domenica 21 aprile 2013

l’Unità 21.4.13
Con Bersani via il gruppo dirigente
Si dimette l’intera segreteria, in settimana la Direzione deciderà di anticipare le assise
Congresso e incubo scissione
I Giovani turchi polemici con Barca
Letta verso Palazzo Chigi Governo del presidente
Pd, incubo scissione


l’Unità 21.4.13
Fabrizio Barca:
«Pd, quanti errori. Ma stiamo uniti»
«Ho criticato il no a Rodotà e Bonino, sbagliato chiedere a Napolitano questo gesto di generosità. No a Vendola, il Pd ancora un punto di riferimento»
di Andrea Carugati


Fabrizio Barca, ministro uscente della Coesione territoriale e neo iscritto al Pd, ieri è stato protagonista della giornata che ha portato alla rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale. Con un tweet in cui definiva «incomprensibile» la scelta del Pd di non appoggiare Stefano Rodotà e di non proporre Emma Bonino.
Non le è parso il suo un intervento tardivo, quando ormai i giochi erano fatti? «Ho ritenuto di scegliere una finestra temporale molto stretta dopo lunga meditazione, per evitare che un ministro di un governo di emergenza potesse in alcun modo interferire nelle decisioni. Al contempo, ho voluto parlare prima di sapere se la straordinarie e inedite pressioni sul presidente Napolitano affinché facesse ciò che egli aveva chiesto che non avvenisse, avessero una risposta. Un attimo prima sarebbe stata un’interferenza, un attimo dopo un giudizio. Ma volevo dire che il Pd aveva in mano tre carte straordinarie, Prodi, Bonino e Rodotà, per evitare di dover chiedere questo passo a Napolitano. La generosità del presidente nulla toglie alla gravità della richiesta che gli è stata fatta. E mi chiedo: perché il Pd è arrivato a questo?».
In passato, sostengono alcuni osservatori, le votazioni per il Colle si sono trascinate molto più a lungo, anche in presenza di forti tensioni sociali. Forse non c’era tutta questa fretta di chiudere alla sesta votazione...
«Sono perfettamente d’accordo. Il Pd poteva ben presidiare altre votazioni, come è avvenuto anche in momenti ben più drammatici di questo. Ma allora il partito di maggioranza relativa, la Dc, era tenuto insieme da convincimenti e da una volontà così profonda di stare insieme da riassorbire le tensioni e i risentimenti. Evidentemente oggi quella colla non viene avvertita dal gruppo dirigente». Dunque il Pd avrebbe dovuto muoversi diversamente?
«Constato che il gruppo dirigente ha ritenuto di non poter reggere oltre. Eppure Prodi, Rodotà e Bonino rappresentano le tre grandi culture del Pd, quella liberale, quella socialista e quella cristiano sociale. Perché non si trovata un’intesa su uno di questi nomi? Evidentemente hanno prevalso i personalismi, come si è visto nell’irraccontabile voto su Prodi».
Su Rodotà il Pd ha ritenuto di non poter essere subalterno ai grillini. Condivide? «Trovo politicamente straordinario che un movimento di opposizione come il 5 stelle si sia ritrovato su tre figure importantissime dell’area democratica. E non si è incassato su uno di questi tre nomi il risultato? In qualunque Paese davanti a una situazione analoga i dirigenti avrebbero deciso di convergere a razzo mettendo in difficoltà l’avversario politico». Cosa succederà adesso al Pd? Vede rischi di scissione?
«Cercherei di ripartire in positivo. Il Pd ha le carte in regola per essere ancora un punto di riferimento, le sue culture fondative sono forti e apprezzate dal Paese e anche da un movimento di opposizione come i 5 stelle. Il Pd può ripartire da qui, ha le carte dentro di sé, nella convergenza delle sue grandi culture, ogni divisione sarebbe insensata».
Bersani, dopo aver tentato il dialogo con i grillini per settimane, ha dunque sbagliato nel non credere fino in fondo a quella ipotesi?
«Sarebbe davvero ingiusto, auto-assolutorio, mettere in carico a Bersani le responsabilità che sono di un vasto gruppo dirigente che non ha saputo essere orgoglioso e forte di questa triade di nomi».
Che critica muove invece ai Cinque stelle? Parlo delle grida di Grillo al golpe. «Certamente sono inquietanti. Ma quel movimento ha intercettato un ribellismo e una voglia di rottura di cui ora amplifica la voce. Non dobbiamo stupirci». Insisto: che rischi corre ora il Pd? «Bisogna essere consapevoli dei rischi per evitarli. Una separazione sarebbe insensata, una iattura».
Il Pd sopravviverà al varo di un governo di larghe intese?
«Il partito deve trovare la forza di separare una soluzione di governo, qualunque essa sia, dalla riflessione sulla propria configurazione, sul gruppo dirigente e sulla sua linea di medio-termine».
Oggi Vendola con il suo no alla larghe intese ha lanciato la costituente di una nuova forza di sinistra.
«Nelle prossime settimane dovremo avere un minimo di leggerezza, fare ogni sforzo per non sovrapporre gli eventi correnti alla prospettiva di medio termine. È possibile che si abbiano voti differenziati, che non dovranno per forza influire con l’assetto futuro dei partiti. In fondo Sel e Pd si sono già divisi durante il governo Monti, e poi si sono ritrovati. Ora il punto
è maturare un progetto per l’Italia per i prossimi 10-15 anni, un ragionamento che deve restare separato dalle vicende di un possibile nuovo governo di emergenza nazionale. Il Pd deve curare se stesso, sarebbe suicida far dipendere il nostro destino e le prospettive di ricostruzione dalle vicende dei prossimi giorni». Sel però lancia una nuova sinistra.
«Io sono iscritto al Pd e non cambio idea, anche perché non mi ha sorpreso la sbandata del gruppo dirigente. Anzi, in quello che è successo vedo con amarezza la conferma di alcuni dei sintomi che ho evidenziato nel mio documento: un partito che non discute dei propri convincimenti, che non ha un legame profondo e quotidiano con il territorio, dove i nomi sono slegati dai disegni e c’è un distacco rispetto ai giovani».
Ha visto in queste ore uno scontro generazionale nel Pd?
«È come se i giovani e gli anziani non capiscano più quelli della generazione di mezzo, e cioè quelli che hanno il maggiore potere e sono invischiati in meccanismi rancorosi. Vedo una fortissima distanza tra tanti ottimi e giovani amministratori locali e il gruppo dirigente nazionale» Come valuta l’atteggiamento di Renzi sulla partita Quirinale, l’immediata archiviazione del nome di Prodi?
«Una reazione nervosa. Spero che la mia piccola adesione al Pd non abbia contribuito a questo, perché abbiamo il dovere di essere molto sereni. Nei prossimi giorni una serie di giovani sindaci e governatori potrà dare un segnale forte sulla vitalità del Pd. Nel breve termine 4-5 di questi amministratori, che appartengono a tutte le culture del Pd, saranno determinanti nel gestire la fase di transizione, trasmettendo un senso di sicurezza agli iscritti».
E in una prospettiva di lungo termine?
«Serve un confronto forte sui principi che ci spingono a stare insieme, sull’Italia che vogliamo per i prossimi 10 anni, sulle politiche per arrivarci e sulla forma partito. Le agende non si improvvisano».
Ci sarà una sua candidatura al congresso?
«Vorrei dare un contributo da iscritto girando il Paese, la reazione più importante al mio documento sono stati gli inviti da decine di circoli per discutere. Nei grandi partiti del passato non c’era questa connessione tra l’avvio di una riflessione e l’ambizione alla guida del partito. E non ci deve essere neppure oggi».

l’Unità 21.4.13
Un partito fermo al Novecento
di Michele Ciliberto


LA BATTAGLIA PER LA ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ha finalmente trovato una soluzione. Bene. Non è però di questo che intendo parlare. Voglio provare a riflettere sulla situazione in cui è precipitato il Pd, con tutti gli effetti negativi che possono derivarne, oltre che per sé medesimo, per il nostro Paese. Siamo in un pantano, ma viene da lontano: tutto si può dire, infatti, tranne che si tratti di una sorpresa, anche se ciò che è accaduto è andato oltre il prevedibile.
Il Pd, questo è il punto da cui occorre partire, è stato un progetto assai innovativo oggettivamente: un partito capace di raccogliere il meglio della tradizione riformista italiana nelle sue varie articolazioni e capace, al tempo stesso, di rilanciarle e di andare al di là sia del cattolicesimo sociale che della tradizione socialdemocratica, ponendosi nell'orizzonte del XX secolo. Un partito a vocazione maggioritaria, impegnato nella costruzione di un moderno bipolarismo, capace di dare nuova forza alle istituzioni rappresentative della democrazia italiana. E un partito in grado, per far questo, di apprezzare e valorizzare i nuovi «legami» personali, sociali, economici che si stanno sviluppando in modo impetuoso tra gli individui e tra gli individui e la natura, ponendo all'ordine del giorno la questione dei «nuovi beni». Mentre ha acquistato una urgenza mai vista il problema del limite delle risorse naturali, della stessa sopravvivenza della terra. In breve: un partito nuovo per un «mondo nuovo».
Perché questo progetto non ha funzionato? Mi esprimo in modo brutale e me ne scuso: perché, rispetto al passato, è cambiata la «forma» ma è rimasto intatto il «contenuto». Mentre sarebbe stato necessario un profondo rinnovamento di culture politiche, di dirigenti, di strutture organizzative si sono imposte logiche corporative e di ceto, facendo il vuoto intorno e chiudendosi ad ogni reale rapporto con il mondo, con la vita. E questo nonostante l'enfasi posta sulle primarie, lo strumento individuato per ristabilire un nuovo rapporto tra governanti e governanti. Già discutibili in sé esse, come si è visto in occasione della costruzione delle ultime liste elettorali, sono diventate il terreno di una guerra sanguinosa di carattere essenzialmente «generazionale», producendo un ricambio in larga parte tutto interno al ceto politico. Con una conseguenza paradossale: mentre si candidava a governare il paese, il Pd si è separato da strati importanti della società italiana, riproponendo modalità proprie della vecchia cultura politica. sotterrando la originaria vocazione maggioritaria e la prospettiva bipolare, chiudendosi nei confini di una tradizionale politica delle alleanze, tipica della «guerra di posizione» novecentesca.
Chiuso in questo recinto, il Pd è diventato una sorta di monade fino ad implodere. Non più «partito di massa», non è riuscito a diventare qualcosa di nuovo o di diverso. I risultati di tutto questo sono infatti sotto gli occhi di tutti. Lo dico di passaggio: sono tutti fenomeni che hanno contribuito ad espandere le basi del consenso di Grillo, consentendogli di porsi al centro della vita politica italiana. Ma non intendo insistere sul passato. Voglio porre invece un'altra domanda: è finita la necessità nazionale di un partito come il Pd? C'è ancora bisogno di un moderno partito riformatore, in grado di guidare la nazione italiana nel nuovo millennio mantenendo la nostra identità anche nei futuri Stati uniti di Europa?
Non c'è alcun dubbio su questa necessità e su questo bisogno. E voglio ribadirlo proprio mentre siamo nella palude: l'Italia senza un partito di questo genere capace di rappresentare i bisogni dei ceti popolari e di generare e organizzare nuovi legami sociali, politici, culturali non può avere futuro. Rischia anche di finire come stato nazionale unitario. E se il Pd non riesce a diventarlo sarà spazzato via, e un altro partito capace di rispondere a queste domande e a questi bisogni nascerà al suo posto.
Come hanno confermato le amare vicende di questi giorni, di ciò non c'è però consapevolezza. Solo chiacchiere, retorica. Proprio quando sarebbe necessaria una grande politica, sono prevalsi il piccolo cabotaggio e lo strapotere di correnti che si muovono senza alcun vincolo di reciproca condivisione, mentre si sfasciano sia il Paese che il Pd.
Quelli che dovrebbero maggiormente preoccuparsi del futuro i cosiddetti giovani invece di comprendere quale è la effettiva posta in gioco, in questi giorni tragici se la sono presa con i vecchi. Basterebbe un mediocre epigono di Balzac per descrivere questa fauna, nuova e antichissima: la politica è stata sostituita da dinamiche «cetuali», strettamente corporative, che si affannano a nobilitare la lotta per il potere personale nei termini di una lotta tra generazioni (e dico questo senza togliere importanza al problema del necessario ricambio generazionale).
In questa situazione o si riafferra il progetto originario del Pd ricostituendo anche un principio di solidarietà o il Pd è avviato a una fine certa. Oppure diventa una cosa assai diversa da quello che si proponeva originariamente di essere. Non sarebbe, di per sé, una novità: i «corpi misti», e quindi anche i partiti, sono destinati a sparire. Ce lo ha spiegato qualche secolo fa Machiavelli.
Ma le domande e i bisogni da cui i partiti nascono non vengono meno finché non sono soddisfatte e trovano risposte. E se quella vecchia non funziona, prima o dopo trovano nuove «forme» in cui riconoscersi ed organizzarsi. Negli ultimi due secoli si chiamano partiti: sono strutture transitorie. Nascono e muoiono. È in questo ciclo che si inscrive la nascita (e la possibile morte) del Pd.

l’Unità 21.4.13
L’errore di una fusione a freddo
di Emanuele Macaluso


GIORGIO NAPOLITANO ANCORA UNA VOLTA HA EVITATO UNA CRISI DI DIMENSIONI TALI DA METTERE IN DISCUSSIONE L'ASSETTO DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA e il ruolo del nostro Paese in Europa. Il rischio è stato avvertito in tutte le cancellerie. Per servire la nazione il Presidente è stato costretto dai fatti a sottoporsi ad un impegno che forse va oltre le sue forze e, certo, le sue più radicate convinzioni. Questa realtà rende più evidente la crisi profonda del sistema politico. E dei partiti.
Quel che preoccupa è il crollo del Pd su cui occorre ragionare con serenità e serietà. Come è noto nei giorni in cui nasceva il Pd pubblicai un pamphlet cui diedi un titolo provocatorio: «Al Capolinea». Infatti prima che nascesse il Pd Eugenio Scalfari aveva scritto un articolo per dire che Margherita e Ds erano al capolinea e suggeriva la loro fusione.
La mia tesi era invece che due debolezze non fanno una forza. Scalfari aveva ragione sullo stato dei due partiti ma nessuno volle esaminare le ragioni per cui erano al capolinea. Solo dopo un grande dibattito sul tema si poteva vedere il da farsi. Non fu così. Si preferì una fusione a freddo e si pensò soprattutto come andare al governo.
Cosa, via via diventava il Pd, come vivevano veramente le realtà locali, come si selezionava il quadro dirigente, come si accedeva alla guida delle istituzioni locali, non solo in Campania, in Sicilia o in Calabria, ma anche al Nord, non interessava a nessuno. L'invenzione delle primarie sembrò a tutti che risolvesse il problema della selezione del quadro dirigente.
La lotta politica non ha mai riguardato scelte sociali e riformiste di fondo su cui costruire identità politiche. La «rottamazione», il «nuovismo» senza contenuti nuovi, e un «sinistrismo» tutto giuocato sulla concorrenza per piazzarsi nelle istituzioni con l'aureola del «cambiamento» si sono scongiurate le correnti e sono state prodotte le «cordate».
Attenzione, io non nego che in questi anni tanti giovani abbiano aderito al Pd per una vocazione politica e un impegno disinteressato, ma non hanno trovato un partito con una comune base politico-culturale e regole di comportamento tali da impegnarli sul terreno della lotta sociale e culturale.
Il Pd, come abbiamo visto, è stato un contenitore di tante cose e tante identità ed è giustamente apparso – e lo era una forza politica diversa dal partito personale e padronale di Berlusconi. Il quale però, ha condizionato i comportamenti di tutto e di tutti. Il grillismo si spiega come fenomeno consustanziale al berlusconismo e alla caduta delle passioni politiche che animano la sinistra.
È nato così un partito con due padroni, autoritario, che sa usare mezzi di comunicazione e di eccitazione moderni, intrecciati con pratiche politiche antiche, come i comizi e certi slogan che ricordano la sinistra antica. In questo contesto il partito personale di Berlusconi o di Grillo e Casaleggio , senza democrazia interna, sembra godano buona salute; il dD che non ha padroni e ha una vita democratica è in crisi. Al di là degli errori di conduzione che pure ci sono stati, io penso che un partito della sinistra o se volete di centrosinistra non può reggere se non ha una chiara base comune politico-culturale (il Pdnon l'ha) e se non ha una vita democratica fondata su regole che consentono la libera espressione di tutti e la capacità di esprimere un pensiero unitario, formatosi attraverso la dialettica tra maggioranza e minoranza.
Nel Pd come abbiamo visto sembra che non ci siano regole. Faccio degli esempi che a me sembrano clamorosi. Dopo la decisione del gruppo parlamentare del Pd, assunta a maggioranza, di votare Marini, Orfini membro della segreteria, ha dichiarato che non l'avrebbe votato; l'onorevole Moretti portavoce del Partito ha dichiarato che avrebbe votato scheda bianca, e il candidato a Sindaco di Roma (dico Roma), il professor Marino, ha detto che avrebbe votato il candidato di Grillo e non quello del Pd.
Poi c'è stato Renzi il quale ha una corrente organizzata e i parlamentari che lo seguano , compattamente, non hanno votato Marini, così come aveva dichiarato il Capo-corrente.
Osservo: se il Pd deve organizzarsi per correnti perché non farlo secondo regole che valgono per tutti? Quel che poi abbiamo visto per la candidatura di Prodi è il massimo della reticenza della ipocrisia e dell'anarchia: applausi e consensi nel gruppo e cento voti in meno in parlamento. Questo quadro ci dice che il nodo è politico. Il Pd così com'è non regge perché, ripeto, non ha una base politica–culturale né per l'oggi né, come orizzonte, per il domani, il futuro della società.
E conseguentemente non ha regole. Bersani e Bindi si sono dimessi anche perché i caratteri che ha assunto la crisi ha fatto emergere contraddizioni che oggi appaiono insolubili. Si apra un dibattito reale sul futuro della sinistra e del centrosinistra che non si chiuda entro le mura del Pd. E non si abbia paura di superare il Pd, il quale può implodere se la sua crisi assume caratteri distruttivi e invece può offrire una occasione per dare alla sinistra la possibilità di riorganizzarsi in modo da darle il ruolo che merita in Italia e nell'ambito delle forze che si richiamano al Socialismo Europeo.
P.S.
Il fatto che il Sel di Vendola non abbia votato Napolitano ma il candidato di Grillo può essere una prima occasione per chiarire cosa può e deve essere una sinistra italiana ed europea.

l’Unità 21.4.13
Quell’idea di casta che abbiamo introiettato anche noi
di Massimo Adinolfi


UN PARTITO HA TRE PUNTI DI COAGULO: LA CULTURA POLITICA, L’ORGANIZZAZIONE, IL GRUPPO DIRIGENTE. Sul piano della cultura politica, è evidente che il Partito democratico non è riuscito a trovare il giusto amalgama. Erede dell’Ulivo degli anni Novanta, cioè negli anni in cui nel mondo si cercava una terza via, diversa tanto dalle varie declinazioni della socialdemocrazia quanto dalle varianti del liberismo, non è mai riuscito veramente ad imboccarla, ma quel che è peggio non ha mai saputo far altro che cercarla. Con la crisi quella strada si è rivelata inadeguata, e il Pd non ha più saputo dove andare.
Sul piano dell’organizzazione il Pd non è riuscito ad andare contro vento. Il fatto è che quel vento ne aveva accompagnato i primi passi, da Tangentopoli al partito liquido. Quando con la segreteria di Bersani, si è provato ad invertire la rotta, il vento ha preso a soffiare di nuovo, più impetuoso di prima.
Sul piano infine degli uomini, il Partito democratico un gruppo dirigente ce l’aveva. Era forse l’unica cosa che aveva, avendo deciso per troppo tempo di assecondare supinamente il corso degli eventi sul piano della cultura politica come su quello dell’organizzazione, senza mai sciogliere definitivamente gli ormeggi ma senza neanche mai piantarli saldamente sul fondo. Però, siccome ce l’aveva, ha deciso che doveva buttare via pure quello.
Quel gruppo dirigente è divenuto la «casta» non solo agli occhi di avversari politici interessati il che ci può anche stare: fa parte del gioco ma anche agli occhi degli stessi scritti, militanti e simpatizzanti del Pd. Non è un fenomeno facilmente spiegabile, perché somiglia troppo a un interruzione volontaria di gravidanza, compiuta però quando il bambino era già nato, e bisognava invece farlo crescere. Somiglia troppo a uno sbandamento ideale e materiale, a una perdita di ragioni costitutive, di orgoglio di partito, di appartenenza, riconoscimento e persino riconoscenza. Nulla del genere si trova ormai nella base del Partito democratico.
A lungo l’Italia ha avuto, in tutte le formazioni, uomini politici esperti, eletti legislatura dopo legislatura, votati Parlamento dopo Parlamento, senza mai considerare l’appartenenza partitica o l’esperienza politica una macchia, una vergogna, una pecca inemendabile.
Poi qualcosa si è spezzato. Si è spezzato però più gravemente nella parte sinistra di questo Paese: nessuno infatti riesce a fotografare nella casta non dirò un Berlusconi, che sta lì ormai da vent’anni e tuttavia vuole ancora apparire fresco e liftato come una rosa di plastica, ma neppure un Cicchitto o, che so, un Brunetta, che proprio politici di primo pelo non sono. Eppure va così, che a sinistra nessuno a un certo punto ha creduto che solidità, continuità, durevolezza fossero pregi, non difetti.
Ora si osservi il paradosso: tutta la partita sulla presidenza della Repubblica il culmine, l’atto finale e supremo della seconda Repubblica e, forse, anche del Pd – si è giocata tra candidati che potevano vantare curricola lunghissimi e onorevolissimi, com’è peraltro giusto che sia: non solo il rieletto presidente, ma pure i Prodi, i Marini e i Rodotà, tutti hanno alle loro spalle una vicenda politica le cui radici affondano per l’uno negli anni Cinquanta, per gli altri nei Sessanta o nei Settanta.
Ma il più esecrabile di tutti, il più castale di tutti, non è mai stato fra costoro: era a spasso col cane, come ha detto con un volgare sgambetto Francesco Merlo. Era Massimo D’Alema, ed è a lui che viene addossata ogni responsabilità. A lui, cioè al più giovane di tutti, che ieri di anni ne compiva solo sessantaquattro. A lui perché, diciamolo, è quel che resta di una storia grande, grande non perché gloriosa ma perché robusta, solida, strutturata: le caratteristiche di cui un tempo si andava orgogliosi perché facevano un partito e la sua classe dirigente. E lo stesso si potrebbe dire per quell’altro funzionario di partito che è stato Veltroni, andato tuttavia in pensione con almeno vent’anni di anticipo rispetto ai giovanotti che si sono contesi il campo.
Il punto non è ovviamente il destino personale di questo o di quello, e neppure la rottamazione: la quale è persino salutare, quando si forma grazie ad esso un nuovo gruppo dirigente. Il punto è che per dirigere bisogna durare. E i requisiti per durare sono due, non uno soltanto: soggettivamente, il valore, ma oggettivamente l’idea, la convinzione che nessuna campagna anti-casta deve scuotere, che durare è cosa buona e giusta.
Poi, se si vuole la Rete, la Rete va bene per chiamare la gente in piazza Montecitorio e fare lì la piazza Tahrir degli italiani, se ci si crede e non si vogliono scomodare più lugubri paragoni. Ma se si vuole tenere in piedi un partito, lo si sappia, almeno: ci vogliono dirigenti, legislature in quantità, e pure le caste.

l’Unità 21.4.13
Ansia di vincere senza identità
Sono anni che il Pd pur di sfidare il Diavolo accoglie dentro di sé troppe anime
di Maurizio Di Giovanni


CHISSÀ SE QUALCUNO, TRA I FRENETICI PARLAMENTARI CHE SI AFFANNANO nei corridoi dei palazzi del potere, si pone il problema del vecchio elettore. Se negli intervalli tra colloqui e incontri, nella costruzione di questo spettacolare Risiko sulla pelle del Paese, anche uno soltanto tra questi signori si chieda cosa stia pensando ora un tizio qualsiasi, che vorrebbe essere rappresentato da qualcuno, da qualche parte, avendolo votato.
Perché la dolorosa impressione dal basso è che questo fantomatico eletto, deputato o senatore, neofita o vecchio habituè di Montecitorio, che voglia confrontare la propria presenza nel Palazzo con chi ce l’ha mandato (absit injuria verbis), non esista.
All’indomani dell’esplosione del Partito democratico appare chiaro, nelle strade e nei bar, che appunto il partito probabilmente non esisteva più da tempo, ammesso e non concesso che sia mai esistito. Che di fronte all’evidenza dell’ognuno per sé, della fuga dal transatlantico che affonda mentre l’orchestrina dei portavoce continua indomita a suonare, nessuno si chieda che spettacolo si stia fornendo al vecchio elettore. Non ai mercati, non alle diplomazie estere; non ai nuovi giacobini grillini o all’Unione Europea; non agli organi di informazione o alla Merkel: ma al proprio, vecchio elettore.
Chiunque abbia fatto sport o anche solo giocato a briscola lo sa bene: l’ansia di vincere è il miglior modo di perdere. L’ansia di vincere snatura, cambia, perverte; l’ansia di vincere ti fa fare cose che mai avresti fatto, e quindi diventi prevedibile e inutile, tentennante e insicuro: tutti elementi costitutivi della sconfitta. Sono anni che questo partito, per la semplice ragione di voler combattere il Diavolo con le armi più potenti possibili, allarga i propri confini cercando di accogliere al proprio interno il maggior numero di anime. Anni passati a diventare una Balena Rosa, diluendo il proprio colore e assumendo la dimensione del peggiore degli obesi.
Il vecchio elettore, oggi, dal proprio malinconico osservatorio davanti alla tv, mentre guarda avvicendarsi i volti imbarazzati e gli occhi sfuggenti di quelli che riteneva i propri leaders, si chiede quando sia cessata l’effettiva rappresentanza di questo partito: quando sia stata effettuata la definitiva cesura con l’idea in cui, con semplicità, egli si riconosceva.
Dov’è l’anima?, si chiede il vecchio elettore. Dov’è andata a finire la mia anima? Che ne avete fatto? Il vecchio elettore credeva di potersi riconoscere in pochi, semplici assunti. Voleva abitare in un luogo laico, dove ci fosse una forte sensibilità sociale; dove ci si fermasse per sostenere i deboli; dove non si stringessero alleanze strategiche con chi la pensa in maniera opposta; un luogo che fosse garantista, ma che sapesse punire i colpevoli; un luogo lontano dalle stanze segrete della finanza e dai grandi interessi del denaro; un luogo che fosse anzitutto sindacale, che svolgesse un ruolo di protezione dei lavoratori. Il partito dei lavoratori, libero da condizionamenti di natura religiosa o economica.
Se fosse ascoltato, forse il vecchio elettore chiederebbe che fine abbia fatto la casa in cui credeva di abitare. E forse vorrebbe, se potesse parlare, che il cambiamento ormai evidentemente necessario fosse in quella direzione, cioè nella ricostruzione della vecchia identità. Perché il rischio peggiore, oggi, è questo: che l’ansia di vincere, il motivo vero di tutte le sconfitte, porti alla costruzione di qualcosa che non assomigli nemmeno lontanamente a quello che ha sempre caratterizzato l’anima della sinistra. Che ci si allontani ancora di più, forse irreparabilmente, da se stessi.
Perché quello che conta non è una faccia nuova, sorridente e pulita; non parole forti e battute brillanti; non allegria e simpatia. Conta quello che si dice. Chissà se è rimasto qualcuno, nell’era dello streaming e delle quirinarie, che guarda agli argomenti e non alle facezie, alle metafore ardite e al biancore delle dentature.
Altrimenti, in un futuro magari prossimo, si potrà anche vincere, finalmente; ma forse allora rimarrà solo il vecchio elettore, a chiedersi chi in realtà abbia vinto.

