lunedì 22 aprile 2013

l’Unità 22.4.13
Napolitano: il governo subito
Oggi il Capo dello Stato porrà le sue «condizioni»
Esecutivo politico? Tensione alta nel Pd, si apre lo scontro più pericoloso
di Simone Collini

Alle consultazioni al Quirinale, insieme ai capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda, dovrebbe andare Enrico Letta. E però Pier Luigi Bersani potrebbe cedere alle pressioni, che in queste ore gli stanno arrivando da più parti, a restare alla guida del partito in questa fase di transizione verso il congresso. Due fatti in contraddizione? No, se valutati alla luce di quel che sta succedendo nel Pd.
La rielezione di Giorgio Napolitano ha fatto uscire dall’impasse venuta alla luce con il naufragio delle candidature al Colle di Franco Marini e di Romano Prodi. Ma le difficoltà per i democratici non sono finite, anzi, e allora è meglio non aprire altri fronti e rischiare ulteriori lacerazioni. Le dimissioni di Bersani formalmente non sono operative (al quartier generale del Pd spiegano che vanno rassegnate di fronte a un organismo politico come la Direzione e non è sufficiente l’annuncio ai Grandi elettori) ma già si è innescata nel partito una discussione sul tipo di guida da dare in questa fase che precede il congresso.
GABINETTO DI CRISI
La reggenza ipotizzata in un primo momento, con eventuale incarico a Letta, è stata contestata da diverse componenti del Pd, a cominciare da ex-popolari e renziani, che chiedono invece una gestione collegiale che sia garantita da un organismo in cui siano presenti tutte le anime del partito. Aprire uno scontro su chi debba guidare il Pd è rischioso per tutti, e da Dario Franceschini a Luigi Zanda, da Guglielmo Epifani alla piacentina Paola De Micheli allo stesso Letta, sono molte le pressioni che sta ricevendo Bersani affinché resti al suo posto fino al prossimo congresso.
Il segretario dimissionario per ora non cede, ma non è escluso che per evitare il rischio di ulteriori fratture interne decida alla fine di congelare fino al congresso le sue dimissioni. Contemporaneamente però, stando ai ragionamenti che già si fanno ai vertici del Pd, si darebbe vita a un nuovo organismo collegiale che in questa fase gestisca la crisi e poi faccia da ponte di collegamento tra partito e governo nel seguito della legislatura. Che, se tutto andrà come previsto, non sarà di così breve durata. E una cosa è chiara fin d’ora: non sarà facile per il Pd gestire la stagione che si apre. L’ipotesi che si vada verso un governo politico in cui convivano ministri del Pd e del Pdl sta già provocando fibrillazioni all’interno dei gruppi parlamentari democratici. L’attesa per il discorso che farà oggi pomeriggio a Montecitorio il Capo dello Stato è alta, ma sono già diversi i deputati e senatori Pd che annunciano il loro no alla fiducia nel caso si prefiguri un governo di larghe intese.
A RISCHIO DIVISIONE
Matteo Orfini spiega le ragioni del sì a Napolitano aggiungendo che quel voto non va collegato a «cose che non c’entrano nulla, come il governissimo»: «Io ho votato un presidente della Repubblica. E quel voto non impegna né me né il Pd al sostegno di un governo col Pdl. Questo lo abbiamo chiarito prima del voto e lo ripeto ora. Al governo con Berlusconi ero e resto contrario». Critico con la strada imboccata è anche Pippo Civati, che se la prende con «quelli-di-sinistra-che-odiano-la-sinistra»: «Ora potremmo avere un presidente come Prodi e un premier come Barca e invece avremo Monti all’economia e magari Alfano vicepremier. Perdendo Sel, per altro, il Pd sarà azionista di minoranza del nuovo governissimo (il Pdl avrà più peso elettorale, anche se sembra non averlo notato nessuno)». E critica con l’ipotesi che a guidare un governo di larghe intese sia il vicesegretario Pd è Rosy Bindi: «Ho grande stima di Enrico Letta e credo che sarebbe molto capace e saprebbe guidare un governo ma di certo questo non è il momento».
Parole pronunciate in televisione che provocano nuove tensioni fuori e dentro il partito, e alle quali Bindi fa seguire una nota di rettifica soltanto parziale: «In questa fase un esecutivo con una evidente caratura politica e non mi riferisco solo al vicesegretario del Pd non sarebbe capito dalla nostra gente e non sarebbe utile al Paese. Abbiamo sempre escluso le larghe intese e le ipotesi di governissimo e mi pare che questa sia ancora la linea del partito».
Il nodo è politico e andrà sciolto, se si vogliono evitare drammatiche conseguenze nel passaggio della fiducia, nei colloqui di queste ore e soprattutto nella Direzione che sarà convocata domani, dopo aver ascoltato oggi le parole del Capo dello Stato. Bersani da Piacenza, dove ha trovato ad accoglierlo striscioni di sostegno («i giovani del Pd non tradiranno il partito» e «restiamo al tuo fianco»), ieri ha sentito Letta e gli altri dirigenti per fare il punto. Su un governo di scopo che realizzi le riforme, anche istituzionali, necessarie al Paese il consenso c’è. Le cose però si complicherebbero se il governo del presidente dovesse avere una marcata fisionomia politica, sul modello ipotizzato al momento dell’elezione di Napolitano.
Bersani ha assicurato ai suoi interlocutori che nulla è deciso, che le indiscrezioni trapelate finora non hanno fondamento. Sarà fatta luce oggi, col discorso del Presidente della Repubblica di fronte ai Grandi elettori. Poi domani ci sarà il pronunciamento della Direzione Pd, che stando alle indiscrezioni della vigilia dovrebbe votare una mozione comunque di sostegno alla posizione espressa da Napolitano. Bisognerà però vedere, considerato quel che è successo per l’elezione del Capo dello Stato, se tutti i parlamentari poi si atterranno a quanto votato.

Articolo 21 21.4.13
“Napolitano eletto, ha vinto Berlusconi!”
di Sabrina Ancarola

qui

Corriere 22.4.13
«Avvenire»: soprassalto di saggezza
Marco Tarquinio. «L'Italia ha di nuovo un "presidente di tutti" e lo ha di nuovo in Giorgio Napolitano»


MILANO — Dopo l'apprezzamento dell'Osservatore Romano, è toccato ieri al quotidiano dei vescovi italiani applaudire alla scelta del presidente Giorgio Napolitano di offrire la sua disponibilità a un bis. «Il soprassalto di saggezza politica e istituzionale nel quale anche noi avevamo sperato c'è stato» ha scritto ieri nel suo editoriale il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. «L'Italia ha di nuovo un "presidente di tutti" e lo ha di nuovo in Giorgio Napolitano». «C'è da essere grati» al presidente «per avere, con la propria costruttiva disponibilità, strappato via dalla logica di guerra più dei due terzi del Parlamento repubblicano» continua Tarquinio, dinanzi alla «disperata e disperante impotenza di tutte le forze e frazioni politiche». «C'è da essergli riconoscenti — prosegue — per il supplemento di altissimo servizio istituzionale al quale si appresta in un passaggio difficile e duro, davvero cruciale, della vita nazionale». Tarquinio parla di Napolitano come «antidoto esemplare» di fronte «alle polemiche e alle manovre esasperate e devastanti di vecchi e nuovi personaggi della scena pubblica» come, indica Avvenire, Beppe Grillo. Ora, per il quotidiano dei vescovi, «la conferma del capo dello Stato è la conferma della necessità assoluta di agire il più concordemente possibile, con visione davvero lungimirante, per ridare lavoro e speranza agli italiani». E per questo occorrerà un «governo possibile e necessario» fatto «almeno dai partiti che hanno votato il bis del "presidente di tutti": Pd, Pdl, Scelta civica e Lega».
«La risalita deve cominciare adesso — conclude il quotidiano della Conferenza episcopale italiana —. Siamo certi che questo è il punto cardine dell'agenda di Giorgio Napolitano. Più che mai auguri, presidente».

il Fatto 22.4.13
Il libro di Paolo Peluffo
E Ciampi studiò: il bis è incostituzionale


Mancava meno di un anno alla fine del mandato di Carlo Azeglio Ciampi. Paolo Peluffo, consigliere per la stampa e la comunicazione durante la sua presidenza, racconta nel libro Carlo Azeglio Ciampi: “Per molti mesi, Ciampi aveva preparato, come gli è solito fare, un piccolo fogliettino, scritto a mano in una mattinata insonne, tra le cinque e le sei, in pigiama nel letto, con le ginocchia ritirate su a sostegno di un block notes, in una grafia insieme sintetica, minuscola, illegibile”. Era quel fogliettino “una sorta di garanzia offerta a se stesso che l’incarico stesse per terminare davvero. In fondo, erano ben tre anni che talvolta il Presidente stupiva gli ospiti nel suo studio alla Palazzina rivelando loro il numero esatto di giorni e ore che mancavano al termine del mandato. Settecentoventidue giorni alla fine”. Ciampi era consapevole del consenso sulla sua persona, e per ciò stesso passò “gli ultimi sei mesi del suo mandato a costruire, volutamente e pervicacemente, il rifiuto categorico a ogni possibilità di sua rielezione”. Scrive Peluffo: “Ricordo un pomeriggio di fine settembre del 2005, nel quale il Presidente scese in studio particolarmente soddisfatto. ‘Ci sono precedenti, Segni addirittura nel suo messaggio alla Camere, l’unico, propose di modificare la Costituzione per inserire l’inelegibilità per due volte del capo dello Stato. I costituenti hanno previsto un periodo di sette anni, perchè fosse abbastanza lungo da escludere la rielezione’”. Il 3 maggio 2006 quel testo divenne un comunicato ufficiale del Quirinale. “È il documento - scrive l’attuale sottosegretario del governo Monti - eticamente più intenso della vita pubblica di Ciampi. È il frutto della visione complessiva di cosa sia il ‘potere’, e di quale differenza fondamentale separi ‘autorità’ e ‘potere’. Se non si ha la capacità di tagliare netto, di chiudere quando è il momento, il ‘potere’ manifesta tutta la sua natura moralmente ambigua e diventa pericoloso per sè, per l’individuo, e per la comunità”. C’era scritto che la rielezione “mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”.
e.d.b.

il Fatto 22.4.13
Strategie ad personam
Violante alla Giustizia, il Caimano lo vuole
di Fabrizio d’Esposito


Un probabile ministro, molto gettonato ma altrettanto prudente, invita “a non dare nulla per scontato” e aggiunge che “le trattative vere inizieranno dopo il giuramento di Napolitano, per il momento ci sono solo abboccamenti, sì è vero ci piacerebbe Violante alla Giustizia”.
COSÌ QUANDO si sgonfieranno l’enfasi e la retorica sul ritorno del re al Quirinale, la strada per il governo di “salvezza nazionale”, la formula prediletta del Colle (non di “scopo” o comunque a breve termine), non sarà affatto in salita. Tutto dipende dai danni che provocherà l’inciucio edizione 2013 nel partito più devastato del globo terracqueo, il Pd. Le larghe intese, per fare un esempio, sono state già bocciate da Rosy Bindi. Segnali questo che fanno già volgere al peggio l’umore dell’asse che darà il nome all’esecutivo. Quello tra Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi. Al netto dei falchi che volano sempre alti nel Pdl, ansiosi di capitalizzare al più presto nelle urne la resurrezione del centrodestra, il Cavaliere al momento ha la stessa linea del Quirinale: governo politico e autorevole. Ma il problema saranno i numeri del Pd.
Per questo motivo Berlusconi e la sua corte seguono con la massima attenzione l’evoluzione della profonda crisi democrat. C’è anche un fortissimo interesse di parte: qualora il Pd dovesse spezzarsi con una o più scissioni, il Pdl potrebbe diventare primo partito al Senato, decisivo per la governabilità, e rivendicare Palazzo Chigi.
La speranza, destinata a rimanere tale, dà la cifra del compito difficilissimo che aspetta il capo dello Stato. Il governo Napolitano-Berlusconi, alla vigilia delle consultazioni al Colle, vede in pole position sempre Giuliano Amato, l’ex craxiano con una superpensione di 31mila euro, ed Enrico Letta, il vice centrista del fu segretario Bersani. Altre variabili sono rappresentate dal ministro dell’Interno Anna Ma-ria Cancellieri, dal presidente del Senato Grasso e persino dall’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Ma il “senso di responsabilità” del Cavaliere ha tutti i sensi all’erta per quel che riguarderà il ministero della Giustizia. L’altro giorno, nel-l’euforia generale per la rielezione di Napolitano, i parlamentari-avvocati di B, Ghedini e Longo, si appartavano compunti con alcune carte in mano. Il concetto di salvacondotto è la pietra angolare su cui poggia l’inciucio e stavolta la garanzia potrebbe arrivare da un Guardasigilli un tempo considerato il nemico numero uno: l’ex magistrato Luciano Violante, tra i dieci saggi nominati da Napolitano per fare “melina” in attesa degli scrutini per il Colle. Il suo nome, suonerà strano ma è così, è il più pronunciato nel Pdl per quella casella. Il paragone è storico e risale a un altro governo di salvezza nazionale: quando nel 1946 ministro della Giustizia era Palmiro Togliatti, segretario del Pci, e ci fu l’amnistia per i detenuti politici. Presidente del consiglio era lo statista dc Alcide De Gasperi.
PER MOLTI berlusconiani lo schema si potrebbe riproporre per queste larghe intese di pacificazione nazionale, magari con le nomine di B. e Prodi a senatori a vita. È stato Fabrizio Cicchitto del Pdl a tratteggiare lo schema dieci giorni fa, facendo il nome di Violante addirittura per il Quirinale: “Togliatti chiuse la fase drammatica della guerra civile. Negli articoli e nei libri di questi anni, l’evoluzione del pensiero di Violante è evidente. Lui che viene da lì, lui che ha cavalcato la fase dell’uso politico della giustizia, è l'unico ad avere la forza per provare a chiuderla, e promuovere una nuova pacificazione italiana”. Non da capo dello Stato, come sperava Cicchitto, ma almeno da Guardasigilli. Violante come Togliatti, è la nuova frontiera del Pdl. Il governo di “salvezza nazionale” a guida Amato con Alfano ed Enrico Letta vicepremier oppure a guida Letta dovrebbe mettere insieme il programma dei saggi del Quirinale e gli otto punti di B. in campagna elettorale. Circolano nomi tecnici (Saccomanni) e politici (Quagliariello, Frattini) ma tutto è subordinato al contributo che dovrà dare, se lo darà il Pd. Quale Pd, poi? E una fase di ulteriore frammentazione chissà che non favorisca l’attuale governo Monti, rivitalizzato da altri ingressi. Del resto un premier continua a esserci da mesi.

il Fatto 22.4.13
Stefano Rodotà
“Mi ha chiamato Prodi. Bersani non s’è degnato”
intervista di Silvia Truzzi


Succede, purtroppo, di dover disturbare la domenica di un signore come Stefano Rodotà per chiedergli di rispondere ad alcune miserie che sono state scritte sul suo conto in questi giorni di Romanzo Quirinale. Lo si fa con un certo imbarazzo: non solo considerando la sua persona, ma anche tutti gli altri. Tutti quelli che in questi giorni lo hanno riconosciuto come simbolo del rinnovamento.
Professore, si è scritto che per la seconda volta lei e Napolitano vi siete trovati a essere rivali per una presidenza. Ci racconta come andarono le cose nel ’92?
Su quella vicenda non sono mai tornato. E, chiariamo subito, non ha mai provocato frizioni tra me e Giorgio Napolitano: io le questioni politiche non le mescolo con quelle personali. Dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, Napolitano fu eletto presidente della Camera. In precedenza ero stato designato dal Pds come candidato alla presidenza di Montecitorio, di cui ero vice-presidente. Sono stato impallinato in parte dai franchi tiratori del Pds e soprattutto dal veto di Craxi. Ebbi un incontro con Napolitano, perché i vertici del partito ben si guardavano dal fare chiarezza. Dopo, io ritirai la candidatura e andai a votare per Napolitano. Mi pare tutto chiaro. E poi non è vero, come è stato scritto, che allora lasciai il partito. Mi dimisi semplicemente dalla presidenza del Pds perché ero stato candidato e poi non sostenuto dal partito. C’era una contraddizione. Più tardi presentai le mie dimissioni da deputato, furono ripetutamente respinte. Sono rimasto in parlamento fino alla fine della legislatura. Ho detto no a una successiva candidatura, non per risentimento, ma perché volevo fare altro.
Sabato invece, che è successo?
Sono partito da Reggio Emilia e sono atterrato a Bari dopo le 16. Lì ho saputo che c’era un fatto nuovo, ovvero la candidatura di Napolitano. I giornalisti m’informano della cosa e mi chiedono se intenda ritirarmi: “Apprendo ora di questi nuovi sviluppi, non ho ricevuto nessuna sollecitazione in questo senso, ci sono 1007 grandi elettori e questi voteranno come credono”.
Le hanno rinfacciato di non aver fatto un “gesto di cortesia”.
Ma che vuol dire? Apprendo un fatto dai giornalisti, nessuno – sottolineo: nessuno – mi chiede di ritirarmi. Io non sono in Parlamento, nemmeno potevo discuterne lì. Non avrei certo potuto ritirarmi senza parlare con le persone che avevano proposto e sostenuto il mio nome dalla prima votazione. Non avrei mai sbattuto la porta in faccia al Movimento 5 Stelle o a Sel. La prima cosa che ho detto sul palco di Bari è stata: “Vorrei dare un saluto al rinnovato presidente della Repubblica”. Una dichiarazione istituzionalmente doverosa, io tengo molto alle istituzioni. Questo rilievo mi pare dunque politicamente infondato ed è una critica personale tutto sommato meschina.
Le è stato rimproverato anche di non aver preso in mano il telefono e contattato il Pd.
Ma per quale ragione dovevo chiamarli io? Il mio telefono e la mia email, durante la campagna elettorale, sono stati largamente contattati. Io, che nelle altre campagne elettorali mi ero molto tenuto in disparte, questa volta, vedendo il rischio, sono intervenuto. E poi guardi: il Pd mi aveva chiesto di candidarmi alle ultime europee, come capolista nel Nord-Est. Ho rifiutato, come ho sempre fatto da quando sono uscito dal Parlamento. Poi, me lo aveva chiesto con grandissimo garbo anche Nichi Vendola. Ma non avevo nessun dovere verso di loro. Dovevo forse chiedere il permesso al Pd per accettare la candidatura del Movimento 5 Stelle? Ma siamo pazzi? Loro credono di essere i proprietari delle vite altrui. Devo spiegare perché doveva essere Bersani a chiamarmi? Perché, più o meno responsabilmente, guida un partito e quando si crea una situazione di conflitto tra persone provenienti dallo stesso mondo, è lui che deve prendere l’iniziativa. Sa cosa le dico? Romano Prodi dal Mali mi ha telefonato.
Cosa le ha detto Prodi?
“Stefano, mi dispiace che ci troviamo in una situazione di conflitto”. E io gli ho risposto: “Questa telefonata dimostra di quale spessore politico diverso tu sia rispetto agli altri. Per quel che mi riguarda, ho fatto una dichiarazione concordata con i capigruppo del Movimento 5 Stelle le cui ultime parole sono: ‘Per parte mia non sarò d’ostacolo qualora il Movimento voglia prendere in considerazioni soluzioni diverse’”.
Resta l’inspiegabile fatto che gli uomini del Pd si aspettavano che lei li chiamasse.
Quando hanno bisogno di me si fanno vivi, quando invece io assumo un ruolo rispetto al quale loro dovrebbero esprimersi, scompaiono.
Eugenio Scalfari ha scritto su Repubblica che il suo nome proprio non gli era venuto in mente. Eppure a giugno dell’anno scorso (precisamente il 2, festa della Repubblica, sic) il nostro giornale la intervistò perché proprio Scalfari aveva parlato di lei per una lista di intellettuali che facessero da “stampella” al Pd.
Sono rimasto molto sorpreso. Ho trovato l’attacco di Scalfari inutilmente aggressivo e del tutto infondato per quanto riguarda i dati di fatto. E il complessivo significato politico di quello che è avvenuto.
Ultima: nessuno ha spiegato perché il Pd non ha voluto convergere sul suo nome.
Chissà. Forse avevano già definito una strategia che poi si è rivelata rovinosa: io ero probabilmente in rotta di collisione.

Repubblica 22.4.13
La lettera
Io sono e resto un uomo di sinistra
di Stefano Rodotà

CARO direttore, non è mia abitudine replicare a chi critica le mie scelte o quel che scrivo. Ma l’articolo di ieri di Eugenio Scalfari esige alcune precisazioni, per ristabilire la verità dei fatti.
E, soprattutto, per cogliere il senso di quel che è accaduto negli ultimi giorni. Si irride alla mia sottolineatura del fatto che nessuno del Pd mi abbia cercato in occasione della candidatura alla presidenza della Repubblica (non ho parlato di amici che, insieme a tanti altri, mi stanno sommergendo con migliaia di messaggi). E allora: perché avrebbe dovuto chiamarmi Bersani? Per la stessa ragione per cui, con grande sensibilità, mi ha chiamato dal Mali Romano Prodi, al quale voglio qui confermare tutta la mia stima. Quando si determinano conflitti personali o politici all’interno del suo mondo, un vero dirigente politico non scappa, non dice «non c’è problema », non gira la testa dall’altra parte. Affronta il problema, altrimenti è lui a venir travolto dalla sua inconsapevolezza o pavidità. E sappiamo com’è andata concretamente a finire.
La mia candidatura era inaccettabile perché proposta da Grillo? E allora bisogna parlare seriamente di molte cose, che qui posso solo accennare. È infantile, in primo luogo, adottare questo criterio, che denota in un partito l’esistenza di un soggetto fragile, insicuro, timoroso di perdere una identità peraltro mai conquistata. Nella drammatica giornata seguita all’assassinio di Giovanni Falcone, l’esigenza di una risposta istituzionale rapida chiedeva l’immediata elezione del presidente della Repubblica, che si trascinava da una quindicina di votazioni. Di fronte alla candidatura di Oscar Luigi Scalfaro, più d’uno nel Pds osservava che non si poteva votare il candidato “imposto da Pannella”. Mi adoperai con successo, insieme ad altri, per mostrare l’infantilismo politico di quella reazione, sì che poi il Pds votò compatto e senza esitazioni, contribuendo a legittimare sé e il Parlamento di fronte al Paese.
Incostituzionale il Movimento 5Stelle? Ma, se vogliamo fare l’esame del sangue di costituziona-lità, dobbiamo partire dai partiti che saranno nell’imminente governo o maggioranza. Che dire della Lega, con le minacce di secessione, di valligiani armati, di usi impropri della bandiera, con il rifiuto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con le sue concrete politiche razziste e omofobe? È folklore o agire in sé incostituzionale? E tutto quello che ha documentato Repubblica nel corso di tanti anni sull’intrinseca e istituzionale incostituzionalità dell’agire dei diversi partiti berlusconiani? Di chi è la responsabilità del nostro andare a votare con una legge elettorale viziata di incostituziona-lità, come ci ha appena ricordato lo stesso presidente della Corte costituzionale? Le dichiarazioni di appartenenti al Movimento 5Stelle non si sono mai tradotte in atti che possano essere ritenuti incostituzionali, e il loro essere nel luogo costituzionale per eccellenza, il Parlamento, e il confronto e la dialettica che ciò comporta, dovrebbero essere da tutti considerati con serietà nella ardua fase di transizione politica e istituzionale che stiamo vivendo.
Peraltro, una analisi seria del modo in cui si è arrivati alla mia candidatura, che poteva essere anche quella di Gustavo Zagrebelsky o di Gian Carlo Caselli o di Emma Bonino o di Romano Prodi, smentisce la tesi di una candidatura studiata a tavolino e usata strumentalmente da Grillo, se appena si ha nozione dell’iter che l’ha preceduta e del fatto che da mesi, e non soltanto in rete, vi erano appelli per una mia candidatura. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere come mai persone storicamente appartenenti all’area della sinistra italiana siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5Stelle. L’analisi politica dovrebbe essere sempre questa, lontana da malumori o anatemi.
Aggiungo che proprio questa vicenda ha smentito l’immagine di un Movimento tutto autoreferenziale, arroccato. Ha pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non ero il candidato del Movimento, ma una personalità (bontà loro) nella quale si riconoscevano per la sua vita e la sua storia, mostrando così di voler aprire un dialogo con una società più larga. La prova è nel fatto che, con sempre maggiore chiarezza, i responsabili parlamentari e lo stesso Grillo hanno esplicitamente detto che la mia elezione li avrebbe resi pienamente disponibili per un via libera a un governo. Questo fatto politico, nuovo rispetto alle posizioni di qualche settimana fa, è stato ignorato, perché disturbava la strategia rovinosa, per sé e per la democrazia italiana, scelta dal Pd. E ora, libero della mia ingombrante presenza, forse il Pd dovrebbe seriamente interrogarsi su che cosa sia successo in questi giorni nella società italiana, senza giustificare la sua distrazione con l’alibi del Movimento 5Stelle e con il fantasma della Rete.
Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull’intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica.
Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità.

