
“Stanno distruggendo il partito l’intero vertice va azzerato”
Orfini: ostaggi di un gruppo che ci guida da decenni
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «Non possiamo consentire al gruppo dirigente del partito di distruggere il Pd. Vanno fermati. Bisogna azzerare tutto e ricominciare da capo con un nuovo gruppo dirigente».
Onorevole Orfini, ma tutta la catena di comando del Pd ormai è quasi saltata, con le dimissioni delle Bindi e quelle già annunciate da Bersani.
«E’ una questione politica molto profonda, e che va al di là delle dimissioni di singoli. In questi giorni abbiamo offerto uno spettacolo francamente indecente al paese. Il partito ostaggio di un gruppo dirigente, che da decenni ha in mano le sorti del partito, e che ha deciso di affrontare una sorta di regolamento di conti interno sul terreno più delicato e importante che ci sia: l’elezione del capo dello Stato».
Insomma, non bastano le dimissioni del segretario.
«Bersani ha compiuto degli errori, ma merita rispetto, anche per questo gesto che ha annunciato. Ma adesso deve cambiare proprio tutto».
Nell’immediato però come andrà avanti il Pd, alle prese con l’elezione del capo dello
Stato in una fase di drammatico stallo?
«Per il momento, tocca ancora al segretario e ai gruppi parlamentari andare avanti fino all’elezione del capo dello Stato. Spero, ascoltando di più i suggerimenti e gli avvertimenti che pure ci sono stati. Io per esempio, avevo apertamente espresso il mio dissenso sulla candidatura Marini. Dopo, chiusa l’elezione del presidente della Repubblica, partirà la fase congressuale».
In una cinquantina di giorni siete precipitati dal “successo” elettorale e il tentativo di fare il governo fino alle dimissioni del segretario e all’implosione del partito. Come è potuto accadere?
«Dopo quella che è stata una dura sconfitta elettorale si è aperta una sfida all’Ok Corral fra un gruppo di personalità dentro il partito, sul terreno della presidenza della Repubblica. Si è arrivati al paradosso di convocare i gruppi parlamentari per le primarie per la scelta del candidato al Colle, dopo la bocciatura di Marini. Il che dà il segno della situazione in cui siamo precipitati: il Pd doveva, e deve, avere un nome preciso. Poi è arrivata invece la scelta per acclamazione di Prodi, che alla Camera è andata come
sappiamo...».
Pare che sia questa stata la ragione del risentimento di D’Alema, quando Bersani ha virato sul nome secco di Prodi.
«Ecco, appunto. Qui ognuno ha pensato solo a se stesso pur di arrivare al Quirinale. Senza pensare minimamente alle conseguenze sul partito».
Aveva ragione Renzi allora che chiedeva di rottamare i leader?
«Su tante cose io non lo penso come Matteo. Detto questo, i veri rottamatori sono quelli che hanno fondato questo partito ma che adesso lo hanno portato sull’orlo della distruzione. Bisogna impedire loro di portare a termine l’opera».
Ma si sarà fatta un’idea sui “responsabili” del naufragio di Prodi, e di Marini prima?
«Quando i franchi tiratori non si contano a decine ma a centinaia, diventa un fatto politico enorme prima ancora che di colpe individuali».
Come andare avanti adesso nelle votazioni per il Colle?
«Pensando all’unità del Pd e del centrosinistra».
Niente Cancellieri, allora?
«Non mi pare che vada nella logica di cui ho appena detto».
Lo schema delle larghe intese quindi non va resuscitato?
«Per me, ripeto, conta l’unità del Pd e del centrosinistra. Fermarne il cupio dissolvi».

Corriere 20.4.13
Brucia anche Renzi nel Falò delle Vanità
di Antonio Polito

Non solo Bersani e i fondatori: nel falò di Montecitorio il Pd sta bruciando anche Matteo Renzi, l'enfant prodige considerato il futuro di un partito a pezzi. Le capacità strategiche del condottiero di Firenze hanno fatto flop come quelle del segretario.
N el falò di Montecitorio il Pd sta bruciando non solo tutti i suoi fondatori a uno a uno, e non solo Bersani e la sua leadership. Ieri è toccato anche a Matteo Renzi, l'enfant prodige da molti considerato il futuro di un partito ormai a pezzi. Le capacità strategiche dell'audace condottiero di Firenze hanno infatti fatto flop né più né meno come quelle dell'incerto Bersani. Era stato Renzi ad abbattere Marini prima ancora che fosse sbranato nella tonnara di Montecitorio, ed era stato Renzi a indicare la via di Prodi. L'uscita di scena di Marini, l'intermezzo del voto a Chiamparino, e infine l'acclamazione di Prodi come nuovo candidato unanime erano sembrate dunque il suo capolavoro politico, gestito peraltro da Firenze, con giovanile nonchalance, e con solo cinquanta fedelissimi in Parlamento. Per ottenere una vittoria che sarebbe diventata l'esame di maturità per la leadership, Renzi aveva anche accettato il rischio di perdere lo smalto del rottamatore, scegliendo come proprio campione il due volte ex premier: se infatti Marini è un «uomo del Novecento», come lo aveva sprezzantemente definito, Prodi lo è anche di più, perché le origini della sua carriera politica affondano nella Prima Repubblica. Non è da escludere, anzi, che nei cento voti che sono mancati a Romano Prodi non ci si sia solo il segno di un'antica ostilità nei suoi confronti di dalemiani ed ex popolari, ma anche il frutto di una nuovissima ostilità nei confronti di Renzi, il quale paga certamente i modi un po' bulleschi con cui liquida i suoi avversari nel partito. La sconfitta dell'aspirante futuro premier, peraltro gestita con la solita disinvoltura visto che un attimo dopo l'annuncio del risultato ha dichiarato finita anche la candidatura di Prodi, potrebbe lasciare una traccia anche fuori dal partito. Aver sostenuto la candidatura più antiberlusconiana che si potesse immaginare in uno schema di chiusura totale al Pdl, non gli gioverà in quel pubblico di delusi dal centrodestra che fino a ieri non avevano mai fatto mistero di essere attratti dalla sua novità.

il Fatto 20.4.13
#occupyPd, la rivolta di una base sfinita
Gli elettori contestano tutti i vertici e temono l’inciucio col Caimano
“Il vostro è suicidio di massa”
di Chiara Paolin


Twitter non è mai stato il luogo della disperazione a sinistra come ieri notte. É stato lì che #occupypd è diventato il grido di dolore di tutti quelli che, dopo essersi sorbiti due giorni di dirette web e messaggini criptati, hanno deciso molto semplicemente di mandare a quel paese il partito che li teneva faticosamente insieme.
Perchè dopo l’occupazione fisica delle sedi cittadine, dopo le chiacchiere arrabbiate nei circoli di paese, la valanga del dissenso ha invaso definitivamente la rete. La pagina di Pier Luigi Bersani è un cimitero. “Candidare D'Alema alla Presidenza della Repubblica e vederlo votato da Berlusconi e dai suoi ruffiani sarà la cosa più vergognosa che il Pd avrà fatto prima di scomparire. Spero solo che se va via Bersani non arrivi Renzi. Non voglio morire democristiano e il Pd dovrebbe essere un partito di sinistra” scolpisce Stefano Bregliano.
NOME E COGNOME. Iscritti, simpatizzanti, amanti sfegatati e traditi che rovesciano bile anche sulle prospettive. Ammesso ce ne siano: “Prima di suicidarvi in massa, evitate di lasciarci D'Alema in eredità. Mettetevi in ginocchio davanti a Grillo, chiedete scusa e ringraziatelo per aver proposto Rodotà” urla Gina Franklin. “Massimino Baffino si prepara ad inciuciare con B. alla quinta votazione. Il Movimento 5 Stelle dice: ‘Votate Rodotà, e si apriranno praterie per il governo’. Unica uscita d’emergenza a sinistra Rodotà! ” allunga il passo Marco Magagnini.
Ormai il capo non c’è più, le dimissioni rimbalzano ovunque e non si sa se sia una notizia davvero buona. Il lavoro di chi ama la politica è durissimo: “Noi siamo il Pd, noi abbiamo fatto politica, noi abbiamo appoggiato la democrazia con i nostri sforzi, col nostro lavoro all'interno dei Circoli, con la diffusione, con la comunicazione sui nostri post, con le Manifestazioni e quant'altro! E per questo motivo: dobbiamo restare, ci dobbiamo far sentire, lottare dall’interno, sempre col Partito Democratico! ”.
I giochi del potere diventano un mistero: i sospetti, i 101 traditori, l’incrocio delle accuse. “Ma che cavolo succede? Certe manovre nascoste non ve le perdoneranno! Se non sono leali quelli che ci rappresentano, di chi possiamo fidarci? ” scrive Maria Fanelli mentre già Lara Abatangelo twitta crudele: “La prima dichiarazione dell'ex segretario del #Pd è ‘domani ci asteniamo’. Perché, fino a ora, di fatto, che avete fatto?? ”.
ORA, TUTTI SI METTONO a guardare dalla parte di Matteo Renzi. Molti pensano sia stato lui a tradire Bersani, fin dal principio. Altri invece credono alla sua versione: non c’entro nulla con l’affossamento di Prodi. “Pensare che la sconfitta di #Prodi sia opera di #Renzi è da bugiardi o ignoranti. E lo dico non avendolo votato alle primarie” giura Veronica Orrù. Ma la frattura spacca fino a dentro il gruppo: i 300 spartani di Tommaso Giuntella, giovane uomo comunicazione delle primarie, lancia un messaggio in bottiglia: “Segretario, prima vogliamo il cambiamento. Ferma l'accordo Berlusconi-Renzi-D'Alema”. Cioè, prima di andartene, fai fuori il grande vecchio rimasto in piedi dopo l’uscita di Prodi. E sotto parte il lancio di pietre. Pietro Raffa: “Ragazzi ma siete seri? ”. Peggio. Francesco Nicodemo: “Vi siete rincoglioniti o troppe canne o troppe birre? Ma vergognatevi anche voi! ”. La guerra nel Pd è appena iniziata.

La Stampa 20.4.13
Tra Internet e piazze psicodramma democratico “Un suicidio, siamo finiti”
Emiliano: convergere su Rodotà per ritrovare il popolo
di Giuseppe Salvaggiulo


Finisce con Michele Emiliano che dice: «Qui non si tratta più di rilanciare il Pd. Il partito è morto. Bisogna ricostruirlo, e non so neanche come».
Ieri mattina il turbamento democratico era sembrato placarsi, con l’acclamazione di Prodi, ma era solo risacca. Si ricomincia. Come, più di prima. «Sconcerto», dice Stefano Bonaccini, segretario del Pd in Emilia Romagna che aveva organizzato la rivolta anti Marini e favorito la convergenza su Prodi. L’assessore bolognese Amelia Frascaroli, rivolta ai grandi elettori, posta su facebook subito dopo la fumata nera: «Voi non ci volete bene». «E’ un suicidio», scrive il collega Emanuele Burgin. Racconta Michele Curto, consigliere comunale di Sel a Torino, assai connesso con i movimenti, sia in rete che fuori: «Se giovedì c’era stata una reazione emotiva, ieri siamo piombati in uno psicodramma».
Si racconta di grandi elettori del Pd «devastati». In lacrime, con le mani nei capelli. I toni dimessi, le voci affievolite, le parole introvabili. Spiega Dario Ginefra, deputato quarantenne alla seconda legislatura passato dalle primarie: «E’ un partito un treno che si fa fatica a fermare, la pratica è stata istruita male dall’inizio». E individua due cause: «la mancata elaborazione della disillusione elettorale» e lo scarso addestramento «di gruppi parlamentari fortemente rinnovati», con eletti succubi del pressing dei territori attraverso i social network e non in grado di interpretare il mandato in autonomia. Una sorta di «democrazia emotiva autodistruttiva».
Tutto il contrario di quello che accade non lontano da Montecitorio, nel teatro Valle occupato da due anni in nome della cultura-bene comune: un’assemblea d’urgenza decide di trasformare il teatro in una specie di comitato elettorale permanente, con una «notte bianca per Rodotà», chiamando a raccolta artisti, militanti, volontari. Al piano di sotto, dieci computer continuano a tambureggiare sulla rete. Qualcuno risponde, dal Pd e Sel, ma stupisce che ieri le telefonate a Rodotà fossero tutte per convincerlo a desistere, in cambio di promesse di ministeri. Tra le poche eccezioni il sindaco di Bari Emiliano, che srotola su facebook uno striscione virtuale: «Caro Stefano, benvenuto»: «Sono stufo di fare la Cassandra spiega a tarda sera -. Il Pd non ha assetto, è dilaniato da faide interne e quando il segretario fa un nome viene sistematicamente impallinato. Accade da anni a tutti i livelli, dall’ultimo sindaco al Quirinale. È cambiata la fisica e il gruppo dirigente non se n’è accorto, naviga con vecchie coordinate, mentre Grillo si muove splendidamente. Serve un altro metodo: contenuti e personalità, unico modo per unire il partito al popolo. Rodotà è il candidato perfetto ed è nostro. Che aspettiamo a votarlo?».
La mobilitazione pro Rodotà ha sorpreso tutti, e questo la dice lunga sul corpaccione del centrosinistra. Sono settimane che monta, e ancora viene liquidata con insofferenza. Curto, amaro: «Aumenta la distanza con la nuova politica, e nel centrosinistra non viene misurata. Il paradosso è che Rodotà è nostro, a Grillo lo abbiamo regalato noi».

