mercoledì 24 aprile 2013

l’Unità 24.4.13
Il valore di Rodotà ben oltre Grillo
di Chiara Ingrao e Paolo Franco


NEL PIENO DEL DIBATTITO ALL’INTERNO DEL PD SULL’IPOTESI, APPASSIONATAMENTE RESPINTA FINO A POCHI GIORNI FA, di un governo sostenuto coi voti di Berlusconi, escono i dati sulle «Quirinarie» del M5S. Pullulano i commenti interessati, sia a destra che ahimè a sinistra. Perfino la versione on line dell’Unità (un giornale che ha coraggiosamente aperto le sue pagine a tutte le posizioni), titola così la notizia: «come diventare Capo dello Stato con 4000 voti». Si tratta di un’interpretazione politica del tutto distorta, che ci ha profondamente indignati. La candidatura di Stefano Rodotà al Colle non è un’invenzione di 4000 grillini: è il frutto di un dibattito nato molti mesi prima, all’interno di molte realtà associative, oltre che sui social network.
Noi stessi abbiamo firmato numerosi appelli in questo senso, molto prima che il M5S aprisse le sue consultazioni on line. E non a caso per Rodotà si sono mobilitati intellettuali, dirigenti e circoli del Pd, e l’intero gruppo dirigente di Sel, che fino a prova contraria era il principale alleato del Pd, finché il Pd ha portato avanti il progetto «Italia Bene Comune».
E non basta: Rodotà era, ed è, una figura di altissimo profilo, in prima fila nella difesa della Costituzione e dei lavoratori, e soprattutto nelle interpretazioni più innovative della sfida dei diritti nel mondo di oggi, in Italia e in Europa. Nessun dirigente del Pd ci ha spiegato per quale motivo ci si rifiutava di prendere in considerazione una candidatura di tale livello. Stefano Rodotà sarebbe stato un grande Presidente della Repubblica, e la sua elezione avrebbe consentito di riaprire i giochi rispetto alle alleanze di governo. Quanto ha ricordato Napolitano è infatti sotto gli occhi di tutti: nessun partito o coalizione ha i numeri in Parlamento per governare da solo. E tuttavia non è vero, che ciò significhi l’ineluttabilità di governare con una destra come quella italiana: corrotta, razzista, filofascista.
Dopo questo risultato elettorale, la coalizione di centrosinistra aveva di fronte a sé due opzioni, oltre al ritorno alle urne. Una è quella perseguita per più di 50 giorni da Bersani, e coerente con il progetto politico su cui la coalizione ha chiesto i voti: un progetto di alternativa alla destra di Berlusconi. Un’opzione difficile, che si è scontrata con i veti e i giochetti di Grillo, fino ad apparire impossibile: ma proprio l’elezione di Rodotà avrebbe insperatamente riaperto questa prospettiva, e consentito quel «governo del cambiamento» che Italia Bene Comune aveva promesso. Si è scelto di perseguire un’altra via, nonostante gli appelli disperati della stessa base del Pd, oltre che di molti suoi dirigenti e quadri intermedi. Ci si prepara a governare con Berlusconi, spaccando la coalizione e venendo meno al patto con gli elettori. Non è un golpe: è una scelta costituzionalmente legittima, anche se a nostro parere drammaticamente sbagliata.
Mascherare il senso di questa scelta, e dell’alto valore etico e politico che avrebbe avuto l’elezione di Rodotà, dietro ai numeri di Grillo, è un atto di disinformazione e di manipolazione altrettanto ottuso e suicida quanto lo è stato il rifiuto di votare Rodotà, riaprendo la strada alla speranza. In molti e molte di noi è fortissima la voglia di cedere alla disperazione, alla rabbia impotente: dobbiamo resistere, capire come ricostruire, non chiuderci ciascuno nelle nostre certezze ma dialogare fra realtà anche molto distanti, nella società, nella cultura, nei movimenti di lotta, nelle formazioni politiche della sinistra.
Chi governerà con Berlusconi e i suoi, dovrà trovarsi di fronte un’opposizione non demagogica e distruttiva, ma propositiva e radicata nella società. Sarà durissimo, ma non impossibile: meno impossibile che fare qualcosa di buono insieme a chi da 20 anni demolisce i diritti, la solidarietà, la legalità.

IDENTITA E FRANCHEZZA, COERENZA E FERMEZZA
LA DIREZIONE NAZIONALE DEL PD E’ COMPOSTA DA  BEN 223 MEMBRI (LI TROVI TUTTI NOME PER NOME QUI http://www.partitodemocratico.it/utenti/direzione.htm) DOPO AVER PER BEN DUE VOLTE IN PRECEDENZA VOTATO UNANIMEMENTE CONTRO QUALSIASI IPOTESI DI FAR ENTRARE IL PARTITO IN UN GOVERNO CON IL PDL, IERI SERA HANNO VOTATO CONTRO QUELLA MEDESIMA IPOTESI SOLO IN 7 (E SI SONO ASTENUTI IN 14).
QUANDO SONO PROTETTI DAL VOTO SEGRETO PERO’, NATURALMENTE  I RAPPORTI DI FORZA CAMBIANO, COME SI E’ VISTO NELLE RECENTI VOTAZIONI PER IL QUIRINALE...
l’Unità 24.4.13
Dal Pd via libera al Colle ma la tensione resta alta
La scelta della Direzione approvata con 7 no e 14 astenuti
Marini: al governo i migliori dei nostri
I dubbi di Bindi Orfini e Serracchiani
di Maria Zegarelli


Le parole amare e dure di Pier Luigi Bersani, l’appassionato intervento di Franco Marini, i dubbi di Rosy Bindi e quelli di Debora Serracchiani e il dilemma di quanti oggi scoprono quello che era chiaro a tutti già sabato mattina quando i partiti si sono recati al Quirinale per chiedere a Giorgio Napolitano di accettare un secondo (inedito nella storia repubblicana) mandato. Il Pd deve dare il proprio ok ad un governo con il Pdl senza se e senza ma? Questo è l’ultimo dramma andato in scena ieri durante la direzione dei democratici, l’ultima con Pier Luigi Bersani segretario, la prima con le nuove geografie delineate, tappa finale che pone le basi della resa dei conti finale che si terrà nella prossima Assemblea nazionale.
Dopo un dibattito che è durato troppo poco rispetto a quanto avrebbe forse richiesto la delicatezza del passaggio e troppo per i tempi stretti imposti dall’appuntamento alle 18.30 al Colle, la direzione dà il via libera al documento con il quale assicura il pieno appoggio al Presidente per la formazione del governo mettendo «a disposizione la propria forza politica e le personalità del suo partito utili» . 197 presenti (su 223 aventi diritto), sette voti contrari (a cominciare dai prodiani Sandra Zampa e Franco Monaco) e 14 astenuti (tra cui Rosy Bindi, Matteo Orfini altri giovani turchi). Un via libera senza paletti che vincola il governo non solo al Paese ma anche al ruolo che dovrà svolgere in Europa e che aggiunge il lavoro tra le priorità e senza un limite al tasso di politicità. A fare il nome di Matteo Renzi, come premier, quando ormai ègiànotocheilPdlhapostoilvetoè soltanto Umberto Ranieri, mentre un fuorionda rimanda quel «ma questo qui deve parlare per forza», detto a bassa voce da Bindi.
Non è bastata la diretta streaming (che Dario Franceschini avrebbe evitato volentieri) a contenere le spaccature e le divisioni: sono lì, granitiche. «Qualcuno pensa che se ci sono degli irresponsabili, la responsabilità è del responsabile, cioè io», dice Bersani prendendo la parola e non facendo nulla per nascondere l’amarezza e la delusione per quello che è successo nell’ultima settimana, la più terribile da quando è nato il Pd. Gli irresponsabili, quelli che non hanno votato Marini, e poi Romano Prodi, quelli che alzano le mani, fanno applausi e sparano «missili a testata multipla», che prima o poi manderanno su Facebook qualche emendamento prima di presentarlo, quelli «che parlano di semipresidenzialismo alla francese per poi ritrovarsi al Sudamerica di 20 anni fa». Solo Dario Franceschini si alza per dargli la mano. «Bersani paga colpe non sue, a cominciare dai franchi tiratori», dice l’ex segretario che traccia la malattia che affligge il Pd: non la mancanza di solidarietà, «ma la mancanza di generosità, soprattutto nelle difficoltà». Franceschini non aggira il problema e arriva al punto: «Non esiste più il bipolarismo», nessuna forza da sola può farcela «e se Berlusconi con lo 0, 4% in più avesse preteso di decidere da solo noi avremmo occupato il Parlamento». E così, dopo tutti i tentativi falliti, dopo «non aver tenuto alla prima prova», come dice Bersani, per Franceschini non resta che votare sì al documento, «anche se sarà una decisione impopolare», assumendosi la responsabilità «di spiegare», a cominciare dal fatto che andare a elezioni con la stessa legge elettorale non cambierebbe nulla. «Napolitano ha chiesto di assumerci la nostra responsabilità, non di cederla a luidice invece Orfini – e il documento proposto è una cessione di responsabilità». Quando prova a proporre «paletti» al mandato partono i brusii, chiede un segnale di cambiamento nella formazione del governo, non cita Renzi ma è a lui che pensa. Il Pd, poi aggiunge, non può rinunciare a guardare a 360 gradi nel Parlamento, compreso il M5S.
Durissima la replica di Franco Marini, che per ora non vuole affrontare la «pratica Quirinale» ma dimostra di aver letto con attenzione tutte le dichiarazioni che lo riguardavano nelle ore della passione. «A 55 giorni dalle elezioni, con una situazione che non è migliorata, con un dramma sociale e un’Italia in ginocchio mi vieni a dire che hai interpretato il discorso di Napolitano e che bisogna ragionare a 360 gradi?». Marini che «nonostante quanto successo» non è stato sfiorato dall’idea «che ho fallito 25 anni fa nell’impresa di costruire il Pd», chiede un governo politico, «con i migliori dei nostri». Poi, ecco il sasso che dalla scarpa arriva dritto sulla platea: «Ci sono compagni e amici che qui dentro hanno bisogno di essere curati». Anche Anna Finocchiaro vuole un governo politico, «ci dobbiamo mettere la faccia» con «rappresentanti di partito che non siano segretari, ma eccellenze politiche». Stefano Fassina, che vota il documento, chiede al partito di essere «fattore propulsivo» e non «di blocco come siamo stati la scorsa settimana». Rosy Bindi auspica un governo del Presidente a bassa caratura politica e avverte: «Chi non si rimette alle decisioni del partito sulla fiducia ne trarrà le conseguenze. Il voto di fiducia non è un voto di coscienza». Francesco Vittoria dà un colpo frontale e inatteso, almeno qui, ad Alessandra Moretti che non ha votato Franco Marini, «dopo le comparsate in tv». Parole durissime, «non è possibile che il primo che passa viene scelto, che dobbiamo fare una scelta perché bella». Protesta la sala ma Vittoria non si ferma.
Andrea Orlando spiega la sua astensione: «Ho votato alle due precedenti direzioni una linea politica secondo cui le larghe intese si cercavano per il Quirinale ma non per il governo che doveva essere di cambiamento. Ero perplesso ma ho votato Marini, convintamente Prodi, poi ho proposto e votato Napolitano. Dopo 55 giorni non si può chiedere di votare un documento che non ci dà margini di manovra». Pippo Civati si astiene ma assicura che rispetterà la decisione del partito. Laura Puppato vorrebbe un governo breve, di scopo. Ma la maggioranza ha deciso: la parola a Napolitano e stavolta è vietato dire no in Parlamento. Tutto il resto è rimandato alla direzione, dove si chiederà un congresso anticipato, anche a costo di derogare le complicate norme dello Statuto.

il Fatto 24.4.13
Seduta di coscienza “Perché comunque vada è una porcata”
A Bologna i ragazzi di “Occupy Pd” si ritrovano dopo la Direzione:
“Ma non bruciamo le tessere”
di Martina Castigliani ed Emiliano Liuzzi


Chi è stato scelto?”. Al tavolino di piazza Verdi nel centro di Bologna, i giovani di Occupy Pd, il movimento spontaneo che si oppone all'alleanza di governo dalle larghe intese, arrivano in biciletta. Determinati nel continuare le occupazioni e con la consapevolezza che una protesta a nella città rossa vuol dire arrivare comunque al cuore del partito. Quello che era e resta il loro partito. “Con che nome ci presentiamo da Napolitano?”.
Sono cinque, studiano Giurisprudenza e Storia. A Bologna fanno politica e hanno una tessera del Partito Democratico, frasi che pronunciarle ad alta voce richiede una bella dose di coraggio. Lorenzo D’Agostino, risponde secco. “Figurati, come al solito. Non c’è nessun nome”. Poi la notizia: o Letta o Amato. “Comunque vada è una porcata. Ma a questo punto va bene tutto, anche Gianni Letta. Ah no, è vero, il nostro si chiama Enrico”. Scherzano, anche se a fatica. Sono giovani, ma con l'ala giovanile del partito non sono mai andati molto d’accordo. “Sono mesi che rispondiamo alle lamentele di amici e conoscenti per decisioni che tanto vengono prese dalla segreteria a Roma. Qualcuno ci ha mai chiesto nulla? No, e non è facile”.
ESSERE del Pd, a poco più di vent’anni, fare politica in piazza Verdi. A volte stanca anche un po’. “Noi le tessere non le bruciamo”, dice Nicola Degli Esposti, “se volevate vedere quelle scene avete sbagliato tutto. Vogliamo un’altra chance e adesso si fa come diciamo noi”. La diretta streaming della direzione del Partito Democratico l’hanno guardata a casa, prima di in-contrarsi. Nessuna proiezione nei circoli, nessun incontro ufficiale: “E’ un giorno lavorativo, non c’era tempo per organizzarsi. Il nostro Occupy Pd sarà in Bolognina, insieme ad altri del partito. Andremo a dire quello che pensiamo”.
Pensano che accettano la situazione, e che anche queste volta sono pronti a stringere i denti. Pensano e capiscono quelli che voteranno l’inciucio, ma apprezzano chi ha il coraggio di non farlo. Pensano che al prossimo congresso c’è da rifondare tutto. “E’ l’ultima opportunità. I vecchi non se ne vanno da soli. Voi che ci criticate, venite a darci una mano a rifondare tutto”. Francesco Coco nella giovanile del partito è stato anche segretario. Poi, dice, troppe correnti e la voglia di fare una politica diversa: “Il rischio è che i rottamatori siano dei riciclati. La base chiede altro. Prodi, ad esempio era il candidato perfetto. Se ci fosse stato un sondaggio tra gli elettori avrebbe preso il 99%. Dobbiamo fare un bagno di umiltà tutti e andare avanti”.
Il tasto dolente sono i giovani del Pd, quelli dell’apparato di partito, schiacciati tra le mille correnti e che in giacca e cravatta ripetono il gioco degli esperti. Fausto Raciti, per esempio. “Se siamo a questo punto”, continua Lorenzo, “è perché ci sono dei responsabili, dirigenti che dovranno assumersi le colpe, ma anche dei co responsabili. Trentenni che hanno accettato tutto”. Lottano da tanto tempo, dicono. Mandano email, chiamano gli eletti, scrivono articoli e pubblicano note su Facebook. Le discussioni si trovano a farle nei circoli occupati, ma anche nei bar o a casa di uno di loro a turno. Presto apriranno un blog, Ruithora.org   , ci scriveranno quello che pensano .
Passano i minuti e la notizia è sempre quella. Le larghe intese e l’inciucio, ma di abbandonare il Pd non se ne parla. “No, per andare dove? – dice Giacomo Robboni – torniamo indietro? Andiamo contro la tendenza di tutti i paesi europei? Ci vuole una forza di sinistra e bisogna riformare quella”. Si va avanti e con un nuovo leader.
GIUSEPPE CIVATI, ad esempio. “Io temo sia troppo isolato sul suo blog – commenta Francesco. “Lo emarginano gli altri”, risponde Nicola. “A noi piacerebbe molto”. Nemmeno Matteo Renzi fa paura a quella che sembra l’ala più a sinistra del Partito Democratico: “Potrebbe essere la soluzione”, è quello che dice Iacopo Versari. “Soprattutto se dietro di lui si riforma l’apparato”. Di certo i cattolici sono l’ultimo dei problemi. “Sono discorsi assurdi abbiamo visto come si sono comportate le forze di centro. Probabilmente D’Alema è ancora lì che si strofina le mani pensando a come non scontentare i moderati”. Una battuta, ma non ride nessuno. “Come facciamo a pensare che l’Italia sia un paese moderato, là dove ci sono 8 milioni di poveri? E’ l’errore del nostro partito, preoccuparsi di quello che scrive il Corriere della Sera e non andare ad ascoltare i cassintegrati”. 

l’Unità 24.4.13
Il tour di Barca tra gli iscritti. «Il Pd è di sinistra»
di Roberto Rossi