Repubblica 22.4.13
Il Movimento 5 Stelle è fuori dall’Europa
di Eugenio Scalfari


Consigliando a Bersani per il tramite dell'amico Luigi Zanda di prendere contatto con Rodotà affinché ricordasse pubblicamente la sua biografia politica strettamente legata alla sinistra democratica; questo a mio avviso sarebbe stato sufficiente a far convergere i voti del partito su di lui. Evidentemente questo mio suggerimento non fu accolto. Per quanto riguarda la situazione attuale di quel partito, l'ho descritta come Rodotà e i nostri lettori hanno potuto leggerla: divisa in correnti che antepongono il loro interesse a quello del partito e soprattutto del Paese segando non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sostiene. Il Pd– ho ancora aggiunto – non deve essere soltanto riformato ma rifondato. Come è chiaro questo va molto ad di là del fatto di non aver votato per Rodotà.
2. Grillo negli ultimi giorni più convulsi ha detto che se il Pd avesse votato per Rodotà, lui avrebbe appoggiato un governo fatto da quel partito ma a distanza di qualche ora ha aggiunto mai per un partito guidato da Bersani. Voleva cioè scegliere lui anche il presidente del Consiglio?
3. Un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto applicare la politica delle Cinque stelle che ho riassunto brevemente nel mio articolo di domenica anche per chiedere a Rodotà se condivide quei punti; ma lui a quella mia domanda non ha dato alcuna risposta nella sua lettera. Che tipo di governo sarebbe dunque nato con l'appoggio di Grillo? Un governo col quale la speculazione avrebbe giocato a palla e l’Europa avrebbe severamente sanzionato.
4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano “convergenze parallele” e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011.
5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell'uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un’Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo – sempre che i risultati corrispondano alle aspettative – dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l'ha reso possibile ma, per l'esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla.
Ho già detto che mantengo stima e affetto per Rodotà ma penso che, prima che avvenisse l'ultima votazione a Montecitorio, avrebbe dovuto annunciare il suo ritiro come pure penso che i suoi elettori di Cinque stelle avrebbero dovuto almeno alzarsi in piedi invece di restare seduti sui loro scranni. Anche l'educazione fa parte della cultura che evidentemente non c'è.

il Fatto 22.4.13
Ribellioni. Circoli occupati dal Piemonte alla Sicilia

Continua la ribellione dei circoli Pd. A Torino la base si è autoconvocata ieri: oltre 250 persone in fila per parlare, 3 minuti a testa. A Palermo i giovani protestano “non contro Napolitano - ribadisce il segretario dei Giovani Pd Marco Guerriero - ma contro l’inciucio con il Pdl. Dlm

Corriere 22.4.13
Accuse, insulti, dietrofront. E scatta la «guerra totale»
di Pierluigi Battista


È il caos, la guerra di tutti contro tutto. Una battaglia di proclami, di dichiarazioni sempre più squillanti, bellicose, infuriate. Nel Pd che rischia di avvicinarsi con poderose falcate alla deflagrazione finale, si sgretola anche quel minimo di solidarietà di partito che ne assicurava la sopravvivenza. Sodalizi che si sbriciolano per una battuta. Ultima in ordine di tempo: Rosy Bindi che impallina preventivamente Enrico Letta in un'intervista concessa a Maria Latella per Sky. Il suo «vicesegretario» non può diventare presidente del Consiglio in un governo delle larghe intese, dice severa. Solo «governo di scopo». Senza Letta, il «vicesegretario» del Pd sull'orlo dell'autodissoluzione. Tutti contro tutti, appunto.
E tutto per il gusto della battuta, della twittata, del post da esibire su Facebook. Si frantuma ogni nesso che dovrebbe segnalare almeno la concordia sui principi fondamentali. Tutto appare in liquidazione, attraverso dichiarazioni sempre più fragorose. Matteo Renzi vuole dir la sua sui candidati al Quirinale? Ecco due battute devastanti su Anna Finocchiaro e Franco Marini. E ha fatto rapidamente scuola. Il giorno decisivo in cui il Pd, dopo aver subito due catastrofiche disfatte, cerca una possibilità dall'avvitamento nel suicidio optando per Giorgio Napolitano, Fabrizio Barca, autorevole neoiscritto al partito, fa un indiretto endorsement per Stefano Rodotà. Qualcuno va oltre ed esplicitamente fa a modo suo, come se il Pd nemmeno esistesse. E subito Laura Puppato dichiara di votare Rodotà anziché Napolitano. Il sindaco Michele Emiliano idem. E anche Corradino Mineo, appena arrivato tra i parlamentari del Pd, rilascia dichiarazioni di fuoco (e offensive nei confronti del segretario dimissionario: «Bersani è stato fottuto dal suo stalinismo») per la scelta di sostenere nuovamente Napolitano, la cui storia, a rigore, non dovrebbe essere molto lontana da quella del partito che sta giocando in questi giorni al proprio disfacimento. Anche Walter Tocci, in passato con ruoli di punta nelle giunte romane di centrosinistra, appena può manifesta il suo permanente dissenso dalle scelte dei vertici del partito. Non è finita. Anche Pippo Civati sembra poco convinto della scelta del secondo settennato per Napolitano, e anzi sente il morso della solitudine del partito che lo aveva chiamato a fare da «pontiere» con il Movimento 5 Stelle e accoglie con costernazione la scelta di ripiegare su chi ha già guidato il Quirinale per sette anni: «Mi hanno mandato da loro a trattare e poi mi hanno lasciato lì come il soldato Ryan».
La partita per la presidenza della Repubblica è formalmente finita, lasciando nell'opinione pubblica l'immagine di un partito non solo diviso, ma frantumato in mille fazioni che si fanno la guerra permanente. Con i franchi tiratori, ma anche con le dichiarazioni incendiarie. Con i veti della Bindi, che decide di abbandonare Enrico Letta, lo stesso Letta che considera «indelebile la vergogna dei franchi tiratori». Con le dichiarazioni di Matteo Orfini, che tiene a sottolineare come non sia affatto scontata la nascita di quel governo che pure sembrava indissolubilmente legato al progetto di confermare Napolitano al Quirinale. Con gli ex alleati che capiscono quanto nel Pd regni il caos e se ne approfittano. Come Nichi Vendola, che comunica di aver indetto un'«Assemblea del popolo» per contrastare il governo che con ogni probabilità dovrebbe essere messo in piedi con la regia di Giorgio Napolitano. E che denuncia, proprio lui che con Sel non aveva raggiunto il quorum necessario per essere eletto e che ha superato la soglia solo grazie all'alleanza con il Bersani in questi giorno abbandonato al suo destino, losche manovre per fermare la «svolta a sinistra» bocciata meno di due mesi fa alle elezioni.
La guerra di tutti contro tutti. Leggere le concise sentenze di esponenti del Pd che appaiono in tempo reale su Twitter dà l'impressione di un congresso permanente in cui la faida sostituisce la discussione e in cui si capisce che gli stessi voti dei parlamentari del Pd potrebbero prendere le direzioni più diverse, con un partito acefalo, senza guida, senza un minimo di disciplina interna e dunque molto, troppo inaffidabile. Verboso su Twitter, ma inconcludente in Parlamento, in attesa di altre disfatte.

Sergio Cofferati è collaboratore di LEFT
il Fatto 22.4.13
Sergio Cofferati
“Se c’è un governo col Pdl la rottura è fatta”
di Giampiero Calapà


Il delitto perfetto per Sergio Cofferati è imminente, l’assassino si chiama “inciucio” e il cadavere sarà quello del Pd. All’orizzonte, forse, un partito di sinistra, base programmatica quella della Fiom, che si allontani anche da Matteo Renzi, il cui comportamento è “da prima Repubblica, altro che Rottamatore”. Ridotte al lumicino le speranze sopravvivenza: “L’ultimo appuntamento per verificare le condizioni di compatibilità nel Partito democratico è il congresso. L’ultima occasione. Ma se arriva prima un governo delle larghe intese, tradendo il nostro elettorato, non sarà necessaria neppure quella verifica, sarebbe già tutto finito: nel momento in cui non saremo più alternativa alla destra il Pd non esisterebbe più”. Si sfoga così l’europarlamentare Cofferati, ex sindaco di Bologna, ma soprattutto segretario generale di quella Cgil che il 23 marzo 2002 portò al Circo Massimo, si disse, tre milioni di persone contro l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: “Non voglio rinunciare ad una verifica congressuale, ma un governo col Pdl cambierebbe tutto”.
E proprio dal lavoro può rinascere la sinistra, sconfitta e umiliata in questi giorni, perché il 30 aprile a Bologna c’è un convegno della Fiom a cui partecipano Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Fabrizio Barca, Nichi Vendola e... Sergio Cofferati. La possibile classe dirigente di un nuovo partito?
È un appuntamento organizzato in tempi non sospetti sul tema, di certo non prerogativa di Beppe Grillo, del reddito minimo garantito. Un tema della sinistra riformista che non ha soluzione solo in Italia, Grecia e Ungheria. Di sicuro tra le personalità che ha nominato esiste un terreno comune di confronto. E una classe dirigente è necessaria come necessari sono i partiti organizzati previsti e tutelati dalla Costituzione. Le organizzazioni leggere e liquide hanno dimostrato la loro inefficacia.
Anche perché a quel punto si finisce a votare Grillo e i suoi cinquestelle.
La rete e i nuovi linguaggi aiutano e semplificano ma non possono sostituirsi al rapporto diretto. Il voto al Movimento Cinque Stelle è in gran parte di sinistra e la sinistra ha il dovere di recuperare il consenso di coloro che l’hanno silenziosamente abbandonata.
Tornando al Pd, la situazione sembra dunque precipitare, da quanto accaduto nei tentativi falliti di elezione al Colle, Marini e Prodi, non si ritorna indietro...
La frattura è senza dubbio pesantissima. Covava da molto tempo. Rendiamoci conto: la direzione approva all’unanimità il mandato al segretario Bersani per cercare una convergenza con il Pdl. E il risultato è la proposta di Franco Marini, poi bocciata clamorosamente. Io ero contrario ma mi sarei attenuto a quanto deciso dalla maggioranza, ero d’accordo su Romano Prodi. Il suo nome è stato approvato per acclamazione dall’assemblea dei grandi elettori che poi l’ha impallinato. Inaccettabile.
Pippo Civati sostiene che nel Pd c’è un problema di odio nei confronti della sinistra.
Appunto, quello che spererei di poter verificare in un congresso. Il Pd deve essere di sinistra. Riformista, moderata, ma sinistra: collocato nel Pse. Nel gruppo all’Europarlamento dei “socialisti e democratici” gli unici che non aderiscono al Pse siamo noi e un esponente cipriota. Non possiamo rimanere sospesi. La nostra storia è la sinistra. Resta un fatto...
Quale?
(Cofferati sospira e prende tempo)
Dal mio partito, di cui sono fondatore, sono profondamente impressionato in senso negativo. Non sono mancate le sedi dove formalizzare le decisioni, hanno semplicemente prevalso rancori e faide interne al gruppo dirigente.
Forse ha ragione Matteo Renzi, è un gruppo dirigente che ha segnato il passo, che dovrebbe auto-rottamarsi in blocco?
Si tratta di stabilire i valori comuni, uscire dall’equivoco. Al rinnovamento non mi sottraggo, ma deve avvenire sulla base della condivisione di una cultura politica. E non è solo la cultura politica, il merito, che mi divide da Renzi ormai.
Cioé? Cos’altro?
Mettiamo da parte le profonde differenze su tematiche economiche, sul fatto che Pietro Ichino, dopo aver scritto il suo programma per le primarie è andato nel partito di Mario Monti. Lasciamo stare tutto questo. Renzi nelle votazioni per il capo dello Stato si è comportato da capo-corrente, un comportamento da prima Repubblica, altro che Rottamatore. Ha organizzato una corrente che non accetta la discussione e che non applica le decisioni della maggioranza. È un problema profondo di idea organizzativa, oltre che di merito, a dividerci.
Di Pier Luigi Bersani cosa si sente di dire?
Sono molto affezionato alla persona. Si è trovato nel momento più difficile a dover gestire un mandato in mancanza della lealtà del gruppo dirigente. Forse non se ne era accorto. Forse ha pagato e sta pagando questo errore, non essersi accorto che chi aveva attorno gli stava scavando la fossa. O forse se ne è anche accorto ma si è sentito in un vicolo cieco.
E il presidente della Repubblica è ancora Giorgio Napolitano.
È una personalità di alto profilo, ha dimostrato grande generosità accettando questo supplemento di fatica. Ma la sua rielezione conferma il fallimento prematuro di questa maggioranza parlamentare.
Che in caso di larghe intese indicherebbe la morte del Pd e della sinistra?
Non della sinistra. La sinistra esisterà al di là del Partito democratico. Il Pd su quella strada sarà ridotto a percentuali irrisorie alle prossime elezioni.
Il convegno della Fiom del 30 aprile può servire per stendere la base programmatica di un nuovo soggetto di sinistra?
È un’occasione importante. Con persone che dimostrano le stesse sensibilità politiche.

Repubblica 22.4.13
Fratture interne e larghe intese l’ultimo partito “impersonale” alla ricerca dell’identità perduta
Così l’elettore del Pd boccia l’alleanza con il Pdl
di Ilvo Diamanti


SARÀ difficile succedere a Giorgio Napolitano. L’avevo pre-detto una settimana fa. Anche se, francamente, non pre-vedevo che Napolitano sarebbe succeduto a se stesso.
TUTTAVIA, si tratta di una soluzione coerente con il singolare modello della nostra democrazia. Un Presidenzialismo preterintenzionale. Che si è affermato senza riforme. Per inerzia e necessità. Napolitano. Non avrebbe mai voluto essere rieletto – primo caso nella nostra storia repubblicana. Ma ha dovuto arrendersi a questo stato - o meglio, Stato - di emergenza. Perché è l’unica soluzione possibile di fronte all’impossibilità di trovare altre soluzioni. In un Parlamento che riflette e moltiplica la rappresentazione di un Paese dove si confrontano tre “grandi minoranze” politiche – e non comunicanti. Ritratto esemplare del tumultuoso declino della Seconda Repubblica. Dove, non a caso, Berlusconi ri-emerge, nonostante tutto e tutti. Perché la conosce e la controlla meglio degli altri. La Seconda Repubblica: ispirata al maggioritario e alla personalizzazione dei partiti – anzi, dai partiti personali. Oggi è senza ancore e senza timoni. Come una nave che non tiene la rotta, perché l’equipaggio è diviso in squadre che remano in direzioni diverse. Il PDL, nonostante abbia dimezzato la sua base elettorale, perdendo oltre 6 milioni di voti, rispetto alle elezioni del 2008, è riemerso dalla crisi. Perché il leader, Berlusconi, ha svolto con abilità un ruolo di “interdizione”. Ha, cioè, impedito agli altri di intraprendere percorsi sgraditi. Gli è bastato imporre se stesso come riferimento negoziale, al tempo stesso necessario e insostenibile per gli altri. Perché, per quanto indebolito, costituisce la principale linea di frattura che attraversa la Seconda Repubblica. Grillo e il M5S: hanno selezionato candidati molto vicini al Centrosinistra. In particolare Stefano Rodotà e lo stesso Romano Prodi. E in questo modo hanno creato serio imbarazzo al PD. Come avrebbe potuto convergere sui candidati “imposti” dal M5S, dopo la lunga e inutile ricerca di dialogo, tentata da Bersani, nelle settimane successive al voto? D’altronde, al M5S non interessa partecipare a una stabile maggioranza di governo. Semmai, impedirla. Accelerare la decomposizione della democrazia parlamentare e rappresentativa che, sempre più fragile e incerta, regola l’Italia.
Il PD, infine, si è sgranato. Per paradosso, la crisi del berlusconismo ha travolto l’opposizione alternativa prima ancora del protagonista. Un po’ come la DC e i partiti di governo, dopo la caduta del muro. Scomparsi in fretta, mentre il PCI si ri-definiva, e, per una parte, si ri-fondava. La crisi del PD, peraltro, appare particolarmente insidiosa, perché investe i principali modelli e soggetti genetici del partito. Insieme alla candidatura di Marini è stata bocciata l’idea del compromesso fra i gruppi dirigenti e le identità dei partiti di massa della Prima Repubblica: PCI e DC. L’Ulivo dei Partiti, postcomunisti e post-democristiani, perseguito, in particolare, da Massimo D’Alema, dopo il 1994, insieme a Marini. A cui si opponeva l’idea e il progetto del Partito dell’Ulivo.
Concepito e sostenuto da Romano Prodi, insieme ad Arturo Parisi. Soggetto politico largo e inclusivo. Ma nuovo. Che echeggiasse il modello americano, maggioritario e presidenzialista. “Organizzato” intorno alle Primarie. Un’alternativa mai risolta. Riprodotta, nel 2007, dal PD, sulla spinta di Walter Veltroni. In una settimana entrambi i modelli si sono dissolti. Sconfitti, insieme ai loro leader di riferimento. Mentre si è drammatizzato il contrasto tra vecchio e nuovo. Le Primarie, invece di riassorbire queste tensioni, le hanno alimentate. Accentuando il distacco tra base e vertice, fra gruppi dirigenti, militanti ed elettori. Tutte queste differenze sono divenute fratture nel percorso che ha condotto alla scelta e alla successiva bocciatura dei candidati. Anche per l’irruzione, nella comunicazione politica, della “rete” e dei social network. Che hanno moltiplicato ed enfatizzato il dissenso reale della “base”. Perché la democrazia “immediata” della Rete, per funzionare, va compresa e regolata. Non subìta.
La base del PD, peraltro, oggi appare lacerata di fronte alle ipotesi che ispirano non solo la scelta del Presidente, ma anche la conseguente, futura maggioranza di governo. In particolare: le “larghe intese”, tra PD, PdL e Monti. Fra gli elettori del PD, infatti, solo il 7% si sente (molto o abbastanza) vicino al PdL (Sondaggio LaPolis-Università di Urbino). Meno di uno su dieci. Mentre il peso di coloro che si sentono vicini a Scelta Civica sale al 22%. Ma, soprattutto, nel PD appare molto elevata la prossimità al M5S (29%) e a SEL (33%). In altri termini, gli elettori del PD guardano a Sinistra e, in misura minore, al Centro. Mostrano grande attenzione per il M5S. Mentre appaiono lontani – per non dire opposti - (più del 90%) rispetto alla Destra. Anzi: a Berlusconi. Un sentimento ricambiato, simmetricamente, dagli elettori del PdL. Lontanissimi dal PD e dalla Sinistra. Cioè: dai “comunisti”.
Per questo diventa difficile imporre “larghe intese”. Soprattutto nel PD. Perché è “radicalmente” diviso. E perché nella “democrazia del pubblico” occorrono leader forti, capaci di comunicare. Con partiti al loro servizio – se non alle loro dipendenze. Ma il PD è l’unico partito “impersonale”. Privo di una leadership carismatica. Il leader più popolare, Renzi, è stato sin qui osteggiato dal gruppo dirigente. E se riuscisse effettivamente a imporsi, non è detto che manterrebbe lo stesso livello di consensi. Perché il ruolo di outsider gli ha permesso di attrarre componenti esterne al partito. Soprattutto nell’area moderata. Mentre all’interno si sono aperte nuove sfide, come quella lanciata da Fabrizio Barca. Che guarda a sinistra. Come molti elettori del PD. Attuali, delusi e potenziali.
Così, la rielezione di Napolitano alla Presidenza alla Repubblica ha offerto al PD un rimedio alla debolezza della propria leadership. Perché il Presidente, presso gli elettori del PD, è il leader maggiormente riconosciuto (con un indice di popolarità oltre l’85%). Tuttavia, Napolitano è il Presidente della Repubblica, non del PD. Non potrà rimediare al deficit di leadership e di identità del partito. D’altronde, intese, per quanto larghe, intorno a governi “presidenziali”, difficilmente potranno compensare il deficit di politica che asfissia il Paese. Neppure in un presidenzialismo preterintenzionale come il nostro.

Repubblica 22.4.13
Nel Pd tutti attendono la scissione “Sul governo la prova del fuoco chi ci sta resta, gli altri usciranno”
Renzi e D’Alema lo sosterranno, sinistra verso lo strappo
di Goffredo De Marchis


ROMA — «La scissione è scontata. Inevitabile». Lo dicono tutti nel Partito democratico: Letta, Bindi, Franceschini, Veltroni, Fioroni, Marini, Orfini, Gentiloni, Civati, Renzi. Nemmeno un franco tiratore stavolta. Il Pd non esiste più. Nasceranno nuovi soggetti, si romperanno sodalizi e alleanze che non hanno mai funzionato. Correnti e parlamentari ora sono liberi di fare scelte autonome. Bersani, da Piacenza, si limita ad osservare. Ieri lo hanno chiamato per chiedergli di restare al suo posto. Almeno qualche giorno, il tempo di decidere il futuro della legislatura. «Per favore, abbiamo chiesto un sacrificio anche a Napolitano ». Ha risposto «ci penso una notte» con sottile perfidia. Stamattina infatti confermerà le dimissioni e il passo indietro. Il “segretario” del Pd diventa, temporaneamente, il presidente della Repubblica. Quando oggi pronuncerà il discorso d’insediamento e disegnerà il profilo di governo, determinerà, in maniera indiretta è ovvio, il crollo definitivo della “ditta”. La fuoriuscita di alcuni, la resistenza di altri, gli equilibri dei prossimi mesi.
Ma quale congresso. Ma quale reggenza, gestione collegiale e altre liturgie. Il Pd consumerà il primo tempo della sua fine oggi pomeriggio ascoltando il capo dello Stato a Montecitorio. E il secondo tempo al momento della fiducia al nuovo esecutivo. «Chi ci sta rimane dentro al Pd. Chi non ci sta, esce», è la constatazione lapidaria che Enrico Letta ha affidato ai suoi interlocutori nelle ultime ore. «Il nodo politico, un signor
nodo, resta quello del “governo o elezioni”», spiega Dario Franceschini ai suoi fedelissimi. «Lo è fin dall’inizio, dal 25 febbraio. Adesso diventerà una questione di vita o di morte per il Pd».
Si sfascerà tutto, si consumeranno vendette e si cercheranno strade diverse. Per dirne una, i renziani propongono di far saltare il banco a Roma, dove si vota il 26 maggio cancellando il risultato delle primarie. Rilanciano la candidatura di Paolo Gentiloni. «Marino è troppo schiacciato su Vendola e noi con Sel non dobbiamo prendere nemmeno un caffè. I giochi vanno riaperti», dice il deputato Michele Anzaldi. Una scissione nella scissione. Una rottura chiara, netta.
Al momento, le macroaree (o micro?) in cui si dividerà il Partito democratico sono due. Quella più simile all’attuale girerà intorno al centro gravitazionale di Matteo Renzi. Ci starà anche Massimo D’Alema, che sostiene il sindaco mantenendo il suo profilo e la sua leadership. I Giovani turchi di Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando oggi dicono no a un governo di larghe intese e sembrano sul piede di guerra. Ma si piegheranno al diktat del capo dello Stato. Orfini da tempo ha aperto un canale con Palazzo Vecchio attraverso l’ex vicesindaco Dario Nardella. Orlando, dopo lo schiaffo nella vicenda del capigruppo alla Camera, è rientrato nell’alveo dei dalemiani. Fassina, il più bersaniano, non romperà il sodalizio. «Loro voteranno la fiducia a qualsiasi tipo di esecutivo », dice un dirigente vicino a Letta. Orfini non ha dato retta a Bersani, non ha spento Facebook.
«Ho passato la domenica a rispondere agli insulti dei miei elettori per la scelta di Napolitano. Ho scritto un post e i toni si sono calmati, si è potuto discutere». Presto tornerà a dialogare sul social, quando si voterà la fiducia alle larghe intese o all’esecutivo del presidente.
L’altra area è quella della Nuova sinistra. Laura Puppato e Pippo Civati sono considerati in uscita verso questo soggetto. Assieme a loro Sergio Cofferati e Ignazio Marino. Fabrizio Barca sembra al centro di questa partita. Toccherà a lui dire da che parte vuole schierarsi, se in una battaglia interna al Pd o nell’apertura di un cantiere della sinistra più tradizionale.
Ma questa scissione di fatto potrebbe fare “vittime” anche in un territorio di mezzo. Come Rosy Bindi che si mette di traverso all’ipotesi di Enrico Letta premier delle larghe intese e sembra dire di no a tutte le soluzioni di governo col Pdl. Il limbo non aiuta la collocazione dell’ex presidente del Pd nel momento in cui i pezzi del partito cercano velocemente sponde.
Il voto di fiducia dunque farà chiarezza nel corpo sovradimensionato dei gruppi parlamentari. Intanto domani primo round in direzione. Gli ex popolari chiedono una reggenza di Enrico Letta fino al congresso, affiancato da un comitato di gestione che rappresenti le anime interne. Ma il renziano Gentiloni fa capire che questa strada non è percorribile. «Ci vuole un caminetto unitario, con pari peso per le correnti. Renzi ovviamente ne starà fuori, parteciperà indirettamente». Una cosa è certa: questo comitato accompagnerà e sosterrà il governo di Napolitano passo passo. Perché le elezioni sono impossibili, non le può volere neanche Renzi dopo la settimana del disastro. «Prendiamo il 3 per cento e il centrosinistra italiano scompare per sempre», dice Antonello Giacomelli. Una scommessa facile facile.

Repubblica 22.4.13
Macaluso, ex direttore, commenta la scelta del quotidiano “fondato da Gramsci” di dedicare molti interventi alla crisi del partito
“L’Unità apre il dibattito? Sì, ma poi lo chiuda”
di Silvio Buzzanca


ROMA — Emanuele Macaluso, lei è stato dirigente del Pci. Ha partecipato al dibattito aperto dal giornale del Pd sul tracollo.
Cosa ne pensa?
«Capisco che il direttore attuale dell’Unità di fronte al disastro che ha sconvolto il partito abbia voluto aprire un dibattito molto franco. E capisco anche l’intento sia di mettere a nudo quali sono i problemi e i nodi che affliggono il partito. Ma credo che affinché abbia un senso politico ci vuole anche qualcuno che alla fine raccolga i risultati, faccia una sintesi politica di quello che emerge. E su questo, come del resto ho scritto nel mio intervento ho molti dubbi perché il Pd non è mai stato un partito. Un partito si chiama così perché raccoglie un parte che ha una certa visione della società. Questa visione nel Pd chi l’ha vista?».
Lei è stato direttore del’Unità. Avrebbe aperto un dibattito a più voci molto critiche?
«Io ho diretto il giornale ai tempi di Berlinguer e allora il giornale come il partito aveva gruppi dirigenti che perseguivano una politica. Oggi non si discute di nulla, non ci sono luoghi interni di confronto. Si riunisce la direzione, ascolta il segretario e ad un certo punto si chiude perché si deve andare sui tg. Allora esistevano luoghi, come Rinascita, dove ci si confrontava in maniera aspra. Il dibattito sulla sconfitta l’avrei comunque aperto indicando quali erano le questioni da affrontare e cercando le soluzioni da dare».
Ma a quei tempi c’era il centralismo democratico...
«Vero, ma oggi decidano cosa vogliono. Se vogliono le correnti lo dicano in maniera chiara. Già Occhetto aveva aperto alle correnti. Oggi decidano di farlo con delle regole. Soprattutto sui finanziamenti».

Corriere 22.4.13
Ministro e sindaco, futuri leader (non) crescono
L'ultimo dei duelli della sinistra troppo plurale è tra profondità e tempestività
di Antonio Polito


Tra 20 anni racconteremo forse ai nostri nipoti quei giorni della primavera del 2013 in cui nacque il duello infinito tra Matteo Renzi e Fabrizio Barca, così come abbiamo raccontato ai nostri figli i giorni del 1994 in cui cominciò la rivalità tra D'Alema e Veltroni, o quelli del 1999 in cui Prodi e Marini se la giurarono, o quelli del 1992 in cui Stefano Rodotà perse la sua prima sfida con Giorgio Napolitano, allora per la presidenza della Camera, e se la legò al dito. In fin dei conti la storia della sinistra italiana sembra un sequel di Highlander, e la cosa più straordinaria di quest'ultima rissa per il Quirinale è la coazione a ripeterla dei nuovi leader emergenti, come se un maleficio impedisse loro di emanciparsene.
Un capolavoro in questo senso è certamente stato il tweet di Fabrizio Barca con cui, un attimo dopo che il Pd si era finalmente ritrovato intorno al nome di Napolitano, ha tentato di riaccendere la lite interna domandandosi perché mai non gli fossero stati preferiti i candidati dei grillini (Rodotà e Bonino). Avendo Barca preso la tessera del partito una settimana prima con l'ambizione di guidarlo tra qualche settimana, di lui un giorno si potrà forse dire il contrario di ciò che si disse di Enrico Berlinguer: se questi si era iscritto giovanissimo alla direzione del Partito comunista, Barca dà infatti l'impressione di essersi iscritto in età matura alla scissione del Partito democratico. E sì, perché la mossa del ministro alla Coesione ha diviso al punto da sconcertare perfino la corrente «turca» che cercava in lui l'anti Renzi, e che si è invece ritrovato con un Vendola minore, già avviato verso nuovi «cantieri» di una nuova sinistra, pronta a fare la sesta stella della bandiera di Grillo. A conferma di un certo spaesamento, ieri il ministro Barca ha provato a giustificare sull'Unità il suo tweet chiedendosi perché non è stato scelto un rappresentante delle «tre grandi culture di cui è fatto il Pd», la Bonino per quella liberale, Rodotà per quella socialista e Prodi per quella cristiano-sociale, praticamente dimenticando quella ex comunista, sia nella versione amendoliana da cui discende Napolitano sia nella versione ingraiana che pure gli dovrebbe essere cara. La sua idea di «gauche» (Barca è un ex elettore di Bertinotti) sembra insomma così «plurielle» da produrre ben presto un'altra scissione.
Molto interessante, dal punto di vista del futuro del Pd, è stata anche la reazione di Matteo Renzi al tweet di Barca (nelle stesse ore in cui Bersani intimava ai suoi parlamentari di buttare i telefonini prima di suicidare il Pd con un tweet). Il sindaco fiorentino ha infatti bollato l'uscita del suo rivale come «intempestiva», aggettivo che la dice lunga sulla sua concezione della lotta politica. Per Renzi infatti, a differenza di Barca che predilige lo sguardo lunghissimo e la «mobilitazione cognitiva», la tempestività è tutto. Il tentativo di Barca di spingere il partito di Napolitano a non votare Napolitano non viene criticato perché sbagliato, o scorretto, o insensato, ma perché non è stato fatto al momento giusto. Renzi tiene molto alla tempestività. È stato infatti tempestivo nell'affossare per primo la candidatura di Marini, dando il segnale del «via i guantoni» che ha aperto il wrestling democratico sul Quirinale; ed è stato tempestivo sia nel lanciare per primo la candidatura di Prodi sia nell'abbandonarla un attimo dopo l'atto di cannibalismo con cui è stata divorata.
La profondità abissale di Barca e la tempestività digitale di Renzi fanno insomma ritenere che, se sommate, potranno perpetuare da par loro la lunga tradizione di sterili duelli a sinistra. Piccoli leader crescono.