Repubblica 20.4.13
Autopsia di un partito
di Concita de Gregorio


QUEI numeri sul tabellone non sono la fotografia del Pd, sono la sua autopsia. I parlamentari escono dall’aula come da una camera ardente, i leader dalle porte laterali per non attraversare il Transatlantico: muti, a testa bassa, nessuno che vada a raccogliere le loro dichiarazioni e d’altra parte che cosa potrebbero dire? È tutto scritto nei numeri. Il primo giorno, giovedì, più di duecento voti sono mancati a Marini: quasi la metà del partito non ha seguito le indicazioni di Bersani.
Il secondo, ieri – presidente eleggibile a maggioranza semplice di 504 voti – il Pd ne ha fatti mancare a Prodi più di 100. Al fondatore dell’Ulivo, al suo “padre nobile”. All’uomo che la mattina era stato accolto dal gruppo come candidato al Colle con un applauso all’unanimità. Figuriamoci cosa sarebbe successo se non fossero stati unanimi. Prodi è rimasto sotto quota 400 – 395 voti – una vergogna. Rodotà, che – per motivi che nel Pd nessuno è riuscito ancora ad illustrare in pubblico con esattezza – non è considerato affidabile, ne ha avuti invece 50 in più. Sono arrivati, quei 50 voti, tutti dai parlamentari del Partito democratico. Difatti ieri pomeriggio Pdl e Lega non hanno votato. C’erano, nel conto dei voti, solo quelli del centrosinistra e di Monti. «Un voto che serve a ricompattarci, a contarci», aveva spiegato il segretario ai suoi: «Dimostriamo che ci siamo, poi alla quinta votazione eleggiamo Prodi con i quindici voti che mancano e che dai Cinque stelle, vedrete, arriveranno». Un attimo prima del voto il consigliere del segretario Miguel Gotor diceva che «non è escluso che arrivino subito, questi 15 voti, e che ce la si faccia oggi». E allora vediamolo, il ricompattamento. Cancellieri, candidata dei 66 montiani, ha preso 78 voti: 12 vengono dal Pd. Sel, che ha 44 parlamentari, ha votato Prodi indicandolo come “R. Prodi” secondo il vecchio metodo democristiano che serviva a contare il peso delle correnti: ieri abbiamo sentito nello spoglio Romano Prodi, Prodi Romano, R.Prodi, Prodi, Prodi R. A ciascuna formulazione corrisponde una scheggia dell’alleanza. “R. Prodi” lo hanno scritto gli uomini di Vendola ed ha avuto 46 schede, due in più dei parlamentari di Sinistra e Libertà. Quindici hanno votato D’Alema, 3 Marini, 2 Napolitano. Un Fioroni, un Veltroni. Un perfido “Massimo Prodi” accolto da applausi a destra. Un Vittorio Prodi, fratello di Romano. Un Andreotti, forse un omaggio al metodo, o peggio. Un Migliavacca, che nel lessico interno della politica è una specie di sfottò al “tortello magico”, il cenacolo ristrettissimo che tiene «praticamente sequestrato il segretario», spiega Corradino Mineo ai cronisti, «è ormai impossibile parlarci direttamente », diceva ieri Anna Finocchiaro. Mineo: «Quelli del tortello sono Errani, Zoggia, Migliavacca e il portavoce, come si chiama, Di Traglia». Riassumendo: consigliato da alcuni fedelissimi il segretario del Pd ha non vinto le elezioni, non formato un governo con un non incarico e non fatto eleggere due candidati al Colle. Dal suo gruppo parlamentare è emersa un’indicazione chiarissima: contro Prodi, meno cento voti, in favore di Rodotà, più cinquanta. Ora: è chiaro che siamo in presenza di un disastro politico. Che siano stati i dalemiani a ordirlo, come qualcuno dice (Civati, fra i tanti) o che sia stata una vendetta dei mariniani traditi, o tutt’e due le cose ha poca importanza, alla fine. È stato, è un “suicidio politico”, scrive Pina Picierno su twitter. E Paolo Gentiloni, già candidato alle primarie romane in una sanguinosa rissa di correnti: «Siamo in preda alla cupio dissolvi».
C’è il vuoto di candidati possibili, al momento: nessuno vuole più essere indicato da Bersani per il Colle. Anche no, meglio di no, grazie no. Sembra una specie di condanna
al pubblico ludibrio, la candidatura.
Il vero problema è che nessuno sembra aver capito, nel ristretto gruppo dirigente e di consiglieri del medesimo, che la grammatica della politica è radicalmente, definitivamente cambiata. Per colpa o per merito di Grillo, certo, ma non solo. Perché il Parlamento nuovo, composto da moltissimi giovani e donne, esce, a sinistra, in gran parte dalle primarie. E chi è stato eletto dalle primarie risponde ai suoi elettori, all’opinione pubblica che rappresenta o pensa di rappresentare, ai militanti del suo territorio e non al segretario. Enzo Lattuca, 25 anni, il più giovane degli eletti Pd, Lia Quartapelle, anche lei ventenne e come loro tutti i ragazzi usciti dalle primarie rispondono su fb e su twitter ai loro elettori: non hanno votato Marini al primo giro, per questo. In moltissimi, ieri, hanno votato Rodotà. La perdita drastica di autorevolezza dei leader si sposa all’irrompere sulla scena del “mondo fuori”, della delega che arriva dal territorio. È a quella che gli eletti, nello sfarinamento e nella mediocrità dei referenti parlamentari, rispondono. C’è poi lo spettro dei Cinque stelle dai quali il Pd è terrorizzato di farsi “dettare la linea” senza avvedersi del fatto che questo, nella totale insensatezza delle scelte, è già avvenuto. Alla fatidica domanda – perché non Rodotà – i dirigenti Pd rispondono balbettando che «non rappresenta il partito» (ma Marini e Prodi lo rappresentano?), che «avrebbe dovuto smarcarsi da Grillo dicendo che non è uomo suo» (questo è Gotor. Ma anche Prodi è stato indicato da Grillo, lui non doveva smarcarsi?), che «dopo Ciampi e Napolitano al Colle ci vuole un cattolico» (Epifani, ma poi bisogna eleggerlo, il cattolico). Andrea Cecconi, un giovane eletto dei Cinque stelle a Pesaro, dice che «non è vero che dal Pd sono venuti a cercarci, sono due mesi che non ci parla nessuno. Siamo qui e se non andiamo noi loro non vengono. Ma Rodotà non è il nostro candidato, è il loro: allora perché non lo votano? Ci vuole tanto a capire che se si elegge Rodotà e poi lui dà un incarico di governo è ovvio che quel governo noi lo sosteniamo?». In effetti non è difficile da capire. E l’argomento che «Rodotà è stato indicato da Grillo dunque non ci possiamo far imporre il candidato» somiglia tanto a quel «non appoggiamo i referendum perché li ha sostenuti prima Di Pietro», coi risultati che sappiamo. Dagli errori bisognerebbe imparare. Invece la ripicca, il dispetto, il malinteso orgoglio identitario provocano atteggiamenti, dice un altro Cinque stelle, Andrea Cioffi, «da asilo Mariuccia. Non ci dicano che non possono votare Rodotà perché lo indichiamo noi dopo aver provato a far eleggere il candidato che indicava Berlusconi.
Non sono credibili. Qual è la loro logica?». Paolo Cirino Pomicino dice che «quando non capisci qualcosa della politica devi andare a vedere dove sono i soldi», ride e se ne va. Verdini e Sposetti – i banchieri, i cassieri dei due schieramenti – sono stati in effetti gli sherpa degli accordi abortiti. I capannelli dei politici della prima Repubblica sono tutti attorno a loro. Ma questo Parlamento parla una lingua diversa, la musica della politica è cambiata. Una vecchia guardia che non prende nemmeno in considerazione Emma Bonino, l’unico esponente politico italiano elencato tra i più influenti nel mondo, che scarta i suoi candidati per dispetto, perché li ha indicati prima qualcun altro. Una vecchia guardia sconfitta, capace solo di dare al mondo uno spettacolo indecente di sé. Si potrebbe eleggere D’Alema coi voti del Pdl, diceva ieri qualcuno. Certo, come no. Si potrebbe anche fare adesso quel che sarebbe stato sensato fare subito: indicare un candidato votabile da una maggioranza che poi sia anche una forza di governo. Si è sbagliato con Marini, nell’intesa con Berlusconi. Sbagliato il metodo, sbagliato il nome. Si è sbagliato con Prodi nell’illusione di salvare il Pd. Bisognerebbe ora alzare bandiera bianca, evitare di spargere altro sangue. Cancellieri e Rodotà hanno preso più voti dei loro: si ascolti l’aula, si apra la vera gara. Prima il Paese. Poi la resa dei conti nel Pd, con Renzi alle porte, si farà dopo. Può essere difficile da capire ma davvero: il destino di pochi è meno importante del destino di tutti.

Repubblica 20.4.13
Fine di un gruppo dirigente di ambiziosi e agitatissimi oligarchi di cui pure si sono perse le tracce negli anfratti di Montecitorio
Tra rancori e tradimenti il cupio dissolvi del Pd come la vecchia Dc nel ‘92
La “fusione a freddo” il peccato originale
di Filippo Ceccarelli


DOVEVA accadere ed è accaduto, come si dice con spensierata malinconia. I partiti del resto muoiono proprio così. Fine della simbolica candidatura di Prodi, che se ne stava in Mali. Fine della breve e travagliata leadership di Bersani, che in questi giorni si è visto solo in foto mentre si stringeva ad Alfano. Fine di un gruppo dirigente di ambiziosi, rancorosi e agitatissimi oligarchi, di cui pure si sono perse le tracce negli anfratti di Montecitorio. Fine del Partito democratico, il più sfortunato della storia repubblicana dopo il Partito d’Azione, ma molto meno nobile e onesto e intransigente, anzi proprio il suo contrario.
Ma poi anche: fine di un equivoco. Tale è da considerarsi il Pd nel giorno in cui la mattina i suoi parlamentari acclamano — si badi: acclamano — il fondatore dell’Ulivo, l’unico che ha sconfitto per due volte Berlusconi, e cinque ore dopo cento e uno di loro lo fanno secco con una o più congiure di Palazzo eventualmente intrecciatesi l’una con l’altra, ma senza che occhio o cervello o cuore riescano a individuare non solo chi le ha ideate, organizzate e ne ha fatto parte, ma neanche per quali obiettivi a corto, medio o lungo termine.
Ieri l’altro era toccato al povero Marini. Altri spiegheranno, ragionevolmente, il perché e il per come del voto di ieri. E altro ancora, allungando il tavolo della vicenda interna. Il ritardo con cui il Pd è nato. Il suo peccato originale, la fusione a freddo. La mancata osmosi della cultura della Dc e di quella comunista. L’aver preso i rispettivi vizi di quei due ormai estenuatissimi partiti, cioè correntismo spasmodico e centralismo democratico, più una certa voracità da ceti rampanti di marca craxoide. Quindi la pochezza del dibattito culturale. La stanchezza della democrazia interna. La subalternità estetica ai modelli berlusconiani. La mediocrità della classe dirigente e parlamentare promossa con elezioni primarie per lo meno malintese, se non manipolate — vedi i cinesi a Napoli e i rom a Roma — con l’aggravante di una furbizia da scemi.
Con qualche maligno approfondimento si potrà integrare la disamina con i casi Lusi e Penati, senza dimenticare i magheggi di Bari e l’opposizione alla regione Lazio.
Eppure nella vita, prima ancora che nella storia, esiste un’espressione ancora oggi trasmessa in una lingua morta, quindi su piazza da una ventina di secoli, una formula che spiega ciò che non si riesce a spiegare: cupio dissolvi, desiderio di dissoluzione, voglia di morire.
Non di rado, e contro il giudizio di quanti si accaniscono a interpretare le questioni del potere con le categorie tradizionali — nel Pd andava molto la retorica salvifica del riformismo e quella delle riforme istituzionali ed elettorali — questa pulsione autodistruttiva trova più spesso di quanto s’immagini applicazioni di gruppo.
Tanto più inconfessabili quanto più di comune accordo dissimulate.
Fisica e psicanalisi potrebbero essere utili a spiegare questa specie di campo magnetico dell’anima. La faccenda non è comunque da prendere sottogamba. Se il cupio dissolvi trova la sua prima testimonianza in una lettera di San Paolo (ai Filippesi), sempre rimanendo in ambito biblico si legge nei Salmi: «Sprofondano i popoli nella fossa che hanno scavato/ nella rete che hanno teso s’impiglia il loro piede».
Per farla breve e adattarla alla corrida di Montecitorio: nel Pd regnava la discordia; e al di là del candidato alla Presidenza della Repubblica tutti odiavano tutti. Una mappa ragionata dei rancori occuperebbe tre o quattro pagine di Repubblica, con il dovuto corredo infografico.
I risultati di questo sistema di relazioni si sono visti nella prima e nella quarta votazione, con il sacrificio umano di Marini e il martirio di Prodi.
Le elezioni per il Quirinale sembrano fatte apposta per determinare questo esito diabolico. Se si ritiene troppo pulp l’evocazione della macelleria, animali per animali varrà la pena di menzionare uno dei più fulminei aforismi che un autore polacco, Stanislav Jerzy Lec, ha creato per designare la politica: «Corse di cavalli di Troia» (La vita in una frase, Rizzoli, 2008). Così il pensiero corre ad altre votazioni presidenziali e ad altri partiti che senza immaginarlo e senza nemmeno accorgersene si avviavano a cuor leggero, o meglio desideravano la loro stessa dissoluzione. E allora sembra di rivivere anche dal punto di vista climatico il maggio spaventoso del 1992, un Transatlantico pure allora denso di smanie, superbie e risentimenti. La Dc che propose all’unanimità Forlani per quell’alta poltrona, e poi franchi tiratori andreottiani e della sinistra lo pugnalarono: così come ieri i grandi elettori del Pd hanno accoltellato alle spalle il professor Prodi, che oltretutto se ne stava in Africa. Dice: fu un complotto per spedire sul Colle il Divo Giulio, poi l’«attentatuni» di Capaci bloccò quella corsa. Ma chi c’era ricorda abbastanza bene, e con il dovuto sussidio documentario, che lì per lì non si capiva niente del chi e del perché il povero Forlani, e poi Vassalli, e Leo Valiani, vennero massacrati in quella stessa aula che ha visto le esecuzione di questi giorni.
E viene spontaneo riflettere alla Dc che cominciò a morire proprio allora, così come oggi è il Pd che sta andando incontro al suo destino. E non c’è più nulla da fare, nulla da capire. Se non che tutto finisce, anzi addirittura desidera di finire, e forse è per questo che in certe occasioni la divinità acceca coloro che vuole perdere, come pure si dice in latino — e ancora una volta separare la politica dalla teologia non solo è
difficile, ma anche vano.

Repubblica 20.4.13
L’amaca
di Michele Serra


Io ho un’idea. Il Pd non propone più nessuno, anche perché qualunque nome faccia, fosse anche George Washington o Batman, finisce impallinato pochi istanti dopo. È scientifico. Restano così in campo la Cancellieri presentata dai montiani e votabilissima anche dal centrodestra, e Rodotà proposto dalle Cinque Stelle e da Sel. Ai mille e rotti grandi elettori il compito di decidere il ballottaggio tra queste due degnissime personalità, il cui senso delle istituzioni basta e avanza per garantire tutti quanti e per assicurare al paese una guida onesta e autorevole.
Finalmente dispensato dal compito di massacrare con le proprie mani i propri candidati, l’esercito del Pd sarà finalmente libero di godersi queste presidenziali come meritano. Voteranno, i nostri eroi, per chi preferiscono, in drappelli sparsi, in capannelli allegri: Rodotà se credono che debba e possa esistere ancora una sinistra, Cancellieri se credono che la sinistra debba sciogliersi nelle istituzioni, anche per tentare di rifarsi una vita. L’importante, anzi l’indispensabile, è che il Pd si taccia, e accetti serenamente un dato di fatto: nessuno gli chiede più niente, nessuno pretende alcunché da lui, se non che si faccia da canto e lasci lavorare gli altri.

La Stampa 20.4.13
E Rodotà sfila altri 50 voti “Capita proprio di tutto”
di Antonella Rampino


«Il vero rischio che corre il Pd si chiama Stefano Rodotà»; diceva Andrea Orlando quando ancora non era nemmeno cominciata la prima votazione, quella per Franco Marini, la mattina del 18 aprile che sembra data di un’altra era, e invece era solo due giorni fa. «Attenzione, i nostri si illudono che presentando Prodi tutto si ricompatterà miracolosamente e si aggiungerà il soccorso stellare: invece fioccheranno i voti per Rodotà, e per Prodi sarà un bagno di sangue», preconizzava Roberto Giachetti alla fine di quella stessa prima votazione. Insomma, solo Silvio Berlusconi, Matteo Renzi e Mario Monti possono frenare, compattandosi su Annamaria Cancellieri (se così sarà) la corsa del giurista, che rischia di incarnare la nuova ridotta del Pd immerso nel suo cupio dissolvi.
Lui, Rodotà, assiste serafico al resistibile assalto dei cronisti. Già a quota 250, ieri ha sfilato a Prodi 50 voti, cinquanta consensi in più della soglia fissa dei Cinquestelle. E da domattina Vendola tornerà a votare Rodotà, «una figura luminosa»: altri 60 voti. «Capita di tutto», risponde lui al festival della laicità di Reggio Emila, dove viene accolto al grido di «Presidente! Presidente! ». Capita di tutto, ma «conosco la vita, la politica... non è questione che mi faccia piacere o meno... ». Rodotà sta alla finestra, o se si preferisce in riva al fiume: attende gli eventi, dribbla i giornalisti scusandosi «il mio rifiuto di parlare non è un atteggiamento molto laico, mi dispiace, ma in questi giorni devo difendere le mie scelte, non la mia vita privata», assicura di essere «assolutamente tranquillo».
Felpatamente, infatti, ieri e già nei giorni scorsi caporali e colonnelli del Nazareno avevano cercato di indagare se, una volta sceso in campo il Professore, il Giurista avrebbe preso in considerazione l’eventualità di fare un passo indietro, lasciando via libera a Romano Prodi. Sembra evidente che i notabili e gli staff del Pd non leggono «MicroMega» (e forse neanche «Repubblica») e nemmeno i relativi appelli a «Rodotà presidente subito», che proprio al Pd sarebbero rivolti da Barbara Spinelli, Michele Serra, Remo Bodei, Salvatore Settis... E nemmeno, verrebbe da dire, mettono il naso fuori dall’ufficio: tutte le votazioni sono avvenute a Montecitorio con l’assedio di semplici italiani che - tentando pure di dar fuoco a tessere del Pd - chiedevano «Rodotà presidente». Dunque sfugge ai dirigenti Pd pure attuale pensiero politico di chi è stato a suo tempo presidente del Pds.
Ma intanto, con le antenne dritte e a gamba tesa, è intervenuto Beppe Grillo. S’è fatto garantire che non ci saranno passi indietro, ha megafonato «Rodotà era seccato per le pressioni del Pd», e «Bersani, Rodotà è uno dei tuoi, dicci perché non lo voti», poi ha mandato il duo Crimi&Lombardi a farsi ammaliare dal giurista. In mezzo, la gaffe della figlia, nota giornalista, che riceve telefonate da «personaggi minori del Pd» che le chiedono di sondare il padre (nominato familiarmente come «il Garante») e com’è nel suo stile li sbugiarda via twitter, un gesto che potrebbe avere l’effetto boomerang di alienare a Rodotà padre le simpatie - che pure ci sono - della classe dirigente dei democrats. «Non so nulla, non l’ho nemmeno letto... », cerca infatti di spegnere l’incendio lui, «mia figlia è a Chicago... ».
Dopo il flop di Prodi, poi, più che un passo indietro, sembrano essercene due in avanti. Perché alla quinta votazione, quella di stamattina, il Pd potrebbe anche arrivare senza un candidato. E allora, col tana liberi tutti, Rodotà farebbe il pieno. Anche se forse lo farebbe pure se il candidato Pd ci fosse. Anzi, forse è perfino meglio.