La parola «Sinistra» rimbalza tra le foto di Enrico Berlinguer, Nilde Iotti e Aldo Moro. La sezione di via dei Giubbonari è stracolma. Lunedì sera a Roma piove a intermittenza. Nella storica sede del Partito democratico la gente si assiepa dove può. Chi sale sui davanzali delle finestre, chi si accontenta della sala attigua, chi è costretto ad aprire l’ombrello e aspettare fuori. C’è il ministro Fabrizio Barca in sala. L’uscita non è casuale. Il circolo, che conta 440 tessere, è quello in cui è iscritto. Ed è qui che, per la prima volta, illustra pubblicamente il suo documento per rifondare il Pd.
Quella parola, «Sinistra», la lancia alla platea più di una volta. Piace. La gente che è accorsa qui ha bisogno di sentirsi dire che esiste ancora. Barca, quel termine, lo carica, però, di significati nuovi. Molto Amartya Sen, poco Willy Brandt, un pizzicco di Raffaele Mattioli. La identifica, la seziona, la rimpasta. Ne crea una nuova forma con le matrici, però, di quella precedente: «Nel documento sono presenti tre culture: socialista, liberale, cristiano sociale». Marco Lepizzera ascolta attento. Marco è di Latina, ha 22 anni, ma parla con la serietà di un quadro di 60. È venuto perché Barca riprenda le radici “vere” della «Sinistra», quella con la «S» maiuscola, perché allontani il Pd da tentazioni di “blairismo”.
Ma se le radici sono salve il nuovo Pd di Barca sarà, comunque, differente. «La profonda crisi che attraversa l’Italia dipende anche da partiti troppo Stato-centrici, troppo dipendenti dal finanziamento pubblico», che crea un legame viscerale tra le due entità che spesso si sovrappongono. «I partiti devono essere separati dallo Stato, devono arrivare a
sfidarlo» e, magari, se serve, «far saltare le classi dirigenti» (applauso) e «mandare molti a casa» (altro applauso). E poi bisogna cambiare la macchina statale, «troppo arcaica», «funzionale alla sopravvivenza di una certa classe dirigente» che Barca definisce «rentier».
Concetta, 49 anni è di Roma. Insegna diritto all’università del Sannio ed è una delle iscritte di via dei Giubbonari. Mentre Barca parla di futuro, volando alto, lei fatica a immaginarsi il presente. Ci dice sottovoce che è preoccupata sulle sorti del Pd ma che alla fine si riprenderà. Ne è sicuro anche Andrea Ulgheri, 23 anni, studente di Economia. «La scissione non ci sarà. Il futuro del partito è lui e Renzi». In questa modalità: «Barca segretario, il sindaco di Firenze premier».
Ecco, Renzi. C’è anche lui in via dei Giubbonari. Non nelle parole di Barca, che lo cita solamente una volta, ma la sua presenza si avverte. «Renzi?» dice Carlo Manfredi, 45 anni consulente, «ha capacità ma non ha lavorato per il bene del partito. In questo Marini ha ragione: le sue mosse sono dettate dall’opportunismo». Ma nonostante tutto non vuol sentire parlare di scissione. «No, se ne vada
piuttosto chi ha causato i danni al partito». Già, chi? Quelli che non hanno votato per l’elezione di Marini o quelli che hanno voltato le spalle a Prodi? Franco Cervini, 59 anni, una vita di militanza, oggi dirigente statale, la spiega così: «Nel caso di Marini il dissenso è stato aperto, in un certo modo si sapeva. Su Prodi no. Quella è stato un vero e proprio tradimento».
Mentre lo dice, dal microfono dal quale il ministro sta ancora illustrando, risuona ancora quel termine. «Recuperiamo la parola “Sinistra” sottolinea Barca facciamo un partito aperto, separato dallo Stato. Con una netta distinzione tra eletti e dirigenti» e «un meccanismo sanzionatorio duro» per chi questa separazione non la rispetta. Un partito «che non può essere una scuola di vita come fu il Pci e la Dc, ma che presenti simboli forti, che devono necessariamente escludere». Non può esistere un Pd che vive solo come «macchina elettorale. In questo modo non riusciamo a creare appartenenza».
Quella che cerca Vincenzo Messina, 32 anni assicuratore. «Sono venuto a sentire se Barca mi convincerà ad iscrivermi. Mi auguro una nuova forma di rappresentatività. Se Barca riuscirà a farmi capire dove vuole indirizzare il Pd, se mantiene le promesse, prendo la tessera». Andrea, 40 anni, barba e occhiali, iscritto proprio qui, aggiune: «Il problema è proprio questo: riuscire a tradurre in realtà un’idea valida in teoria».
Barca si dà sei mesi di tempo. Fino al congresso di ottobre (ammesso che non si faccia prima). Girerà i circoli e l’Italia. «Mi sono iscritto per restare e non andarmene dopo cinque giorni» dice. «Fino a qualche mese fa non credevo nel Pd. Pensavo che avesse ragione Emanuele Macaluso: che questo partito fosse nato da una fusione a freddo». Poi la folgorazione: «Ho incontrato i “territori” e scandisce la parola e ho trovato tra gli amministratori locali competenze enormi che non riescono ad arrivare a Roma». A questo serve il suo progetto: a dare nuova linfa e nuovi confini al Pd. «Che è un partito di “Sinistra”».
Dopo due ore e mezza il dibattito si chiude. Giulia Orso, 49 anni, segretario del circolo, prende la parola. Annuncia che tra sabato e domenica, cioè nel momento più duro, dove tutto sembrava crollare, ci sono stati tre nuovi iscritti. «Siamo vivi», la “Sinistra” è viva.

l’Unità 24.4.13
Nel Pd romano segreteria dimissionaria. Scontro sulle liste
di Jolanda Bufalini


Ancora dieci giorni fa sembrava che i contrasti, pur forti, fossero sotto controllo. Così ieri mattina, quando il segretario del Pd romano Marco Miccoli ha scoperto leggendo i giornali di essere decaduto e, come lui, ha letto la novità sulla stampa il segretario del Pd del Lazio Enrico Gasbarra lo choc è stato violento. È vero che la commissione di garanzia ha deciso a norma di Statuto (che prevede l’incompatibilità fra il mandato parlamentare e gli incarichi esecutivi nel partito) ma è anche vero che la decisione, a tre giorni dalla presentazione delle liste, a un mese dalle elezioni, presa in totale solitudine, ha lasciato di stucco. Senza contare che il dramma è andato in scena mentre, a livello nazionale, se ne rappresentava uno ancora più duro. Nel pomeriggio di ieri c’è stata una riunione al regionale, fra Gasbarra, Miccoli, i responsabili organizzativi, i presidenti delle assemblee Marta Leonori e Eugenio Patané.
La richiesta fatta da Gasbarra a Marco Miccoli di portare a termine, anche sul piano notarile, la composizione delle liste, è andata a vuoto. La decisione del segretario romano di non tornare sui suoi passi è stata determinata dal convincimento che i suoi rapporti si sono deteriorati anche con l’area di maggioranza a cui fa capo.
Non solo, quindi, i dissensi di chi lo ha accusato di spostare troppo a sinistra il partito, con la gestione delle primarie. Il segretario è stato sentito troppo di parte prima dai renziani, al momento delle primarie per la leadership nazionale, poi dai contendenti di Ignazio Marino. Ma i rapporti si sono deteriorati anche in quella parte che fa capo a Zingaretti e che non ha visto il Pd romano impegnato nelle regionali. Ma non solo, nessuno ha lavorato, nella sfida per il Campidoglio, e quindi nella preparazione delle liste alla presenza di realtà importanti, come le grandi aziende capitoline (Atac, Ama, Acea) o il mondo complesso del commercio e delle imprese, del cinema, che nella capitale è una industria importantissima. Senza contare i rischi di scissione che dal palcoscenico nazionale possono avere una ricaduta romana. E, se c’è già rottura dentro «Italia bene comune», si riuscirà a andare avanti con «Roma bene comune»?
A questo punto il rebus non è facile, il segretario regionale non ha poteri di commissariamento, se non dopo la convocazione dell’Assemblea che deve eleggere un nuovo segretario. Così, a cercare di arginare la falla sarà il presidente del partito romano, Eugenio Patané, che deve portare a termine la pratica delle liste e convocare l’assemblea. Sulle liste si prevede qualche cambiamento, da contare sulle dita di una mano, per cercare di dare soddisfazione alle aree che si sono sentite escluse: quella di D’Ubaldo, che fa capo a Franceschini, quella di Di Stefano che fa capo ai lettiani.
Silvio Di Francia, che lavora al comitato di Marino sindaco in quota Renzi, nega che ci sia un problema «renziani». Semmai c’è il problema di «un partito che, mentre a livello nazionale la casa brucia, si accapiglia sulle preferenze». Non c’è una data sull’assemblea e in molti sperano che non sarà convocata prima delle elezioni, anche se qualcuno ipotizza che già a maggio potrebbe svolgersi un primo atto per avviare, in autunno, la fase congressuale. Sarebbe «una baraonda insostenibile», dice Enzo Foschi, anche lui impegnato nel comitato di Marino. Foschi difende le scelte territoriali compiute nei municipi: «La scelta del territorio collide con quella della rappresentanza plurale delle anime del partito. E questo correntismo esasperato è inaccettabile».

l’Unità 24.4.13
Vendola: con governissimo, noi all’opposizione


«Siamo contrari alla formula del governissimo sostenuto da un'alleanza di cui sia perno il rapporto tra Pd e Pdl». Lo ha detto il leader di Sel, Nichi Vendola, al termine dell’incontro con il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Questa alleanza non è a nostro giudizio la soluzione ai problemi drammatici del Paese», ha aggiunto Vendola, secondo il quale «se sarà governissimo, per noi sarà il tempo dell’opposizione» perchè Sel non «darà la fiducia a qualsiasi governo che abbia il blocco berlusconiano al suo interno». Il suo partito sarà però «disponibile a giudicare ogni singolo provvedimento che quel governo metterà in campo perché non ci sfugge la drammaticità della situazione del Paese». E le sue intenzioni non cambierebbero, neanche se fosse Renzi il premier: nessun nome può «farci cambiare giudizio se nel futuro governo c’è chi ha portato il Paese allo sfascio». In ogni caso al governo che verrà, sottolinea il leader di Sel, spetterà di rispondere sul rifinanziamento degli ammortizzatori sociali, sulla «chiusura della partita penosa degli esodati, abbattimento dei vincoli sul patto di stabilità, riapertura di un negoziato con Bruxelles che ci consenta di fuoriuscire dalla palude delle politiche di austerity». E da Sel, assicura, arriverà « collaborazione su ciò che può alleviare i dolori del Paese». Mentre all’indirizzo di Napolitano ci tiene a esprimere «sentimenti di ammirazione per aver accolto l’invito pressante delle principali forze politiche ad accompagnare il sistema politico-istituzionale fuori da una situazione di stallo e di paralisi».
Per oggi, intanto, è stata convocata la direzione nazionale di Sel.

l’Unità 24.4.13
Sicilia, Movimento in rotta con la giunta Crocetta


Tempismo sorprendente: il modello Sicilia non esiste più. A celebrare il funerale della sola esperienza di positiva collaborazione tra Cinque Stelle e sinistra, un post pubblicato ieri sul blog di Grillo. Proprio mentre il Pd affrontava un delicatissimo passaggio della sua esistenza e discuteva di un nuovo governo da allestire, su indicazione del Presidente, con la destra di Berlusconi. Certo, non è facile arrendersi alla casualità di un sincronismo perfetto tra la vicenda siciliana e quella del Pd nazionale. Aria di vendetta? Intanto, il movente. «La vecchia partitocrazia usurata dal clientelismo (Pd, Pdl, Udc e lo stesso governo di Rosario Crocetta), ha fatto quadrato sul bilancio»: così lamenta il post. I 15 consiglieri regionali del M5S siciliano affermano che la commissione Finanze avrebbe tagliato tutti i loro emendamenti. Questo, pochi giorni dopo una precedente frattura tra Crocetta e grillini, a proposito di un altro provvedimento. Si tratta della doppia preferenza di genere, e cioè della possibilità, per gli elettori siciliani, di votare due candidati, ma di genere diverso: a partire dalle comunali di giugno, si potranno votare una donna e un uomo, non due uomini. La proposta era del governo di Crocetta appoggiata dall’Udc e poi fatta propria anche dal Pdl. I parlamentari 5 Stelle hanno obiettato: una manovra utile a foraggiare il voto di scambio. Ma l’avrebbero accettata a condizione di introdurre il principio del seggio unico nello spoglio delle schede che tuttavia è stato rigettato. Crocetta invita alla riflessione: «Non si possono sempre incassare tutti i risultati, per approvare leggi si fanno mediazioni». Ma sembra proprio finito l’idillio, e i Cinque Stelle ci tengono a sottolinearlo: «Anche in Sicilia il modello è quello dell’inciucio Pd-Pdl. La rivoluzione di Crocetta è finita prima di cominciare». E in Sicilia si volta pagina.

Corriere 24.4.13
Lo sfogo di Bersani: nel Pd rischio anarchia il centrosinistra
«Non abbiamo retto»
di M.Gu.


Il leader lascia: non abbiamo retto. Sì al capo dello Stato, restano le spaccature
ROMA — L'addio di Pier Luigi Bersani è un drammatico mix di rabbia e di orgoglio, una terribile sferzata ai «traditori» che lo hanno pugnalato alle spalle, venendo meno a «decisioni formali e collettive» in un momento cruciale, «sull'orlo di una crisi gravissima senza precedenti».
Parole come pietre e dimissioni confermate ufficialmente, anche perché nessuno, forse conoscendo il tormento del leader disarcionato, ha preso la parola per chiedergli di restare. Giornata aspra, non fosse per l'approvazione del documento con cui la direzione nazionale dà il via libera al governo del presidente. Niente nomi, ma i democratici mettono a disposizione le loro «forze e risorse» per l'esecutivo.
La riunione è breve e sofferta, c'è Veltroni ma non D'Alema, Matteo Renzi è in terzultima fila e sceglie di non parlare. E quando i 197 partecipanti alzano la mano per votare, il documento passa. Restano i maldipancia dei «giovani turchi», che hanno provato a lanciare il sindaco di Firenze ma non hanno trovato il sostegno della maggioranza. E resta il forte disagio di prodiani e bindiani. Tra i sette contrari Franco Monaco, Marina Magistrelli, Laura Pennacchi, Marco Pacciotti. Tra i quattordici astenuti, oltre a Rosy Bindi, Matteo Orfini, Andrea Orlando, Laura Puppato, Sandro Gozi, Pippo Civati e la portavoce di Prodi, Sandra Zampa. Debora Serracchiani vota sì, ma vuole capire (tra gli applausi) perché «abbiamo votato no a Prodi e a Rodotà».
Anna Finocchiaro spinge per un governo a forte intensità politica: «Pensate che ai cittadini possiamo propinare il secondo governo tecnico? Se faremo male ci lapideranno, ma mettiamoci la faccia». C'è anche Franco Marini, altro leader storico del centrosinistra impallinato dal fuoco amico. Per l'ex presidente del Senato il Pd non è fallito, lui ci tiene ancora e lo dimostra, senza astio e senza veleno. Loda con forza Napolitano e attacca Matteo Orfini, che ancora chiede di aprire ai Cinquestelle e, tra i mugugni, di mettere «paletti» al governo. Ed è a lui che parla, per parlare a tutti: «Non lo hai già consumato il tempo per convincere Grillo a un accordo, col Paese in ginocchio?». Quando Marini ha finito, Bersani si rivolge al partito: «Non mi convincete che Franco non sarebbe stato un buon capo dello Stato...».
L'uomo di Bettola lascia e la sua uscita di scena è un durissimo atto di accusa, è il ritratto a tinte forti di un partito squassato dall'«anarchismo» e dalla «feudalizzazione». I democratici, accusa, hanno perso autonomia, «fino al punto di essere inservibili al Paese» e per uno come lui, che ha sempre visto nel suo partito l'unica salvezza per l'Italia, è il dolore più grande: «Per la prima volta siamo stati messi di fronte alle nostre responsabilità e non abbiamo retto». E ancora, come in un processo collettivo: «Dobbiamo darci un principio d'ordine, altrimenti invece di un soggetto politico c'è uno spazio di gioco, un autobus, un ascensore, un nido per un cuculo...». E qui Bersani critica Gherardo Colombo, che voleva prendere la tessera del Pd solo per stracciarla pubblicamente e accendere i riflettori su di sé.
Quale sia il suo stato d'animo, l'ormai ex segretario lo ha lasciato capire senza infingimenti. Deciso a squarciare il velo dell'ipocrisia che ha portato il primo partito del Paese al collasso, ha ricordato che il no alle larghe intese gli è costato Palazzo Chigi. «Se qualcuno pensa che ci sono degli irresponsabili la responsabilità è del responsabile, cioè io — ha sferzato i suoi l'ex ministro — e voi capite bene che, con tutta la buona volontà, non posso accettare una cosa del genere». E basta con le giustificazioni «pericolose», perché altrimenti si rischiano «esiti letali». Se Renzi, poi, pensa a un accordo sul semipresidenzialismo alla francese, Bersani avverte: «Ma vogliamo scherzare? Ci ritroviamo nel Sudamerica di 20 anni fa, e per certi versi siamo già lì». La strada da fare è tanta. Prova ne sia l'intervento «misogino» con cui il campano Francesco Vittoria ha preso di petto Alessandra Moretti, criticando Bersani che l'avrebbe scelta soltanto «per la sua bellezza». Un'uscita che strappa boati di disapprovazione. «Il Pd — commenta Anna Paola Concia — è la Bosnia».