l’Unità 21.4.13
Il Pd riapra il cantiere e si dica la verità
di Gianni Cuperlo


BUON LAVORO AL PRESIDENTE NAPOLITANO. IL SUO È STATO UN SACRIFICIO CHE MERITA RISPETTO E RICONOSCENZA. Ha un’impresa davanti ma è uomo di esperienza, saggezza, e sarà in grado di affrontarla. Con la sua riconferma si chiude una settimana drammatica per il Paese. Adesso la testa e le energie devono volgersi tutte a una crisi che distrugge vite e sicurezze e sarà lì il banco di prova per il Parlamento più rinnovato della storia. È tutt’altro che facile. Anche perché, se guardiamo al Pd, l’edificio appare più che scosso e ci chiede di riaprire il cantiere, rimetterci all’opera, ricostruire. Davanti a quanto è accaduto l’istinto a mettersi al riparo può indurre a puntare il dito pensando di schiodare così il bene dal male, o il buono dal marcio. Temo non sia quel che serve e non aiuta a capire da dove siamo partiti e dove siamo giunti. 150 voti sono mancati a Franco Marini, 100 a Romano Prodi. Non lo meritavano due figure di quello spessore e non lo meritava il Pd. Sul primo nome, all’atto dell’annuncio, la reazione del nostro mondo è stata univoca. Semplicemente ci hanno detto «non fatelo».
L’onda è cresciuta rapida, altissima. Chi ha scritto, implorato, minacciato. Erano nomi e cognomi, segretari dei circoli, dirigenti, amministratori. E migliaia di persone comuni. Non si è trattato di un complotto. Era un sentimento, che è cosa diversa. In aggiunta rompevamo la coalizione annullando in premessa l’idea di una larga intesa. Personalmente non rinnego il tentativo di condividere con l’altra parte una figura di garanzia. Era una linea spiegata da ragioni di principio e non solo. E allora prima o poi sarà giusto capire come sia accaduto che la responsabilità verso le istituzioni – l’A-B-C di una democrazia – sia stata intesa dai nostri come un cedimento insopportabile. Forse davvero ci sono due Italie condannate a convivere, dove l’una non tollera l’altra. È un riflesso che suggestiona i rapporti tra schieramenti, ma pure il giudizio sulle leadership del proprio campo. C’è in questo una punta d’irrazionale perché – diciamoci la verità – chi poteva credere che Bersani cercasse il dialogo sul Quirinale per coprire un inguacchio coi suoi avversari? Quel pensiero non esisteva e chiunque lo conosca sa che mai avrebbe potuto sfiorarlo.
Eppure alla sola ipotesi che un galantuomo qual è Marini salisse al Colle anche coi voti della destra la reazione è stata un senso di perdizione. Fa riflettere. Vuol dire che davvero milioni di persone schierate di qua vivono ogni contatto con l’altra riva del fiume come svendita dell’anima. Certo, il voto ha trasmesso una domanda angosciata di rottura con volti e culture esaurite e il Pd, se vuole rilanciarsi, dovrà scoprire radicalità sino a qui mancate. Ma penso pure che tra i nostri compiti ci sia dare sbocco a quella transizione che ci ha presi ragazzi e ancora non si è chiusa. Ora, tornando ai voti mancati, si è trattato di fatti enormi che hanno sommato cose diverse. Su Marini il dissenso si è palesato, poi l’assemblea ha deliberato una linea. A seguire, nel voto, in molti hanno rivendicato la bontà dell’agire a modo loro. L’esito sono state le 150 schede di meno. Su Prodi l’unanimità dei gruppi si è rivelata di forma. Poi in un centinaio si sono sottratti all’indicazione. Vedo anch’io le diversità dei momenti, ma entrambi testimoniano la crisi radicale – direi, la scomparsa – del soggetto partito per come l’abbiamo conosciuto. Nell’un caso con una diaspora rivendicata, nell’altro dissimulata al riparo del seggio. La sostanza però è una scomposizione della forza poderosa che abbiamo portato alle Camere. E di questa ricaduta sciagurata siamo responsabili tutti. Lo riscrivo: tutti. Quelli che non hanno governato un processo certamente complicato ma che pure, in passato, era stato affrontato con altro metodo. Quelli che «noi le cose le diciamo in faccia», il che in sé non risolve nulla se poi quel dire si traduce nel posporre la strategia democraticamente assunta dal partito alla linea compattamente vissuta di una corrente. Quelli che hanno acclamato Prodi e votato un’altra cosa, per sgarbo, cinismo o convinzione. Quelli che ritengono di aver fatto il giusto ascoltando l’urlo di dolore della «loro» base contro la miopia dei «loro» capi. Siamo tutti, ciascuno per la sua parte, responsabili. E chi se ne tira fuori, magari alzando la voce, forse manca di rispetto e umiltà al resto. In questo guazzabuglio vedo tre nodi. Il primo è capire cos’ha indotto il dissolversi della trama unitaria di un grande partito. Perché, se lasciamo da parte la morale, quelle 250 schede diverse sono il termometro di un collasso politico e segnano una perdita di senso della strategia. Forse ne dovremo parlare. E capire perché nell’arco di una notte siamo passati da una linea di condivisione col centrodestra per la scelta di una figura di garanzia a una visione di segno diverso. C’è stato oppure no un balzo logico e concettuale consumato in un pugno di ore? E se c’è stato mi chiedo: ma un grande partito, soprattutto su snodi fondamentali per l’equilibrio della democrazia – l’assetto dello Stato e il dettato costituzionale – può coltivare un indirizzo così oscillante? E può cambiare impianto senza chiarirne i motivi o abbozzare una discussione?
Il secondo nodo riguarda il futuro del Pd. Discuteremo, anche alla luce delle dimissioni di Bersani che (come sopra) non assolvono ciascuno di noi per la propria quota di responsabilità. Dico solo, facciamola non presto ma subito questa discussione. Convochiamo la direzione a giorni. E poi le assemblee cittadine e quelle regionali, e i circoli. Presentiamoci lì, ascoltiamo le parole, le critiche, e se verranno i fischi. Capiamo come si può e si deve ripartire. Il congresso va anticipato perché è il momento di nuove scelte. L’ultimo nodo è il governo che verrà. Bersani ha detto che nessuno scenario è stato vincolato all’atto di generosità del Presidente. È un bene. Noi sin qui abbiamo seguito una linea e anche di questo dovremo discutere con pochi punti fermi: farci carico dell’interesse di fondo del Paese, ascoltare il nostro popolo che poi è il popolo di chi la vita la soffre di più, difendere lo spirito della coalizione. Se i segni che la società ci ha spedito in questi mesi hanno un valore, è difficile smembrare questi tre bisogni e pensare che il bene dell’Italia passi dalla frattura col sentire più profondo di milioni di donne e uomini. La crisi è cinica, brutale, e servono soluzioni ora. Servono risorse per chi deve mangiare e buste paga per chi cammina sul filo. Ma attenzione a pensare che giunti a dove siamo nella storia della Nazione, la materialità delle risposte non s’incarni anche nel profilo di chi è chiamato a offrirle. Sapremo tenere assieme le cose? Lo spero col cuore, ma bisognerà dirsi la verità.

l’Unità 21.4.13
Congresso del Pd con una consultazione di iscritti ed elettori
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Sono un lettore del vostro giornale ed elettore del Pd. Ho dato fiducia a Bersani e spero di continuare a stimarlo come politico (sulla persona nulla da obiettare) ma la scelta di Marini non l’ho condivisa. Se poi si farà l'inciucio con Cavaliere, né io né la mia famiglia voteremo più il Partito democratico. PAOLO MERAFINA

La delusione vissuta da questo lettore (e da tanti altri) nel momento in cui è stata presentata la candidatura di Marini è la stessa che ha portato un numero consistente di grandi elettori del Pd a non seguire questa indicazione e ad imporre la candidatura di Prodi. L'insieme degli sconfitti, però, ha sabotato anche questa candidatura mettendo in luce drammaticamente l'esistenza di due anime dello stesso partito: quella che crede nella possibilità delle larghe intese e quella che considera sciagurata ed inaccettabile l'idea di una alleanza con il cavaliere. Sedata ma non risolta dall’unità ritrovata nel nome di Giorgio Napolitano, la spaccatura che attraversa tutto il Pd non corrisponde ad un problema generazionale né, a mio avviso, ad un problema di correnti, è una spaccatura politica che potrebbe mettere in forse la stessa sopravvivenza di un partito cui un grande numero di italiani aveva affidato la sua speranza di cambiamento nella continuità. Cui bisognerà rispondere probabilmente con un congresso preceduto da una consultazione larga degli iscritti e degli elettori. Come è accaduto al tempo del «sì» e del «no» alla proposta di Occhetto. Utilizzando con intelligenza il tempo messo a disposizione di noi tutti dalla scelta sofferta e dalla passione democratica di Giorgio Napolitano.

l’Unità 21.4.13
A quei «cento» dico: potevate chiarirlo subito
di Toni Jop


C'era bisogno di sottoporci a tante sofferenze per farci capire che se ne usciva solo votando il Presidente assieme a Berlusconi? Bastava dirlo subito, siamo comprensivi. C'era bisogno di fratturare le costole della sinistra per farle comprendere come la sola strada da perseguire in questo frangente fosse l'abbraccio tra questa nostra arruffata famiglia e non tanto la destra quanto piuttosto Berlusconi? Lo chiediamo a quel centinaio di deputati e senatori del Pd che hanno bocciato Prodi. Persona preziosa e rispettabile che avrebbe meritato di essere accolta con altro stile e altra, impossibile, lealtà. Perché qui è stata posta una zeppa alla storia da una indegna pattuglia che si è mossa in sintonia con gli interessi di Berlusconi e di Grillo, quello che ora grida al «colpo di Stato». Ma è un conto antico che adesso giunge al tavolo, un conto che risale ad anni fa, quando dalle file del Pd saliva un coro contro questo giornale, accusato di essere anti-berlusconiano per il semplice fatto di aver rimarcato come la fortuna politica dell'uomo di Arcore fosse in contrasto aperto con il dettato costituzionale di questo Paese. Quel coro si era inabissato, ed eccolo di nuovo a galla ma coraggiosamente anonimo mentre distrugge la sinistra e spinge quel che ne resta tra le braccia di un enorme conflitto di interessi. Nessuno, intanto, ha spiegato al mondo perché fosse sconsiderata la candidatura di Stefano Rodotà che ci avrebbe permesso di andare a vedere le carte del Grande Megafono col sostegno della nostra pazientissima base. Ma ciò che lui chiama «colpo di stato» non è che il prodotto del suo piacere, intrecciato con quello di Berlusconi e quello dei cento furbi. La sinistra è morta, nelle sue forme, e Grillo marcia su Roma per raccoglierne i pezzi fingendo indignazione, urlando allo scandalo. Siamo morti; idioti ancora no, contateci.

l’Unità 21.4.13
Nel Pd toscano
Firenze, base in subbuglio. E il sito della sezione invoca: congresso subito
di Osvaldo Sabato


In questi giorni ammettono di essere rimasti incollati davanti alla televisione per seguire, passo dopo passo, quanto stava succedendo in Parlamento. Non nascondono la loro sorpresa e la loro preoccupazione sul destino del Pd e non si capacitano per quanto è successo con l’affossamento di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica. Parlando dei franchi tiratori, li definiscono più «franchi» che tiratori «per essersi nascosti dietro il segreto del voto». La base del Pd rumoreggia. A tastare il polso della situazione ci sono i segretari dei circoli, alle prese con le domande e i dubbi dei militanti. A Firenze nessuno è arrivato a bruciare la tessera del partito come protesta nei giorni più caldi di questa vicenda, ma l’impasse sulla elezione del nuovo inquilino del Quirinale viene commentata da qualcuno come l’anticamera della balcanizzazione del Pd. La riconferma di Giorgio Napolitano sul colle più alto della capitale, viene salutata come una boccata d’ossigeno anche per il partito. Ma il segretario del circolo del Pd dell’Oltrarno aspetta i prossimi giorni per capire meglio cosa potrà succedere. «Ci sono delle fratture, che sono difficilmente colmabili» osserva Marco Massetti. In queste ore si è anche paventata l’ipotesi di una scissione, ipotesi che chiarisce il segretario «ora mi sembra più vicina». È la confusione dentro il Pd a non far dormire sonni tranquilli. Nella sede del circolo Pd della zona di San Jacopino Cascine l’atmosfera è disarmante. «Ci sono forti disappunti su quanto è successo in Parlamento», spiega il segretario Alessandro Tani, «la speranza è che questo Pd riesca a trovare un’unione, ma è dura, alcuni degli iscritti più anziani, si dimostrano disaffezionati». Il pericolo scissione è concreto? «Non direi che è lontano, la scissione io la do per sicura, fra renziani e bersaniani c’è molta guerra» afferma Tani. «È una vergogna», sentenzia Doriano Pagliai, segretario del circolo di Rifredi, racconta di aver ricevuto tante telefonate dagli iscritti «tutti sono molto arrabbiati, non ci si nasconde dietro al voto segreto, bisogna che vadano a casa, sono dei traditori». «I nostri parlamentari non si sono dimostrati all’altezza» attacca Maria Grazia Pugliese, segretaria del circolo di Ripoli «stanno sempre su Facebook e Twitter per capire cosa devono fare». «Il sogno deve andare avanti» auspica Daniele Caruso, segretario del circolo Santa Croce. Sogno, invece, che per gli iscritti della sezione Pd di Montopoli Valdarno, pare già tramontato con l’annunciata autogestione. Sul sito internet della sezione locale si chiedono le dimissioni dei dirigenti nazionali e un nuovo congresso.

l’Unità 21.4.13
Vendola prepara un nuovo partito  a sinistra
Assemblea 8 maggio aperta «a tutti coloro che sono interessati dopo lo schianto del Pd»
Interessati anche Cofferati e Landini
di Caterina Lupi


ROMA «Si va verso governissimo che è una sciagura per il Paese», è il tweet ce Nichi Vendola lancia su Twitter a un certo punto della giornata. Il leader di Sinistra e Libertà tiene il punto e l’indicazione di votare Stefano Rodotà e poi lancia la costruzione di un nuovo partito di sinistra.
In una conferenza stampa convocata all’improvviso a Montecitorio Vendola ha detto: «Esprimo solidarietà personale per Bersani. Sono molto addolorato per le cose che sono accadute, al netto degli errori, ha colpito una delle persone più perbene che abbia conosciuto in vita mia». Resta comunque il dissenso per la strada scelta dal Pd e lo stupore per la frantumazione dello stesso partito democratico.
Ora però il leader di Sel guarda avanti, poco prima della conferenza stampa il ministro Fabrizio Barca aveva definito «incomprensibile» il rifiuto del Pd di sostenere il candidato Rodotà. Così Vendola annuncia una assemblea «di popolo» l’8 maggio aperta a chi vuole partecipare, compreso Barca, per avviare «un nuovo percorso e un nuovo cantiere e ricostruire la tela della sinistra di cui abbiamo bisogno». E, a chi chiede se il voto su Napolitano possa considerarsi una definitiva rottura con il Pd, il Governatore della Puglia risponde: «Non abbiamo nessuna intenzione di tornare indietro, di resuscitare la Sinistra Arcobaleno o di relegarci in un minoritarismo testimoniale. Da ora siamo impegnati a ricostruire, ricostruire ricostruire». Ricostruire «dalle fondamenta una sinistra di governo».
Insomma, chiarisce Vendola: «Non lavoro e non lavoravo a svuotare il Pd, ci pensa qualcun'altro» o per favorire una scissione del partito democratico, così come «non lavoriamo ai fianchi del Pd per sfilare due o tre parlamentari, ma siamo curiosi di sapere dove andrà il Pd», ha aggiunto. Così Vendola invita all’assemblea dell’8 maggio «tutti coloro che dopo lo schianto del Pd sono interessati, sono benvenuti». Tempi accorciati per far nascere il nuovo soggetto e «accelerare la nostra adesione al gruppo del Partito Socialista europeo nell’Europarlamento», aggiunge il leader di Sel.
Il nuovo partito ha l’ambizione, non troppo celata, di fare da calamita proprio nell’ala sinistra dei democratici, come Orfini e i Giovani turchi. Attenti a questa prospettiva si Maurizio Landini della Fiom che Sergio Cofferati, il quale reclama il congresso democratico: «Per il Pd è l’ultima chance. La scelta di Prodi doveva servire a ricompattare il partito. In ogni caso ripeto il mio no a un governo di minoranza perché non è possibile accordarsi con Berlusconi. Elezioni e al più presto, è l’unica soluzione, ha detto l’ex segretario Cgil». Considerando che un governo del presidente pare destinato a nascere, un dirigente Pd profetizza: «Sulla fiducia al governo si spaccheranno i nostri gruppi, una parte della sinistra se ne andrà e sarà la premessa per un nuovo partito con Sel e Barca».
IL TWEET DALL’ASSEMBLEA
La scelta di votare ancora la candidatura di Stefano Rodotà alla sesta votazione, insieme al Movimento Cinque Stelle, è stata confermata ieri in un’assemblea dei gruppi parlamentari di Sel che si è riunita nel primo pomeriggio. Anche alla quinta votazione è stato votato il giurista, secondo l’indicazione data da Vendola dopo l’affossamento della candidatura di Romano Prodi venerdì pomeriggio.
Non proprio in streaming, ma quasi, a dare conto delle decisioni dell’assemblea ci ha pensato con un twitter il deputato di Sel Sergio Boccadutri: «Finita riunione del gruppo Sel: be quiet and vote Rodotà. Da oggi inizia la costruzione di una nuova sinistra moderna». La conferma sul profilo Facebook di Nichi Vendola: i 44 grandi elettori di Sel e della presidente della Camera Laura Boldrini, non avrebbero votato per la rielezione di Giorgio Napolitano: «Con Sel voteremo Stefano Rodotà anche alla sesta votazione per il Presidente della Repubblica». Poi un tweet frena i proclami #Grillo: «Bisogna misurare le parole, l’enfasi propagandistica rischia di introdurre del veleno nella lotta politica».

il Fatto 21.4.13
Delitto Perfetto
In ginocchio da re Giorgio ma il vincitore è Berlusconi
di Fabrizio d’Esposito


DOPO AVER PASSATO LA MATTINA A IMPLORARE IL CAPO DELLO STATO CON 738 VOTI LO TENGONO SUL TRONO. M5S E SEL PERDONO CON RODOTÀ

Per capire fino in fondo il ritorno del re, che molti chiamano anche Jorge Napolitano, come papa Bergoglio, è cruciale l’immagine delle 18 e 16 a Montecitorio. Silvio Berlusconi è entrato in aula da un minuto appena, con la sua corte di deputati-assistenti. Si siede tra Angelino Alfano e Renato Schifani. È subito circondato da altri zelanti onorevoli del Pdl. A quel punto, nel conteggio delle schede Napolitano svolta quota 500 e arriva al quorum di 504. I grandi elettori di centrodestra, Lega, Pd e Scelta Civica scattano in piedi. L’applauso diventa un’ovazione e i berlusconiani girano le spalle alla doppia presidenza Boldrini e Grasso. Battono le mani per lui. “Sil-vio, Sil-vio”. Il Cavaliere si appoggia allo schienale, alza il capo verso il grande lucernario che fa da soffitto, il Velario di Beltrami, chiude gli occhi e si gusta il trionfo. Inizia una processione per fargli i complimenti e tra i banchi del Pdl s’intona l’inno di Mameli. Dal Pd, invece, un altro grido ritmato, gonfio di vendetta e soddisfazione, all’indirizzo dei grillini, seduti e impassibili: “In piedi, in piedi, in piedi”. Bersani libera la tensione e la rabbia con le lacrime. Sono due scene uguali e contrarie: il trionfo di Berlusconi, il pianto di Bersani. La Boldrini si spazientisce. Silenzio. Riprende lo spoglio. Altre 234 schede per Napolitano.
IL RISULTATO FINALE, che fa chiudere il verbale della seduta unica, iniziata il 18 aprile scorso, alle 18 e 50 è schiacciante: “Presenti e votanti 997, Napolitano 738, Rodotà 217, De Caprio 8, D’Alema 4, Prodi 2, bianche 10, nulle 12, dispersi 6. Proclamo eletto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano”. Il Pdl attacca di nuovo con “Fratelli d’Italia”. I democratici ascoltano e poi applaudono. Napolitano non più il sosia di un re, il triste re di maggio, Umberto di Savoia, ma il monarca in persona, al sesto scrutinio, dopo il quinto della mattinata andato in “bianco” per attendere la sua regale risposta. Preludio, questa incoronazione, forse a un altro regno: tra gli entusiasti berlusconiani circolano ovviamente le previsioni sul futuro governo, ma a prevalere è il sogno di vincere le elezioni e portare Berlusconi al Quirinale. “Magari con il presidenzialismo”, sorride il “saggio” del Pdl Gaetano Quagliariello, cui i cronisti già si rivolgono con un altisonante “ministro”. Lui si schermisce canticchiando, a mo’ di rivalsa: “Se sei saggio ti tirano le pietre”.
Tra i democratici il pensiero vola al voto di fiducia: sul governissimo o governo del Presidente (Enrico Letta, Giuliano Amato, Anna Maria Cancellieri, persino Sabino Cassese) si misureranno i gruppi che faranno le probabili scissioni. Ed è per questo che si afferma la metafora del riscatto militare, ben azzeccata dal senatore piemontese Federico Fornaro: “Dopo la Caporetto di ieri (venerdì, ndr), ci siamo assestati sulla linea del Piave”. Il segreto della tenuta su Napolitano (a Rodotà sono andati solo 10 voti in più) è racchiuso anche in quattro combinazioni, per contare le varie anime del Pd: “Giorgio Napolitano”, “Napolitano”, “Napolitano G. ”, “Napolitano Giorgio”. Persino i leghisti, un tempo nemici giurati dell’unità nazionale, alzano le mani al cielo in segno di vittoria. Non solo. Gli uomini del segretario Bobo Maroni si intestano la primogenitura del settennato bis: “Venerdì sera Maroni ha sentito per telefono Berlusconi e il Cavaliere gli ha proposto Giuliano Amato. Lui ha risposto che la Lega non l’avrebbe mai votato e ha iniziato le manovre per Napolitano. Bobo ha chiamato per primo il capo dello Stato”. Analoga rivendicazione viene avanzata dal Pd, tramite il fedele ambasciatore del Colle che risponde al nome di Enrico Letta, vice del fu Bersani e nipote del ciambellano berlusconiano Gianni. Le larghe intese scimmiottano uno spot pubblicitario: “Dov’è c’è l’inciucio, c’è famiglia”.
DALLE 15, inizio della votazione, e le 19, quando tutto si è compiuto, è un unico grande sorriso che mette insieme Pd, Pdl, Lega e montiani. Ridono Verdini, Santanchè, Galan e Fitto, ridono Enrico Letta e il tesoriere del Pd Misiani. Sospiro-ne generale di sollievo. A rimanere gravi e compunti sono i due avvocati-parlamentari di B., Ghedini e Longo. Il problema già è stato posto. “Cosa accadrà se il Parlamento dovesse esprimersi su qualche guaio di Silvio? ”. Questione di là a venire. Giorgio Napolitano è il re che ritorna, ma c’è un altro attore-protagonista che ha vinto. Immobile, paziente e disponibile, il Cavaliere ha assistito all’autodistruzione del Pd. I sondaggi lo danno in testa e le regionali di oggi in Friuli Venezia Giulia dovrebbero dare la prima conferma.

il Fatto 21.4.13
Era tutto studiato
di Antonio Padellaro


C’è un filo rosso che porta allo sconcertante bis di Giorgio Napolitano, parte da lontano e si chiama governo delle larghe intese con Berlusconi. È una lampante verità che sul Colle delle bugie e dei nastri cancellati nessuno può negare, scolpita sui moniti che d’ora in poi saranno legge. Quel filo del Quirinale, nel dicembre 2011 dopo la disastrosa caduta del governo B., impedisce le elezioni anticipate. Come mai? Forse era chiaro che, con il crollo annunciato della destra, il Pd vincitore avrebbe potuto imporre senza problemi il proprio capo dello Stato? E perché quando, nel dicembre scorso, Monti si dimette,non viene rispedito alle Camere per verificare la fiducia? Forse perché il timing, perfetto, consentiva alla presidenza di gestire non solo le elezioni, ma anche il dopo? Il pareggio auspicato e raggiunto, il mezzo incarico a Bersani, lo stop a M5S che chiede un premier fuori dai partiti, la melina dei “saggi”. Tutto per arrivare paralizzati all’elezione del Presidente e quindi all’inevitabile rielezione? Forse il piano non era così diabolico, forse l’encefalogramma piatto dei partiti ha permesso a Napolitano di orchestrare la crisi come meglio voleva. Ma è difficile credere che, dopo aver respinto fino alla noia ogni offerta per restare, il navigato politico abbia ceduto in un paio d’ore alle suppliche di alcuni presunti leader alla canna del gas. Si è fatto rieleggere,vogliamo credere,non per sete di potere (a 88 anni!), ma per governare l’inciucio che nella sua testa è l’unico strumento per controllare un Paese allo sfascio. E per tenere lontano quell’eversore di Grillo che crede addirittura nella democrazia dei cittadini. Non s’illuda, però: davanti ai problemi giganteschi degli italiani (e alle piazze in fermento), questa monarchia decrepita e grottesca è solo uno scudo di paglia. D’ora in poi questi politici inetti e disperati il conto lo faranno pagare a lui.

il Fatto 21.4.13
Funeral Party
di Marco Travaglio


La scena supera la più allucinata fantasia dei maestri dell’horror, roba da far impallidire Stephen King e Dario Argento. Il cadavere putrefatto e maleodorante di un sistema marcio e schiacciato dal peso di cricche e mafie, tangenti e ricatti, si barrica nel sarcofago inchiodando il coperchio dall’interno per non far uscire la puzza e i vermi. Tenta la mission impossible di ricomporre la decomposizione. E sceglie un becchino a sua immagine e somiglianza: un presidente coetaneo di Mugabe, voltagabbana (fino all’altroieri giurava che mai si sarebbe ricandidato) e potenzialmente ricattabile (le telefonate con Mancino, anche quando verranno distrutte, saranno comunque note a poliziotti, magistrati, tecnici e soprattutto a Mancino), che da sempre lavora per l’inciucio (prima con Craxi, poi con B.) e finalmente l’ha ottenuto. E con una votazione dal sapore vagamente mafioso (ogni scheda rigorosamente segnata e firmata, nella miglior tradizione corleonese). Pur di non mandare al Quirinale un uomo onesto, progressista, libero, non ricattabile e non controllabile, il Pd che giurava agli elettori “mai al governo con B. ” va al governo con B., ufficializzando l’inciucio che dura sottobanco da vent’anni. Per non darla vinta ai 5Stelle, s’infila nelle fauci del Caimano e si condanna all’estinzione, regalando proprio a Grillo l’esclusiva del cambiamento e la bandiera di quel che resta della sinistra (con tanti saluti ai “rottamatori” più decrepiti di chi volevano rottamare). La cosa potrebbe non essere un dramma, se non fosse che trasforma la Repubblica italiana in una monarchia assoluta e la consegna a un governo di mummie, con i dieci saggi promossi ministri e il loro programma Ancien Régime a completare la Restaurazione. Viene in mente il ritorno dei codini nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, con la differenza che qui non c’è stata rivoluzione né s’è visto un Napoleone.
Ma il richiamo storico più appropriato è Weimar, con i vecchi partiti di centrosinistra che nel 1932 riconfermano il vecchio e rincoglionito generale von Hindenburg, 85 anni, spianando la strada a Hitler. Qui per fortuna non c’è alcun Hitler all’orizzonte. Però c’è B., che fino all’altroieri tremava dinanzi al Parlamento più antiberlusconiano del ventennio e ora si prepara a stravincere le prossime elezioni e salire al Colle appena Re Giorgio abdicherà. A meno che non resti abbarbicato al trono fino a 95 anni, imbalsamato e impagliato come certi autocrati, dagli iberici Salazar e Franco ai sovietici Andropov e Cernenko, tenuti in vita artificialmente con raffinate tecniche di ibernazione e ostesi in pubblico con marchingegni alle braccia per simulare un qualche stato motorio. Ieri, dall’unione dei necrofili di sinistra e del pedofilo di destra, è nato un regime ancor più plumbeo di quello berlusconiano e più blindato di quello montiano, perché è l’ultima trincea della banda larga che comanda e saccheggia l’Italia da decenni, prima della Caporetto finale. Prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone mononota a reti ed edicole unificate. Ne abbiamo avuto i primi assaggi nelle dirette tv, con la staffetta dei signorini grandi firme che magnificavano l’estremo sacrificio dell’Uomo della Provvidenza e del Salvatore della Patria, con lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati delle solite cariatidi. Le famose pompe funebri.
Ps. Da oggi Grillo ha una responsabilità infinitamente superiore a quella di ieri. Non è più solo il leader del suo movimento, ma il punto di riferimento di quei milioni di cittadini (di centrosinistra, ma non solo) che non si rassegnano al ritorno dei morti morenti e rappresentano un quarto del Parlamento. A costo di far violenza a se stesso, dovrà parlare a tutti con un linguaggio nuovo. Senza rinunciare a chiamare le cose col loro nome. Ma senza prestare il fianco alle provocazioni di un regime fondato sulla disperazione, quindi capace di tutto.