il Fatto 20.4.13
“Dal Pd solo silenzio, la mia storia non conta?”
Il candidato dei 5 Stelle si sfoga coi fedelissimi
E sull’ipotesi Palazzo Chigi: “Figuriamoci se mi metto a fare questi baratti”
di Beatrice Borromeo


Doveva essere la giornata di Romano Prodi. Invece, scheda dopo scheda, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ripetuto per 213 volte il nome di Stefano Rodotà. Segno che la candidatura del professore non solo non è morta: oltre alla fiducia incassata ieri mattina dai Cinque Stelle e all’endorsement della piazza – che da due giorni manifesta per sostenere l’ex garante per la privacy – è arrivato anche il voto di una cinquantina di grandi elettori del Pd. E che fosse il frutto di manovre o il tenue tentativo di riconciliarsi con la base, poco conta. Rodotà, in trasferta a Reggio Emilia per parlare di laicità e diritti, dopo aver sbirciato il risultato del quarto scrutinio sull’iPad di un cronista si è concesso un sorriso soddisfatto. “Lasciatemi almeno la curiosità di vedere come sta andando”, ha glissato, evitando di commentare la disfatta del Pd. Anche perché dai vertici del Partito democratico, in questi giorni, non è arrivata neanche una telefonata. Né di sostegno né, tantomeno, per chiedergli ufficialmente di rinunciare alla corsa per il Colle. Ufficiosamente, invece, i dirigenti si sono fatti vivi eccome. Per interposta persona: “Fantastico. Pur di non parlare col garante quelli del piddì chiamano me per convincermi a convincerlo non si sa di che”, ha twittato ieri verso mezzogiorno Maria Laura Rodotà, giornalista del Corriere della Sera. Informato dalla figlia delle pressioni, Rodotà si è sfogato con gli amici: “Sono questi i modi di muoversi? Passando da mia figlia? ”, avrebbe detto a chi gli è vicino. E ancora: “Mi arrivano voci che i vertici del Pd sono scocciati con me perché non ho specificato che la mia candidatura non è di parte. Ma, oltre al fatto che i grillini l’hanno ribadito mille volte, la mia storia personale non conta niente?! Dio mio. Che cos’è il Pd? Il suo segretario o i suoi elettori? ”, avrebbe poi aggiunto parlando al telefono con un amico.
AMAREGGIATO sì, ma niente affatto stupito: “Io queste cose non le capisco, ma ognuno ha i costumi che ha”, confidava a una fedelissima. Costumi per lui inaccettabili, come ha chiarito quando, rispondendo a Martina Castigliani de ilfatto  quotidiano.it , ha escluso la possibilità di andare a Palazzo Chigi: “Io premier? Figuriamoci se mi metto a fare questi baratti: tornerei al mio lavoro di prima”.
Rodotà, nei giorni in cui il suo nome rimbomba nei corridoi di Montecitorio, si ostina a rispettare gli impegni presi da tempo, come l’incontro di ieri pomeriggio o quello di oggi a Bari (organizzato da Repubblica). Ma l’assalto dei cronisti sta diventando sempre più difficile da gestire: già da ieri mattina la casa del professore era circondata dalle telecamere, SkyTg24 l’ha poi sorpreso in treno, mentre si protraeva sempre più verso il finestrino senza staccare il cellulare dall’orecchio. Ma la resistenza passiva non è servita a molto, anche perché è gridando il suo nome che la base del Pd ha rotto con i suoi dirigenti (“Sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’appoggio della gente, ma ho lavorato tanto. Queste persone le conosco: ne abbiamo fatte di battaglie insieme! ”, ha detto poi Rodotà). All’arrivo a Reggio Emilia, comunque, l’ex garante è parso teso e infastidito, tanto da annullare la conferenza stampa che era in programma.
NEANCHE un paio d’ore dopo, proprio in coincidenza con il risultato del voto, si è lasciato avvicinare per replicare a un’accusa che proprio non gli andava giù: “In questi giorni si parla tanto di me, nei talk show. E ammetto che li seguo. Qualcuno ha detto che la mia difesa della scuola pubblica è una vergogna, vi rendete conto? Incredibile”. La sua linea, fino a oggi, è stata quella del silenzio. E anche se la tentazione di replicare alle “tante calunnie che leggo su qualche giornale” (così riferiscono gli amici) è stata forte, ha prevalso un “doveroso silenzio”. Almeno finché non vengono toccati quei diritti per cui Stefano Rodotà si è sempre battuto. E ieri ha salutato così il suo pubblico: “Ai laici chiedo di aver fede. Vinceremo anche questa battaglia”.

Corriere 20.4.13
La giornata «normale» del candidato Rodotà Lezione in ateneo su «poteri privati forti»
di Dino Martirano


ROMA — A ottant'anni, il professore Stefano Rodotà trotta come un cinquantenne. In un solo giorno, riceve in casa i capigruppo grillini che lo convincono a tenere duro sulla candidatura al Quirinale e rimangono estasiati dai suoi ragionamenti, dribbla con passo atletico i cronisti appostati sotto casa sua, prende un taxi al volo, diretto alla stazione e lì salta su un Frecciarossa che lo porta a Bologna. Poi, sul treno, intercettato da una troupe di TgSky24 che pare cercasse Renzi, risponde secco: «No, non ho parlato con Prodi».
Così alle 17.30, per nulla turbato dalle notizie che gli arrivano da Roma, Rodotà si infila in un'aula dell'Università di Reggio Emilia, dove tiene una lezione su «Il diritto di avere diritti» alle Giornate della Laicità, e poi solo in serata riaccende il telefonino e risponde per commentare in modo telegrafico una delle giornate più calde della storia repubblicana: «Come mi sento? Guardi, sono solo un vecchio signore che sta seguendo tutta questa vicenda da lontano, per ora». Ma i voti in più che ha ottenuto al quarto scrutinio, circa 40 schede oltre i numeri espressi dai gruppi del Movimento 5 Stelle? «Guardate, l'esperienza accumulata sulle elezioni dei presidenti della Repubblica mi insegna che questi voti sono soggetti alle interpretazioni più diverse. Ci vuole pazienza e prudenza, dunque. Aspettiamo e vediamo». Infine, quando è già ora di cena, il candidato Rodotà chiede una tregua a chi lo chiama: «Ho avuto una giornata impegnativa, un po' stancante, anche se a casa dicono che mi muovo come un ragazzino. Lasciatemi andare in albergo a riposare, domani mattina riparto per Bari dove ho un'altra conferenza. E mi devo preparare».
Understatement a parte, Rodotà per tutta la giornata non risponde alle domande fondamentali che tutti vorrebbero porgli. È vero che, dopo aver appreso della scesa in campo di Romano Prodi, era stato tentato di cedere il passo? Alle 11, quando è ancora nella sua casa di Roma, l'ex garante per la Privacy risponde in effetti in modo interlocutorio: «Risentiamoci dopo», dice all'ennesima telefonata che interrompe i suoi pensieri. Lo fa prima di ricevere i capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi che si precipitano nella sua abitazione nelle ore in cui Grillo dichiara pubblicamente: «Ho parlato poco fa con Rodotà: è infastidito che si sia sparsa la voce sulla sua presunta volontà di abdicare a favore di Prodi. Ma lui resta il nostro candidato. Sono anche un po' sorpreso perché so che è amico di Prodi...».
Il lavoro di convincimento condotto da Crimi e Lombardi a voce e da Grillo al telefono dà un risultato in tarda mattinata quando Rodotà detta un comunicato alle agenzie che gli serve a confermare la sua candidatura ma senza impuntature. Come dire, io ci sto ma se si fanno avanti altri sono pronto a farmi da parte. Scrive infatti il professore, nato a Cosenza nel 1923: «Torno a ringraziare i grandi elettori in particolare quelli del Movimento 5 Stelle e di Sel e i moltissimi cittadini che in questi giorni mi hanno espresso una grande inattesa fiducia. Ringrazio il M5S che ha confermato l'intenzione di continuare a sostenere la mia candidatura. Per parte mia, non intendo creare ostacoli a scelte del Movimento che vogliano prendere in considerazioni altre soluzioni».
Rodotà lo scrive quando Grillo sta per lanciare il suo anatema contro la candidatura di Romano Prodi. Poi, quando anche il fondatore dell'Ulivo esce di scena, il professore non vuole fare altri commenti. E rimanda, semmai, ogni considerazione alla lezione che ha appena tenuto all'università di Reggio Emilia. Un intervento che racconta chi è Rodotà: «Poteri privati forti e prepotenti sfuggono agli storici controlli degli Stati e ridisegnano il mondo e le vite. Ma sempre più donne e uomini li combattono, denunciano le diseguaglianze, si organizzano su Internet...». Oggi, anche questo peserà sulla quinta votazione per eleggere il presidente della Repubblica. E i 213 espressi per il professore di Cosenza potrebbero anche aumentare.

Repubblica 20.4.13
“Dai democratici silenzio inspiegabile io scelto dal web, non da Beppe”
Il giurista: mi conoscono da una vita, e neanche una telefonata
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Stefano Rodotà esce correndo da casa sua, vicino al Lungotevere, a Roma. Ha appena incontrato i capigruppo del Movimento 5 stelle Vito Crimi e Roberta Lombardi. Ha appena parlato al telefono con il loro capo politico, Beppe Grillo, dicendogli che lui c’è. Non ritira la sua candidatura, ma non intende ostacolare altre soluzioni. Lo inseguono qualche cronista e un paio di telecamere. Lui dice solo: «Fatemi prendere un taxi, devo andare alla stazione. Da lì rilascerò una dichiarazione alle agenzie». È gentile e irremovibile. Un po’ affannato, per la paura di perdere il treno. «Mi capisca, devo pesare ogni parola. Il momento è delicato. Sentiamoci dopo». Passano due ore. Non è ancora arrivato a Reggio Emilia, dove deve parlare a un convegno sulla laicità e dove lo attendono cartelli con la scritta «Rodotà presidente» e gruppetti di sostenitori. Mentre è in viaggio, ancora a Firenze, risponde al telefono e spiega: «Ho letto dichiarazioni ipocrite da parte del Pd. Non hanno mai parlato con me della mia candidatura. Eppure, il mio numero ce l’hanno». Quello che rivendica più di ogni cosa, l’ex parlamentare della Sinistra indipendente e del Pds, il giurista dei diritti civili, già garante della Privacy, estensore del referendum vincente sull’acqua pubblica, è che lui non può essere considerato un uomo di parte. Non appartiene al Movimento 5 stelle. Il suo nome è di tutti.
Il Pd non ha finora preso in considerazione l’idea di convergere sul suo nome. Nell’assemblea al teatro Capranica hanno parlato di una candidatura divisiva, inadeguata. Cosa ne pensa?
«Ho letto oggi su Repubblica che ci sono vertici del Partito democratico irritati con Rodotà perché non avrebbe mai detto che la sua candidatura non era di parte. Ma se c’è stato qualcosa cui hanno tenuto molto i parlamentari del Movimento 5 stelle in questi giorni, è proprio dire che la mia non era una scelta interna, che non apparteneva alla loro parte politica. È aperta a tutti, lo hanno spiegato più volte e molto bene. Per questo non l’ho sottolineato».
Parliamo di un partito cui è vicino, con il quale ha condiviso alcune battaglie, che ha tra i suoi antenati il Pds, di cui era presidente. Cosa ha pensato?
«Leggendo queste cose che trasudano un po’ ipocrisia la mia reazione è questa: ma come? Io sono un signore che loro conoscono molto bene da alcuni anni. Esistono molti strumenti oggi per tenersi in contatto: telefono, sms, e mail. Se volevano un chiarimento, perché non li hanno usati?».
I 5 stelle, invece, l’hanno chiamata.
«Io sono rispettoso di chi ha fatto su di me un investimento politico significativo. Quel che le ho detto è una precisazione politica che è bene che sia conosciuta».
Ma quando dice di non voler ostacolare altre soluzioni, intende che potrebbe fare un passo indietro se ci fosse un nome più condiviso?
«Non c’è niente di più di quel che ho scritto. Mi è sembrato corretto fare questo tipo di dichiarazione - che prima di rendere nota ho condiviso con Grillo e i capigruppo - perché conosco le logiche del Movimento 5 stelle. Non ci sono seconde interpretazioni».
Possibile che in tutti questi giorni non l’abbia chiamata nessuno del Pd? Che non abbiano voluto sondare le sue intenzioni?
«Nessuno. Perciò mi sono irritato. Perché vedo in questa vicenda una grande ipocrisia. Io ho lavorato tanti anni con quelle persone. Quando ha fatto loro comodo, il telefono è stato molto utilizzato».
Perché stavolta non l’hanno fatto? Convergere sul suo nome rischia di sembrare una resa a Grillo, o nel Pd c’è chi ha delle pregiudiziali contro di lei?
«Ma io non sono stato scelto da Beppe Grillo. La mia candidatura girava in Rete da mesi, con sottoscrizioni, firme, appelli. Non è stata certo un’invenzione dei grillini. Nella loro consultazione on line, alcuni nomi sono venuti fuori più di altri perché erano già nel circuito. La mia candidatura non è stata un’invenzione o una forzatura. Non si può dire: “Se l’è inventato Grillo”. Girava, era stata molto appoggiata, e questo ha poi determinato la reazione della Rete che mi ha fatto arrivare tra i primi alle “quirinarie”».
Tutto merito di Internet, quindi?
«Altri che non usano quello strumento avrebbero potuto usare il telefono».
Eppure, dal Pd, dicono che lei è stato contattato. Da Laura Puppato, ad esempio, che le ha parlato un paio di volte e con cui ha scambiato dei messaggi.
«Ma no, abbiamo fatto due chiacchiere così, perché lei mi aveva votato. Non siamo entrati nel merito della mia candidatura. Su quella c’è un silenzio totale. Un silenzio che continua. Glielo posso assicurare: nessun contatto ha riguardato la mia candidatura. Nessuno si è preso la briga di parlarne con me».