La Stampa 22.4.13
Vendola prova a tentare il Pd che guarda a sinistra
Il leader Sel: occasione per un nuovo cantiere di governo
Il ministro Barca viene già visto come un possibile competitor di Renzi
Ma Civati: nessuna fuga, il tema al centro del congresso
di Francesca Schianchi


A favore di Rodotà Il leader di Sel Nichi Vendola: l’alleanza con il Pd di Bersani si è sbriciolata alla prima prova, quella sul voto per il presidente della Repubblica

«Con l’elezione del presidente della Repubblica sono emersi due modi diversi di interpretare la sinistra». Pippo Civati, parlamentare, tra i giovani del Pd, sabato alla votazione che ha eletto Napolitano ha optato per la scheda bianca. Tentato a lungo dal nome di Rodotà. Lo diceva già una settimana fa: «Se il Movimento 5 stelle ci propone il nome di Rodotà, il Pd deve fare una riflessione». Non l’ha fatta, e dopo i tre giorni più traumatici della storia del Partito democratico, con una segreteria dimissionaria e tensioni fuori controllo, il nome dell’ex presidente del Pds è diventato uno spartiacque tra, per dirla con il deputato monzese, «due modi diversi di intendere la sinistra».
Da una parte chi voleva Rodotà - come Sel, che lo sempre votato tranne nella votazione di Prodi, ma anche il ministro Fabrizio Barca, neoiscritto al Pd e già indicato come possibile competitor di Renzi, così come un uomo della sinistra legata al lavoro come l’ex leader Cgil Sergio Cofferati, che ha fatto una nota di sostegno insieme al segretario della Fiom Maurizio Landini, come una parte dei giovani deputati, l’ala più gauche del gruppo parlamentare -, dall’altra, chi invece non lo avrebbe mai fatto passare, considerandolo troppo laico o troppo di sinistra, «se si fosse andati al voto su Rodotà, i voti non ci sarebbero stati», spiega chiaramente uno dei giovani più in vista del Pd, Matteo Orfini.
Ora, dopo l’esplosione del Partito democratico, tocca capire come potrà di nuovo coagularsi la sinistra. Velocissimo a porsi il problema Nichi Vendola, già pronto a lanciare «un nuovo percorso, un nuovo cantiere» per «ricostruire dalle fondamenta una nuova sinistra di governo». Ieri, da Twitter, l’appello: «C’è stato un travaglio, è stato un grande dolore. Ma c’è anche una nuova occasione per mettere insieme le forze dei beni comuni, del riformismo sociale: occorre riaprire la fabbrica di una nuova sinistra di governo». E opporsi a «forze assai potenti che impediscono al Paese una svolta a sinistra. Si vuole impedire il cambiamento. Questa classe dirigente volta le spalle al popolo del cambiamento. Si blinda nel Palazzo».
Ma chi potrà raccogliere la proposta, chi sarà interessato a partecipare, sabato 11 maggio a Roma, alla nascita di questo nuovo cantiere? «C’è un turbinio di persone del Pd che scrivono, chiamano, si informano. Ma lasciamo prima decantare questa situazione, sono ancora traumatizzati da quello che è successo», si danno tempo di capire dalle parti di Vendola, «certo non sarà una riunione di vecchi pensionati della rivoluzione».
Pezzi di Pd sono pronti a muoversi? O sarà Barca a catalizzare la loro attenzione? «Non si deve fare un partito a sinistra del Pd, bisogna occupare diversamente lo spazio che il Pd ha occupato (male) negli ultimi tempi», suggerisce dal suo blog ancora Civati. «Non dobbiamo spostarci noi verso Vendola – aggiunge – ma portare la questione dentro il dibattito congressuale del Pd».

La Stampa 22.4.13
“Siamo pronti a offrire un terreno di riunificazione”
Il segretario della Fiom Landini “Al Paese serve un cambiamento”
«Il 18 maggio in piazza per dire che cosa è urgente fare»
di F. Sch.


«Ho grande rispetto per il presidente della Repubblica Napolitano, per il profilo che ha dimostrato in questi anni, ma noto allo stesso tempo che aver scelto lui indica una crisi esplicita della politica». Il segretario generale della Fiom Maurizio Landini usa toni pacati ma parole nette nel commentare quanto accaduto negli ultimi giorni: «Mi pare un fatto negativo e preoccupante che il Parlamento non abbia saputo fino in fondo svolgere la propria funzione».
Sabato lei e Cofferati avete fatto una nota per dire che quella di Rodotà, sul cui nome s’è consumata una spaccatura nel centrosinistra, era una candidatura di alto profilo. Come voi la pensa il ministro Barca…
«Io penso che l’elezione del presidente della Repubblica debba avvenire non sulla base di accordi politici legati a cosa farà dopo il capo dello Stato eletto, ma sul profilo del candidato. E ritengo che Rodotà abbia tutte le caratteristiche per rispondere alla richiesta di cambiamento del Paese, garantendo che venga seguita la Costituzione, che vengano assicurati diritti, lavoro, democrazia estesa. Ho espresso la mia opinione: che abbia coinciso con altre dichiarazioniè un fatto casuale, non concordato».
Il 30 aprile sia Barca che Rodotà saranno ospiti di un convegno organizzato dalla Fiom…
«Si tratta di una iniziativa in gestazione da un mese, quando non era prevedibile ciò che sarebbe avvenuto. Abbiamo coinvolto Barca e Rodotà, ma anche tanti altri, inclusi giovani, studenti, precari, per parlare di lavoro e welfare. Perché riteniamo che le politiche del governo Berlusconi prima e Monti poi siano all’origine della ingiustizia sociale in cui siamo. Non è detto che chi partecipa sia completamente d’accordo con le idee della Fiom, ma vorremmo che questa iniziativa offrisse un terreno di riunificazione a quelli che vogliono cambiare la situazione».
Il centrosinistra si è frantumato, il Pd è esploso, Vendola apre un nuovo cantiere: che ne pensa?
«Non so se di fronte alla crisi dei partiti ci sia da fare un nuovo partito, ma da sindacalista quello che mi interessa è che le forze politiche tornino a occuparsi di lavoro. Un anno e mezzo fa la Fiom ebbe incontri con tutti i partiti di allora, per chiedere di costruire un progetto che mettesse al centro il lavoro: se qualcuno lo fa ben venga. Poi ci sarà da capire quale sostegno intendono dare al governo».
Un governo di larghe intese: come lo giudica?
«Se la prospettiva è quella di un esecutivo come quello di Monti, non è quello di cui il Paese ha bisogno. Noi chiediamo un cambiamento: per questo abbiamo indetto la manifestazione del 18 maggio, non contro qualcuno, ma per dire cosa è urgente fare. Bloccare i licenziamenti, incentivare il ricorso ai contratti di solidarietà e la riduzione degli orari, rilanciare una politica di investimenti, una legge sulla rappresentanza…».

La Stampa 22.4.13
Il futuro di Vendola e Barca
di Riccardo Barenghi


E’ durata poco la piccola grande alleanza messa in piedi da Bersani e Vendola. Il tempo di non vincere le elezioni e di spaccarsi verticalmente sull’elezione del presidente della Repubblica. E soprattutto sul governo che verrà. Sarà difficile a questo punto ricomporre quel «bene comune» che tanto aveva fatto sperare gli elettori del centrosinistra. Il bene non si sa più dove sia, e se per caso ci fosse ancora non sarebbe più comune.
In comune, semmai, potrebbe esserci qualcos’altro, ma non più tra Bersani e Vendola bensì tra lo stesso Vendola e Fabrizio Barca. Il ministro del governo Monti, che qualche settimana fa si è iscritto al Pd pubblicando un impegnativo documento su quel che dovrebbe essere il nuovo partito della sinistra (attenzione: sinistra e non centrosinistra), l’altro ieri è uscito allo scoperto giudicando «incomprensibile» la scelta del «suo» partito di non votare per Rodotà. Una posizione che ha incontrato il consenso di moltissimi militanti ed elettori dello stesso Partito democratico, che nei giorni scorsi hanno fatto sentire la loro voce contraria alle scelte dei loro dirigenti, considerate vecchie, poco coraggiose e soprattutto foriere di un governo di larghe intese con il centrodestra del tanto odiato Berlusconi (ipotesi che tra qualche giorno diventerà realtà). Ma che più avanti potrebbe sfociare in qualcosa di molto più impegnativo di una semplice manifestazione di dissenso su una singola scelta.
Il Pd, si è detto e scritto in questi giorni, non è più un partito, forse sono due, forse di più, certamente non ha un gruppo dirigente degno di questo nome. E adesso non ha neanche più un leader. Si andrà a un congresso ma forse neanche il congresso riuscirà a rimettere insieme i cocci. E’ evidente che al suo interno convivono ancora due grandi filoni politico-culturali. Uno è quello dei cosiddetti moderati, cattolici o meno cattolici, che guarda a Matteo Renzi come il suo futuro leader. L’altro, che proviene dalla storia del Pci ma non solo del Pci, potrebbe riconoscersi nel pensiero di Barca. Vendola, che dirige un’ altra formazione politica, ripete da anni che i partiti sono «semi» che servono a far nascere nuove piante, magari alberi. E l’albero a cui pensa il governatore della Puglia è un «nuovo soggetto politico della sinistra italiana». Praticamente la stessa idea di Barca. Un’idea che avrà la sua prima prova concreta nell’assemblea dell’undici maggio convocata dallo stesso Vendola a Roma.
Dunque sarà a questi due personaggi che si rivolgeranno i tanti (o pochi, si vedrà), dentro e fuori il Pd, che considerano finita con Bersani quell’esperienza nata con Veltroni. Era una scommessa suggestiva e ambiziosa, un progetto che voleva tenere insieme culture diverse, storie diversissime ma che avevano in comune la stessa idea della democrazia e della società, ovviamente contrapposta a quella di Berlusconi. Ma il progetto è naufragato contro lo scoglio di una realtà fatta di divisioni, egoismi, correnti e correntine, attenzione spasmodica al proprio «particulare» e anche strategie politiche alla fine inconciliabili. Oltre quattro anni fa Massimo D’Alema parlò del suo partito come di un amalgama mal riuscito. Era stato ottimista: più che mal riuscito non c’era proprio l’amalgama.
La sfida quasi impossibile per il futuro è dunque riuscire a amalgamare ciò che finora non si è lasciato impastare, magari affidandosi alla magica ricetta di un giovane cuoco come Matteo Renzi. Oppure prendere atto che quella storia è finita, come si fa quando una coppia non riesce più a stare insieme e magari continua a convivere per paura che i figli soffrano. Ma i figli del Pd stanno soffrendo da anni, adesso poi hanno superato la soglia della sopportazione. E forse, chissà, se Renzi da una parte e Barca e Vendola dall’altra dessero vita ai due partiti che sognano, i figli sarebbero più contenti. Quantomeno non dovrebbero assistere ai furibondi litigi dei genitori che mandano la loro casa in frantumi.

l’Unità 22.4.13
Fassina: si è aperta una questione morale
«C’è una enorme questione morale»
«In questa vicenda è mancato il fondamento dello stare assieme.
Va ristabilito il primato dell’interesse generale su quello particolare»
intervista di Marco Bucciantini


Una premessa: sabato sera Stefano Fassina è stato offeso e aggredito da un centinaio di contestatori all’uscita da Montecitorio. Per poter rincasare ha dovuto aspettare la polizia. «Questo è il clima. Grillo grida al colpo di Stato, e le parole corrono, senza trovare reazioni indignate. Implicitamente, accusa chi come me ha votato per Napolitano. E in piazza, poi, ci trattano da golpisti. È un gioco rischioso. Mi piacerebbe che i capigruppo del Movimento 5 Stelle marcassero le distanze dal linguaggio del loro capo». È un’urgenza, anche questa. Ma l’intervista ne ha altre da chiarire.
Il giorno dopo cosa resta del Pd, nel Pd?
«Un’enorme questione morale. Non intesa penalmente ma come condizione pre-politica, come fondamento dello stare insieme in un partito. Che vieta di anteporre le ambizioni personali agli interessi del Paese (nemmeno a quelli della ditta). Questo è successo: gli errori politici si possono correggere, rimediare. Ma un segno morale così deludente è più complicato da recuperare». Eppure il piano inclinato del Pd comincia da una scelta politica: quella di Marini. Dal metodo, dall’apparire una scelta di Berlusconi.
«Non mi convince l’insistenza su questa interpretazione. I gruppi parlamentari avevano concesso mandato pieno a Bersani di scegliere il nome per coinvolgere il Pdl nella scelta del Capo dello Stato. Marini grande personalità del centrosinistra rispondeva all’obiettivo di questo mandato. Ma sono emerse ambizioni personali, anche sfrenate, come quelle di Matteo Renzi: la sua posizione verso Marini non aveva spiegazioni politiche, ma rispondeva solo a un disegno personale, che ha aggravato la situazione del partito intero e del Paese». Renzi può essere un alibi per molti. I franchi tiratori su Prodi sono stati più di cento. «Ecco la questione morale. Il nome di Prodi era giusto: Marini non era passato perché si era messa in discussione una linea politica. S’imponeva un cambiamento, c’era la richiesta di non coinvolgere più Berlusconi. Bersani ne ha tenuto conto, e ho visto con i miei occhi l’unanimità delle mani alzate a favore di Prodi. Poi ho contato 101 franchi tiratori. E allora parlo di questione morale». Fra i Grandi elettori molti si sono preoccupati del coro dei social network, degli strumenti di consenso “grillino”.
«È l’altro aspetto d’inadeguatezza del partito: la debolezza e la subalternità del gruppo dirigente sul piano dell’autonomia politica. La classe dirigente un parlamentare è classe dirigente si connota in quanto “dirige”, altrimenti è una classe che va a rimorchio, che segue, una “classe seguente”...».
C’è da fare un governo e rifare un partito.
«Saranno giorni di forte tensione».
Cominciamo dal governo.
«La bussola è il cambiamento. La discontinuità verso l’agenda Monti è il nostro punto, non è venuto meno».
La sfida più difficile è far capire al popolo del centrosinistra che si può fare un governo di cambiamento con Belrusconi...
«Il governo può nascere solo da un patto fra Pd e Pdl. Dobbiamo essere precisi, forti, fissare punti programmatici non negoziabili: risolvere la situazione degli esodati, finanziare la cassa integrazione in deroga, fermare l’aumento dell’Iva, rivedere l’Imu a vantaggio delle classi sociali più in difficoltà. E avviare una politica industriale per il Paese».
Con i politici? Con i tecnici?
«Il punto principale non è il tasso di tecnicità o politicità del governo, ma il programma. Il partito democratico ha pagato un prezzo alto al governo Monti, eppure ne era fuori. Abbiamo scontato perfino gli errori della Fornero, e non condividevamo niente del suo operato... Se ci sarà, il patto con il Pdl sarà sui contenuti, che saranno discriminanti per la nascita o meno del prossimo governo».
Veniamo al Pd. Le chiedo un pronostico: ci sarà ancora fra un anno?
«Dipende, non è scontato. Abbiamo problemi profondi e grandi possibilità».
Renzi, giovani turchi: il ricambio scalpita, ma la recente prova non è stata entusiasmante...
«Non dobbiamo semplicemente aggiornare un gruppo dirigente. Dobbiamo ristabilire il primato dell’interesse generale su quello particolare. E affrontare il nodo della cultura politica, e ragionare sulla forma partito, e sulla relazione fra “infrastruttura fisica” e altre forme di partecipazione».
Se Vendola s’intesta un nuovo soggetto politico di sinistra, non vi sottrae campo?
«Siamo noi i colpevoli dei nostri problemi. Se torniamo in carreggiata possiamo costruire quel soggetto progressista ancorato al mondo del lavoro. Così da rendere residuali altre forze politiche sullo stesso terreno. Ci aspetta una stagione piena, se riusciamo a segnarla con le nostre proposte e le nostre risposte, il Pd fra un anno sarà più forte. Ma dobbiamo concentrarsi sull’interesse nazionale e vorrei che Bersani restasse nella squadra: la sua capacità di guardare all’interesse dei cittadini, e l’ancoraggio delle sue idee alle condizioni materiali del Paese tracciano la rotta del Pd».

il Fatto 22.4.13
Sandro Gozi
101 killer pronti a tutto
di Carlo Tecce


Sandro Gozi ha memoria lunga. Non ha mai dimenticato le lezioni di Romano Prodi, professore del teorema Ulivo e non dimentica le pugnalate: “Il mio partito ha killerato il fondatore. Non un traditore, ma almeno 101. Anch’io sarò attento a chi mi siede accanto, non mi sospendo, però, come Sandra Zampa, perché il Pd va rifatto da zero e voglio partecipare a questa fase di svolta totale. A cominciare dalla brutta pagina dell'elezione del presidente della Repubblica”.
Gozi non ha votato Giorgio Napolitano, non nutre antipatia per il capo dello Stato, ma non riesce a comprendere il suicidio di massa fra i suoi colleghi democratici. Poi corregge la diagnosi: “Il Pd è in coma profondo, bisogna capire se reversibile o no. Certo, non si può ripartire con questi dirigenti e con questo compromesso mal riuscito tra ex comunisti ed ex demo-cristiani. I gruppi di marinani, veltroniani e dalemiano rappresentano il passato e non possono esistere più”.
IL BIVIO È SPIETATO: scissione o rifondazione? “Non serve separare, già siamo separati abbastanza. Il partito va svecchiato e va recuperato il vero concetto di Pd, che non ha nulla a che fare con la spartizione di potere e con chi si trincera nel palazzo”. Fuori, al palazzo, c'è agitazione. “Io sono molto, davvero molto preoccupato. Perché siamo troppo distanti dal paese, se non andiamo fuori e riscopriamo il dialogo, rischiamo di trovarci uno scenario molto violento. Le parole di Grillo, fra qualche mese, potrebbero sembrarci carezze”.
Gozi, s'intuisce il suo desiderio di rottura, ma qui – nonostante la segreteria dimissionaria al completo – i soliti Enrico Letta e Pier Luigi Bersani dovranno affrontare le consultazioni per formare un governo di larghe intese: “C'è poco da consultare: è già tutto deciso, e lo impone la rielezione di Napolitano. Dopo il disastro e dopo l’indegna vicenda di Prodi, il Pd virtuale – quello che crede di avere i numeri in Parlamento e la guida ancora possibile - non ha nessuna opzione a un governo con i berlusconiani e i montiani. Spero che questo governo faccia il massimo di riforme – quelle scritte dai saggi - nel minor tempo possibile”.
A chi giova? “Sarà un governo del presidente, si farà il minimo indispensabile prima di ridare la parola ai cittadini.
Non c'è l'esigenza né l'urgenza di fare un dibattito, ci sono temi affrontati invano per vent'anni. Sarà un esecutivo grande, in senso numero e piccolo, in senso politico”.
NEL FRATTEMPO, voi dissidenti, anime smarrite, cosa farete? “Ricostruiamo. Cercheremo di legare la nostra politica al nostro paese. Bersani e gli altri sono a fine corsa, però si avvicina il momento di congressi e primarie”.
Ci sono Fabrizio Barca e Matteo Renzi che scalpitano: “Non ho scelto, non ho preferenze, vedremo. Anche se il sindaco ha capito che se vuole fare il premier deve conquistare il consenso interno. Il futuro dipende dalla visione e dalla prospettiva del nuovo partito, sennò si rischia di commettere sempre gli stessi errori, che chiamerei anche orrori”.

Corriere 22.4.13
Alessandra Moretti
«Il perché della mia scheda bianca nel giorno del voto su Marini»
Lettera della parlamentare Pd:
«Non mi sono mai nascosta. Ci voleva un nome più condiviso nel partito e nella coalizione»

qui

Repubblica 22.4.13
La deputata bersaniana che non ha votato Marini: “Ho scritto a Pierluigi e non è vero che non mi saluta”
Moretti: “Io traditrice? È peggio Vendola”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Da tre giorni e tre notti Alessandra Moretti porta addosso un fardello pesante. L’accusano di aver tradito la fiducia di Bersani. «Dicono che sono la traditrice. Ma Vendola e Tabacci, di quelli cosa diciamo? E di quelli che si sono spellati le mani per Prodi e poi hanno tradito? Io Bersani continuerò a guardarlo negli occhi e lui lo sguardo non lo sposterà. Ha già capito la persona che sono».
Dicono: ha voltato le spalle su Franco Marini, proprio lei!
«Il concetto di fedeltà è diverso da quello di lealtà, che significa dire ciò che si pensa e fare ciò che si dice. E la fedeltà si ferma davanti ai principi. Se poi mi dite che per fare politica bisogna essere traditori e vigliacchi, bòn, per me non si fa politica così».
Bersani non ha neanche risposto al suo saluto, in aula.
«Non è vero, mi ha salutato. Io gli ho detto che forse è il caso che ci parliamo. Io posso guardarlo negli occhi, a differenza di chi l’abbraccia e l’ha pugnalato alle spalle.
Quando uno ci mette il cuore e la faccia non deve vergognarsi di niente. Bersani lo sa».
Però non lo dice...
«Ma lo sa. Anche perché gli ho mandato messaggi, gli ho scritto».
Quindi si aspetta da lui un gesto di riconciliazione?
«Ma no, ci vuole un po’ di tempo. Per valutare e analizzare. Continueremo a guardarci negli occhi».
Bindi ha detto: Moretti? Va formata una classe dirigente.
«Bindi scarica su di me responsabilità che sono collettive, questo è lapalissiano».
E ora? E’ finita l’era Bersani?
«Assolutamente no! Guardi, io rimango bersaniana, ne sostengo la linea. Avevo chiesto di costruire meglio la nostra proposta, forse avevo ragione. E avremmo eletto Marini. Chi era vicino a Bersani - Franceschini, Letta, Migliavacca, Errani - ha premuto sull’acceleratore».
Sosterrebbe una nuova segreteria Bersani?
«Non so. Vedremo la prossima direzione cosa deciderà. Ma questo non è il fallimento di Bersani».

Corriere 22.4.13
La signora Bersani: «Lui in lacrime? Impossibile»
«Attorno a mio marito un bell'ambientino»
intervista di Francesco Alberti

qui

Corriere 22.4.13
Ma i vertici temono il crollo finale e chiedono al segretario di restare
Ci sarà una fuga verso Sel «benedetta» da Barca, però la scissione non è all'orizzonte
di Maria Teresa Meli

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l’Unità 22.4.13
Michele Emiliano
«Preferirei l’incarico a Berlusconi con il nostro appoggio esterno»
«Governo tecnico? Meglio Berlusconi
»
 «In un governo di scopo non serve il nostro ingresso. Noi fuori votiamo pochi punti» «Tra un anno lascio la politica, torno magistrato»
intervista di Federica Fantozzi


Michele Emiliano, lei è stato il primo a chiedere le dimissioni di Bersani e della segreteria, quando era ancora in campo l’ipotesi Marini.
«Spiego cosa è successo dopo le elezioni, che non abbiamo vinto. Serviva un governo del cambiamento, che non poteva essere a guida Bersani. Al quale ho detto di proporre a Napolitano un’alleanza con il M5S mantenendo forte la sua segreteria. Lui mi ha risposto: “Michele, mezzo partito è terrorizzato, se entriamo nel vero meccanismo del potere, dai finanziamenti pubblici in poi, non lo tengo. Il M5S deve convergere su di noi con me come garante”. E io, che dialogo molto con i grillini, l’ho sostenuto». Quando si è interrotto questo tentativo?
«È fallito, come era prevedibile. E siamo entrati nel tunnel drammatico del voto per il Capo dello Stato. Bersani non poteva rimanere segretario: rischiava di essere il tappo nel rapporto con il M5S».
Rapporto che, comunque, non va a gonfie vele.
«Non siamo riusciti a votare Rodotà: personalità autonoma e difficile, certo, ma che aveva fatto campagna elettorale per Bersani. Orfini mi ha confermato che nel partito si è ripetuta la medesima spaccatura. Così siamo tornati su Napolitano, nome di altissimo profilo ma che legittima il centrodestra a esultare per le larghe intese. Che però non si possono fare».
A questo punto, veramente, paiono molto probabili.
«Il Pd ha escluso in due direzioni consecutive di governare con il Pdl. Se Napolitano vuole un governo di scopo, non serve l’ingresso di esponenti Pd».
E se invece succedesse?
«Non può succedere. Nessun atto autorizza una scelta simile. Serve prima un’assemblea per discuterne».
Vuole un altro governo tecnico? Un Monti-bis?
«Preferirei l’incarico a Berlusconi con il nostro appoggio esterno. Oppure sì, a Monti, o altro leader. Noi stiamo fuori e votiamo legge elettorale e pochi altri punti».
Il congresso va fatto subito?
«Assolutamente. Alla velocità della luce. Il partito è finito con il passo indietro di Bersani. Non c’è più».
Cosa vede per il futuro? Una scissione? Il partito dei sindaci?
«Bisogna restare uniti. Vedo casomai il partito dei “Giovani democratici”. Partiamo dalle sedi occupate. Non è un dato generazionale: è che i giovani non sono scollati dalla società, non sono chiusi in un circuito che alla fine ha perduto i dirigenti».
Vero, ma c’è anche chi accusa i neo-eletti di non avere mostrato alcuna responsabilità politica in queste votazioni fondamentali.
«Certo, mai mi sarei aspettato dal Parlamento delle primarie un comportamento simile. Bisognerà cambiare anche le regole delle primarie: oltre alle preferenze servono formazione e competenze politiche».
È rimasto male Bersani che proprio lei ne abbia chiesto il passo indietro? «Non lo so, ma io l’ho fatto a sua tutela. Per lui provo affetto profondissimo, condivisione del suo dramma e solidarietà. Lasciando ha fatto sentire ai colpevoli di quell’oltraggio le loro responsabilità».
Tornando al Pd. Bastano i giovani per tenerlo unito?
«Deve dialogare con Sel e grillini. Anche con una rimescolanza».
Di che tipo? Alleanza o fusione?
«Fare le cose insieme, condividere progetti e candidati, avere un programma comune. Tra le ipotesi congressuali deve esserci l’apertura a sinistra. Sennò Vendola e Grillo avranno un vantaggio competitivo enorme».
E se il Pd lo guidasse Renzi?
«Lo vedo più come candidato premier. Anche se non si vota subito, ha tutto il tempo che vuole».
Il suo futuro personale?
«Tra un anno finisco il secondo mandato da sindaco. Chiederò al Csm di essere ricollocato in magistratura». Lascia la politica?
«Come dovrebbero fare tutti. A meno che i cittadini mi chiedano il contrario. Non i partiti. Sono fatto per ruoli elettivi. Senza cose concrete mi deprimo».
Lei è contro le larghe intese. Ma lo striscione per il ritorno di Berlusconi a Bari, al netto del tono ironico, le ha provocato molte critiche da sinistra.
«Il Cavaliere non veniva da tre anni e la sua assenza alla Fiera del Levante qui è stata considerata una catastrofe».
Eppure, non era un gesto dovuto né scontato.
«Con Berlusconi ho un rapporto sereno. Non l’ho mai demonizzato, non è Satana né la fonte di ogni male. Ma le larghe intese con lui non funzionano».