il Fatto 21.4.13
Il fallimento del Pd diario dei giorni perduti
di Furio Colombo


Spiacenti, manoncisono candidati. Abbiamo provato e non ci siamo riusciti. Il Pd ha fatto grossi nomi e poi si è rimangiato la parola, lasciando cadere nel vuoto i prescelti. Il Pd ha di fronte a se nomi conosciuti e riconosciuti da tutti, più con sostegno popolare che di nomenclatura, proprio come è necessario in questi difficili giorni. Rodotà, o Emma Bonino o Ferdinando Imposimato, o Giancarlo Caselli, per dire. Non li vedono. Pretendono di non conoscerli. Di certo usano disperatamente l'energia che gli resta per salire (con fatica, immagino) al Quirinale, insieme (questa è una delle parole chiave) per cercare un nome condiviso (questa è l'altra parola chiave) che aiuti a uscire dalla grave emergenza. Ilnomecondivisoadessoè lo stesso presidente in carica. Un grande omaggio per lui che però, avendo senso politico, ma anche buon senso, è certo tormentato da un dubbio: ma qui non mancano le persone da eleggere, mancanoglielettori, chesembrano bloccati da una inspiegabile ordine di fermo. Uno di noi che dovesse fare da guida a un nuovo venuto in Italia, in queste ore, alla domanda "la grave emergenza " qual'è?" dovrebbe indicare una foto segnaletica di Rodotà.
ADESSO diventa chiaro, e anzi formalmente dichiarato, ciò che è stato oggetto di appassionate discussioni e sprezzanti rimproveri per tanti anni: Berlusconi è il perno intorno a cui ruota la vita politica italiana, ma anche la sua cultura e il suo costume e persino l'immagine del futuro. E segna, inoltre, la divisione, fra il mondo “condiviso” e la terra di nessuno (che è l'ostinazione a resistere). Ecco perchè vi dicevano ( anzi intimavano) “basta con l'antiberlusconismo! ”. Semplicementenonsipuò. Edeccoperchè il presidente stanco e affaticato viene indotto a sacrificarsi. Bisogna far finta che Rodotà non ci sia. Ma a me sembra importante non isolare la figura di Rodotà, dalle altre elette nelle Quirinarie di Beppe Grillo. Non in omaggio a Grillo (che però, questa volta, finalmente, è entrato in politica). Ma perchè se tutte le altre (nove in tutto), a cominciare da Emma Bonino, così diversa da Rodotà e, a sua volta, benvoluta da un bel pezzo (in parte diverso) di opinione pubblica italiana, vengono respinte o deliberatamente non notate( benchè il Paese sia dichiarato “sull'orlo del precipizio”) significa che una proibizione, che non è consigliabile sfidare, taglia il Paese in due parti: una, in cui ha parte rilevante ed egemone da vent'anni Berlusconi, e che si fonda sulle parole “insieme” e “condiviso” perchè l’illegalità cerca sempre complici; l’altra che crede nella ineleggibilitàdiBerlusconi, nella gravità non perdonabile del conflitto di interessi, (che, unito al potere, genera infiniti altri conflitti di interessi) nella impossibilità e immoralità di condividere niente e nessuno con chi ha dislocato tutta la sua forza fuori e contro la Costituzione. Sostengo che non tutti, e non tanti senatori e deputati del Pd sono complici della illegale elezione di Berlusconi e dell'illegale esercizio, da parte di Berlusconi, delle funzioni ( che per lui avrebbe dovuto essere inaccessibili) di primo ministro.
MA IL PD è stato dirottato e trattenuto in area contigua al berlusconismo, da pochi dirigenti immutati in vent’anni, di provenienza Pc e Dc, che sono riusciti a imporre il dovere di ignorare la lotta dei magistrati e di essere benevoli o tolleranti verso i delitti contro i diritti umani e il giuramento di secessione della Lega, come se si trattasse di un dovere costituzionale e non di una continua ed evidente violazione della Costituzione, di non fare troppe storie sulla rilevante presenza parlamenta di mafia e camorra. La lunga marcia verso la sottomissione al berlusconismo è cominciata con il rifiuto e il disprezzo dei girotondi, del popolo viola, di ogni offerta di spontaneo sostegno popolare, con l'accettazione della occupazione e del controllo della televisione di Stato, giocando il gioco dei miti consiglieri di minoranza e la omissione di ogni denuncia (persino nei giorni peggiori di Minzolini al TG1) della l'egemonia berlusconiana sulle informazioni. È cominciata dal distacco dalla Cgl nei momenti più pericolosi per la difesa del lavoro e della solitudine degli operai, la disponibilità più volte offerta alla riforma della giustizia, da farsi “insieme” al nutrito gruppo di imputati e indagati del partito di Berlusconi (oltre al pluri-processato leader). È cominciata con il ripetuto proposito di fare insieme "insieme" leggi che avrebbero duvuto essere estranee all'opposizione, come la riforma della scuola dela Gelmini, il degradante “pacchetto sicurezza”della Lega, i respingimenti in mare che - secondo quanto ha potuto affermare sia Amnesty International sia Laura Boldrini ( quando era portavoce Onu) - sono stati la causa di migliaia di morti nel Mediterraneo e di negazione del diritto di asilo. Tutto questo ha mantenuto una opposizione debole, grigia, non identificabile, e molta complicità. Chi ha fatto, nel gruppo parlamentare Pd, il Rodotà del momento allo stesso modo è stato zittito, isolato e ignorato in modo che una forma del tutto abnorme di nuovo “compromesso storico” prendesse forma e cominciasse a lasciare traccia.
Nota bene. A chi dicesse: “Finalmentre dentro il Pd c’è stata rivolta” fate notare che la rivolta (sempre prevenuta o repressa quando era di chi non voleva condividere nulla con la gente di Berlusconi) questa volta è stata condotta a chi ha voluto fermamente rivendicare “la strada giusta del condividere” e del “fare insieme”. Evidentemente hanno pensato che qualunque elezione di una persona nuova poteva, anche per sbaglio, portare dentro un ribelle. È qui che comincia la fine.

il Fatto 21.4.13
Governo: inciucio con saggi
Napolitano accetta per massimo 2 anni e vuole i “suoi” ministri
Il patto: Enrico Letta premier, Alfano e Monti vice. Ipotesi Gallo
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Il negoziato sul Quirinale si è sempre svolto in parallelo a quello per il nuovo governo, il bis di Giorgio Napolitano è arrivato anche perché c’è uno schema su cui costruire il nuovo esecutivo. “Napolitano agirà guardando gli interessi del Paese”, dice lo storico amico Emanuele Macaluso. Ieri mattina, durante l’ascesa di pellegrini al Colle, Napolitano è stato chiaro: “Resto, sì, massimo due anni però”. E poi ha cercato un compromesso con i partiti che dovranno sostenere un governo commissariato dal Quirinale: dentro, tanti ministri tecnici attingendo fra i dieci saggi; ai vertici, un tridente di politici tra Pd-Pdl-Scelta Civica. I democratici avranno la guida di palazzo Chigi: Enrico Letta è il nome più credibile, anche se non troverebbe il sostegno immediato di Matteo Renzi; scarse le speranze per Giuliano Amato, inviso a tanti tra destra e sinistra e soprattutto tra i leghisti.
SILVIO BERLUSCONI ha posto una condizione dirimente: Angelino Alfano vice premier, possibilmente con una delega esplicita alla Giustizia, per garantirlo sul fronte dei processi. Ma il Cavaliere spinge sempre per “l’uomo di Stato” Gianni Letta. Nel Pdl in tanti, però, sentono odore di elezioni e vogliono un governo debole, transitorio. E B. vuole riservarsi la possibilità di mandare tutti a casa quando gli conviene. L’altro vice premier potrebbe toccare a Scelta Civica, magari con un orientamento economico se diventasse quella la casella in cui collocare Mario Monti. Il premier in carica è stato il primo a cercare di intestarsi l’operazione Napolitano, e ora spera nel bis anche del governo. In fondo è lui l’uomo della grande coalizione, quello della maggioranza ABC: Monti chiedeva la garanzia di un re-incarico a Romano Prodi in cambio del sostegno, a maggior ragione farà un tentativo con Giorgio Napolitano. L’ipotesi Enrico Letta è quella più forte perché non avrebbe ostacoli nel gruppo Pdl: è stato lui il principale mediatore nella notte di venerdì tra Pd e Pdl. Ma Letta sarà anche il reggente del Pd, forse è troppo cumulare entrambi gli incarichi. Soprattutto visto che, dentro il Pd, Matteo Renzi rivendica di essere ormai l’unico leader con un consenso popolare: il sindaco di Firenze non ha alcuna intenzione di partecipare al governo ma, confidando in elezioni nel giro di sei mesi o un anno, ha bisogno che il partito non venga devastato dalla prossima fase. E un governo Letta significherebbe dare l’etichetta Pd all’esecutivo, garantendo anche la sopravvivenza a un gruppo dirigente che Renzi è ben contento di aver spazzato via (anche se con la vittima collaterale di Romano Prodi).
SE NON C’È l’accordo su un nome politicamente connotato, si studieranno altre opzioni. Due che si faranno trovare pronti sono il ministro dello Sviluppo Corrado Passera (per ora silente, giusto un Tweet “grazie presidente”) e il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, uno dei saggi, il coordinatore informale del gruppo che si è occupato di economia producendo un rapporto che, con Napolitano riconfermato, sarà l’inevitabile programma di governo. Il mandato di Giovannini all’Istat scade ad agosto, ha una sensibilità al sociale e piace a una parte del mondo a Cinque stelle (anche se una sua nomina non basterebbe certo a placarli), è cattolico e non compromesso con i governi precedenti. Quanto ai ministri, i partiti sono pronti a rimettersi a Napolitano: “Io no sono stato contattato”, dice il “saggio” Filippo Bubbico del Pd. E infatti lui e il suo omologo Giancarlo Giorgetti (Lega) sono i presidenti delle commissioni speciali di Senato e Camera, gli unici due organismi parlamentari funzionanti, e quindi lì resteranno. Ma per gli altri saggi è quasi certa una promozione al governo: da Luciano Violante per il Pd a Gaetano Quagliariello per il Pdl (il suo nome però sarebbe contestato da una parte del partito). Forse perfino il costituzionalista Valerio Onida, nonostante le gaffe. Dei saggi economici difficile immaginare che Salvatore Rossi lasci la Banca d’Italia, di cui è vice direttore, mentre è assai più probabile che EnzoMoaveroMilanesi resti alla guida degli Affari europei. Probabile il reclutamento del presidente della Consulta Franco Gallo, magari poprio come premier istituzionale. Così come è quasi certo un coinvolgimento di Mario Mauro, ex Pdl che ora è il principale negoziatore per Scelta Civica. C’è poi Anna Ma-ria Cancellieri: Monti l’ha candidata alla presidenza della Repubblica, Napolitano la stima e, sul suo nome, si stava verificando una convergenza con il Pdl. Quindi in tanti sarebbero d’accordo a una sua riconferma al ministero dell’Interno.

il Fatto 21.4.13
Opposizione
Barca e Vendola: la nuova sinistra nel nome di Rodotà
Sel e il ministro della coesione si oppongono alle larghe intese
di Salvatore Cannavò


Nel nome di Stefano Rodotà. Se a sinistra nascerà una nuova formazione il simbolo non potrà che essere lui. Volente o nolente, l’ottantenne giurista rappresenta la bandiera sotto la quale proveranno a rifugiarsi coloro che vogliono smarcarsi dal Napolitano bis e dal governo che ne verrà. Il primo a muoversi è stato Nichi Vendola che ieri ha provato a gettare un'esca al malumore del Pd. “Noi - ha dichiarato il presidente di Sel - siamo impegnati a ricostruire una nuova sinistra di governo” senza puntare “alla scissione” del Pd. “A quello ci sta pensando qualcun altro” dice Vendola dando appuntamento l’8 maggio (ma potrebbe essere il 10 o l'11) per un meeting o un convegno. Per far capire che l'obiettivo è parlare ai mal di pancia democratici, Vendo-la annuncia che Sel accelererà la richiesta di adesione al socialismo europeo. “Non vogliamo ricostituire una Sinistra arcobaleno” spiega al Fatto Nicola Fratoianni, deputato e già assessore della giunta pugliese. Non si tratta, insomma, di una mossa che guarda a Antonio Ingroia o ad altri settori di sinistra.
Il problema sono però gli interlocutori reali. Ieri, l'intervento di maggior rilievo è stato quello, via Twitter, di Fabrizio Barca, un candidato alla segreteria del Pd. Nel tweet Barca dice di non comprendere come mai il Pd non abbia votato per Rodotà o per Emma Bonino (che non sono propriamente la stessa cosa). Una dichiarazione sufficiente a ricevere l’accusa di “alto tasso di populismo” da parte di Stefano Fassina, uno dei “giovani” bersaniani a sinistra nel Pd. Barca ha precisato di non voler parlare pubblicamente e di essere orientato solo a una battaglia interna al partito. Ma comunque non ha smentito il suo tweet. E Vendola, oltre a elogiarne ruolo e intelligenza, si è detto entusiasta di una sua possibile partecipazione all'iniziativa di maggio.
“Se nel gruppo dirigente non si muove granché” spiega ancora Fratoianni, “a livello locale la situazione è davvero caotica”. Nei giorni scorsi si è visto il fenomeno “#OccupyPd”, composto soprattutto da giovani delusi dallo spettacolo parlamentare. Ma finora solo Mi-chele Emiliano, sindaco di Bari, spara sul quartier generale e potrebbe essere uno degli interlocutori di Vendola. I deputati, invece, restano più abbottonati. Il coraggio di Pippo Civati, ad esempio, ieri non è andato oltre la scheda bianca nel voto sul Quirinale.
Altri movimenti avvengono a lato della politica. A nessuno è sfuggita, ieri, la dichiarazione congiunta di Sergio Cofferati e Maurizio Landini, ex segretario Cgil, attualmente europarlamentare Pd, il primo e segretario della Fiom, il secondo, a favore di Rodotà, “una candidatura di alto profilo”. La mossa mira a parlare anche all'interno della Cgil che, invece, non intende offire sponde a operazioni di distinguo e si limita a congratularsi con Giorgio Napolitano per l’elezione. Ma prima dell'appuntamento di Sel, il 30 aprile a Bologna si terrà un convegno della Fiom che a giudicare dagli ospiti potrebbe rappresentare un passaggio importante negli attuali rimescolamenti: insieme a Landini, infatti, parleranno Cofferati, Barca, Marco Revelli e, ancora, Rodotà.

il Fatto 21.4.13
La scissione del Pd? Il giorno del voto di fiducia
Orfini: “Nessuno ha il mandato per prendere decisioni
E Renzi prepara la scalata: “Non conta il congresso”
di Wanda Marra


Si mette le mani sugli occhi, abbassa la testa. Piange Pier Luigi Bersani mentre l’Aula applaude all’elezione di Napolitano. È il crollo emotivo e psicologico di un (ex) segretario, che incassa il commissariamento del Parlamento, del governo che sarà, di quel che resta del suo partito, e due minuti dopo batte le mani anche alla sua morte politica. In piedi, faccia scura, mentre molti parlamentari vanno in processione a salutarlo. A un certo punto si avvicina anche Alessandra Moretti, la sua portavoce durante le primarie, uno dei volti simbolo del Tortellino magico, che ci ha tenuto a dire a tutto il mondo di non aver votato Franco Marini. Gli parla, lui neanche la guarda. Poi fa sì con la testa. “Ho capito”, la liquida. “Traditori” ha chiamato i suoi colleghi di partito mentre annunciava le sue dimissioni. “Sì, però non può metterla così: molti hanno tradito perché lui ha sbagliato tutto”, è durissimo Matteo Orfini. Qualche decina di minuti dopo l’elezione del Capo dello Stato, Enrico Letta (in odore di premiership o almeno di ministero) chiarisce che ad essersi dimessa è tutta la segreteria. E Matteo Renzi la mette così: “Non conta il congresso, ma la sintonia con gli italiani”. Adesso, inizia la prossima partita: per lui è fondamentale che il governo che verrà non duri troppo. E non rimandi all’infinito la sua corsa per la premiership. Ieri mentre giravano voci di un accordo per un governo di due anni i suoi erano piuttosto nervosi. A questo punto, allora, in mancanza di obiettivi più prossimi, sta anche pensando di candidarsi alla segreteria democratica. Incassando i benefici di un primo risultato. “Bindi e Bersani, intanto se ne sono andati”. E non per niente se la prende con Barca “singolare e intempestivo” sull’elezione di Rodotà.
Il congresso del Pd era programmato a ottobre. Nei fatti è già iniziato. Ma ora chi comanda? “Dobbiamo decidere chi gestisce questa fase politica, dobbiamo dare una guida al partito”. Orfini mette il dito nella piaga: cos’è diventato il Partito Democratico, dopo la misera débacle in Aula? E soprattutto, esiste ancora un Pd? “Il Pd di Bersani non esiste più. Nessuno ha il mandato per prendere delle decisioni. Per esempio, chi va a fare le consultazioni? ”. Non un dettaglio, visto che dalle consultazioni dovrà nascere un governo, che sancisce le larghe intese con Berlusconi. Le faranno i due capigruppo, Roberto Speranza e Luigi Zanda. E poi? I bersaniani dicono Bersani, i lettiani dicono Letta. “Mica abbiamo ancora fatto il congresso. C’è una transizione in cui comunque Bersani sarà presente”, chiarisce Nico Stumpo. Effetto bunker. E nel frattempo? Da mesi si ventila l’ipotesi di una cabina di regia. Una delle ipotesi era una reggenza di Letta. Vale ancora? “Mica se ne può andare solo Bersani”, dice Stefano Fassina. A far parte della regia lui e i Giovani Turchi si sono candidati da tempo.
MA A QUESTO punto chi stabilisce le regole? Il Pd dovrà fare almeno una Direzione davanti alla quale Bersani si dovrà dimettere. Non è ancora fissata. Lunedì no, spiegano, perché c’è il discorso di Napolitano alle Camere. Allora, in settimana. Prima o dopo il governo? Non si sa. Dallo staff dell’(ex) segretario parlano di organismi dirigenti che gestiranno i processi. Quali, i caminetti con Errani, Migliavacca, Letta e Franceschini? Ieri bastava guardare le facce per capire che il Pd potrebbe dividersi non in due, ma in più parti. Perdere pezzi in maniera scomposta. Perché in questi giorni hanno contato più i calcoli, le ambizioni, le vendette, che le prospettive politiche, sia pure correntizie. Difficile capire come potranno posizionarsi tutti i sotto - Pd che si sono visti in azione nell’impallinare il segretario e bocciare il padre fondatore. Ieri, c’erano le facce sorridenti e rilassati di Letta e Francesco Boccia. Quella entusiasta del veltroniano Walter Verini, che andava in giro a dichiarare di aver votato Napolitano, anche durante la votazione per Prodi. Quelle rinvigorite di Dario Franceschini e Beppe Fioroni. Quelle disorientate dei più giovani. Quelle combattive dei Giovani Turchi. Chiarisce Andrea Orlando: “Nel gruppo Bersani ci ha chiesto di votare su Napolitano, non su un governo”. Non c’è niente di scontato, insomma. E quindi, la prossima spaccatura, forse addirittura con una scissione conclamata, una divisione dei gruppi parlamentari, si annuncia nella fiducia al governo. “È possibile”, ammette il commissario del Pd in Calabria, D’Attorre. C’è già pronto Vendola a fare un partito di sinistra, con Barca. “Potrebbero entrarci rapidamente molti dei giovani neo - eletti, che volevano Rodotà al Colle. E poi, l’ala sinistra del partito. Per ora i Turchi dicono di no. “Vado con Vendola? Beh, prima vorrei capire cosa diventerà il Pd”. Parola di Stefano Fassina.

il Fatto 21.4.13
L’ultima rivincita di Berlusconi “Ho fatto una strage di leader Pd”
L’ex premier potrà dettare le regole del prossimo governo
Ma sogna le urne con Napolitano
I guai giudiziari sembrano ora molto meno minacciosi
di Caterina Perniconi


Sto aspettando un altro avviso di garanzia” dice Silvio Berlusconi appena entra a Montecitorio. I volti dei parlamentari Pdl intorno a lui si fanno subito scuri. “É per strage. Ho distrutto il Pd”. L’ennesima barzelletta, si torna a ridere fino a sbellicarsi. Da Occhetto a Veltroni la lista era già lunga, ma questa volta è andata anche meglio: gli avversari si sono auto-eliminati. In più è stata scongiurata l’elezione di Rodotà al Colle, dopo quella di Prodi, e i guai giudiziari sembrano meno minacciosi. Ora Berlusconi può tornare ad essere considerato un politico in corsa anziché un Caimano a cui tirare le monetine mentre se ne va, sconfitto, dal governo. Ride, e festeggia.
É lui il vero vincitore della settimana e gli si legge in volto. “Ma non dite che Berlusconi è soddisfatto – sostiene uno dei suoi uomini più fidati, Denis Verdini – lo sarebbe stato se al Quirinale ci fosse andato lui. É quello il palazzo che gli spetta”. Obiettivo che non perde affatto di vista. La speranza è di trovare la porta aperta al prossimo giro, magari tra un anno, se Napolitano dovesse dimettersi. Il “comunista” è diventato ieri “un riferimento per tutti noi” ma non “una mia vittoria”. Eppure l’accordo sulla rielezione lo riporta politicamente sulla breccia: è un patto complessivo su un governo di larghe intese da trattare con lui e su un pacchetto di riforme istituzionali, già studiate dai “10 saggi”, a partire dalla legge elettorale.
LA SOLUZIONE individuata in mattinata da Berlusconi e Napolitano era quella di un’elezione vincolata alla nascita di un esecutivo guidato da Giuliano Amato, con tutti i ministri politici. Perché l’ex premier non accetta l’idea di vedere trasformati i “saggi” in ministri, tra i quali non c’è neanche un berlusconiano doc, e il cui lavoro lo considera “inutile e da buttare”. Ma l’intesa sull’ex socialista è durata solo qualche ora. Appena l’ipotesi è stata prospettata a Roberto Maroni, il leader della Lega l’ha bloccata con una minaccia diretta: “Se il Pdl vuole rimanere in buoni rapporti con noi deve cancellare dall’alfabeto la lettera A. Come Amato”. La seconda scelta è quella di far nascere un “governo Letta” (Enrico, ndr) con Angelino Alfano vicepremier. A quel punto il Pdl potrebbe esprimere alcuni ministri. In pole position il “saggio” Quagliariello, il già vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e Mara Carfagna. Ma Berlusconi dovrebbe accettare Mario Monti all’Economia o agli Esteri, un boccone amaro. “La partita del Colle e quella del governo sono completamente slegate – spiega Verdini – fare un accordo oggi è come firmare un assegno in bianco. Non avete visto con che tipo di Parlamento abbiamo a che fare? Come facciamo a sapere quanti franchi tiratori avrebbe un esecutivo di larghe intese? ”. Insomma, la certezza della nascita di un governo non c’è, e nella telefonata di congratulazioni che Berlusconi ha fatto subito dopo l’elezione a Napolitano non si è risparmiato una battuta sulle urne: “Presidente noi siamo pronti a tutto”. Il Caimano lo sa che con il Pd in frantumi e la crisi alle porte il vantaggio andrebbe subito monetizzato. L’unica certezza è che ora tratterà da vincitore anziché da sconfitto. E i risultati, per i democratici, potrebbero essere molto simili a una “strage”.

il Fatto 21.4.13
Eterni ritorni
Come ti resuscito un Caimano
di Andrea Scanzi


È un’onda che viene e che va. Soprattutto va. A inizio 2013, Pier Luigi Bersani aveva già vinto e Silvio Berlusconi era finito. Un’altra volta. La situazione, quattro mesi dopo, è appena diversa. Dopo le Primarie, Bersani non poteva non trionfare. Aveva un vantaggio abissale: lo squadrone, il giaguaro da smacchiare, Nanni Moretti a tirargli la volata. Eppure ce l’ha fatta. Rigori su rigori sbagliati, e tutti a porta vuota. Match point sprecati con precisione così fantozzianamente chirurgica da lasciar pensare che, dietro a quei disastri insistiti, ci fosse un metodo. Una collusione. Una connivenza.
In cento giorni o poco più, Bersani è riuscito a sbagliare tutto. Consegnandosi alla storia come il sicario (il più noto, ma non l’unico) del Pd. Una sorta di virus che ha distrutto dall’interno quel che restava del centrosinistra. Spolpandolo con bulimia certosina. Dall’altra parte, o per meglio dire dalla stessa, Berlusconi. Quello che a novembre sembrava un po’ rincitrullito, a gennaio riusciva a far sembrare financo Giletti un giornalista incalzatore (“Me ne vado? Me ne vado? ”) e che due sere fa suonava allegramente il pianoforte alla serata dedicata ad Alemanno, dedicando canzoncine amene a Rosy Bindi e gioendo – con tutta la claque – per le dimissioni di Bersani. Ovvero uno dei suoi scudieri più instancabili. L’ennesima resurrezione del Caimano ha i connotati arcinoti.
UN MIX di talento mediatico, genialità del male e – soprattutto – insipienza degli avversari. Ogni volta che il centrosinistra lo ha visto in difficoltà, si è guardato bene dall’assestare il colpo definitivo.
Nel ‘97/98 fu la Bicamerale di D’Alema, nel 2007/8 il neonato (già morto) Pd di Veltroni, nel 2011 Napolitano, nel 2013 Bersani.
L’elettrocardiogramma di Berlusconi è irregolare. Ogni volta che sembra prossimo alla calma piatta, la presunta opposizione accorre – trafelata – col defibrillatore.
La trama non concede particolari variazioni. Funziona così: si arriva ciclicamente a un punto in cui, per mandare Berlusconi in fondo al precipizio, basterebbe una spinta. Una piccola spinta. Anche solo un refolo di vento. È però qui che, puntualmente, accadono due cose: la “sinistra” si intenerisce e – al contempo – Berlusconi recita la parte dello “statista responsabile”.
I primi, con fare pensoso, cominciano a straparlare di rispetto del “nemico” (quale nemico?) e propongono genericissime “larghe intese”.
Il secondo, con maestria consolidata, abbassa i toni. Naviga sottotraccia. Non appare. Si nasconde. Rilascia poche considerazioni che i soliti editorialisti cerchiobottisti definiscono (mal celando l’eccitazione) “altamente responsabili”. È avvenuto anche prima del Napolitano Bis. Per osmosi la finta moderazione colpisce anche falchi e colombe, droidi e fedelissimi. Al di là delle irrilevanti pasionarie caricaturali, ora una Mussolini e ora una Biancofiore, i Cicchitto e financo i Gasparri (per quanto possa un Gasparri) paiono meno invasati. Alludono al “paese che ha bisogno di essere governato”. Preconizzano “alleanze per il bene comune”.
SEMBRANO posseduti dal fuoco sacro della passione politica. La sensazione, vista con occhi minimamente smaliziati, è quella di tanti Jack Torrance (il protagonista di Shining) che a metà film si reinventano Richie Cunningham e ti offrono una gazzosa al bar di Happy Days. Un guasto narrativo che metterebbe in guardia persino Oldoini. Eppure, non si sa come (o forse si sa benissimo), la sinistra ci casca. Sempre. Dicendo e scrivendo: “Dai, Berlusconi in fondo non è poi così cattivo”. Ovviamente, un attimo dopo aver teso la mano (un Presidente, un salvacondotto, un inciucio), Jack Torrance spacca il locale e torna quello di prima. Tra le resurrezioni del Caimano, quella del 2013 è forse la più scombinata. La sceneggiatura è particolarmente forzata. Del resto è almeno la quarta saga del Lazzaro di Arcore, e anche Rocky IV era più debole del primo episodio. Ciò che non cambia mai è il finale. L’happy ending, però sui generis. In queste pellicole di cinema civile è sempre Jack Torrance che vince. Non tanto perché riesce a uscire dal labirinto, ma perché sono le vittime a indicargli la strada. A porgergli (con sussiego) l’ascia. Nel frattempo i processi restano. La polizia indaga. I testimoni giurano che “è stato lui”. Ma qualcuno, alla fine, un alibi glielo trova sempre. E quel “qualcuno” ha sempre la stessa faccia