Corriere 24.4.13
Caccia ai 101 «traditori» e qualcuno tira in ballo i big
«Chi lo fa è un caso clinico»
«Ha un disturbo ossessivo-compulsivo»
di Alessandro Trocino


ROMA — «I franchi tiratori? E mica sono l'ispettore Clouseau». Ugo Sposetti — che peraltro figura nell'elenco (chilometrico) dei sospettati — la butta sul ridere, nega responsabilità ma si dice pronto a indagare: «Se il partito mi dà l'incarico, gratuitamente s'intende, li scopro di sicuro: ho i miei metodi». Difficile, probabilmente neanche con il waterboarding, la tortura dell'acqua, si riuscirebbe a far venire allo scoperto i franchi tiratori che hanno impallinato Romano Prodi. Un delitto perfetto, con 101 esecutori materiali che l'hanno fatta franca e siedono serenamente in Parlamento.
L'indagine è dura ma stavolta non si brancola nel buio. Prove non ce ne sono, e non ce ne possono essere perché il voto è segreto, ma di indizi ce n'è a valanga. E i moventi non mancano. Ernesto Carbone, il renziano che nel 2006 organizzò il pullman per la campagna di Prodi, va oltre Bersani: «Traditori? Sono vigliacchi, quacquaracquà». La categoria peggiore degli esseri umani, per il don Mariano di Leonardo Sciascia. Sì, ma chi sono questi quacquaracquà? «Magari i dalemiani, perché D'Alema voleva fare il capo dello Stato ed è un nemico da sempre di Prodi; ma anche i franceschiniani, perché Franceschini voleva fare il presidente della Camera; e i mariniani, perché sono rimasti scottati dalla mancata elezione di Franco Marini». E i renziani? «No, ci metto la mano sul fuoco. Tutti e 55 eravamo compattissimi». Alessia Morani conferma: «I renziani non c'entrano, lo dico da bersaniana». Sergio d'Antoni passa vicino e si indigna: «E perché non pensare anche ai bersaniani? Sono stati episodi gravissimi, sia i franchi tiratori di Marini, sia quelli di Prodi. Ma, certo, se cambi linea in 12 ore cosa pretendi?». Comunque, dice Rosa Calipari, «è stato fuoco amico, vile e immorale».
Sandra Zampa, portavoce del Professore, non nasconde l'indignazione. Prodi aveva capito, dice. Ma i nomi non li fa: «Franceschini? Non credo, si è dato un gran da fare per Prodi. Ma non metterei la mano sul fuoco per i suoi. Poi c'è l'area di Fioroni. Ma non Simonetta Rubinato». E quindi? Casca a fagiuolo un proverbio di famiglia: «Dice così: io non fumo, tu non fumi, ma c'è una cicca sul comò». Di chiunque sia la cicca, spiega, «è la fine di un equivoco, la prova provata che il Pd non è mai nato. E che non siamo in grado di rispondere seriamente agli elettori che ci dicono "suicidatevi in una fogna"».
Beppe Fioroni, tra i principali indiziati, non ha intenzioni anticonservative (come direbbero gli inquirenti) e respinge l'attacco della Zampa: «È un caso clinico, ha un disturbo ossessivo-compulsivo contro di me». Quanto ai suoi, Fioroni minimizza: «Ma no, sono al massimo 12-13». E naturalmente non c'entrano: «Dovete guardare al cui prodest». Già, «cui»? «Prodest ai renziani che volevano la dissoluzione di questo Pd e le elezioni anticipate». E voi? «Noi abbiamo fatto la foto della scheda». Si può vedere? «Neanche per idea». In effetti sarebbe reato, ma Fioroni assicura che «girano almeno 30 foto di schede». «Ma va' — risponde la Zampa — è sempre la stessa, se la sono girata via mail».
E dunque chi è stato? Walter Verini, veltroniano doc: «Sono state le correnti: bande armate organizzate per ammazzarsi a vicenda e spartirsi le poltrone. Questo voto è l'effetto delle correnti, non il contrario». Bande armate? Sergio Lo Giudice, nella banda Marino (Ignazio), è tra gli indiziati: «Io no di certo, ho scelto Rodotà al posto di Marini, ma poi ho votato Prodi». Sicuro? «Convintissimo. Chi ha tradito ha fatto una brutta cosa, da sciacallo vero». E chi sarebbero questi sciacalli? «Mah, nemici storici di Prodi. Capibastone». Parla di Massimo D'Alema? «L'ha detto lei. Magari non lui, ma i suoi seguaci. È stata la somma di tanti piccoli sgambetti».
Sandro Gozi, prodiano, punta il dito contro «l'area D'Alema e i vari popolari». E perché avrebbero dovuto? «Molti avevano paura che con Prodi non sarebbe nato un governo e quindi si sarebbero sciolte le Camere. E molti hanno creduto alla storiella del patto Prodi-Renzi: la sua elezione sarebbe stata una vittoria per quest'ultimo». Gozi è sconcertato: «È stata una cosa anche eticamente gravissima. Su Marini ci sono stati 9 interventi, di cui 7 contrari all'elezione, 222 voti a favore, 90 contrari, 37 astenuti e molti assenti. E quindi i franchi tiratori ci stavano. Ma su Prodi c'è stata l'unanimità». In effetti nessuno ha alzato la manina né ha sollevato dubbi. «Ma almeno un quarto della platea — chiarisce Verini — non si è alzata e ha applaudito in ritardo. C'era una claque evidente dei renziani».
Un quarto dell'assemblea. Chi li ha visti? Nessuno, naturalmente. Possibile? «Nessuno si è esposto, non ho visto anima viva», conferma Lo Giudice. I dalemiani? «Non guardate agli ex comunisti — dice Nicola Latorre, già colonna dei dalemiani e ora (scherza, o forse no) «indipendente di sinistra» —. Loro sono abituati a votare con disciplina».
Qualcuno ha sentito Luciano Pizzetti parlar male di Prodi. Lui smentisce e conferma la terna secca: «Ho votato Marini, Prodi e Napolitano». Non cede di un millimetro neanche il veltroniano Raffaele Ranucci, tra i sospettati: «Ho votato Marini, Prodi e Napolitano». Sicuro? «Certo, ho detto che non mi piaceva la candidatura di Prodi perché rischiava di dividere. Ma poi l'ho votato».
Altro giro, altri sospettati. Tino Iannuzzi: «Ho votato Marini, grande figura del cattolicesimo democratico e Prodi, straordinario padre dell'Ulivo. Non temo smentite». Francesco Saverio Garofani (Area Franceschini): «Noi traditori? No, perché avremmo dovuto?». Claudio Moscardelli: «Ho votato Prodi, certo, l'avevo scritto anche su Facebook». Va bene e allora chi ha tradito? «Beh, certo, la mancata elezione di Marini ha lasciato qualche strascico. E poi tra gli irresponsabili ci sono quei giovani che si sono lasciati influenzare dai social network». Addirittura? «Guardi sì, è incomprensibile anche per me. La rete è come la base, non sempre bisogna dargli retta. Cosa sarebbe successo con l'amnistia ai fascisti di Togliatti, e con la solidarietà nazionale, se si fosse consultata la base?». Daniele Marantelli accusa i «cani sciolti»: «Ma quale regia. Magari ci fosse stata, vorrebbe dire che c'è qualcosa di organizzato nel Pd. Ci sono troppi sconosciuti che hanno sentito la pressione esterna». Pippo Civati non ci sta: «Lasciate stare i giovani. Cercate invece tra i parlamentari a cui convenivano l'elezione di Napolitano e le larghe intese».
L'indagine arranca, va verso l'archiviazione. Io non fumo, tu non fumi, ma ci sono 101 cicche sul comò.

Repubblica 24.4.13
Tra sfoghi e colpi bassi va in onda sulla web tv lo psico-streaming del Pd
Da Bersani alla Bindi, l’autocoscienza del partito
di Filippo Ceccarelli


SFOGATOIO pd in psicostreaming. Ovvero: come le nuove piattaforme digitali cambiano e nel caso specifico alterano, anzi stravolgono e comunque drammatizzano oltre ogni limite, anche di buona creanza, il linguaggio della politica in un passaggio cruciale.
E in compenso riacquista peso, se non la verità, almeno una certa aderenza ad essa, per quanto cruda, e così fra battibecchi e fuorionda, inquadrature impietose e brulichio in sala, per la prima volta di colpo sugli schermi della rete si è potuto vedere il Partito democratico come mai finora si era visto.
Incidenti e/o fraintendimenti a loro rivelatori. «Ma questo — si è sentito da parte di Rosy Bindi nel mentre il compagno Ranieri proponeva Renzi — ma questo lo dobbiamo far parlare per forza? ». Vero è che la presidentessa (dimissionaria) non ha peli sulla lingua, come noto, e infatti giù per la strada, duramente contestata da un militante parecchio animoso, la si è sentita borbottare: «Ma io gli do un pugno! ».E tuttavia la scenetta non c’entra con la diretta web. Quest’ultima semmai ha offerto ai navigatori visioni meno movimentate, ma assai più spettrali. Bersani ad esempio non ha perso una certa attitudine pedagogica, ma in nemmeno due mesi sembra invecchiato di dieci anni. Ciò nondimeno si è comportato come se fosse ancora il leader, cioè sedeva al tavolo della presidenza, ha aperto la riunione, e poi ha commentato, ha risposto, ogni tanto si alzava passeggiando avanti e indietro senza curarsi della telecamera.
In tutti, per una volta, il nervosismo era palpabile e a tal punto manifesto da tener fuori dalla sala il grande, sottile, furbo e reticente Narciso che di solito governa questo tipo di incontri. Un contributo particolare, nel senso della tensione, è venuto sin dalle prime battute dall’esponente campano Francesco Vittoria, il quale ha ritenuto di accennare, in modo invero non troppo cavalleresco, al caso di Alessandra Moretti, già portavoce bersaniana in fase di pentimento, e al criterio di selezione dei dirigenti in base a criteri estetici e di casting. Dal fondo si sono sentiti rumori e preteste.
A quel punto Bindi ha fatto un tenue appello alla necessità di raffreddare clima. L’onorevole giovane turco Orfini, negli ultimi giorni non esattamente rimarchevole per coerenza, ha pronunciato quindi un discorso forse un po’ troppo obliquo per non suscitare la sua quota di reazioni e brontolii. Si consentirà di non entrare nel merito politico del dibattito e delle singole posizioni, anche perché era il tratto umano, per una volta, erano i volti, gli sguardi, le smorfie, le rughe, gli applausi stentati del consesso che secondo inedite modalità si guadagnavano l’attenzione del pubblico.
L’estetica streaming d’altra parte era quella che era; e anche la regia, a parte un pregevole primo piano di Letta che maltrattato dalla solita Bindi ha preso a massaggiarsi stizzosamente una guancia con il pollicione. La fissità delle immagini, la sala piena di ombre, i dirigenti ripresi da dietro, qualcuno che sempre passa come un’ombra fuggevole sullo sfondo; l’impressione generale, insomma, confermava quella espressa da Michele Serra dopo l’incontro tra Bersani e il M5S: «porno fatti in casa» e «consolle da guardiole di sorveglianza».
Si sa: il mezzo è il messaggio. Franco Marini, redivivo, è apparso sul video piuttosto lucido e a suo agio, perfino ringiovanito.
Come se nulla fosse, o quasi. Bersani si è infelicemente complimentato ribadendo che sarebbe stato un ottimo presidente della Repubblica. Abbastanza dialettico Franceschini, ma preoccupato. Con comprensibile partecipazione ha rammentato la brutta avventura del ristorante. Molto risentita, per quanto indomita, Anna Finocchiaro per la storia delle padelle Ikea rinfacciatale da Renzi, e ha rimproverato al partito — leggi Bersani e nomenklatura — di aver tutelato lei e altri dirigenti.
Traumi, rancori, dimissioni, resa dei conti, colite spasmica e commozione cerebrale, tutto ormai è sottosopra nel Pd. E il tempo stringe, Napolitano aspetta una qualche delegazione del Pd. «Alle 18,30 — avverte Ranieri, tanto per distendere gli animi — si chiude il portone del Quirinale». L’elenco degli iscritti a parlare è ancora lungo. Debora Serracchiani vorrebbe tanto «portare luce e speranza», ma chiede conto degli errori. Bersani le risponde, classico dialogo tra sordi. Tutti cominciano col dire che questo o quello ci sarà tempo di affrontare, ma ora occorre prendere una decisione, presto, presto, presto. Viene da chiedersi come mai si sono riuniti solo alle 16 e non prima. Cosa avranno fatto la mattina? Lo sanno o no che molte federazioni sono occupate?
Ma soprattutto viene da pensare: ecco che cosa succede quando un partito, estenuato da un numero inverosimile di caminetti e paralizzato da finti unanimismi, perde completamente non solo l’abitudine di confrontarsi e votare, ma anche quella di dire ciò che si pensa veramente.
Bersani di nuovo si sgranchisce le gambe. Letta ha la faccia del gatto mammone e legge l’ordine del giorno. Bindi sbuffa e stringe. Tre minuti per Fassina: non memorabili. Per Gentiloni, moscio anziché no. Per Laura Puppato, resta in testa solo un suo accenno alla «malattia». Renzi, beato chi l’ha visto, il suo alias elettronico è in sala, ma fuori dagli schemi. E come pure si può dire: chi s’è visto, s’è visto.

Repubblica 24.4.13
L’hashtag della direzione scala le vette di Twitter
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Per il quartier generale democratico non suonerà certo consolatoria la circostanza che l’hashtag #direzionePd abbia scalato ieri la classifica delle tendenze di Twitter, restando in cima per buona parte della giornata. Ma servirà almeno a chiarire la passione con la quale la Rete — che tanto ha pesato nel travaglio — ha osservato le mosse di Pierluigi Bersani e del Partito democratico. I commenti, però, quelli sono impietosi, irridenti o sconsolati. Come sempre.
Apre le danze un cinguettio che esprime bene il sentimento del web. «Tafazzi segretario subito — scrive un utente — almeno si capisce perché tanta gente, con idee tanto diverse, debba stare nello stesso partito». E un altro, telegrafico: «Tafazzi Bene Comune».
“L’incazzoso”, così si firma, indica invece la via d’uscita suggerita ai democratici: «In fondo al burrone». L’alternativa? «Contro un iceberg». E un altro tweet gira il coltello nella ferita: «Un dramma da ridere».
C’è anche chi preferisce affidarsi impietosamente alla memoria: «Sono lontani i tempi di quello show su Sky prima delle primarie. Quando credevano d’avercela in mano, l’Italia». Non piace né la prosa, né la sostanza dell’ordine del giorno approvato: «L’ho letto due volte. Ve lo spiego in modo semplice: non dice una beata minchia».
La durezza della Rete si tocca con mano scorrendo centinaia di tweet. E si mischia all’ironia: «Cioé, sapemo i nomi de chi ha tradito Cristo e nun sapemo quelli de chi ha tradito Bersani?». Non è solo la segreteria ad essere sotto esame, anche Matteo Renzi non è immune da critiche: «La cosa che non ho capito è: dov’era Renzi? Parla ovunque, in tv, ad “Amici”, pure da solo, ma non in direzione!». Qualcuno, invece, picchia duro sugli ex popolari: «Solo una domanda: ma Marini e la Bindi hanno ancora la faccia tosta di aprire bocca? Irrecuperabili ». Altri ancora su Enrico Letta: «Ditta E. & G. Letta, presto nel tuo Parlamento di fiducia».
Non piace quasi nulla della linea scelta dai democratici. Soprattutto l’intesa con Silvio Berlusconi: «Scusi la direzione Pd? Mmh, in fondo a destra...». C’è chi è ancora più esplicito: «Quanta presunzione, questo papocchio di governo con Berlusconi durerà neanche tre mesi».
Per chiudere l’impietosa e irriverente sventagliata di tweet contro Largo del Nazareno è possibile affidarsi a un tale che si firma “Nonno Ugo”: «Sono stato contattato dar Pd pe’ fa il leader — racconta — ma non so se accettare. Ho paura de sputtanamme...».

La Stampa 24.4.13
Il pentimento dei grillini di destra “M5S estremista, non lo rivoteremo”
L’imprenditore comasco Brenna: “Le ultime uscite di Grillo sono state penose”
di Michele Brambilla


«Dario Fo? Gino Strada? Stefano Rodotà? Ma per l’amor di Dio!!! ». Graziano Brenna, imprenditore, vicepresidente di Confindustria Como, una vita a votare a destra, due mesi fa s’era fatto sedurre da Beppe Grillo e l’aveva votato. Oggi dice che non lo rifarà più e invoca l’amore dell’Altissimo quasi a chiedere perdono per essersi lasciato ingannare da un diavolo: «Quello non è il mio mondo. Troppo di sinistra».
Come Graziano Brenna, nel Nord già leghista e berlusconiano ce ne sono molti. «Quando ho detto che avrei votato Grillo, io che per vent’anni ho votato il Cavaliere, nel mio mondo mi sono attirato qualche simpatia e soprattutto molte antipatie. Però le garantisco», mi dice Brenna, «che sono tanti i miei colleghi che hanno lasciato la Lega e il Pdl per votare il MoVimento Cinque Stelle. Oggi non lo rivoterebbero più. Sa che cosa diciamo, noi che nel giro di soli due mesi siamo passati da neogrillini a ex grillini? Che quel movimento lì ha un’anima da sinistra antagonista, radicale. Altro che trasversali... ».
Forse il dimezzamento dei voti del M5S in Friuli dipende soprattutto da questo. Grillo, due mesi fa, era stato abile ad attrarre a sé universi opposti. I No Tav, la sinistra delusa, gli ambientalisti anti-inceneritori e i teorici della «decrescita felice» da una parte; ma anche, dall’altra, tutto un popolo di piccoli imprenditori, di partite Iva, di commercianti vessati da fisco e burocrazia. Grillo tuonava contro Equitalia, urlava che le piccole imprese sono la nostra prima ricchezza e vanno aiutate, scomunicava perfino i sindacati: e tutto questo a un elettorato deluso dalle promesse mancate di Berlusconi e della Lega piaceva, e molto. Invano «il Giornale» avvertiva: attenti, la vera radice di Grillo è quella della sinistra dei centri sociali, con il consueto pizzico di radical chic a dare «spessore» intellettuale, perché in Italia, si sa, gli intellettuali possono essere solo di sinistra. Invano, perché in cabina elettorale molti di centrodestra hanno commesso adulterio.
Ma sono bastati due mesi per convincere questi «grillini di destra» di aver sbagliato indirizzo. Il risultato del Friuli – dal 27 al 14 per cento – non può essere spiegato solo con la fisiologica discrepanza tra voto per le politiche e voto amministrativo. «La croce sul simbolo delle cinque stelle è servita», dice ancora Brenna, «a mandare a casa buona parte dei vecchi politici. Ma Grillo non lo voterò più. Le sue ultime uscite sono state penose. Il colpo di Stato, la marcia su Roma... Ma per favore».
Una che ha il polso della rabbia dei piccoli imprenditori del Nord contro Equitalia e le banche (due dei bersagli preferiti di Grillo) è Wally Bonvicini, che a Parma ha messo in piedi un’associazione, Federitalia, che assiste appunto «i tartassati». «Sento centinaia di piccoli imprenditori», mi racconta, «che due mesi fa hanno abbandonato Lega e Pdl per votare Grillo. Tutti mi dicono che oggi col piffero che lo rivoterebbero». Perché troppo di sinistra? Anche, ma non solo: «Hanno capito che il MoVimento Cinque Stelle non ha fatto nulla per loro. Sa perché? Perché non hanno la cultura della piccola impresa. Sono bravi ragazzi, simpatici, ma – come posso dire? – privi di robustezza psicologica. Sono quasi tutti ex lavoratori dipendenti e per carità, non c’è niente di male: ma voglio dire che non hanno la consuetudine alla trattativa, al cercare di cavarsela da sé. E questa, nei contenziosi con Equitalia e con le banche, è una lacuna che pesa». In più, per una di Parma, pesa anche l’esperienza della giunta grillina: «Non hanno fatto niente. Provi a girare in città: le strade sono piene di buche», è la sentenza impietosa di Wally Bonvicini.
Ma poi. Perfino da sinistra dicono che quelli di Grillo sono troppo di sinistra. Nel senso di estremisti. Racconta Patrizia Maestri, deputata Pd di Parma: «L’altro ieri ho fatto un appello al sindaco Federico Pizzarotti, che è una persona moderata, affinché Grillo prendesse le distanze dalla caccia all’uomo per le vie di Roma seguita all’elezione di Napolitano. Pensi che lui ha risposto dicendo di trovare “gravi” le mie “insinuazioni”, e il consigliere comunale grillino Mauro Nuzzo mi ha intimato di “non oltrepassare il limite del ridicolo”. Mah».
Torneranno, i delusi da Grillo, ai vecchi amori? «Per quanto mi riguarda no», dice Graziano Brenna: «Non ne possiamo più né di Berlusconi né di Bersani o Franceschini. Spero nei giovani, da Renzi alla Meloni».
Il boom grillino appena cominciato è già finito? Troppo presto, comunque, per dirlo: i partiti sono ancora capaci di rianimarlo, suicidandosi. Dipende da loro.