Repubblica 22.4.13
Speranza: “Il partito va rifondato, non può essere una federazione di correnti”
“L’errore è inseguire la piazza quella reale e quella virtuale”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Le dimissioni di Bersani sono una scossa data al partito, perché ciascuno si responsabilizzi. Così non si va da nessuna parte: al Pd manca il collante, la visione comune». Roberto Speranza il neo capogruppo alla Camera, misura la «gravità politica» di quanto è accaduto in questi giorni.
Federazioni occupate, autosospensioni mentre voi democratici a Montecitorio prima vi siete spaccati sul nome di Marini per il Quirinale e poi avete impallinato nel segreto dell’urna Prodi. Speranza, il Pd è finito?
«Non è finito, l’Italia ha bisogno di un grande partito come il Pd ma occorre un congresso di rifondazione, perché dobbiamo ritrovare le ragioni della nostra identità e della nostra funzione. Il congresso è ormai all’ordine del giorno, vedremo se prima dell’estate, però a luglio o a settembre non cambia. C’è una domanda di fondo a cui il congresso deve dare risposta: quale è la cultura politica del Pd».
Cosa intende per cultura politica?
«Quando Bersani, avendo ricevuto il mandato di trovare un candidato condiviso, ha proposto Franco Marini, la reazione di molti dei nostri è stata come se avesse avanzato la candidatura di Almirante. Qui non è una questione di disciplina, che pure è un tema da affrontare. Il punto è: siamo nelle condizioni di esprimere una cultura riformista e di governo? O anche nelle nostre file prevale la frenesia di avere il consenso immediato
della piazza reale o virtuale?».
I 101 “traditori” di Prodi hanno avuto una regia?
«Non penso ci sia stato un regista, ma una difficoltà diffusa e trasversale. Un partito deve avere un collante che vada al di là delle questioni minute, dei personalismi. Non è ammissibile che in un partito ciascuno faccia quello che vuole, tanto poi il conto lo paga sempre lo stesso, Bersani».
Non teme che il rapporto di fiducia tra il Pd e i suoi elettori si sia rotto definitivamente?
«Quello che è accaduto è stato troppo grave, i nostri elettori hanno ragione a prendersela con noi. Però l’aggressione a Franceschini, ma Fassina ne ha subita una simile, danno il senso di un clima insostenibile e in questo c’è l’irresponsabilità di Grillo».
Siete a un passo dalla scissione: un pezzo di partito con Renzi e l’altro a sinistra con Barca e Vendola?
«Credo di no, però è chiaro che le posizioni politiche andranno definite senza ambiguità».
I bersaniani orfani di Bersani, tra cui lei, potrebbero entrare in sintonia con Renzi e affidargli il compito di federatore?
«Intanto Bersani non è uscito di scena. Renzi è una grande personalità, ma il Pd mica può essere una federazione di correnti e correntine: è il partito di un centrosinistra di governo».
Con Vendola l’alleanza è finita?
«Vendola ha fatto una scelta chiara, per me sbagliata non votando Napolitano».
Perché non avete votato Rodotà o Bonino?
«Avevamo bisogno di un candidato che unisse. La figura di Rodotà poi, che apprezziamo e abbiamo applaudito in aula, è stata strumentalizzata dal M5S, che ha l’obiettivo di distruggere le istituzioni democratiche».
Ora il Pd si lacererà sul governo? Letta può fare il premier?
«Sarebbe prematuro e irrispettoso parlare di nomi, sarà Napolitano a guidare il percorso».

Repubblica 22.4.13
Renzi: “Così rifonderò il Pd”
“Sfida a Grillo sul cambiamento: governo di un anno, poi presidenzialismo”
intervista di Claudio Tito


Renzi lancia la doppia sfida “Ecco come voglio rifondare il Pd un anno di governo e poi al voto”
Basta inseguire Grillo, dettiamo noi l’agenda. E apre al presidenzialismo

«CAMBIARE il Partito Democratico per cambiare l’Italia». Il giorno dopo l’elezione di Giorgio Napolitano e le dimissioni in blocco del gruppo dirigente del Pd, Matteo Renzi lancia la sua sfida. È pronto a candidare il suo progetto a favore di un «nuovo riformismo ». Vuole un partito rinnovato, capace di interpretare il Paese e che non si paralizzi nella difesa delle «sue correnti».

IL SINDACO di Firenze sprona i democratici ad accettare la sfida di un «infingardo» come Beppe Grillo dettando l’agenda del governo che sta per nascere. «Mettiamoci la faccia anche con un nostro premier» ma indicando le priorità a cominciare dall’emergenza lavoro e senza aver paura del popolo del web. Un esecutivo che duri non più di un anno per poi tornare al voto con una nuova legge elettorale e dopo aver approvato un pacchetto di provvedimenti che diano una boccata d’ossigeno ai cittadini. E magari dopo aver introdotto l’elezione diretta del capo dello Stato. «A questo punto il Pd è in un angolo. O ne esce oppure salta in aria».
E come ne può uscire?
«Partiamo da quel che è successo. Il Pd ha avuto una strategia perdente in quasi tutto. Ha inseguito le formule e i tatticismi regalando la leadership della discussione una volta a Grillo, una volta Berlusconi. Ha rincorso e non ha guidato. Questa è una settimana decisiva per imprimere una svolta».
Intende dire per la formazione del governo?
«Guardi, io sono rimasto sgomento e disgustato per gli insulti ai parlamentari da parte dei grillini. Io difendo Franceschini e Fassina. Ogni forma di violenza va condannata, ma dobbiamo essere noi a uscire dall’impasse. Il Pd dica che governo vuole, eviti le formule. La smetta con gli aggettivi e inizi con i sostantivi. Si faccia avanti con le sue idee. E le imponga al nuovo governo».
Lei ha qualche suggerimento?
«Il problema, quello vero, è il lavoro. Basta con le discussioni tecniche, basta annunciare provvedimenti di legge che poi non si realizzano mai. Bisogna semplificare e sburocratizzare. Nei primi cento giorni di governo si semplifichi la normativa sul lavoro, si proceda con gli sconti fiscali per i neo assunti. La riforma Fornero è un papocchio, non ha agevolato alcunchè».
Vuole misure più liberiste?
«Io voglio qualcosa che crei più occupati, che consenta ai giovani di trovare lavoro e di non essere sballottati tra stage e apprendistato. Su questo si può coinvolgere tutto il partito».
Ma il nodo non è come creare di posti lavoro ma come si licenzia. È l’articolo 18.
«Quando il paese la smetterà di discutere di questo e inizierà a parlare dei 450 mila nuovi disoccupati, allora tutto si potrà risolvere. Il resto è ideologia. Le aziende stanno chiudendo. Dobbiamo semplificare liberando le energie. Il Paese è paralizzato, i cittadini stanno soffrendo. Questa è la vera emergenza».
I cittadini veramente chiedono anche di condividere i sacrifici.
«Io dico: taglio netto non ai costi ma ai posti della politica. Via il finanziamento pubblico dei partiti. Trasparenza nelle spese dei partiti e della Pubblica amministrazione. Io non voglio darla vinta ai grillini. Sugli “open data” siamo più bravi noi. La trasparenza non è lo streaming, non è il Grande fratello, non è la morbosità ma è rendicontare le spese. È sapere cosa ci fa Grillo in Costa Rica».
E tutto questo lo si può fare con un governo insieme a Berlusconi?
«Non mi interessa questa discussione sulle larghe intese o su Berlusconi. Non mi preoccupa il Pdl, con loro abbiamo già fatto un governo. Pensiamo a quel che si deve fare. Tutti sanno che io sono per andare a votare subito, ma è evidente che dopo la conferma di Napolitano al Quirinale le urne sono improbabili. Vogliamo continuare a parlare di questo o di cosa fare? Io preferisco indicare le priorità,altrimenti buttiamo altri giorni preziosi».
Quanto tempo può durare questo esecutivo?
«Il meno possibile. Diamoci un tempo. Ma se in sei mesi o un anno realizza un po’ di questi interventi, ci guadagna il Pd e il Paese».
Chi dovrebbe presiederlo?
«Intanto mettiamoci la faccia. Non si abbia paura di tutto, non inseguiamo i grillini. Mettiamoci la faccia e diciamo noi quel che va fatto. Poi può presiederlo anche uno d’area centrosinistra, un tecnico o un politico. Certo deve appartenere al nostro mondo, deve essere una persona stimata e godere di consenso. E comunque dimostriamoci leader e non follower. Non si può essere terrorizzati da un tweet. Al primo cinguettio c’è qualcuno che se la fa addosso. Io voglio che i democratici diano la linea al web e non viceversa. I nostri militanti, quelli che si sacrificano, i volontari non vogliono che i loro leader siano impauriti. Non vogliono un partito succube. Puntiamo sulla trasparenza, aboliamo le province, abbattiamo le burocrazie, organizziamo una lotta all’evasione fiscale a tutto campo. Andiamo in Parlamento e vediamo chi è contro, se ne assumeranno la responsabilità».
Ma il suo partito ora è decapitato. Come può riuscire a imporre uno sforzo di questo tipo?
«Basta non farsi prendere dal panico, e indicare un progetto. Il Pd ha tanti deputati (forse non ne avrà più così tanti), Scelta Civica è disponibile a contribuire. Una base parlamentare c’è».
Perché non fa lei il premier?
«Il capo del governo lo sceglie il Presidente della Repubblica con le convergenze che si realizzeranno. Il problema quindi non si pone. Il punto è rendere più smart l’Italia. E più aperta».
In che senso?
«Parlavo nei giorni scorsi con Soru e mi diceva che Amazon in Sardegna sta assumendo 600 persone, è l’equivalente della Carbosulcis e nessuno se ne occupa. Google investirà qui nel 2014 due miliardi. Se può discutere? Gli immobili inutilizzati dello Stato possono essere venduti. Se ne può parlare? Gli italiani non toccano i loro soldi perché hanno paura. Vogliamo fare qualcosa? In cento giorni è possibile far partire una nuova luna di miele con gli italiani. Ma se si fa quel che è giusto».
Lei però deve fare i conti anche con Beppe Grillo che definisce un golpe l’elezione di Napolitano ed espone al pubblico ludibrio qualsiasi progetto.
«Quello è il massimo del centralismo antidemocratico. Dice delle castronerie incredibili, sfidiamolo. Se facciamo le cose, sconfiggeremo anche i grillini. Abolire il finanziamento pubblico non è uno scalpo è la riconciliazione con l’opinione pubblica. Il Pd vince se riesce a essere il centro del cambiamento».
Insomma lei si candida a guidare il suo partito.
«La mia ambizione è cambiare l’Italia e cambiare un partito che riflette sul suo ombelico».
Si candida o no?
«Non so come, non so quando ma io ci sono. Ora non voglio aprire un dibattito su di me, non sono in cerca di una seggiola. Io in questo partito ci sono e ci resterò con Fassina e con Orfini. Non mi candiderò per il gusto di candidarmi. Bersani ha vinto alle primarie ma la sua linea è stata sconfitta. Il partito vuole vincere con una linea diversa? Io ci sono. Vuole proteggere solo la sua classe dirigente? Non ci sono. Vuole cambiare l’Italia? Allora cambiamo il partito per cambiare l’Italia e io ci sono. Rifondiamolo con un riformismo che scalda i cuori, con un’anima. Dobbiamo essere capaci di esprimere un nuovo racconto».
In questo percorso c’è spazio anche per Fabrizio Barca?
«Non ho capito qual è il suo progetto. Ci vedremo. Io voglio un partito che coinvolga le persone e le speranze ideali. Un partito concreto. Su questo anche Barca ben venga».
Il ministro ha ipotizzato di sdoppiare la guida del partito dalla premiership.
«Non è un problema. Io preferisco il modello classico, ma sono pronto a dialogare. Purchè alcuni presupposti siamo chiari».
Quali?
«Si prenda atto che Grillo con parole d’ordine tipo “golpetto” va preso sul serio. Sfidiamolo dicendogli “sei un infingardo”. Tu parli e noi lavoriamo per davvero. Poi Vendola: lui è fuori. Apra il cantiere a sinistra. Una formazione alla mia sinistra non mi fa paura. Noi siamo il Partito Democratico di Obama, di Hollande, di Clinton. Siamo il partito democratico che vince le elezioni».
Un partito di sinistra?
«Certo, un partito riformista e non massimalista. Poi ho mandato un sms a Nichi. Gli ho detto: teniamoci in contatto. Mi ha risposto dicendomi che stava per spedirmi lo stesso messaggio».
Tenersi in contatto per provare a governare insieme?
«Ci penseremo al momento opportuno. Ora pensiamo ad altro. Di sicuro lui ha sbagliato sul Quirinale. Inaccettabile insistere su Rodotà davanti alla disponibilità di Napolitano, una figura di garanzia che ha dimostrato un incredibile senso di responsabilità. Doveva ritirarsi. E poi tutti sapevano che Rodotà non avrebbe comunque avuto i consensi per essere eletto».
Nel frattempo il centrosinistra ha silurato prima Marini e poi Prodi.
«Marini sarebbe stato un passo indietro. Ma quel tifo da stadio era sconvolgente. Io ho difeso Prodi a spada tratta. Non ho avuto paura del web. Il killeraggio nei suoi confronti è venuto da parte degli ex popolari e degli ex Ds. Spero che questa sia stata l’ultima volta di un capo dello Stato eletto in questo modo».
In che senso?
«Spero in modalità diverse. Io sono per il sindaco d’Italia».
Vuol dire l’elezione diretta?
«Perché no?».
Farà arrabbiare molti dei suoi colleghi di partito.
«Non so se quest’anno ce la faremo perché è una modifica costituzionale. Ma perché non coinvolgere direttamente i cittadini evitando questo tifo da stadio? Credo che non ci sia niente di male. Il sistema semipresidenzialista è un punto di riferimento di larga parte della sinistra. Perché non da noi?»
Nei prossimi dodici mesi forse va cambiata prima la legge elettorale.
«Certo, io adotterei anche in questo caso il sistema dei sindaci. Si sa chi vince, funziona. Poi va bene qualsiasi altra soluzione che dia certezze sul vincitore. L’importante ora è fare qualcosa per gli italiani. Il mio obiettivo, le mie ambizioni sono meno importanti del successo del nostro Paese. L’Italia viene prima».

Repubblica 22.4.13
Marini attacca il sindaco “Ha una ambizione smodata” Bindi: no a Letta premier
L’ex leader Cisl: partito in mano ai potentati
di G. C.


ROMA — Matteo Renzi? Per Franco Marini è un giovane di talento, che tuttavia «l’ambizione smodata» manderà fuori strada: «A volte dice le cose solo per avere un titolo sui giornali». Il vento che sconquassa il centrosinistra e il Pd continua a soffiare. I Democratici sono alle prese con il congresso straordinario, e persino con il dilemma su chi andrà a rappresentare il partito alle consultazioni di Napolitano dei prossimi giorni, ora che Bersani si è dimesso.
Sono pesanti come pietre le parole di Franco Marini, per il quale non si deve venire meno a una regola aurea in politica, quella della chiarezza e quindi «la cenere non va messa sotto il tappeto », e si rispettano le decisioni prese a maggioranza. «Il Pd ha perso tutta la sua credibilità, deve recuperala, e non so come ci si possa sedere accanto a interlocutori e leggergli negli occhi», confessa amareggiato l’ex presidente del Senato, impallinato dal suo stesso partito nella corsa per il Colle. Una cosa che definisce «volgare e ingiusta». Marini è uno dei leader storici del centrosinistra, e mentre ricorda la trincea delle tante battaglie, parla anche di cosa è accaduto nei due giorni di vergogna del Pd, dei timori e di ciò che ci vuole per non mandare alla deriva il paese. Non solo lui, ma anche Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, prima acclamato come candidato al Quirinale, è stato poi fatto fuori da 101 “franchi tiratori”. «Il Pd - denuncia Marini in tv a “In mezz’ora”- non lo governa più nessuno, dilagano potentati e opportunismo». Però il leader storico invita a darsi da fare, a non arrendersi. Intanto va votato un governo di larghe intese, dal momento che nessun altro con i 5Stelle è stato possibile. Potrebbe anche essere guidato dal vice segretario Enrico Letta? «Sì, Letta può fare solo un buon lavoro ». Ma qui, ricominciano i distinguo.
Rosy Bindi, la presidente a sua volta dimissionaria, non ne vuole sentire parlare. Per Marini, l’opinione di Bindi è «un errore». Perché sulla fiducia al governo che Napolitano tenterà di mettere in piedi, il centrosinistra è di nuovo lacerato. Quella scelta sarà di fatto un pre-congresso per il Pd. Bindi boccia nettamente le larghe intese. «Quella è una linea che non abbiamo mai scelto, se le facessimo con Enrico Letta premier verremmo meno al nostro impegno. Non è questo il momento per Letta, che io stimo molto». Non è la sola a pensarla così. La rivolta nelle federazioni, tra i militanti, non s’arresta. Ci sono state le occupazioni dei circoli, ora è la volta delle convocazioni spontanee di quanti chiedono che tutti i dirigenti vadano via (a Torino); delle autosospensioni (i giovani democratici a Teramo, in Sicilia). Il Pd terrà domani mattina la Direzione per decidere chi farà parte del comitato di reggenza. Però partono anche raccolte di firme e petizioni per chiedere a Bersani di ritirare le dimissioni e accompagnare il percorso fino a un congresso in tempi brevi, già a luglio. Pensa di autosospendersi Sandra Zampa, la portavoce di Prodi: «Questa volta non si può fare finta di niente, andrò avanti fino a quando i 101 che hanno votato contro Prodi non dicono chi sono e perché l’hanno fatto». Su twitter Gherardo Colombo, del cda della Rai, difende Rodotà e annuncia: prenderà la tessera del Pd per stracciarla subito. Gli risponde il renziano Michele Anzaldi: «Ma cos’ha fatto in Rai lui finora?». La Direzione di domani dovrà affrontare il terremoto democratico. La delegazione al Colle dovrebbe essere comunque composta dai capigruppo Speranza e Zanda e dal vice segretario Letta.


l’Unità 22.4.13
Una crisi dei partiti lunga vent’anni
La crisi politica è profondissima. Non riguarda solo il Pd, ma l’intero sistema dei partiti. E non nasce nelle ultime settimane. Basta scorrere i risultati elettorali degli ultimi vent’anni.
Pd sulla graticola
Solo pochi mesi il Pdl veniva dato per morto e sembrava destinato all’ennesimo cambio di nome
di Carlo Buttaroni


La crisi politica è profondissima. Non riguarda solo il Pd, ma l’intero sistema dei partiti. E non nasce nelle ultime settimane. Basta scorrere i risultati elettorali degli ultimi vent’anni per rendersi conto di uno scenario che ha proposto dissolvenze più che evoluzioni, senza trovare mai una configurazione definitiva, incapace di andare oltre le contingenze elettorali e misurarsi con le sfide vere del Paese. Oggi il Partito democratico è impantanato in una crisi che riaccende antiche contraddizioni. Ma sei mesi fa in crisi era il Pdl. Una crisi d’identità, di politiche e di leadership, altrettanto profonda, tanto che lo stesso Berlusconi sembrava intenzionato a lasciare il partito per dar vita a una nuova «Forza Italia». La crisi del centrodestra, fino a prima delle elezioni si è riflessa nella vicenda delle primarie annunciate, rinviate e annullate, nella diaspora di una parte importante dei suoi gruppi dirigenti, nella sofferta ricerca di una nuova leadership, che ha trovato una soluzione approssimativa nel compromesso di una coalizione con più candidati alla presidenza del Consiglio.
Pochi mesi prima delle elezioni, tutti prevedevano una vittoria schiacciante del centrosinistra. In pochissimo tempo il quadro è cambiato completamente, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ciò non basta, però, a spiegare le 48 ore di follia che hanno portato al collasso del Partito democratico. Dare la responsabilità a Bersani di quanto accaduto nella travagliata vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica è ingiusto. E significa non aver capito quanto la crisi sia profonda e avvolga tutti gli attori in campo, ben al di là delle scelte che hanno pur avuto il loro peso negativo nella contabilità politica di questi giorni.
LA POLITICA LIQUIDA
Nelle ultime settimane, ancora una volta, è stata protagonista una politica prigioniera di se stessa e delle sue logiche. Il disorientamento che avvolge gli elettori non nasce nelle vicende dell’ultima settimana, né nello stallo istituzionale successivo al voto di febbraio. Ha origine nel degrado progressivo degli ultimi anni, nel dissolvimento di ogni punto di riferimento che perimetri le differenze. La rabbia che si è riversata nelle piazze e nella rete mette in luce i gravi difetti della politica, li denuncia e li condanna, ma non offre innesti al cambiamento e a un riformismo vero. Si batte per il cambiamento. E questo è giusto. Ma rimangono senza risposta le domande che presuppongono un progetto, una prospettiva, una direzione. E questo non favorisce la crescita della democrazia: al contrario, ne alimenta il declino.
Giovanni Sartori ha definito questo diffuso sentimento «liquidismo»: rimuovere senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. E la storia del secolo scorso insegna dove conduce il demonio del «via tutti» che oggi l’antipolitica dipinge come la soluzione salvifica.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve invece fare i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme conserva sempre una confluenza con l’agire, cioè con la capacità di fare delle scelte, di creare delle idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità. La crisi della politica, infatti, nasce proprio come crisi dell’agire e si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico.
Se i conti non tornano è perché la malattia che affligge la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte che deve compiere. Il problema è come ridare forza e ruolo alla politica, restituendogli il primato delle scelte e del loro significato, dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia e minato le basi stesse della democrazia. Che fare? Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Occorre definire nuovi diritti e nuovi doveri. Occorre dare forma alla domanda di un nuovo patto, ispirato al comune sentire di una civile appartenenza, che tragga forza dal desiderio di dirigersi non più verso l’utile individuale, ma verso il bene della comunità, dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.
LA DOMANDA DI PARTECIPAZIONE
Vi è una parte importante della società che esprime un’ansia di rinnovamento. E questa trova progressivamente forma in una politica che riparte dal basso, che inizia a progettare e farsi carico di nuove fondamenta che poggiano su solide basi etiche e morali. Il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Un deficit di politica che si riflette nel declino delle grandi organizzazioni, al quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La sfida ultima alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e dimostrandosi all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.
Ma è qui che si consuma l’altro paradosso: il sistema dei partiti, anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze, sembra teso a preservare se stesso, incapace di rispondere alle nuove sfide, allontanandosi sempre più dalla società, proprio mentre quest’ultima si avvicina sempre più alla politica.

l’Unità 22.4.13
Il Pd e i suoi limiti di cultura politica
di Massimo Mucchetti

RIUSCIRÀ IL PD A VOTARE LA FIDUCIA AL GOVERNO con Pdl e Scelta Civica senza pagare il prezzo di una scissione a sinistra? Caro direttore, tu me lo chiedi ma al momento una risposta certa non esiste. Molto dipende dalle residue capacità della segreteria uscente, che ha subìto la tripla sconfitta delle politiche, del governo che non ancora non c’è e dell’elezione del Capo dello Stato, e ancor più dipende dagli orientamenti delle diverse correnti di quel rissoso condominio che è il Pd.
Ma anche solo porre una domanda del genere dà la misura della profondità della crisi di un partito che, ancora nel dicembre 2012, era serenamente convinto di riscuotere un’ampia maggioranza relativa dei voti e di risolvere, con il balsamo e i pratici vantaggi della vittoria, i problemi irrisolti della sua identità culturale, prim’ancora che politica. Aver contribuito con poche defezioni alla nomina di Giorgio Napolitano ha evitato al Pd di portare i libri in tribunale, ma il capitale di fiducia resta comunque sotto i minimi. Da giornalista, mi era capitato di incrociare i limiti delle culture politiche del Pd. E però non sospettavo che la malattia del rappresentante politico dell’area socio-culturale del centrosinistra avesse già raggiunto una tale gravità. In fondo, mi dicevo, l’Italia è il Paese del Trasformismo e della Controriforma, di Guicciardini e non di Machiavelli, per usare i riferimenti gramsciani. Qui i problemi si risolvono per linee esterne e astute carambole, estenuandoli senza affrontarli direttamente come invece accade in altri Paesi dove i maestri sono Cartesio e Lutero. Sbagliavo. La Quinta Repubblica francese ha cambiato la Costituzione della Quarta. La sedicente Seconda Repubblica italiana è una mera espressione giornalistica. In Germania, la socialdemocrazia ha fatto la sua Bad Godesberg per acquistare titolo a governare. Nel Regno Unito, Tony Blair ha sfidato e vinto le Trade Unions. Da noi, c’è stata la Bolognina. Dopo la caduta del Muro di Berlino. E dal corpo grande della Dc è arrivato un reggimento di ufficiali mentre il grosso dell’esercito si è disperso altrove. Ma nell’età della globalizzazione di troppa furbizia si muore.
Quel che più risulta incomprensibile ai gentili che stanno fuori dal tempio del partito è la distinzione tra ex comunisti ed ex democristiani quando, in politica economica e sociale, entrambi gli ex sono figli di Roosevelt e di Keynes. So bene che la politica è anche altro, i diritti civili, il fine vita, ma, andreottianamente, temo che la distinzione sia dettata soprattutto dall’ansia di conservare poltrone e carriere. Non avendo fatto i conti con la propria storia, ex comunisti ed ex democristiani hanno accettato l’Europa di Maastricht che si andava costruendo attorno alla Germania. Hanno fatto propria la teoria del vincolo esterno che Guido Carli considerava essenziale, ma per costringerci alla virtù di Quintino Sella, non di Giuseppe Di Vittorio. Il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che ha favorito l’esplosione del debito pubblico anziché contrastarla, si è ossificata nei Trattati europei sui quali si fonda la Bce, ma non se ne parla come si dovrebbe: con competenza e libertà di pensiero. Shinzo Abe è oggettivamente più a sinistra della Cgil, ma nel Pd ancora ci si scontra pro e contro Blair.
L’Italia ha bisogno di una destra onestamente liberale e di una sinistra modernamente keynesiana non importa ex di che cosa, meglio se nuova che sappia leggere e far di conto, che conosca il mondo per esperienza diretta e non limiti le sue fonti ai giornali e ai blog, che sappia reinterpretare il debito pubblico e il debito privato, la monetizzazione e l’inflazione, le liberalizzazioni e la politica industriale, il Pil folle e quello sostenibile. Il meccanismo delle primarie può andar bene per la scelta dei numeri uno. Temo non funzioni al meglio per i parlamentari, almeno nella sua attuale versione. L’intellettuale collettivo è morto, e la cosa che l’ha sostituito non si sente tanto bene. Ma tra la rifondazione della cultura e della forma del partito uso il termine rifondazione facendo i debiti scongiuri e l’emergenza politica del governo di domani c’è un abisso pericoloso sul quale va gettato un ponte. Prendendo atto della realtà.
Oggi la sinistra, comprese le costole strane della lista Ingroia, non arriva a un terzo dell’elettorato. Il Movimento 5 Stelle non è ancora un soggetto di sinistra. Almeno non di una sinistra di governo su scala nazionale. Lo ha dimostrato dopo il 25 febbraio. In queste condizioni, si fanno compromessi, se possibile onorevoli, come suggerisce Napolitano, per il quale quasi tutti, nel Pd, hanno votato. Grillo ha voluto perdere il treno del cambiamento possibile per eccesso di furbizia e di arroganza. E il Pd, bruciando Romano Prodi in un impeto di follia, gli ha dato una mano. Da alcune settimane, il malcontento verso la politica si indirizza verso il Pd, reo di inconcludenza. Di questo passo, domani, colpirà i 5 Stelle. Pd e M5S hanno finito per tirare la volata a Berlusconi. Chi, senza avere tessere, vuole ancora bene a quell’idea di libertà eguale che è nel Dna storico della sinistra (di matrice democristiana, socialista, comunista e senza etichette) non può più vendere un prodotto scaduto. Era giusto verificare i grillini. Sarà ancora più giusto continuare a ricercare le convergenze sulle cose da fare ogni volta che si potrà. Tutti noi abbiamo sempre da imparare. Nelle commissioni speciali già accade. Ma oggi nella sintesi di governo, di fronte alla cittadina Lombardi, Mara Carfagna per tutta la vita. Sulla politica europea e sulle riforme istituzionali, che sono i due fronti più delicati, è ormai emerso con chiarezza un interesse nazionale che può essere perseguito anche con il Pdl, oltre che con Scelta Civica. Non possiamo applaudire Krugman quando critica l’austerità e fischiare se lo fanno Berlusconi e Tremonti. Semmai, vediamo e se necessario litighiamo pure ma non all’infinito su come dare subito un po’ di soldi alla gente e su come promuovere quella ripresa economica senza la quale non aiuteremo gli ultimi e avremo fallito tutti.