La Stampa 21.4.13
Rodotà, l’escluso dal Pd sta già lavorando per rifondare la sinistra
Applausi a Bari e contatti coi grillini: sarà lui la cerniera
di Giuseppe Salvaggiulo


Cinque minuti dopo quella di Montecitorio, in base a una sceneggiatura involontariamente raffinatissima e diabolica, al teatro Petruzzelli di Bari va in scena un’altra standing ovation, non meno accorata. Applausi, urla ritmate «Pre-si-dente-pre-si-den-te». Il punto politico è che la platea inneggiante è gremita di dirigenti, sindaci, assessori, militanti ed elettori del Pd. E sul palco è appena salito Stefano Rodotà, il candidato che il Pd ha osteggiato. Rodotà è fatto così. Fa nulla per alimentare il clima di «insurrezione democratica», naturalmente molto radical chic (pochi grillini invece stanno fuori dal teatro, con striscioni anti inciucio). Ringrazia con un breve cenno della mano, guadagna la sedia invitando a un rapido ritorno alla compostezza, nemmeno sorride mentre il pubblico non cessa il tributo, in testa il sindaco Michele Emiliano.
Richiesto di un commento quirinalizio, il giurista evita di alimentare culto leaderistico e spiriti anti istituzionali: «Ringrazio tutti e sono contento che il mio nome parli alla sinistra. Siamo alla conclusione di una vicenda faticosa e difficile. Ogni decisione può essere discussa e criticata, anche duramente, ma va riconosciuta legittimità democratica e legalità costituzionale. Un saluto al rinnovato presidente della Repubblica». Seguono applausi, unanimi ma sensibilmente più tiepidi. Non nega che «il ceto politico ha dato una prova un po’ deludente», ma «sono sempre stato contrario a qualsiasi marcia su Roma». Poi parlerà di bioetica, da Ippocrate a Hannah Arendt, con evocazione finale di «poteri senza volto e non democratici, di cui è piena anche la Rete».
Gli ultimi giorni sono stati gonfi di entusiasmi ma anche di amare sorprese. In primis dal centrosinistra. Dopo le elezioni, sebbene fosse palese che la sua figura era l’unica di possibile cerniera tra centrosinistra e Cinquestelle, Bersani non l’ha mai chiamato. Dal centrosinistra solo insistenti richieste di desistenza condite con sgradevoli offerte di ipotetici ministeri.
Non solo. L’ostentata indifferenza è andata di pari passo con una campagna mistificatoria sulla sua biografia. Il primo presidente del Pds trattato come un corpo estraneo alla sinistra. Il quattro volte deputato e vicepresidente della Camera come un extraparlamentare. L’elettore della coalizione Pd-Sel come una mina vagante grillina. Il giurista garantista (dal teorema Calogero alla polemica con Ingroia da Garante della privacy) come un alfiere del partito delle manette. Ingenerose anche le accuse di scarsa sensibilità istituzionale. Di fronte a un decreto legge che cancellava i referendum del 2011 da lui promossi, rifiutò di firmare un appello contro Napolitano, sebbene condividesse le ragioni poi sancite dalla Consulta, per non coinvolgere il Capo dello Stato.
E ora? Negli ultimi giorni, assicurava che in ogni caso sarebbe rimasto in campo. Sta lanciando «la costituente dei beni comuni», che è in embrione un programma di governo, con assemblee in tutta Italia. Ma su un piano diverso da quello dei partiti. L’understatement esibito ieri testimonia che sarà la madonna pellegrina dell’ennesima «rifondazione di sinistra». Anche perché così la sua figura perderebbe tutto il sostrato popolare, quel fiume carsico che attraversa la società italiana e ha conosciuto negli incontri pubblici (500 persone a Reggio Emilia l’altro giorno, 1500 ieri a Bari), nelle scuole (12 mila studenti incontrati negli ultimi anni), tra i movimenti come al teatro Valle di Roma. Beppe Grillo è arrivato molto dopo. E anche il Movimento 5 Stelle viene ibridato da una personalità così diversa, che lo costringe - come alcuni già ammettono - a fare un salto di qualità rispetto al semplice «tutti a casa». Alcuni deputati grillini hanno contattato studiosi vicini a Rodotà per formare una commissione di «saggi» sulla crisi economica. E non è un caso che ieri la «marcia su Roma» sia stata annullata: troppo stridente con lo stile Rodotà.

La Stampa 21.4.13
Barca sfida i democratici su Rodotà: “Ma non attacco Napolitano”
“Da lui un atto di straordinaria generosità davanti ai partiti”
di Paolo Festuccia


Né una presa di distanze da Napolitano né un «distacco» dal Partito democratico. Ma in pochi giorni, dal lancio del suo memorandum politico Fabrizio Barca ha visto impallinare in sequenza un ex presidente del Senato (Franco Marini) e il fondatore dell’Ulivo (Romano Prodi) candidati, seppur con tempi, metodi diversi e tensioni, al Quirinale. Non solo. All’appello al Nazareno, nelle prossime ore, per loro stessa ammissione, mancheranno pure il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e la presidente, Rosi Bindi.
Così, nel vuoto politico e di potere il twitter di ieri a metà giornata di Fabrizio Barca, «incomprensibile che il Pd non appoggi Rodotà o non proponga Emma Bonino», è apparso ai più come un vero e proprio anatema. Una scomunica globale sia sul metodo che sulla strategia ai dirigenti del partito, alle loro scelte, alle alleanze «improvvisate» e a quella eventualmente «sacrificata» a causa del metodo sbagliato.
Insomma, a tutta quella élite che governa le forze politiche e a quei partiti «stato-centrici» che lo stesso Barca (nel suo memorandum lanciato la scorsa settimana) aveva messo all’«indice», e che di fatto sono gli attori principali di una «commedia» politica mal riuscita – sia sul dopo elezioni che sul voto per il Colle - e «alla base di quella filiera perversa che mina alla radice le istituzioni pubbliche».
Una diagnosi spietata, dunque, che Barca aveva sostanzialmente messo nero su bianco nella sua agenda politica, e che ieri ha condensato in pochissimi caratteri digitali ma che – si tienea puntualizzare – sono ben distanti «da un attacco al presidente Napolitano». Anzi, osserva, «il comportamento di Napolitano rappresenta un atto di straordinaria generosità, di fronte a ciò che i partiti gli chiedevano e che lui aveva chiesto di evitare». Nessuna vena polemica quindi. Certo è, però, che il tema resta e si intreccia, inevitabilmente, alle istituzioni e al ruolo che i partiti rivestono al loro interno.
Per questa ragione è inevitabile per chi come Fabrizio Barca, che poco più di una settimana fa si è iscritto al partito democratico e ha lanciato il suo «manifesto» per «un partito nuovo per un buon governo» richiamare l’attenzione proprio «suo ruolo del suo partito». Un partito, «quello democratico – osserva – che non doveva chiedere questo sacrificio al Presidente Napolitano». Ma, anzi, si lascia intendere avrebbe dovuto, almeno «avere la forza di saper proporre e imporre o saper scegliere». Da qui, l’idea di «sposare», eventualmente, una candidatura come quella di Stefano Rodotà, lanciata sì dal M5Stelle ma sostenuta e pure votata dal Sel di Vendola. Quel Sel che pare far parte, anche dei «disegni» politici di Barca; insomma, di quel «partito di sinistra» a cui pensa il ministro e intorno al quale si è detto disponibile a lavorare. Oggi, forse, più di prima. Al punto che molti, proprio ieri, hanno cominciato a chiedersi, non solo ironicamente, «a quale partito si fosse iscritto il ministro». «Al Pd – commenta – e la mia non è più né meno che una tra le moltissime voci che in questi giorni si sono levate nell’ambito del confronto all’interno del partito». E quindi a ben ragionare «sono iscritto al partito che unisce cultura liberale, cattolica e socialista».
Insomma, normale dialettica, confronto. Classificato da molti osservatori, però, come caos e scontro, «al punto – fa capire il ministro, rimasto silente in questi giorni per il rispetto al profilo istituzionale che riveste – che il Pd non è stato capace di giocarsi bene le carte a disposizione». Tre, soprattutto, «le tre soluzioni politiche che meglio incarnano le anime del partito. Quella di Romano Prodi ovvero quella cattolica-riformista, quella di Stefano Rodotà più socialdemocratica e infine quella di Emma Bonino ovvero l’anima liberale».
Tre figure popolari, adatte, competenti. Ecco, l’aver rinunciato a sposare una di queste opportunità scegliendo, invece, accordi traballanti avrebbe determinato la débacle totale del partito. Che che ha indotto il Pd, e altre forze a ricorrere ancora una volta al Presidente Napolitano. Senza peraltro attenersi agli auspici del Presidente, cioè quelli di evitare contrapposizioni, per evitare strappi e tensioni. Al punto sostiene il ministro che «l’odio, il risentimento che domina questi giorni si scioglie solo tornando ai principi che ci muovono». Principi che si rifanno alla Carta costituzionale e che dovrebbero animare la politica. Altro, allora che golpe come attacca Beppe Grillo. Perché il leader del M5Stelle «semplicemente straparla», sostiene Barca. Non è la prima volta né l’ultima. «Ma noi dobbiamo saper far politica».

La Stampa 21.4.13
Bersani, quella lacrima in aula e poi il rifugio a Bettola
Il segretario amaro, gelo con la Moretti che prova ad abbracciarlo
di Federico Geremicca


E così, alle sei della sera, Bersani - il duro, il pragmatico - si lascia andare e si commuove.
Laura Boldrini ha appena proclamato eletto Giorgio Napolitano e lui porta le mani a coprire il volto. Fioroni, Epifani e qualcun altro capiscono e accorrono. Accorre anche Alessandra Moretti, la sua giovane portavoce nella campagna per le primarie: Bersani è gelido, nemmeno sorride, forse vorrebbe ripetere il famoso «tu quoque», per quella inattesa scheda bianca sul nome di Marini, ma evita, glissa, non ne ha voglia e certe volte, in fondo, basta la freddezza.
L’incontro con Napolitano per chiedergli di tirare il Paese (e il Pd) fuori dai guai; poi il colloquio con Monti, i capannelli in Transatlantico, il sì del Presidente alla rielezione, il voto - finalmente - e il tempo che non passa mai, mentre davanti agli occhi di Bersani scorre il film degli ultimi due mesi, e non una che fosse andata come doveva andare. Le dimissioni sono confermate - le sue e quelle dell’intera segreteria - ammesso che qualcuno temesse o sperasse il contrario. Il Congresso si farà, e forse in fretta. Ma le dimissioni e il Congresso sono l’ultimo problema oggi - per Pier Luigi Bersani: quel che pesa è quel che lascia, l’eredità che consegna al successore, un elenco di obiettivi non raggiunti e da centrare.
Che cosa sia stata la segreteria Bersani per il Pd, lo dirà il tempo; oggi si può dire quel che lui, Pier Luigi, avrebbe voluto fosse. L’obiettivo fondamentale dopo gli anni del «partito liquido» di Veltroni e Franceschini - Bersani lo indicò con precisione nel discorso di investitura, 7 novembre 2009: un partito popolare, che non ceda alla nostalgia e non scivoli «nell’anarchismo e nella feudalizzazione». Ecco, dopo le mortificanti prove fornite dai Grandi elettori nel voto su Marini prima e Prodi poi, sono proprio queste le accuse (e le autocritiche) piovute sul Pd: un partito anarchico e diviso in feudi. Con un’aggravante imprevista, e dolorosa per il segretario: il comportamento stupefacente tenuto dai gruppi parlamentari, che proprio Bersani - dopo le elezioni - non si era stancato di esaltare perché nuovi, largamente rinnovati e pieni di giovani e donne provenienti dalla società civile. Una delusione, oltre che un evidente fallimento.
Però è questo quel che lascia, nonostante la fatica fatta e l’impegno dedicato: gruppi parlamentari governabili con difficoltà e non un partito ma - a quel che si è visto da dopo il voto in poi - due o forse addirittura tre. E poi, naturalmente, un problema politico irrisolto e grande come una casa: se avviare e poi attraversare questa legislatura cercando patti col Movimento Cinque Stelle oppure se continuare - sull’onda dell’eccezionalità - lungo la via della passata legislatura, e dunque con un rapporto con Berlusconi. È il bivio di fronte al quale il Pd è letteralmente imploso: due linee non compatibili, due linee buone per due partiti - uno che rilanci un’idea di sinistra, un altro meno ideologico e più moderato - per i quali due leader sembrano già in campo: Fabrizio Barca e Matteo Renzi.
La storia del quasi fu Pd riparte dunque da qui, e si deciderà in tempi assai vicini. Bersani, certo, dirà la sua. Ma un po’ d’acqua almeno dovrà passare sotto i ponti. Ieri, incassata l’elezione di Napolitano, se ne è tornato nella sua Piacenza. Mezzora di macchina, forse meno, per arrivare a Bettola. È da lì, dalla ormai famosa pompa di benzina, che partì l’avventura della sfida vittoriosa a Matteo Renzi. Sono trascorsi poco più di quattro mesi, e nessuno avrebbe potuto immaginare un epilogo cosi. Nessuno. A cominciare da Pier Luigi Bersani, naturalmente...

Corriere 21.4.13
La scheda bianca di Alessandra. Se la politica è (dolce) parricidio
Il leader del Pd Bersani e il voto della fedelissima Moretti
di Aldo Grasso


La disfatta politica e umana di Bersani contempla anche un parricidio simbolico, uno psicodramma luttuoso: Ale, la fedele Alessandra Moretti, il volto nuovo e accattivante della Nuova Era Bersaniana, è stata la prima a non rispettare gli ordini di scuderia sul voto a Franco Marini. La scusa? Banale: «Ho votato scheda bianca. La ricerca di un'ampia intesa parlamentare non può dividere il Pd, né ignorare la voce del Paese reale». Il Paese reale è quello abitato dalla società civile, il paese dei balocchi. È in quel preciso istante che Bersani deve aver capito che tutto era perduto, anche l'onore, anche la segreteria.
Splendida quarantenne, madre e sposa felice, vice-sindaco di Vicenza e avvocato specializzato in diritto di famiglia, Ale fa parte della Direzione nazionale del Pd ed è stata chiamata da Bersani quale portavoce nella campagna per le primarie. I meriti? Televisivi, innanzitutto, come quelli della Polverini. Ma lei buca meglio lo schermo, con quell'aria da «sciuretta» rassicurante, sempre appropriata, mai originale. Sono le infide inezie le armi più affilate.
Il suo faticoso apprendistato politico passa per le ospitate: Gruber, Floris, Formigli, Vespa, Del Debbio... Dal telecomando arriva l'investitura dello Smacchiatore: «Mi ha telefonato: ci ho pensato, fai tu il portavoce. E io, senza riflettere, ho detto sì. Che potevo fare? È un uomo autorevole dalla straordinaria normalità». Per incoraggiarla, le dicono che sembra Carole Bouquet.
Lei ricambia: «Bersani è bello come Cary Grant». Era appena l'altrieri. Ale non piaceva a tutti, la cooptazione da parte del vertice del Pd evocava i metodi del centralismo democratico, che però, alla prova dei fatti, si è sciolto come neve al sole. L'accusavano anche di fare errori sulla carriera politica del suo Capo (gaffeuse, ma con garbo), di aver appoggiato, anni fa, la candidatura dell'ex coordinatore regionale veneto di Forza Italia, Giorgio Carollo.
Acqua passata, niente di fronte ai rancori, ai tradimenti, alle congiure che hanno affossato il Pd, corroso da voluttà autodistruttiva. Per Ale vale solo la maledizione di Porta a porta: ieri portaborse, oggi portavoce, domani portacenere. Le ceneri di Gramsci.

Corriere 21.4.13
Il ritorno del padre e la politica «bambina»
di Michele Ainis


Da qualche settimana era scomparso dalla scena. Cancellato dai partiti, dai giornali, dalle tv pubbliche e private. Niente più titoli per il vecchio presidente, mentre montava l'attenzione intorno al nuovo, mentre s'intrecciavano proiezioni e spartizioni sulla scelta per il Colle.
Noi italiani siamo fatti così: dimentichiamo presto, tiriamo avanti senza conservare alcuna memoria del passato. Come bambini, come se i nostri giorni stiano sempre lì lì per cominciare. Poi i bambini si sono trasformati in una classe scalmanata, che ha cominciato a demolire perfino i muri della scuola. E hanno avuto paura, gli uni degli altri, ciascuno di se stesso. Si sono riscoperti orfani, quando a ogni bambino serve un babbo. Sicché hanno chiesto soccorso al vecchio padre, che già pregustava il buen retiro. E che in precedenza aveva già dichiarato in mille lingue d'essere indisponibile alla propria rielezione. Stavolta ha detto sì, sebbene a malincuore. Lo ha fatto per non sottrarsi alle sue responsabilità davanti a un Parlamento irresponsabile. Ma al contempo ha chiesto ai partiti d'assumersi le loro, d'offrire un governo a quest'Italia sgovernata.
Magari qualche politologo, digiuno di diritto ma esperto in oroscopi falliti, ora dirà che siamo piombati in una Repubblica presidenziale, anzi nel regno di Napolitano I.
Non è così, nessuna norma costituzionale viene trasgredita da questa rielezione. Anche se è la prima volta, fin qui non era mai successo. In passato sarebbe stato inopportuno, perché la democrazia si nutre del ricambio di classi dirigenti, perché nessuna carica dovrebbe prolungarsi oltre misura. Però c'è un tempo della regola, e c'è un tempo per l'eccezione. Che a sua volta si giustifica quando mira a ristabilire il primato della regola, quando insomma le regole del gioco vengano infrante dai giocatori in campo.
Morale: la nostra Carta sarà pure ingiallita, ma è sempre in grado d'aprire qualche pagina fresca di stampa. Nel 1947 i costituenti saggiamente non proibirono la rielezione del capo dello Stato, come fecero ad esempio rispetto ai membri del Consiglio superiore della magistratura (art. 104). Lasciarono schiusa una finestra per tempi eccezionali, e quei tempi, ahimè, li stiamo attraversando adesso. D'altronde nella Costituzione italiana neppure c'è un niet alle dimissioni prima di concludere il mandato. Vige una soglia massima (7 anni), non minima. E vige un principio di libertà, perché nessuna carica può diventare una galera. Tanto che Cossiga, a suo tempo, pensò di dimettersi da senatore a vita. Napolitano lo farà quando verrà il momento, quando la nostra navicella navigherà in acque più sicure.
Sì, è un buon viatico questa rielezione. Può accompagnare il bambino che abita dentro la politica, e farlo crescere, e trasformarlo in un adulto. Può educarci all'unità, mentre viviamo da separati in casa. Può allevare una stagione di riforme, di cui abbiamo più che mai bisogno. E in ultimo può indicarci un esempio, un modello da emulare: per ottenere istituzioni disinteressate, le cariche si danno a chi non le reclama.

Corriere 21.4.13
Pd, è iniziato il congresso: si dimette l'intera segreteria Il pianto (e l'ira) di Bersani
Il leader: ascoltatemi, basta tweet. Strappo di Vendola
di Monica Guerzoni


ROMA — Quando si spegne anche l'ultimo applauso e i grandi elettori cominciano a lasciare l'Aula, un parlamentare del Pd si avvicina a Bersani: «Abbiamo superato uno scoglio alto Pier Luigi, adesso puoi ritirare le tue dimissioni...». E il segretario, smentendo ripensamenti: «Quello è uno scoglio molto più alto». Pochi minuti dopo è ufficiale, il Pd non ha più un leader e la segreteria si dimette in blocco. Enrico Letta sa che dentro il Pd bisognerà fare «grande pulizia» e annuncia che si andrà rapidamente al congresso: «È stata una bella pagina di democrazia, ma la vergogna dei franchi tiratori è indelebile. Basta divisioni e trabocchetti».
Resta l'amarezza, mista alla soddisfazione per un voto che ricompatta il partito, almeno per un giorno. E restano le lacrime di Bersani fra i banchi del Pd, che dicono le tre notti insonni e il terrore di altri franchi tiratori. Scampato il pericolo la tensione si scioglie, l'ormai ex segretario si asciuga gli occhi ed esce di scena. La stampa lo aspetta al varco, in Transatlantico. Ma l'uomo di Bettola è stanco, scivola via dall'Aula da un'uscita laterale e parte per Piacenza, a casa.
«L'elezione di Napolitano è un risultato eccellente» lo ringrazia Bersani e fa appello al senso di responsabilità del suo partito: «Le difficoltà e i problemi politici restano». Dietro le spalle, un Pd nel caos. La sequenza choc di strappi, ribaltoni e agguati con cui il centrosinistra ha contribuito ad affossare Marini e Prodi manda in pezzi l'alleanza. La coalizione non esiste più, Nichi Vendola ha violato i patti nel nome di Rodotà e già lancia l'opa sulla sinistra del Pd, già annuncia un'«Assemblea di popolo» in vista di un nuovo soggetto della sinistra.
«Saremo all'opposizione del governissimo», è la sfida di Vendola. E Fabrizio Barca, con una dichiarazione sorprendente anti-Napolitano, apre di fatto il congresso del Pd. Matteo Renzi è l'avversario naturale, ma il sindaco non svela i suoi piani: «Candidarmi? Da qui alle assise c'è tempo... Le dimissioni di Bersani sono una decisione saggia». Pier Luigi ne è uscito «in piedi», dicono i suoi. Ma il peggio deve ancora arrivare. La scissione è nell'aria. Il timore diffuso è che il Pd non regga alla prova del governissimo e che l'ala sinistra lasci il partito per unirsi a Sel. Fra due o tre giorni qualche demo-grillino potrebbe già accomodarsi fuori, in attesa degli eventi. «Bersani è stato fottuto dal suo stalinismo», è il benservito di Corradino Mineo. È in questo quadro che si inseriscono le parole di Barca, il cui tempismo allarma i dirigenti dimissionari. «Incomprensibile che il Pd non appoggi Rodotà o Bonino» scrive su Twitter il ministro, una manciata di minuti dopo che l'assemblea dei grandi elettori democratici ha acclamato Napolitano. È una sirena per Vendola e Grillo e, per il Pd, il segnale della rottura imminente. La conferma che il partito è davvero finito e un'altra storia comincia. «Io non lavoro per la scissione del Pd, ma lì covano due opzioni politiche» smentisce Vendola, e suona come una conferma. «Faremo un governo solido e chi non lo condivide farà le sue scelte», indica la porta Fioroni. Il capogruppo Roberto Speranza è sorpreso per le parole «divisive» di Barca, Ettore Rosato le ritiene «inopportune» e anche Renzi le ha lette come «singolari e intempestive».
Il problema, adesso, è chi rappresenterà il Pd alle consultazioni oltre ai due capigruppo, Speranza e Luigi Zanda. Per ora una reggenza non è prevista, tanto più che le voci di palazzo accreditano Letta come probabile presidente incaricato. Si parla di un «direttorio», di «gestione collegiale» e di «comitato di reggenza», ma sarà la direzione a decidere. La lotta intestina non si placa, le giovani leve, da Alessandra Moretti a Marianna Madia, raccolgono firme in calce a un documento che respinge il sospetto di aver sabotato Prodi e certifica lo scontro generazionale: «Il Pd è dilaniato da vecchi rancori». Walter Tocci, Laura Puppato e Pippo Civati non hanno votato Napolitano e non sono i soli, nonostante il duro monito di Bersani al mattino, all'assemblea dei gruppi. «Basta, mi avete rotto! — si arrabbia il leader dimissionario, con una botta di orgoglio —. Lo volete capire che quando dico una cosa è quella? Con Napolitano non c'è alcuno scambio sul governo, né per Amato né per altri. Cerchiamo di evitare al Paese guai peggiori... E smettiamola con questi telefonini, la politica non si fa a colpi di tweet e di sms».