Repubblica 20.4.13
La figlia: i piddì chiamano me

“Fantastico. Pur di non parlare col garante quelli del piddì chiamano me per convincermi a convincerlo non si sa di che”. Così su Twitter Maria Laura Rodotà, figlia di Stefano. Su Facebook la giornalista ha poi aggiunto: “Mio padre sta con gli operai”.

l’Unità 20.4.13
Un pantano come ai tempi della Repubblica di Weimar
Quando la politica fallisce la demagogia prende il suo posto e chi la cavalca vince
È stata superata una soglia oltre la quale c’è un pericolo gravissimo per la tenuta del Paese
di Paolo Soldini


Di tattica si muore. La lezione degli ultimi giorni è spaventosamente semplice e c’è solo da sperare che non sia anche la lezione dei prossimi. Abbiamo letto su tutti i giornali e sentito in tutte le tv l’appello a fare presto, a riconnettere la politica e il paese.
Qualche volta la raccomandazione ci è parsa retorica, scontata, ovvia e perciò inutile, come quando ci mettiamo a imprecare se ci cadono addosso i nostri personalissimi guai e parliamo a noi stessi senza ascoltarci davvero. E non solo: poiché quegli argomenti sono stati agitati dalla destra, li abbiamo considerati una specie di campagna strumentale. Certo, lo erano. Ma anche a chi è in malafede può capitare di dire cose vere.
Siamo chiari: è stata superata una soglia oltre la quale c’è un pericolo gravissimo. Non solo lo scollamento definitivo tra la politica e i cittadini, che c’è già e si sta facendo rovinoso, ma l’ipotesi che compaia sulla scena qualcuno per cui questo disastro sia un punto di partenza. Le difficoltà materiali che stanno soffocando strati sempre più ampi della società italiana e la disperazione che si sta diffondendo possono diventare molto rapidamente quel punto di partenza se non si riapre presto, subito una prospettiva. Chi conosce la storia europea del Novecento può cominciare a tremare. L’impasse in cui si sta cacciando la politica italiana non è molto diversa da quella che portò alla perdizione la Repubblica di Weimar. E sa che c’è, a un certo momento, un punto di rottura. Quando la politica fallisce la demagogia prende il suo posto e chi la sa cavalcare senza scrupoli vince la partita. Allora i cittadini diventano la “gente” e alla “gente” è fin troppo facile indicare obiettivi e interessi che in realtà vengono decisi da chi ha il potere.
Finora non è accaduto. Con le loro follie, i loro errori e i loro meschinissimi tatticismi Grillo e i suoi hanno fatto molti danni, ma non hanno superato quella soglia. In qualche modo il capo di Cinque Stelle ha ragione quando dice di aver sventato il pericolo che la protesta diventasse violenta e incontrollabile. Però i partiti responsabili debbono essere consapevoli del fatto che quella soglia non è una metafora, ma un fatto reale. Lo stallo della politica provoca effetti concreti e immediati sulla vita delle persone. Non ci sono solo quelli che derivano dalla mancanza di un governo e di un Presidente della Repubblica che ne possa nominare uno. Quelli che il blocco della continuità amministrativa provoca nel tessuto economico, le imprese che chiudono, la cassa integrazione senza più fondi, i consumi che crollano. Ancora più pesanti rischiano di essere quelli immateriali: la caduta delle speranze, lo spaesamento, la sfiducia in tutte le manifestazioni organizzate del vivere sociale. In Italia ci sono moltissimi disoccupati, soprattutto  tra i giovani. Ma il fenomeno più grave, difficile da calcolare, non è tanto la massa di chi ha perso il lavoro o non lo trova, ma non lo cerca o non lo cerca più. Si sta creando un paese senza speranza. Fin qui il ragionamento è facile. Molto più complicato, certo, è il “che fare” per uscire dall’impasse. Il Partito democratico ha davanti a sé una responsabilità enorme e difficoltà formidabili. Ma la premessa non può che essere quella di una chiara percezione del fatto che quella soglia è stata davvero, irrimediabilmente, superata e che da qui in poi si cammina su un terreno inesplorato. Le condizioni del suo operare sono cambiate ed è urgentissimo prenderne atto sul serio, senza retropensieri, senza calcoli sugli interessi di questo o quel gruppo. Non è solo la condizione della sua sopravvivenza come partito (e lo è davvero come la cronaca di queste ore ci fa drammaticamente vedere), ma anche di ogni possibilità che ha la politica italiana di ritrovare se stessa, salvando il paese e preservandolo dalle avventure possibili.
Ritrovare la sintonia con il paese, non è, allora, una formula scontata, banale. È una necessità fortissima cui cominciare a rispondere subito con decisioni e atti concreti. Quali? Spetta ai dirigenti e ai militanti del Pd indicarli. Ma l’impressione che la vicenda politica di questi pesantissimi giorni ci consegna è che la prima correzione da fare, in qualche modo da imporre a se stessi con un atto di volontà, sia ritrovare la propria capacità di esercitare egemonia, di non chiudersi nelle paure, nella tendenza a sentirsi in sintonia soltanto con chi interpreta la politica e il confronto con i metodi e il sentire che ci sono consueti.

Corriere 20.4.13
Destra contro sinistra tra veleni e sospetti E nel Paese torna il «Grande Astio»
di Gian Antonio Stella


Il magico «squadrone» di Pier Luigi Bersani, quello che passerà alla storia accanto alla «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, ha fatto il record: è riuscito a perdere giocando da solo. Trascinando a fondo anche il suo storico portabandiera, Romano Prodi. Mostrando impudicamente agli occhi di tutti l'odio che divide le varie anime del movimento. Un odio calloso. Insanabile. Pre-politico. Così profondo, feroce da divorare non solo alleanze, amicizie, consuetudini ma il partito stesso.
Eppure non è solo quello intestino al Pd, ribattezzato subito su Twitter come «Partito Defunto», il solo fiotto di ostilità, rancore e disprezzo emerso ieri nella seconda e disastrosa giornata di votazioni per il Quirinale.
La candidatura del professore bolognese, incredibilmente salutata al mattino da un'investitura plebiscitaria e ipocrita «per acclamazione» da parte dei grandi elettori, ha infatti dato fuoco ad altre due polveriere. L'astio insanabile di Silvio Berlusconi verso il professore che aveva salutato come «un simpatico ciclista» ma dal quale era stato poi battuto per due volte. E nella scia di questo il livore dei più accaldati degli elettori di destra, pronti ad accorrere al primo fischio della piazza di fronte a Montecitorio per contestare nel modo più chiassoso la scelta della sinistra di abbandonare precipitosamente il tentativo di eleggere con Franco Marini un presidente il più possibile condiviso per puntare su quello che i berlusconiani vedono come il nemico numero uno.
«C'è da capirli», sospirava il radical-finian-montiano Benedetto Della Vedova, «In fondo si erano rassegnati già a un presidente più o meno sinistrorso chiedendo una cosa sola: "tutti, meno Prodi". E invece…». E più cresceva la folla invelenita, con lo sventolio di bandiere anche di Casa Pound, più montava l'apprensione dei prodiani: quante votazioni a vuoto potevano reggere dopo l'accumulo di errori di queste settimane, con la destra fuori dalle porte e quella massa tumultuante lì davanti decisa a impedire rumorosamente l'elezione di quel presidente accusato di essere «di parte»?
Immaginatevi l'amarezza di Giorgio Napolitano: aveva invocato, nella scia dell'esperienza fatta in questi anni, la scelta di un uomo sorretto dalla maggioranza più ampia. Ed ecco tornar fuori i veleni di questi ultimi due decenni: l'astio personale che divide i due storici leader della destra e dell'Ulivo, divisi da due diverse concezioni del mondo. L'odio di larga parte del popolo della sinistra verso il Cavaliere, mille volte maledetto per il conflitto di interessi e l'uso delle televisioni e i coinvolgimenti in tanti processi e Ruby, il Bunga-Bunga e le Olgettine. E di là l'odio di larga parte del popolo di destra verso il professor Mortadella, additato come la causa di tutti i flagelli e le carestie in una contrapposizione ventennale in cui, per dirla con le parole di Giuliano Ferrara, si sono visti due estremismi: per gli uni il Paese luccicava, per gli altri mancava il latte per i bambini. Diceva tutto la maglietta indossata da Alessandra Mussolini: «Il diavolo veste Prodi».
Ma più di tutti, ieri, sgocciolavano i veleni dentro il Pd. Quelli accumulati per anni nelle guerre sotterranee, accanitamente negate e ridicolizzate con corredo di battute acide sui «cronisti che rimestano nella merda» (copyright dalemiano), tra pezzi e pezzi del vecchio Pci, pezzi e pezzi del vecchio Partito popolare con scomposizioni e ricomposizioni accumulatesi all'infinito.
Rancori antichi. Rivelati fino in fondo, ieri pomeriggio, nell'anonimato del voto segreto. Ma in qualche modo anticipati da due vecchi naviganti assai diversi. Come Pasquale Laurito, l'autore dalemiano della «Velina rossa», che ieri mattina esordiva così: «Meno male che Silvio c'è e Silvio ci sarà! Questo è il solo commento che si può fare di fronte alle ultime decisioni del Pd di candidare il professor Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, non rendendosi conto che questa candidatura provocherà una spaccatura nel Paese. A questo punto solo il ricorso alle urne può decidere quale assetto politico e istituzionale sia necessario dare al Paese. Le elezioni potranno arginare i vari populismi che ormai sono penetrati nei partiti più seri e in particolar modo nel centro sinistra. Chi ha condotto finora in modo disastroso le operazioni del Pil di dovrebbe sentire il dovere, dopo aver fatto autocritica, di cedere ad altri la guida del partito».
E mentre Pasqualino ridacchiava soddisfatto davanti allo stupore di tutti, Paolo Cirino Pomicino, adagiato su un divano del Transatlantico, confidava: «Stanno lavorando per far fuori Prodi». «Chi?» «Vari. Dalemiani ma non solo». E spiegava: «Ricorda la storia dei “figli del dio minore”? I comunisti dicevano che noi dicì li vedevamo così. Fatto sta che ci si sono immedesimati. Sono loro che non si sentono in grado di navigare da soli in mare aperto come gli altri socialisti europei e vanno sempre in cerca di noi democristiani...» Franco Carraro, uomo di potere di lunghissimo corso, concedeva che, povero Bersani, «nella situazione in cui si è cacciato poteva proporre anche Papa Francesco ma i suoi si sarebbero spaccati comunque».
E mano a mano che dalla conta usciva in modo netto come ci fosse stata una specie di «carica dei 101» di franchi tiratori, con tanto di applausi della destra ai voti a D'Alema, appariva finalmente chiaro a tutti, anche a chi proprio non voleva vedere, che il partito nato dalla fusione dei Ds e della Margherita è irrimediabilmente in pezzi. «È la congiura dei Pazzi! La congiura dei Pazzi!», si sfogava il leader dei Moderati, Giacomo Portas, eletto nelle liste del Pd.
«Noi non c'entriamo, cercate i traditori da altre parti», metteva le mani avanti il vendoliano Gennaro Migliore: «Tutti i voti “R.Prodi” sono nostri. Sapevamo che qualcuno avrebbe cercato di buttarci addosso questa disfatta. Ma 44 voti avevamo le 44 li abbiamo dati a Prodi». «Questi qui saranno costretti a venire a chiedere nuovi di candidare Berlusconi», rideva Maurizio Gasparri. «Dilettanti!», commentava Gaetano Quagliariello con una smorfia.
E mentre i più noti esponenti del partito se la filavano via frettolosamente, decine di parlamentari restavano lì in Transatlantico, intontiti, gli occhi sbarrati, guardando nel vuoto.

Corriere 20.4.13
La Repubblica sospesa nel vuoto tra malafede e pressapochismo
di Angelo Panebianco


Fino ad ora ha vinto Beppe Grillo. Mentre nel Partito democratico, la cui malattia paralizza da due mesi l'Italia pubblica, dopo un'impressionante serie di rovesci, si chiude, con le dimissioni annunciate, l'era Bersani. Ricapitoliamo le ultimissime vicende. Prima Grillo, gettando il nome di Stefano Rodotà in pasto ai grandi elettori, e sfruttando il conflitto fra Bersani e Renzi, ha affossato l'accordo Pd-Pdl su Franco Marini. Ieri, giunti alla quarta votazione, è riuscito ancora una volta a incornare il Pd: Rodotà ha ottenuto più voti (una cinquantina) di quelli di cui disponeva sulla carta il Movimento 5 Stelle. Soprattutto, il nuovo candidato del Pd Romano Prodi, è andato incontro a una sconfitta: centouno voti in meno di quelli che avrebbe ottenuto se il Pd, compatto, lo avesse sostenuto. Con grande dignità Prodi si è ritirato. È la seconda personalità, dopo Marini, che un Pd allo sbando è riuscito a bruciare. Qualunque cosa ora può accadere. Ma è comunque Grillo, per ora, a condurre il gioco. Si sta affermando come il nuovo vero leader della sinistra italiana (Matteo Renzi, al massimo, può aspirare al posto di comprimario). La Repubblica sta forse per cambiare natura?
La malattia del Pd: constatato di che pasta fosse fatto ormai il gruppo dirigente si capisce meglio perché l'anima profonda del partito, la sua vera base (non quella finta, mediatica), sia sempre stata, per anni, prevalentemente dalemiana. Perché Massimo D'Alema è stato l'unico a ereditare non solo i limiti ma anche le virtù (forza, serietà, realismo, indisponibilità a piegarsi ai diktat di piazza o di giornali e intellettuali fiancheggiatori) che caratterizzarono molti del gruppo dirigente del Partito comunista. Quelli, a differenza di questi, «davano la linea», non se la facevano dare. Immaginiamo che cosa sarebbe accaduto se Prodi, secondo il disegno di Bersani, fosse stato eletto con i voti determinanti dei 5 Stelle. Prodi è un uomo con l'esperienza politica e il profilo internazionale necessari oggi a un presidente della Repubblica. È anche (in tempi di pseudo-democrazia assembleare) un uomo della democrazia rappresentativa. Non c'è dubbio che se fosse stato scelto non sarebbe mai venuto meno ai suoi doveri costituzionali e avrebbe fatto anche i dovuti gesti distensivi nei confronti del «nemico», di quel Berlusconi (che rappresenta una così rilevante parte del Paese) contro il quale egli sarebbe stato eletto. Ma la combinazione fra il suo lungo passato di leader di successo del fronte antiberlusconiano e le modalità della sua elezione avrebbe pesato sull'intero settennato. Eletto da una parte contro l'altra, avrebbe dovuto tenerne conto. E, a causa di quel vizio d'origine, mezzo Paese (quello che non ha votato Grillo né Bersani) non lo avrebbe mai riconosciuto come il «proprio Presidente». Il rischio, per il Paese, sarebbe stato quello di scivolare verso una situazione «venezuelana». Già la scelta aventiniana fatta da Pdl e Lega alla quarta votazione evocava brutti scenari. In questo momento la Repubblica è come sospesa. Può ancora prevalere un presidente di garanzia. I voti ricevuti da Anna Maria Cancellieri, candidata di Scelta Civica, vanno in quella direzione. Ma potrebbe anche essere riproposta una presidenza politica. Con la politicizzazione integrale dell'elezione del presidente della Repubblica, con la scelta esplicitamente partigiana di una parte contro l'altra, la trasformazione, già da tempo iniziata, della natura della Presidenza della Repubblica si compirebbe. Servirebbe allora una classe dirigente capace di prenderne atto e di mutare subito le regole del gioco. Per togliere la democrazia italiana dalla pericolosa china che ha imboccato. Ma c'è purtroppo in giro troppo pressapochismo istituzionale (mescolato a malafede). C'è, in primo luogo, in settori dell'opinione pubblica, una diffusa incomprensione dell'abc della democrazia. Quando si dice che la democrazia è procedura si intende dire che solo se si danno procedure formali chiare, pubbliche e rispettate si può, prima di tutto, misurare il consenso di cui gode il rappresentante. È la certezza delle procedure che ci tutela contro coloro che pretendono di parlare a nome del «popolo» avendo alle spalle, o manipolando, piccole minoranze più o meno organizzate: per esempio, quanti, nelle Quirinarie di Grillo, hanno votato Rodotà? Mistero. È questo, prima di tutto, che fa della democrazia rappresentativa l'unica forma possibile di democrazia, la sola che impedisca la prevaricazione dei piccoli numeri (le minoranze intense orientate da capipopolo che nessuno ha eletto) ai danni dei grandi numeri (il grosso degli elettori). C'è poi una diffusa incapacità/indisponibilità (anche fra le élite) a capire le vere regole della democrazia rappresentativa. Se si sceglie la politicizzazione della Presidenza bisogna trarne le conseguenze: il presidente della Repubblica può essere il frutto di una scelta partigiana (guelfi contro ghibellini, blu contro bianchi, eccetera) solo se egli prevale in una competizione aperta i cui arbitri siano gli elettori. La presidenza politica è incompatibile con il parlamentarismo. È però in qualche modo tragico il fatto che proprio coloro che sembrano tuttora orientati a favore di una scelta partigiana siano gli stessi che più si oppongono all'elezione diretta del presidente. È questo impasto di inconsistenza culturale e di partigianeria cieca che, spesso, fa morire le democrazie.