Corriere 22.4.13
«Siamo solo noi», il falso mito del Pd
di Paolo Franchi


Non era vero, non è mai stato vero. Ma ci hanno creduto in tanti, anche a ridosso dell'evidente sconfitta subita dal Pd in elezioni delle quali era stato a lungo pronosticato come il sicuro vincitore. Con tutti i suoi guai e le sue divisioni, si diceva, il Pd è l'unico partito, o quanto meno l'unico aggregato paragonabile a un partito, rimasto su piazza. Nonché l'unica forza politica nella quale la leadership sia contendibile, attraverso il metodo delle primarie.
Non era vero, non è mai stato vero, anche nel tempo della Rete un partito è qualcosa di più e di diverso, una comunità che condivide non solo regole più o meno innovative, ma valori, progetti, un'idea di Paese, se vogliamo anche un modo di stare al mondo. Eppure su questo aspetto non secondario della questione in tanti, dentro e fuori il Pd, hanno preferito sorvolare, soprattutto in nome di un pragmatico «realismo», secondo il quale la politica si fa con il materiale di cui si dispone, e la vera divisione, semmai, passa tra chi controlla quel che resta degli apparati e chi pensa invece di avere le physique du rôle del vincitore in campo aperto.
Non era vero, non è mai stato vero. E l'autoaffondamento del Pd nei tormentati giorni delle elezioni del capo dello Stato sta lì a dimostrarlo. Non è certo la prima volta che un partito almeno sulla carta grande divora a fini di lotta politica interna i propri candidati e cambia in corsa non solo tattica, ma pure strategia. Qualcuno ha voluto ricordare la vecchia Dc. Ma fino a quando la sua centralità fu indiscussa e indiscutibile, la Dc lasciò serenamente cronisti e commentatori a occuparsi di faide intestine e giochi segreti, e utilizzò le elezioni presidenziali come un congresso, seppure surrettizio. Ci provò ancora quando — correva l'anno 1992 — era già entrata in una crisi che si sarebbe presto rivelata mortale: dei risultati di quelle trame scomposte si occupano ormai solo gli storici del crollo di un sistema che per quasi cinquant'anni la aveva avuta per architrave. Le assonanze non mancano, ma c'è una differenza sostanziale tra un partito ormai incapace di sfuggire alla chiusura di una storia di cui era stato il protagonista, e un aggregato di forze, ma soprattutto di congenite debolezze, incapace di farsi protagonista dell'avvio di una storia nuova. Nella Dc i fautori dell'alleanza con il Psi e i sostenitori dell'intesa con i comunisti se ne fecero di tutti i colori ma, fino alla grande slavina dei primi anni Novanta, il modo di convivere guadagnando discreti profitti anche per la «ditta» lo trovarono, eccome. La «ditta» Pd invece è rimasta paralizzata dall'insanabile contrapposizione tra quanti vedono in ogni forma di intesa con Silvio Berlusconi un peccato mortale, e quanti sono convinti, specie dopo questo risultato elettorale, che di lì, piaccia o no, tocchi in un modo o nell'altro passare. È di questo che parlano i voti, quasi tutti preannunciati, contro Franco Marini, e la carica dei centouno che invece è montata in silenzio prima di abbattersi su Romano Prodi. È questo, e cioè il loro fallimento, che Bersani e compagni sono andati a testimoniare a Giorgio Napolitano, per chiedergli dolenti il sacrificio di una rielezione che, fosse stato per lui, mai avrebbe voluto, e non solo per motivi personali.
Adesso, dopo le dimissioni di Bersani e dell'intero (si fa per dire) gruppo dirigente, si preannuncia, per il Pd il primo congresso drammaticamente vero della sua breve e sfortunata storia. Dovessimo azzardare una previsione nel clima di questi giorni, daremmo per alto il rischio di una scissione o, peggio, di una deflagrazione: e le polemiche, i distinguo, le prese di distanza che già si infittiscono in vista della formazione del governo non inducono certo a un maggior ottimismo. Fossimo nei panni di un qualunque dirigente ragioneremmo, ci scontreremmo, cercheremmo di trovare i motivi dell'unità o quelli della divisione sul partito — la sua identità, la sua collocazione, le sue forme di organizzazione, i suoi modi di selezione della leadership e dei gruppi dirigenti — più ancora che sul governo. Lo suggerirebbe l'istinto di sopravvivenza: di partito, di gruppo, persino personale. Ma chissà se c'è ancora, nel Pd, l'istinto di sopravvivenza.

Repubblica 22.4.13
Se la democrazia parlamentare segue il destino dei partiti
di Nadia Urbinati


La nostra repubblica è davanti a un bivio di grande e grave portata, quello indicato dalla crisi della democrazia parlamentare. Una crisi che segue e riflette fatalmente quella dei partiti e che si manifesta come inabilità di questi ultimi a portare a unità le opinioni diverse, al loro interno e con quelle degli altri partiti. La repubblica di Weimar cadde nel 1933 su questo scoglio insormontabile e l’esito fu tragico. Nell’Italia del 2013 si assiste ad una nuova versione della storia di ingovernabilità del Parlamento e di disfunzionalità dei suoi metodi democratici: gli accordi, i compromessi tra i partiti e la decisione a maggioranza. La crisi, già in agguato quando i partiti non sono riusciti a formare un governo dopo le elezioni di febbraio, è esplosa con l’elezione del presidente della Repubblica. Vi è un senso in questo: poiché con l’elezione del presidente i partiti sono stati obbligati a gestire direttamente il gioco politico. Non hanno potuto ritardare, non hanno potuto contare su un’autorità esterna a loro, come nel caso della formazione del governo che per costituzione è pilotata dal presidente.
I partiti non sono riusciti a fare accordi, compromessi e a prendere decisioni a maggioranza.
Non vi sono riusciti per varie ragioni. In parte specifiche alla storia recente del nostro Paese, che esce da un ventennio di dominio berlusconiano che ha alimentato pratiche oligarchiche e di corruttela. Questo ha esaltato movimenti antipartitici. In parte perché i nuovi mezzi di comunicazione hanno attivato un rapporto diretto tra le opinioni correnti dei cittadini e i leader e le istituzioni, così da far credere che sia possibile fare a meno dei partiti, che si possa avere una democrazia parlamentare diretta, cioè senza la mediazione dei partiti. Per tutte queste ragioni i partiti sono deboli e si sono ulteriormente indeboliti. Erosione di legittimità ma anche di strutture e di leadership, di credibilità e di autorevolezza. Un’erosione che è stata confermata dall’inabilità a formare un governo e che è stata ingigantita da quell’accordo sbagliato che il Pd ha perseguito con il Pdl per riuscire a votare un presidente condiviso. Accordo fuori luogo che ha dimostrato come chi lo ha pensato e portato avanti non abbia davvero compreso l’Italia nella quale vive, quella che è uscita dalle recenti urne. Non ha compreso la crisi della democrazia parlamentare e si è quindi comportato come sempre in passato, quando le segreterie dei partiti decidevano e i parlamentari seguivano la disciplina di partito. Non averlo capito è stato un errore gravissimo.
E oggi si torna a sperare in Napolitano. Un fatto, questo, che conferma l’incapacità del Parlamento di uscire dal cul-de-sa cnel quale si trova, e di gestire la democrazia senza bisogno di un momento verticale d’autorità. È in atto, diceva Massimo Giannini, una metamorfosi presidenzialista di fatto. Forse abbiamo bisogno di un ripensamento istituzionale poiché la frammentazione dei partiti è inarrestabile con la democrazia del web; e sarà un fatto permanente. Oggi tutta la partita politica si gioca in diretta: tra parlamento e web. Con un esito prevedibile di indisciplina, inseguimento di umori, incapacità a tener fede agli impegni dati, di fare trattattive. Solo quei partiti che dipendono da un leader forte possono essere più disciplinati e uniti — paradossalmente il Pdl e il M5S sono più disciplinati e uniti del Pd, tra tutti i partiti il più autonomo da padri e padroni e il più esposto all’instabilità.
Il Pd è lo specchio della crisi della democrazia parlamentare. Difficile pensare a come riuscire a superare questa fase di mancanza di autorità. Ecco perché è ora importante più che mai che si comprenda il senso di questo momento critico e si agisca di conseguenza: occorre fare subito la riforma elettorale. Questa legge elettorale è lo scandalo sul quale questo parlamento ha inciampato e ogni parlamento futuro inciamperà, proprio perché esalta la frammentazione. Ma anche nel caso si giunga alla riforma elettorale non può non saltare agli occhi il fatto che se ad essa si giungerà sarà perché prima si è messo in piedi un implicito sistema presidenzialista. È auspicabile che chi ha la responsabilità delle nostre istituzioni sia consapevole della gravità ed eccezionalità di questo momento; che sia in grado di farsi una rappresentazione corretta di questo frangente delicatissimo.

l’Unità 22.4.13
La Caporetto del Parlamento
di Massimo Luciani


È la Caporetto del Parlamento, inutile usare giri di parole. Lo ha scritto ieri il direttore di questo giornale e ha fatto bene. Non si tratta solo dell’incredibile suicidio (collettivo) della maggiore forza che nel Parlamento è rappresentata: la questione è proprio il Parlamento come istituzione.
Intendiamoci, il problema non è certo la persona di Giorgio Napolitano, che il Parlamento ha voluto rieleggere. Anzi. Il problema è che il Parlamento non ha saputo o voluto scegliere un suo successore e che, alla fine, ha dovuto chiedere al Presidente in carica, che aveva ripetutamente manifestato la propria volontà di lasciare il Quirinale, di restare nel palazzo per il bene del Paese. Per fortuna, il Presidente ha deciso di accettare, altrimenti chissà cosa sarebbe accaduto. È evidente, però, che adesso il rapporto fra Parlamento, Governo e capo dello Stato finisce per essere alterato nei suoi snodi fondamentali. Dovrà essere necessariamente il Presidente a fare quel che le Camere non hanno saputo fare, identificando un esecutivo capace di assolvere almeno ad alcuni compiti fondamentali (a partire dall’indilazionabile, ma difficilissima, riforma elettorale) in uno dei momenti di peggiore crisi della Repubblica. Non è questa, però, la modalità in cui la nostra forma di governo dovrebbe funzionare.
Viviamo, dunque, il paradosso di una legislatura (quanto vitale, del resto, ancora non si sa) che avrebbe potuto segnare il riscatto del Parlamento dopo le umiliazioni della precedente (nella quale decreti legge e questioni di fiducia a raffica ne avevano segnato il destino) e che, invece, certifica da subito la propria voluta, cercata e ottenuta impotenza.
Ma le preoccupazioni non finiscono qui. Di fronte a questa impotenza è prevedibile che l’opinione pubblica sarà tentata di seguire le sirene dell’elezione diretta del capo dello Stato, della scelta «immediata» dei cittadini: se non ci riescono i nostri rappresentanti, ebbene, ci pensiamo noi! Cedere a questa spinta sarebbe, però, disastroso, sarebbe come cercare di curare l’ubriaco con un bel bicchiere di bourbon o di cognac. Non si risponde al populismo col populismo, al plebiscitarismo col plebiscitarismo. Se il problema è la debolezza della cultura parlamentare, che la si maturi, questa cultura. Che si studi, si faccia tesoro della storia, si rifletta, e non si ceda alla tentazione di un abbandono semplificatore. Qualcuno ricorda che nel presidenzialismo americano il sistema funziona democraticamente solo perché c’è un Parlamento di grande autorevolezza? E qualcuno riflette sul fatto che nel semipresidenzialismo francese può accadere che il colore politico del Presidente e quello delle Camere siano diversi e che in questo caso il sistema tiene solo perché la Francia ha qualcosa che non abbiamo noi, e cioè un saldo spirito repubblicano e un robusto sentimento dell’unità nazionale?
I «saggi» che il Presidente Napolitano aveva nominato hanno proposto, sia pure a maggioranza, di mantenere la forma di governo parlamentare, anche se correggendo alcune sue debolezze. È un’indicazione preziosa, che va seguita. Ma può condurre ad approdi sicuri solo se chi sta in Parlamento è consapevole della dignità e della delicatezza del proprio mandato.
Il Parlamento ha avuto la sua Caporetto. Il suo esercito è sbandato. Ci sono comandanti e soldati che vogliono combattere per salvarlo?

Il Sole 24 Ore 22.4.13
Stavolta Grillo ha perso la battaglia politica che stava vincendo
di Stefano Folli

qui

il Fatto 22.4.13
Il 5 stelle e la voragine aperta a sinistra
di Ferruccio Sansa


Un elemento positivo queste presidenziali ce l’hanno. Fanno chiarezza: macché larghe intese, questa è un'alleanza tra Berlusconi e Pd. Punto. Contro il rinnovamento. Nessun golpe: un’operazione legittima messa in atto dalle istituzioni (anche per questo insidiosa). Ma ci dovrebbe essere anche una legittimazione morale: gli italiani avevano chiesto una sola cosa, rinnovamento.
Il voto è stato uno schiaffo ai cittadini. Soprattutto agli elettori Pd: per vent’anni hanno creduto che il loro partito si opponesse al berlusconismo. Che tutelasse il Paese dallo strapotere di politica e finanza. Che intendesse combattere la corruzione. Non era così: chi comanda nel Pd va nella direzione opposta. Preferisce l’abbraccio a Berlusconi e Alfano - vero Bersani? - auncandidato di rinnovamento e all’offerta di un’alleanza di Governo M5S. Ma il Pd è un partito diviso al suo interno e lontano dai suoi elettori, animati da una genuina spinta ideale. Dove si rivolgeranno oggi che non hanno più casa? Ieri a Roma si sono raccolte migliaia di persone: c’erano sostenitori di Grillo. Molti, però, erano elettori Pd che, c’è da giurarci, confluiranno nel Movimento.
Anche chi riconosce i meriti del M5S non può nascondere, però, un timore: è un movimento giovane e immaturo, con meccanismi di rappresentanza e rapporti con i vertici da rodare. Gli sarà arduo assumere il compito di rappresentare l’intera opposizione. É comunque rischioso che l’alternativa abbia una sola voce. L’opposizione è più solida se corale. Se ha una struttura chiara, non di apparato, ma di idee e ideali. Questo manca a un partito che ha attirato voti di ogni colore. É vero, i programmi possono indicare una direzione: il Movimento vanta proposte interessanti per economia, finanza, giustizia e ambiente. Ma il Governo esige una visione complessiva del Paese, dei rapporti con il mondo, se non della vita. Che ancora manca. Si può realizzare, e forse qualche mese - il pateracchio non può durare - di opposizione fornirà la necessaria esperienza. Se il M5S saprà aprirsi a energie e uomini genuini in arrivo dal centrosinistra, potrà diventare una forza destinata a durare e a realizzare, chissà, la rivoluzione pacifica che propone. Forse il Movimento dovrà rinunciare a quei sostenitori - dagli ex leghisti ai qualunquisti - richiamati dall’ambiguità di certi messaggi. Ma si accorgerà di essere diventato la forza progressista di riferimento (l’ispirazione di fondo è quella, rivelano le Quirinarie), libera dai condizionamenti del passato comunista, da legami d’affari e clientele; memore di battaglie che altri hanno dimenticato per giustizia e ambiente (Grillo dixit: “Acqua pubblica, scuola pubblica, non sono cose di sinistra? ”). Si ritroverà a essere un grande partito progressista (se proprio vuole rifiutare l’etichetta di “centrosinistra”). Quello che, da sabato, l’Italia pare non avere più.

il Fatto 22.4.13
La domenica delle salme
Il Giornale Unico in soccorso del Re vincitore
di Marco Travaglio


Ieri, senza il Fatto (e in parte il manifesto), le edicole avrebbero potuto tranquillamente restare chiuse. Perchè ieri non sono usciti i giornali. È uscito il Giornale Unico, formula già sperimentata con successo alla nascita del governo Monti, altro Salvatore della Patria, fra l'altro molto sobrio. Anche stavolta stessi titoli, stessi commenti, stessi soffietti, stesse pompe, stessa cassa di risonanza alle parole d'ordine del Potere Unico che l'altroieri s'è trincerato dietro il suo ultimo, traballante scudo umano: Giorgio Napolitano, che tutti i quotidiani - mentre si affrettano ad assicurare che non c'è golpe, non c'è forzatura costituzionale - chiamano senz'alcuna ironia “Re Giorgio” o “Re Giorgio II” e descrivono come il capo di una Repubblica presidenziale o come il sovrano di una monarchia assoluta. L'uomo, anzi l'Uomo che oggi esporrà al Parlamento “il suo programma”, poi ci darà “il suo governo”, con i “suoi ministri”, ci farà sapere quanto intende restare in carica, e quanto durerà l'esecutivo, e cosa dovrà fare o non fare, e da chi dovrà essere composto e appoggiato, e come la stampa dovrà chiamarlo (nel primo monito del secondo settennato, il Riecco-lo ha già avvertito che non tollererà parole come “inciucio”, del che la Stampa Unica ha subito preso buona nota). E se qualche partito si azzarderà a dissentire verrà zittito con la doppia minaccia dello scioglimento delle Camere e delle sue dimissioni (anzi, della sua abdicazione). Breve viaggio nella stampa corazziera della Domenica delle Salme, primo giorno dell'anno I all'Era Napolitana.
Il Corazziere della Sera. Viva soddisfazione trapela dal Colle per la prima pagina del Corriere, che titola “Napolitano rieletto chiede responsabilità” (in encomiabile sintonia con la Repubblica che titola “Napolitano bis: ora più responsabilità”). Ecco: è caldamente consigliato l'uso di sostantivi quali “responsabilità”, ma anche “speranza”, che campeggia in cima all'editoriale del molto ambasciatore Sergio Romano (“Un gesto, una speranza”): “Con un notevole sacrificio personale il presidente ha accolto un invito” eccetera “e ha messo ancora una volta se stesso al servizio del Paese. I grandi elettori gliene sono grati”, quelli piccoli un po' meno, ma pazienza, mica si può avere tutto.
   E ora “abbiamo qualche motivo per sperare che questa novità istituzionale sia il colpo di schiena di cui il Paese aveva bisogno per scuotersi di dosso il pessimismo”. Ma certo, come no: la sferzata di ottimismo di un presidente coetaneo di Mugabe già elettrizza il Paese dall’Alpi a Scilla. “Napolitano con il suo gesto incoraggia gli italiani a credere in sé stessi e nelle istituzioni”. Ivi compresi i cronicari, i reparti di geriatria e le università della terza età. Romano non ha dubbi: ci salverà l'inciucio, che lui – secondo le nuove direttive – chiama pudicamente “sforzo collegiale”. Grande compiacimento si esprime sull'ermo Colle per il costituzionalista Michele Ainis, che ha sempre una giustificazione per tutto e il suo contrario: riconfermare un presidente è “inopportuno”, ma solo “in passato”. “C'è un tempo della regola e c'è un tempo per l'eccezione”, e guardacaso quel tempo è proprio ora. Infatti “i bambini hanno chiesto soccorso al vecchio padre, che già pregustava il buen retiro”. I “bambini”, per la cronaca, sono B. (77 anni), Bersani (62) e Monti (70). Dal Quirinale si raccomanda vivamente anche l'articolo del sempre frizzante Aldo Cazzullo, che s'incarica di bastonare, con l'ausilio del sempre arzillo Macaluso, l'infame Rodotà per il suo grave atto di insubordinazione e lesa maestà: “Poteva attendersi un suo gesto di cortesia – il ritiro della candidatura - che non c'è stato”. Ce n’è anche per Barca: con un “atteggiamento ancor più sorprendente” s'è addirittura schierato con Rodotà, impedendo a King George il meritato en plein di 1005 voti su 1005. Una spina in più nel Sacro Cuore dell'anziano monarca, cui già “non han fatto piacere le immagini della contestazione di piazza, affollata di paradossali bandiere rosse”. Già scendere in piazza è un gesto sconsiderato; ma portarsi pure le bandiere rosse, e per giunta “paradossali”, è davvero imperdonabile. Ne conviene Pigi Battista, sinceramente affranto per questo riesplodere della piazza (luogo antidemocratico per antonomasia fin dall'Atene di Pericle): “la democrazia rappresentativa che ieri in piazza in grillini hanno voluto mettere sotto assedio è l'unica democrazia che possiamo apprezzare”. E pazienza se nessuno sa chi e che cosa rappresenti. L'unico titolo del Corriere distonico col doveroso omaggio a Sua Maestà è a pag. 33, reparto Cultura: “La svolta del Gattopardo”. Ma per fortuna riguarda esclusivamente Tomasi di Lampedusa.
La Ri-pubblica. Semplicemente magistrale - si fa notare nelle regie stanze – l'editoriale di Eugenio Scalfari, cui non basterà il laticlavio, ma si imporranno anche il Cavalierato dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nonché il Collare della SS. Annunziata. Scevro da risentimenti per le bugie rifilategli per mesi dal monarca sulla irriducibile refrattarietà alla riconferma sul trono e per lo stato di abbandono in cui fu lasciato alla reggia di Castelporziano in balia di un cinghialotto e un'upupa, l'amico Eugenio si produce un una sobria analisi a base di “respiri di sollievo”, di “gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede” e soprattutto di “governo di scopo” che dovrà seguire “le indicazioni di scopo (testuale, ndr) che il Capo dello Stato gli affiderà”, come previsto dallo Statuto Albertino. Ottima e abbondante la bastonatura all'infido Rodotà, che intanto “non ha contattato” lo Scalfari prima di accettare la candidatura. Par di vederlo, il Fondatore, macerarsi insonne sul canapè: “Ma perchè Stefano non telefona? Ma quando telefona ? Eddai, solo una chiamatina...”. Invece niente. Peccato, perchè “gli avrei detto che non capisco perchè una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino” (doveva attendere la sinistra, che però, essendo lui di sinistra, non l'avrebbe mai candidato). Da Repubblica si apprende poi con vivo disappunto che “salterà stavolta il passaggio delle consegne fra vecchio e nuovo inquilino del Colle”. E perchè mai? Sarebbe bello vedere il Presidente che, allo specchio, si infila la corona tempestata di nastri e bobine sul capino implume. Gli aiutanti di campo provvedano senza indugio.
La Ri-Stampa. A proposito di diademi, la Real Casa fa sapere di aver adorato la corona di titoli che su La Stampa circondano le sue stentoree effigie: “Lo storico bis di Napolitano”, “Le riforme per ritrovare credibilità”, “Doppia sfida per destra e sinistra”, “Ora un premier di 'ricostruzione'”, “L'appello dei governatori fa breccia nei no del Presidente”, ”L'agenda della Terza Repubblica”, “Ma la piazza non è il popolo” (un postaccio, signora mia). Sentiti ringraziamenti anche per la mancata citazione di quanto lui stesso aveva giurato a La Stampa domenica scorsa: “Non mi convinceranno a restare” perchè la rielezione “sarebbe una soluzione pasticciata, all'italiana, ai limiti del ridicolo”. Sarebbe stato un impietoso autoritratto.
Il Trombettiero. Su quello che fu il Messaggero, il direttore Virman Cusenza si produce in un editoriale in chiaroscuro, problematico, a tratti tagliente sull’estremo “sacrificio”, “la garanzia di un presidente gentiluomo”, “garante riconosciuto da tutti e amato dagli italiani”, l’unico che “può far ripartire il Paese”. Segue un paragone dalla logica davvero stringente: “Non era mai successo che un Papa si dimettesse ma nemmeno che un presidente uscente fosse riconfermato”. Dal che qualcuno potrebbe dedurne che i due fatti fanno a pugni tra loro, visto che Ratzinger s'è dimesso a 86 anni e Napolitano s'è fatto rieleggere a 88. Ma cos'è mai la logica dinanzi al “protagonista di una sorta di rifondazione globale da avviare a tutti i livelli”? Al Suo cospetto anche il dizionario della lingua italiana si fa da parte, e consente licenze poetiche cusenziane come “rifiduciato” (participio passato dell’inesistente “rifiduciare”, derivante dallo sconosciuto “fiduciare”). Non manca, per la gioia del Colle, l'auspicata manganellata alla “piazza”, frutto della “saldatura di un ostinato Rodotà con i grillini” che “preoccupa per il futuro”: l'idea che esista un minimo di opposizione al Regio governo in Parlamento è profondamente antidemocratica. Bisognerà provvedere. Intanto godiamoci il primo miracolo del Santo subito, che il Cusenza definisce “il pur repubblicanissimo Giorgio, il 'Re Taumaturgo'”, il quale avrebbe dissuaso Grillo dal “gesto eversivo” di manifestare in piazza. Se San Francesco parlava agli uccelli e ammansiva il lupo di Gubbio, San Giorgio ammaestra i grilli.
Il Sole-14 anni. Il direttore del Sole-24 ore, Roberto Napolitano, trattiene a stento la saliva dinanzi al quasi omonimo Sire: “Grazie, Presidente. In un'Italia senza lavoro, alle prese con una questione industriale diventata sociale, divisa pericolosamente” eccetera “ci è voluto l'ultimo soccorso di un 'giovanotto' di 87 anni che risponde al nome di Giorgio Napolitano per alleviare le tante ferite che attraversano il corpo (profondamente) sofferente del Paese”. Il tempo per prendere il fiato, poi riattacca: “Il suo sacrificio di vita personale, la piena 'assunzione di responsabilità' nei confronti della Nazione, il bagaglio (unico) di esperienza istituzionale, il credito personale di credibilità internazionale, sapranno garantire al Paese un governo politico temporaneo, ma non provvisorio, con una compagine forte e autorevole all'altezza che valorizzi le (sue) migliori risorse giovanili”. E qui ci fermiamo, per evitare l'ipossia, ma anche il diabete. Ma anche per la sconfinata ammirazione che si deve a quelle “risorse giovanili” e soprattutto a quel “temporaneo, ma non provvisorio”. Un po' come dire: incinta, ma non gravida; nano, ma non basso; pirla, ma non fesso; Napolitano, ma non Napoletano.
La Napoletunità. Il quotidiano fondato da Gramsci e affondato da Bersani titola “NAPOLITA-NO”. Il cosiddetto direttore Claudio Sardo, che due mesi fa si apprestava a salire a Palazzo Chigi come portavoce del premier Pierluigi, non ha ancora elaborato il lutto. Ma si consola con “il prestigio, la dignità e l'autorevolezza di Napolitano”, “le risorse estreme a cui la stragrande maggioranza dei grandi elettori si è aggrappata per scongiurare” ecc. “La stima e la gratitudine verso il Capo dello Stato sono i nostri primi sentimenti”. Manca solo la vergogna per i titoli sul “Patto Grillo-Berlusconi” o sul “No di Renzi al governo Bersani”, balle spaziali per distrarre gli eventuali lettori dall'unico patto esistente nella politica italiana: quello fra Pd e Pdl per l'inciucio. Lui, poveretto, ribadisce che “le larghe intese non solo la soluzione di cui il Paese ha bisogno”. Si vede che la mamma non gli ha ancora detto niente. Qualcuno invece gli ha detto che la forzatura del ri-Napolitano è giustificata dallo “stato d'eccezione” e che “la nostra Costituzione prevede” per Napolitano “poteri dilatati nella formazione del governo”, solo che non gli hanno detto dove, in quale articolo. A fianco, Natalia Lombardo argomenta: “Questo inizio di secondo millennio ha visto un Papa dimettersi e coesistere col suo successore”. Quindi, forte di questo precedente, Napolitano può tranquillamente coesistere con se stesso: è matematica pura.
Il Giornalitano. Angoscioso dilemma di Sallusti: leccare Napolitano o andare sul classico e leccare Berlusconi? Soluzione: tutti e due. “Napolitano ha accettato di cavare le castagne dal fuoco alla sinistra”, ma “di fatto ha vinto Berlusconi”. Titolo involontariamente comico: “PRESENTABILI. Re Giorgio rieletto presidente, Berlusconi vara il Napolitano bis. Pdl al governo”. A umettare King George provvedono Mario Cervi (“Così comincia la Terza Repubblica”) e Giuliano Ferrara (“I franchi tiratori vera essenza della democrazia”). Lui di comunisti sì che se ne intende. Pompe sfuse. “Abbiamo il Presidente, il migliore in circolazione e dobbiamo essergli grati se ha accettato di mettersi ancora al servizio del Paese”, turibola Alessandro Barbano, direttore del Mattino. “Un gesto d'amore per il Paese”, titola Sarina Biraghi, direttrice del Tempo, in un frullato di “alto profilo”, “generosità”, “spirito di sacrificio”, “attaccamento alla cultura democratica per salvare il Paese”, “punto di equilibrio”. Mancano solo il marito fedele e il padre esemplare. Ma il pensiero della Biraghi corre commosso a “donna Clio”, l'”unica sconfitta” perchè “voleva 'godersi' il marito ed evitargli altre preoccupazioni... Non è mancanza d'amore, gentile donna Clio, ma più di lei è l'Italia ad aver bisogno di suo marito”. Si spera che almeno Avvenire faccia onore alla ragione sociale e rifletta su un presidente che a fine mandato avrà 95 anni. Macchè: l'house organ dei vescovi titola con l'aspersorio: “Napolitano bis, ritorno di saggezza”. E il direttore Marco Tarquinio intinge la penna nell'acqua santa, o forse nel vin santo: “Il soprassalto di saggezza politica e istituzionale... L'Italia ha di nuovo un presidente di tutti... C'è da essergli grati per la sua costruttiva disponibilità, di altissimo servizio istituzionale... La sua figura sobria, la cultura dialogante, la naturale misura, il senso del dovere, un riferimento saldo... L'esito ragionevole e proficuo... Qualcosa di generosamente e lucidamente...”. Spegniamo le luci e lasciamoli soli.