Corriere 21.4.13
Il Pd, la rana che si credeva un bue. Le cinque faglie di un collasso
di Michele Salvati


Il collasso del Pd come partito è così palese, e sono così evidenti gli errori che hanno fatto i suoi dirigenti nella conduzione del passaggio post elettorale, che la mia prima reazione è: non prendetevela solo col Pd, non sparate sulla Croce Rossa! Scavate più a fondo per capire le ragioni della crisi finale della Seconda Repubblica, di un vecchio che è morto e di un nuovo che non riesce a nascere.
Un Pd diviso su tutto e indeciso a tutto, guidato (si fa per dire) da una dirigenza illusa dai seggi conquistati grazie a un premio di maggioranza che sfida la legittimità democratica, era destinato a questa fine: come la rana di Esopo che si crede bue — sto parafrasando un bellissimo tweet di Claudio Petruccioli — si è gonfiato sino a scoppiare. La truffaldina maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato hanno fatto dimenticare ai dirigenti del Pd due verità fondamentali in ogni calcolo politico. Di essere solo una minoranza nel Paese e, soprattutto, di non essere una minoranza compatta e manovrabile: la «ditta» di oggi non è più, né mai potrà più essere, il grande Partito con la P maiuscola che Bersani ha sempre in mente. Costretto dai numeri a prendere l'iniziativa, dovendo abbandonare la comoda posizione di agire di rimessa, le spaccature interne sono diventate evidenti. Volendo semplificare, ci sono almeno cinque linee di faglia che si intersecano e sovrappongono all'interno del Pd.
La prima è quella che attraversa tutti i partiti della sinistra democratica europea ed è una faglia dannosa, ma non esiziale: la divisione tra coloro che rimpiangono le politiche della socialdemocrazia nei trent'anni gloriosi del dopoguerra e coloro che ritengono non siano più attuabili e occorra una sterzata in direzione liberaldemocratica, se si vuole restare un partito di governo. Questo contrasto, che altrove viene risolto con vinti e vincitori, c'è anche nel Pd ma non è stato mai affrontato seriamente: spazzato sotto il tappeto, riemerge quando è necessario prendere decisioni importanti. Tutte le altre linee di faglia, le più insidiose e meno idonee allo scopo di definire l'identità di sinistra del partito, non sono linee europee ed hanno a che fare con la storia contorta, lontana e recente, del nostro Paese.
Il Pd è nato da una fusione oligarchica tra elite ex comuniste ed elite provenienti dalla sinistra democristiana: la vecchia faglia laici/cattolici, che in altri partiti di sinistra europei non esiste o ha minor rilievo, si è dunque aperta sin dall'inizio nell'Ulivo e nel Pd, e ha creato danni anche in occasione di questa elezione del presidente della Repubblica. Ma tra le faglie di origine nostrana la più grave è di origine assai più recente, quella tra anti-berlusconiani duri e puri e tra coloro che, pur critici di Berlusconi, tengono conto del fatto che il Cavaliere ottiene il consenso di un terzo degli italiani: la si è vista in opera in modo drammatico in queste elezioni presidenziali. L'origine e la profondità di questa faglia stanno nel fatto che essa nasce da un moto di indignazione spontaneo nei confronti di una evidente «unfitness to rule», inidoneità a governare, come l'ha definita l'Economist, di Silvio Berlusconi. Nasce nella società civile, nel mondo dei media, delle associazioni, dei social network. E la dirigenza del Pd, in mancanza di idee forti e ampiamente condivise sui temi cruciali delle politiche economiche e sociali, sui veri temi di destra e sinistra, l'ha ampiamente cavalcata. Le cosiddette parlamentarie del Pd hanno mandato al Senato e alla Camera un gran numero di giovani: quanti di loro hanno in proposito idee diverse dai seguaci di Beppe Grillo?
A proposito di giovani, veniamo alla faglia — interna ai militanti e dirigenti del partito — tra giovani e vecchi, tra rottamatori e rottamandi. Credo si tratti di una faglia minore, presente dai tempi di Roberto Michels in tutti i partiti, ma in Italia più insidiosa per il conservatorismo dei ceti dirigenti, per i patti parasociali tra i partiti che hanno dato vita al Pd e per la forte assonanza con le polemiche anti-casta diffuse nella società e più intense che in altri Paesi. Molto più grave è l'ultima faglia, anch'essa assente nei sistemi istituzionali più consolidati degli altri Paesi europei: lo scontro tra innovatori e conservatori istituzionali, tra coloro che considerano la nostra Costituzione «la più bella del mondo» e coloro per i quali la forma di governo disegnata nella seconda parte non è più in grado di governare efficacemente e democraticamente un sistema passato dalla democrazia dei partiti (Pietro Scoppola) alla democrazia del pubblico (Bernard Manin).
Con bonomia emiliana, con tecniche da conte zio — «troncare, sopire» — ma in realtà appoggiandosi al fronte conservatore, Bersani e i suoi hanno cercato di tenere in piedi la ditta fino a quando è stato possibile. Poi è arrivato il tempo delle decisioni, le faglie si sono mosse e c'è stato il terremoto. La domanda è se la ricostruzione — semmai di un edificio di minori pretese ma meglio costruito — arriverà in tempo per le prossime elezioni e sarà in grado di cancellare la cattiva immagine che il Pd ha dato di sé in questi ultimi tempi.

Corriere 21.4.13
Corradino Mineo
«Colpa di Silvio se ho detto no al Presidente»
intervista di Virginia Piccolillo


ROMA — C'è stato un solo «no» contro il Napolitano bis nell'assemblea del Pd. Era di Corradino Mineo, l'ex direttore di RaiNews24, che poi lo ha votato.
Perché?
«Perché non ho nulla contro il presidente Giorgio Napolitano. Anzi ho molto apprezzato la generosità del suo gesto».
Sotto quale punto di vista?
«Dopo tutte le battaglie politiche che ha fatto nella sua vita venire a salvare una banda di dilettanti allo sbaraglio è stato un gesto molto generoso. E gliene do atto».
E allora?
«Il problema non è la sua persona. Per questo l'ho votato. Ma il modo in cui è nata la sua elezione».
Ovvero?
«Con un patto con un uomo come Silvio Berlusconi che non ha mai rispettato un patto: lui compra. Ma lo dico con rispetto».
Beh, non sembrerebbe.
«È il suo modo di far politica».
Non è la politica delle larghe intese invocata da Napolitano?
«Le parole nel corso degli anni cambiano il loro significato. Le larghe intese del 1976 erano quelle della Dc e del Pci che insieme avevano l'80% dell'elettorato. Non sono quelle di Pd e Pdl che hanno perso 9 milioni e mezzo di voti, si sono sempre tirati pietre su tutto e ora fanno l'inciucio».
Voleva che il presidente fosse Stefano Rodotà?
«Dei grillini si può dire tutto il male del mondo, ma non che non siano riusciti dove altri hanno fallito. Secondo me bisognava convergere sulla loro proposta invece di provare l'accordo con partiti che non sono coniugabili e tentare la carta perdente Franco Marini».
Lei è stato tra i franchi tiratori di Romano Prodi?
«No. Prodi l'ho votato. Quando il partito si è arroccato ho sentito il dovere di farlo. E poi Prodi era garanzia di non inciucio».
Nichi Vendola ha annunciato che collaborerete a un nuovo soggetto politico. Quale?
«Non lo so. Ma qualcosa nel Pd ora deve cambiare».

Corriere 21.4.13
Renzi convince i Giovani turchi. Al via la «Rifondazione democratica»
I nuovi equilibri del partito dietro la «gaffe» di Barca pro Rodotà
di Maria Teresa Meli


ROMA — La chiamano già «Rifondazione democratica». È il nuovo corso del Pd che si è liberato dei «padri», cioè di D'Alema, Veltroni e Bersani. Alla guida di questo processo ci sarà — sembra quasi superfluo dirlo — Matteo Renzi.
Il sindaco rottamatore ieri è rimasto nella sua Firenze, ma ha seguito passo dopo passo quello che succedeva a Montecitorio. E ai fedelissimi ha spiegato: «Molti sono stati colpiti a affondati, io no. Ieri in questo partito c'erano Bersani e Bindi, oggi non ci sono più: il Pd può finalmente cambiare. Ora dovrò pormi il problema del congresso, dovrò decidere se candidarmi alla segreteria, è vero, ma andiamo avanti un passo per volta. Intanto abbiamo conquistato la possibilità di fare cose nuove. E poi vedremo quello che succederà in futuro: magari dovrò confrontarmi alle primarie con quello del catoblepismo». E quest'ultima parola è affogata in una risata.
Già, perché Fabrizio Barca ha sbagliato tempi e modi della sua uscita a favore di Rodotà, giocandosi le simpatie dei Giovani turchi. A immaginare con lui un nuovo partito che si fondi con Sel sono rimasti Gianni Cuperlo e il governatore della Toscana Enrico Rossi. Mentre Laura Puppato ha lasciato il Pd per veleggiare verso Nichi Vendola. Quel che resta del Partito democratico starà con Renzi. Il sindaco è su di giri: non lo preoccupa nemmeno il fatto che potrebbe nascere un nuovo governo, facendo slittare i tempi delle elezioni e, quindi, della sua candidatura: «Aspetto, ho tutto il tempo che voglio». Anche perché è sensazione diffusa che questo esecutivo, se mai vedrà la luce, non godrà di vita lunga: un annetto al massimo.
Quel che sta accadendo nel Pd è un rinnovamento generazionale e non solo. A Roma Matteo Orfini delinea già le possibili novità. Che partono da subito: «Intanto alle consultazioni non ci possono andare Enrico Letta, Speranza e Zanda perché non mi rappresentano. Qualsiasi impegno che loro possono prendere non mi riguarda. Non si può fare finta di non vedere quello che è successo. Perciò la delegazione che andrà al Quirinale dovrà rispettare tutti e non solo le vecchie correnti: bersaniani, lettiani e franceschiniani. Non sono più quei tempi e infatti deve cessare anche la conventio ad excludendum nei confronti di Matteo Renzi. Il sindaco rappresenta il 40 per cento di questo partito».
Insomma, i Giovani turchi vogliono anche loro la Rifondazione democratica, anzi puntano ad arrivare all'obiettivo il prima possibile. E c'è un aspetto della rivoluzione operata dentro il Pd che può incidere nel prossimo futuro. Basta ascoltare di nuovo Orfini: «Non è affatto scontato che ci sia il nostro "sì" al governo e non è affatto detto che un esecutivo si possa mettere in piedi solo con il Pdl. Vogliamo discutere pure di questo». Insomma, tutto viene rimesso in gioco in questo Pd che corre verso Renzi. E non c'è Barca che tenga. Tanto più dopo l'appoggio a Rodotà. «Una roba inaccettabile», sibila Stefano Fassina. Del resto, i Giovani turchi hanno ormai rotto il legame che li teneva a Sel: «Sono come Bertinotti». Ora il loro interlocutore politico si chiama Renzi. Sarà con il sindaco che dovranno trovare l'accordo e sarà con lui che dovranno lavorare. I vecchi equilibri si sono spezzati per sempre. Cercano di farlo intendere anche al povero Roberto Speranza, capogruppo da troppo poco tempo per comprendere quello che sta accadendo.
Adesso dovrà mettersi in moto la macchina congressuale, perché le assise nazionali devono tenersi al più presto. C'è chi le vorrebbe fare già a giugno, senza aspettare ottobre. Ma i tempi dipenderanno inevitabilmente dalle vicende politiche: se non si riuscisse a fare un governo e si dovesse andare alle elezioni, allora il congresso potrebbe slittare.
Ma i «padri» non hanno veramente troppa fretta di essere sloggiati dalle loro rendite di posizione. Perciò si stanno cercando di riorganizzare e di resistere al ricambio generazionale. E guardano a Guglielmo Epifani come al possibile segretario del dopo Bersani. L'ex leader della Cgil è una figura rassicurante, è l'unico del Pd che in questi giorni è riuscito a parlare con la gente che manifestava fuori del Palazzo. Ed Epifani, sul governo che verrà, ha idee diametralmente opposte a quelle di Orfini. Secondo lui «l'unica chance» è l'esecutivo «con il centrodestra»: «Non ho paura di dirlo, anche perché, dopo tutti gli scioperi che ho organizzato contro di lui nessuno mi può dare del berlusconiano».
È Epifani, dunque, la carta che potrebbe essere giocata da una parte del Pd al tavolo delle primarie? Sarà lui a sfidare Matteo Renzi alle primarie quando verrà il momento di decidere di chi è la leadership del Partito democratico? L'ex segretario della Cgil si schermisce, ma è proprio lui quello che in questi giorni di sbandamento di Bersani ha cercato di aggiustare la linea e di evitare che il Pd in affanno da eccesso di insulti via web, finisse fuori strada. Certo, Epifani e Renzi sono due mondi opposti. Che però convivono nello stesso partito. «È vero — ammette lo stesso Epifani — ci sono nel Pd due tronconi politici e culturali diversi e in questi giorni, durante la vicenda del Quirinale, si è visto con particolare evidenza».

Corriere 21.4.13
«Il futuro? Non tutto ciò che viene da Firenze va bene»
Fioroni: spero che Pier Luigi ci ripensi. Chi sceglieva con lui ora fa lo scaricabarile
intervista di Alessandra Arachi


ROMA — Onorevole Beppe Fioroni, allora: cosa è successo?
«Beh, abbiamo eletto Giorgio Napolitano, un presidente a cui va il ringraziamento di tutto il Paese, e lo abbiamo eletto con oltre il 70% dei voti, dunque consegnandoli e confermando la sua grande autorevolezza e credibilità...».
Veramente intendevo dire: cosa è successo secondo lei nel suo partito, il Pd, nelle ultime settantadue ore?
«Sono rimasto esterrefatto e rattristato».
Per che cosa?
«Per come sono state trattate due personalità cattoliche come Franco Marini e Romano Prodi, loro che sono stati i padri fondatori del centrosinistra».
Ma chi li ha trattati così male secondo lei? Chi sono stati i franchi tiratori, oltre un centinaio, almeno nella votazione per Romano Prodi?
«Non è un problema di nomi, ma di nodo politico tra chi vuole un presidente di centrosinistra ma largamente condiviso dalle forze politiche, come vuole la nostra Carta costituzionale, e chi invece vuole che continui il nostro inseguimento a Grillo. E Grillo è quello che oggi invoca il golpe e organizza la marcia su Roma».
Certo, però: sappiamo dire chi vuole una cosa e chi vuole l'altra? C'è chi sostiene che dietro la pattuglia di franchi tiratori ci fosse anche lei.
«Lo so. I veleni sono stati tanti. Un pressing continuo. Dopo la sconfitta di Franco Marini c'era chi puntava il dito dicendo che si sarebbe scatenata la vendetta dei mariniani».
Ed è per questo che lei ha fotografato la sua scheda della votazione con il nome di Romano Prodi, il giorno dopo?
«Già, i veleni erano davvero tanti».
Ma si può fotografare la scheda?
«Massì, sono stati tantissimi quelli che hanno fotografato la scheda. Anche come ricordo, no? Del resto Nichi Vendola e i suoi si sono voluti contare scrivendo sulla scheda il cognome di Prodi con l'iniziale del nome puntata davanti. Il problema non è la scheda fotografata, ma il clima politico che si è generato con i veleni e i capri espiatori. È quello che va rimosso. Con l'affossamento di Marini qualcuno ha pensato bene di aver rimosso Bersani. Con quello di Prodi altri hanno pensato di poter togliere di mezzo direttamente il Pd».
Un gioco del domino. Ma di nuovo: chi ha potuto orchestrare tutto questo dentro il Pd, secondo lei?
«I nomi li andrei a cercare tra chi vuole le elezioni anticipate e non vuole un governo delle riforme e sogna l'annessione del Movimento 5 Stelle».
E adesso? Come lo vede il futuro del Partito democratico?
«Se fosse possibile vorrei davvero che il segretario Pier Luigi Bersani ci ripensasse. Mi dispiace davvero che si sia dimesso e lo dico io che sono stato sempre all'opposizione. Mi auguro torni sui suoi passi perché è una persona per bene e seria. E questo in politica non è certo poca cosa».
Altrimenti?
«Intanto penso che Bersani voglia affrontare la nuova stagione con una gestione collegiale che porti il partito alla fase congressuale. Ma spero anche che intenda guidare con responsabilità la futura scelta per il nuovo governo».
E poi?
«Mi auguro che nel partito si arresti il gioco dello scaricabarile».
Cioè?
«Adesso non si trova uno che voglia condividere una scelta fatta insieme con Bersani. E anche chi stava con Bersani mentre venivano fatte quelle scelte adesso dice di non aver visto, di non aver sentito».
Ma quando, e semmai, dovesse finire il gioco dello scaricabarile, cosa augura al futuro del Partito democratico?
«Una cosa fondamentale: smettere di pensare che tutto quello che viene da Firenze o da Genova sia giusto».

Repubblica 21.4.13
Solo lui può riparare il motore imballato
di Eugenio Scalfari


IERI, alle ore 15, Giorgio Napolitano ha accettato d’essere rieletto alla carica di Presidente della Repubblica dopo aver ricevuto pressanti inviti da parte di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, Lega inclusa sia pure con qualche riserva e Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia (La Russa) esclusi. I grillini hanno continuato a votare Rodotà rafforzato dal partito di Vendola. Alle ore 18 Napolitano è stato rieletto con 738 voti. Questa è la cronaca telegrafica dei fatti già universalmente noti.
Tra quanti hanno tirato un respiro di sollievo alla rielezione di Napolitano ci sono anch’io. Conosco infatti bene le ragioni che fino a ieri avevano motivato il suo fermo rifiuto alla proposta di accettare il reincarico per tutto il tempo necessario per sbloccare una situazione pericolosa di stallo della democrazia.
Il Presidente quelle ragioni me le aveva spiegate in un colloquio avvenuto due settimane fa, del quale detti allora conto su questo giornale.
Al di là del gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede, altre ce n’erano a spiegare la sua posizione. La principale che tutte le riassume era la necessità che dopo un lungo settennato ci sia un passaggio del testimone ad un’altra personalità con altro carattere e altra biografia politica, che tenga conto della precedente esperienza ma ne aggiorni i contenuti.
Discontinuità nella continuità, questo è l’insegnamento che la storia della Repubblica consegna a chi ricopre il ruolo di rappresentare la nazione, coordinarne le istituzioni e i poteri costituzionali, tutelare i deboli, garantire le minoranze, rafforzare i valori della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Napolitano voleva che questo ricambio avvenisse come del resto è sempre avvenuto dalla nascita della Repubblica fino a ieri. Certo non prevedeva quanto nel nuovo Parlamento sarebbe accaduto. Soprattutto non prevedeva che il Partito democratico crollasse su se stesso affiancando la propria ingovernabilità a quella addirittura strutturale del nuovo Parlamento, diviso in tre tronconi (tre e mezzo per l’esattezza) di pari consistenza per quanto riguarda i consensi espressi dagli elettori e ferocemente opposti ciascuno agli altri. E quindi: un Parlamento ingovernabile e partiti autoreferenziali, due dei quali caratterizzati da populismo e demagogia e l’altro dominato da correnti contrapposte che ne segano non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sorregge.
Risultato: blocco dell’intero sistema, Paese allo sbando, credibilità internazionale in calo vertiginoso. I mercati finora non ci hanno penalizzato e questo dipende da alcune cause tecniche che sono state già largamente esaminate. Ma se il blocco fosse ancora durato le acque calme della Borsa e dello spread sarebbero tornate tempestose, la speculazione fa cambiare in pochi minuti la direzione e l’intensità del vento.
Tutto questo non era prevedibile due settimane fa, ma non da me che lo sentivo arrivare e ne ero profondamente preoccupato.
Mentre scrivo (è la sera di sabato) è in corso una manifestazione silenziosa e composta di grillini in piazza Montecitorio. Grillo non vuole eccitare i suoi e quindi non andrà in piazza.
Rodotà da Bari, dove ha partecipato ad un dibattito culturale organizzato dal nostro giornale, ha deplorato le marce su Roma ed ha dichiarato che l’elezione di Napolitano si è svolta nell’ambito previsto dalla Costituzione. Poco prima Grillo aveva invece parlato di golpe, ma Grillo, si sa, è un comico.
* * *
Conosco Stefano Rodotà da quasi sessant’anni. Entrò nel Partito radicale fondato nel
1956 dagli “amici del Mondo” e da allora ci furono tra noi sentimenti di amicizia e collaborazione. È stato più volte parlamentare militando nei partiti post-comunisti e, prima, tra gli indipendenti di sinistra associati al Pci. Fu poi presidente del Pds e vicepresidente della Camera, ebbe incarichi nelle istituzioni culturali europee e infine presiedette l’autorità che tutela la privatezza delle persone. Ha scritto molti libri di diritto, è docente universitario, ha lanciato il referendum sull’acqua pubblica e collabora al nostro giornale fin dal primo numero scrivendo sui temi che più lo interessano.
I grillini, nelle loro “quirinarie” su Internet, l’hanno scoperto e piazzato al terzo posto d’una loro lista di candidabili al Quirinale, dopo la Gabanelli e Gino Strada. I due che lo precedevano hanno ringraziato ma rifiutato, lui ha ringraziato e accettato. Il resto è noto.
Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Partito democratico e i vecchi amici non l’hanno contattato. Essendo tra questi ultimi debbo dire che neanche lui ha contattato me. Che cosa avrei potuto dirgli? Gli avrei detto che non capisco perché una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino per la massima autorità della Repubblica.
Il Movimento 5 Stelle, come è noto, vuole abbattere l’intera architettura costituzionale esistente, considera l’Europa una parola vuota e pericolosa, ritiene che i partiti e tutti quelli che vi aderiscono siano ladri da mandare in galera o a casa «a calci nel culo». Come puoi, caro Stefano, esser diventato il simbolo d’un movimento che impedisce ai suoi parlamentari di parlare con i giornalisti e rispondere alle domande? Anzi: che considera tutti i giornalisti come servi di loschi padroni? In politica, come in tutte le cose della vita, ci vuole il cuore, la fantasia, il coraggio, ma anche il cervello e la ragione.
* * *
Adesso Napolitano farà un governo, è la cosa più urgente della quale ha bisogno il Paese. Naturalmente un governo politico come tutti i governi che hanno bisogno della fiducia del Parlamento. Un governo di scopo, adempiuto il quale passerà la mano o proseguirà se il Parlamento lo vorrà.
Il governo seguirà le indicazioni di scopo che il Capo dello Stato gli affiderà in parte già contenute nel documento dei “saggi” a lui consegnato una decina di giorni fa e già reso pubblico. Ai primi posti ci sono la riforma della legge elettorale, la riforma del Senato, la riforma del finanziamento dei partiti, una politica economica che, nel rispetto degli impegni già presi con l’Europa, adotti provvedimenti mirati alla crescita e all’equità per alleviare al più presto e il più possibile la morsa della recessione, iniettando liquidità nelle imprese, alleggerendo il cuneo fiscale, modificando l’Imu per quanto riguarda le piccole imprese e le famiglie meno abbienti, infine sostenendo socialmente gli esodati e i lavoratori precari.
Quanto ai partiti, anch’essi hanno bisogno d’una profonda riforma, tutti, nessuno escluso. Il Partito democratico ha bisogno addirittura d’una rifondazione. Ne avrebbe bisogno più di tutti il Pdl, ma lì c’è un proprietario ed è impossibile riformarlo se non licenziandolo; ma è possibile licenziare il proprietario?
Il Pd non ha proprietari, non c’è un Re nel Pd. Però ci sono i vassalli l’un contro l’altro armati. È una fortuna non avere un Re ma è un terribile guaio esser dominati da vassalli e valvassori. Questo è il problema che dev’essere risolto.
Bersani, credo in buona fede, pensava d’averlo modificato rinnovando il grosso della rappresentanza parlamentare, ma non è stato così. Riempire i seggi parlamentari con persone alla prima loro esperienza, mantenendo però in piedi un ristrettissimo apparato, aumenta la partecipazione della base soltanto nella forma ma non nella sostanza. I nuovi eletti seguono più l’emotività che la ragione e l’esperienza debbono ancora farsela. Qual è la società che vogliono? Qual è l’interesse generale che dovrebbero perseguire? Non mi sembra che questa visione del bene comune sia chiara nelle loro teste e in quelle dell’apparato meno ancora. Si scambia l’interesse generale con quello del partito e l’interesse del partito con
quello della corrente cui si appartiene. Questo è accaduto negli ultimi mesi ed ha raggiunto il culmine negli ultimi giorni. Oggi si lavora sulle rovine prodotte da mancanza di senno e da miserabili interessi di fazioni contrapposte.
Bisogna guardare alla nazione e bisogna guardare alla costruzione d’una Europa che sia uno Stato federale che ci contiene. Se questi dati di realtà non entrano nelle teste della classe dirigente, non ci sarà mai né una destra decente né una sinistra efficiente. Gli impuri diventeranno legione, i puri saranno velleitari e inconsapevoli. Carne da cannone.
I grillini? Anche lì c’è un proprietario e anche lì i puri sono carne da cannone. La discontinuità va bene se aggiorna ma non distrugge il patrimonio di esperienze della nostra storia repubblicana nel bene e nel male.
L’Italia l’hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l’affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

Repubblica 21.4.13
Il partito è spaccato, da una parte l’Opa di Renzi e dall’altra una sinistra che guarda a Barca e Vendola. Possibile già martedì la riunione della direzione
Pd nel caos, è rischio scissione via la segreteria, ora il congresso Renzi: “Candidarmi? Vedremo”
L’ipotesi di una reggenza. Zanda: resti Bersani
di Giovanna Casadio


ROMA — La “ditta” è prossima al fallimento. Senza più titolare - da ieri sera le dimissioni di Bersani sono esecutive - il Pd si prepara a «un chiarimento». Ma più che di chiarezza, Enrico Letta, il vice, parla della necessità di «fare grande pulizia» e annuncia che con il leader si è dimessa tutta la segreteria: è azzerato l’intero gruppo dirigente. Pochi democratici scommettono che il Pd, così come è stato finora, possa risorgere dalle macerie. Il fantasma della scissione, dicono, è quasi una certezza. Da un lato c’è l’Opa di Renzi; dall’altro i “gauchisti” che guardano a Barca e a Vendola. Le ultime quarantott’ore, consumate in uno scontro opaco e distruttivo - che l’elezione di Napolitano ieri tenta di riscattare - hanno lasciato una impronta pesante. Forse già martedì ci sarà una direzione per accelerare e convocare subito il congresso straordinario altrimenti fissato a ottobre. Dovrà affrontare la questione governo e larghe intese, su cui il partito è spaccato. E c’è chi pensa sia più giusto chiedere a Bersani di ripensarci e di restare alla guida del Pd fino al congresso. Luigi Zanda, il capogruppo al Senato, è tra questi. I “giovani turchi” vogliono affrettare.
Renzi invita a guardare avanti: «Speriamo possa aprirsi una fase politica nuova». Neppure quando Veltroni lasciò d’improvviso la segreteria nel 2009, dopo la sconfitta del Pd in Sardegna, la situazione appariva drammatica come oggi, osservano in Transatlantico i “grandi elettori” democratici. Enrico Rossi, il “governatore” della Toscana assicura che il partito sul territorio regge. Dopo occupy-Pd, l’occupazione delle federazioni, la rivolta dei circoli, bisogna «ricostruire la fiducia». Il sindaco “rottamatore” intanto si limita a segnalare l’opportunità che questa fase drammatica può rappresentare: «Adesso il Pd ha l’occasione di cambiare davvero, senza paura ci proveremo». Si candiderà alla corsa per la segreteria? «Vedremo», risponde.
Pesano gli ultimi due giorni, i personalismi, la faida tra correnti irresponsabili, i dissensi che hanno impallinato due “padri” del centrosinistra, Franco Marini prima, Romano Prodi poi. I sospetti montano ancora. «Non si perda tempo a regolare i conti, lavoriamo insieme per costruire una grande sinistra che possa convincere e vincere», esorta Giuliano Pisapia, il sindaco di Milano, vendoliano. Il Pd è all’ennesimo bivio. Beppe Fioroni difende i Popolari dalle accuse: «Non siamo stati noi i “franchi tiratori” di Prodi», ed è pronto a mostrare le foto del voto. Sandra Zampa, prodiana, denuncia: «Girano foto di schede con il nome di Prodi, ma è solo una. Come si fa a stare in un gruppo parlamentare in cui chi ti siede accanto non sai se è un traditore? ». «I “franchi tiratori” twitta Franceschini - sono da prendere a bastonate». Per Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, «bisogna ricominciare dai muri portanti, è improbabile si possa costruire un centrosinistra senza trattino».
E i “giovani turchi” sono i più agguerriti, convinti che prima si archivia questa stagione e meglio è. Andrea Orlando, che viene dato in corsa per la segreteria, dice che «il Pd deve riflettere su come si presenta in questa fase nuova». Anche per le consultazioni al Colle - rincara Matteo Orfini - bisogna cambiare delegazione, non può essere il leader che si è dimesso, Bersani, a rappresentare il Pd. La prossima direzione deve decidere persino questo. Non ci sarà con molta probabilità una reggenza temporanea di Letta, perché la maggioranza del partito preferisce un comitato di reggenti.
«Dopo i 101 terroristi ... c’è davvero molta chiarezza da fare», si indigna Laura Puppato che definisce così i “franchi tiratori”, i sicari politici di Prodi. Ritiene che giovedì scorso sia stato il giorno del coraggio, perché si è fatta una battaglia sulla linea politica del partito, ovvero “no” alle larghe intese di governo. Mentre venerdì, «è stato il giorno della viltà», con coloro che hanno impallinato Prodi fregandosene della stessa sopravvivenza del Pd. Ieri Pippo Civati ha votato scheda bianca e non Napolitano. Francesco Boccia lo critica: «Civati ha iniziato il congresso durante l’elezione del capo dello Stato». Il franceschiniano Antonello Giacomelli avverte che bisogna rispettare il patto costitutivo del partito e perciò la linea decisa a maggioranza. Nico Stumpo, bersaniano, pensa che non si possa sgarrare su questo, né anticipare il congresso a maggio: «Chi lo dice è uno squilibrato». Il testacoda democratico è appena all’inizio.