Corriere 20.4.13
Opinione pubblica contro Palazzo. Il Web conta più dei franchi tiratori
di Aldo Cazzullo


Sarebbe fuorviante chiedersi se i cento voti mancati a Romano Prodi fossero dalemiani, mariniani, renziani. Così come l'altro ieri era inutile rintracciare i congiurati che hanno affossato Franco Marini. E non solo perché nel Pd nessuno obbedisce più a nessuno.
Il vero leader-ombra, l'inedita protagonista di questa tribolatissima elezione presidenziale è l'opinione pubblica. Amplificata dalla rete e dai social network, la cui pressione sui neoeletti, in particolare i giovani, è fortissima. Certo, non è la prima volta che il Palazzo si arrocca a difesa di un assetto già spazzato via dalla storia. Nel 1992 la rete non esisteva ancora, il «popolo dei fax» non riusciva certo a farsi sentire con la stessa forza; ma già allora l'intesa tra una Dc e un Psi in pieno declino saltò anche per la rivolta popolare. Ma ad Arnaldo Forlani mancò qualche decina di voti; a Marini, centinaia.
Le forme di intervento dei cittadini, in teoria escluso dalla scelta del capo dello Stato, sono state molte. L'altro ieri, un sit-in fuori da Montecitorio per contestare Marini da sinistra. Ieri una manifestazione per osteggiare Prodi da destra. Non sono stati begli spettacoli, nessuno dei due. Le grida, gli insulti, le voci metalliche dei megafoni, la gogna (magari a volte meritata) che attendeva i parlamentari all'uscita, sono scene che non fanno onore al Paese. Ma infinitamente più sonora è stata la contestazione salita dal web.
Si è parlato parecchio, e inevitabilmente, dei grillini. Si è parlato meno dei giovani neoeletti del Pd; che non sono meno connessi con il web e i cittadini; e sono molti di più. Tanti di loro non hanno compreso perché, dopo aver inseguito Grillo per il tempo di una quaresima, Bersani gli abbia voltato le spalle proprio quando si apriva uno spiraglio su Rodotà, per accordarsi con Berlusconi. E ieri non hanno apprezzato il ripiegamento su Romano Prodi; che per loro non è più «fresco» di Andreotti. Ma la protesta della rete, l'irruzione della rabbia popolare in Transatlantico non riguardano solo la sinistra. Ieri è stata la giornata della rabbia della destra. E se le 550 mila mail che giovedì hanno mandato in crisi il sistema informatico della Camera chiedevano quasi tutte l'elezione di Rodotà, gran parte di quelle arrivate ieri gridavano al «golpe» del Pd; che in realtà ha solo la forza di colpire se stesso.
Dentro le mura del Palazzo, si agitano bande spaventate, disorientate, assediate. Colpisce — se fosse possibile un paragone — il capovolgimento dell'approccio rispetto ai meccanismi dell'elezione del Pontefice. In Vaticano la discussione è tutta sul profilo della persona da scegliere, sulle sue qualità umane, sulla percezione che il mondo avrà di lui. In Transatlantico l'uomo da scegliere conta molto meno; la vera questione è trovare i voti per eleggerlo. Prodi era il candidato di maggior statura che l'Italia potesse esprimere in questo momento, a parte Mario Draghi, che però ci serve come il pane a Bruxelles. Ma era il candidato scelto per ricompattare il Pd, non il Paese. Il partito democratico ha ridotto l'elezione del capo dello Stato a una sorta di congresso interno, in cui tutte le correnti hanno perso. E forse la corrente più forte si è rivelata quella affascinata da Grillo, o comunque dalla rete.
La pressione del web e dell'opinione pubblica, però, può anche essere fuorviante. Perché, al di là delle legittime indignazioni reciproche, quel che sta più a cuore agli italiani in questo momento è eleggere un presidente della Repubblica che tenga insieme il Paese in un momento drammatico e lo rappresenti con dignità nel mondo. Non a caso nella notte è tornata a circolare l'ipotesi — tardiva — di chiedere un sacrificio a Giorgio Napolitano. Una cosa è certa: se devono essere i cittadini a determinare l'elezione del capo dello Stato, tanto vale che lo facciano direttamente. C'è da augurarsi di non rivedere mai più lo spettacolo di questi giorni. E che il prossimo presidente della Repubblica non esca dalle invocazioni o dalle invettive di un computer o di un telefonino, ma dal voto popolare.

Repubblica 20.4.13
Dopo il naufragio
di Ezio Mauro


PRIMA di tutto il Paese. Ma il Paese vive anche delle istituzioni che lo reggono e garantiscono la funzionalità quotidiana della democrazia. Oggi le istituzioni sono in panne, e ieri si è clamorosamente capito perché. Non solo manca una maggioranza e manca un governo, ma il Parlamento è incapace di eleggere il capo dello Stato per lo spappolamento drammatico della sinistra. Quel perno non c’è più e per questo sul palazzo di Montecitorio sventola bandiera bianca. Il sistema è bloccato. Ma bisogna pur dire che l’epicentro della crisi è il Partito democratico. In pochi giorni il Pd ha travolto nella battaglia per il Quirinale un uomo antico e rispettabile come Franco Marini, gettato nella mischia senza convinzione e senza preparazione, come minimo comun denominatore di un’intesa con Berlusconi avversata e respinta dalla base del partito.
Ieri il cannibalismo cieco dei parlamentari ha bruciato addirittura Romano Prodi, padre dell’Ulivo, l’unico quadro dirigente europeo di cui dispone oggi la sinistra. Ribellione, mancanza di guida, cupio dissolvi, dipendenza dal flusso dei tweet più che da qualche corrente di pensiero. Le spiegazioni sono tutte valide e tutte stupefacenti, salvo una: la mediocrità di un gruppo dirigente e di una classe parlamentare che non risponde più a niente, nemmeno all’istinto di sopravvivenza.
Le dimissioni di Bersani sono doverose. Ma intanto tutti, segretario, fondatori e rottamatori devono essere all’altezza dell’emergenza: propongano un nome fuori dalla nomenklatura esausta del partito, scegliendo uomini che siano già un segno dell’indispensabile rifondazione della sinistra. Poi chiedano un atto di responsabilità al Parlamento e prima di tutto al partito, che da perno di una democrazia bipolare sta rischiando di diventare uno strumento inservibile della democrazia italiana. Un’altra sinistra è possibile, nell’interesse del Paese, a partire da questo naufragio.

La Stampa 20.4.13
Il nemico in casa
La guerra santa agli Usa dei lupi solitari islamici
Sono jihadisti cresciuti in America, non hanno legami con Al Qaeda anche se molti si sono addestrati in Pakistan e seguono imam radicali
di Maurizio Molinari


La firma dei fratelli ceceni Tsarnayev sull’attentato alla maratona di Boston evidenzia come nel dopo-11 settembre 2001 la maggiore minaccia alla sicurezza nazionale americana viene dal terrorismo interno di matrice islamica, nella duplice versione di «lupi solitari» e militanti affiliati a cellule di Al Qaeda. Il primo a denunciare tale pericolo è l’esperto di antiterrorismo Steve Emerson il quale, all’indomani del primo attacco alle Torri Gemelle, nel 1993, realizza il documentario
«Jihad in America» nel quale descrive l’affermarsi di leader e cellule fondamentaliste nella comunità arabo-musulmana degli Stati Uniti. «I nemici fra noi» è il titolo.
Si tratta di un allarme rimasto in gran parte sottovalutato dalle forze di polizia fino all’11 settembre, quando l’Fbi, nella reazione all’atto di guerra di Al Qaeda decide di adottare una sorveglianza più stretta su moschee e centri islamici attorno alle città più a rischio di attacchi. È così che nel settembre 2002 viene sgominata una cellula jihadista nell’Upstate New York. Da quel momento il Dipartimento di polizia della Grande Mela crea, su suggerimento di Cia e Fbi, una task force segreta che sorveglia le comunicazioni private di gran parte dei giovani maschi musulmani residenti nell’area compresa fra New York, New Jersey e Connecticut, applicando una versione del controterrorismo fatta di infiltrazioni e trappole che porta a sventare numerosi attentati: dal tentativo dell’afghano-americano Najibullah Zazi di attaccare la metro di Manhattan nel settembre 2009 a quello di Quazi Mohammad Rezwanul Ahsan Nafis, immigrato dal Bangladesh, di far saltare in aria la sede della Federal Reserve nel gennaio 2012. Si tratta di trame terroristiche di natura assai diversa: Zazi è in contatto con elementi di Al Qaeda in Pakistan, mentre Nafis è un «lupo solitario», che ha organizzato tutto da solo, spinto dall’adesione personale all’ideologia jihadista di Osama bin Laden.
Questi diversi filoni di terrorismo interno islamico si ripetono e si sovrappongono a più riprese. Il 5 novembre 2009 il maggiore dell’Us Army Nidal Malik Hasan, americano-palestinese, uccide 13 commilitoni nella base texana di Fort Hood dopo un prolungato scambio di email con Anwar al-Awlaki, l’imam nato in New Mexico divenuto leader di Al Qaeda in Yemen. Il primo maggio 2010 il pachistano-americano Faisal Shahzad tenta di far esplodere un’autobomba a Times Squadre, davanti a un teatro affollato di bambini, seguendo le istruzioni ricevute durante alcuni viaggi in Pakistan, che includono l’esplosivo in una pentola a pressione. Il soldato Jason Abdo, americano-giordano veterano dell’Afghanistan, viene fermato nel luglio 2011 mentre prepara un’altra strage di militari, pensata e organizzata in solitudine.
Quando Hasan firma la strage di Fort Hood, Obama si è insediato da pochi mesi alla Casa Bianca e sceglie il basso profilo sui jihadisti americani. Ma con il moltiplicarsi degli episodi John Brennan, suo consigliere antiterrorismo oggi capo della Cia, lo spinge a eliminare Al-Awlaki, principale teorizzatore della guerra contro gli Usa condotta dall’interno. Un drone della Cia lo uccide il 21 aprile 2011 e da allora l’Fbi ha registrato una brusca diminuzione di complotti jihadisti diretti dall’estero.
Resta però il pericolo dei «lupi solitari», che vivono in America ma sono imbevuti di ideologia jihadista al punto da odiare la società in cui vivono. È un universo di singoli che va dai somali-americani di Minneapolis, volontari con gli shabaab a Mogadiscio, ai fratelli ceceni Tsarnayev, studenti di ingegneria e medicina nel Massachusetts. Prevenire le loro azioni è la sfida più difficile perché sono microcellule.
Finora l’Fbi ha scommesso sulla collaborazione con moschee e comunità musulmane per identificare all’origine i personaggi più a rischio, affiancandola con la sorveglianza elettronica modellata sull’esempio di New York.
Ma quanto avvenuto a Cambridge dimostra che non basta per neutralizzare i molteplici frutti dell’ideologia della Jihad. L’unico indizio che Tamerland e Dzhokhar avevano lasciato erano infatti alcuni post sui social network favorevoli all’Islam.

La Stampa 20.4.13
Polveriera Caucaso
Cecenia, dove la guerriglia è un lavoro
È diventata adulta una generazione che non ha mai conosciuto la pace e fa dell’islamismo una bandiera
di Anna Zafesova


Giovedì, mentre la polizia di Boston stava stringendo il cerchio intorno ai fratelli Tsarnaev, nel villaggio inguscio di Arshty è entrata una colonna di blindati con a bordo 300 uomini armati del ministero dell’Interno ceceno. Il pretesto formale per lo sconfinamento era una «operazione speciale» per catturare il leader separatista Umarov, una delle «primule rosse» della guerriglia che da anni non si riescono a scovare in un territorio piccolissimo, ma l’obiettivo vero sembrava un altro. Con i militari erano arrivati deputati e funzionari ceceni, e «comparse» che hanno organizzato un comizio a favore del passaggio di Arshty sotto la giurisdizione di Grozny. È intervenuta la polizia inguscia, respinta con perdite (sei feriti). Secondo fonti locali, dietro l’operazione c’è Adam Delimkhanov, deputato della Duma, miliardario, amico e delfino del presidente ceceno Ramzan Kadyrov, noto anche per aver figurato nella lista dei ricercati dell’Interpol per l’omicidio a Dubai, nel 2009, di Sulim Yamadaev, ex guerrigliero passato con i russi. Kadyrov non ha commentato: ieri era impegnato nella preghiera del venerdì, e su Instagram – la sua nuova passione – ha postato foto della moschea di Grozny, la più grande e lussuosa d’Europa.
Questa è una giornata normale in Cecenia, un bollettino quotidiano di rapimenti, omicidi, imboscate, scontri, retate, sequestri, con guerriglieri, ufficiali, banditi, politici, islamisti, miliardari – spesso le stesse persone – che intrecciano ideologie, business, vendette familiari e guerre di potere in una spirale di violenza senza fine. La guerra con il Cremlino, come giustamente insiste Vladimir Putin, è conclusa: al suo posto è subentrata una guerra endemica, di tutti contro tutti, attività principale della piccola repubblica.
Da quando nel 1991 Dzhokhar Dudaev, generale dell’Armata Rossa, proclamò l’indipendenza dalla Russia (e non è un caso probabilmente che uno dei terroristi porti il suo nome), in Cecenia il lavoro più diffuso e facile da trovare è maneggiare un kalashnikov. Dal 1994 al 1996, per difendersi dai carri armati e dalle bombe di Boris Eltsin, poi dal 1999 contro i carri armati e le bombe di Putin. In Cecenia è cresciuta una generazione che non è andata a scuola, non ha vissuto in una casa con luce, acqua e riscaldamento, e non c’è famiglia che non abbia avuto lutti, in una terra dove la vendetta viene ancora praticata come dovere.
Un popolo di fieri guerrieri che avevano tenuto testa allo zar per anni, montanari con codici di lealtà tribali che hanno reso così temibile la mafia cecena, e dove oggi i giovani ceceni ricorrono spesso all’opzione di «andare nella foresta», l’eufemismo per l’arruolamento nella guerriglia. Spesso unica alternativa valida all’altra carriera disponibile, entrare nel clan dei «kadyrovzy», i miliziani del presidente ex separatista che ha risolto per Mosca il problema della Cecenia instaurando un regime che reprime i concorrenti (politici o economici) a colpi di pallottole e sequestri. Dietro alla facciata delle moschee e dei grattacieli costruiti con i soldi di Mosca regnano la corruzione e la disoccupazione, e l’islamismo diventa una bandiera a portata di mano contro miseria e ingiustizia. Gli imam incendiari hanno sostituito il mito nazionalista, e il culto del «martire» suicida è arrivato insieme ai soldi dei fondamentalisti del Golfo, e ai reclutatori qaedisti che hanno esportato i ceceni in Afghanistan, in Iraq, in Libia.
L’opzione di emigrare non è molto praticabile: da più di dieci anni la tv martella i russi con notizie su crimini commessi da «persone di etnia caucasica» e sull’incubo del terrorismo ceceno, e trovare lavoro, ottenere la residenza, il passaporto, studiare, è difficile, mentre la polizia pesca tra i passanti infallibilmente le facce scure degli immigrati (formalmente cittadini russi) per estorcere denaro e maltrattarli.
Una sorta di apartheid che riproduce in forma più moderna quello che i ceceni avevano già subito sotto Stalin, che nel 1944 li caricò tutti – bambini e vecchi compresi – su treni che li hanno deportati in Asia Centrale come potenziali collaborazionisti dei nazisti. Il legame dei fratelli Tsarniev con il Kazakistan e il Kyrghyzistan probabilmente risale a quell’epoca. Kadyrov dice che sono diventati terroristi «per colpa dell’educazione americana». Ma forse le radici del male sono ancora da cercare nel Caucaso martoriato.