Repubblica 24.4.13
Grillo e il mito del volo di Ulisse
di Barbara Spinelli


GLI ultimi movimenti di Grillo, dopo la rielezione di Napolitano, sono non solo prudenti ma inquieti: quasi contratti. Non ha afferrato l’occasione offerta dalla collera di migliaia di cittadini, che avevano sperato in Stefano Rodotà: dunque in una democrazia rifondata, che chiudesse il ventennio berlusconiano. Ha evitato euforiche piazze. Non è un comportarsi populista.

Perché il populista classico mente al popolo, per usarlo e manipolarlo. Viene in mente, osservandolo, quel che il filosofo Slavoj Zizek disse delle sinistre di Syriza, nel voto greco del giugno 2012: «Sono sognatori che svegliandosi si son trovati in un incubo ». Col che intendeva: non sognano affatto, ma razionalmente guardano la realtà e la riconoscono tragica.
La realtà vista da Grillo è difficilmente confutabile: è la sconfitta, enorme, vissuta sabato dall’Italia del rinnovamento. E il trionfo, non meno vistoso, dei piani del demiurgo di Forza Italia: il Pd ridotto molto democraticamente in ginocchio; poi un governo di larghe intese; poi la vittoria elettorale del Pdl. E all’orizzonte, non lontano: Berlusconi capo dello Stato. Parlando alle Camere, lunedì, Napolitano ha definito perfettamente consona alla democrazia europea la coalizione «tra forze diverse». L’orrore che essa suscita, l’ha analizzato in termini psicologici: è una «regressione» faziosa. Un’immaturità smisuratamente tenace. Mai Berlusconi è stato così banalizzato. Mai è apparso lo statista che solo nevrotici bambinizzati avversano.
Ma Grillo sa qualcosa di più. La morte della sinistra italiana, prima innescata dal rifiuto di 5 Stelle di accettare un comune governo, poi accelerata dal no del Pd a candidati di svolta, suggella l’apoteosi, più vasta, di chi da tempo vede l’Europa assediata da dissensi cittadini subito bollati come populisti, quindi euro-distruttori. La speranza che l’Unione cambi, anche su spinta italiana, certo non scompare: presto, nel giugno 2014, voteremo per un Parlamento europeo che finalmente designerà chi sta al timone, alla Commissione di Bruxelles. Ma in Italia è stasi. Il folle volo degli innovatori, come quello di Ulisse verso virtute e canoscenza, da noi s’infrange, e il mare dello status quo sopra di lui si chiude.
Le due cose vanno insieme: la rifondazione delle democrazie, ferite dalle terapie anti-crisi, e un bene pubblico comunitario che i cittadini europei possano far proprio, e influenzare. Chi si batte su ambedue i fronti è chiamato populista perché semplicemente s’è messo in ascolto dei popoli indignati, grandi assenti nelle oligarchie che fanno e disfano l’Unione.
È un’autentica offensiva antipopolare (non antipopulista) quella cui assistiamo da quando Papandreou, premier socialista greco, provò nell’ottobre 2011 a proporre un referendum sull’austerità che già minava Atene, e ora l’ha portata alla miseria. Fu ostracizzato, divenne un infrequentabile paria per le sinistre europee al completo. Solo ai Verdi, Papandreou destituito spiegherà il senso del referendum: non il rifiuto di pagare i debiti (i «compiti a casa») ma la domanda di un’Europa che compensi lo scacco degli Stati nazione con un proprio bilancio accresciuto e un comune solidale rilancio stile Roosevelt.
Dopo di allora l’offensiva si accentua, senza più pudore. A Cernobbio, l’8 settembre 2012, il Premier Monti chiede un vertice europeo straordinario, di «lotta ai populismi ». Citiamo quel che disse, perché è emblematico e perché le autorità dell’Unione l’applaudirono entusiaste: «È paradossale e triste che in una fase in cui si sperava di completare l’integrazione anche dal punto di vista psicologico, dell’opinione pubblica e in ultima analisi (dal punto di vista) politico, si stia determinando un pericoloso fenomeno opposto, con molti populismi che mirano alla disintegrazione in quasi tutti gli Stati membri».
Sembrava il comunicato di un prefetto anti-sommosse più che di un capo politico, e si sa che poliziotti e prefetti usano mettere nello stesso sacco ogni sorta di estremismo, per poi srotolare deserti che chiamano pace civile. Nel sacco ci sono Le Pen, i nazisti greci di Alba Dorata, i liberticidi ungheresi, e a Roma o Atene i veleni letali che sono M5S e Syriza. L’ideologia è quella con cui Pangloss indottrina l’inerme Candide, in Voltaire: stiamo andando verso il migliore dei mondi possibili, l’Europa meravigliosamente si integra, ed ecco – horribile visu! – una coorte di paradossali e tristi sovvertitori mirano proprio al contrario: alla disintegrazione.
Due bugie s’infilano in un’unica collana. La prima marchia i populismi senz’alcuna distinzione, e poco serve che Grillo ricordi l’evidenza: avremmo anche noi Alba Dorata, se lui non facesse da argine. La seconda bugia concerne i movimenti detti euroscettici: come se i disintegratori fossero loro, non chi per primo ha disintegrato fingendo d’integrare. Le bugie non hanno affatto gambe corte, lo sappiamo. Le hanno lunghissime e vanno lontano.
Vero è che Napolitano – una storia lunga l’attesta – ha sull’Europa idee ardite, non condivise da Berlusconi né forse da Monti. Quel che non vede, è il nesso causale fra crisi dell’Unione e torsione delle istituzioni democratiche, della legalità, della giustizia, delle costituzioni. Altrimenti non prediligerebbe, con tanto impeto, quelle che alcuni chiamano ipocritamente larghe intese e altri, più crudamente, inciucio.
Inciucio è parola brutta, ma ci distingue da altri Paesi. L’accordo con Berlusconi è altro dalle grandi coalizioni tedesche, inglesi. È compromettersi con una destra del tutto anomala in Europa. Se non fosse così ci si accorderebbe alla luce del sole, davanti ai cittadini. Non succede, perché il Pd ne ha avuto vergogna sino a polverizzarsi. E forse è un bene, affinché chiarezza sia fatta: gran parte dei militanti, e l’alleato Sel, e Fabrizio Barca o Pippo Civati, già provano a ricostruire.
Non è antieuropeista Grillo, anche se abitato da scetticismo. Ogni europeista che si rispetti è oggi scettico. In una recente conferenza a Torino, Casaleggio ha ammonito contro l’uscita dall’euro («Solo un Paese forte e competitivo potrebbe»). Lo stesso ha detto Mauro Gallegati, economista vicino a M5S.
Ma è utile, per i Pangloss dell’Unione, dipingere Grillo come distruttore dell’Europa. È tentante bendarsi gli occhi, e nascondere l’estensione di un disastro che non sfascia solo la democrazia deliberativa di Grillo, ma la stessa democrazia rappresentativa che contro lui si pretende presidiare. Ecco dove sta, caro Presidente, la regressione.
Il Parlamento non ha saputo farsi portavoce dell’Italia che invocava Rodotà o Prodi. Ha ucciso l’idea stessa di rappresentanza, più che la democrazia dal basso. Proprio perché non è Le Pen, Grillo ha bisogno che la democrazia classica funzioni, e la sinistra esista. Se oggi pare sì contratto è perché – un segno già viene dal Friuli Venezia Giulia – anche la sua barca rischia d’infrangersi.
Vince il credo oligarchico di Monti. L’Europa federata non è necessaria (Die Welt, 11-1-12). E i governi non devono lasciarsi «vincolare da decisioni dei propri Parlamenti», ma «educarli» (Spiegel, 5-8-12). Blue sunday, titola Grillo un suo post.
Blue sunday t’assale certe domeniche, dopo weekend insensati. Ti sdrai nel mal-essere, in attesa che una fantasia, o un pensiero, spezzi il malinconico blu.
Cos’è populismo, antipolitica? È la massa che si fa gregge, lupo fiutante sangue e prede. È energia dispotica, sfrenata, irriflessiva, suggestionabile: scrive Gustave Le Bon nella
Psicologia delle Folle (1895). Come non riconoscere in essa i mercati e i loro plebisciti? Nessuno li taccia di antipolitica, e come potrebbe. I veri padroni sono loro. Se ne infischiano. Come le folle, non vedono oltre il proprio naso. Democrazia e legalità rovinano? Poco importa. Non è affar loro. Non sanno quello che fanno.

La Stampa 24.4.13
Per la legge 40 c’è un terzo rinvio alla Consulta
Anche Firenze contro il divieto di fecondazione
di Lodovico Poletto


È stata rinviata per l’ennesima volta alla Consulta, la legge 40 in merito al divieto di fecondazione eterologa. La decisione è stata presa dal Tribunale di Firenze, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma in seguito al ricorso di una coppia sterile di Trento, rivoltasi all’Associazione Coscioni.
Il messaggio che arriva dalla magistratura fiorentina è chiaro e rileva il contrasto esistente tra il «divieto di eterologa» stabilito dalla cosiddetta legge 40 e il «precetto costituzionale» dell’articolo 3 secondo cui un «medesimo problema può essere oggetto di trattamento differenziato solo ove sussista oggettiva giustificazione». Dopo le recenti ordinanze dei tribunali di Milano e Catania, nel solo mese di aprile questo è il terzo rinvio alla Corte Costituzionale in merito al divieto della pratica dell’eterologa, quella che consente alle coppie sterili in maniera assoluta di poter procreare utilizzando materiale genetico di un terzo soggetto. Tale divieto lederebbe dunque il principio di uguaglianza. Secondo il giudice fiorentino, infatti, vietare la «PMA eterologa» comporta «una evidente violazione del principio di ragionevolezza inteso come corollario del principio di uguaglianza». «Dunque - commentano i legali della coppia che ha presentato il ricorso - un messaggio forte e chiaro il cui punto centrale è il rilievo circa il contrasto tra il divieto di eterologa e i precetti costituzionali».
«Il dibattito che si sta riaprendo, sul piano giuridico è viziato da una premessa inesatta, che ne condiziona gli esiti. Non si può affermare che la procreazione medicalmente assistita si configuri come una terapia della sterilità e dell’infertilità. Infatti questa tecnica ha una funzione sostitutiva di una parte del processo riproduttivo, permettendo la nascita di un figlio» lo dice il direttore del Centro di ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, Adriano Pessina. Che chiarisce: «Nel divieto di fecondazione eterologa non è in gioco la salute riproduttiva della coppia, perchè anche ricorrendo ad essa, la coppia resta infertile o sterile. Il divieto, invece, è volto a tutelare il diritto del nascituro a essere generato dalla stessa coppia sociale che lo crescerà, impedendo così la legalizzazione della dissociazione tra le figure parentali. Per avere un figlio con la fecondazione eterologa si deve infatti ricorrere a un donatore - che è il vero genitore che risulta essere estraneo alla coppia che ricorre alla tecnica». Conclude: «La questione giuridica non può essere adeguatamente affrontata se non si prendono in considerazione le differenti implicazioni etiche, sociali e culturali che entrano in gioco nella fecondazione omologa ed eterologa».

Corriere 24.4.13
Quel sogno (svanito) dei partigiani
Non è l'Italia sognata dai partigiani. Le nostre radici, antidoto alla crisi
di Corrado Stajano


C'è la lettera, l'ultima, ai compagni, di un ragazzo partigiano di Parma, Giordano Cavestro, studente di 18 anni, fucilato dai fascisti repubblichini il 4 maggio 1944 a Bardi, che riletta oggi riempie di dolore e di commozione per le sue speranze tradite: «Se vivrete tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio». È servita da esempio quella giovane morte?
Questa nostra di oggi non sembra davvero l'Italia che sognarono i partigiani discesi dalle montagne il 25 Aprile 1945.
La crisi economico-finanziaria, con i 3 milioni di disoccupati, il 38,7 dei giovani senza lavoro, i quasi 3 milioni di precari, gli esodati, le fabbriche piccole e medie che ogni giorno chiudono sono i dati crudeli della condizione del Paese. Ma l'incuria dura da decenni di cattivi governi, il paesaggio è devastato, in nome della speculazione. Della bellezza non si tiene alcun conto; la situazione idrogeologica è perennemente precaria, si parla delle alluvioni e dei terremoti soltanto al momento degli eventi, poi cala il silenzio, come all'Aquila, con il suo centro storico dopo quattro anni desolatamente abbandonato. Per la cultura — musei, biblioteche, archivi, teatri — che dovrebbe essere un forno sempre acceso, l'Italia è all'ultimo posto in Europa per i suoi investimenti e al penultimo per l'istruzione. È questo il Paese sognato dagli uomini e dalle donne della Resistenza dopo i disastri del fascismo e della guerra?
Le commemorazioni possono anche essere di maniera, stucchevoli, ma nei momenti gravi della vita nazionale come questo che stiamo vivendo, un 8 settembre della democrazia, è necessario e doveroso, invece, ripensare alle proprie radici per poter ricominciare, ripetere con pazienza che la Repubblica è figlia della Resistenza al fascismo, anche se si è fatto di tutto, in questi anni, per negare in modo beffardo l'evidenza tentando continuamente di dimenticare e di cancellare la Costituzione che, come scrisse padre David Maria Turoldo, è il Vangelo della Repubblica.
Che festa grande fu quel 25 Aprile entrare nelle città liberate, tra la folla che applaudiva, i ragazzi che sventolavano bandiere, rosse, azzurre, tricolori, con le campane che suonavano a distesa. Era finita. I partigiani arrivarono spesso prima degli americani, degli inglesi, dei neozelandesi, dei polacchi. A Genova i tedeschi chiesero la resa al Corpo volontari della libertà e le brigate partigiane sfilarono lungo via XX settembre scortando migliaia di prigionieri dell'esercito nazista catturati o arresi. A Milano fu la divisione garibaldina dell'Oltrepò comandata da Italo Pietra, il futuro direttore del Giorno, a liberare la città entrando da Porta Ticinese. Che emozione per quei ragazzi diventati adulti tra le asperità della guerra di montagna contro un nemico che da sempre ha le armi nel sangue. Carlo Smuraglia, presidente dell'Anpi, giurista insigne, partigiano, poi nell'Esercito italiano di liberazione, ha raccontato alla tv come fu naturale allora per lui, studente di vent'anni alla Normale di Pisa, scegliere la parte della libertà e della giustizia. Più semplice che per un giovane di oggi.
E dopo? Non andò di certo come doveva, con la Guerra fredda che divise di nuovo il mondo, gli ostruzionismi, i maccartismi, la cancellazione delle garanzie, le discriminazioni, il revisionismo impudico ancora oggi in azione. La vittoria sul fascismo non è stata mai digerita del tutto da strati non piccoli della società. Nell'estate del 2011, il governo Berlusconi che negava ancora l'esistenza della crisi, boccheggiante, con l'acqua alla gola, tentò di abolire la festa del 25 Aprile e anche il Primo maggio e il Due giugno. Di recente un leader del Movimento 5 Stelle, Roberta Lombardi, non ha scritto che il fascismo ebbe un altissimo senso dello Stato? Il fascismo buono. Tutti uguali, carnefici e vittime. E Luciano Violante, eletto nel 1996 presidente della Camera, non riabilitò benevolo, nel discorso ufficiale a Montecitorio, i «ragazzi di Salò»? (Tutti i morti sono uguali, ma sono ben diverse le ragioni per cui sono caduti: i partigiani, per la liberazione dell'Italia, i fascisti al servizio dei tedeschi invasori, spesso anche più feroci di loro nei rastrellamenti). La crisi non è soltanto economico-finanziaria, ma è una crisi culturale, politica, antropologica di tutta una classe dirigente. Occorre intervenire subito con coraggio, ma ci vorranno anni, forse generazioni, per ricomporre una società che riabbia dignità e rispetto per se stessa. Tra passato e presente. Se si pensa chi furono gli uomini della Costituzione, appartenenti a tutte le forze politiche — Luigi Einaudi, Lelio Basso, Piero Calamandrei, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Nilde Iotti, Emilio Lussu, Concetto Marchesi, Aldo Moro, Costantino Mortati, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti — può essere umiliante un paragone con l'oggi. Il 4 marzo 1947, Piero Calamandrei fece all'Assemblea costituente un discorso che ha mantenuta intatta tutta la sua contemporaneità. Concluse così: «Che cosa diranno i posteri di questa nostra Costituzione? Seduti su questi scranni è stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani».