Repubblica 21.4.13
Voto contrario a Napolitano
Mineo, l’eretico: “Ho detto no e potrei andarmene”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — Assemblea dei gruppi del Pd. In centinaia votano per il bis di Giorgio Napolitano. «C’è qualcuno che vota contro?». Una sola mano si alza, è quella del giornalista e senatore Corradino Mineo. Uno su quattrocentoventiquattro.
Perché, senatore Mineo?
«Ho stima e rispetto per Napolitano. Gratitudine. Ci ha salvato, ha salvato questa banda di dilettanti allo sbaraglio. Ma l’operazione che l’elezione di Napolitano sottende è quella di un governo Pd-Pdl. Sa cosa significa?».
Cosa?
«Che uccide la sinistra. Certamente quella che conosciamo. E’ un ritorno al passato. Bersani l’ha presentata dicendo che non è vero che si è anche discusso di un governo. Poteva almeno dire che l’ipotesi di un governo con Alfano vicepremier non esiste».
Considera questo quadro un “favore” al M5S?
«L’argomento “lasciamoli decantare e emergeranno le contraddizioni” aveva una sua forza. Ma questo argomento non tiene conto di un rischio, e cioè che prima che questa ondata demagogica si sgonfi è possibile che restino solo le macerie. E che ci sia la presa di potere della destra».
Il voto in dissenso significa che lascerà il Pd?
«Vediamo. Se nel partito non si può discutere, io non sarò utile, né loro avranno il piacere di accompagnarsi con me. Se hanno bisogno di lievito per il dibattito, io ci sono. Dopo 35 anni da giornalista, non voglio fare il leaderino, ma solo dare una mano».
Come l’hanno presa i suoi compagni di partito?
«Per ora c’è stata una reazione di dialogo, perfino di incitamento per la trasparenza della scelta».
Chi ha votato, al posto di Napolitano?
«Non lo dico. Ma solo perché credo nel principio che il voto segreto, quando è previsto, è a difesa del parlamentare».

Repubblica 21.4.13
Lo sfogo del leader: “Tutto il peso su di me Matteo senza freni, vuole solo le elezioni”
“Mi dovevo togliere di mezzo, adesso sono più libero di fare politica”
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Basta con queste lacrime, guardate che mi arrabbio ». Ma il primo a commuoversi è stato lui quando Napolitano ha superato il quorum. Le mani davanti agli occhi, ha chinato il capo, ha ceduto alla tensione degli ultimi 55 giorni. Un lungo tragitto che doveva portarlo a Palazzo Chigi e invece è terminato con le dimissioni. È l’ultimo giorno da segretario di Pier Luigi Bersani. Adesso sorride solcando il corridoio che lo porta nella stanza del dramma, quella alle spalle dell’emiciclo di Montecitorio dove sono state vissute le sconfitte di Marini e di Prodi, quella dove ha deciso di gettare la spugna. Lo seguono a un passo le donne del suo staff Chiara Muzzi, Paola Silvestri, il direttore di Youdem Chiara Geloni. Hanno gli occhi lucidi. Ancora dietro il portavoce Stefano Di Traglia che gli annuncia la presenza della conduttrice di Telecamere Anna La Rosa nel suo studio. «Mamma mia, e che ci fa lì?». Un saluto, risponde Di Traglia. Allora Bersani mima il gesto di un abbraccio ampio e avvolgente. «Le darò un bel bacio».
La sera di venerdì, dopo il discorso durissimo contro i traditori all’assemblea del cinema Capranica, ha chiesto ai capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda, a Enrico Letta, a Maurizio Migliavacca e Vasco Errani di risolvere assieme a lui il rebus del Quirinale. Sapendo che l’unica soluzione era il bis di Giorgio Napolitano. In un ristorante di Testaccio, la war room bersaniana si è riunita l’ultima volta con il leader. «Serviva una scossa. E adesso io sono più libero di fare politica e sono più responsabili i parlamentari di fronte agli eventi. Soprattutto di fronte alla scelta di eleggere un presidente della Repubblica».
Il segretario uscente spiega che sulla sua figura si sono scatenate le tensioni interne e le conseguenze della mezza vittoria. Nel tritacarne sono finiti Marini e Prodi. Ma l’altro bersaglio grosso era lui. E la sua poltrona. «In questi 55 giorni difficilissimi, il peso delle scelte del Pd è finito tutto su di me. Normale che fosse così. Mentre tentavo una strada complicata e cercavo di dare una risposta a un risultato elettorale impazzito, però, è venuta meno la solidarietà minima che dovrebbe esistere in un partito. Gli altri pensavano alle loro manovre, anche quando in gioco c’erano le istituzioni». Non è stato tanto il problema di «sentirsi solo. Ma alla fine il cerino finiva sempre nelle mie mani. Intanto, gli altri facevano i giochini». Per sbloccare la partita del Colle dunque erano necessarie, obbligate le dimissioni. «L’atteggiamento irresponsabile dei parlamentari andava assolutamente bloccato. Bisognava fermare lo
scaricabarile. Siccome il barile principale ero io, mi dovevo togliere di mezzo. Dovevo farlo per arrivare a una soluzione, per eliminare gli alibi di gruppi e gruppetti».
Poi, certo, Bersani ha preso atto degli schiaffi in faccia, della sua gestione faticosa e carente della crisi politica. Poteva forse coinvolgere di più Matteo Renzi, farlo entrare nella stanza dei bottoni che in un modo o nell’altro il sindaco di Firenze aveva già conquistato agli occhi dell’opinione pubblica e soprattutto del partito. Se non altro per il risultato corposo delle primarie. «Renzi però — spiega Bersani — ha cominciato a mettere veti sapendo che dopo toccava a noi risolvere i problemi. Marini e Finocchiaro erano due nomi su cui stavamo lavorando da tempo, poi è arrivato lui con il suo no. E noi dovevamo ricominciare daccapo». Renzi, dopo un iniziale feeling che neanche la sfida per la premiership aveva intaccato, è diventato un avversario interno. Aggressivo, spregiudicato, senza freni. «Negli ultimi giorni forse ha capito che stavamo per chiudere sul nostro schema. Lui invece doveva accelerare il voto perché sentiva che il suo treno passava adesso».
Ma ci sarà tempo per le rese dei conti e per la battaglia. Bersani non sparirà. A metà mattina fa chiamare Cristina Ferrulli dell’Ansa, Mara Montanari dell’Adnkronos e Sabina Bellosi dell’Agi per annunciare: «Che farò adesso? Non andrò all’estero...». È il modo per dire che non sparirà dal dibattito, ma è anche il regalo di una piccola esclusiva alle colleghe delle agenzie di stampa che lo hanno seguito costantemente nei quattro anni della sua segreteria, aspettandolo sotto la sede di Largo del Nazareno con il solleone e con la neve. Un congedo affettuoso.
Ai parlamentari che lo raggiungono al suo banco dell’aula durante la votazione finale ripete come un mantra che le sue dimissioni erano inevitabili. Ai più giovani consiglia ancora una volta di «spegnere ‘sto telefonino ogni tanto. Non potete fare politica solo con Twitter e Facebook ». Per il futuro del Partito democratico vede il pericolo dell’irrilevanza se non viene rifondato su nuove basi. «Dall’opposizione e durante il governo Monti siamo riusciti a tenere insieme il Pd. Arrivati al momento di un confronto con la cultura di governo siamo implosi. Su questo dovrà riflettere il centrosinistra».
Alla fine della giornata, c’è il volo per Milano pieno zeppo di parlamentari del Pdl. Loro trionfanti, al centro del gioco politico. Lui dimissionario e con un partito distrutto. Alcuni lo salutano, altri si danno di gomito. Per fortuna, a un’ora di macchina c’è Piacenza e il ritorno a casa.

Repubblica 21.4.13
Sel scioglie l’alleanza elettorale con i democrat e lancia l’Opa sulla sinistra dello schieramento
Lo strappo di Vendola “Sarò all’opposizione” E Barca attacca il partito
Il ministro pd: incomprensibili su Rodotà e Bonino
di Silvio Buzzanca


ROMA — Sinistra ecologia e libertà e Nichi Vendola “divorziano” dal Pd, da quello che resta del Pd, e chiudono l’esperienza dell’alleanza “Italia bene comune”. Sel decide di imboccare la strada dell’opposizione al governissimo in gestazione, «una sciagura per il paese», e punta tutto sulla ricostruzione della sinistra. Sperando di trovare lungo il cammino quello spezzone di democratici che non si riconosce più nel partito che fu di Bersani e che potrebbe diventare di Renzi A cominciare ovviamente da Fabrizio Barca. E il ministro, fresco iscritto al Pd, ma che nelle urne ha scelto Sel, ieri non ha certo chiuso la porta in faccia a Vendola. Anzi. Attraverso un tweet ha alimentato voci e speranze commentando così la corsa al Quirinale: «Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino».
Il leader di Sel dunque va alla ricerca di proposte nuove. Una mossa che è passata necessariamente dalla scelta di Rodotà nella corsa al Quirinale. Una presa di distanza visibile, plateale, dal Pd quando i parlamentari di Sel non applaudono né al momento fatidico in cui Napolitano raggiunge il quorum per l’elezione né quando Laura Boldrini lo proclama nuovo presidente della Repubblica.
Per carità, spiega Vendola, nulla di personale contro l’attuale e prossimo inquilino del Quirinale. Anzi «grandissimo rispetto per il vecchio Napolitano che ha accettato con straordinaria generosità l'invito di tanta parte del mondo politico a tornare in campo». Ma la strada imboccata è un’altra. Ben visibile ancora quando i deputati Claudio Fava e Celeste Costantino arrivano in piazza, davanti alle transenne che “trattengono” i manifestanti che ancora invocano il nome di Rodotà.
C’è vicinanza e comunanza con il movimento dei grillini e con parte delle loro proposte. E Vendola lo rivendica, spiega come «la convergenza dei grandi elettori del Movimento Cinque Stelle e dei grandi elettori di Sel su Stefano Rodotà sia una esperienza interessante». Con i grillini, aggiunge «vogliamo confrontarci sull'agenda dei problemi». Anche se il governatore pugliese non può accettare le accuse di Grillo sul golpe bianco. Toni inaccettabili che Vendola bacchetta severamente: «Bisogna misurare le parole, l'enfasi propagandistica rischia di introdurre del veleno nella lotta politica».
Schermaglie dialettiche. Perché Sel, come i grillini, va all’opposizione di qualsiasi costa stia nascendo nei palazzi della politica. E inizia a lavorare al suo cantiere per rimettere insieme i cocci della sinistra. L’operazione dovrebbe partire l’8 maggio, forse sabato 11, quando si terrà un’assemblea popolare aperta a tutti «per ricostruire dalla fondamenta una sinistra di governo». Scontata la domanda se nel cantiere arriverà anche Barca. Scontata la risposta: «Tutti coloro che dopo lo schianto del Pd sono interessati, sono benvenuti». Inoltre, spiega Vendola, questa possibile intesa con spezzoni democratici passa anche dall’accelerazione dei tempi per arrivare all’adesione di Sel al gruppo del Partito socialista europeo all'Europarlamento.
Vendola rende l’onore delle armi a Bersani, «una delle persone più limpide e perbene che ho conosciuto in vita mia» e va avanti. Pensa al prossimo voto in Friuli, a Roma e in altre città. Conferma le alleanza di centrosinistra in campo. Ma pensa alla nuova sinistra da mettere in campo. Non vuole ripetere esperienze minoritarie come quella della Sinistra arcobaleno. Vuole volare alto. E corrono nomi di adesioni importanti al progetto come quelle di Sergio Cofferati o di Michele Emiliano. Girano voci sull’arrivo di Ignazio Marino, candidato sindaco a Roma. Si sparge la notizia dell’uscita dal Pd di Laura Puppato e del suo approdo a Sel. I vendoliani non sembrano per niente entusiasti e smentiscono.

Repubblica 21.4.13
L’Amaca
di Michele Serra


Almeno a una cosa, questi giorni tristissimi, sono serviti.
Sono serviti a chiarire una volta per tutte che nella sinistra parecchie persone odiano la sinistra. Nel senso che la combattono e forse la temono. Nel senso che ogni vero cambiamento degli assetti di potere, degli equilibri sociali, della distribuzione del reddito, metterebbe a rischio il loro potere, le loro aspirazioni, i loro interessi. Purtroppo questo pezzo della sinistra è un pezzo di Pd: quel pezzo di Pd che ha sparato su Prodi (cioè uno dei propri padri fondatori) e con gusto se possibile maggiore avrebbe sparato su Rodotà (cioè uno dei propri uomini migliori). Importa relativamente sapere se esistano, a monte di questo odio di sinistra per la sinistra, comitati d'affari o intelligenza col nemico o semplice amore per le trame sottobanco o addirittura la lecita convinzione politica che non esista, in Italia, uno spazio politico per il cambiamento. Importa moltissimo, però, capire che avere votato Pd, nelle presenti condizioni, non significa avere speso il proprio voto per una sinistra possibile (mediocre, ma possibile), come credono da molti anni milioni di elettori riformisti come me. Significa averlo dato a una sinistra impossibile. Sel è stata molto più leale con Bersani, e con il Pd, del Pd stesso. Quando si tratterà di tornare al voto ce ne ricorderemo. Eccome se ce ne ricorderemo.

Repubblica 21.4.13
Una New Company del cambiamento
di Curzio Maltese


Eppure la sinistra, nella sua massima espressione politica, il Partito Democratico, non c’è più. Esiste un vasto popolo di sinistra, più ampio di quanto non dica il risultato elettorale, che condivide valori e progetti comuni e ha maturato negli anni del berlusconismo un idem sentire solido e coerente, manifestato in mille occasioni. Esistono élite di sinistra in ogni settore del Paese, nell’economia e nella cultura, nel mondo delle professioni e nell’informazione e perfino nella politica, che godono di stima e considerazione in patria e all’estero. L’elenco dei candidati presidenti votato dagli iscritti militanti 5 Stelle ne comprendeva un bel campionario. La questione è: perché questo pezzo di società vitale e intelligente esprime un ceto politico dirigente così lontano da se stesso? Cosa c’entra la sinistra che s’incontra tutti i giorni nel paese reale con questi personaggi che si odiano da vent’anni, capaci di qualsiasi tradimento o compromesso pur di far valere le proprie immotivate ambizioni e soprattutto far fallire quelle del compagno di partito?
Il problema di rappresentanza è serio e antico. Da sempre si dice che Berlusconi identifica quasi antropologicamente gli elettori del centrodestra ed è vero. Ora vale anche per Grillo e i suoi elettori, contenti di chiamarsi grillini. In tanti anni invece non s’è mai trovato un leader del centrosinistra che ne identifichi gli elettori. Non per caso ne abbiamo avuti una decina. Le primarie sembravano la soluzione, ma non lo sono state. Al principio perché non erano vere e l’ultima volta perché si sono rivelate una recita. Almeno da parte del vincitore, Pierluigi Bersani. Il tracollo della linea dell’ex segretario di questi giorni è soltanto il precipitato finale di una lunga serie di ambiguità e finzioni cominciata subito dopo la vittoria su Renzi. Se Bersani avesse tenuto la barra dritta sulle idee delle primarie, probabilmente avrebbe vinto anche le elezioni. Si è invece lanciato in una serie di giravolte e omissioni, non ha detto nulla su programmi e alleanze, nel tentativo di lasciarsi tutte le porte aperte dopo il voto. Dopo che il voto degli italiani gliele ha chiuse in faccia, Bersani ha finto per cinquanta giorni di volere un accordo con i grillini.
Ma quando si è trattato di compiere l’atto più importante di questo inizio di legislatura, la scelta del Quirinale, di colpo si è girato dalla parte di Berlusconi, tentando la carta del compromesso su Marini, foriera di un futuro governo di larghe intese. Nonostante Grillo gli offrisse su un piatto d’argento un nome che è la biografia stessa della sinistra italiana, Stefano Rodotà. Il meno grillino dei candidati 5 Stelle, come testimoniano le sue parole di ieri, da nobile sconfitto. Ora, per quanto trattati da sciocchi dai dirigenti, agli occhi degli elettori del Pd la scelta di escludere a priori la candidatura di Rodotà ha una sola possibile spiegazione. Il gruppo dirigente del Pd non ha mai voluto un accordo con Grillo, ha soltanto messo in scena una lunga manfrina per far contento il popolo.
Il vero, ma inconfessabile, obiettivo del gruppo dirigente era l’accordo con Berlusconi, che alla fine infatti è arrivato. Sul nome di Napolitano, soluzione proposta dal Cavaliere e media al seguito fin dal primo giorno. Anche qui, uno straordinario paradosso. L’ultimo grande dirigente del Pci sulla scena riconfermato al Quirinale per volontà e come segno di vittoria dell’anticomunista per eccellenza.
Il vecchio nuovo presidente ricomincerà da dove aveva interrotto, la proposta di un governo di larghe intese con Pd e Pdl, sull’esempio nobile dell’unità nazionale fra Moro e Berlinguer. Qui però si tratta di mettere insieme non i due vincitori, ma due sconfitti, Pd e Pdl, che insieme hanno perso dieci milioni di voti. Per quanto durerà? Si spera comunque il tempo di cambiare una legge elettorale infame e di tornare al voto. Con un nuovo Pd. Dopo un fallimento come quello di Bersani, non resta che separare “l’azienda”. Da una parte una “bad company”, con la solita nomenclatura impegnata a regolare i vecchi conti in rosso. Dall’altra una “new company” dove si mantenga vivo il dibattito fra linee diverse, come sono quelle di Matteo Renzi e Fabrizio Barca, ma su un piano diverso di civiltà politica e onestà intellettuale, in sintonia con la base elettorale. Un nuovo Pd capace di sfidare Grillo sul terreno del cambiamento e di presentare al Paese una visione del futuro, rispetto ai rancori del passato che hanno attanagliato i vecchi gruppi dirigenti fino alla distruzione.

Corriere La Lettura 21.4.13
Il nuovo mercantilismo E la lezione di Weimar
La Germania nel ruolo. degli Usa dopo il crash del '29 Ma i leader dell'Europa del Sud sbagliano strategia
di Federico Fubini


Siamo appena entrati nel settimo anno dello smottamento iniziato nel 2007 dai mutui subprime in America. Durante il settimo anno dall'inizio della Grande depressione, nel 1935, il Pil italiano stava tornando al livello di prima del crash del '29. Il nuovo Oxford Handbook, il manuale di storia economica del Paese curato da Gianni Toniolo (su iniziativa della Banca d'Italia), rivela che quella fu una fase più difficile di quanto non si creda. Eppure oggi, a sette anni dall'inizio di questa crisi, siamo più indietro di allora. Il Pil dell'Italia non è neanche vicino al livello di prima dello strappo sui mutui subprime: viaggia otto punti sotto. Al dramma economico italiano degli anni Trenta contribuì certamente l'autarchia fascista, il mito dell'isolamento e dell'autosufficienza dal resto del mondo. Ma sul piano internazionale pesò anche di più il rifiuto dei Paesi creditori di tenere aperti i propri mercati ai beni prodotti dalle nazioni debitrici. Incapaci di esportare e generare le risorse per saldare i propri debiti, queste ultime reagirono stringendo la cinghia dell'austerità fino al punto di rottura.
Oggi ovviamente tutto è diverso. Abbiamo fatto tesoro degli errori già vissuti e nessuno è anche solo lontanamente tentato da qualcosa di simile allo Smoot-Hawley Tariff Act, la rete di dazi con cui gli Stati Uniti disabilitarono il sistema globale degli scambi nel 1930. Stavolta no. Germania, Olanda o Finlandia restano fedeli al mercato europeo dei beni e (in parte) dei servizi, anche se i loro regolatori ormai impediscono sistematicamente i flussi di capitale nell'area. Eppure è difficile non avvertire certi echi dal passato. Al momento del Grande crash, gli Stati Uniti e la Francia stavano accumulando oro allo stesso ritmo al quale la Repubblica di Weimar stava accumulando solo la disoccupazione: quegli afflussi di metallo erano il riflesso degli avanzi commerciali all'epoca del gold standard, quando i pagamenti legati ai surplus commerciali con l'estero venivano regolati con trasferimenti di lingotti via nave o via treno. Oggi l'oro ha perso quel ruolo e la moneta si basa esclusivamente sulla fiducia. Ma, in modo non diverso da allora, il Nord Europa e l'area di lingua tedesca stanno accumulando attivi da record negli scambi con l'estero, mentre certi Paesi del Sud accumulano livelli di disoccupazione degni della tarda Repubblica di Weimar. Per loro, questa è una recessione più profonda di quella di ottant'anni fa. Intanto ai loro confini nord una quantità colossale di risparmio e di potenziale domanda di beni di consumo e d'investimento resta inerte. Non spesa. Come può accadere qualcosa del genere, oltre mezzo secolo dopo il trattato che creò la Comunità europea? Kemal Dervis del centro studi Brookings stima che il surplus cumulato su beni, servizi, interessi e dividendi di Paesi scandinavi, Olanda, Austria, Svizzera e Germania sia ormai a 500 miliardi di dollari. È una somma che supera il surplus della Cina ai suoi estremi mercantilisti di metà anni Duemila, quando il G7 (Germania inclusa) accusava regolarmente i leader di Pechino di alimentare gli squilibri globali che avrebbero poi portato a questa crisi. C'è anche un aspetto più sorprendente. In questa fase, le economie dell'area dell'euro tendono quasi tutte verso il riequilibrio nei saldi con l'estero. C'è chi viene dal segno più, come l'Olanda, e chi riemerge dal segno meno, come l'Italia, la Spagna o la Grecia. Ma quasi tutte ormai procedono verso lo zero, la soglia del riequilibrio. Solo due Paesi fanno eccezione, perché continuano ad allontanarsi dal pareggio negli scambi commerciali e finanziari con l'estero. La coppia divergente è composta da Francia e Germania, le due economie più grandi. Di recente la Germania si è spinta sempre più in là in acque inesplorate: dall'inizio del 2012 il suo attivo con l'estero è salito dal 6,2 al 7% del Pil (secondo i dati del Fmi). È un'evoluzione ancora più straordinaria sullo sfondo della depressione sud-europea, della recessione europea e di un'economia nazionale vicina alla crescita zero. Proprio questa frenata interna tedesca, il calo dell'indebitamento pubblico e privato e tassi d'interesse bassissimi anche a lungo termine consiglierebbero a Berlino di allentare un po' la parsimonia e sostenere la domanda. C'è molto che la Germania potrebbe fare senza danneggiare la forza del suo export: potrebbe rinviare il pareggio di bilancio di qualche anno; potrebbe aprire un po' il settore dei servizi, in modo che anche i fornitori esteri trovino più spazio e le famiglie spendano qualcosa di più; potrebbe cercare di ridurre i tassi di povertà, molto alti per un Paese così ricco: vorrà pur dire qualcosa se di recente il Belgio ha presentato ricorso alla Commissione europea contro la Germania per social dumping sul costo del lavoro, quasi che la Sassonia fosse una regione della Cina. Ma no. Una visione distorta di che cosa sia la competitività spinge la classe politica tedesca a considerare i crescenti surplus con l'estero come un bene non negoziabile, o una prova di virtù. Poco importano le conseguenze all'estero.
Il secondo Paese che diverge dallo zero è la Francia. Ma lo fa nella direzione opposta, verso il rosso. Nell'ultimo anno il suo deficit nelle partite correnti con l'estero è salito dal 2,4 al 3,5% del Pil, mentre quello dei Paesi del Sud diminuiva a causa del crollo dei consumi e delle importazioni. La Francia oggi va verso una contrazione dell'occupazione e del reddito e si avvicina al punto in cui dovrà cambiare rotta per non rischiare problemi più seri. Questo è ciò che ricorda più da vicino gli anni Trenta. Come allora gli Stati Uniti, oggi la Germania non trova in sé la volontà di stabilizzare il sistema; come allora la Gran Bretagna, oggi la Francia non trova in sé la forza di farlo. E la divergenza dallo zero delle due grandi economie dell'area contribuisce a rendere ogni giorno più intrattabile la crisi europea. Ecco perché discutere di continuo sulla «giusta» dose di austerità in Europa non serve a molto. Il lamento dei leader del Sud contro Angela Merkel, ripetuto ogni volta che aumentano le tasse, suona sempre più vuoto e inutile. Non è colpa della Germania se l'Italia e la Spagna hanno dovuto affrontare manovre di bilancio così pesanti l'anno scorso. Qualunque Paese in cui il costo medio degli interessi viaggia talmente sopra al tasso di crescita non ha altra scelta che stringere la cinghia: il suo debito sta aumentando in pilota automatico rispetto alla capacità dell'economia di sostenerlo. Basta rivedere il fotogramma dell'Italia del novembre 2011. L'economia in recessione, il Tesoro costretto a pagare interessi dell'8% su tutte le scadenze dei suoi titoli (anche a sei mesi), e un calendario di rifinanziamenti del debito per 440 miliardi di euro sui dodici mesi seguenti. Quando un sistema si riduce in questo stato, l'austerità non è più una scelta. È un gesto di sopravvivenza, qualunque cosa ne pensi Angela Merkel o chiunque altro. Così i leader europei in questi anni sono stati vittime e protagonisti di un fallimento collettivo, in primo luogo intellettuale. Non c'è stato un solo momento in cui abbiano inquadrato il terremoto sotto i loro occhi nei suoi termini reali. I leader del Sud hanno sprecato tempo ed energie nel chiedere ad Angela Merkel che fosse loro prescritta una medicina fiscale meno pesante. E Merkel, con i suoi alleati, ha investito altrettanto del proprio capitale politico per resistere. Alla fine si ritrovano tutti allo stesso punto, solo un po' più a fondo nella recessione. L'ultimo Consiglio europeo è stato l'ennesima replica dello stessa pièce, recitata in gran parte per il pubblico a casa.
Nessuno nei governi invece sembra guardare allo spazio che esiste per un accordo più ampio, una volta che le elezioni tedesche e lo stallo politico in Italia saranno alle spalle. Sarebbe un gesto minimo di responsabilità. I Paesi del Sud devono accettare l'idea che, per poter competere in questo secolo, le loro istituzioni economiche vanno trasformate molto più in profondità: è qualcosa che molti rifiutano ancora di ammettere a se stessi; è lo state of denial, la rimozione psicologica, di cui parla Mario Draghi. La Germania e i suoi alleati, dall'altra parte, devono capire che mantenere questi colossali surplus verso l'estero, in un'Europa in recessione, significa danneggiare la moneta unica e se stessi. È ora che i creditori mettano i loro risparmi non spesi al lavoro per la crescita e l'occupazione. I leader della Francia, dell'Italia e della Spagna non hanno mai sollevato questo problema, ma non hanno più molto tempo per farlo. Senza un accordo per la crescita e per le riforme, il tentativo del Sud Europa di ridurre i debiti può produrre una depressione politicamente destabilizzante. Mark Twain, si sa, scrisse che la storia non si ripete mai. Ma subito precisò che, qualche volta, «fa la rima».