Repubblica 20.4.13
Quei bravi ragazzi venuti dalla Cecenia che l’odio ha trasformato in demoni
Il piano folle di Tamerlan e Dzhokhar: “L’America la pagherà”
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON — Il lungo viaggio di Tamerlan e Dzhokhar per sfuggire al terrore finisce, dieci anni e diecimila miglia più tardi, esattamente da dove era partito, nella violenza. Non più vittime, ma carnefici, i due ragazzi ceceni che il padre aveva affidato all’America perché avessero una vita, che avevano preso cittadinanza e permesso di soggiorno, hanno pagato, e fatto pagare, il prezzo di quel sangue che non si erano mai lavati dall’anima.
La loro storia è finita ieri notte, quando hanno finalmente intrappolato e circondato con un'armata Dzhokhar il diciannovenne con il cappellino bianco e la faccia triste, come era finita la notte prima nell'obitorio dell'ospedale Beth Israel di Boston, la Casa di Israele, per Tamerlan il ventiseienne con il cappellino nero, il duro, ed è una storia che non sembra avere alcun senso riconoscibile per noi. Tamerlan e Dzhokhar non avevano nessuna di quelle motivazioni economiche, sociologiche, personali che usiamo per cercare di comprendere l'incomprensibile. Fino a quella frase detta da Tamerlan quasi con orgoglio, forse con sollievo, poco prima di morire sotto i colpi della polizia, venerdi notte a Cambridge, al proprietario del Suv Mercedes che avevano rapito: «Noi siamo quelli della bomba alla Maratona ». I due ragazzi arrivati dalla Cecenia martir izzata dalla violenza dell’Armata Rossa e dell’Om o n, la pol izia politica russ a, passati per il Kyrgyzistan, la nazione della quale avevano il passaporto, e accolti negli Usa come rifugiati politici nel 2000, avevano vissuto appieno la «America Way Of Life». In apparenza, non soltanto si erano integrati, ma erano divenuti protagonisti dei miti e riti della vita americana. Sotto l’ala dello zio paterno, che li aveva accolti a casa in una casa molto middle class di Cambridge, oltre il fiume Charles che divide la città di Harvard, del Mit, delle famose università da Boston, avevano frequentato il buon liceo pubblico locale, il «Ridge and Latin». Lo stesso liceo dal quale erano usciti Ben Affleck e Matt Damon.
In quel liceo, Tamerlan era quello che ogni ragazzo sogna di essere. Un atleta, poi pugile dilettante di vaglia, vincitore di due Golden Glove, guanti d’oro, i tornei che possono condurre alla nazionale Usa di boxe, mentre il fratellino, più piccolo, diventava capitano della squadra di lotta libera, nella propria categoria di peso. «Voglio combattere per gli Usa, non per i Russi» aveva scritto «cappellino nero», aveva detto agli amici e confidato alla sua ragazza, una donna di origine italo-iraniana anche lei emigrata negli Usa, secondo quanto racconta. Il fratellino, che aveva avuto una borsa di studio al liceo, 25.000 dollari, una delle appena sette concesse dal Comune di Cambridge per l’Università dove studiava filosofia, era l’incarnazione del «good kid», del bravo ragazzo un po’ timido, amato anche dai compagni della squadra che capitavana.
La spiegazione, che ora si tenta di trovare, è nella improvvisa radicalizzazione religiosa del più grande, Tamerlan, che secondo la zia aveva moglie e figli, e che portava il nome del grande Khan Mongolo, scoppiata senza preavviso. Si leggono chiavi in dettagli come la data della sua naturalizzazione americana, l’11 settembre dello scorso anno, ma le date per queste cerimonie collettive non sono scelte dai partecipanti. Aveva smesso di fumare e di bere, per restare puro, citava sul social network l’Islam come propria visione del mondo, ma gli amici e le amiche dicono ora di non averlo mai sentito dire nulla che potesse far pensare a un jihadista violento. «L’ultima persona capace di fare questo» twitta una compagna di università nel Community College di Cambridge. «Il più americano dei ragazzi che avessi incontrato» aggiunge un altro, che viveva nel suo stesso dormitorio. Addirittura «un angelo» fa sapere il padre dal Daghestan. Invece «due losers», due sconfitti, replica lo zio Ruslan, in una conferenza stampa concitata nella quale li maledice e li disconosce. Angeli e demoni, capaci di mimetizzare l’odio che cominciavano a nutrire e che riaffiorava dall’infanzia nell’orrore della guerra civile in Cecenia e che l’islamismo aveva fatto fermentare, come il classico fiasco di vino a stomaco vuoto? C’è un post online del più giovane che tradisce qualcosa, che sussurra la sua alienazione da un’America nella quale sembrava integrarsi e che gli aveva dato il permesso di soggiorno e le borse di studio: «Non ho neppure un amico americano, proprio non li capisco ». Dunque lui, studente modello, e il fratello maggiore, spigliato, un po’ arrogante nella foto, bel ragazzo, atleta, vivevano una vita di finzione. Alla ricerca di una propria identità, che Tamerlan aveva trovato nell’odio per la propria nuova terra e probabilmente per la complicità tacita degli Usa nel massacro dei ceceni e delle speranze di indipendenza. Eppure mai terroristi e guerriglieri ceceni avevano colpito negli Usa, colpevole al massimo, nel caso dei massacri russi, di assenza, non certo di presenza.
Ma se ancora non sappiamo dove e come avessero trovato gli esplosivi usati per uccidere e ferire quasi 200 persone, le armi e il fucile con il quale hanno duellato con la polizia dopo avere ucciso una guardia nel campus del MIT, le cariche portate con loro nell’ultimo tentativo di fuga e lanciate contro le auto inseguitrici, è evidente che i due fratelli non avevano vocazioni al martirio. Quegli esplosivi, portati sul corpo per nasconderli, non era il famigerato gilet al tritolo usato dai kamikaze terroristi. Hanno cercato, come ancora fa «cappellino bianco», di salvarsi la pelle, sia pure con comportamenti bizzarri: tutti e due erano tornati alla loro vita normale, al college, sperando di rientrare nel fiume della quotidianità.
Non ci sono ancora, e anche l’Fbi lo ripete, collegamenti con organizzazioni del terrorismo islamiista, ma esiste la possibilità di un viaggio in Russia di sei mesi di Tamerlan. Soltanto sintomi, indizi di un’inquietudine interiore che nel tempo scavava dietro l’apparenza del bravo ragazzo yankee. Racconta Eric Menendez, un compagno di Dzhokhar, che lui scattò quando parlarono di terrorismo e disse che «il terrorismo è comprensibile, in posti come quelli da dove vengo». E a un compagno di squadra nepalese che gli chiedeva da dove venisse, lui rispondeva brusco e si chiudeva: «Da qualche parte della Russia». E basta.
Eppure capire è necessario, perché la metamorfosi maligna di due ragazzi passati dal sogno all’incubo americano senza eventi speciali può ripetersi in altri insospettabili, anche in coloro che credevano di essere fuggiti dal terrore e lo hanno ritrovato dentro di sè. E sono finiti, come giovedì notte è accaduto a Dzhokhar, a passare sopra al cadavere del fratello guidando il Suv rubato. Che forse era ancora vivo.

Repubblica 20.4.13
In trappola in una città surreale simbolo dei fantasmi d’America
di Alexander Stille


BOSTON ECCOMI bloccato per caso a Boston, proprio il giorno in cui la città è stata chiusa: per le strade è in corso la caccia all’uomo, ai terroristi accusati d’avere esploso le bombe alla maratona. È un’esperienza surreale. «Mi raccomando, resti al sicuro!», mi dice il rappresentante di una ditta di auto a noleggio. L’ho contattato al telefono nel disperato tentativo di trovare un modo per tornare a New York. Mi parla come se su di me incombesse un pericolo imminente.
Sono in una casa confortevole a Cambridge, parte dell’area metropolitana di Boston vicina a Watertown, dove si concentra la ricerca per il secondo dei due fratelli ritenuti responsabili della recente strage. Eppure, è una bellissima giornata di primavera, la tranquillità sembra assoluta: non c’è un’anima per la strada. (Un ragazzo nella casa accanto tenta di lanciare – senza risultato - un aquilone dal giardinetto recintato, infatti nemmeno lui può uscire). Siamo a circa dieci chilometri dal luogo dove si troverebbe il ragazzo diciannovenne che la polizia ha braccato a Watertown. Perciò la raccomandazione del noleggiatore d’auto – a 30 chilometri di distanza - suona come una precauzione risibile. Dobbiamo soltanto schivare la noia, aspettando che le autorità ci permettano di circolare, per poter partire.
È stato sempre così nei due giorni della mia imprevista avventura a Boston: un misto di dramma e di normalità in un’America che fatica a trovare la risposta giusta al terrorismo. Sono partito da New York giovedì (quattro giorni dopo l’esplosione delle bombe che hanno fatto tre morti) per un impegno tra gli più innocenti immaginabili: una conferenza al Circolo italiano di Boston, un’associazione di amanti della cultura italiana. Già la stazione ferroviaria di New York era zeppa di militari e poliziotti con cani addestrati a fiutare gli esplosivi. «Se vedete qualcosa, informateci». Appena arrivato alla stazione di Boston sento la stessa voce meccanica, che ripete: «Se vedete qualcosa, informateci». ho sfiorato tutti i luoghi centrali di questo dramma: sceso dal treno a pochi passi dal luogo della strage, ho preso la metropolitana a Kendall Square, a Cambridge, dove i due presunti terroristi hanno tentato una rapina un paio di ore dopo; ho tenuto un discorso accanto a Memorial Drive, dove hanno ucciso un poliziotto. E Watertown – dove s’è svolto lo scontro a fuoco, e dove ora la polizia cerca il più giovane dei due fratelli – è la zona dove abitano i miei suoceri: il posto dove sto normalmente a Boston, tranne stavolta perché i suoceri non ci sono. Insomma, ho anticipato i terroristi in quasi tutte le loro tappe più importanti senza esserne consapevole. L’altro ieri mi
sono coricato ignaro dei tragici eventi del giorno, e quando gli amici di New York mi hanno telefonato per chiedermi se io stessi bene, non sapevo di che parlassero.
Stavo preparandomi a partire con un treno, presto la mattina – devo incontrare degli studenti a New York e prendere mio figlio a scuola alle 3 e mezzo del pomeriggio – ma fra le sette e le nove si è bloccato gradualmente tutto: la metro, i treni, gli autobus, i taxi, gli aerei. Si capisce la volontà di chiudere le strade nel quartiere dove abitano i fratelli Tsarnaev, e dove forse potrebbe esserci ancora qualche bomba. Si capisce che è necessario fermare tutto a Watertown, dove pare si sia rifugiato il giovane Dzhokhar Tsarnaev, questo per evitare morti innocenti e lasciare libere di lavorare le forze dell’ordine. Però, io mi chiedo: era proprio necessario fermare l’intera area metropolitana di Boston, tappando circa quattro milioni di persone in casa?
Gli Stati Uniti hanno poca dimestichezza con il terrorismo e lo dimostrano. Si va dalla A alla Zeta con una velocità impressionante. I politici – terrorizzati soprattutto dell’accusa di non aver fatto abbastanza – adottano sempre le misure più drastiche. Lo spiegamento di forze qui a Boston sarebbe appropriato per affrontare un intero esercito di uomini di Al Qaeda, mentre mi sembra piuttosto evidente (già dal tipo di bomba casalinga usata alla maratona) che questi sono due ragazzi isolati, terroristi improvvisati e autodidatti. Pericolosi sì ma non capaci di mettere in ginocchio una grande città.
Qui a Boston amano ripetere «non ci faremo intimidire!». Però, è già fatto. Muoiono oltre 30 mila americani ogni anno (circa 11 mila omicidi, più 19 mila suicidi), eppure non riusciamo ad autorizzare i più elementari controlli sulle armi. Ma ora che muoiono tre persone per una bomba, succede il finimondo! Forse dobbiamo rimettere le cose nella giusta prospettiva – e questo vale per entrambe le questioni.

l’Unità 20.4.13
Addio a Cesare Vasoli il maestro riservato della cultura italiana
Grande studioso del Rinascimento Ma la filosofia fu al centro dei suoi interessi
di Michele Ciliberto


IL 16 APRILE È MORTO CESARE VASOLI; ERA NATO A FIRENZE IL 12 GENNAIO DEL 1924; AVEVA QUINDI QUASI NOVANTA ANNI. UNA LUNGA VITA, pienissima in ogni momento di lavoro; anzi, è meglio dire, di gioia del lavoro: un tratto centrale della sua personalità di uomo e di studios .
Si era formato con Eugenio Garin e si era laureato su Nietzsche in Filosofia morale e al suo maestro era rimasto sempre profondamente legato, riprendendo e sviluppandone in modo originale temi e motivi. Anzi, insieme ad altri allievi di eccezione della prima generazione, aveva collaborato con Garin nel proporre, dopo la lunga stagione burckhardtiana, una nuova immagine del Rinascimento, contribuendo con saggi ormai classici ad aprire e percorrere nuove piste di ricerca: l'arte della memoria, il lullismo, la retorica...
Tutti temi che ormai sono acquisiti ma che furono la «scoperta» di un piccolo gruppo di studiosi raccolti intorno a un grande maestro, e in collegamento con i centri più avanzati della ricerca internazionale, a cominciare dal Warburg Institute di Londra.
In verità Vasoli che ebbe sempre un forte interesse per la vita civile e anche per la politica soprattutto negli anni Cinquanta partecipò attivamente al dibattito ideologico nazionale, anche sulla scia delle Cronache di filosofia italiana di Garin. Sono gli interventi raccolti in un volume ormai introvabile, pubblicato da Lerici, dal titolo eloquente Cultura e ideologia. Ma, progressivamente, Vasoli venne distaccandosi da questo tipo di argomenti per concentrarsi sulla cultura dell'Italia e della Europa moderne con aperture interdisciplinari molto importanti, iniziando dal mondo del diritto.
Questi interessi erano, nel suo caso, tutt'altro che casuali o episodici. Al contrario, discendevano da una opzione al tempo stesso metodica e storiografica, che trovava il suo pernio unitario in una concezione della storia della cultura modernamente intesa.
Sta qui, in effetti, il tratto originale di Vasoli rispetto al suo maestro Garin:
pur prendendo le mosse dalla prospettiva delineata nella Filosofia come sapere storico, Vasoli la svolse, e la radicalizzò, portandola alle estreme conseguente. Ma non era neppure questo un esito casuale: la filosofia era uno dei centri del suo interesse di studioso, ma ai suoi occhi essa si affiancava, e si chiariva nella sua reale funzione storica, attraverso la relazione con le altre sfere della esperienza umana dal diritto alla scienza, dall'arte alla religione altro centro essenziale dl lunghissimo lavoro di Vasoli. E qui basterebbe citare il massiccio volume sui rapporti tra profezia e religione nel rinascimento e nel mondo moderno per rilevare il peso profondissimo che i suoi lavori hanno avuto nel porre in modi nuovi il problema del Rinascimento da un lato; dei rapporti tra Rinascimento e mondo moderno dall'altro.
A differenza di Paolo Rossi, altro scolaro di Garin al quale fu sempre legato, a Vasoli interessava mettere a fuoco le linee di continuità, cogliendo le svolte e gli elementi di novità , ma tenendo ferma la centralità di una «tradizione» civile, intellettuale, culturale ed anche religiosa, alla quale egli restava fedele e della quale di sentiva un erede ed un prosecutore.
Infatti, anche se con molto understatement non ne evocava mai le matrici profonde. La sua ricerca muoveva invece da problemi e interrogazioni essenziali: sul senso della civiltà occidentale, e in questo quadro, del Rinascimento; sul significato del lavoro intellettuale; sulla funzione della storia e del lavoro storico.
Non per nulla si era laureato su Nietzsche, conservando sempre e anche questo è rivelatore un forte interesse per un autore come Schopenhauer.
Ci sarà tempo per tornare sul suo lavoro e sulla sua figura; quello che si può già dire è che la cultura italiana, e gli studi rinascimentali, con Vasoli perdono un maestro tanto riservato e pudico, quanto decisivo per quello che ha fatto su capitoli centrali della cultura italiana ed europee da Dante, del quale diede una edizione classica del Convivio a Marsilo da Padova; da Giovanni Pico e Ficino; da Bruno a Bodin, un altro dei suoi grandi autori.
Una volta Giorgio Pasquali scrisse che la creazione è sempre gioiosa: la vita e il lavoro di Vasoli sono una splendida conferma delle sue parole, dalla giovinezza agli ultimi giorni di vita. Una conferma, e se si vuole, una consolazione.

