giovedì 25 aprile 2013

l’Unità 25 aprile 2013
25 aprile, una piazza per unire il Paese
di Andrea Liparoto

Responsabile comunicazione dell’Anpi

IL PAESE VIVE IN UNO STATO DI ABBANDONO SOCIALE SENZA PRECEDENTI E L’INTERESSE INDIVIDUALE, L’«ATTESISMO», LE DIVISIONI, SONO LE UNICHE, incredibili risposte. Non è più possibile esitare. È l’ora di una piazza nazionale, infinita, responsabile, una piazza delle radici, autentiche: una piazza della Costituzione.
Una piazza della memoria, di donne e uomini che ricordano o gli è stato raccontato dai protagonisti che cosa è stato il Paese senza la Costituzione, senza la libertà. Un Paese intollerabile.
Una piazza per chi non sa, è distratto, appartato, perché «tanto non cambia niente». Una piazza per unire.
Una piazza di vene partigiane. Senza fronzoli, di voci come mani sulla coscienza e sul cuore. «Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi... Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati», scrive il comandante Nello Quartieri, 91 anni (dal libro «Io sono l’ultimo» pubblicato da Einaudi)
Una piazza che se non ci stiamo tutti, riscendiamo domani. Che non c’è giorno di troppo per liberarsi. Una piazza come il bacio di un’idea. Che torna forte e ambiziosa.
Come tremare, al solo immaginarla.
Una piazza che entra nelle case e si siede a tavola: devo raccontarvi una storia. Una piazza...pulita. Una piazza che... oggi siamo più belli. Che... domani o antifascismo o non cantatecele col cambiamento. Che...
non c’è più tempo da perdere
Una piazza affinché... Arrigo Boldrini «Bulow», Piero Calamandrei, i sette fratelli Cervi, Laura Polizzi «Mirca», Teresa Mattei, non smettano di battere nel cuore del futuro. Che Rodolfo Graziani, e i criminali come lui, non possono vivere due volte. Una piazza illuminata a giorno di ragazze e ragazzi che a non ascoltarli si muore prima. Una piazza per il dopo. Per tornare a camminare insieme, a riconoscerci uguali nei diritti e nei doveri. L’unica Patria possibile è questo popolo, questa coscienza. La Patria del 25 aprile, di quella straordinaria primavera di unità e entusiasmo collettivo. Di semi di democrazia. Appuntamento qui. E poi non perdiamoci, più.

il Fatto 25 aprile 2013
L’anniversario
Ah già, il 25 Aprile: il senso di una data dimenticata
di Furio Colombo


Caro Furio Colombo, col tempo tutte le celebrazioni diventano riti, senza alcun rapporto con la realtà. Che senso ha il 25 aprile per i giovani di oggi?
Silvana

C’È UNA RISPOSTA ovvia: tutti i Paesi celebrano, in alcune date, gli eventi essenziali della loro Repubblica. Si tratta sempre di eventi che hanno segnato e cambiato la storia del Paese. E questo basterebbe a spiegare la data del 25 aprile che ricorda a tutti i cittadini italiani, ogni anno, che quel giorno è finita una guerra spaventosa, è finita la dittatura feroce che aveva provocato quella guerra, ma anche la persecuzione (fino allo sterminio) dei cittadini italiani ebrei, e l’eliminazione degli avversari politici. Ed è finita la separazione dell’Italia dai Paesi civili.
Ma c’è di più nella storia italiana. C’è la Resistenza. Che vuol dire l’esercito spontaneo di italiani che si è auto-organizzato, con poche armi e rischio altissimo per far finire, combattendo, il fascismo e la sua delirante ideologia. Va subito notato che, se il fascismo e il nazismo sono stati battuti e stroncati da tutti coloro che hanno combattuto, nel mondo, in nome e in cerca di libertà (tra cui la Resistenza nazionale più vasta, quella italiana) ci sono ancora in Europa germi diffusi dei due mali, che a volte vengono colpevolmente tollerati.
UN ESEMPIO è la “festa del compleanno di Hitler” appena celebrata a Varese, la regione presieduta da Maroni che evidentemente ha approvato e sostenuto l’evento, una bella vergogna per i lombardi che lo hanno eletto. Dunque il 25 aprile, data della sconfitta del nazismo, del fascismo, non può essere dimenticato. Ma, per l’Italia, c’è un’altra grande ragione per ricordare e anzi celebrare il 25 aprile. Persone venute da quel grande movimento di Liberazione hanno redatto, punto per punto, il testo della Costituzione italiana, che è la realizzazione e la garanzia della libertà ritrovata, e che è ogni giorno sotto attacco, a cominciare dai tentativi continui di devastazione di Berlusconi e del berlusconismo.
No, non c’è niente da dimenticare in questa nostra Storia. La difesa della libertà e la difesa della Costituzione sono un impegno e un dovere che continuano. E abbiamo bisogno di coinvolgere in questa battaglia tutte le persone giovani che riusciremo a raggiungere.