Corriere 24.4.13
Nozze e adozioni gay Via libera definitivo alla legge in Francia
A giugno celebrate le prime unioni
di Stefano Montefiori


PARIGI — Davanti all'Assemblea nazionale, dove nelle scorse notti i militanti di estrema destra avevano provocato scontri con poliziotti e aggredito giornalisti, due ragazze si baciano vicino al cartello in anglofrancese «Oui are the champions!», mentre gli agenti Crs (Compagnies républicaines de sécurité) in tenuta anti-sommossa guardano (qualcuno sorride), e altri uomini e donne applaudono, sventolando volantini con la scritta «e adesso la fecondazione assistita».
Intorno alle 17 di ieri i deputati francesi hanno approvato in via definitiva, con 331 sì e 225 no, la legge sul mariage pour tous, il «matrimonio per tutti» che secondo i promotori «non toglie diritti a nessuno, si limita a estenderli». La Francia è il 14° Paese al mondo dove il Parlamento si è pronunciato per l'eguaglianza tra coppie etero e omosessuali (dall'Argentina al vicino Belgio), ma qui più che altrove i toni sono stati epocali, da scontro di civiltà. Nei sette mesi di dibattito gli oppositori — dalla pittoresca portavoce «umorista papista» Frigide Barjot ai vescovi — hanno lanciato ammonimenti apocalittici, evocando la prossima fine del mondo per come lo abbiamo conosciuto (era già accaduto peraltro in occasione dei Pacs, nel 1998).
Negli stessi momenti in cui le coppie gay si radunavano davanti all'Assemblea per bere champagne e ringraziare la maggioranza socialista, il neonato movimento degli Homen che scimmiotta le Femen ucraine ha bloccato il traffico con una decina di militanti, autoproclamati «uomini veri»: torso nudo, maschere bianche sul volto, bandiere tricolori e grandi cartelli per chiedere di nuovo un referendum che non verrà concesso.
Il capogruppo dell'opposizione Ump, Christian Jacob, è uscito dall'Aula infuriato per dirigersi verso il Consiglio costituzionale, dove ha immediatamente presentato ricorso. Se, come è probabile, l'eccezione di costituzionalità non verrà accolta, il presidente François Hollande tra un mese potrà promulgare la legge e i primi matrimoni tra coppie omosessuali saranno celebrati in Francia a metà giugno.
«Sono sopraffatta dall'emozione», ha detto la ministra della Giustizia e promotrice della legge, Christiane Taubira, pochi istanti dopo il sì. «Avete votato un testo bellissimo, generoso, che non toglie niente a nessuno — ha continuato la Guardasigilli rivolgendosi ai deputati —, adesso dobbiamo parlare a coloro che si sono sentiti feriti, in questi ultimi giorni. Penso soprattutto agli adolescenti, forse smarriti nel clima rabbioso in cui si è svolto il dibattito. Se siete presi dallo sconforto, spazzate via tutto. Restate con noi e tenete la testa alta, perché non avete niente di cui rimproverarvi». Prima di concludere con Nietzsche: «Le verità uccidono, quelle che si tacciono diventano velenose».
Le prime manifestazioni contro il matrimonio gay si erano svolte, a partire dall'autunno scorso, senza incidenti e con grande attenzione a evitare slogan omofobi. Mentre all'Assemblea e al Senato i parlamentari discutevano il testo (per un totale finale di 185 ore), centinaia di migliaia di francesi sono scesi in strada per esprimere il loro legittimo dissenso. Ma nelle ultime settimane la protesta si è fatta cattiva, il movimento ha concesso spazio agli estremisti, a Parigi e nel resto della Francia ci sono stati incidenti e aggressioni contro locali e coppie gay.
Nei prossimi giorni, fino al pronunciamento della Corte costituzionale, la tensione continuerà «ma ormai è andata, il nostro testo è legge e ci aspettiamo che i contrari si rassegnino, non possono fare altro», dice una fonte dell'Eliseo. Hollande si è sempre rifiutato di concedere il referendum perché il mariage pour tous era già una delle 60 proposte (la numero 31) del programma con il quale ha vinto le elezioni, un anno fa. Secondo le stime le coppie omosessuali in Francia sono circa 100 mila, e i bambini allevati da genitori dello stesso sesso tra i 24 e i 40 mila. Il diritto all'adozione permetterà a queste famiglie di uscire dall'ombra. Il passaggio successivo sarà la legalizzazione in Francia della Pma (procreazione medicalmente assistita). E lo scontro tra due concezioni della famiglia, tra natura e cultura, si aprirà di nuovo, anche per gli eterosessuali.

La Stampa 24.4.13
Cina, il grido di Xia: “Non sono libera”
La moglie di Liu Xiaobo, autorizzata a uscire di casa dopo due anni, urla la sua denuncia
di Ilaria Maria Sala


Suo marito è in carcere per sovversione, e anche lei dal 2010 vive in una sorta di prigionia Pressioni e false accuse hanno costretto molte famiglie di oppositori a scegliere la via dell’esilio

Per la prima volta da due anni mezzo, ovvero da quando suo marito ha vinto il Premio Nobel per la Pace, Liu Xia, moglie di Liu Xiaobo, è stata autorizzata a uscire di casa dagli energumeni che vigilano davanti alla sua porta, costringendola ad arresti domiciliari mai dichiarati, per recarsi altrove che non alle visite mensili al marito. Ma la libera uscita di Liu Xia è stata garantita affinché potesse partecipare al processo di Liu Hui, suo fratello minore, accusato di «frode» in un caso di transazione immobiliare che risale a circa due anni fa, già risolto in modo amichevole.
Da dentro la macchina Liu Xia è riuscita a scambiare poche parole con i cronisti che l’attendevano all’uscita dal tribunale, ai quali ha urlato dal finestrino: «Certo che il processo di mio fratello minore è in relazione al premio Nobel di mio marito! Mio fratello maggiore è riuscito a negoziare che io fossi presente. Ma non sono libera: non credete a chi vi dice che sono libera. Nessuno di noi è libero». E, prima di essere condotta via, ha aggiunto: «Vorrei anch’io essere processata, dato che hanno deciso che è un crimine essere la moglie di Liu Xiaobo! ».
Mo Shaoping, l’avvocato scelto da Liu Hui per la difesa (un nome molto noto fra gli avvocati del movimento per i diritti civili), ha dichiarato a Radio Free Asia che la decisione di arrestare Liu Hui e processarlo è probabilmente «in risposta a quando (l’attivista per i diritti umani) Hu Jia è riuscito a eludere il cordone di polizia e andare a visitare Liu Xia, rendendo pubblica la sua situazione di prigionia».
La vicenda al centro della quale si trova Liu Xia lascia increduli, ma ricalca il modo in cui, in Cina, le famiglie dei più noti dissidenti sono messe sotto una pressione sempre più insopportabile, per servire da deterrente e dissuadere chi vuole opporsi al sistema.
L’avvocato cieco Chen Guangcheng, fuggito in modo rocambolesco dagli arresti domiciliari illegali lo scorso anno, ora negli Usa, ha dovuto seguire da lontano la vicenda giudiziaria del nipote, Chen Kegui, accusato di omicidio per essersi didifferenti nella qualità visiva – la prima icastica nella sua magniloquenza epica, la seconda quasi indecifrabile nel suo lirismo da dramma privato – e per quanto possano essere distanti nel tempo – 24 anni che hanno segnato il tramonto dell’impero americano e l’alba del secolo cinese – c’è un collegamento tra le due serie d’immagini.
Il collegamento si chiama Liu Xiaobo, intellettuale dissidente, primo firmatario di «Charta 08» (un manifesto per i diritti umani e per la riforma democratica della Repubblica Popofeso con un coltello nel corso di un’irruzione notturna a casa sua, fatta dalla polizia la notte in cui era stata scolare Cinese), condannato a undici anni di detenzione per «incitamento alla sovversione del potere dello Stato». Sebbene nel 1989 Liu si trovasse negli Stati Uniti, tornò in Patria per partecipare alle proteste di Piazza Tiananmen, dove poi finì per convincere gli studenti a ritirarsi quando il Governo schierò l’esercito che li avrebbe massacrati. La donna che oggi implora libertà di fronte alle telecamere è Liu Xia, sua moglie, che non lo vede dal 2010, da quando è stata costretta agli arresti domiciliari a seguito dell’assegnazione del perta la fuga dell’avvocato.
Premio Nobel per la Pace a suo marito. Nel nome di Liu Xiaobo si chiude, dunque, il cerchio di un quarto di secolo per noi deludente e decadente, per noi europei che fin da allora stiamo a guardare. Gli anni trascorsi tra le due immagini scandiscono la globalizzazione come promessa non mantenuta. Hanno trasformato l’Europa da attore protagonista in spettatore marginale e la Cina in una immensa galera (Liu Xia guadagna la scena ma sono migliaia e migliaia le persone che soffrono per la persecuzione di loro parenti incarcerati ti (anche alla figlia di otto anni) e pressioni. Innumerevoli altri dissidenti si sono ritrovati a considerare che le loro azioni sarebbero ricadute sui loro cari, e non tutti hanno avuto la determinazione di andare avanti. Lo stesso Hu Jia, dopo arresti domiciliari imposti anche alla moglie e alla figlia neonata, una volta uscito dal carcere – dove ha scontato una pena di due anni – ha dovuto accettare la richiesta di divorzio della moglie, esausta da anni di sorveglianza e abusi.
Liu Xia, scrittrice e fotografa, ha sempre condiviso le idee del marito e non ha mai voluto prendere in considerazione né il divorzio né l’esilio: ma nell’imbarazzo e nel rancore suscitato dal premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo (che, fino al Premio Nobel per la letteratura a Mo Yan lo scorso anno era l’unico Nobel su suolo cinese), ecco che la sua vita da quel fatidico ottobre 2010 è diventata di costante prigionia. per reati d’opinione).
Per parte nostra, ci siamo oramai quasi rassegnati all’inferno minore di mangiatori di vite che non sono la nostra, di sofferenze immani, giunte fino a noi ammantate dall’aura del disastro di ciò che non ci riguarda, che non cessiamo di guardare dalla nostra postazione protetta ma che non ricambierà mai il nostro sguardo. È un’attitudine purgatoriale che abbiamo appreso proprio negli anni di piazza Tiananmen, anni in cui quelle immagini assortite di sofferenze altrui cominciarono a essere sversate in quantità e con modalità di rifiuti tossici industriali nelle nostre case attraverso gli orifizi aperti prima dagli schermi televisivi e poi dei computer. Quelle dosi da cavallo di vite non nostre aggravarono la nostra indole malinconica di Occidentali decadenti, fino a sorprenderci inetti alla nostra propria esistenza.
Pensate alla nostrana cronaca politica di questi giorni: l’epoca ci chiamerebbe a misuraci con la supremazia della Cina ma l’unica diplomazia di cui ci dimostriamo capaci è quella cosa meschina che non va più in là della buvette di Montecitorio.

La Stampa 24.4.13
Il grido di Xia ci riporta a Tiananmen
di Antonio Scurati


Pure essendo, nel frattempo, diventati bravissimi a dimenticare – professionisti dell’oblio visuale – la ricordiamo ancora tutti quella sequenza d’immagini colte con il teleobiettivo: piangendo su questo ragazzo cinese che affronta la violenza con due buste della spesa nelle mani, scoprimmo la globalizzazione come capacità di renderci infelici a distanza.
Ventitré aprile duemilatredici. «Nessuno di noi è libero, nemmeno io». Lo dice una donna cinese di mezza età al giornalista che le chiede se il marito sarà liberato. Lo dice trafelata, inseguita dai sussulti della telecamera, mentre esce da un tribunale ed entra in automobile. La sua voce suona come un murmure polmonare, un pigolio che non crepa il guscio. La sua faccia – schermata da un paio di occhialini tondi e coronata da una cuffia di lana – è inquadrata in primissimo piano. Il tipico «faccione» da ripresa televisiva. Visibilità massima. Sovraesposizione, iperrealtà. Irrealtà da fulgore mediatico. Nonostante tutta quella luce piena, fatichiamo, infatti, a capire se le labbra tirate a snudare la chiostra dei denti significhino un sorriso di circostanza o una smorfia di pianto. La compatiamo in ogni caso, a scanso di equivoci, questa nuova icona del dispotismo orientale e anche questa nuova immagine, questa ennesimo grido disperato giuntoci da una Cina sempre più vicina, sta facendo il giro del mondo.
Cinque giugno millenovecentottantanove. La piazza è larga ottocentottanta metri da nord a sud e cinquecento da est a ovest, il che la rende la più vasta piazza pubblica del mondo con i suoi quattrocentoquarantamila metri quadrati. In questo momento la piazza è piena di ragazzi. Chiedono democrazia. Otterranno il massacro. Uno studente emerge dalla folla per scambiare due parole con un carro armato. L’immagine farà il giro del mondo.

Corriere 24.4.13
Cina, nuova «Rivoluzione» culturale la Dieta populista dei Generali
di Guido Santevecchi


Il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, che è anche comandante in capo delle forze armate, ha ordinato a tutti gli ufficiali dal grado di colonnello in su di farsi due settimane da soldati semplici. Servirà ad alzare il morale della truppa rinsaldando lo spirito di corpo.
Nell'ordine di servizio si legge una frase che lascia pensare: «Durante le due settimane da soldati semplici, gli ufficiali superiori dovranno provvedere al loro rancio e pagarselo; non dovranno accettare inviti a banchetti, o a gite turistiche; né ricevere doni o interferire con questioni sensibili per gli affari militari». Letto al contrario, pare di capire che quando rimetteranno i gradi, colonnelli e generali dell'Esercito di liberazione popolare potranno tornare a dedicarsi a queste attività: grandi mangiate conviviali, viaggi di piacere e collezione di regali.
La direttiva di Xi annuncia che gli alti gradi simbolicamente degradati dovranno passare i 15 giorni da semplici fanti nelle province più lontane e povere: «Aiuterà a purificare l'anima e a prevenire e curare pigrizia, carenze disciplinari e altre malattie burocratiche».
Un linguaggio e una trovata che fanno pensare a Mao e alla Rivoluzione culturale lanciata nel 1966, anche se quella fu feroce, mentre questa sembra destinata a far perdere qualche chilo a grassi generali. Che cosa c'è dietro questo show populista? Da quando è arrivato al vertice, lo scorso novembre, Xi ha promesso di combattere i corrotti, «schiacciando le mosche e combattendo le tigri», vale a dire piccoli burocrati e gerarchi. La settimana scorsa la propaganda ha diffuso la notizia che il presidente aveva addirittura preso il taxi a Pechino, per poi smentirla precipitosamente, forse di fronte alle reazioni scettiche dei cittadini sulla Rete, o forse perché nel politburo non c'è consenso su una strategia che rischia di rendere troppo popolare l'uomo che ha le cariche di segretario generale del partito, presidente della commissione centrale militare e capo dello Stato. Mentre gli analisti cercano la risposta, i generali «degradati per due settimane» si preparano a fare a meno di banchetti e gite.

Repubblica 24.4.13
Navalnyj il blogger che sfida lo zar
Le sue inchieste hanno svelato la corruzione del potere: così Navalnyj è diventato il grande oppositore di Putin. Oggi inizia il processo contro di lui
di Bill Keller


Se qualcuno si proponesse di dare un volto a una nemesi politica in grado di far venire i brividi a Vladimir Putin, potrebbe darle le sembianze di Aleksej Navalnyj. Questo spiega perché il processo di oggi al famoso attivista russo è tra i processi più importanti in Russia da decenni. Navalnyj — avvocato, blogger e promotore di crociate contro la corruzione — è stato equiparato a tutti i rivoluzionari politici, da Julian Assange a Nelson Mandela. In qualità di potenziale leader politico ha sbaragliato Assange già da un pezzo e, sebbene non abbia ancora raggiunto Mandela, continua a fare progressi. È giovane (36 anni), profondo, politicamente avveduto. Piace alla folla e a prima vista non ha paura. Sa usare bene Internet e ha le competenze di un giornalista investigativo. (Compra azioni di società petrolifere controllate dallo Stato e di banche e sfrutta il suo status di azionista di minoranza e metterne in mostra tutti i panni sporchi sul suo blog LiveJournal).