Corriere 20.4.13
Cesare Vasoli, storico delle idee
di Armando Torno


È morto a Firenze lo storico della filosofia Cesare Vasoli. Aveva 89 anni. L'annuncio è stato dato dalla famiglia, rispettando le sue volontà, a funerali avvenuti. Si era laureato nel 1947 con Eugenio Garin, tesi su Nietzsche e la crisi della morale contemporanea. Ebbe una carriera, a differenza di talune recenti fulminee assegnazioni di cattedre, cadenzata da ricerche e da un percorso vecchio stile. Assistente dal '48 al '56, libero docente e incaricato dal '56 al '62, diventa nel medesimo anno ordinario di storia della filosofia medievale. Insegnerà a Cagliari, Bari e Genova; ritornerà poi nella sua Firenze a filosofia morale (1970), passerà a storia della filosofia (1975), infine a storia della filosofia del Rinascimento (1980-94). Dal 1991 era accademico nazionale dei Lincei.
Studia senza requie, pubblica. Del 1953 è il saggio su Guglielmo d'Occam (La Nuova Italia), nel 1961 esce da Feltrinelli La filosofia medievale (più volte ristampato). Quest'opera vede la luce nell'anno in cui Vasoli si occupa di Alano di Lilla e, presso Lerici, ecco la densa raccolta Tra cultura e ideologia. Il lavoro sull'età di mezzo avrebbe dovuto far parte di una vasta storia delle idee scritta da giovani studiosi con criteri innovativi, che mai si concluse (gli altri due titoli usciti, dedicati alla filosofia antica, erano di Francesco Adorno). Nel 1960 presso Utet appare la sua traduzione del Defensor pacis di Marsilio da Padova (nel 1975 avrebbe pubblicato la versione del Defensor minor da Guida), opera del 1324, caposaldo del pensiero politico occidentale. In essa, tra l'altro, si evidenzia come il governo debba essere eletto dal popolo, senza interferenze religiose.
Non sono che accenni. Vasoli ha lavorato sui giovani Hegel e Marx, nel 1977 pubblicava da Guida i fascinosi saggi de I miti e gli astri, nel 2002 da Bruno Mondadori l'importante studio Le filosofie del Rinascimento. E ancora: fu un collaboratore dell'Enciclopedia dantesca della Treccani e ha lasciato nel 1988 un ampio commento innovativo al Convivio di Dante nella celebre e compianta collana della Ricciardi (firmò la cura con Domenico De Robertis). Ma fu anche altro. Indagatore infaticabile, studiò l'enciclopedismo del Seicento, la cultura delle corti, Francesco Patrizi da Cherso o, come recita una pubblicazione edita da Aragno nel 2006, Ficino, Savonarola, Machiavelli. «Visiting professor» nella McGill University di Montreal, «professeur invité» al College de France, ogni incontro con Vasoli era una lezione. Chi scrive ebbe l'onore di assistere, durante una cena, a un lungo dialogo tra lui e Vittore Branca sulle Genealogie deorum gentilium di Boccaccio. Purtroppo non fu registrato. Da quella sera, però, il vostro cronista ha capito alcune cosucce che di solito non si imparano all'università.

l’Unità 20.4.13
La macchina del tempo. Un’utopia ricorrente che la scienza continua a cercare
Dallo scherzo allo studio: la possibilità di viaggiare indietro nei secoli è stata ventilata per finta, ma è anche oggetto di vere ricerche
E i fisici non ne escludono la realizzabilità...
di Enzo Verrengia


«CERCASI: QUALCUNO DISPOSTO AD ANDARE INDIETRO NEL TEMPO CON ME. QUESTO NON È UNO SCHERZO. SARETE RIMBORSATI AL RITORNO. Dovete portare con voi le armi personali. Non si garantisce l’incolumità. L’ho fatto solo un’altra volta prima d’ora». L’annuncio apparve nel numero di settembre/ottobre 1997 della Backwoods Home Magazine di Oakview, nel Canada. Era uno scherzo di John Silveira, dipendente del giornale, che lo confessò in un articolo successivo. Nei giorni scorsi è riaffiorata su Facebook la foto di quel trafiletto, suscitando commenti, condivisioni e dibattiti. Intanto l’anno scorso è uscito un film di Colin Trevorrow ispirato all’episodio. Si intitola proprio Safety not guaranteed (Non si garantisce l’incolumità). Nella finzione della trama, un giornalista scopre che l’annuncio è vero. Un uomo vuole tornare al 2001 per impedire che la sua ragazza resti uccisa in un incidente stradale.
Di taglio rigorosamente scientifico, invece, le ricerche del dottor Seth Lloyd, del Massachusetts Institute of Technology di Boston. Insieme a lui, una squadra che comprende gli italiani Lorenzo Maccone e Vittorio Giovannetti. Gli studiosi affermano che l’«effetto di postselezione» permetterebbe a particelle teletrasportate di tornare alla loro condizione originaria. Di fatto, viaggerebbero all’incontrario rispetto alla cosiddetta «freccia del tempo».
Il 2 novembre del fatidico 2000 sul Time Travel Institute Forum apparve un post firmato TimeTravel_0. L’anonimo autore forniva dati in sei parti dall’apparenza molto realistica su una macchina del tempo funzionante. A seguire, TimeTravel_0 si lasciava andare a disquisizioni rapide ma esemplari sul mondo del futuro. Nel gennaio 2001 il «poster» si presentò come John Titor, un soldato di Tampa, centro della Hillsborough County, Florida. Non contava, però, da dove proveniva, bensì da «quando». Titor asseriva di essere un viaggiatore temporale del 2036, assegnato ad un progetto governativo. La sua missione consisteva nel ritorno al 1975 per procurarsi un elaboratore IBM 5100, necessario a emendare il malfunzionamento di alcuni programmi di uso corrente fra i suoi contemporanei del 2036. La sua «sosta» nel 2000 costituiva una deviazione arbitraria dai parametri operativi. A Titor premeva incontrare la famiglia e raccogliere cimeli privati.
A riprova delle sue dichiarazioni, postava sul web schizzi del meccanismo di spostamento temporale e previsioni apocalittiche rivelatesi poi fallaci. Innanzi tutto, l’erompere di una guerra civile sul territorio degli Stati Uniti nel 2004. Poi la frammentazione del governo federale. Rimane l’incognita del 2015, anno che Titor designa per l’inizio di un attacco nucleare massiccio da parte della Russia contro le maggiori metropoli degli Stati Uniti, dell’Europa e della Cina.
Successivamente, trapelò la notizia che dietro John Titor si nascondesse un programmatore dalla vena fantasiosa. Per tornare tornare indietro nel tempo, bisognerebbe realizzare un dispositivo capace di far resistere la massa umana alla spaventosa forza di gravità esistente in un buco nero. Il termine viene coniato nel 1967 dal fisico americano James Wheeler nel corso di una conferenza a New York per definire i resti di una stella collassata. Anche se si trattava di un concetto sviluppato già nove anni prima da David Finkelstein, della Yeshiva University.
Nel buco nero, l’attrazione è così forte che non escono neanche i raggi di luce e, di conseguenza, si annulla anche il procedere dello spazio-tempo. È una singolarità. Successivamente, viene evocata l’immagine di un crocevia tra gli universi paralleli, da cui, a patto di avere la tecnologia adatta, si può accedere dappertutto, nello spazio ma anche nel tempo. Lo stadio avanzato delle correnti di pensiero scaturite dalla codificazione dei buchi neri giunge a prefigurare l’esistenza delle superstrings, o «corde cosmiche». Autentiche sfilacciature nel continuum spazio-temporale che formano condotti e scorciatoie per muoversi a ipervelocità nella galassia e, forse, nei secoli.
L’obiettivo della fisica, però, trascende le ragioni del singolo. Se si dovesse superare la barriera del tempo, la Storia stessa diventerebbe un unicum all’interno del quale il disegno umano non sarebbe più soggetto all’alea del caso. Il rapporto causa-effetto potrebbe ricondursi alle scelte di una pianificazione titanica. Con il rischio che il tutto cada nelle mani sbagliate, guidate dalla mente meno illuminata. Allora il passato stesso sarebbe stravolto e vittorie liquidate al prezzo di milioni di vite sarebbero vanificate dalle manipolazioni. Guai alla macchina del tempo che riporterebbe il mondo e l’umanità sotto il tallone dei mostri generati dal sonno della ragione.

Repubblica 20.4.13
A pochi mesi dalla scomparsa, esce un libro dell’ex partigiano francese autore del pamphlet bestseller
Indignarsi non basta
Il testamento di Hessel: è la politica che cambia il mondo
di Stéphane Hessel


Non avrei mai pensato che un piccolo libro di trenta pagine come Indignatevi! potesse avere una tale ripercussione e mobilitare così tante persone. Ma la cosa certa è che il movimento dei giovani spagnoli nella primavera del 2011, adottando l’indignazione come bandiera, ha rappresentato un chiaro appello per tutti, un appello che ha superato le frontiere della Spagna. Il movimento degli Indignati, spontaneo ed estraneo al mondo dei partiti politici tradizionali — che oggi suscitano così tanta sfiducia — ha rappresentato qualcosa di nuovo, l’espressione di un rifiuto delle manovre di un’oligarchia, non solamente finanziaria, che vorrebbe sequestrare il potere politico. E la manifestazione di una sentita rivendicazione per una vera democrazia. È stata anche, da parte dei giovani, una maniera di manifestare la loro responsabilità attraverso canali differenti da quelli stabiliti.
La forza che questo movimento ha acquisito in Spagna non deve far dimenticare che questa aspirazione ad una autentica democrazia e questo rifiuto dell’oligarchia sono comuni ai giovani di molti altri Paesi. Simili movimenti di protesta si sono prodotti in Europa, specialmente in Grecia e Portogallo, negli Stati Uniti e nell’America Latina, in Cina, in India... Le forme di contestazione popolare della cosiddetta Primavera araba, che hanno avuto luogo nel 2010 in vari paesi del Nord Africa, dalla Tunisia all’Egitto, fanno parte di questa corrente di fondo.
Il problema, tanto per gli uni come per gli altri, è come tradurre questo movimento in un’alternativa efficace per cambiare le cose, per influire sulle scelte del governo e promuovere le riforme volute dalla maggior parte dei cittadini. Nel caso della Spagna, la traiettoria degli Indignati non è sempre stata facile da decifrare. Nel 2011, per paradosso, gli Indignati fecero cadere un governo di sinistra e contribuirono a consegnare il potere a un governo di destra molto distante dalle loro rivendicazioni. Io sono stato fra i primi sostenitori di José Luis Rodríguez Zapatero: pensavo che un governo socialista avrebbe fatto la politica di cui gli spagnoli avevano bisogno. Il suo fallimento mi ha davvero deluso. [... ] Ma l’indignazione non è sufficiente. Se qualcuno crede che per cambiare le cose basti manifestare per le strade, si sbaglia. È necessario che l’indignazione si trasformi in un vero impegno. Il cambiamento richiede uno sforzo. Va benissimo esprimere il nostro rifiuto dell’oligarchia, ma contemporaneamente bisogna proporre una visione ambiziosa dell’economia e della politica che sia capace di trasformare la condizione del nostro Paese. Non ci si può limitare alla protesta. Occorre agire. [... ] La situazione oggi in Europa, pur se non identica, ricorda un po’ quella provocata dalla grave crisi degli anni Trenta, che sfociò nella Seconda guerra mondiale. Anche oggi ci ritroviamo davanti a rischi simili. La crisi attuale, e la sofferenza che genera, esacerbano l’odio e la paura. Gi estremismi sono in agguato.
Ma la via della rivoluzione, delle ideologie totalitarie, non porta da nessuna parte. Rivoluzione e totalitarismo sono parole che portano l’una all’altra. Io sono nato con la rivoluzione sovietica e forse per colpa sua ho contratto l’allergia all’idea di rivoluzione... La risposta alla sofferenza causata dalla crisi non mi sembra possa essere un Fidel Castro o un Che Guevara, ma un’alleanza delle forze democratiche riformiste in difesa dei valori democratici.
Durante il Ventesimo secolo, molti europei — spagnoli, francesi, italiani... — si arresero a movimenti organizzati e a ideologie che si impossessarono delle loro coscienze, stabilendo quello che poteva o non poteva essere, e che li portarono a perdere ogni fiducia in se stessi. L’uomo basta a se stesso, non ha bisogno di una guida suprema. Per tutti questi motivi io non sono mai stato comunista. E neppure anticomunista.
È che non credo che il cambiamento possa venire da azioni rivoluzionarie o violente che distruggano l’ordine costituito. Io credo in un lavoro intelligente, a lungo termine, attraverso l’azione e la concertazione politica, e la partecipazione democratica. La democrazia è il fine, ma deve anche essere il mezzo. Gli Indignati spagnoli sono stati criticati per l’incapacità di tradurre il loro movimento in un’organizzazione efficace. Da un certo punto di vista, è questa la loro principale debolezza. Ma è anche la loro grandezza. Un eccesso di organizzazione può anche essere un pericolo. E, in un certo senso, sono particolarmente contento di vedere che gli Indignati spagnoli sono stati sufficientemente prudenti da evitare la tentazione di mettersi nelle mani di un grande leader incontestabile. Non c’è nessun bisogno di un’organizzazione piramidale, dove alcuni — i capi — danno gli ordini e gli altri li eseguono.
Allora, come canalizzare questo impulso? Come farlo fruttare? Uno dei terreni in cui i giovani che vogliono cambiare le cose possono dimostrarsi utili è l’ambito dell’economia sociale e solidale. Quello della difesa dell’ecologia e dell’ambiente è un altro. Sono due facce della stessa medaglia. Ci salveremo soltanto se creeremo un nuovo modello di sviluppo, socialmente giusto e rispettoso del pianeta.
Inoltre, bisogna ritrovare il gusto della politica, perché senza politica non può esserci progresso. Ci sono molti modi di intervenire in politica, di suscitare il dibattito, di proporre idee. Lo scrittore Václav Havel, storico dissidente contro la dominazione sovietica e difensore dei diritti umani, che assunse la presidenza dell’antica Repubblica Cecoslovacca dopo la caduta del muro di Berlino, una volta disse: «Ognuno di noi può cambiare il mondo. Anche se non ha alcun potere, anche se non ha la minima importanza, ognuno di noi può cambiare il mondo ». [... ] I partiti politici tradizionali si sono chiusi troppo in se stessi. Sono anchilosati e hanno bisogno di una scossa. Nonostante tutto, però, continuano a essere uno strumento essenziale della partecipazione politica. Credo che non si debba neppure dubitare dell’opportunità di entrare in un partito. Io sono del tutto convinto che si debbano utilizzare le forze politiche esistenti. Meglio stare dentro che fuori. Ai miei amici ripeto sempre la stessa cosa: se volete combattere i problemi, se volete che le cose cambino, nelle democrazie istituzionali nelle quali viviamo il lavoro deve essere fatto con l’aiuto dei partiti. Perfino coi loro difetti, le loro imperfezioni, le loro insufficienze.
Ognuno di noi deve trovare il partito più vicino alle proprie preoccupazioni, il più disposto ad appoggiare le proprie rivendicazioni, ed entrare a farne parte. Non ci si deve illudere. Non ne troverete mai uno, neppure uno, che coincida al cento per cento con la vostra linea. Ma le cose stanno così, questo fa parte del gioco. Trovate che non abbiano abbastanza vigore? Che non siano abbastanza determinati? Non dimenticate che siete voi che potete infondere loro quel vigore e quella determinazione.
Traduzione Valerio Nardoni

Repubblica 20.4.13
Un sms a Freud
Lo psicoanalista Lucio Russo racconta gli effetti dell’impoverimento del linguaggio sulla terapia
Così nell’era di chat e tweet l’inconscio ha perso la parola
di Luciana Sica