Repubblica 22.4.13
Quelle vite sospese in gabbia l’orrore dei centri per immigrati dove si uccide senza far morire
Ponte Galeria: noi, assuefatti alla vergogna
di Alessandro Bergonzoni


NON volevo provare «invidia e gelosia» per quei politici come Luigi Manconi e la sua associazione “A Buon Diritto” che entrano nei Cie, per riempire quel vuoto che è già alibi; non volevo essere obbligato a vedere attraverso altri che “per fortuna” hanno potuto raccontare per amore. Amore che non definirei nemmeno più sentimento, ma insieme d’altezze, somma somma.
Lo dico entrando in questo luogo dell’oltre altrui, della mala-vita strana, straniera e estraniante. Cosa dicono le statistiche, i numeri o la costituzione (bella ma inesistente se chi non ha una costituzione interiore non la applica né la fa rispettare) non mi interesserebbe. Non mi interesserebbe quasi più sapere chi chiuderà questi purgatori non danteschi, inferni a cielo perso; per assurdo non mi interesserebbe più perché oggi vorrei parlare non degli ennesimi sensi, odore, rumore, vista, tatto, senso di impotenza che mi hanno avvolto e abbracciato stretto nella mia visita al Cie di Ponte Galeria; ma vorrei dire della nuova paura, non quella che prova chiunque ci entri e non c’entra né quella dovuta al peccato di distanza, cioè il distacco della politica da queste vite e inesistenze, ma quella nuova dovuta al distacco di una retina interiore, che non ci fa più vedere altro che l’effetto dello scandalo, o il turbamento a orologeria da servizio televisivo.
Ho paura che l’abitudine a quello che non riusciamo a vedere, abbia fatto il suo sporco dovere, che rende vano il cambio di senso nei confronti di quell’inguardabile, di quell’ingiusto che qui ammazza senza far morire (meno di quel che potrebbe). Non mi soffermerò sull’igiene né mi fermerò sulla poca intimità né sulle solitudini, cattività e gabbie da zoo. Non dirò di chi vive in questa prigione pur non dovendo stare in una galera, perché qui non per reati ma per attendere, saper cosa fare, dove andare. L’aspetto a cui tengo è legato a una rivoluzione interiore di chi non è più interessato a vivere e subire queste paure e impotenze, ad «accontentarsi» del lavoro che la giurisprudenza e il diritto potranno e dovranno fare, per cancellare questi imposti, luoghi del tempo condannato.
Parlo agli interessati di quel moto ulteriore che ci chiama; l’ora è scoccata e chiede di trasformare l’urgenza umanitario- antropologica in moto interiore, in intenzione artistica, poetica e spirituale che predisponga a cambiare giudizio, vergogna, volontà, missione, decenza, connivenza, a cambiar rassegnazione. Mi rivolgo a chi vuole cambiare questo pensiero con un altro, che non resterà tale se manderà onde e
frequenze diverse, anche da casa, nascosti in noi che non vogliamo o non possiamo vedere tutto quello che accade a chi soffre dei nostri pensieri non pervenuti, insieme alle mancate azioni. Una rete che non è quella di cui parliamo tanto (che può servire a fare altre rivoluzioni, certo irrimandabili, ma è altra cosa).
Manca un’altra forma di espressione, un altro tam tam apparentemente sublimina-le: nasce dentro, per immedesimazione continua e produce pensiero elettrico, luce che corre come la luce, cambia buio, senso e sensi. È una rivoluzione apparentemente silente quella che chiama, è vocazione, è l’ante-politica, un prima che se non si forma non può far mutare: né il politico, né il legislatore, né lo stato, né le cose che lo compongono. È infatti il cambio di stato che ci è chiesto: lo stato nostro. Quello che continuiamo a demandare agli altri grati per il loro eroismo, la loro missione, il loro pontificato, il loro esempio. Ecco la rivoluzione: dalla «loro» alla «nostra». Come da altri incontri che continuo a fare con Manconi su detenzione, pena, malattia, anche qui si tratta di far da ponte su tutte queste vite sospese tra una sponda e l’altra cioè, in questo caso, tra migranti e quelli a cui abbiamo demandato il compito di risolvere: noi siamo ponte. Fine degli esempi.

LE BATTAGLIE DI “A BUON DIRITTO” “A Buon Diritto”, associazione promossa nel 2001 da Luigi Manconi, opera su vari temi: fine vita, privazione della libertà, immigrazione. A Roma coordina due sportelli legali per prestare assistenza ai profughi

Repubblica 22.4.13
Slogan nazisti e braccia tese bufera sul raduno-shock per il compleanno di Hitler
Varese, in centinaia da tutta Europa. “Andava vietato”
di Paolo Berizzi


VARESE — Né torte né candeline da spegnere: solo tante braccia tese e cori «Sieg heil!» («Salve vittoria!»). Perché il festeggiato si chiama Adolf Hitler. Per celebrarne la nascita sono arrivati in centinaia. Da tutta Italia e da mezza Europa. Skinheads e altri
gruppi di nostalgici nazi, cranio rasato, anfibi e bomber: «perché Varese domani sarà la città più fredda d’Italia», avvertiva un post sul sito degli organizzatori, la Comunità militante dei Dodici raggi, sede a Caidate (Sumirago). Un sabato notte in onore del Führer. Una stazione dismessa delle Ferrovie Nord, a Malnate, trasformata in un’area per feste e concerti, affittata ai neonazi dall’associazione culturale filoleghista «I nostar radis» (“Le nostre radici”). Centoventiquattro anni dopo la venuta al mondo di Hitler
(20 aprile 1889) sotto la tensostruttura allestita accanto ai vagoni e ai binari, l’altra sera è andato in scena uno di quei raduni che non possono passare inosservati. Un raduno che ha il sapore della doppia sfida: perché proprio a Varese in questi giorni si sta celebrando il processo (per istigazione all’odio razziale e religioso) a una ventina di militanti di estrema destra (tra cui il consigliere comunale Pdl di Busto Arsizio Francesco Lattuada) che nel 2008 diedero vita a una festa simile (all’epoca i fan hitleriani si diedero appuntamento in una birreria di Buguggiate).
Ufficialmente la serata è stata organizzata per celebrare i 20 anni di fondazione della comunità militante skinhead di Varese (1993), ma la data non è stata scelta a caso: e lo hanno dimostrato gli slogan e i rimandi al Terzo Reich che hanno caratterizzato l’evento. Sul palco si sono esibiti alcuni tra i principali gruppi musicali del genere «Oi!» (definito anche nazirock): Civico 88, Garrota, Legittima Offesa, Linea Ostile. Il pubblico: 600-700 militanti di estrema destra arrivati da tutta Italia (molta Lombardia, e poi gruppi da Siena, Lucca, Pisa, Sassari, Trento, Verona, Roma, Genova, Novara, Torino, Pescara) e da diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Svizzera, Austria, Germania, Polonia, Ungheria).
Il tam tam che nei giorni scorsi aveva pubblicizzato il raduno sui siti della galassia «nera» è partito dai militanti della Comunità dei Dodici Raggi («Do. Ra»). Ma il luogo è stato tenuto coperto fino all’ultimo. I neonazi si sono ritrovati all’uscita di Castronno, sull’autostrada A8 Milano-Varese. Poi da lì hanno raggiunto la vecchia stazione di Malnate-Valle Olona. Criptiche — sullo stile rave party — anche le indicazioni stradali: il percorso era indicato da cartelli col numero «88» (il numero che i neonazisti tedeschi usano per dire «Heil Hitler»). Sul sito di Do. Ra. era stata è diffusa un’immagine di Hitler durante un comizio tratta dal Mein Kampf: il Furher è circondato da 46 soldati delle SA (le Squadre d’assalto naziste) — tra cui un giovanissimo Rudolf Hess — , che il 4 nobembre del 1921 respinsero l’assalto di 800 avversari politici. «La forza della volontà», è il titolo. È stata una delle parole d’ordine della serata. Musica, insulti alla polizia e allo Stato, birra a fiumi, e saluti nazisti. La nuova provocazione dei neonazisti varesotti arriva 15 giorni dopo le perquisizioni della Digos nelle abitazioni dei componenti del gruppo musicale Garrota, collegati a «Do. Ra. « (che compongono il «Sole nero », simbolo dell’ordine esoterico nazista).
Una risposta alle forze dell’ordine e alla procura. Una prova di forza. «Ci siamo limitati a tenere sotto controllo la serata», spiegano dalla Digos di Varese, diretta da Fabio Mondora. Il luogo scelto dai neonazi — un locale privato affittato da un privato per eventi e quindi aperto al pubblico — aveva tutte le autorizzazioni in regola.
Quello che hanno poi fatto i 600 partecipanti all’interno della struttura, è un’altra storia. Ed è una storia che fa pensare. L’area che ha ospitato il raduno è ancora di proprietà di Ferrovie Nord (c’è anche un museo dei treni). La società regionale ha dato in concessione la tensostruttura all’associazione culturale “I nostar radis”, vicina alla Lega Nord, presieduta da Leopoldo Macchi, leghista varesotto. Nel cda di Ferrovienord fino a poco tempo fa sedeva Pasquale «Lino» Guaglianone, ex cassiere dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) e proprietario dei locali dell’ex centro sociale milanese di estrema destra «Cuore Nero». Ma questa è solo una coincidenza.
A lanciare l’allarme sulla recrudescenza neonazi in Lombardia, e in particolare nella provincia di Varese, è Gennaro Gatto, dell’Osservatorio democratico delle nuove destre (creato e coordinato da Saverio Ferrari). «Il maxi raduno di Malnate è l’ennesima, triste occasione in cui la tranquilla e indifferente provincia varesotta si trasforma diventando un laboratorio nazionalsocialista. Rivolgiamo un appello alle istituzioni perché in futuro parate come queste siano vietate».

il Fatto 22.4.13
Ad Auschwitz. Non degni di memoria
Due anni fa le autorità museali hanno chiuso lo spazio assegnato all’Italia: troppo vecchio e brutto
Ancora non si è fatto niente. Oggi rischiamo di perderlo
di Alessandro Ferrucci


C’è la scritta all’entrata. Letta, recitata, temuta, recentemente violata. Ma subito restituita al suo spazio: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, dà il benvenuto ad Auschwitz. Subito dopo brecciolino, polvere, qualche incerto e sparuto accenno di erba. La primavera è in arrivo. Dentro si è avvolti dai “blocchi”, le camerate dove venivano stipati, o meglio, ammassati ebrei e non. Oltre un milione e centomila morti in cinque anni. Quel criminale del dottor Mengele era tra loro. Bene ricordarlo. Lui, la sua adorata follia, i suoi esperimenti, in particolare sui gemelli, hanno creato il terrore nel terrore all’interno del filo spinato. Ogni anno, varcano la soglia circa un milione e trecentomila visitatori; arrivano per ricordare, capire, calarsi, per quanto possibile in un realtà estranea a ogni contesto. Gli italiani sono al terzo posto, dietro a polacchi e inglesi, davanti a tedeschi e israeliani. È un pellegrinaggio silenzioso: oltre la “scritta”, automaticamente, tutti smettono di vociare, di scherzare, di distrarsi. Si intraprende un percorso in un “non luogo” diventato luogo. “Avviene ogni volta, ‘rapiti’ da quello che vedono e che intuiscono”, racconta il professor Marcello Pezzetti (vedi intervista in basso). Qui, da decenni, le autorità polacche hanno deciso di far diventare Auschwitz la meta della memoria, dove ogni Stato può raccontare il suo coinvolgimento nella tragedia, fare i conti con i propri errori. Denunciarli. Non nascondersi. Francia, Ungheria, Austria, Olanda, la stessa Polonia e ad altri Paesi sono stati assegnati padiglioni permanenti, tra i blocchi, dove storici ed esperti hanno potuto offrire il proprio contributo visivo, audio, scritto. Alcuni sono bellissimi. Crudi, nella loro essenza. Gli eredi di De Gaulle si auto-schiaffeggiano ripetutamente, tra un’immagine e un documento inedito, alzano le mani e gridano “sì, anche noi abbiamo contribuito all’eccidio nazista. Sì, anche noi abbiamo collaborato”. I magiari stupiscono, anche loro. Poi arriva l’Italia. Ed è imbarazzo. Il nostro è talmente vecchio, illegibile, fuori contesto che gli stessi responsabili museali sono stati costretti a chiuderlo “dopo ripetuti avvertimenti – continua Pezzetti – e lo ammetto: sono d’accordo con loro”. Non solo. L’Italia rischia di venir buttata fuori da Auschwitz: gli spazi espositivi dentro al campo di prigionia sono pochi, inversamente proporzionati ai Paesi desiderosi di entrare. Così la Slovenia, la Croazia o magari la Germania. Bussano, ancora nessuno risponde. Magari ancora per poco.
1980: l’inaugurazione
Per capire cosa è accaduto, è necessaria un po’ di storia, inquadrare l’installazione attuale in un periodo politico ben delineato. Per allestire il padiglione italiano venne incaricata l’Aned, associazione dei deportati, che a sua volta coinvolse Primo Levi per i testi, Luigi Nono per la colonna sonora, Ludovico di Belgiojoso per l’architettura e Mario Samonà per l’opera che percorre tutte le pareti: una lunga spirale che si snoda per cinquecento metri quadrati. Lo spazio venne inaugurato il 13 aprile 1980, ma per realizzarlo furono necessari tutti gli anni Settanta, tra discussioni, delibere, mediazioni culturali interne ed esterne: l’input dell’Unione Sovietica era quello di parlare di resistenza, orgoglio. Di concentrarsi sugli aspetti politici. Di lotta al fascismo. Le sofferenze ebraiche, neanche sfiorate. L’Aned fu ottimo mediatore. Ludovico di Belgiojoso confessò l’esigenza “di dover spersonalizzare certi aspetti individuali del cumulo dei ricordi”, il suo timore di usare un linguaggio retorico, “cadendo nell’episodico o nel patetico”. Quindi la spiegazione di Samonà: “Figure appena abbozzate emergono dai colori che dominarono le singole epoche. Si inizia col nero del fascismo e dell’oscuro periodo della violenza più spietata e su questo colore si innestano via via il rosso del socialismo, il bianco del movimento cattolico, e il giallo col quale si tentò di disprezzare gli ebrei, mentre alla fine questi tre colori, il rosso, il bianco e il giallo trionfano”. E ancora Primo Levi che a Gianfranco Maris disse: “Deve essere un luogo dove la fantasia ed i sentimenti di ognuno, più delle immagini e dei testi, rendano l’atmosfera di una grande e indimenticabile tragedia”. Tutto ciò crolla insieme al muro. Nei primi anni Novanta la nuova direzione di Auschwitz pone delle condizioni: basta opere d’arte o installazioni, chi espone deve offrire la sintesi di un percorso, deve raccontare il viaggio dei “suoi” verso il campo di sterminio. La Francia, appunto, è tra le prime nazioni ad accettare e capire il nuovo corso e assegna cinquecentomila euro per il blocco. Sia ben chiaro: gli studiosi di origine ebraica impegnati decisero di non ricevere alcun compenso per il loro contributo. Così altre nazioni. L’Italia no. Bloccata. Immobile. Inizialmente per mancanza di fondi, poi per contrasti tra Aned, Stato a burocrazia. La questione è una: associazione dei deportati per anni ha difeso il memoriale, sostenendo che un’opera d’arte parla un linguaggio universale e sempre comprensibile, come era nell’intento di chi progettò l’installazione del Blocco 21. Un muro nel dialogo. Ora, da poco, grazie a lunghe ed estenuanti pressioni ha cambiato lievemente posizione: “Noi siamo disposti a spostare l’opera – spiega il presidente, l’avvocato Gianfranco Maris, ex deportato a Mauthausen e Gusen – ma lo Stato ci deve finanziare”. E quanto ci vuole? “Circa tre milioni di euro”. Addirittura! “Sì: 60 mila per il trasporto, 30 per il restauro, tutti gli altri per realizzare lo spazio adeguato alla sua ricollocazione. Pensiamo al comune di Milano”. Brividi lungo la colonna del Governo italiano. “Ci sembra una cifra totalmente fuori mercato. Vogliamo vedere le specifiche – spiegano dal ministero di Riccardi – Detto questo siamo pronti a risolvere il problema, c’è già una somma stanziata”. Vero. È uno degli ultimi atti del secondo governo Prodi, all’interno del milleproroghe: 750mila euro accantonati e bloccati da un successivo ricorso al Tar dell’Aned, sempre preoccupato del suo memoriale.
Adesso, però, è giunto il momento di non fare i conti solo con il passato remoto, ma anche con quello prossimo.

il Fatto 22.4.13
Pezzetti, lo storico
“Sembra un padiglione da Corea del Nord”
di al. fer.


Ad Auschwitz ogni anno accompagna decine di scolaresche. Di delegazioni italiane e straniere. Di amici desiderosi di capire. Conosce ogni pietra, ogni odore, ogni eco. Lì, Marcello Pezzetti, direttore scientifico del museo della Shoah di Roma, negli anni Ottanta ha individuato anche il luogo esatto dove si trovava il Bunker 1: la prima camera a gas usata nella storia di Auschwitz, poi trasformata in una fattoria da una famiglia di contadini Polacchi.
Mentre, cosa racconta davanti al blocco 21?
Provo imbarazzo è l’emblema di come l’Italia non è ancora in grado di affrontare le sue colpe. Sembra un padiglione della Corea del Nord.
Si spieghi meglio.
L’allestimento è figlio della cultura imposta dall’Urss. È l’ultimo baluardo del socialismo reale. Pensi, fino alla caduta del comunismo, dentro Auschwitz non c’era alcun riferimento alla popolazione ebraica. Mancava proprio la parola “ebreo”. Si parlava genericamente di “uccisione di oppositori politici”. Basta. Per loro anche i neonati o i bambini lo erano. Ha presente? I famosi poppanti antifascisti...
Da parte dell’Unione Sovietica c’era più una volontà di personalizzare il periodo post-bellico, o una cultura antisemita?
In parte si è passati dall’antisemitismo, all’anti-sionismo, in particolare dopo la “guerra dei sei giorni” (dal 5 al 10 giugno 1967, un conflitto combattuto tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra).
In questo clima è nato il padiglione italiano.
Non voglio giudicare esteticamente l’opera. Non compete a me. Dico solo che è totalmente superata, fuori dai canoni. E con riferimenti poco adatti al luogo.
Un esempio.
Un giorno ho visto una visitatrice uscire sconvolta, aveva riconosciuto nell’installazione il volto di Togliatti, per lei colpevole di aver firmato l’amnistia dopo il secondo conflitto. Ma il punto è un altro.
Quale, in particolare?
Ad Auschwitz, per il 99 per cento, sono stati de-portati ebrei. Solo ebrei. Non oppositori politici come a Mauthausen. Inoltre le autorità museali hanno deciso di porre dei paletti, per me giusti, sono come organizzare i vari padiglioni.
Quali sono i vincoli?
Niente opere, nessun manufatto. Non si deve parlare di Auschwitz, ma della storia delle deportazioni ad Auschwitz. Ogni Stato deve fare i conti con la propria realtà. In questo caso i francesi sono stati straordinari, persino gli spazi ungheresi sono molto belli. Tutto ciò è fondamentale per offrire ai visitatori, in particolare i ragazzi, uno spazio di riflessione, di didattica. Quello che all’Italia è mancato da sempre.
Da noi esistono studi pronti per affrontare un prossimo allestimento?
Il centro di documentazione ebraica di Milano ha pubblicato un libro importantissimo con tutti i nomi, e sottolineo tutti, degli italiani deportati. Sa quanti sono? 7.500. Per raccoglierli ci sono voluti venti anni. E così noi del museo della Shoah di Roma. Ma il punto è anche un altro.
Quale, professore?
Come le dicevo prima, rifletto su come stiamo trasmettendo la verità storica. Tutti devono sapere che il 16 ottobre del 1943 a Birkenau (pochi chilometri da Auschwitz) i più importanti gerarchi nazisti, come Mengele ed Hesse, si schierano per assistere all’arrivo del primo convoglio di ebrei romani. Gli ebrei della città del papa. Oppure che le leggi razziali non sono state abrogate con la caduta di Mussolini, ma molto dopo. Ecco, queste cosa vanno scritte la, ad Auschwitz! E le devono leggere tutti.
E invece?
Ci siamo sentiti solo vittime. Con un “però”: fino al 1943 in Italia non c’è stata deportazione. Ma con Salò è stata tutt’uno con la Germania nazista. Il confine è stato l’8 settembre. E lì, ad Auschwitz, dobbiamo avere il coraggio di raccontare ciò che per decenni non si è avuto il coraggio di ascoltare.

il Fatto 22.4.13
Birkenau, più di un milione di morti


SE AUSCHWITZ era il campo di concentramento, a pochi chilometri c’era il campo di sterminio, Birkenau. In quest’ultimo arrivavano i convogli pieni di deportati. Vi persero la vita oltre un milione e centomila persone, in stragrande maggioranza ebrei, poiu russi, polacchi e zingari. Le vittime erano condotte alle camere a gas immediatamente dopo la tipica selezione degli inabili al lavoro agli arrivi dei convogli. Birkenau era inoltre il più esteso Konzentrationslager dell’intero universo concentrazionario nazista e arrivò a contare fino a oltre 100.000 prigionieri contemporaneamente presenti. Era dotato di quattro grandi Crematori e di Roghi, fosse ardenti ininterrottamente giorno e notte, usate per l’eccedenza delle vittime che non si riusciva a smaltire nonostante le pur notevoli capacità distruttive delle installazioni di sterminio.

il Fatto 22.4.13
Il Treno della Memoria. Sul posto con gli studenti
Quando meno te l’aspetti arriva il punto di rottura
di Carlo Lucarelli