Corriere La Lettura 21.4.13
Il fascismo è un'altra storia: non ci sarà il Quarto Reich
Il biografo di Hitler giudica infondati gli allarmi su un possibile crollo dei sistemi democratici
di Ian Kershaw

La nomina di Hitler a cancelliere tedesco, il 30 gennaio 1933, fu uno degli eventi più gravidi di conseguenze della storia moderna. Il consolidamento del suo potere fu estremamente rapido: mentre in Italia a Mussolini erano occorsi più di tre anni per arrivare a una dittatura assoluta, in Germania Hitler vi riuscì in poco più di sei mesi. Forme estreme di terrore nei confronti degli avversari politici, nonché una dedizione zelante e un'obbedienza ancora più pronta forgiarono un regime di grande dinamismo, con un programma di conquista territoriale e pulizia razziale. L'avvento di Hitler segnò l'inizio di una crisi dilagante per l'intera Europa, dando origine a un processo che sarebbe culminato nella guerra più devastante e nel più spaventoso genocidio della storia, lasciando un continente in macerie e diviso per oltre quarant'anni dalla Cortina di ferro.
La presa di potere da parte di Hitler avvenne nel pieno della peggiore crisi mai sperimentata dall'economia capitalista moderna. Ottant'anni dopo l'Europa si trova nella morsa di un'altra profonda crisi globale. È possibile che in qualche modo la storia si ripeta? Potrebbe verificarsi un'altra calamità europea simile a quella scatenata dalla Grande depressione degli anni Trenta? Questa volta finora non si è verificato alcun crollo della democrazia, né uno sbandamento verso la dittatura. La situazione potrebbe cambiare, soprattutto se la crisi nell'eurozona si aggravasse? In tutta Europa la nuova era di austerità ha favorito l'inasprirsi del clima sociale, l'atteggiamento verso gli immigranti si è indurito, è aumentata la xenofobia, i sentimenti nazionalisti si sono intensificati e i partiti politici che danno loro voce hanno guadagnato consenso. Nelle elezioni del 2010 il partito ungherese Jobbik, fortemente nazionalista, ha ottenuto il 17% dei voti, in un Paese che si è spostato nettamente a destra; all'interno dell'eurozona il partito neonazista Alba Dorata è appoggiato da oltre il 10% dei greci, e quasi ovunque i partiti tradizionali si trovano di fronte a una crescente ostilità, mentre i movimenti di protesta di vario tipo si rafforzano sempre più. In Italia, dove il movimento antisistema di Beppe Grillo è l'ago della bilancia dopo le recenti elezioni, è al momento impossibile formare un nuovo governo, e si teme che nuove elezioni possano alla fine portare l'Italia a uscire dall'eurozona, e perciò al crollo della moneta unica con conseguenze economiche e politiche imprevedibili in tutta Europa.
Esistono ragioni sufficienti per essere molto preoccupati circa il futuro del continente. Sembra però estremamente improbabile che si precipiti in una nuova era oscura di fascismo: nonostante superficiali analogie, si può escludere un ripetersi di quanto avvenuto negli anni Trenta, date le differenze tra l'attuale situazione europea e quella di allora.
In effetti negli anni Trenta non ci fu un legame intrinseco fra la crisi economica e il precipitare della democrazia nel fascismo. Solo dove le tensioni sociali e politiche create dalla Depressione interagirono con altri fattori prevalenti — gli strascichi della Grande guerra, il risentimento circa i territori nazionali perduti, il timore paranoico della sinistra, l'avversione viscerale per gli ebrei e altri gruppi di outsider, la frammentazione dei partiti nel quadro di una crisi di legittimazione statale — si determinò un collasso sistemico, che aprì la strada alla dittatura fascista. Di fatto, l'Italia e la Germania si rivelarono gli unici Paesi dove i movimenti fascisti — sostenuti nella presa del potere da élite conservatrici, deboli e antidemocratiche — divennero tanto forti da riuscire ad assumere la guida assoluta dello Stato. Inoltre Mussolini era andato al governo non durante la Depressione, ma in circostanze del tutto diverse, provocate dalla crisi verificatasi subito dopo la Prima guerra mondiale.
In alcuni Paesi il fascismo emerse solo quando la Depressione stava ormai esaurendosi; in altri, in cui la crisi fu gravissima, non sorse alcun movimento fascista significativo. In gran parte dell'Europa orientale le élite consolidate non avevano bisogno del fascismo, essendo già abbastanza potenti per dare vita a regimi senza dubbio autoritari, repressivi, nazionalisti e razzisti, ma non a vere e proprie dittature fasciste. Nell'Europa occidentale e settentrionale, dove la democrazia era più solida, l'autorità statale non subì alcun crollo; qui i movimenti fascisti furono un fenomeno marginale, brutale e aggressivo, ma senza alcuna prospettiva di assumere il potere.
In Germania la democrazia era nata subito dopo una guerra persa e il successo di una rivoluzione guidata da una sinistra socialista odiata dalle élite e dalla maggior parte della classe media. Lo Stato democratico era debole e fu contestato con violenza fin dall'inizio. Oltre al senso di umiliazione nazionale per la sconfitta subita, perdurava il rancore per il trattamento inflitto alla Germania dagli Alleati vittoriosi: l'accusa di aver scatenato il conflitto, la sottrazione di territori e l'imposizione di onerose riparazioni per i danni di guerra. Le élite dominanti sognavano un'epoca in cui la Germania avrebbe potuto recuperare il territorio sottrattole con il Trattato di Versailles del 1919, ricostruire l'esercito e riconquistare l'orgoglio nazionale, e in seguito il predominio in Europa. Molti tedeschi, che avevano visto i loro risparmi spazzati via dall'inflazione degli anni Venti, erano fra i più attratti dalla prospettiva di un regime in grado di riportare prosperità e unità nazionale, distruggendo quanti consideravano nemici interni, in particolare i marxisti e gli ebrei.
Questo portato ideologico — già esistente e molto minaccioso per la democrazia — trovò alimento nella Depressione, che distrusse completamente il consenso allo Stato democratico e creò una crescente propensione a credere nell'ardita promessa hitleriana di rinnovamento nazionale. La Germania odierna non potrebbe essere più lontana da quella degli anni Trenta: ora, uno fra i Paesi più pacifici, democratici, stabili e non nazionalisti del mondo, grazie alla sua forza economica, si trova a essere il leader involontario di un'Europa economicamente destabilizzata. È indubbio che la linea promossa con determinazione dalla Germania — e per la quale viene ferocemente criticata e accusata di legare a condizioni tassative l'assistenza finanziaria ai membri dell'eurozona con economie traballanti, affinché mettano ordine in casa propria — sta provocando grave scompiglio, e l'impopolarità delle politiche di austerità sta dando vita a un preoccupante «deficit democratico» in gran parte d'Europa. Il futuro è incerto, e dà sufficienti motivi di preoccupazione, ma, a dispetto dei lati negativi, gli stretti legami di un'economia globale interconnessa con istituzioni transnazionali presentano almeno il notevole vantaggio di escludere in pratica un ritorno a dittature nazionali, e men che mai in Germania. Non ci sarà un «Quarto Reich».

Corriere La Lettura 21.4.13
Ottant'anni fa l'ascesa del Führer


Ricorre quest'anno l'ottantesimo anniversario dell'ascesa al potere di Adolf Hitler (nella foto qui sopra), che divenne cancelliere il 30 gennaio 1933 e in breve tempo instaurò la dittatura in Germania. Parte da questa ricorrenza l'intervento di Ian Kershaw (nella foto in basso), pubblicato qui a fianco nella traduzione di Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini, che il biografo inglese di Hitler pronuncerà a Gorizia il 25 maggio prossimo, in occasione della IX edizione del festival èStoria. Nell'occasione verrà consegnato a Kershaw il premio FriulAdria «Il romanzo della storia», nato dalla collaborazione tra due manifestazioni culturali, èStoria e Pordenonelegge, con il sostegno di Banca Popolare FriulAdria-Crédit Agricole. Kershaw, nato nel 1943 e allievo dello storico tedesco Martin Broszat, è noto per la sua ponderosa biografia di Hitler, tradotta in Italia da Bompiani in due volumi usciti nel 2001 e nel 2003, dedicati al periodo 1889-1936 e a quello 1936-1945. Critico verso l'interpretazione marxista del Terzo Reich, ma anche nei confronti del concetto di totalitarismo, Kershaw è considerato il più autorevole storico vivente del nazionalsocialismo. Tra le sue opere uscite in Italia: «Scelte fatali» (Bompiani, 2012), «Hitler e l'enigma del consenso» (Laterza, 2004), «Il mito di Hitler» (Bollati Boringhieri, 1998)

Corriere La Lettura 21.4.13
La stregoneria dei moderni
Sono i conflitti postcoloniali che rilanciano le antiche credenze
di Adriano Favole


Ci sono aree di mondo che, come insetti catturati nella tela del ragno, non riescono a liberarsi dagli stereotipi che li avvolgono. La Nuova Guinea è una di queste. Nel corso dell'Ottocento, gli esploratori occidentali chiamarono questa parte di mondo Melanesia («Isole nere»): il «nero» non evocava solo abitanti dalla pelle scura, ma preannunciava un vero e proprio noir antropologico. Da allora e fino a oggi infatti, quando in Occidente si parla della Nuova Guinea, lo si fa, per lo più, a proposito di cannibalismo e stregoneria, con qualche concessione a tsunami e altre calamità naturali.
A meno che non siate appassionati cultori o frequentatori dell'Oceania, difficilmente avrete avuto modo di sapere che la Nuova Guinea è un luogo straordinario, in cui si parlano tuttora 850 lingue; in cui è racchiusa una biodiversità eccezionale, per nulla scalfita — almeno fino all'irrompere della modernità — dalla presenza delle società native, che hanno dato vita per millenni a economie sostenibili (ne parla Jared Diamond in Collasso, Einaudi); si tratta di un'isola i cui abitanti hanno inventato, oltre all'orticoltura, sistemi di scambio basati sulla condivisione, sul dono e sulla reciprocità e, in alcune aree, specie lungo il fiume Sepik, hanno dato vita a creazioni artistiche che lasciarono esterrefatti viaggiatori ed etnologi (il Museo Quai Branly di Parigi vi dedicherà una mostra nel 2014).
Alla luce dello stereotipo, non stupisce più di tanto l'enfasi con cui in Australia (un Paese che ha colossali interessi in Nuova Guinea) alcuni giornali hanno diffuso la notizia relativa a casi di stregoneria avvenuti sia nella parte occidentale dell'isola — che fa parte dell'Indonesia, con le due province di Papua e West Papua — sia nelle Highlands della parte orientale, in cui si trova lo Stato indipendente di Papua Nuova Guinea.
Secondo la testimonianza di una suora cattolica riportata da «Internazionale», nell'area di Simbu (considerata un epicentro stregonesco), in febbraio, una donna accusata di essere una strega sarebbe stata torturata nei genitali con ferri roventi, rischiando la morte. Pochi giorni fa, il quotidiano «Post Courier» riportava notizie di un presunto sacrificio pasquale nell'area delle Southern Highlands, in cui sei donne sarebbero state torturate e arse vive, e ancora il caso di due donne decapitate nell'isola di Bougainville. Ripetuti report di Amnesty International e della Ong Oxfam confermano la crescente violenza nei confronti delle donne e il ricorso dei nativi al linguaggio e alle pratiche della stregoneria.
Ma, allora, la stregoneria è una realtà o la proiezione mediatizzata di uno stereotipo? I papua praticano ancora la stregoneria? Il problema di fondo è che domande come queste sono mal poste. Il dato da cui partire è infatti la violenza nei confronti delle donne (ma non solo) che, stando alle fonti più attendibili, è in crescita in Papua Nuova Guinea così come in tanti altri Paesi del mondo. Perché questa escalation di violenza in un Paese che, certo, anche in passato era caratterizzato da forti tensioni e conflitti interetnici? E perché, in Melanesia come in molti Paesi africani i nativi evocano e incolpano streghe e stregoni? Numerosi studiosi hanno lavorato di recente a questo tema, fornendo risposte piuttosto interessanti.
C'è in primo luogo un enorme problema di traduzione. Per un occidentale, infatti, il termine «stregoneria» evoca condanne e roghi voluti dalla Chiesa nei confronti di donne ed eretici. I termini di altre lingue tradotti con «stregoneria» (come sanguma o kumo in Nuova Guinea) implicano scenari e immaginari molto differenti, che occorre conoscere se si vuole davvero combattere il fenomeno.
In secondo luogo, la cosiddetta stregoneria viene di solito presentata come una credenza atavica e irrazionale, frutto di una mentalità primitiva che dovrebbe essere modernizzata. Gli studi dell'antropologo olandese Peter Geschiere mostrano, al contrario, che la stregoneria contemporanea è un prodotto «moderno» e «postcoloniale». La diffusione dell'Aids, le crisi economiche, l'emarginazione sociale hanno comportato in molte parti dell'Africa una ripresa e una ricarica semantica del linguaggio della stregoneria, attraverso la ricerca dei «colpevoli» della povertà e del disagio. Allo stesso modo, secondo un recente studio di Ryan Schram, alcune popolazioni della Nuova Guinea ritengono che le streghe sottraggano ai nativi i beni materiali di cui i bianchi sono, al contrario, ricchissimi.
Un terzo punto rilevante concerne l'idea secondo cui l'irrazionalità della stregoneria andrebbe combattuta insegnando ai nativi a riconoscere le vere cause delle malattie e della sventura. È il punto più delicato. Già nel 1937, nel classico Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (Cortina), Edward Evans-Pritchard aveva mostrato che la stregoneria non nasce dall'ignoranza delle cause ultime di un evento nefasto, ma dal fatto che pone domande che vanno al di là di esse. Gli indigeni africani Azande sanno che quell'uomo è morto perché, andando a caccia, si è ferito una gamba, ma il problema è: «Perché proprio lui e proprio adesso?». La stregoneria (mangu per gli Azande) è un pensiero sull'«oltre», su quegli ambiti della vita che stanno al di là della possibilità di controllo degli esseri umani.
Ora, nella situazione postcoloniale globalizzata, la stregoneria, supposto che abbia ancora senso usare una categoria così ampia e trasversale, si presenta non come un sistema di credenze chiuso all'interno di società tradizionali, bensì come un tentativo di spiegare relazioni interculturali che hanno relegato strati sociali e intere comunità native in situazioni di estrema indigenza e marginalità. Il ritorno delle streghe, in Papua Nuova Guinea come in Africa, è un fenomeno preoccupante e la violenza (e a volte la morte) sofferta dalle donne, che divengono capri espiatori di una diffusa insicurezza, non va certo sottovalutata o, peggio ancora, negata. Ma la stregoneria non è una malattia indigena, frutto di sistemi di credenze ancestrali, bensì il sintomo di un disagio molto «moderno», le cui cause vanno ricercate nell'imporsi di modelli sociali ed economici fondati sull'esclusione, e non sulla condivisione, e di configurazioni della persona che hanno accentuato le differenze di genere, alimentando sospetti e violenze soprattutto nei confronti delle donne.

Corriere La Lettura 21.4.13
Arabi non più sudditi La gerontocrazia ha perduto lo scettro
di Lorenzo Cremonesi


Il mutamento più profondo provocato dalle rivoluzioni arabe? «La conquista della libertà d'espressione. La messa in dubbio dell'autorità costituita. Un grande terremoto sociologico e antropologico ha scosso, sebbene in contesti diversi, l'intero Medio Oriente: ogni potere è più debole, soggetto a critica. È finita l'era dell'acquiescenza passiva. Persino i Fratelli musulmani e le altre forze islamiche emergenti devono stare in guardia. Soprattutto i giovani si sono opposti alle gerontocrazie tradizionali. Ci vorrà tempo per valutare appieno le conseguenze. Indubbiamente ci saranno alti e bassi sul cammino delle rivoluzioni. Ma direi che negli ultimi due anni la strada è stata tracciata con sufficiente chiarezza. Nonostante gli inevitabili tentativi di restaurazione, indietro non si torna». Gilles Kepel non nasconde la sua passione per tutto ciò che riguarda il mondo arabo. Accademico francese di fama internazionale, cultore forbito della lingua araba, studioso attento che ama andare sui luoghi, fu tra i primi a capire la crescita del fondamentalismo islamico negli anni Ottanta, dopo lunghe permanenze in Egitto. Uno slancio che non è mutato negli anni: sin dallo scoppio delle prime avvisaglie della «Primavera dei gelsomini», in Tunisia nel dicembre 2010, ha compiuto ben 35 viaggi in Medio Oriente. E ora pubblica in Francia i suoi taccuini di viaggio, Passion arabe. Journal, 2011-2013: un insieme di cronache, incontri, annotazioni quotidiane, riflessioni e memorie. «Sono stato dovunque. Ho visto ministri e contadini, laici e religiosi, vecchi e giovani, militari e rivoluzionari», ci dice per telefono da Parigi.
Andiamo oltre la geopolitica. Quali sono stati i cambiamenti tra le persone che conosceva e poi ha incontrato nel contesto delle «Primavere arabe»? Quali sono stati i mutamenti sociali destinati a durare?
«La messa in dubbio del potere in quanto tale è alla radice di mentalità nuove. L'idea che sia possibile ribellarsi conduce a rifondare il concetto stesso di cittadinanza. Nel passato gli arabi erano sudditi. Ora stanno costruendo una nuova figura di cittadino consapevole, che però sarà forgiata tra violenze e sangue. Il titolo del mio libro Passion arabe deriva proprio dalla consapevolezza del dolore e delle sofferenze che hanno causato e causeranno queste rivoluzioni».
Può fare un esempio pratico?
«È un mondo in continuo divenire. Oggi in Egitto nessuno guarda più la televisione del Qatar Al Jazeera, che pure fu tra i mezzi di diffusione più importanti del messaggio di rivolta agli albori delle Primavere, ma si è bruciata. Al Jazeera è stata sempre più percepita come uno strumento nelle mani del Fronte islamico. Tanto che adesso il suo pubblico tradizionale, sempre più critico con il governo del presidente Mohamed Morsi e dei Fratelli musulmani, guarda in massa le televisioni locali, che oltretutto trasmettono in dialetto egiziano. E uno dei suoi personaggi più noti è il comico Bassem Youssef, il cui tasso di gradimento è proporzionale alle misure repressive adottate da Morsi nei suoi confronti».
E le donne costrette a mettere il velo? Addirittura a rischio di stupri di massa a piazza Tahrir, nel cuore del Cairo?
«All'inizio delle rivoluzioni le donne hanno giocato un ruolo centrale, talvolta trascinante. Velate o no, sono scese in strada, hanno manifestato. Poi però, piano piano, sono state rifiutate dalla pubblica piazza. Contro di loro si sono mossi i Fratelli musulmani moderati e gli estremisti salafiti. Negli ultimi mesi mi sembra tuttavia di aver individuato forti segnali d'insofferenza da parte delle donne contro il maschilismo islamico. Lo si vede per esempio nella reazione contro la persecuzione della giovane Amina, minacciata in Tunisia perché aveva osato esprimere la sua critica alle ingerenze sociali dei religiosi mostrandosi a seno nudo sul web. Insomma: riemerge il tema dominante, che è quello del rifiuto dell'ordine tradizionale, della capacità di mobilitazione contro il potere, qualsiasi esso sia».
Giovani contro vecchi?
«Le dittature sorte dalle rivoluzioni anticoloniali hanno goduto di una sorta di decennale viatico internazionale grazie agli attentati dell'11 settembre 2001. Per dirlo con una formula: alle cancellerie occidentali erano utili i Ben Ali per combattere i Bin Laden. Così l'invecchiamento dei despoti è stato anomalo. Ha ricordato quello dell'Urss sulla via del tramonto: immobile, incapace di rigenerarsi. Infine sono stati gli studenti e i giovani disoccupati a esigere il cambiamento. I Fratelli musulmani hanno potuto approfittarne perché erano già addestrati alla lotta da decenni di clandestinità. Il loro apparato organizzativo quasi staliniano li ha aiutati. Ora però dovranno fare i conti con i nuovi ribelli, anche al loro interno».
L'Egitto però è diverso dalla Libia o dalla Tunisia. Per non parlare della Siria o del Bahrein. Qual è il comune denominatore in questa epocale rottura antropologica?
«È vero, parliamo di almeno tre scenari diversi: Nord Africa, penisola arabica e Levante incentrato sulla Siria. Ma con forti elementi comuni legati al fattore rivolta. In Egitto oggi c'è chi difende i diritti degli omosessuali. Ai tempi di Mubarak era impossibile. In Bahrein la sommossa sciita è stata repressa sul nascere grazie all'intervento militare saudita, eppure ho trovato interi villaggi ancora pronti alla mobilitazione. La tragedia siriana conta oltre 100 mila morti dal marzo 2011. Ma anche qui è decaduto il principio del capo carismatico. È ormai impossibile parlare della "Siria di Assad" come una volta. Le opposizioni però faticano a trovare un leader unificante. I giochi restano del tutto aperti».

Repubblica 21.4.13
Un sapere pret-à-porter
di Maurizio Ferraris


Lo scrittore inglese Sebastian Faulks ha recentemente sostenuto che le nuove generazioni saranno le prime in cui i figli saranno meno colti dei loro genitori: «I ragazzi che oggi hanno vent’anni e più costituiranno la prima generazione in Europa occidentale a soffrire di una perdita di sapere e conoscenza a causa della tecnologia. I nostri figli, difatti, sanno meno cose rispetto ai loro genitori». Uno potrebbe obiettare, come il presidente Clinton a proposito del sesso: «Dipende da cosa si intende con “sapere”». C’è un senso, tutt’altro che trascurabile, in cui l’asserzione di Faulks è letteralmente falsa. Nelle generazioni digitali non ci sono analfabeti di ritorno, in quella dei loro genitori, sì. Nelle generazioni digitali anche chi non ha a portata di mano una biblioteca può avere accesso alla cultura, in quella dei loro genitori, no. Nelle generazioni digitali è difficile che uno scriva Scespir se intende Shakespeare, in quella dei loro genitori (per non parlare dei loro nonni e bisnonni, in gran parte analfabeti) no.
E non si tratta soltanto di accesso a un concetto puramente nozionistico della cultura. Nel mondo di Internet assistiamo a un fenomeno che, nel suo complesso, può essere considerato un frutto dell’illuminismo, della capacità delle persone di pensare con la loro testa: la gente cerca, si documenta, discute. Che poi il frutto di questi pensieri autonomi possa non piacere, magari risultando arrogante come talora sono le idee degli autodidatti, è un fatto. Ma questa è un’altra storia, e comunque non è vero che “Internet rende stupidi”, come ha sostenuto Nicholas Carr con un pessimismo non meno eccessivo dell’ottimismo con cui Pierre Lévy parlò, negli anni Novanta, di “intelligenza collettiva” del web. Presuntuosi magari sì, ma non stupidi.
Quello che avverrà, quello che sta avvenendo e viene stigmatizzato da Faulks, riguarda piuttosto una trasformazione della cultura che è messa a fuoco con grande chiarezza da Roberto Casati in Contro il colonialismo digitale, un saggio in uscita a maggio da Laterza. L’idea di fondo è questa: le due pagine, quella di carta e quella su web, non si equivalgono per molti e ovvi motivi, uno dei quali è particolarmente cruciale. La pagina di carta invita al silenzio e alla concentrazione, la pagina web (posto che questa espressione abbia un senso) invita alla connessione e alla deconcentrazione. Se la pagina web dovesse scacciare definitivamente la pagina di carta non sarebbe la fine dell’intelligenza né dell’istruzione, ma di quel campo di concentrazione che è stata l’alta cultura nella tradizione occidentale.
È proprio in questa direzione che vanno le considerazioni di Faulks, che sostiene di non essere un bigotto pessimista, e di apprezzare i vantaggi delle nuove tecnologie, ma ritiene che «questi giovani hanno accesso al sapere semplicemente premendo un pulsante, ma, al-
lo stesso tempo, oggi non hanno più bisogno di “catturarlo”». In che cosa consiste la “cattura” tradizionale del sapere? Gianfranco Contini ha scritto nel 1951: «O italiani, io vi esorto alle Concordanze!». Ovviamente si riferiva ai filologi, e difendeva una pratica monotona ed estenuante: redigere un repertorio alfabetico delle parole presenti in un’opera o nel corpus intero di un autore. La pratica poteva durare anni, ma alla fine il redattore aveva letto riga dopo riga tutto quello che aveva scritto l’autore. Adesso se vuoi sapere dove e quando “summentovate” compare nei Promessi sposi, basta fare un giro su Google, ma si può tranquillamente ignorare tutto il resto.
Ovviamente questo è un esempio estremo, ma pensate alla fatica che si faceva per ritrovare una citazione su un libro (che ci costringeva a rileggerlo in buona parte), a mettere le note a un saggio (giorni e giorni in biblioteca), o anche semplicemente a trovare l’esatta ubicazione di un luogo geografico citato in un romanzo. E lì confesso che per esempio leggendo La figlia del capitano ho sempre collocato Orenburg «da qualche parte in Russia», non sentendomela di tirar fuori il pesantissimo atlante del Touring della biblioteca di mio padre. Sino a quando, l’estate scorsa, scaricatolo sull’iPad per portarmi un po’ di libri in vacanza senza sfondare la valigia ho guardato su Google Maps e ho ottenuto la risposta in un attimo. Per non parlare, poi, del modo in cui si conservavano le informazioni. Appartengo ancora alla generazione in cui si redigevano schede per le ricerche, prima su cartoncino bristol, poi su file di computer, ho ancora nell’hard disk i file di due anni passati nella biblioteca del seminario filosofico di Heidelberg, inizio anni Novanta, ossia poco prima che esplodesse il web. Adesso probabilmente quelle note non le avrei prese, confidando di trovare le citazioni online, ma di fatto perdendomi quel lavoro di trascrizione, riassunto e interiorizzazione che mi ha aiutato a capire molto più di quanto non mi aiuti, ora, ricorrere a quelle schede per citazioni e riscontri.
Il tutto, poi, avveniva in uno stato di concentrazione monastica, che è un bene unico, una delle cose più importanti che può insegnare la scuola e la pratica della biblioteca, perché con la concentrazione vengono (o possono venire) tante cose, per esempio l’idea di non essere così originali come talvolta pensiamo di essere. E si può anche capire che è meglio tacere, meditare, esitare, invece di postare lì per lì le nostre pensate. Ed è essenzialmente nel chiuso di una biblioteca che può sorgere l’idea, potente e salvifica, di essere un imbecille, e il sospetto che tutti i libri che abbiamo sottomano nel web non sono che la punta emersa di un iceberg che rimane invisibile se non si accede alle biblioteche e al loro silenzio.
Il web, che è connessione e deconcentrazione per eccellenza, non permette niente di tutto questo. Di chi è la colpa? Del web? Sarebbe come imputare al sogno leonardesco dell’uomo volante il bombardamento di Dresda. La colpa è della cultura, dell’università e della scuola. Basti pensare alla riforma dell’istruzione degli ultimi decenni, guidata dallo slogan inglese, Internet e impresa, e armata dalla convinzione che il vero sapere sia fuori, e che vada inseguito a tutti i costi, in una gara strutturalmente perdente. Si pensi, per le facoltà umanistiche,
al mito del sapere immediatamente professionalizzante, dei “laboratori informatici” o anche semplicemente dell’aumento irrazionale delle “lezioni frontali”. Tutto il contrario di quella che è stata, per me, l’esperienza dell’apprendere, che è consistita certo in un confrontarsi con maestri, ma anzitutto in un immergersi in un mare di libri (e mi è andata bene: pare che Lévi-Strauss richiedesse ai suoi studenti la lettura di 4.000 pagine alla settimana, più di quanto ne legga oggi uno studente nell’intero corso degli studi universitari).
Ora si annuncia tranquillamente l’inserimento del tablet a scuola, il che significa: deconcentrazione garantita e istituzionalizzata. Chi uscirà da queste scuole (ma varrà la pena di entrarci?) non sarà meno colto della maggioranza delle generazioni precedenti, ma sarà indubbiamente molto meno colto di una élite uscita da buone scuole e università, e che ha potuto ibridare il proprio sapere cartaceo e concentrato con i vantaggi (e ovviamente le nevrosi) di Internet. Con questo, però, arriviamo a due conclusioni, una pessimista e l’altra ottimista. Quella pessimista è che il web esercita una funzione superficialmente democratizzante, ma nel fondo risulta sottilmente classista, perché di fatto accresce il divario tra chi è cresciuto in una casa con libri e chi è cresciuto in una casa senza libri, visto che la scuola e l’università (le vere responsabili, torno a dirlo) sembrano avere abdicato alla difesa della cultura cartacea. Quella ottimista è che non si tratta di un destino. La tecnica non è una fatalità, ma una possibilità. Alle sue derive si può resistere. E soprattutto la tecnica si può cambiare e integrare, promuovendo un ideale di cultura che tenga insieme il meglio della carta e il meglio del web. Per riuscirci, però, occorre un po’ di concentrazione.