«Piuttosto che steso sul lettino, preferirei un paziente appeso al lampadario, ma capace di esprimere parole “luminose” e non così sciatte, opache, ripetitive, sature di senso comune...». Con un certo gusto del paradosso, ad ammettere che molto più di ieri – nella talking cure – non sempre ci sono “le parole per dirlo”, è Lucio Russo, didatta della Società psicoanalitica italiana, uno studioso di 69 anni dal pensiero singolare. A confermarlo esce da Borla un suo nuovo libro che sembra l’autoritratto di un analista appassionato di un mestiere “impossibile”, per dirla con Freud: si chiama Esperienze, ma già il sottotitolo che rimanda alla “parola nel lavoro psicoanalitico” sollecita un interrogativo inedito e forse di non poco conto.
Nell’epoca delle chat, degli sms, dei tweet, che ne è infatti di quel mito poetico della “parola piena” con il suo potere simbolico di umanizzare la vita e restituirne un senso? Difficilmente la clinica psicoanalitica, basata sulla parola, potrà essere risparmiata dall’impoverimento del linguaggio che investe così rovinosamente la società, la politica, la cultura. Non è certo da ieri che gli analisti lamentano il ricorso massiccio agli psicofarmaci o anche alle terapie brevi che promettono miracoli sempre meno credibili... Ma il trionfo generalizzato della “parola vuota” non sarà per la cura analitica una minaccia più sottile e però anche più pericolosa?
Dottor Russo, lei lavora a Roma sin dagli anni Settanta, vanta una lunga esperienza clinica,... Rispetto al passato, è cambiato il modo in cui parlano i pazienti? Oggi come esprimono i loro pensieri, i sentimenti, i ricordi, i sogni, le fantasie, le paure, i desideri?
«Sempre più spesso con un linguaggio isolato dagli affetti e dalle passioni del corpo, immiserito dall’uso massiccio di internet, dei telefonini, delle parole alla moda copiate e ripetute – comunque seguendo modelli di comunicazione incorporei e privi di relazione con l’interiorità. Oggi il lavoro analitico non si limita ad essere una cura attraverso le parole ma è anche una cura delle parole malate, incapaci di generare la “scintilla” della fantasia, della visionarietà. Spesso, per l’uso di parole spente e sorde all’ascolto di sé e del-l’altro, la relazione rischia di deragliare su un binario morto».
E allora l’analista che fa?
«All’analista non resta che “prestare” al paziente un linguaggio più creativo, poetico, evocativo, metaforico, mitopoietico... La fantasia sepolta dal chiacchiericcio quotidiano può ridestarsi con una parola più aperta all’ignoto».
Ne siamo proprio certi? In certi casi la missione non risulterà impossibile?
«Non proprio impossibile, ma difficilissima, almeno con quei pazienti che io chiamo i pompieri della parola, così determinati a spegnere l’incendio di ogni passione».
Facciamo qualche esempio... Mettiamo una donna abbandonata dal “suo” uomo. Come può capitare che lo racconti?
«Dipende molto dall’età, ma anche una signora non più giovanissima può dire di un naufragio sentimentale: “Se n’è andato. Non so perché, veramente non ci ho capito niente. Mi ha scritto un sms ed è sparito. Ha detto che s’era stufato, che gli avevo rotto le palle. Però chi se ne frega, vado su internet e me ne trovo un altro...”. Una volta quando una coppia andava in frantumi, i due ne parlavano per ore. Adesso no, spesso neppure si vedono, non si spiegano nulla, si chiudono nel silenzio, incapaci di affrontare il dolore. Poi, nella stanza dell’analisi, sono del tutto refrattari a mettersi in contatto con le emozioni, a darsi del tempo, ad attraversare la sofferenza. Il più delle volte l’unico desiderio che esprimono è quello di voltare pagina».
I più giovani, invece, loro come parlano d’amore?
«“Mi ha accannato”: anche sopra i vent’anni è con questa espressione gergale che possono riassumere un dietrofront sentimentale quasi sempre imprevedibile e imprevisto. Va anche peggio quando accennano ai progetti professionali, segnati dalla più dolorosa precarietà che spesso assume le forme anche solo apparenti dell’indifferenza: “Che voglio fare? Boh, non lo so. Va bene qualunque cosa, un lavoro vale l’altro. Non me ne frega niente, tanto si sa che non dura...».
Così i ragazzi... E i padri? Come interpretano il loro ruolo, come parlano dei figli?
«Quando sono padri presenti, il rischio molto diffuso è che ne parlino con un sentimento eccessivo di possessività. Spesso si lamentano che il figlio sia troppo attaccato alla madre, con cui tendono a rivaleggiare. Dicono, come innamorati delusi “Penso sempre a lui, gli dò tantissimo e lui non mi si fila, non ha bisogno di me..”. Sono padri infantili che non sanno riconoscere i loro figli, non ne accettano la radicale alterità e anzi s’illudono di ricavarne una qualche gratificazione personale. Non è facile aiutare questi “mammi” più bisognosi di sostegno che capaci di una attenzione autentica. Non sono una rarità quei genitori fragilissimi che pretendono di “appoggiarsi” ai loro figli, senza rendersi conto del danno che può produrre un ribaltamento dei ruoli così sconcertante».
Cosa dicono questi rapidi esempi?
«Dicono come l’impoverimento del linguaggio si rifletta direttamente sull’esperienza analitica e vada di pari passo con un inaridimento della realtà psichica che produce parole isolate da ogni pathos e prive dell’amore per la verità.
Le parole dell’inconscio, che la coscienza non riesce ad ascoltare se non come brusio indistinto, sono formate da frammenti, sono fatte di carne, di affetti vivi e disordinati, senza le costanti che appartengono all’uso maggiore della lingua. Sono soprattutto quelle parole che oggi difettano in analisi».
Mancano anche quando si raccontano i sogni – elemento che caratterizza l’analisi?
«A volte i pazienti li raccontano come fossero dei postini che portano all’analista una lettera. Non c’è l’esperienza del sogno, la partecipazione affettiva, la capacità di restituire le emozioni legate alle immagini. Magari ti senti dire con un’aria piuttosto neutra, distaccata: ho fatto un sogno, succedeva questo e quest’altro... Allora – come si fa normalmente in analisi – cerchi di sollecitare delle associazioni. “Che cosa le fa venire in mente?”, provi a chiedere. Spesso segue una pausa, un silenzio imbarazzato, interrotto da una frase del tipo: “Ma veramente non so proprio cosa dire. Non mi vengono le parole...”. E poi, anche: “Dottò, me lo interpreta lei?”».

IL LIBRO Esperienze, sottotitolo: “Corpo, visione, parola nel lavoro psicoanalitico” è il nuovo libro di Lucio Russo appena uscito da Borla (pagg. 235, euro 26)

Repubblica 20.4.13
Al via la “Repubblica delle idee” Quando si confrontano Dio e la scienza dell’uomo
di Stefano Costantini


La grande “R” eretta davanti al Petruzzelli domina la città e annuncia da giorni l’Anteprima della Repubblica delle Idee, dal titolo “In principio era il logos”. Stamattina, alle nove, si alza finalmente il sipario del teatro Petruzzelli sulla festa del nostro giornale che, in collaborazione con Enel, Autostrade per l’Italia e Tim, ha scelto Bari come unica tappa al Sud per aprirsi e raccontarsi ai propri lettori.
Appuntamento con le grandi firme del giornale e con gli esperti chiamati a dialogare per due giorni sul rapporto quanto mai affascinante fra Scienza e Fede. Un tema reso ancor più attuale dagli ultimi avvenimenti che hanno coinvolto non solo i cattolici, e cioè l’avvicendarsi di Benedetto XVI con papa Francesco.
Sul palco si confronteranno oggi e domani scienziati, filosofi, teologi e, ovviamente, i giornalisti di Repubblica.
Un evento a cui parteciperanno migliaia di persone che si sono prenotate online o al botteghino, o di quanti vorranno venire direttamente in teatro per assistere a uno — o più — degli incontri in scaletta: l’ingresso è gratuito, fino a esaurimento dei posti.
Tanti i baresi che hanno già visitato la mostra allestita a fianco del teatro, sul lato di via Alberto Sordi, con le prime pagine di Repubblica che ripercorrono le tappe più significative della storia italiana degli ultimi quattro decenni. Sarà un’occasione per un viaggio dentro al giornale, alla scoperta dei segreti del mestiere e di come si realizza un numero del giornale fondato da Eugenio Scalfari nel 1976. In questo percorso (riservato alla scuole, stamattina alle ore 9) ci accompagnerà un video realizzato nei mesi scorsi (il giorno delle primarie del centrosinistra) proprio nelle stanze del quotidiano, nella sede centrale di Roma e nelle redazioni locali, come quella di Bari appunto.
Alle 11,30 gli onori di casa, con i saluti alla città. Non ci sarà, come invece previsto dal programma, il presidente del Gruppo L’Espresso, Carlo De Benedetti, impossibilitato a raggiungere Bari per colpa di un piccolo infortunio dell’ultimo momento. La parola quindi al direttore Ezio Mauro e al sindaco Michele Emiliano. A seguire uno degli incontri più attesi, il colloquio del professor Umberto Veronesi con il vicedirettore di Repubblica Dario Cresto-Dina: “L’infinito della Scienza”, ovvero se si può arrivare a Dio attraverso la ragione.
Ritmo serrato anche nel pomeriggio con altre tavole rotonde e dibattiti. Alle 15 il priore di Bose Enzo Bianchi parla con il filosofo Umberto Galimberti, moderati da Giovanni Valentini, sul tema “Il nostro bisogno di verità”; mentre alle 17 sarà la volta del matematico Piergiorgio Odifreddi e del teologo Vito Mancuso, coordinati dal direttore della rivista Le ScienzeMarco Cattaneo.
Alle 19 Antonio Gnoli animerà il confronto sul “governo della nostra vita”, al confine fra etica e biotica, fra il filosofo Remo Bodei, la teologa Marinella Perroni e, salvo sorprese, il giurista Stefano Rodotà, collaboratore storico di Repubblica e in corsa per la Presidenza della Repubblica. La giornata si chiude con lo spettacolo dedicato all’innovazione, Next, condotto da Riccardo Luna che ci farà conoscere l’eccellenza della ricerca e della tecnologia pugliese attraverso i suoi, spesso giovanissimi, protagonisti. Sul palco con Luna anche due band musicali salentine selezionate per il concerto del Primo maggio.
E domani nuova sessione a partire dalle 9, 30 con don Sciortino e Giovanni Valentini intervistati da Paolo Rodari. Al termine, dalle 11,30 l’incontro clou dell’anteprima barese, con il dialogo fra il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei e il direttore di Repubblica Ezio Mauro, moderati da Marco Ansaldo: una conclusione dedicata al tema “Laici e credenti nell’età di Papa Francesco” e quindi allo scontro o all’incontro fra ragione e religione.

Repubblica 20.4.13
Le scommesse dei laici
di Remo Bodei


Tendiamo spesso a dimenticare che siamo ospiti della vita. Nasciamo senza volerlo e saperlo in un determinato tempo e luogo e, senza volerlo e saperlo, il corpo che abbiamo ricevuto in eredità dispiega spontaneamente i suoi mirabili processi. Su questi automatismi le religioni fondano la convinzione che la vita appartenga a Dio e non a noi. Il fatto che dipendiamo da potenze inconsce o più grandi di noi che operano senza il nostro consenso e che segnano in parte il nostro destino non significa, tuttavia, che dobbiamo consegnarci loro passivamente. Al contrario, tutta l’evoluzione della nostra specie rappresenta lo sforzo di emanciparci dal loro diretto dominio, di interrompere l’immediatezza dell’istinto, di educare e mettere argini alle passioni attraverso il consolidamento della volontà, di incrementare le conoscenze grazie all’esperienza e alla riflessione, di apprendere a risalire il corso del tempo a ritroso per mezzo della memoria.
Nel venire al mondo, ognuno costituisce una novità inimitabile, inizia una nuova storia al cui centro inevitabilmente si pone. Si trova però dinanzi a una realtà già fatta e trasformata da miliardi di uomini, a un ordine complesso e cangiante, naturale e sociale, il cui senso complessivo gli sfugge, perché composto da una miriade di dati, istituzioni, poteri, saperi, regole e tradizioni. Lo aiutano a orientarsi l’esperienza e la saggezza di culture distillate attraverso generazioni, la speranza religiosa o la razionalità. Ma quali sono i criteri più affidabili per condurre la nostra vita? Siamo liberi di scegliere con cognizione di causa? Esiste una voce interiore che ci ingiunge di non accontentarci di quello che siamo e ci sprona a imprimere una svolta alla nostra vita?
Possiamo essere certi delle nostre convinzioni?
Ci sono cose — una è la fede, un’altra è l’amore — che non si possono dimostrare e che rendono in parte sterile la querelle del rapporto tra fede ragione. Ciascuna obbedisce, infatti, a esigenze divergenti ed eterogenee: la prima offre la promessa di un senso finale all’esistenza di ciascuno, la seconda accetta la propria quota di ignoranza e, pur conservando il senso del sacro, una vita finita dai limiti invalicabili (sa che siamo ospiti della vita, ma non sa se questa ospitalità si estenderà a una vita eterna in un albergo ultraterreno. Come diceva Vittorio Gassmann, le basterebbero due vite: una di prova, e una da svolgere).
Il filosofo americano William James sosteneva che non possiamo trasformare la complessità della vita e dell’esperienza in idee astratte, in pensiero puro, perché «siamo come pesci che nuotano nel mare del senso», incapaci di respirare l’eccessiva quantità di ossigeno dell’aria. Il desiderio di eliminare senza residui l’opacità del vivere e il sistema di fedi e di credenze che regge la maggior parte della nostra esistenza, ci sarebbe fatale. Ma non tutte le fedi sono uguali, non tutte sono ugualmente plausibili, non tutte pretendono di possedere il monopolio della verità e della salvezza. Questo non impedisce, sul piano personale e su quello politico, un incontro fruttuoso tra prospettive diverse, in vista di un arricchimento della stessa democrazia. Alcune domande i laici dovrebbero però rivolgersi: l’attuale forza di attrazione delle chiese non deriva in parte anche dalla debolezza delle alternative di ampio respiro che il pensiero politico ed etico aconfessionale riesce a formulare dopo la caduta degli ambiziosi progetti moderni di creazione di società nuove che avrebbero dovuto necessariamente sorgere in un indeterminato futuro?

Repubblica 20.4.13
Se anche la fede è “liquida”
di Enzo Bianchi

«È necessario che chiunque abiti una fede non pensi di possedere la verità, e per giunta assoluta». Questo scriveva il 24 aprile 2010 Umberto Galimberti. Concordo con queste parole: è assolutamente insensato pensare di possedere la verità.
Per l’autentica fede cristiana, infatti, quella consegnataci dalle Scritture e dalla grande Tradizione, la verità è una persona, Gesù Cristo (cf. Gv 14,6), colui che ha narrato Dio (exeghésato: Gv 1,18): è una verità che sempre ci precede; una verità che, se mai, ci possiede, ci chiama fuori da noi stessi aprendoci al dialogo con tutti gli uomini e le donne in ricerca. Anche i credenti si avvicinano dunque alla verità in un modo sempre limitato, relativo, provvisorio, in attesa che la verità stessa si manifesti pienamente con la venuta gloriosa del Signore. E nel frattempo, nell’oggi, come cercare insieme la verità, credenti e non credenti? Spesso si parla sbrigativamente di “non credenti”, ma in realtà dovremmo essere più cauti. Ci sono certamente uomini e donne che affermano di non credere in Dio, ma non per questo è negata loro la possibilità di cercare la verità e di avere quella fiducia-fede, senza la quale non è possibile alcun cammino di umanizzazione. Potremmo dirli “altrimenti credenti”. Tra queste persone ci sono atei i quali professano che Dio non esiste; ci sono agnostici che confessano di non sapere, di non poter affermare né negare l’esistenza di Dio; ci sono indifferenti; ci sono infine i nichilisti per i quali il nulla si impone a tal punto che non si vedono elementi in grado di motivare gli uomini. Insomma, la realtà dei cosiddetti “non credenti” è variegata, non sempre chiara, sovente “liquida”.
Spesso la tentazione dei credenti è ancora quella di condannare i non credenti, giudicandoli in modo manicheo: stanno fuori della chiesa e, non avendo Dio come fondamento della loro vita, sono incapaci di etica.
«Senza la fede in Dio tutto è permesso», si ripete citando quella che in Fëdor Dostoevskij in realtà è una domanda senza risposta. In verità la frontiera tra credenti e non credenti non è una frontiera netta, né sicura. Non c’è la fede da una parte e l’assenza di fede dall’altra, perché il credere è costitutivo dell’esistenza allo stesso titolo della ragione o del linguaggio. Detto questo, chiediamoci: quante volte dobbiamo constatare una maggior vicinanza con “altrimenti credenti”, piuttosto che con credenti che ci troviamo accanto nell’assemblea cristiana? Le frontiere talora passano non tra chi ha fede in Dio e chi non ce l’ha, ma tra chi ha una fede umile e chi ha una fede arrogante; tra chi crede nell’umanità e chi di essa dispera; tra chi parla di Dio come se l’avesse salutato un minuto prima e chi lo confessa senza troppa sicurezza e senza garanzie; tra chi pensa di possedere la verità e chi si sente sempre pellegrino verso di essa.
Dobbiamo però farci anche un’altra domanda: l’incredulità in Dio che molti dichiarano non è forse presente anche in chi si dice credente? In verità fede e incredulità abitano simultaneamente nel cuore del credente, lo attraversano, sicché una frontiera passa anche dentro di lui: quella stessa frontiera che si vorrebbe come linea di separazione tra gli uomini, in modo da scacciare dal credente il problema di avere in sé l’incredulità come propria inquilina. Fede e ricerca non si escludono a vicenda. L’incertezza, anche il dubbio possono coabitare con la fede. Fede e incredulità si intersecano nelle nostre profondità, e vengono giorni, soprattutto nell’anzianità, in cui si spera di essere credenti e si prega per non essere privati della fede. Come dunque un non credente in Dio potrà credere? Dove vuole approdare questo bisogno di credere e di cercare la verità che riposa in ogni uomo? Qui le parole difettano, ad alcuni possono anche sembrare usurate, eppure sono parole che continuano a essere presenti sulla bocca degli uomini con convinzione e necessità: non ne abbiamo altre. E allora possiamo affermare che per tutti occorre credere all’amore, credere che è possibile essere amati e donare amore agli altri.