È un russo che ha introdotto nel suo eloquio una discreta dose di slogan nazionalistici. Questo fatto ha lasciato sgomenti alcuni suoi amici liberali, ma è ingegnoso, perché lo difende dalla linea di attacco preferita da Putin, secondo la quale chi critica il suo operato è un tirapiedi dell’Occidente. Cosa ancora più importante contribuisce ad aumentare il suo fascino che fa presa ben al di là dei giovani impiegati d’ufficio esperti di social media che costituiscono la sua base.
La sua piattaforma abbina il libertarismo del libero mercato, gradito alla borghesia russa in ascesa, a un’ininterrotta campagna contro la corruzione, che ha vasta eco in una nazione nella quale si ha la perenne sensazione che ogni transazione debba comportare una tangente. (La Russia occupa un umiliante 133esimo posto nell’indice di Transparency International). Nel 2011 il Moscow Times ha definito Navalnyj «l’unico esponente dell’opposizione eleggibile». Potrebbe essere vero, anche se non sempre i migliori agitatori diventano i presidenti migliori, lezione che la Russia dovrebbe aver imparato da Boris Eltsin.
Non si tratta tuttavia della prima volta che per far piazza pulita dell’opposizione il regime di Putin ricorre ai tribunali penali (con un tasso di assoluzione dello 0,4 per cento). La persecuzione dell’impulsivo magnate Mikhail Khodorkovskij è stata
un tentativo coronato da successo di mettere in guardia i russi più facoltosi dal non illudersi di avere il diritto di esprimersi liberamente. Il processo farsa a Sergej Magnitskij, l’avvocato russo che aveva osato smascherare l’evasione fiscale delle alte sfere per poi morire in carcere a causa dei maltrattamenti subiti, ha inviato il messaggio che è meglio non ficcare il naso nelle ruberie degli amici intimi di Putin. E il processo alle Pussy Riot è servito per rammentare che il presidente non sa stare agli scherzi, per lo meno non quando riguardano lui. Nessuna di queste vittime della giustizia del Cremlino, tuttavia, è riuscita a mobilitare un vero seguito politico. Navalnyj invece potrebbe riuscirci.
L’accusa principale mossa contro Navalnyj è che quando era consulente del governatore della regione di Kirov si sarebbe appropriato indebitamente di denaro appartenente a una ditta di legname di proprietà statale. Uno studio legale di Chicago ha preso in esame il suo caso e ha concluso che le accuse sono ridicole e infondate. Lo Stato non ha fatto  niente per confutare queste conclusioni. Ma poi è subentrata la Commissione investigativa federale, un’istituzione molto potente al servizio di Putin, e senza l’aggiunta di ulteriori prove Navalnyj è stato formalmente incriminato di aver trafugato legname per un valore di oltre mezzo milione di dollari. Non è una coincidenza che uno degli obbiettivi del recente scandalo svelato da Navalnyj sia il capo di quella stessa Commissione investigativa, Alexander Bastrykin. Navalnyj ha pubblicato sul suo blog alcuni documenti dai quali risulta che Bastrykin possedeva segretamente un permesso di soggiorno e una proprietà immobiliare nella Repubblica Ceca, dando adito a parecchie domande sulla fiducia da lui millantata nel futuro della Russia e — dato che la Repubblica Ceca fa anche parte della Nato — sulla sua vulnerabilità a essere ricattato. Lo Stato, ovviamente, spera che condannando Navalnyj per appropriazione indebita, riuscirà a intaccare la sua credibilità di attivista anti-corruzione e a sbarrare la strada a ogni sua ambizione politica. (La condanna per un reato grave comporta l’interdizione dai pubblici uffici).
Sospetto che l’opinione pubblica sappia molto bene quello che sta accadendo. E proprio questo è il punto. Il processo è uno show e la morale di questa farsa è che se ti azzardi ad alzare troppo la testa potresti finire col perderla.Inun’intervistarilasciata a
Izvestia, Vladimir Markin, l’untuoso portavoce della Commissione investigativa, non ha lasciato dubbi sul vero reato commesso da Navalnyj. Quando il quotidiano gli ha chiesto perché il caso fosse balzato al primo posto del registro delle cause, il portavoce ha risposto: «Se una persona cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione su di sé, è inevitabile che l’interesse sul suo passato aumenti e che l’iter che porta a far piena luce su di lui acceleri». Markin ha lasciato intendere che Navalnyj (che ha trascorso un semestre a Yale per un programma mirato a far fraternizzare i leader stranieri) sia una sorta di “Manchurian Candidate” dell’Ivy-League, in missione per conto di mentori americani che vogliono far scoppiare un conflitto al Cremlino destinato a concludersi con il suo arresto e a dimostrare che la Russia perseguita chi spiattella la verità. L’intervistatore gli ha anche chiesto perché, invece di spaventare Navalnyj minacciando col carcere, lo Stato non abbia ingaggiato la sua competenza nel settore anti-corruzione per far pulizia nel Paese. «Nessuno sta ostacolando le sue attività» ha ammiccato Markin. «Anche in prigione molti carcerati lottano contro le carenze del sistema».
Gli amici di Navalnyj dicono che questo caso sarà uno smacco per Putin. Screditerà ancor più un sistema giudiziario politicizzato. Rischierà di fare di Navalnyj un martire. Metterà a rischio il trattamento riservato alla Russia nei G-8, G-20, nel gruppo dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, per non parlare delle Olimpiadi invernali 2014 di Sochi. Oltretutto, in un periodo in cui la Russia ha un dannato bisogno di capitali stranieri, sfruttare le leggi economiche a fini di repressione politica incute paura negli investitori. «Putin non vuole che la Russia diventi uno stato paria» mi ha detto pieno di speranze un caro amico di Navalnyj.
Speriamo che sia vero, ma Putin — soprattutto negli anni più recenti del suo governo che pare non avere fine — non ha saputo calcolare in modo lungimirante gli interessi russi. È diventato al contrario ancora più egocentrico e stravagante: uno
stuntman che posa a torso nudo in groppa a un cavallo, che abbraccia un orso polare sedato, che pilota un idroplano a motore che fa da guida a uno stormo migrante di gru siberiane. È diventato anche più gretto e vendicativo, ha firmato una legge che pone fine all’adozione da parte degli americani di orfani russi e ha obbligato le organizzazioni no-profit a registrarsi come “agenti stranieri”.
Nella campagna volta a trasformare il caso di Navalnyj in un avvenimento esemplare, gli amici e i sostenitori dell’attivista sono stati pedinati, perquisiti, vessati e minacciati. Le autorità hanno intentato causa al fratello di Navalnyj, e hanno fatto circolare email di carattere confidenziale che paiono suggerire qualche tensione nel suo matrimonio. Navalnyj sa bene che talvolta la paura serve. I seguaci del blogger appartenenti alla classe media potrebbero avere qualcosa da rimetterci. «La maggior parte delle élite o quanto meno dell’élite imprenditoriale» ha detto Navalnyj tempo fa a Ellen Barry del
Times, «è formata da persone dalle opinioni liberali, ma fifone. Hanno paura di tutto. E quindi se ne stanno zitte. Io non accuso nessuno: l’essere umano è debole».
Per gli Stati Uniti, il caso Navalnyj richiede una diplomazia ben dosata. Il presidente Barack Obama e Putin hanno fissato a settembre un summit bilaterale e l’amministrazione sta facendo di tutto per cercare di salvare un rapporto in procinto di fallire. Sarebbe sbagliato permettere che questo caso ostacoli la cooperazione nella lotta al terrorismo (come ci ricorda il collegamento di questi giorni tra Boston e Cecenia) o la riduzione degli arsenali nucleari o una possibile collaborazione russa nella risoluzione delle crisi in Siria e in Iran. In ogni modo, sarebbe altrettanto sbagliato fingere che il caso Navalnyj non sia importante. Spero che Obama presti attenzione al processo show a Navalnyj: imparerà qualcosa sull’uomo che gli sederà di fronte dall’altra parte del tavolo e anche su colui che — chissà — un giorno potrebbe prenderne il posto.
(© The New York Times News Service Distributed by the New York Times Syndicate Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 24.4.13
L’intervista
Plenel, direttore di “Mediapart”: “Dall’online una sfida per noi giornalisti”
“Così la rivoluzione digitale cambia la lotta contro il potere”
di Anais Ginori


PARIGI Quando cominciò, nessuno lo prese sul serio. Difficile credere che potesse crescere, nel panorama asfittico dell’informazione scritta francese, una nuova testata online di inchieste e contenuti esclusivi, per giunta a pagamento. Cinque anni e molti scoop dopo, Edwy Plenel ha vinto la sua scommessa: quasi 75 mila abbonati e i conti in attivo da ormai due anni. «Ma soprattutto — spiega al telefono — abbiamo dimostrato che si può praticare il nostro vecchio mestiere nel cuore della modernità digitale». Quello di Mediapart, precisa il fondatore Plenel, non è new journalism.
L’ex direttore della redazione di Le Monde rifiuta le etichette, così come sostiene di non aver inventato nulla di nuovo, diffondendo per primo le intercettazioni dell’affaire Bettancourt o svelando i conti segreti del ministro socialista Jerome Cahuzac, costretto alle dimissioni. «L’unica regola da seguire — dice Plenel che conserva ancora i baffi della sua militanza trotskista in gioventù — è pubblicare tutto ciò che ha un interesse pubblico».
Come dimostra il caso del blogger Navalnyj, lei pensa che i nuovi “cani da guardia” della democrazia sorgeranno online?
«Mediapart è stato un laboratorio. Siamo nati come un normale giornale, non siamo diversi soltanto perché online. Ci siamo battuti per difendere un giornalismo indipendente, ispirato alle migliori tradizioni nazionali e internazionali. La qualità delle nostre inchieste è sotto gli occhi di tutti. Qualcuno pensa, sbagliando, che su Internet ci sia spazio solo per l’informazione-intrattenimento».
Siete stati tra i primi a scegliere di far pagare i contenuti.
«Non bisogna avere paura del digitale, pensando che significhi la distruzione del nostro mestiere. Noi abbiamo agito diversamente. Io sono per la gratuità democratica, quella delle opinioni e della condivisione».
Eppure fate un giornale di notizie, pochi i commenti. Il vostro motto è “L’informazione parte da qui”.
«Con la rivoluzione digitale, tutti i cittadini possono esercitare il diritto d’opinione. È un’ottima cosa che obbliga però noi giornalisti a concentrarci sul reportage, inchieste, analisi. Nell’affaire Cahuzac, i vecchi media hanno reagito con commenti e opinioni, invece di verificare quello che dicevano. È come se avessimo perduto i vecchi riflessi del buon giornalismo».
I suoi nemici la chiamano “giornalista-procuratore”. Qual è il limite davanti al quale accetta di fermarsi nella pubblicazione di notizie?
«Il segreto è l’eccezione. E ogni eccezione deve essere giustificata e controllata. Ricordo la frase del presidente del Terzo Stato: la pubblicità delle vita pubblica è la salvaguardia del popolo. Non è questione di trasparenza. Si tratta del diritto di sapere dei cittadini,per essere liberi di decidere, scegliere».
Con Sarkozy lei si è scontrato duramente, anche in tribunale. Ora Mediapart ha provocato un terremoto nel governo socialista.
«Siamo semplicemente indipendenti. Nella nostra critica della presidenza Sarkozy abbiano denunciato l’influenza di un’oligarchia di interessi privati. L’arrivo di un presidente socialista non è sufficiente a evitare la commistione tra politica e affari. Conosco bene François Hollande, con il quale ho fatto un libro-intervista nel 2006. Con lui per fortuna siamo usciti dall’isteria della presidenza Sarkozy. So che Hollande non ha fatto pressione sulla giustizia, contrariamente a quel che avrebbe fatto il suo predecessore. Il problema qui è diverso. Hollande non agisce, sta a guardare. E intanto il sistema crolla».

La Stampa TuttoScienze 24.4.13
È a cinque mesi che diventiamo davvero umani?
A Parigi i test sul riconoscimento dei volti
di Gabriele Beccaria


Nasciamo dopo nove mesi di gestazione, ma la nostra vera vita da umani consapevoli comincia a cinque mesi d’età, quando - secondo la scoperta realizzata dai neuro-scienziati dell’École normale supérieure di Parigi – cominciamo a riconoscere una serie di volti altrui e a reagire in modi diversi alla loro presenza. Lo svela un test, condotto leggendo in diretta i segnali del baby cervello.
Siamo testoni, nel senso che alla nascita la testa grande (e sproporzionata) è una caratteristica distintiva della nostra specie insieme con un cervello già ingombrante e due gambe promettenti, che si preparano a farci camminare come irrequieti esseri bipedi. Gli antropologi sostengono che questa natura multipla ci rende esseri bizzarri, soprattutto se ci confrontiamo con i parenti scimmieschi. Nasciamo gracili e indifesi, incapaci perfino di aggrapparci alla mamma, come sanno fare scimpanzé e gorilla appena venuti al mondo, e non è un caso che il nostro baby cervello resti un enigma. Ecco perché sta facendo discutere l’ultimo esperimento condotto dall’Ecole Normale Supérieure di Parigi.
Infilando un inoffensivo ma scenografico caschetto di elettrodi a un gruppo di bambini e osservando che cosa avviene nelle loro piccole-grandi teste, si è scoperto che a cinque mesi hanno sviluppato una prima forma di autocoscienza. Se nasciamo dopo nove mesi di gestazione, la nostra vera vita da umani consapevoli comincia - o comincerebbe, secondo questa scoperta - nel momento in cui riconosciamo una serie di volti altrui e reagiamo in modi diversi alla loro presenza.
E questo, in realtà, è solo l’inizio di una serie di fasi che hanno dello sbalorditivo, come si racconta nel nuovo saggio di Chip Walter, «Last ape standing», appena uscito negli Usa e dedicato all’impresa dei Sapiens, unici sopravvissuti di 27 diversi ominidi, comparsi nel corso di alcuni milioni di anni. Mentre nella pancia della mamma i nostri neuroni si sviluppano fino alla strabiliante velocità di 250 mila nuove cellule al minuto, al momento del parto il cervello pesa meno di un quarto di quello che diventerà in età adulta. Poi, nei primi tre anni accelera di nuovo, triplicando di dimensioni, continua a crescere fino ai sei anni, sperimenta una massiccia riconnessione dei circuiti nell’adolescenza e completa la propria evoluzione entro i 20 anni.
Nessuna altra specie sperimenta una simile metamorfosi post-natale, sfidando i rischi di un lungo processo di crescita. Nell’interminabile infanzia e adolescenza che ci contraddistingue - sottolinea Walter - c’è con ogni probabilità un fattore decisivo della nostra forza: nemmeno i più diretti «competitors» - i Neanderthal - si sono potuti permettere di allevare bambini così sofisticati e al tempo stesso tanto implumi.
E dal momento che un bambino non comincia a parlare se non intorno a un anno, il team parigino ha cercato di sondare un aspetto-chiave della costruzione cerebrale analizzando i segnali elettrici legati ai meccanismi di riconoscimento visivo. Utilizzando l’elettroencefalografia, si sono registrati i flash di una serie di segnali nel sistema nervoso che sembrano identificare proprio l’inizio della «coscienza visiva», vale a dire la capacità di vedere e ricordare ciò che si è visto. Protagoniste sono state 80 «cavie» - di 15, 12 e cinque mesi - e ai più piccoli ci sono voluti 150 millisecondi per scatenare la cascata neurologica del riconoscimento. Tempi dilatati rispetto a un adulto, ma è a quell’età che la performance - spiega Sid Kouider sulla rivista «Science» - finalmente si manifesta, replicando lo stesso processo che avviene nelle menti orgogliose di mamma e papà.
IL SITO : WWW.ENS.FR/?LANG=FR


Corriere 24.4.13
Paradosso Italia: un Paese più laico ma l'immigrazione moltiplica i culti
Crescono islamici, sikh, buddisti, e anche cristiani non cattolici
di Francesco Margiotta Broglio