“Ma si rende conto? ”. Era un ragazzo biondo, stretto anche lui dentro la giacca a vento imbottita, congelato da un freddo polare. Arrancava anche lui nella neve che copriva i sentieri tra i resti delle baracche di Auschwitz, come me e come il resto del gruppo di studenti che seguiva la guida polacca.
“Ma si rende conto”, ansimava per lo sforzo e per lo sdegno, una mano guantata sul mio braccio, “si rende conto? Dormivano con i topi! ”
Sul momento mi è venuto quasi da sorridere di una tenerezza solo apparentemente fuori posto. I topi? Stavamo visitando il campo di sterminio di Birkenau, avevamo appena visto i resti delle camere a gas dove erano state uccise migliaia e migliaia di persone, avevamo attraversato il piazzale della selezione dove madri, padri e figli erano stati divisi e mandati a morire separate-mente, avevamo sfiorato il filo spinato elettrificato su cui esseri umani ridotti a scheletri si gettavano per sfuggire ad una vita insopportabile e adesso questo sedicenne, con l’accento modenese e le lacrime agli occhi mi parla di topi? Come se dormire in un posto infestato dai topi fosse la cosa peggiore del mondo. Ad Auschwitz.
Poi ci ho pensato meglio, e il mio sorriso di tenerezza è diventato un sorriso di soddisfazione. E di solidarietà, anche. E tante altre cose. Perché ho capito che quello che doveva succedere era successo.
Quando si parla di viaggi della memoria, da farsi appunto nei giorni della memoria e verso i luoghi della memoria come i campi di concentramento e di sterminio - primo fra tutti il complesso di Auschwitz - saltano sempre fuori alcune considerazioni negative che aprono dibattiti anche molto accesi.
Alcune riguardano il perché. Perché un giorno o un viaggio della memoria, perché individuare un momento per fare una cosa -ricordare - che dovrebbe essere continua e costante, quasi che la memoria fosse un interruttore acceso da qualcuno: click, ora ricorda, click, finito grazie. Ma poi, perché ricordare, perché riaprire ogni volta una ferita dolorosa impedendole così di rimarginarsi? Non sarebbe meglio lasciar perdere e tirare avanti lasciando certi argomenti alla razionalità analitica degli storici piuttosto che all’emotività della gente?
Altre, invece, riguardano il come. Andare in un posto triste, carico di brutti ricordi a rivivere proprio quei ricordi brutti con lo stesso spirito con cui si va ad un funerale non equivale, in un certo senso, a seppellirli, lasciando in chi partecipa - soprattutto se giovane e ancora impreparato - soltanto la voglia di finirla in fretta e andarsene via?
Ce ne sono tante altre, di considerazioni, e anche molto positive, ma io riprendo solo queste perché quando mi hanno invitato a partecipare ad uno di quei viaggi sono state le prime che mi sono venute in mente.
Il viaggio era il Treno della Memoria organizzato dalla Fondazione ex Fossoli e dalla Provincia di Modena: circa seicento studenti delle scuole superiori diretti ad Auschwitz assieme ad insegnanti e accompagnatori attorno al 27 gennaio. Treno della Memoria, Luogo della Memoria, Giorno della Memoria. Ho accettato di partecipare perché non ero d’accordo con almeno due di quelle obiezioni. È sempre il momento di ricordare cose importanti e se un giorno della memoria te ne offre l’occasione, ben venga. È sempre meglio ricordare piuttosto che dimenticare perché le ferite non si rimarginano se uno non le cura e continua a curarle. Quanto al rito funebre, pazienza, sarà il pedaggio per andare in un posto che da essere umano, da scrittore, e un po’ anche da storico, mi interessa molto. Un piccolo prezzo di angoscia rituale da pagare all’informazione.
Mi sbagliavo, e la considerazione inorridita di quel ragazzo - ma si rende conto? - non fece altro che confermarlo.
Viaggiare un giorno e mezzo all’andata e un giorno e mezzo al ritorno, su un treno carico di giovani studenti, storici dell’argomento e anche scrittori come me, come Marco Vichi o come Paolo Nori - solo per citarne qualcuno - che tenevano incontri, conferenze e laboratori di scrittura sia sul treno che all’arrivo, muscisti come Cisco e i Modena City Ramblers o la Bandabardò - sempre per citarne sono qualcuno - che suonavano durante il viaggio e poi a Cracovia in un concertone finale, faceva assomigliare quel viaggio più ad una gita scolastica che ad un funerale. Una cosa piacevole, bella da ricordare per tante cose belle che ci erano accadute, tanti momenti di allegria, che sembra una bestemmia – andavamo ad Auschwitz - e invece non lo è. Perché i momenti di riflessione e di approfondimento, e anche di orrore e di tristezza, non sono mai mancati e così, incastonati spontaneamente al momento giusto, sono diventati qualcosa a cui era bello tornare con il pensiero, richiamati da tante associazioni mentali che potevano durare nel tempo senza starsene confinate nel recinto della memoria triste, richiamati dal click del ricordo periodico.
Un rito collettivo, insomma, molto vivo e vitale, un pellegrinaggio civile in cui ad un certo punto arriva un momento molto particolare. Il punto di rottura.
La memoria fa brutti scherzi. È come se avesse un virus, come la ram di un computer, anzi, più virus.
Uno è quello del tempo: le cose vecchie si raffreddano e una volta lavato il sangue passano alla storia, che è oggetto più della ragione che dell’emozione. E con il tempo - nella nostra epoca e soprattutto per chi è molto giovane - non intendiamo più ere, secoli o anni, ma settimane e a volte anche giorni.
L’altro virus è quello dei numeri: la storia mette tutto in prospettiva e così finiamo per attribuire una scala all’orrore, per cui la strage del 2 agosto a Bologna è peggiore di quella di Piazza Fontana perché fa ottantacinque morti invece di diciassette e quella della stazione di Madrid è una tragedia più grande perché ne fa duecento. Non è così, naturalmente, e quando ci fermiamo a pensare o a sentire ce ne accorgiamo subito, però spesso succede.
Come succede che ci si scontri con un altro virus, quello dell’abitudine: abbiamo un immaginario carico di tragedie e violenze così spettacolarizzate che l’emozione prende spesso il binario della narrativa facendoci vivere le cose come se fossero un film.
La maggior parte dei ragazzi del viaggio, per esempio, di fronte all’ingresso di Birkenau, davanti alla bocca nera della Porta della Morte, non prova niente. Lo sanno cosa significa quel luogo e dove portano le rotaie che ci si infilano dentro, sono stati preparati dagli insegnanti e dagli accompagnatori ed esercitati sull’argomento da una serie di realizzazioni creative come il Videodizionario della Memoria da loro stessi registrato, e infatti corrono subito a prenderti per un braccio, preoccupati, a chiederti ma come, sono qui davanti a questa cosa e ancora non piango? Perché? Sono un mostro?
No, è soltanto che quella porta, con una neve che scintilla sotto la luna, l’hanno già vista, magari in Schindler’s List. Più incombente, più suggestiva e con una luce migliore.
Poi, però, all’improvviso e quando meno te lo aspetti arriva lui: il punto di rottura. Perché il complesso di Auschwitz è un luogo così forte che le emozioni, nonostante i virus, finisce per riprendersele. Preoccupati di non piangere, consapevoli della portata storica di quello che è successo, mentre nella testa scorrono nomi e numeri come titoli di coda, ecco che all’improvviso c’è un dettaglio che riporta tutto l’orrore, lo fa vivo, concreto e presente, spazza via tutto e ci consegna ad un’emozione che non dimenticheremo mai. Per quel ragazzo erano i topi - il massimo dell’orrore - per un insegnante pensare a suo padre nudo sulla rampa della camera a gas - nudo, un vecchio, nudo e poi non mi ha detto altro perché si è messo a piangere - per qualcun altro sono i capelli, le scarpe, i ciucci dei bambini, un nome graffiato con un’unghia su un muro, la foresta di betulle, per me è un suono, “Oyfn Pripetchik”, una ninna nanna così dolce che pensarla cantata da mamme con i bambini in braccio in attesa di essere ammazzati mi risulta insopportabile.
Immagino che succeda lo stesso negli altri viaggi organizzati da altri e in altri momenti, io conosco il nostro, e lo chiamo così perché da quel primo anno ne ho fatti altri sette e ho intenzione di continuare ad accompagnare gli studenti sicuro che ogni volta torneremo a casa con una serie di informazioni verificate di persona, una partecipazione collettiva intensa e un momento di emozione assoluta che per quanto straziante vorrò sempre ricordare.
L’ultima domanda è: a che serve tutto questo? Oppure, va bene, è ovvio, un po’ serve, ma quanto? Siamo sicuri che tutti quei seicento ragazzi, e mica solo loro, anche noi che li accompagnamo, anche gli insegnanti, gli scrittori, gli storici e i musicisti, torneremo tutti a casa così commossi e consapevoli?
No, naturalmente. Ce ne saranno tanti che non avranno capito e altrettanti che pur avendo capito faranno comunque il contrario.
Però una volta ho sentito una ragazza che aveva partecipato al viaggio raccontare di quello che era successo dopo. Aveva incontrato alcuni suoi compagni di classe dalle idee particolari, che non erano venuti e che le avevano detto siete stati ad Auschwitz? E non ci avete goduto? Hitler aveva ragione, bisognerebbe riaprirli i campi di sterminio! E lei, prima si era arrabbiata, poi aveva cominciato a discutere e sono sicuro che aveva le emozioni, gli argomenti e soprattutto il linguaggio giusto per farsi ascoltare da chi non avrebbe mai ascoltato me - troppo vecchio e troppo comunista, nella loro ottica - ma sarebbe stato a sentire una compagna di classe.
Ecco perché penso che i viaggi come il nostro servano.
Servono almeno a creare tanti piccoli virus di civiltà.
I virus positivi della memoria.

il Fatto 22.4.13
Conoscere la storia è diverso da ricordare
di Stefano Levi Della Torre


La conoscenza della storia non è lo stesso della memoria: la storiografia tenta di ricostruire con obiettività documentata gli eventi anche recenti in quanto passati, mentre al contrario la memoria - individuale o collettiva – seleziona soggettivamente i fatti che percepiamo come attuali per noi, in qualunque tempo si siano verificati, seleziona ciò che avvertiamo agire sul nostro presente, sulla nostra identità e coscienza in atto, e sprofonda il resto nell’oblio. La memoria è lo spessore temporale del nostro vissuto presente. La storia è maestra solo quando sappiamo tradurla nei termini della nostra memoria, interiorizzandola come nostra esperienza e coscienza. Allora la storia ci offre nozioni che possono influire sui nostri criteri di giudizio e di comportamento.
Tuttavia la memoria ha i suoi difetti. Implica una stilizzazione dei fatti, una cristallizzazione di stereotipi, di opinioni consolidate. La memoria può essere anche pre-giudizio: quando interpretiamo la situazione in atto secondo il già accaduto, allora il nostro sguardo troppo volto al passato ci farà leggere la storia, personale o sociale, come ripetizione, e non coglieremo ciò che è senza precedenti. In base alla memoria di altre secolari persecuzioni, troppi, ad esempio, non seppero o non vollero comprendere la natura inedita della “soluzione finale” nazista; per via di memoria si preferì credere che il nazismo costituisse una ripetizione grave di atrocità già sperimentate nella storia. La memoria fu allora impedimento a cogliere l’inedito, ispirò interpretazioni dei fatti riduttive. La memoria può essere poi degradata, a costituire un monumento celebrativo della propria identità autoreferenziale: nazionalismo, xenofobia e razzismo sono l’esasperazione di una memoria di sé, intollerante ad ogni trasformazione. Ma non è fatale che la memoria sia prigioniera del passato. “Paiono traversie e sono opportunità”, scriveva il Vico (citato da Vittorio Foa). In questo senso la memoria coglie nei fatti non più solo una ripetizione ma l’aprirsi del possibile: è memoria del futuro. È memoria non più sovraccarica di risposte già date, bensì interrogativa, memoria dei problemi che le tragedie trascorse e presenti ci pongono dinanzi nella loro attualità: quali interessi, quali forme mentali, e passività e indifferenza minacciano di riprodurre , ora, situazioni in cui vite e diritti umani possono venire sacrificati? E che cosa fare per prevenire o combattere queste tendenze?

il Fatto 22.3.13
Memoria tagliata
Marzabotto al verde “Lo Stato assente”


In Italia anche quando si parla di memoria, il problema sono sempre le scarse finanze. ''Mantenere i luoghi dell'eccidio nazifascista a Monte Sole non è facile perché vi facciamo fronte solo con risorse limitate che ci passa la Regione. Lo Stato, a parte i 25 mila euro annuali per il sacrario, non ha mai messo soldi nonostante spesso gli chiediamo. Adesso ci sarebbe da restaurare la chiesa e il cimitero di Casaglia e abbiamo richiesto dei fondi alla Farnesina: vedremo''. Il sindaco di Marzabotto Romano Franchi in questi giorni, vigilia del 68° della Liberazione è indaffaratissimo perché il piccolo paesino dell'appennino bolognese il 25 aprile è una delle mete simbolo. ''Quest'anno arriveranno tra gli altri Susanna Camusso, Cecilia Strada e il presidente del Senato Pietro Grasso''. Nonostante l'assenza finanziaria dello Stato, Marza-botto negli ultimi anni ha visto crescere il numero delle visite nei suoi luoghi della memoria: il sacrario, Casaglia e tutto il Parco storico di Montesole. ''Solo questa settimana abbiamo ricevuto quasi 500 ragazzi. Per noi è un obbligo innanzitutto morale portarli qua. Ormai i superstiti sono rimasti in pochi e sta a noi trasferire questo patrimonio di memoria''.
Il rischio tuttavia è quello di un turismo 'di massa' della memoria: ''Il problema è come queste persone vengono portate quassù'', spiega Marzia Gigli della Scuola di pace di Monte Sole, una struttura nata nel 2002 per studiare e promuovere iniziative di educazione alla pace, al rispetto dei diritti umani, e che tutto l'anno ospita persone da ogni parte del mondo. ''A Montesole una mano ignota ha scritto su un cartello lungo il tragitto del parco: Non fate le fotografie a Montesole non è Gardaland. Spesso infatti si va nel cimitero di Casaglia e si trovano decine di ragazzi portati lì senza un discorso, senza una mediazione. Bisogna fare più attenzione''. Due i fattori che hanno portato a un aumento delle presenze: il bel film di Giorgio Diritti sull'eccidio, L'uomo che verrà, ''e una certa moda della memoria in voga ormai da 20 anni'', spiega Marzia Gigli.
La vicenda storica di Marzabotto ha incrociato tragicamente quella della occupazione tedesca in Italia. Fin dall'agosto 1944, dopo la liberazione di Firenze, Alleati e nazifascisti si fronteggiavano sulla linea gotica. Monte Sole era proprio lì dove i nazisti volevano porre un valico impenetrabile verso Bologna e dove si era costituita per contro una brigata partigiana, la ''Stella Rossa''. Proprio per annientare questo gruppo tra la metà e la fine di settembre 1944, il comando della 16° Divisione Corazzata Granatieri delle SS decise un'operazione militare per ''l’annientamento dei gruppi partigiani e il rastrellamento del territorio nemico''. Al comando del maggiore Walter Reder, tutta l’area venne circondata e rastrellata da mille soldati, tra cui elementi italiani appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana. ''Appena i tedeschi arrivarono ci radunarono nell’oratorio e ci avvisarono che in cinque minuti saremmo stati tutti kaputt. Piazzarono la mitragliatrice all’ingresso, poi li vidi fuori dall’edificio che rompevano qualcosa e lo buttavano dentro. Erano bombe'', raccontò al Fatto quotidiano Fernando Piretti che allora aveva 9 anni e abitava a Cerpiano, uno dei tanti omicidi di massa che in cinque giorni misero a ferro e fuoco Marzabotto. I morti furono 770: di cui 216 bambini, 142 vecchi e 316 donne.
e. l.

il Fatto 22.4.13
La chiesa rossa
Comunismo e sessualità, una storia di repulsione
di Salvatore Cannavò


La storia del comunismo realizzato è costellata dalla repulsione nei confronti dell’omosessualità. Almeno fino ai sommovimenti del 1968 (in cui viene riscoperto lo psicanalista marxista Wilhelm Reich), il tema fatica a trovare cittadinanza nel mondo comunista. Lo testimonia la vicenda emblematica di Pier Paolo Pasolini, espulso per “indegnità morale” dal partito. Ma lo testimoniano anche i testi classici. Ne “L'origine della famiglia” Friedrich Engels denuncia “la pratica ripugnante della pederastia greca ” nella quale egli riscontra una decadenza morale.
A emancipare gli omosessuali russi è la rivoluzione bolscevica che abolisce il Codice penale del 1832 e depenna il crimine di sodomia nei codici del 1922 e del 1926. Il riscatto giuridico non modifica comportamenti incrostati nella società e le discriminazioni non scompaiono. L'avvento dello stalinismo impone una linea di omofobia assoluta. L'omosessualità maschile viene di nuovo criminalizzata e punita con la reclusione da tre a cinque anni. Si verificano arresti di massa, soprattutto nel mondo del teatro e delle arti. Nel 1936, il Commissario alla Giustizia, Krylenko, dichiara che l’omosessualità è un “crimine contro lo Stato sovietico e il proletariato”. Sulla Pravda del 23 maggio 1934, Gorki dichiara: “Estirpate l'omosessualità e il fascismo sparirà”.
La rivoluzione cinese sarà molto dura contro i costumi “decadenti e occidentali” dell'omosessualità. Vengono utilizzati i campi di rieducazione e la pratica si ripete anche nel corso della Rivoluzione culturale del 1966-67.
Anche Cuba adotta una politica repressiva e Fidel Castro dichiara l'omossessualità “una perversione borghese e occidentale”. Gli omosessuali vengono imprigionati o chiusi in campi detentivi (Si veda il bel film “Fragole e Cioccolato” di Tomàs Gutiérrez Alea).
Quanto all'Italia e al Partito comunista, oltre all’espulsione di Pasolini si può citare un protagonista della politica attuale. Qualche anno fa, infatti, è stato Nichi Vendola, gay dichiarato, a ricordare che “è stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito”.

La Stampa 22.4.13
Se la democrazia dà i numeri
Da Platone ai giorni nostri, il governo della maggioranza alla prova della matematica: per risolvere (o lasciare insoluti) i problemi della politica
di Piero Bianucci


George G. Szpiro, matematico e giornalista israelo-svizzero, copre il Medio Oriente per il quotidiano elvetico Neue Zürcher Zeitung . Da Bollati Boringhieri è appena stato tradotto il suo saggio La matematica della democrazia

IL PARADOSSO DI PLINIO Il 40% voleva la pena capitale, un altro 40% l’assoluzione: così vinse la minoranza del 20%
LE ELEZIONI USA DEL 2000 I verdi maggioritari ma divisi: alla fine divenne presidente l’anti-ambientalista Bush

Che il voto possa portare a paradossi l’avevamo capito il 25 febbraio dalle parole di Bersani: «Siamo i primi, ma non abbiamo vinto». Come sarebbe a dire? La democrazia non è il governo della maggioranza? E la minoranza, stando all’opposizione, non ha un ruolo altrettanto nobile ed essenziale del governare?
No, sarebbe troppo semplice e troppo bello. La misura del consenso e la sua traduzione in un governo portano con sé problemi complessi. Succede persino in Svizzera, la più antica delle democrazie, dove non c’è una legge elettorale assurda come quella che abbiamo in Italia, una legge che, regalando un lauto premio di maggioranza alla Camera in nome della governabilità, ma favorendo un Senato senza maggioranza, pone le premesse per la paralisi. Non a caso è uscita dalla mente del leghista Calderoli, che lo Stato vuole scardinare. Se poi i partiti (o le coalizioni) non sono due ma tre o addirittura quattro, la matassa si aggroviglia, entrano in gioco le leggi della logica, i principi ineludibili del pensiero razionale (che però spesso sfuggono ai politici, salvo poi sbatterci contro quando è troppo tardi).
Per diventare politica concreta in un dato paese con un dato numero di partiti, la democrazia ha bisogno di matematica e deve conoscere la logica. Per 2500 anni le migliori menti si sono esercitate a risolvere il problema della misura del consenso e della sua traduzione in governo. L’impressione è che non ne siano venute a capo. Un teorema del premio Nobel per l’economia Kenneth Arrow ha addirittura dimostrato l’impossibilità della democrazia e l’inevitabilità della dittatura (più o meno mascherata). Un altro Nobel, Amartya Sen, ha cercato a fatica qualche scappatoia. Ce lo racconta, con molti aneddoti divertenti, George G. Szpiro nelle 280 pagine del suo saggio La matematica della democrazia (Bollati Boringhieri, 29 euro).
Il filosofo Socrate fu condannato a morte a maggioranza: 280 sì contro 221 no. Il suo allievo Platone, ventottenne quando fu emessa la sentenza, non poté trarne un’idea positiva della democrazia. Si impegnò poi nel progetto di una repubblica ideale. Ogni comunità avrebbe dovuto avere 5040 nuclei famigliari perché questo numero ha ben 59 divisori (tutti i numeri da 1 a 10, e poi anche 12, 14, 15, 16 e così via). Ciò permette di ripartire con più equità ricchezze, lavori, tasse. Nessuno doveva possedere più beni del quadruplo di quanto aveva il cittadino più povero. Le scelta dei tutori della legge passava per tre fasi riducendo gli eletti con voto palese da 300 a 100 a 37. Un’altra macchinosa serie di norme doveva portare alla selezione dei governanti. Ammaestrato dalla condanna di Socrate, Platone diffidava delle maggioranze e cercava un governo dei «migliori». Strada scivolosa.
Plinio il Giovane fu il primo a mettere in luce un paradosso della democrazia. Si doveva scegliere tra condanna a morte, messa al bando e assoluzione di un gruppo di schiavi. Il 40% voleva la pena capitale, un altro 40% l’assoluzione. Solo il 20% chiedeva la messa al bando. Vinse la minoranza perché i fautori della pena capitale optarono per quello che secondo loro era il male minore.
Il mistico spagnolo Raimundo Lulio, nato nel 1232, autore di 260 opere di teologia, scienze e matematica, studiò come eleggere la badessa di un monastero. Dimostrò che, se si adotta il metodo dei confronti a coppie di candidati (A vince su B, C perde con D e così via), alla fine può diventare badessa proprio la monaca meno adatta ma che ha vinto la maggior parte dei confronti. Nell’esito paradossale Lulio vedeva la volontà di Dio. Non sarà stata invece la coda del diavolo?
Venne poi l’astronomo francese Charles de Borda, che mise in discussione l’assioma da tutti accettato secondo il quale la maggioranza dei voti a scrutinio segreto esprime l’autentica volontà dell’elettorato: dimostrò che il metodo delle elezioni a maggioranza è corretto esclusivamente se in gara ci sono due candidati. Con tre o più concorrenti il criterio della maggioranza porta a esiti contraddittori. Nel 2000 i verdi fondamentalisti schierati a favore di Nader sottrassero al verde moderato Al Gore voti sufficienti a far vincere l’antiambientalista Bush. Borda lavorò poi alla grande impresa di misurare con estrema precisione il meridiano terrestre al fine di definire la lunghezza del metro. In ciò ebbe successo, ma il suo sistema elettorale fu messo in crisi dal «paradosso di Condorcet», una dimostrazione matematica della inaffidabilità delle decisioni prese a maggioranza semplice.
Seguirono altre tappe sull’aspro sentiero della matematica della democrazia. Laplace, pure lui astronomo, denunciò gli inganni del «voto strategico» quando vengono inserite persone qualitativamente inferiori tra il candidato preferito e i suoi contendenti più pericolosi. Un nodo irrisolto è quello dei resti, arrotondati ora per difetto ora per eccesso: quando sono in gioco vari cantoni come in Svizzera, o Stati, come negli Usa, l’esito è spesso ingiusto (paradosso dell’Alabama). Nel 1928 gli arrotondamenti furono al centro di uno scontro tra le università di Harvard e Cornell, con tanto di articoli su Science. Spietato, Geoge Szpiro dimostra ancora quali vizi si nascondano nelle leggi elettorali della Svizzera (di recente riformata), di Israele e della Francia. Non si salvano né Sarkozy né Hollande.
E l’Italia? Szpiro non ne parla, ma se n’è occupato Andrea Levico, autore di Vota X (Arabafenice, pp. 398 pagine, € 19). Ne emerge chiaramente che «la varietà quasi sbalorditiva di formule elettorali in uso nei diversi Paesi non nasce da meri esercizi di fantasia, bensì è strettamente connessa con la varietà dei sistemi politici e costituzionali. Insomma, ogni legge elettorale ha un senso all’interno del sistema costituzionale e politico in cui opera. E non dobbiamo chiederci quale ci piace di più, ma quale può funzionare e quale no». Auguriamoci che gli eletti si pongano questa domanda. E che rispondano secondo coscienza.

La Stampa 22.4.13
Castello di Rivoli
Anche la disobbedienza può essere un’arte
Dal movimento del ’68 alle proteste odierne si apre oggi a Rivoli una mostra sull’antagonismo
di Manuela Gandini


Benvenuti nella repubblica non costituzionale della disobbedienza, con il parlamento circolare, di Céline Condorelli, sul quale, i monitor, al posto dei rappresentanti istituzionali, mandano video di pratiche politico-artistiche legate all’antagonismo e al dissenso. Benvenuti a Disobedience archive (the republic), la mostra curata da Marco Scotini, che s’inaugura questa sera al Castello di Rivoli, aprendo gli orizzonti su modalità d’intervento disturbanti che trattano «la disobbedienza come una delle belle arti» (Marcelo Exposito). In realtà, più che di una mostra si tratta di un organismo in evoluzione che nasce a Berlino nel 2004, al Kunstraum Kreuzberg Bethainen. Attraversa mezzo mondo – passando da Città del Messico sino al MIT di Boston - e si trasforma di volta in volta a seconda dei mutamenti globali. Dalle politiche di genere, alla foucaultiana bio-resistenza, dall’attivismo argentino alle primavere arabe, il mondo di Disobedience è costituito da materiali rari o inediti come il filmato di 22 ore non montato del parco Lambro o il primo film femminista di Annabella Miscuglio. Poi vi sono i film contemporanei di gruppi quali gli argentini Etcétera che portano l’arte sui luoghi del conflitto o dei Nomeda & Gediminas Urbonas che hanno costruito un archivio contro la privatizzazione dello spazio pubblico in Lituania. Gli oltre settanta film mostrano azioni di contrasto che abbracciano tutti gli ambiti della vita: il cibo, il comportamento, il corpo, l’interrelazione.
Il parlamento è concepito secondo una visone corale, orizzontale e piatta. È un network nel quale la base decide, delibera e realizza le proprie istanze. Non un vacuo senso di utopia ma la volontà di affilare le spade dell’intelligenza verso una democrazia diretta e una repubblica non statale. Si tratta di un archivio del contemporaneo, contingente e mutante, che ogni volta ridefinisce le proprie modalità di figurazione. Oltre al videoarchivio, vi sono due vestiboli: il primo è un’anticamera sugli anni di piombo (1969-79), il secondo sul primo decennio del Duemila. «Sciopero generale. Azione politica. Relativa. Relativamente all’arte», è la scritta al neon di Mario Merz che riassume magistralmente il senso delle pratiche di allora. Con particolare attenzione filologica, Scotini, ha raccolto le opere di chi ha rivoluzionato il linguaggio letterario e visivo uscendo dai confini disciplinari verso la politica. Da Nanni Balestrini, il quale registra la voce operaia scrivendo romanzi asintattici come Vogliamo tutto, a Carla Lonzi che, con Autoritratto e i saggi a venire, pubblica discorsi registrati senza editing; così come Carla Accardi pubblica, con conseguenze legali, le testimonianze delle sue allieve a scuola. Il Living Theatre, che nel 1975 torna a stare in Italia, deborda dal teatro per snodarsi lungo le strade al fianco dei lavoratori. Su una parete, campeggiano le scritte Battipaglia e Potere Operaio di Balestrini, accanto vi è il progetto irrealizzato di Gordon Matta Clark di un Arco del Trionfo in una fabbrica occupata di Sesto San Giovanni. Sotto, una foto di Alberto Grifi ritrae gli operai in sciopero come dei prigionieri dietro ai cancelli di una fabbrica.
La narrazione sulla condizione antagonista assume una varietà di forme e immagini informate dalla comune volontà di disobbedienza. La mostra procede da Joseph Beuys, che realizza dei multipli con la bottiglia di Coca-cola per finanziare il giornale Lotta Continua, alla rinuncia di Pietro Gilardi di continuare a fare i tappeti natura, per diventare attivista a tutti gli effetti, con i comix operai e le maschere di gommapiuma come l’Andreottile. Gianfranco Baruchello, si allontana, a fine anni sessanta, da quello che chiama «il fallimento politico» e fonda l’Agricola Cornelia, dedicandosi alle colture. A questo panorama, si affiancano i lavori di Laboratorio di Comunicazione Militante che opera un processo di smascheramento delle tecniche di costruzione dell’informazione. L’anticamera conclusiva (1999 …) mostra le nuove pratiche di contrasto delle politiche finanziarie da parte di gruppi come Chto Delat?, Critical Art Ensamble, isola Art Center. A differenza dei precursori che lavorano su produzioni documentaristiche, questa sezione abbonda di gadget anticommerciali, di installazioni caustiche (gruppo Etcétera), di azioni virali all’interno del mondo produttivo (Superflex). Sulle pareti del parlamento, Erik Beltràn ha realizzato dei grafici che mostrano come la concezione platonica della Repubblica sia, nella realtà contemporanea, completamente capovolta.

DISOBEDIENCE ARCHIVE (THE REPUBLIC) CASTELLO DI RIVOLI (TO) MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA FINO AL 30 GIUGNO
"Partito da Berlino nel 2004 il progetto si amplia e rinnova a ogni tappa"

Corriere 22.4.13
Jack London in guerra sconfisse la burocrazia
di Emanuele Trevi


«Parto per Hearst», scrive Jack London a un amico nei primi giorni di gennaio del 1904. Il suo ventottesimo compleanno è imminente, e da pochi mesi ha pubblicato Il popolo degli abissi e Il richiamo della foresta. Quanto ad Hearst, è proprio lui, William Randolph Hearst, il modello di Charles Foster Kane in Quarto potere di Orson Welles. La destinazione del viaggio è il Giappone, che con l'attacco a Port Arthur sta per infliggere alla Russia la prima di una serie di pesanti umiliazioni culminate, a maggio del 1905, con la vittoria navale di Tsushima.
Nessuno poteva saperlo ma quella guerra, combattuta per il controllo di Corea e Manciuria, inaugurava di fatto il secolo più sanguinoso della storia umana. Per il momento, Hearst vuole il miglior reporter sulla piazza per render conto degli avvenimenti su uno dei suoi giornali, il «San Francisco Examiner». E ingaggia London, strappandolo alla concorrenza con l'offerta economica migliore.
Finora inedite in italiano, le Corrispondenze di guerra di London si possono ora leggere in un'ottima edizione curata da Cristiano Spila (Nova Delphi Libri). London si butta nella nuova avventura come in tutte le altre della sua vita così romanzesca. Ha la tempra del cavaliere errante, e l'innominabile infelicità che da sempre lo rode, e che finirà per sconfiggerlo, non gli sottrae né il coraggio, né la capacità di fare di ogni luogo del mondo, fosse pure uno sperduto villaggio coreano, la sua casa. Ma c'è un ostacolo che né London né il suo potente editore si aspettavano: la cortese ma inflessibile burocrazia dell'esercito giapponese, che imbriglia ogni iniziativa dei giornalisti stranieri, tenendoli accortamente lontani dalle operazioni di guerra. E censurando ferocemente tutte le notizie, in nome di un «segreto militare» che si estende anche ai particolari più insignificanti.
Non a caso, la prima corrispondenza inviata da London, ancora in cerca di un mezzo per raggiungere la Corea dal Giappone, è il comico resoconto delle disavventure giudiziarie causate da qualche innocente fotografia. E altre volte si lamenterà del fatto che, invece di raccontare la guerra, così difficile da raggiungere, è costretto a render conto, in mancanza di meglio, delle innumerevoli traversie con le autorità che è costretto ad affrontare.
Ne verrà fuori, più che un racconto di guerra, una specie di romanzo picaresco nel quale l'astuzia dell'inviato si contrappone all'inflessibile culto giapponese dei regolamenti. Solo l'ostinazione e la consumata esperienza dell'autentico avventuriero permetteranno a London di raggiungere prima Seul e poi il nord della Corea, mentre la maggior parte dei suoi colleghi langue a Tokyo tra cene ufficiali e la snervante attesa dei permessi.
Alla fine, la tenacia verrà premiata e London potrà assistere, dalla fortezza di Wiju, a una grande battaglia sulle rive del fiume Yalu. Ma qui, per il reporter, è in agguato una seconda sorpresa, una difficoltà anche più difficile da aggirare del culto giapponese del «segreto militare». London scopre infatti che la caratteristica principale della guerra moderna, combattuta con i cannoni e altre armi a lunga gittata, consiste in una specie di annullamento perpetuo della sua visibilità e della decifrabilità di ciò che accade. La morte è ciò che piomba a caso su un nemico lontanissimo. «La tecnica», osserva il meravigliato London, «sembra sia quella di sparare a ripetizione verso il paesaggio con una tale continuità che qualche colpo potrebbe giungere a segno».
Molte sono le conseguenze errate che discendono da questa prima impressione, a partire dall'idea di una guerra che, evolvendo in tal modo la sua tecnica, farà sempre meno morti in futuro, occupandosi esclusivamente di occupare gli spazi del nemico come in un gioco da tavolo a grandezza naturale. Rimane il fatto che, in queste corrispondenze, London registra l'aurora di una gigantesca mutazione. Superata una certa soglia di progresso tecnologico, lo sguardo del singolo non è più lo strumento adatto a interpretare il senso dei fenomeni. Perde colpi ed è incapace di orientarsi tra potenze e quantità che lo sovrastano. Smentendo ogni ragionevole previsione, la linea del fronte diventa il luogo in cui la guerra è meno facile da osservare. Strano scherzo del destino: fare i conti con questo paradosso doveva toccare a London, il grande poeta dell'esperienza come forma suprema di coscienza.