Repubblica 21.4.13
La teoria anche “politica” della relatività di Einstein
di Piergiorgio Odifreddi


Per una strana coincidenza, il 18 aprile sono iniziate le votazioni al Parlamento per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. E si è commemorato anche, o almeno l’ha fatto chi se n’è ricordato, l’anniversario della morte di Albert Einstein nel 1955, a settantasei anni. Le due cose parrebbero senza connessione, se non fosse che il grande scienziato era anche un personaggio politico, oltre che pubblico. Al momento della trionfale conferma di una delle sue previsioni, nel 1919, aveva dichiarato al Times: «Ecco l’applicazione della teoria della relatività ai gusti del pubblico: oggi vengo definito uno scienziato tedesco in Germania e un ebreo svizzero in Inghilterra. Ma se domani la mia teoria cadesse, diventerei un ebreo svizzero per i tedeschi e uno scienziato tedesco per gli inglesi». Sempre in quell’occasione, a una studentessa che si trovava con lui al momento dell’arrivo del telegramma con gli esiti dell’esperimento, e che gli domandò cosa avrebbe pensato se il responso fosse stato contrario, rispose: «Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio, perché la teoria è corretta». Tanto in un Dio non credeva: o almeno, considerava “inconcepibile” un Dio che ricompensa e punisce, come quello della Bibbia. Nel 1948 protestò per la visita di Begin negli Stati Uniti, perché considerava il suo partito “ispirato al nazismo”. Ciò nonostante, nel 1952 gli fu offerto di diventare il secondo presidente israeliano. Anche perché era stato un simbolo di pacifismo per tutta la vita, e di opposizione al nazismo fin dall’avvento di Hitler. Naturalmente rifiutò, perché «non aveva le capacità necessarie». Da noi, a uno scienziato come Einstein, non l’avrebbero mai neppure chiesto.

Repubblica 21.4.13
Internet Club
La “Follia scritta”: su puntoradio.it la salute mentale vista dai quotidiani
di Loredana Lipperini


Parole da ascoltare e da studiare: sono quelle di psicoradio. it, una testata radiofonica formata da pazienti psichiatrici che ha sede a Bologna. Nel sito della radio, fra le molte informazioni, si trova anche una ricerca realizzata in collaborazione con l’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana: si chiama “Follia scritta” e analizza i titoli di otto quotidiani che hanno utilizzato termini legati alla salute mentale. Qualche esempio: “pazzo” è presente in misura maggiore nelle sezioni cultura e spettacolo, “matto” e “folle” nella cronaca, naturalmente nera. Non solo. Tutte le definizioni vengono associate a termini che indicano situazioni violente: pericoloso, accoltellare, fracassare, spaccare. Da leggere, per chiunque faccia comunicazione (dunque, per tutti). Parole poetiche. Nasce il sito poetinottetempo. com, contemporaneamente a una nuova collana di Nottetempo che si chiama “poeti. com”: sarà disponibile in digitale, è diretta da Andrea Amerio e Maria Pace Ottieri, e ogni ebook sarà affiancato da un’edizione cartacea a tiratura limitata, numerata e firmata dall’autore e che, a prima edizione esaurita, potrà essere ordinata in print on demand. Primi titoli, Figlio di Daniele Mencarelli e Cos’è del sudcoreano Ko Un, mentre in autunno sarà la volta di Gian Maria Annovi. Sul sito, generosi assaggi dalle raccolte. Obiettivo: «intercettare i gusti e le abitudini dei lettori, vecchi e nuovi, nativi digitali o migranti dalla carta agli schermi dei lettori ebook». Auguri.

Repubblica 21.4.13
Con Platone e Heidegger per vincere l’horror vacui
di Elena Dusi


Ma come siamo arrivati fin qui? A un mondo in cui, per dirla come Shylock, «Se voglio questo non c’è ragione, è solo perché lo voglio». Eppure le premesse sembravano buone. Il logos come fondamento dell’agire umano. L’illuminismo con i suoi progetti per una “buona vita”.
Galileo che ci insegna a misurare il mondo. Marx che svela il meccanismo del valore di scambio. Poi, la svolta. Il razionalismo evapora dalla storia occidentale, l’illuminismo sfocia in un volontarismo che assegna all’uomo una capacità di disposizione assoluta sulla natura «perché così lui vuole» e il nichilismo comincia a erodere le nostre certezze. Non è un viaggio facile e comodo quello in cui Mario Barzaghi, professore di filosofia, ci conduce in Orizzonti Perduti.
Il percorso passa per Platone, Kant, Adorno, Hegel e un Heidegger che svela come l’illuminismo smarrisca i suoi punti di riferimento, finendo col dissolversi in un nichilismo che nella democrazia trova un’alleata anziché un argine. Il suo potere è immenso per il semplice fatto che ci libera da ogni obbligo, permettendoci di fare finalmente «quel che vogliamo, solo perché lo vogliamo».
ORIZZONTI PERDUTI. HEIDEGGER - FATO E ILLUMINISMO di Mario Barzaghi Youcanprint, pagg. 32, euro 20

Repubblica 21.4.13
Il lungo addio degli angeli di Tiepolo sospesi sull’“Educazione di Maria”
di Melania Mazzucco


A Venezia, dietro Rialto, si apre un campo dominato dalla facciata di mattoni, incompiuta, di una chiesa settecentesca: Santa Maria della Consolazione – o piuttosto, dal nome del rio che vi scorre, Santa Maria della Fava. È lì, sul primo altare a destra, che ho cominciato a capire Tiepolo. Pittore elusivo e prolifico, l’avevo sempre ammirato con l’impressione che, di lui, mi sfuggisse l’essenziale. Si tratta di una pala di dimensioni ragguardevoli (più di tre metri e mezzo per due). Non sappiamo da chi gli venne commissionata. Certo Tiepolo impiegò poco tempo a realizzarla: la sua velocità esecutiva era prodigiosa.
Il quadro raffigura una ragazzina vestita di luce, in piedi su una pedana, sulla terrazza recintata da una balaustra a colonnette di un edificio di cui s’intravede solo un pilastro con capitello ionico. Il volto serio, malinconico e senza sorriso illuminato da una celestiale luce incandescente, la ragazzina indica, col dito, un rigo sulla pagina di un volume che pare sospeso in aria (o forse sorretto da tre cherubini) a una donna anziana, dal naso adunco, il volto naturalisticamente ragnato di rughe. Un vecchio barbuto prega a mani giunte, il viso rivolto verso l’alto. Sopra di loro, invisibili ai protagonisti, tre angeli di disarmante bellezza. La ragazzina è Maria, gli anziani Anna e Gioacchino, suoi genitori. Il titolo recita:
L’educazione di Maria.
Il soggetto dell’educazione di Maria, inconsueto nel Rinascimento (ricordo Pinturicchio, Pomarancio e un toccante affresco di scuola romana nella chiesa di Sant’Onofrio a Roma), acquistò crescente popolarità nel corso del ’600. Quando, anche se l’educazione delle fanciulle rimase trascurata e trascurabile, si svilupparono congregazioni dedite all’educazione dei fanciulli – e tra queste in particolare gli Oratoriani, titolari della chiesa della Fava. Tiepolo comunque era già affascinato dal tema, e ne realizzò almeno tre varianti preliminari. Questa dovette ritenerla perfetta, perché mai in seguito riprese l’argomento.
Dell’educazione di Maria tacciono i Vangeli canonici, e gli apocrifi introducono la leggenda della Presentazione: consacrata a Dio, la Vergine bambina sarebbe stata affidata da Anna e Gioacchino ai sacerdoti, ed educata fino alla pubertà nel Tempio di Gerusalemme, dove la servivano e la nutrivano gli angeli. I padri della Chiesa promossero invece una versione diversa: fu educata in casa, dai suoi genitori. Ma i suoi veri pedagoghi furono la Grazia e il Verbo. Ora, nella pala di Tiepolo come nelle altre, il fulcro dell’educazione casalinga di Maria è la lettura. Maria legge. Le Sacre Scritture, s’intende. Tuttavia, per un popolo di non-lettori incalliti come il nostro, l’immagine di una ragazzina che legge acquista una forza simbolica che travalica il suo significato letterale.
Nel 1732 Tiepolo, trentaseienne, è già “pittore celebre”. Si è presto emancipato dal suo maestro Lazzarini, ha bordeggiato la pittura “tenebrosa” tardobarocca, ha sbalordito per capacità d’invenzione e virtuosismo tecnico; ha decorato soffitti di ville e palazzi con affreschi storici e profani; è stato chiamato da farmacisti e aristocratici antichi o recenti, dal doge e dal vescovo. In questa pala si confronta col rivale poco più anziano, Piazzetta, che ha già digerito e superato. Forse per rispettoso omaggio, forse per maliziosa sfida, o forse per dovere: alla Fava, la pala più grande era di Piazzetta. Tiepolo dipinge la propria usando i toni bruni e il chiaroscuro deciso dell’altro, presta ai suoi personaggi il plasticismo e le fisionomie di quello. Ma Tiepolo assorbe ogni suggestione dai contemporanei per trasformarla in qualcosa di irriducibilmente suo. E non sono solo la luminosità intensa e i colori – nell’armonizzare i quali, mediante il contrapposto, diverrà insuperabile. Qui dei futuri, preziosi colori tiepoleschi appare soltanto il blu di Prussia del manto di Maria, il bianco avorio dell’abito e della nube che l’avvolge, e la raffinatissima gamma dei gialli, culminanti nella seta del cuscino su cui si appoggia l’angelo dalle ali spiegate. E dei cieli che dipingerà come nessuno c’è solo uno spicchio azzurro.
È la grazia austera che compenetra e lega i gesti, l’assenza di espressione dei volti, la sospensione di significato. La scena di pedagogia domestica richiesta al pittore diventa infatti un mistero allusivo e segreto. Assistiamo a un evento che è anche un miracolo: è l’invisibile che si manifesta. Qualcuno sta insegnando a leggere a Maria: e non è sua madre. Non sono neppure i tre angeli che guardano la scena. Corporei, quasi pagani, questi angeli torneranno in molte altre opere di Tiepolo. La loro presenza non è funzionale all’azione. Sono dei mediatori del soprannaturale, che consentono alla bellezza di farsi visibile. Ma il loro messaggio non sarà raccolto. Negli anni Trenta del ’700 i veneziani non credevano più agli angeli, e la pittura religiosa stava per eclissarsi: la pala della Fava è l’estrema visione di una tradizione sacra agonizzante. Presto la pittura diventerà altro. Esibizione di ricchezza, fasto e potere, allegoria di se stessa. E Tiepolo avrebbe finito per lasciare la sua Venezia e inseguire in tutta Europa la gloria che quella nuova pittura frivola e lieve prometteva.
Gli angeli della Fava già prendono congedo dagli uomini: d’ora in poi, non creduti e superflui, osserveranno la loro vita dall’alto, con un’indifferenza languida che è già sintomo di estraneità. E Tiepolo sarà, forse, con loro. Nulla sappiamo della sua vita intima o dei suoi pensieri. La sua biografia è la sua opera. La sua pittura perderà contatto con la realtà e con la storia, e non vorrà offrire significati né essere vera – diventerà un teatro, una mascherata, un sogno dolce, una festa per gli occhi e per i sensi: ma lui sarà, come i suoi angeli, altrove.
Giambattista Tiepolo: L’educazione di Maria (1732) Venezia Santa Maria della Fava

A BARI "LA REPUBBLICA DELLE IDEE":

Repubblica 21.4.13
La scienza, la fede e la ragione In migliaia ai dibattiti di Bari per la “Repubblica delle idee”
Oggi al Teatro Petruzzelli l’intervista a Ruini
di Raffaele Lorusso


La primavera delle idee fiorisce a Bari. La festa del popolo di Repubblica, una moltitudine di giovani e meno giovani legata a doppio filo al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e diretto da Ezio Mauro, è dentro e fuori il teatro Petruzzelli. La tappa di primavera della Repubblica delle idee, la prima al Sud, è propedeutica al secondo festival nazionale in programma a Firenze dal 6 al 9 giugno. Nel capoluogo pugliese si parla del rapporto fra fede e ragione. “In principio era il logos”, è il tema della duegiorni barese. Al termine della prima giornata si contano diecimila persone che hanno partecipato agli appuntamenti tematici promossi in teatro. Almeno altrettante hanno visitato la mostra delle prime pagine del giornale allestita all’esterno. Fede e ragione, scienza e religione, dialogo fra laici e credenti. Senza dimenticare il viaggio affascinante attraverso i segreti del giornale: come nasce, come si trovano le notizie. Insomma, quel “miracolo quotidiano” che affascina anche nell’era dell’informazione digitale, raccontato agli studenti nella prima mattinata direttamente dai protagonisti: Ezio Mauro, i vicedirettori Dario Cresto-Dina e Angelo Rinaldi, il caporedattore di Repubblica.it Giuseppe Smorto, il caporedattore di Repubblica Bari Stefano Costantini e Luca Fraioli. L’evento, promosso in collaborazione con in collaborazione con Enel, Autostrade per l’Italia, Tim e Fondazione Veronesi, incuriosisce e affascina. «Siamo nel posto giusto — esordisce Ezio Mauro, salutando il pubblico anche a nome dell’ingegner Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo Espresso — Bari è la città di San Nicola e ha un’apertura internazionale al dialogo fra le fedi religiose. In questo evento la community di Repubblica si incontra, discute, parla, si confronta con esperti del nostro Paese e di fama internazionale». Ezio Mauro sottolinea che il tema dell’appuntamento barese, scelto mesi fa, è più che mai attuale, soprattutto dopo la storica rinuncia al soglio pontificio di papa Benedetto XVI e l’avvento di papa Francesco. Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, ringrazia. «C’è un’atmosfera meravigliosa — spiega — Il vostro impegno è commovente, spero che la città sfrutti l’occasione che le state concedendo». Poi, rivolge un pensiero a Taranto: «È una città ferita, stiamo lavorando per la sua candidatura a capitale europea della cultura». Il primo confronto è sull’infinito della scienza. Dario Cresto-Dina parla con il professor Umberto Veronesi della laicità come rifiuto dei valori assoluti, di cui invece la religione si nutre da secoli. Poi, tocca al priore di Bose Enzo Bianchi e al filosofo Umberto Galimberti, che con Giovanni Valentini dialogano sul bisogno di verità. Quindi Piergiorgio Odifreddi e Vito Mancuso, che con Marco Cattaneo discutono del senso della nostra esistenza e di quanto la ragione incida sulle nostre scelte. Fra gli eventi più attesi — per evidenti ragioni di attualità politica — quello del tardo pomeriggio, al quale partecipa Stefano Rodotà. Accolto da un’ovazione al suo in ingresso in teatro, l’ex garante della privacy si confronta con Remo Bodei e Marinella Perroni sul governo della nostra vita (modera Antonio Gnoli). In serata, i riflettori si accendono su Next. Lo spettacolo dell’innovazione va in scena con le migliori eccellenze italiane, chiamate a raccolta da Riccardo Luna. Una sfilata di talenti, che ogni giorno cercano un modo per tradurre le loro idee. È il racconto dell’Italia che cambia raccontata da coloro che provano a cambiarla: startupper, inventori, scienziati, innovatori sociali e musicisti. C’è Roberto Cingolani, mister nanotecnologie, ma anche tanti altri giovani che si stanno facendo strada grazie alle loro idee: Lorenzo Carbone di Avacar, Nicholas Caporusso di Meshagree, Salvatore Modeo e Antonio Andrea Gentile di Mrs, Lorenza Dadduzio e Flavia Giordano di Cucinamancina, Andrea Strippoli, Flavio e Silvio Troia di Spidly, Daniele Cassini di Ciceroos, Daniele Galiffa di Goalshouter, Massimo Ciuffreda e Michele Di Mauro di Wiman, Walter Dabbicco di Gnammo, Valeria Cifarelli e Alessia Zema di Controprogetto, Mariano Troccoli di Adtechoptics e Raffaele Clemente di Eskere. Si riprende questa mattina. Alle 9.30, don Antonio Sciortino e Giovanni Valentini discutono sul Vangelo dei media (modera Paolo Rodari). Alle 11.30, Ezio Mauro si confronta con il cardinale Camillo Ruini sul rapporto tra laici e credenti nell’età di papa Francesco (modera Marco Ansaldo).

Repubblica 21.4.13
“Dobbiamo essere liberi di decidere come morire”
La preghiera laica di Umberto Veronesi
di Antonio Di Giacomo


«Morire è indispensabile. È quasi un dovere lasciare posto agli altri». Sono parole che disarmano, in ragione della loro ineluttabile lucidità, quelle pronunciate dall’oncologo Umberto Veronesi. Ieri mattina sul palcoscenico del teatro Petruzzelli di Bari, durante la conversazione “L’infinito della scienza” con Dario Cresto-Dina, vicedirettore di Repubblica. «Tutti siamo destinati a morire e bisogna accettare la morte come un evento biologico inevitabile », dice Veronesi rivolto alla platea del teatro, gremito per la Repubblica delle idee: «La morte appartiene a un ordine biologico superiore, al di là della nostra volontà. Ed è bellissimo, perché si scompare per far posto alle nuove generazioni. Tutto si rigenera ed è in quest’ottica che va vista la morte. Con serenità». Non è soltanto la lectio magistralis di un medico che ha speso la vita per combattere il cancro, ma un’intensa e meditata testimonianza umana e intellettuale, quella consegnata da Umberto Veronesi. E se è della naturalezza della morte che si parla, Cresto-Dina interroga l’oncologo sulla labilità estrema, oggi, dei confini del fine vita. Fin dove ci si può spingere, allora? «Dipende dal pensiero religioso del medico e dunque — chiarisce Veronesi — dai limiti che possono scaturirne attraverso l’etica della sacralità della vita che indica come la vita stessa non ci appartenga. Dio concede e Dio toglie la vita, dice la religione. Mentre il laico non la pensa così e crede nell’autodeterminazione, nella possibilità di costruire la vita ma anche la morte». Un terreno sul quale gioca il suo ruolo la bioetica che, avverte Veronesi, «non è una categoria, bensì una teoria per la quale l’etica medica deve essere accondiscendente nei riguardi del disegno biologico. Se l’uomo è destinato a morire, la medicina non vi si deve opporre». Un punto di vista che non corrisponde, tuttavia, a una adesione incondizionata verso l’eutanasia, peraltro praticata, riferisce Veronesi, negli ospedali italiani in maniera clandestina. «Non ne sono un fanatico, ma ritengo che bisognerà dibatterne a lungo visto che è un nodo difficile da sciogliere. Sono piuttosto dell’opinione che, attraverso delle buone terapie palliative, un valido sostegno psicologico e un’adeguata attenzione al malato terminale si possa ridurre la domanda di essere soppressi. Non è soltanto un problema religioso: praticare un’iniezione per togliere la vita è difficile e doloroso per un medico cresciuto nella consapevolezza che bisogna salvarla la vita e non terminarla». Un campo minato, in assenza di un quadro normativo certo in ogni caso. «Al tempo stesso la nostra Costituzione — ricorda — ammette la possibilità di rifiutare un trattamento che non si vuole subire. E qui entra in gioco il testamento biologico: se qualcuno non vuole restare in futuro in un eventuale stato vegetativo permanente ha il diritto di scrivere e decidere di lasciarsi morire, senza vivere artificialmente. In Italia, purtroppo, non si è mai fatta una legge per regolamentarlo in maniera chiara: quand’ero senatore me ne feci promotore ma non se ne fece nulla». Ed è una scienza abitata da tensioni etiche quella che guida l’agnostico Umberto Veronesi, che ha alle spalle una ferrea educazione cattolica. «Quando fondai il primo comitato etico italiano — racconta — il nostro motto era molto semplice: tutto è concesso all’uso della scienza per l’uomo, tutto è negato nell’uso dell’uomo per la scienza. I valori di riferimento per la scienza sono ricerca della verità, universalismo e funzione civilizzatrice ». E il dialogo con la fede, al centro della Repubblica delle idee? «Sono stato un grande ammiratore di papa Benedetto XVI e conservo nel cassetto il suo discorso di Ratisbona che cerca proprio di unire la scienza con la fede. È in quel testo che più volte ripete come ogni azione compiuta dall’uomo senza l’aiuto della ragione non sia nel disegno di Dio. È stata un’affermazione che ha rallegrato il mondo della scienza». Resta sul campo, semmai, il dialogo complesso tra laicità e chiesa. «Il laicismo è una filosofia di vita — è l’applaudita sintesi di Veronesi — che rifiuta i valori assoluti. I laici, in effetti, sono stati contro il fascismo, contro il nazismo, contro il comunismo e il rapporto con la chiesa è difficile perché è un’istituzione che vive di valori perenni».

Repubblica 21.4.13
Umberto Galimberti ed Enzo Bianchi, dialogo sulla verità
Se è l’amore il terreno comune tra il credente e il filosofo
di Antonello Cassano


Qual è il punto di incontro tra fede e ragione? È l’amore dice il credente. È l’amore conferma il filosofo. «Dio è morto», dice il filosofo. La religione nasce dalla paura della morte. Ma la fede non rassicura, perché non è una certezza, risponde il credente. La fede si conquista giorno per giorno, come la verità. La verità, appunto, è il terreno di scontro tra fede e ragione. “Il nostro bisogno di verità” è il titolo del dibattito moderato dall’editorialista di Repubblica Giovanni Valentini, tra il priore di Bose, Enzo Bianchi e il filosofo Umberto Galimberti. «Ma da cosa nasce il bisogno di religione — chiede Galimberti — se non dalla paura della morte? Quando subentra il dolore, reggilo, dice Platone. I greci non hanno bisogno di farsi domande sull’esistenza e sul dolore. Per i cristiani invece il dolore è la conseguenza di una colpa, quindi ha un senso. Secondo i cristiani è il dolore che redime. Da questa dimensione tragica il cristianesimo ci salva con un modello di immortalità. Una potenza ottimistica poi ereditata dalla scienza. Tutto è cristiano in Occidente. Ma non dimentichiamo che Nietzsche ci ha detto “Dio è morto”». «La fede non è una certezza — replica il priore di Bose — è un cammino che si rinnova giorno dopo giorno. La fede è rinnovata dall’amore». L’amore, dunque, è la parola chiave: «Sappiamo benissimo — afferma Galimberti — che lo specifico del cristianesimo è l’amore. Questo amore forma l’intero Occidente e quando la rivoluzione francese accanto a libertà e uguaglianza aggiunge la fraternità sta parlando d’amore. L’amore è l’essenza del cristianesimo anche se la chiesa l’ha praticato raramente». Se la Chiesa continua a occuparsi di faccende umane, afferma Galimberti, vuol dire che ha perso il senso di Dio. Significa che Dio è morto. E si ritorna a Nietzsche. Per sopravvivere la Chiesa deve fuggire dalla logica della doppia morale. «In questo senso papa Francesco ha imboccato la strada giusta — conclude il priore Enzo Bianchi — perché la fede sia decisiva occorre che sia pratica e coerente con quello che dice. L’etica la costruiamo insieme».

Repubblica 21.4.13
Il duello a colpi di ironia di Odifreddi e Mancuso
Matematica contro teologia i misteri del “Logos”
di Francesca Russi


Il mistero della fede e la certezza della ragione. Oppure il contrario. È un dialogo serrato, intenso e a volte ironico quello tra Vito Mancuso e Piergiorgio Odifreddi. Da un lato il teologo, dall’altro il matematico. I due, sul palco del teatro Petruzzelli di Bari per l’anteprima di Repubblica delle idee, si confrontano, scherzano, si provocano. «Se dobbiamo continuare a credere che Adamo ed Eva siano esistiti realmente, allora andiamo contro l’evoluzionismo, casca tutto» è la sfida lanciata da Odifreddi. «Non si può dare una prospettiva razionalista sull’esistenza di Dio» ribatte Mancuso. Si cita Norberto Bobbio, caposaldo del pensiero laico. «Come uomo di ragione, non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi». A sfoderare il testamento spirituale di Bobbio, pubblicato all’indomani della sua morte, è a sorpresa Mancuso.
«Abbiamo sempre creduto che la ragione produce certezze e la fede misteri, invece è la ragione che produce il mistero — spiega il teologo — il pensiero umano non riesce a catturare il nostro rapporto col tutto. L’enigma della vita è al di la dello spazio e del tempo e per comprendere il senso dell’esistenza la ragione non basta». Odifreddi, però, non demorde. «Bisogna distinguere tra ragione umana, con la r minuscola, e Ragione dell’universo, con la R maiuscola. Se il senso — prosegue il matematico — è qualcosa che ha a che fare con l’uomo, le domande di senso sono superstizione.
La verità è un mare che non si può svuotare col cucchiaino della religione, ma a volte si possono trovare bei sassolini. L’importante è continuare a cercare». A mettere d’accordo i due ci pensa ancora Bobbio. «La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa» prova a mediare con le parole del filosofo torinese Mancuso. In risposta arriva la provocazione di Odifreddi che chiude con la preghiera dell’uomo laico, un credo riadattato alla scienza. «Credo in un solo Dio, la natura; credo in un solo Signore, l’uomo plurigenito figlio della natura».

Repubblica 21.4.13
L’incontro tra Stefano Rodotà, Remo Bodei e Marinella Perroni
Il potere senza controllo e la dignità dell’uomo
di Anna Puricella


Più che la ragione, l’umanità. È stato il concetto ripetuto più spesso da Stefano Rodotà, ieri al teatro Petruzzelli di Bari.
L’appuntamento del tardo pomeriggio con la Repubblica delle idee, dal tema “Il governo della nostra vita”, è coinciso con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale. Inevitabile allora la standing ovation per Rodotà, che ha aperto una discussione intensa sul rapporto tra ragione e fede. A tessere le fila della conversazione Antonio Gnoli, che ha equilibrato gli interventi provenienti da tre diversi punti di vista: il filosofo Remo Bodei ha aperto il dibattito ribadendo che «siamo ospiti della vita, ognuno di noi nasce senza volerlo e senza saperlo in un corpo ereditato dai progenitori, con meccanismi già rodati»; la teologa e biblista Marinella Perroni ha puntato sull’esperienza della fede — «l’autonomia della gestione della vita non può giustificare il narcisismo che tutto fa implodere» — Rodotà ha concluso sottolineando più volte la parola “dignità”.
«La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, si dice alla fine dell’articolo 32 della Costituzione. Qui si definisce il rapporto tra l’uomo e il potere politico, fu un emendamento proposto da Aldo Moro e Paolo Rossi e non tutti erano in grado di comprenderlo: era la tutela della persona dalla possibilità di distorsione del potere politico». Rodotà ha dato ulteriore respiro al suo intervento, partendo dai processi ai medici nazisti dopo la Seconda guerra mondiale — «avevano ridotto l’uomo a oggetto di sperimentazione» — per arrivare all’oggi, alla povertà diffusa cui spesso si riferisce papa Francesco. «Si deve passare dalla politica del disgusto a quella dell’umanità. È il diritto all’esistenza a dover essere tutelato». Stoccata finale, strano a dirsi per quel popolo del web che lo voleva presidente, è proprio alla rete: «Ci troviamo di fronte a poteri senza volto, o talmente riconoscibili che non riusciamo a capire come controllarli. Google, Amazon: la rete è piena di poteri che non sono democratici». La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.