Alla crescente secolarizzazione (il relativo «Indice» calcolato annualmente da «Critica liberale» segnala per il cattolicesimo tendenze lente ma progressive dal 1991 al 2010) si accompagna, nell'Italia di oggi, la sorprendente vitalità delle minoranze religiose moltiplicate dai flussi migratori. La mette in piena luce la ricerca interuniversitaria di grande rilievo, diretta da Enzo Pace, su Le religioni nell'Italia che cambia. Mappe e bussole (Carocci, pp. 267, 29) che ha individuato, con rigorosi criteri metodologici, i luoghi di culto e i profili dei rispettivi «ministri» delle realtà religiose, in gran parte nuove, incentivate dai recenti flussi migratori (si parla di 189 diverse provenienze), senza trascurare ovviamente quelle storicamente radicate nell'Italia cattolica (ebrei, valdesi).
Emerge con chiarezza tutta la complessità di una società religiosa sempre più multietnica, che modifica e diversifica, anche al loro interno, le diverse aggregazioni confessionali prese in considerazione: ortodossi di diversa obbedienza patriarcale e nazionale, sikh, musulmani, induisti, buddisti e altri culti «asiatici», neopentecostali e carismatici africani, protestanti, evangelici, avventisti, pentecostali (che nel 2025 saranno nel mondo circa 800 milioni), testimoni di Geova, mormoni, ebrei. Di particolare interesse gli «studi di caso»: Torino, Bologna, Roma, Palermo, Castelvolturno con le sue chiese evangeliche africane, Mazara del Vallo con i suoi tunisini, i tamil dello Sri Lanka in Emilia Romagna e Sicilia, gli immigrati cattolici di diversissime provenienze, con i loro «cappellani etnici» e i Centri pastorali ecclesiastici distribuiti su tutto il territorio. E di grande rilievo la «mappatura» di edifici e luoghi di culto o di preghiera (varie tabelle e 23 carte) che mette in evidenza la vastissima casistica, la difficoltà di ricostruire il nuovo panorama religioso in tutta la sua complessità (centri religiosi, culturali, sociali, assistenziali) e l'importanza delle rilevazioni empiriche. Chiudono l'opera uno studio sulle trasformazioni delle nuove generazioni — talvolta in conflitto familiare e che mettono in discussione «ciò che è tradizione e ciò che è religione» —, le conclusioni di Pace, una preziosa «Nota metodologica» di Valentina Schiavinato e l'appendice con la mappe degli insediamenti. Lo spazio non permette di citare gli autori delle 12 sezioni, ma si tratta di specialisti di altissimo livello che riescono a far «parlare» le statistiche (dovute in massima parte alle indagini Caritas-Migrantes), integrandole con dati storici e contatti diretti, verifiche anagrafiche dei referenti e della diffusione, e mettendo in luce «i tratti distintivi e le articolazioni interne delle principali fedi religiose», grazie, appunto, alla «mappatura dei loro luoghi di culto» visibili, che ne rappresenta, con una prima «istantanea», la dislocazione e la densità a livello nazionale, regionale e comunale e che mette in evidenza il cambiamento, dal punto di vista delle credenze, di un' Italia dove «lo stesso cattolicesimo… conosce contaminazioni inedite e inattese» grazie alle migrazioni e anche alla presenza di «circa 2.000 parroci non italiani che hanno… coperto i buchi lasciati dal calo delle vocazioni e dall'invecchiamento del clero» nazionale.
Del tutto inedita e inattesa, comunque, la «prossimità» sul territorio di «religioni un tempo considerate lontane» che «nel giro di soli 20 anni» ha trasformato il panorama confessionale: «Da Paese a maggioranza cattolica… l'Italia sta diventando una società caratterizzata da una diversità molto articolata e del tutto inedita», vicina, rispetto ad altri Paesi europei, alla realtà della Gran Bretagna. Colpiscono: le crescenti presenze degli ortodossi, che ormai affiancano l'Islam come seconda religione del Paese — con prevalenza, però, del sentire nazionale su quello religioso — e che fruiscono per il 73% di sedi concesse dalla Chiesa cattolica; gli inediti dati sul sikhismo, privo ancora di riconoscimento giuridico, che si sta consolidando e sta moltiplicando luoghi di culto e centri socio-culturali soprattutto in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto; le peculiarità dell'Islam italiano con le sue diversificate provenienze e organizzazioni (Ucoii, Cii eccetera), che non permettono di parlare di un contesto confessionale omogeneo per un milione e 646 mila fedeli (in parte di seconda generazione e con nuclei di italiani convertiti) diffusi su tutto il territorio, ma soprattutto nel Nord, i cui luoghi di culto passano dai 351 del 2000 agli oltre 700 di oggi; lo sviluppo di gruppi e tradizioni che si rifanno a esperienze religiose e spirituali asiatiche, alle quali si avvicinano anche italiani (l'Unione buddista ha concluso l'intesa con lo Stato); l'esplosione di Chiese pentecostali e carismatiche, nuove come quelle africane o di più antica presenza come le Assemblee di Dio, che a metà degli anni 40 contavano già 250 centri e che hanno stipulato l'intesa fin dal 1986; le 3.000 «congregazioni» dei testimoni di Geova, con le loro 1.300 «sale del Regno» e i circa 250 mila evangelizzatori; il «radicamento veloce» dei Mormoni, con intesa dal 2012, e la vitale presenza delle antiche e radicate Chiese valdesi (che registrano un incremento delle firme per l'8 per mille ben superiore ai loro fedeli) e di quelle battiste, metodiste, avventiste e luterane, tutte «dinamizzate» dall'immigrazione e alle quali l'intesa con lo Stato ha consentito nuovi positivi sviluppi anche sociali; i secolari insediamenti (21 comunità) degli ebrei d'Italia (circa 24 mila) decimati dalla Shoah, ma in forte ripresa culturale e religiosa (l'intesa del 1987 ha avuto conseguenze del tutto positive), nonostante la diminuzione della loro popolazione e le sfide della modernità; il significativo fenomeno dei «cattolici immigrati», con i loro diversi riti, culture e strutture, i cui 650 «Centri pastorali» — in parte parrocchiali, in parte inseriti in parrocchie esistenti — sono più che raddoppiati tra il 1999 e il 2010 e si articolano per riti, nazionalità o etnie/lingue, «contaminando», in un certo senso, il cattolicesimo della tradizione.
Un sfida, questa preziosa, documentata e innovativa ricerca, anche per i poteri pubblici, privi di una legge organica in materia e obbligati a riconoscere e gestire la crescente diversità religiosa con il sistema delle «intese», positivamente sperimentato, ma che era stato definito dai costituenti per un ben diverso e più circoscritto panorama confessionale.

Corriere 24.4.13
Sequestro Moro, il mistero del triplo negoziato fallito
di Carlo Vulpio


Trentacinque anni dopo, ecco Aldo Moro. Cosa sappiamo? Cosa ricordiamo? A malapena, che lo statista democristiano — più volte presidente del Consiglio, ministro e sicuro prossimo capo dello Stato — fu sequestrato a Roma il 16 marzo 1978 dalle Brigate rosse e fu poi ritrovato cadavere, sempre a Roma, il 9 maggio dello stesso anno. Forse i più «informati» sapranno che in quei 55 giorni di prigionia si fronteggiarono un «partito della fermezza» (quasi tutte le formazioni politiche, Pci in testa), contrario a ogni negoziato con i terroristi, e un «partito della trattativa» (i radicali, ai quali poi si aggiunsero i socialisti), che invece voleva salvare l'ostaggio. Poi, più nulla. Tutto sepolto da quei luoghi comuni che, ripetuti dalla tv fino allo stremo e tradotti in carta stampata di libri e giornali, diventano «storia». Nel caso Moro, essi sanciscono che l'omicidio del presidente Dc fu l'esito tragico e inevitabile di quella contrapposizione. Punto. E che non se ne parli e non se ne dubiti più.
Ecco, proprio quest'ultima tesi è la prima delle falsità messe in circolazione trentacinque anni fa e da allora sempre riproposta come «verità storica». Pur tra depistaggi, doppi e tripli giochi di spie dell'Est e dell'Ovest e persino sedute spiritiche (celebre quella a cui partecipò Romano Prodi e che attende ancora una spiegazione) che indicavano in «Gradoli» (la via di Roma, non il comune del Viterbese in cui vennero indirizzate le ricerche) la prigione dello statista, Moro non doveva essere ucciso, ma doveva essere liberato. Anzi, stava per essere liberato, e grazie non a una, ma a ben tre trattative, condotte su tre piani e da tre soggetti diversi: i nostri servizi, che trattavano «con Tito, i palestinesi e altri gruppi arabi; Paolo VI (che chiede la liberazione di Moro senza condizioni, ma tratta riservatamente); e poi la trattativa coordinata da Leone e Fanfani». Solo che all'ultimo momento, proprio il giorno prima della «esecuzione», la decisione di risparmiare la vita di Moro cambiò. Cosa accadde di preciso, e perché, nessuno è ancora in grado di dirlo con certezza. Di sicuro però c'è che Moro, con la sua visione lunga di creare in Italia le condizioni per l'alternanza alla guida del Paese (non per il coinvolgimento puro e semplice del Pci nel governo) alterava gli equilibri di Yalta, poiché l'ingresso dei comunisti al governo di un Paese nell'area di influenza occidentale sarebbe stato un pericoloso precedente, che avrebbe legittimato gli americani a fare altrettanto nei Paesi dell'area sovietica, creando il pluripartitismo e sostenendo le forze a loro più vicine.
Questa lettura del caso Moro, ben raccontata da Alessandro Forlani nel libro La zona franca (Castelvecchi, pp. 321, 19,50), non è un esercizio di dietrologia, ma di critica, diciamo pure di critica «sciasciana», nel senso che non si accontenta delle facili ricostruzioni «storiche», né delle presunte «verità processuali», ma si affida al ragionamento, alla logica, alle testimonianze dirette dei protagonisti, ai fatti. E un fatto, tra i tanti riportati alla memoria e messi in relazione logica tra loro, era, scrive Forlani, «la contrarietà di Moro alla dismissione delle grandi industrie, lo statista non voleva che l'Italia diventasse a breve un Paese in cui l'economia fosse basata sul terziario (insomma, un grande supermercato)». Come un fatto era pure l'avversione di Moro all'idea di un'Italia trasformata in base strategica per destabilizzare il Medio Oriente e consentire alle compagnie petrolifere occidentali di assicurarsi più facilmente il petrolio di quelle aree.
Il libro di Forlani, infine (ma forse soprattutto), ha il grande merito di riabilitare la parola «trattativa». Che quando viene utilizzata per salvare vite umane — di leader o di gente comune — non è una brutta parola, ma risponde a un'idea di ragion di Stato che mette al primo posto la vita umana, come dicevano in quei giorni lo stesso Moro, Bettino Craxi, Giuliano Vassalli e poi anche il figlio di Aldo Moro, Giovanni.
Si trattò con i palestinesi nel 1973, dopo l'attentato che costò la vita a 32 persone a Fiumicino. La stessa magistratura si disse pronta a trattare per Mario Sossi, sequestrato dalle Br nel 1974, allentando le misure carcerarie per i detenuti di estrema sinistra. E nel 1977 lo stesso Paolo VI (anche la Chiesa ha, per fortuna, sempre trattato in questi casi) si offrì come ostaggio quando i terroristi tedeschi della Raf dirottarono un aereo. E poi si trattò nel 1980, per il giudice Giovanni D'Urso, e nel 1981, per l'assessore regionale della Campania, Ciro Cirillo. Come pure si è trattato con mafie e poteri vari, e non una volta sola, per salvare vite innocenti. Anche per Moro si trattò, ma non andò come doveva andare. Moro doveva morire.

Corriere 24.4.13
Dopo l’elezione di Laura Boldrini
Per una cultura del riscatto femminile
di Valeria Termini


Caro direttore, ho letto ora la bella lettera al Corriere della presidente della Camera Laura Boldrini «Le storie, la nostra rabbia, una legge contro le stragi», del 20 aprile e sono grata a Lei e al Suo giornale che ancora ospita in prima pagina, per fortuna, il richiamo alle forme più alte della democrazia del Paese. Le scrivo da un aereo che mi riporta a Roma da New York, dove presso le Nazioni Unite ho vissuto l'intensa settimana che ogni anno in aprile riunisce il Comitato dei 24 esperti di Pubbliche amministrazioni di cui ho l'onore di essere parte, per dare indirizzi e suggerimenti alle Nazioni Unite (in Ecosoc) e migliorare la diffusione dei Millennium Development Goals in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Tra questi, come certamente sa, la condizione e il ruolo delle donne è centrale, insieme alla lotta alla povertà estrema e a malattie terribili come l'Hiv.
Tra noi «esperti» il numero delle donne africane è elevato (la rappresentanza è naturalmente bilanciata) e il confronto di idee, di esperienze e di lavoro comune raggiungono momenti di impegno e di partecipazione di intensità straordinaria. Leggere sui nostri giornali l'ennesima tragedia «che non fa più notizia» e — non Le nascondo — seguire lo spettacolo terribile della nostra democrazia malata proprio negli stessi giorni in cui discutevamo di modelli partecipativi di governance da condividere con i Paesi in via di sviluppo, ha scosso in modo particolare la mia identità di persona libera, parte di quei Paesi avanzati che si ingegnano a offrire paternalistici suggerimenti di valori democratici, politici ed etici al resto del mondo.
La lettera di Laura Boldrini, che ho appena letto sul Suo giornale, mi ha colpito e rincuorato. Ha trovato il tempo che non c'è e ha sentito la responsabilità personale, in momenti che immagino assai concitati per il Parlamento che guida, di intervenire in prima persona per contribuire a modificare «la mentalità diffusa che deve essere cambiata». Dopo anni di terribili umiliazioni, trascorsi in un silenzio attonito e costernato a fronte di una violenza crescente e inaudita e, purtroppo, sempre più tollerata in quasi ogni atto della nostra vita quotidiana, ne condivido l'urgenza. Voglio cogliere l'invito di Laura Boldrini alla necessità di riflettere su quanto sia indispensabile reagire alla rabbia e all'umiliazione che ancora colpisce così duramente nel nostro Paese e ad agire di conseguenza. Raccolgo l'esortazione che offre, a noi «donne nelle istituzioni» in primis, di dare voce alla nostra indignazione rendendola forte, collettiva e temibile. Insieme con le altre «donne delle istituzioni» sarebbe importante che riuscissimo a costruire intorno alla presidenza della Camera un percorso per portare nella nostra casa ciò che davvero manca nel nostro Paese, e cioè la dignità e il ruolo di metà della popolazione, la cui difficoltà suona ancor più stridente in una delle democrazie più industrializzate del pianeta, insieme a tutti i problemi sociali che conosciamo. Anche l'avvio e il collegamento tra loro di azioni semplici ma efficaci condotte nelle istituzioni pubbliche può essere un modo di dare attuazione ai Millennium Development Goals delle Nazioni Unite.
Potranno accompagnarsi a un impegno istituzionale alto, che parte dal cuore della nostra democrazia e che oltre alla forma normativa, indispensabile, si potrebbe attivare in attività diffuse, che investono l'agire quotidiano delle istituzioni e che, negli anni, possono modificare con la comunicazione e la disseminazione delle buone pratiche il sentire profondo della popolazione che da generazioni deve essere scosso. Penso tra l'altro alla possibilità di utilizzare tutte le forme comunicative a disposizione, quali la «pubblicità progresso» della presidenza del Consiglio dei ministri, o tante altre forme per «fare cultura», che sono disponibili alle istituzioni pubbliche. Per non abituarci mai allo scempio del ruolo della donna cui abbiamo assistito in questi anni.
Sono sicura che dobbiamo reagire per noi stesse, ma soprattutto per i nostri figli, sia maschi sia femmine, che non meritano un'eredità così gretta e settaria.
Componente Autorità per l'energia elettrica e il gas


Repubblica 24.4.13
Dai videopoker agli psicofarmaci senza ricetta ecco le nuove droghe degli adolescenti
Indagine Cnr: in aumento anche la coca e, dopo dieci anni, l’eroina
di Fabio Tonacci


ROMA — Davanti alla scuola tanta gente, otto e venti, prima campana. «E perché dovrei spegnere quella sigaretta?», sorride da sotto il suo ciuffo biondo Luca, 16 anni portati con la leggerezza con cui tiene quella Marlboro in bilico tra le labbra. «Mica mi faccio le canne, io. Però gioco, sì. Scommetto sul calcio, ogni sabato. E faccio qualche torneo di poker su Internet». Che non si può, se non si è maggiorenni. Ma Luca se n’è già andato, «scusa ma ho il compito in classe di latino». L’idea che anche lui faccia parte di quell’8 per cento col vizio del gioco d’azzardo, una preoccupante novità dell’ultima ricerca del Cnr sulla popolazione studentesca, non lo sfiora nemmeno. Oggi Cicerone o Seneca, sabato c’è da azzeccare il risultato di Torino-Juventus. E via così.
Al liceo classico Visconti, uno dei più rinomati del centro di Roma, ti guardano con sufficienza quando inizi a recitare i dati dell’Espad, il rapporto sul consumo di droghe, alcol e dipendenze varie realizzato su un campione rappresentativo dei 2,5 milioni di studenti italiano tra i 15 e i 19 anni. Uno su quattro ha fumato almeno una volta una canna (la media europea è più bassa) e il 15 per cento lo fa spesso, il 4 per cento
ha sperimentato cocaina e pasticche, l’uso di eroina (l’1,7 per cento dei ragazzi dichiara di averla provata) per la prima volta è tornato a crescere di qualche zero virgola. «Sì sì, come al solito ci considerano tutti drogati e alcolizzati — minimizza Silvia, prima ginnasio, quadernone a quadretti sulle ginocchia con una sfilza di equazioni da risolvere — ma non è così. Non qui al Visconti, almeno. Qui siamo “regolari” ». Liberamente tradotto, significa figli della Roma borghese che lavora, pochi problemi, molte prospettive. La preside Clara Rech conferma: «Non ho notato comportamenti preoccupanti nei miei studenti, forse i dati si riferiscono agli istituti in periferia ».
Però qualche “irregolarità” si scorge anche qui. Ad esempio quando il discorso cade sull’altro nuovo vizio che mette a rischio la salute dei giovanissimi, rilevato dall’Espad: il consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica, dichiarato dal 15 per cento dei ragazzi. Silvia ora non minimizza più. «Beh, io qualche volta prendo le pasticche per dormire di mia nonna. Sai, lo stress prima dei compiti in classe. No, non me le ha prescritte il medico. Per le diete, poi, tutte prendiamo qualche pillola strana. Magari funzionassero...».
Magari bastasse risolvere equazioni per sconfiggere l’insonnia. Tra l’altro aggravata, in alcuni casi, dal consumo smodato degli energy drink, quelle bevande analcoliche contenenti caffeina, taurina, carnitina, creatina, guaranà e altri stimolanti. «Meglio una birra», pare essere l’opinione più o meno condivisa al Visconti. Però nei distributori automatici quelle lattine ci sono anche qui, e comprarle è diventata un’abitudine per il 27 per cento degli studenti italiani. «All’apparenza non sembrano preparati dannosi — spiega Sabrina Molinaro, a capo del team di epidemiologia dell’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr che ha condotto la ricerca — però abbiamo notato un dato curioso: chi ne fa uso mostra una tendenza a ubriacarsi con bevande alcoliche doppia rispetto alla media.
La colpa potrebbe essere dei cocktail a base di superalcolici e energy drink».
Di chi sia la colpa del dilagare del gioco d’azzardo tra i giovanissimi, invece, è ancora da chiarire. Ma i dati raccontano che il 19 per cento di chi gioca rientra nelle categorie dei giocatori problematici o a rischio di sviluppare dipendenze, che i maschi sono più attratti da poker alla texana, slot machine, scommesse sportive, mentre alle femmine piace il Gratta e Vinci e il Superenalotto, che il primato degli studenti giocatori spetta ai calabresi col 54 per cento. «Quanto gioco io? — ammette per niente imbarazzato Francesco, 17 anni — anche cinquanta a botta, sempre sul calcio. E c’azzecco pure... non sempre, eh». Secondo l’Espad la stragrande maggioranza non scommette più di 10 euro al mese. E però c’è da tenere d’occhio quel 6 per cento che spende più di 51 euro. «Mah, a me questi ragazzi non sembrano molto diversi rispetto a quelli di una volta — chiosa la signora Angela, bidella storica dell’istituto dal 1987 — vuole sapere qual è il loro vero vizio? Che non hanno più rispetto di niente».