Repubblica 22.4.13
Egitto Scoperto il porto di Cheope “È il più antico del mondo”
di Cinzia De Maso


Un grande molo, magazzini e papiri ritrovati a Wadi al-Jarf, sulla costa del Golfo di Suez, dall’archeologo Pierre Tallet I resti gettano nuova luce sul passato di navigatori degli antichi egizi: era un luogo strategico già all’epoca del faraone

Un grande molo, ancore ovunque, fortificazioni, abitazioni e magazzini: è un porto vero e proprio quello scoperto dall’archeologo Pierre Tallet della Sorbona di Parigi, a Wadi al-Jarf sulla costa del golfo di Suez. Il porto più antico mai trovato al mondo. Lo volle il grande faraone Cheope che alla metà del III millennio a.C. fece costruire la piramide di Giza. Era un luogo facilmente raggiungibile dalla valle del Nilo attraverso il Wadi Araba, e da lì i marinai salpavano alla volta delle famose miniere di rame e turchese della costa occidentale del Sinai. Forse portavano al faraone anche pietre, se è vero quanto dice uno dei 40 frammenti di papiro trovati nei magazzini, i papiri più antichi mai scoperti: è il diario dell’ufficiale Merrer impegnato proprio nella fornitura di blocchi di pietra per la costruzione della grande piramide. Racconta tutte le sue attività nell’arco di tre mesi, mentre gli altri papiri parlano soprattutto del cibo (generalmente pane e birra) che l’amministrazione statale forniva ai marinai del porto. Sono testi che rivelano uno spaccato di vita quotidiana veramente unico e finora pressoché inedito. Anche per questo il Ministro per le antichità egiziano Mohamed Ibrahim ha annunciato la scoperta con grande enfasi.
Fino a non molti anni fa si diceva che gli egiziani antichi sapevano navigare il Nilo o poco più, ma poi cominciarono a fioccare le grandi scoperte sul Mar Rosso, e rivelarono che sapevano andare anche per mare. Nel 2005 l’archeologo Rodolfo Fattovich dell’Orientale di Napoli trovò a Mersa Gawasis il porto da dove salpò la famosa spedizione della regina
Hatshepsut (1479-1458 a.C.) alla terra di Punt: luogo leggendario e indistinto che stava forse tra le odierne Eritrea ed Etiopia, ricco di incenso e mirra, oro e avorio, pelli di giraffa e pantera, babbuini e pigmei. Meraviglie esotiche che raggiungevano l’Egitto per lo più via terra attraverso intermediari, che Hatshepsut volle aggirare andando a Punt direttamente via mare. Il racconto della grande spedizione è tutto inciso a rilievo sulle pareti del suo tempio funerario a Tebe ma molti, fino alla scoperta di Fattovich, hanno dubitato che la regina avesse raccontato il vero.
Nel frattempo però anche gli archeologi francesi avevano trovato strutture portuali ad Ayn Soukhna: alcune risalenti al Medio Regno (prima metà del II millennio a.C.) ma altre molto più antiche, della V dinastia egiziana (circa 2400-2300 a.C.). In entrambi i casi si trattava però di impianti relativamente modesti, senza strutture a mare e con qualche magazzino, fortificazione o piccolo santuario lungo la costa. Mentre ciò che Tallet ha rinvenuto finora a Wadi al-Jarf, in due sole campagne di scavo, è imponente: innanzitutto c’è in mare un grande molo frangiflutti, ora in parte sommerso, e nello specchio d’acqua così protetto ci sono ancore in pietra per l’ancoraggio delle navi di passaggio. A terra ci sono poi fortificazioni e magazzini con molte anfore e ancore, e a cinque chilometri dalla costa, scavate nelle pareti di roccia, ci sono addirittura 30 grandi grotte-magazzino colme di frammenti di corde, vele, attrezzi da lavoro in legno e pietra, scatole di legno, timoni, legname per barche. In tre di esse sono state trovate enormi anfore di ceramica usate per contenere acqua e cibo durante la navigazione, e alcune hanno iscrizioni in geroglifico con nomi di marinai o di navi. Sono anfore prodotte in loco in due fornaci trovate lì vicino, dove sono anche altre fortificazioni e alloggi per i marinai. Le grotte venivano sigillate con grandi massi di pietra che portano dipinto il cartiglio del faraone Cheope, a prova dell’importanza che egli attribuiva al luogo.
Tallet comincia a sospettare che tutto ciò fosse troppo imponente per il solo traffico col Sinai. Anche le anfore usate per acqua e cibo sono troppo grandi per viaggi relativamente brevi. Forse già allora, azzarda Tallet, gli Egiziani veleggiavano «fino alla misteriosa terra di Punt».

Repubblica 22.4.13
Post femminismo
Il politologo americano Michael Walzer: “Le donne vivono accanto ai loro oppressori”
La nuova uguaglianza comincia in famiglia
di Michael Walzer


Un’amica femminista mi ha chiesto di scrivere un pezzo che rispondesse a questo interrogativo: in che misura il mio lavoro sarebbe stato diverso se mi fossi confrontato con le femministe di fine anni Sessanta e Settanta e avessi imparato da loro? Ho provato a soddisfare la sua richiesta, con uno stile più personale di quello che adotto di solito ma — spero — con la consueta sollecitudine. Prima di cominciare, devo fare una premessa. Nel 1953 mi sono fidanzato — e successivamente l’ho sposata — con una femminista “bolscevica”, che non mi avrebbe mai permesso di tenerle aperta la porta, di aiutarla con il cappotto, di pagarle il cinema o di fare qualsiasi altra delle cose che si dava per scontato i ragazzi facessero per le ragazze a quei tempi arretrati. Abbiamo avuto due figlie, paladine dell’uguaglianza e polemiche su questo tema fin dall’esatto momento in cui hanno acquisito coscienza di sé. Ho voluto crescerle in una società in cui fossero libere di fare... qualsiasi cosa volessero. Quindi ben prima di aver letto un qualsiasi opuscolo femminista ero già votato al principio propugnato da August Bebel secondo cui non può esistere una società giusta in mancanza di una «parità dei sessi».
Ma questo po’ di correttezza politica non necessariamente è stato sinonimo di
quella che potremmo definire intelligenza di genere. Se avessi avuto quel tipo di intelligenza, cosa avrei scritto con approccio diverso? L’opera su cui concentrarci è innanzitutto Sfere di giustizia, che ho scritto all’inizio degli anni Ottanta. Il saggio tratta della distribuzione dei beni e dei mali sociali, dei vantaggi e degli oneri della vita comune e comprende una dissertazione sui ruoli e i riconoscimenti tradizionalmente attribuiti a uomini e donne. Quel libro ha suscitato moltissime reazioni, parecchie delle quali di orientamento critico, e a mio avviso le critiche più interessanti sono state quelle prodotte da autrici femministe. La più autorevole di queste autrici è stata la Susan Moller Okin degli ultimi anni, membro di punta della straordinaria prima generazione di studiose accademiche che hanno scritto di teoria politica negli Stati Uniti.
Sfere di giustizia è una «difesa del pluralismo e dell’uguaglianza» in cui ci si contrappone all’idea che sia un unico principio o un unico insieme coerente di principi a definire la giustizia distributiva per ogni epoca e ogni luogo. Nel saggio sostengo invece che i beni sociali andrebbero distribuiti in conformità con il significato che hanno nell’esistenza della gente che li produce e che li divide o condivide. Beni diversi si inseriscono in “sfere” diverse, nell’ambito delle quali principi distributivi diversi vengono applicati da agenti diversi, in diversi modi, con diversi risultati.
La mia teoria era che se i meccanismi di distribuzione fossero autonomi, se ogni bene venisse distribuito per le giuste ragioni, nelle varie sfere prevarrebbero diverse
tipologie di individui. Il successo in una data sfera (l’acquisizione di potere politico, l’accumulo di denaro) non porterebbe con sé altri beni come mera conseguenza, come accade oggi, e il risultato complessivo sarebbe quello di una “uguaglianza complessa”, che può essere meglio compresa come insieme di ineguaglianze sparse ed eterogenee.
Secondo Okin una teoria del genere non sarebbe risultata utile alle donne, perché le convenzioni sociali relative all’istruzione, all’occupazione professionale, alle cariche politiche e a molto altro, nella nostra società e in ogni altro contesto, portano all’esclusione radicale delle donne relegandole in una posizione assolutamente marginale. Okin sosteneva che semplicemente non fossi riuscito a cogliere il carattere totalizzante del patriarcalismo. Il predominio maschile era ratificato ovunque, in ogni aspetto della vita quotidiana, in ogni sfera distributiva, in tutte le creazioni culturali e le esperienze storiche in grado di produrre “significato” (nei testi religiosi e nelle pratiche di fede, nella vita politica, nei vari generi di letteratura popolare, nelle convinzioni della gente, nel “senso comune”). Ovviamente, le donne non si opponevano. In ogni società umana, si conformavano al proprio ruolo subordinato.
Solo dei principi universali di giustizia potrebbero spianare la strada a una critica ad ampio spettro del sistema generale di definizioni patriarcali. Una concezione di giustizia che parta dall’uguaglianza umana, e nello specifico dall’uguaglianza tra i sessi, una concezione in radicale contrasto con le “convenzioni” proprie di questa (e di qualsiasi altra) società, è l’unica base da cui potrebbe svilupparsi una politica egualitaria.
Quel che credo mi sia sfuggito in tali argomentazioni era il crudo realismo che connotava la descrizione tratteggiata da Okin della posizione culturale delle donne: il senso di costrizione assoluta che le donne avevano provato per gran parte della storia e che ancora provano in gran parte del mondo contemporaneo. L’oppressione delle donne è diversa da qualsiasi altra forma di oppressione. Lo sappiamo tutti, ma la maggior parte degli intellettuali di sinistra continua a scrivere dell’oppressione come se potesse assumere un’unica forma, quella di un gruppo di gente che preme per tenere sotto un altro gruppo. Le donne però non sono un “gruppo” come tutti gli altri; non vivono tutte insieme come i nativi di una nazione conquistata o gli operai di un quartiere degradato o gli ebrei o i neri di un ghetto. Le donne vivono con i loro oppressori, che sono anche i loro padri, i loro mariti, i loro amanti, i loro figli.
Avevamo ancora un ulteriore motivo di disaccordo. Io sostenevo che la disparità all’interno della famiglia dovesse essere gestita indirettamente. Prima bisognava riformare tutte le altre sfere di distribuzione: assicurarsi che le donne venissero trattate equamente in tutti gli ambiti in cui venissero applicati criteri meritocratici. Ero diffidente riguardo a eventuali interventi più diretti nell’intimità della vita familiare, o forse semplicemente non mi andava di pensarci.
Okin si congratulò con me, con una punta di sarcasmo, per aver inserito in Sfere di giustizia «una postilla e una nota a piè di pagina» in cui definivo i lavori di casa un’attività che sarebbe stata da dividere equamente tra uomini e donne. È vero, oggi scriverei molto di più a questo riguardo di quanto non feci negli anni Ottanta e ora mi preoccuperei, come non ho invece fatto allora, del perché una maggiore eguaglianza nelle sfere della politica, dell’istruzione e dell’economia non si sia riverberata nella vita familiare come avevo pensato che accadesse. La famiglia dev’essere quello che Christopher Lasch ha definito un «rifugio in un mondo senza cuore». Ma non può continuare a essere una fonte delle diseguaglianze che rendono questo mondo senza cuore. Difendere al tempo stesso l’intimità e la giustizia: è questo il compito della prossima generazione di teorici della politica.

Repubblica 22.4.13
Tutto esaurito, successo a Bari
La “Repubblica delle idee” si dà appuntamento a Firenze
L’edizione nazionale dal 6 al 9 giugno
di Stefano Costantini


L’appuntamento l’ha dato Ezio Mauro prima che si chiudesse il sipario. Passate da poco le 13, salutato il cardinal Camillo Ruini, protagonista con lui di un’intervista interrotta spesso dagli applausi, il direttore del nostro giornale ha lanciato l’invito: «Repubblica delle idee vi aspetta a Firenze per l’edizione nazionale dal 6 al 9 giugno, grazie Bari». Ecco, finisce così l’Anteprima della festa che Repubblica ha portato in Puglia come unica tappa del Sud: due giorni di tutto esaurito con ospiti che hanno incantato le oltre diecimila persone riuscite a conquistare un posto nel teatro Petruzzelli; mentre tanti, tantissimi altri, nonostante la fila, non sono potuti entrare. La città ha risposto con un assalto imprevisto alla decina di appuntamenti che si sono avvicendati sul palco del teatro fra sabato e domenica.
L’incontro fra Scienza e Fede, il tema scelto come filo conduttore dei dialoghi, ha partorito un evento di cultura indimenticabile per una platea attenta e mai esausta composta da un pubblico di tutte le età e di tutte le fasce sociali. E nell’atmosfera
densa del dibattito ha fatto anche irruzione la cronaca, con l’arrivo di uno degli ospiti più attesi, il quale è stato per diverse ore in lizza per diventare presidente della Repubblica. Quando sabato alle 17 è entrato in sala Stefano Rodotà tutto il teatro gremito è saltato in piedi per tributare al giurista un applauso lunghissimo e appassionato, che ha lasciato spazio alle poche parole con cui Rodotà ha voluto chiudere una questione che ha rischiato di spaccare il Paese. Un momento di grande commozione e partecipazione, poi Rodotà è rientrato nei panni del professore e ha dibattuto con la teologa Marinella Perroni e il filosofo Remo Bodei sul 'governo della nostra vita'. Mentre lo spettacolo è stato al centro della scena nella sessione serale con Next, il format ideato e condotto da Riccardo Luna, che ha fatto dell’innovazione e della tecnologia un vero show, con protagonisti gli scienziati: un tripudio.
Comunque, sarà per il fatto che Bari è la città di San Nicola e qui più che altrove si respira il legame fra religioni e culture diverse, sarà perché in un momento di grande crisi economica, sociale, politica, il riferimento a valori spirituali diventa necessità per gli individui, sarà per il livello dei relatori: fatto sta che il gradimento dell’iniziativa 'In principio era il logos' è stato massimo. A partire dai protagonisti. Sabato abbiamo iniziato con lo scienziato Umberto Veronesi, che intervistato dal vicedirettore di Repubblica Dario Cresto-Dina, ha smosso la platea di una mattina prefestiva con i suoi ragionamenti deflagranti: con lucidità e serenità, ha spiegato che morire non solo è inevitabile, ma «che è anche indispensabile, un dovere per lasciare il posto alle altre generazioni»; e poi ha ribadito la sua posizione sul fine vita: «Dobbiamo essere liberi di decidere come morire». Una sorta di preghiera laica, quella del celebre oncologo, che non ha negato l’interesse per le religioni in generale e per Papa Ratzinger in particolare: «Conservo nel cassetto il suo discorso di Ratisbona».
Spazio all’intelligenza e all’ironia nel confronto fra il matematico Piergiorgio Odifreddi, sostenitore dell’uomo come prodotto della Natura, e il teologo Vito Mancuso convinto invece dell’impossibilità di spiegare l’esistenza di Dio con la sola ragione. Due o tre sfidanti si sono alternati su un palco, una sorta di ring delle idee: idee quasi sempre opposte. Come quelle del filosofo Umberto Galimberti, che ha incrociato i guantoni con un religioso, il priore della comunità di Bose Enzo Bianchi sul tema introdotto da Giovanni Valentini, 'Il nostro bisogno di verità'.
Galimberti senza pietà cita Nietzsche: «Dio è morto» e poi si chiede retoricamente: «Da cosa nasce il nostro bisogno di Dio se non dalla paura della morte?».
«La fede non è una certezza replica il priore - ma un cammino che si rinnova di giorno in giorno. E la fede è rinnovata dall’amore».
Infine ieri mattina, con la prima parte dedicata all’incontro fra Giovanni Valentini e don Antonio Sciortino. E a seguire il clou della manifestazione, l’incontro introdotto dal vaticanista Marco Ansaldo, fra il cardinal Ruini ed Ezio Mauro: un’ora e mezza di domande e risposte serrate sul senso della vita. Conclusione aperta e una sola certezza: l’Anteprima di Bari è stata un successo. Arrivederci a Firenze.

Repubblica 22.4.13
Il direttore di Repubblica Ezio Mauro e il cardinale Camillo Ruini sul palco del Petruzzelli
Ruini: “La Chiesa è libera e deve continuare a parlare”
Il cardinale: “Il mondo è cambiato, serve fiducia”
di Domenico Castellaneta


BARI È LA libertà il terreno d’incontro tra laici e cattolici, tra scienza e fede. È la libertà del creatore, come dice Camillo Ruini, per 16 anni presidente dei vescovi italiani, ma è anche la libertà delle creature, come sostiene Ezio Mauro, direttore di Repubblica.
Due ore di duello dialettico tra il cardinale e il giornalista, con oltre mille persone nel teatro Petruzzelli di Bari per l’evento clou della Repubblica delle idee moderato dal vaticanista Marco Ansaldo. Si sfidano “Laici e credenti nell’età di papa Francesco”: è il tema dell’intervista pubblica con Ezio Mauro che incasella fondamenti teologici nei principi cardine delle libertà civili e Camillo Ruini che più volte deve dare ragione al direttore di Repubblica, ma alla fine ribadisce con forza: «Il ruinismo c’è ancora, non solo in Italia: la Chiesa può e deve parlare. Perché siamo liberi».
Eminenza, il Papa ha scelto un nome che nessun papa ha mai portato: Francesco. Non pensa che questo sia una nome che obbliga terribilmente, con un programma di umiltà e povertà?
«Penso che il Papa ne fosse consapevole. Francesco è l’incarnazione di Cristo, è l’autore della grande riforma della Chiesa senza provocare una frattura a differenza di Lutero. Dice cose semplici che vengono da dentro e toccano in profondità».
I papabili italiani sono stati scartati perché gli scandali della Curia sono stati visti come scandali italiani?
«Sì, gli scandali sono sembrati italiani ed è vero che hanno pesato. Ma non credo che qualcuno sia stato scartato per questo motivo. Io nel preconclave avevo detto: non occupiamoci della nazionalità».
Già Ratzinger aveva denunciato la sporcizia che deturpa la Chiesa. La svolta del nuovo papa è un atto di provvidenza o sopravvivenza?
«La Chiesa sopravvive da duemila anni e ha resistito a prove ben più difficili. Forse è stata la provvidenza: la scelta del papa è stata un dono di Dio per i credenti».
Si aspettava la rinuncia di Ratzinger?
«No, l’ho saputo al concistoro ascoltando il testo in latino. Sono rimasto attonito. Non capitava da sei secoli».
Noi abbiamo scritto: è l’umano che entra nel sacro, è l’assoluto che deve fare i conti col relativo. Forse anche gli scandali hanno pesato?
«Non dobbiamo esagerare la portata del gesto. L’età media si allunga e le forze diminuiscono con l’età. C’è poi un altro fattore: il peso mediatico di oggi. Se le condizioni di salute peggiorano, affrontare il peso pubblico che comporta il ruolo del Papa non è più sostenibile. D’altra parte Ratzinger non ha spiegato a nessuno i motivi del suo gesto».
Lei è stato accusato del cosiddetto «ruinismo». Che cos’è? La fede che entra nella storia?
«Io riconosco che il sentimento religioso deve avere riscontro nelle convinzioni personali».
E in questo dovere non c’è il rischio dell’ingerenza?
«Abbiamo il dovere della presenza. Altra cosa è il rischio d’ingerenza non dei cattolici, ma della Chiesa in quanto istituzione. L’equilibrio va cercato volta per volta. Il ruinismo c’è sempre, sta crescendo ad esempio in Francia per i matrimoni omosessuali.
Nell’84 conobbi Giovanni Paolo II da vicino, e vidi che le sue linee di fondo per la rappresentazione pubblica del cristianesimo erano quelle che io mettevo in pratica.
Le mie radici erano in Wojtyla rispetto al quale io sono un pigmeo».
Andare in minoranza non vi spaventa, se riguarda il numero dei credenti. Ma la Chiesa accetta il libero gioco democratico, cioè di poter andare in minoranza nei suoi valori?
«Sì. Ad esempio su divorzio e aborto non abbiamo incitato alla guerra civile. Ne abbiamo preso atto. L’accettazione del gioco democratico dev’essere pacifica da parte di tutti. A proposito della verità, Tommaso Moro diceva: il parlamento non delibera sulla verità, ma sulle regole della vita comune. Quindi è del tutto possibile mantenere la propria condizione della verità pur prendendo atto che il parlamento ha deliberato altrimenti. Naturalmente è lecito operare, se possibile, perché il parlamento modifichi il suo atteggiamento».
Il rischio però è che a furia di parlare di valori non negoziabili, richiamando su questo punto gli uomini politici cattolici, la Chiesa non rispetti la libertà del vincolo di mandato dei parlamentari.
«A questo proposito mi prendo le mie colpe. Se c’è uno che ha dato indicazioni precise suscitando talvolta un certo sconcerto è stato il sottoscritto. Per questo sono ancora oggi molto benvoluto. L’esito del referendum sulla procreazione assistita fu un esempio di questo. La Chiesa si rivolge al singolo parlamentare, non impone un comportamento, ma invita a essere coerente. La Chiesa non va contro la libertà dal vincolo di mandato. Ognuno è libero».
Ma nel conflitto tra la legge del creatore e quella delle creature deve prevalere quest’ultima perché tutela i diritti (tutti, compresa la libertà religiosa), ma di tutti, quindi anche di chi non crede.
«È vero, nelle norme pubbliche deve prevalere la legge delle creature. Ciò non significa che questa tuteli tutti. Sono leggi umane. Per esempio abbiamo sentenze diverse in diversi tribunali. La legge del creatore per chi ci crede passa sempre attraverso la libertà, perché il creatore per come lo concepiamo noi cristiani è sommamente rispettoso della libertà. E la prova estrema di questo è la croce di Cristo, cioè il fatto che Cristo non ha impedito agli uomini nemmeno di ucciderlo rispettando fino in fondo la loro libertà. Oggi c’è una grande rivendicazione sulla libertà di fare ciò che si vuole. Non si vogliono vincoli esterni, come la Chiesa o l’autorità di Dio. Ma c’è anche una libertà interna che viene negata dalla cultura contemporanea che invece riconduce l’uomo alla natura. Se manca la libertà interiore, quella esterna è una cosa ridicola. È come dire lasciamo libero un cane e un gatto. Ma un cane non è libero! Agisce solo secondo i suoi istinti. Dio è ciò che fonda questa libertà.».
E l’obiezione di coscienza? Ai tempi di Eluana Englaro il cardinale Poletto fece un richiamo pubblico ai medici cattolici piemontesi affinché non aderissero alla sentenza.
L’identità di cattolico contava più di quella di medico e di quella di cittadino, anzi la prima revocava le altre due. Più che un’obiezione di coscienza era un’obbligazione di appartenenza?
«No, è un’appartenenza che passa dalla coscienza. È un appello alla propria libertà di coscienza. E questa è personale».
Il cittadino non ha bisogno di un tribunale extraterreno. È capace di essere giudice delle sue azioni. Ma come Benedetto Croce alla Costituente nel ’47, vedendo l’impasse del Parlamento degli ultimi giorni veniva da invocare il «Veni creator spiritus». Questa volta penso e spero che lei non c’entri con la vicenda italiana: ma che pensa di quel che sta succedendo nel Paese?
«È una vicenda triste, ma a lieto fine. L’Italia ha bisogno di fiducia, di solidarietà, di rimboccarsi le maniche. Il mondo è cambiato. Dobbiamo comprenderlo tutti».

Repubblica 22.4.13
Un dibattito fra don Antonio Sciortino direttore di Famiglia Cristiana e Giovanni Valentini su fede e informazione
“Così il Vangelo rinnova i suoi linguaggi”
di Mara Chiarelli


Un «Paese cristiano solo sulla carta», che si è «lasciato passare sopra la propria testa di tutto». E che ora si chiede cosa sta accadendo, «ma forse dovevamo svegliarci un po’ prima». È alle conclusioni del dibattito, che il direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Sciortino, in dialogo con l’editorialista di Repubblica Giovanni Valentini, affida le sue riflessioni. Primo momento della mattinata al Petruzzelli di Bari, nella domenica della “Repubblica delle idee”. Tema del dialogo, moderato dal vaticanista Paolo Rodari, è “Il Vangelo dei media”. Si cerca di trovare un punto, di tracciare una strada comune per un dialogo aperto tra laici e cattolici. Categorie affatto incompatibili, emerge dal confronto. «Non si contrappongono perché - rivendica don Sciortino - se non comunichi non puoi evangelizzare ». Spingendosi fino a dire che «se San Paolo vivesse oggi, sarebbe un giorna-lista, così come se Gesù vivesse sarebbe su Facebook». La multimedialità come veicolo di evangelizzazione, strumento forte che la Chiesa mostra di apprezzare: Papa Ratzinger su Twitter, il successore Papa Francesco col suo account Facebook che saluta i fedeli con un “Buongiorno”. «Non è “ubriacatura della Chiesa”, come è stata definita, ma l’unica possibilità di avvicinarsi realmente alla gente. Non bisogna pretendere di avere la verità, così come un articolo non dev’essere omelia o predica». Del resto, chi “governa” oltre un milione di credenti deve adeguarsi ai tempi. «Il pastore – avverte il direttore di Famiglia Cristiana – deve odorare del gregge, starci in mezzo».
Giovanni Valentini, autore di un libro su morale, fede e ragione in cui interroga proprio don Sciortino sulla nuova Chiesa, dipinge un tipo di informazione, «più attiva, multimediale, oggetto di contaminazione di linguaggi ». E ieri, dal palco, estende il motto del Cardinale Martini Pro veritate adversa diligere ai giornalisti: «Bisogna sforzarsi di essere più vicini possibile alla verità, di dare un’informazione completa e imparziale». Da cardinal Martini a Papa Bergoglio il passo è breve. «Bisogna essergli grati - sorride in chiusura don Antonio Sciortino - per aver detto ai giornalisti presenti in un incontro 'Vi voglio bene'. Non sono tanti quelli che lo dicono ai giornalisti».