Repubblica 24.4.13
Sindrome Machiavelli
Si apre a Roma una mostra per il cinquecentesimo anniversario dell’opera più famosa del Segretario fiorentino
Benito Mussolini, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi hanno scritto prefazioni al
Principe
Il duce esalta il proprio ruolo storico, il segretario del Psi polemizza con il Pci, il leader del Pdl sottolinea l’importanza di curare la propria immagine
Un libro a cui tre politici italiani hanno voluto scrivere la prefazione
Rivelando senza volerlo la loro concezione del potere
di Filippo Ceccarelli


Gli allor ne sfronda, d’accordo. Ed alle genti svela, non c’è dubbio. Ma tralasciando per un attimo le lacrime e il sangue, che pure non mancano in questa avvincente storia di biblio-politica, vale innanzi tutto prendere in esame la straordinaria coincidenza per cui nell’arco di quasi un secolo ben tre presidenti del Consiglio, o aspiranti tali, comunque tre autentici leader italiani, insomma Mussolini, Craxi e Berlusconi, si sono sentiti in dovere di scrivere di loro pugno, o almeno di firmare per interposto ghostwriter, una prefazione al Principe.
E la prima notazione che viene in mente, prosaicamente, a un giornalista politico, è che quegli scritti non hanno portato fortuna a nessuno dei tre. Come se il loro avventurarsi in quel testo gli fosse stato fatale. Di più, e anche peggio: come se l’aver ceduto alla tentazione di misurarsi con la scienza esatta del comando mischiando storia e attualità, passato e opportunità; come se il vezzo di presentarsi come statisti in grado di colloquiare con la grande anima di Niccolò Machiavelli, ecco, l’impressione che si ricava è che tali prove abbiano comportato per ciascuno dei tre capintesta uno speciale e personalizzatissimo castigo. Una specie di contrappasso legato proprio a ciò che nelle loro prefazioni si erano inorgogliti di sottolineare.
Che poi, a pensarci bene, indica una concezione un po’ punitiva della storia, e ancor più del potere, specie quando questo perde di vista la sua insostituibile funzione per automagnificarsi, esercizio di norma eseguito schermando le proprie magagne e cialtronerie dietro la prepotenza e la menzogna. Oppure, come in questo caso, dietro una coltre intellettuale, per giunta invocando a sostegno l’autorità del Segretario fiorentino. Ma senza rendersi conto che proprio questa gli si sarebbe poi ritorta contro. E allora, con la piena coscienza che il senno di poi è chiave suggestiva, ma non sempre esaustiva delle umane vicende, si comincia col dire che il Preludio al Machiavelli dell’allora quarantenne Benito Mussolini fu composto all’inizio del 1924 come prolusione da pronunciarsi in occasione di una laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Bologna.
Ma a parte l’approccio stilistico così sbrigativo da suonare infastidito, e a parte l’efficace megalomania che porta l’autore a trattare con Machiavelli da pari a pari, pure rivelando qui e là impellenze di scoperto narcisismo (là dove scrive, ad esempio, «ben prima del mio famoso articolo»), in un tempo specialmente attento alle forme e alle immagini ciò che oggi più impressiona di quel testo sono le primissime righe.
Lo spunto cioè per il quale Mussolini ha troncato gli indugi che evidentemente lo trattenevano dall’iniziare quel testo: «Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola – dalle legioni nere di Imola – il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli “Cum parole non si mantengono li Stati”».
Con le parole non si mantengono gli Stati. Anche perché a un certo punto il popolo, quest’entità così svalutata da Mussolini, si impossessa di quella spada e trova il modo di levarsi di torno chi l’ha portato alla fame e alla disfatta. (...) Ma per tornare al Principe, e proprio alla luce di quel precedente, occorre chiarire che Craxi firmò sì la prefazione, ma non la scrisse lui, e anzi nel caso specifico nemmeno una correzione volle apportare a quel testo, pur assumendosene per intero la titolarità, inclusi vantaggi e svantaggi. Non è, rispetto al Preludio di Mussolini, una differenza da poco.
Ebbene, l’uomo che materialmente stese la prefazione al Principe firmata da Bettino Craxi era il giornalista e a lungo direttore dell’Avanti!, Franco Gerardi, cui si devono molti dei discorsi pronunciati da Craxi negli anni di Palazzo Chigi, nonché la maggior parte dei corsivi usciti sul quotidiano del Psi. Il cuore politico e il pretesto polemico dell’operazione risiedevano in un attacco alla lettura gramsciana dell’opera di Machiavelli, secondo cui il moderno Principe si identificava nel partito. In tale impostazione che, come ricorda Gerardi con qualche riserva, «mi valse una accusa di asineria da parte dell’Unità», giocavano soprattutto, per non dire esclusivamente, motivi di attualità politica: «erano i tempi dell’orgoglio socialista – spiega oggi lo pseudoCraxi di allora – e ogni occasione era buona per sottolineare le differenze con il comunismo. Così sottolineai, troppo, quel fine che giustifica i mezzi, quel machiavellismo deteriore che poi era la versione italiana del leninismo del Pci, lasciando in ombra la grande figura di Machiavelli, il fondatore dello Stato moderno». (...) Se il Preludio di Mussolini colpisce per l’energica, sbrigativa intensità con cui il duce si prenotava un posto nella storia, e il testo giornalistico di Craxi-Gerardi si fa notare per la scoperta funzione di attacco politico al Pci, le paginette di Berlusconi paiono poco più che di circostanza. anche se a loro modo sono rivelatrici.
Come i suoi predecessori, dopo un minimo di inquadramento storico, il Cavaliere giudica l’opera di Machiavelli valida «anche ai nostri giorni», ma ne estende l’utilità a «tutti coloro che gestiscono posizioni di responsabilità», quindi non solo ai politici, e lui allora non lo era. Ciò detto, sarebbe temerario azzardare l’ipotesi che nel menzionare in conclusione l’auspicio che «dopo tanto tempo l’Italia vegga uno suo redentore», il futuro presidente stesse pensando a se stesso e a quell’impegnativo ruolo. Ma tra i molti suggerimenti che il Machiavelli trasmette, e che Berlusconi accoglie e raccomanda, oltre a quello di mirare sempre in alto «come gli arceri prudenti» e a quel-l’altro di saper essere a seconda dei casi leone e volpe, ce n’è un paio che egli doveva sentire particolarmente vicini al suo modo di essere e che riguardano la fama e la considerazione degli altri. in pratica quel complesso di segni, indizi, atteggiamenti e comportamenti che egli sintetizza nella necessità di «curare con la massima attenzione la propria immagine, perché – spiega citando Machiavelli – “ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se”». Il motto ricorre, sopra lo stemma aziendale, anche nel segnalibro accluso all’edizione extralusso. E seppure è vano tirare bilanci sull’attualità, e tanto più in questa sede, è anche vero che tra gloria e successi, sconfitte e processi, fallimenti e scandali di ogni variopinto genere, la vicenda berlusconiana sembra essersi accesa e consumata proprio intorno alla fama e all’altrui considerazione, per non dire intorno all’attenta, ma anche alla mancata, cura dell’immagine dell’imprenditore, del leader, del presidente, oltre che dell’uomo. Tutto è avvenuto, è vero, e seguita ad avvenire senza che grondino lacrime e sangue, come nel caso di Craxi e di Mussolini. Ma al giorno d’oggi è come se il potere se ne andasse a picco o in fumo o alla malora in un clima perturbante di ridanciana euforia, come dinanzi a un cataclisma lungamente annunciato da cafoni, buffoni, luminarie, coriandoli e cenere. e ancora una volta il Principe si conferma un testo radioattivo, che poi sarebbe un modo scombinato per dire che tutto alla fine si rende e un po’ anche si paga: «Perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro», ed è una massima che si è cercata nelle tre illustri prefazioni, ma invano.

Repubblica 24.4.13
La solitudine del filosofo
Torna “Gesù Cristo e il cristianesimo”, l’opera del grande pensatore anticrociano che venne sequestrata dalle autorità fasciste
Il Vangelo senza la Chiesa secondo l’eretico Martinetti
di Massimo Cacciari


iero Martinetti appartiene ai pochi, ma grandi “solitari” del pensiero italiano della prima metà del Novecento, capaci di opporsi drasticamente alla “doppia egemonia” crociana e gentiliana. Un altro nome mi viene subito in mente, quello di Giuseppe Rensi. Pensatori entrambi di statura europea, “in presa diretta” con le correnti della “grande crisi” che investiva i fondamenti di ogni disciplina scientifica e filosofica, e di quegli stessi sistemi dell’idealismo classico tedesco, che, invece, Croce e Gentile intendevano “riformare”. Entrambi, pur sulla base di diversissime ragioni, oppositori a viso aperto del regime fascista, fin dalla sua nascita, e perciò privati della cattedra nel ’31. Martinetti, che allora aveva quasi sessant’anni, insegnava da tempo a Milano, dove ebbe, tra gli altri, allievi come Antonio Banfi. Da quel momento fino alla morte, nell’anno orribile 1943, visse ritirato nella sua casa nel Canavese. L’opera fondamentale di quest’ultimo, drammatico periodo è Gesù Cristo e il cristianesimo (ora ristampata da Castelvecchi), pubblicata nel ’34, immediatamente sequestrata dalle autorità fasciste, messa all’indice dalla Chiesa.
La riflessione sulla esperienza religiosa e sul cristianesimo era già centrale nella filosofia di Martinetti. La religione è una forma che assume il processo di liberazione dello spirito verso quell’unità suprema del «sapere nostro… col logos eterno, che è il fondamento assoluto della nostra natura». La religione è una forma per la quale, spinozianamente, giungiamo a concepire la vita sub specie aeternitatis.
Questo è il nostro Fine, ovvero il Regno dei Fini, che ci si impone come compito necessario: «Nella conquista graduale della libertà l’uomo realizza un ordine, una legge che, nella sua perfezione, resta sempre per lui un ideale; ma che tuttavia, poiché è la sorgente dell’attività umana che la realizza, deve già essere ab initio, come un mondo ideale, in Dio». Il valore insuperabile dell’esperienza religiosa consisterebbe, dunque, nel condurre il processo di liberazione fino al “contatto” più intimo, profondo, radicale dell’anima con quel suo Inizio, con quella Unità suprema di soggetto e oggetto, di sapere e natura, che essa postula continuamente nella sua ricerca, nel suo inesausto interrogare. Religione, insomma, come esattamente l’opposto di ciò che lega, che vincola, che riduce lo spirito alla lettera. Il cristianesimo è religione spirituale, poiché il suo Fine non è un “paradiso in terra”, ma lo stesso, ininterrotto processo di liberazione da ogni terrena condizionatezza, da ogni contingente norma che voglia imporsi alla nostra interiorità. «La religione vive nelle anime, non nel mondo», e ancora: un fondamento storico «è sempre questione di imbarazzo per un pensiero religioso vivo».
Gesù Cristo e il cristianesimo è la storia o il destino di un tale cristianesimo spirituale, che si fonda sulla drastica separazione tra Regno di Dio e il reame di questo mondo, che appartiene sempre alle potenze demoniache. Non si potrebbe immaginare sfida più esplicita, coraggiosa, polemica nei confronti del cristianesimo delle Chiese, e di quella cattolica in particolare. Esse sono tutte marchiate da radicali aut-aut, da scelte e decisioni inappellabili. La vastità delle conoscenze, i fondamenti anche eruditi di questo libro-testamento sono tutti volti a dimostrare quest’assunto: che il cristianesimo storico, a partire da Paolo, ma, ancor più, dal Vangelo di Giovanni, il teologo, si costituisce come una “tradizione” che essenzialmente tradisce l’annuncio di Gesù. Paolo e Giovanni divinizzano Gesù. Le Chiese ne continuano l’opera, facendone un idolo, che, alla fine, «relega completamente nell’ombra il Dio di Gesù, il Padre celeste». Sulla base di questa idea Martinetti può svolgere una storia del cristianesimo dove la patristica orientale è assente, Anselmo, Alberto, Tommaso non vengono neppure citati, e il pensiero di Agostino viene ritenuto «insignificante»!
Esiste tuttavia una Chiesa spirituale, formata da tutti coloro che hanno continuato a trasmettere la «saggezza» di Gesù, successione di spiriti che hanno «attraversato il mondo umili e miserabili come lui e i suoi discepolo». Il primo nome di questa successione è quello di Marcione, l’ultimo quello di Kant. Marcione costituì, nel Secondo secolo, l’alternativa radicale alla Chiesa cattolica. Gesù è per lui il Maestro che annuncia il vero Regno dei Cieli, nascosto dal Dio creatore di questo mondo e legislatore della Bibbia ebraica. Al di là degli aspetti mitologici o dell’estremo dualismo del “vangelo” marcionita, è evidente che ciò che di esso a Martinetti interessa è il netto rifiuto di qualsiasi elaborazione teologica fondata sul quarto Vangelo. Qui è il perno del Gesù: la dottrina del Logos contenuta del prologo di Giovanni sta alla base del progressivo abbandono dell’Annuncio. La purezza dell’esperienza religiosa consiste nell’intuire in sé, in interiore, il Dio al di là di ogni predicazione o immagine, verso il quale trascendersi, liberandosi da tutti gli idoli che pretenderebbero di incarnarlo. Perciò il Logos- theos che si fa carne di Giovanni contraddice, per Martinetti, ab imis fundamentis l’insegnamento gesuano. Ed è altrettanto evidente quale sia il grande filosofo che, alla fine di questo processo, dovremo trovare: Hegel. Marcione sta a Kant, come Giovanni a Hegel! È la “dialettica” del Deus-Trinitas l’avversario di Martinetti.
Una simile prospettiva solleva infiniti problemi. È certo che Martinetti pensa alla sua come a un’autentica esegesi della parola di Gesù. È infondata questa pretesa? Non lo penso. Il testo cui anche Martinetti si appella richiede costantemente di essere interrogato: veritas indaganda.
Ma, allora, l’esegesi ne è parte immanente e costitutiva. Come il Logos, in Giovanni, fa esegesi del Padre, così i suoi discepoli dovranno fare esegesi di Lui. Martinetti muove ovunque l’istanza della originarietà autentica, che era, appunto, tipica di Marcione. Ma proprio la novitasdi questo Annuncio consiste nell’esigenza di farne sempre esegesi. L’origine non è qualcosa che stia “alle spalle” come un fondamento, ma si trasforma nella tradizione, che è sempre anche possibilità di fraintendimento-tradimento. Nel dualismo di Martinetti le due dimensioni si contraddicono.
Per Martinetti il Logos si rivolge al Padre nei cieli, ma non si incarna nella storia, non accoglie in sé il proprio stesso smarrimento nella storia, ignora il “grande grido” dell’Abbandonato sulla Croce. Martinetti non vede come, accanto alla sua esegesi, sia necessario pensare anche a quella che darà vita alla teologia trinitaria — e proprio a partire dalla drammatica dello stesso Annuncio. Aut-aut, certo, ma questo aut-aut è sistole e diastole della nostra civiltà. E proprio il non saperlo sopportare ne segnerà forse la fine.
La “linea” marcionita (analogamente a quella delle più grandi eresie) è volta alla “razionalizzazione” dell’Annuncio, a mostrare il significato tutto spirituale dei temi dell’immortalità, della resurrezione, del “comandamento nuovo” dell’amore per tutti, anche per il nemico. La paradossalità della parola di Gesù viene costantemente spiegata “nei limiti della sola ragione”. Kierkegaard e Barth sono lontani quanto Hegel dal cuore e dalla mente di Martinetti. Ma se nel grande dibattito intorno al Cristo dei secoli III e IV avessero prevalso le correnti marcionite o gnostiche o manichee quale cristianesimo sarebbe sopravvissuto? Forse appena una memoria erudita. La stessa possibilità che un Harnack o un Martinetti parlino della Chiesa spirituale in contraddizione con le Chiese dipende dal fatto che queste si sono storicamente affermate, permixtae, compromesse in ogni modo con la civitas hominis, peccatrici come quel Pietro su cui testimoniamo di fondarsi. Eppure mai del tutto dimentiche che possa darsi anche la Chiesa spirituale, mai semplicemente o astrattamente inimiche dello “spirito profetico”. È il paradosso dell’incarnazione che ne informa la storia, nel bene e nel male. Ma proprio da ogni male dovrebbe, invece, restare libera la Chiesa spirituale, in cui la legge morale kantiana si è fatta natura interiore, espressione dell’ideale religioso supremo per Martinetti, e tutt’uno, ovviamente, con la sua etica. Potremmo ancora chiederci se questa assimilazione di cristianesimo e ideale etico, che respinge, alla fine, ogni elemento di irriducibile paradossalità dell’esperienza religiosa, costituisca il solo mezzo per mantenere vivo oggi l’ascolto dell’Annuncio — o non rappresenti piuttosto proprio il suo estremo “tradimento”, la sua “traduzione” in religiosità etico-filosofica o, peggio, in “cultura”. Ma soprattutto dovremmo interrogarci se oggi la “lotta” sia davvero ancora all’interno dello spazio complesso e contraddittorio disegnato dalla Europa o cristianità, spazio formato da Chiese e eresie, istituzioni e forze spirituali, potenze politiche e religiose cristiche e anti-cristiche, tutte consapevolmente appartenenti a un unico Evo, oppure proprio questa comunanza di opposti sia tramontata o volga inesorabilmente al tramonto. Chiese e chiesa spirituale sono in procinto, forse, di ritirarsi insieme in deserto, scoprendo così, nella comune sconfitta, la loro comune matrice.