l’Unità 25 aprile 2013
Letta ci prova, il Pdl ostacola
L’incaricato: «Un governo di servizio».
«Non farò un governo a tutti i costi»
Napolitano: «Soluzione senza nessuna alternativa» . Ma è scontro sui ministri
Il confronto fra i democratici
Fiducia, il Pd alla prova Bersani: c’è bisogno di noi


il Fatto 25 aprile 2013
Napolitano nomina il nipote di Gianni Letta
Il vicesegretario Pd Enrico Letta incaricato per un governo di larghe intese: lo stesso che Bersani non volle fare
Forte sostegno dal capo dello Stato: è giovane, ma esperto
Lui: “Esecutivo non a tutti i costi”
Il Pdl chiede tre posti-chiave: Giustizia (Schifani), Economia (Brunetta) e vicepresidenza (Alfano). Per i democratici divisi, veleno puro


l’Unità 25 aprile 2013Il papa ha telefonato a Napolitano
L’Osservatore Romano: il Pd recuperi una voce sola o governo sarà debole

Il governo di Enrico Letta, «al di là delle dichiarazioni di buona volontà dei partiti, sferzati con severità dal capo dello Stato nel suo discorso di insediamento», «dipende pur sempre dai numeri in Parlamento. Ed è evidente che, di fronte a un Pd che non recuperasse al più presto una voce sola, il governo sarebbe debole e con prospettive troppo a termine. Non è un buon viatico per un esecutivo che non può limitarsi a gestire la sola emergenza». Così l’Osservatore romano in un articolo di analisi sull’incarico a Letta di formare un esecutivo. «Nell’importante intervento a Montecitorio sottolinea Marco Bellizi a chiusura dell’articolo il presidente Napolitano, non ha soltanto condannato la gestione dell’impasse istituzionale di questi ultimi due mesi ma ha bollato senza mezzi termini “l’incapacità, la sterilità, la sordità e l’irresponsabilità” manifestate dalle forze politiche nei sette anni del suo primo mandato presidenziale, a partire dalle mancate riforme istituzionali; fra queste, soprattutto, la riforma elettorale».

l’Unità 25 aprile 2013
Adesso Renzi tenta la scalata al partito
Il sindaco pronto al congresso: o puntando direttamente alla segreteria o sostenendo un nome gradito
di Vladimiro Frulletti


«Ascolta quel che ti dice la zia». È da qualche giorno ormai, anche grazie alla comune frequentazione parlamentare, che Rosy Bindi si intrattiene sempre più spesso con Simona Bonafè, la giovanissima deputata che fa da front office televisivo per i renziani. Segno che, se anche per la «zia» Bindi alcuni steccati nei confronti del mondo renziano sono caduti, allora per davvero il clima nel Pd per il sindaco fiorentino è parecchio mutato. Da pericolosa minaccia anti-partito a risorsa quasi indispensabile (tanto da essere anche candidabile a Palazzo Chigi) il passaggio è stato sì breve, ma certo non indolore. Basti pensare che a un certo punto della scorsa settimana, quando Pd e Pdl trovavano l’intesa su Marini, cioè proprio sul nome a cui Renzi aveva detto no (assieme a quello di Anna Finocchiaro), il sindaco s’è davvero sentito con un piede fuori dal partito. Poi è successo che il Pd s’è sfarinato, sfiorando pericolosamente il suicidio con l’affossamento di Prodi. Di fronte al baratro ecco che è stato quasi naturale aggrapparsi a Renzi. Non solo simbolicamente: a molti non è sfuggito l’abbraccio che gli ha riservato Alessandra Moretti. E in effetti la sua possibile ascesa a Palazzo Chigi in pratica era sostenuta da tutti gli ex Ds (da Fassino a Orfini, ai giovani dalemiani, a Veltroni), da gran parte degli ex Margherita (esclusi i mariniani) e non osteggiata dai bersaniani e neppure dallo stesso Letta (con cui Renzi aveva mangiato un panino prima della direzione). Poi la chiamata dal Colle non c’è stata, forse per un veto berlusconiano (smentito dal Pdl). Però adesso quel bonus guadagnato nel partito Renzi ha intenzione di giocarselo. Per un sondaggio del Tg3 il 67% degli intervistati lo vorrebbe segretario (Barca è al 13%). Anche perché se certo non si può parlare di figliol prodigo, sicuramente anche il sindaco di Firenze negli ultimi tempi un po’ di maggiore attenzione alla vita interna del Pd (a quelle che definiva stanche liturgie) l’ha messa. E ora, col nascente governo Letta, gli toccherà fare il passo definitivo e giocare in prima fila la partita per la segreteria. Sempre che ovviamente non cambi lo statuto e come chiede qualcuno (da Barca al presidente della Toscana, Rossi) non si scindano le figure di segretario e candidato premier. Una corsa che Renzi però deve ancora decidere se fare direttamente o meno. Perché fra le ipotesi da prendere in considerazione c’è anche quella di portare alla guida del Pd non il sindaco, ma una figura a lui gradita, soprattutto se sarà ipotizzabile che le elezioni si terranno fra un paio d’anni. In questo caso Renzi si ricandiderà a sindaco di Firenze (si vota il prossimo anno), un ruolo che gli garantisce, come dimostrato in questi anni, una forte visibilità. Certo tutto dipenderà dalla forza che avrà il governo Letta, da quanto durerà e da quanto saprà fare. Ad esempio per il senatore renziano Andrea Marcucci dovrà avere tempo e scopi limitati: rispondere all’emergenza sociale e cambiare la legge elettorale. Poi di nuovo al voto.
Renzi a Letta ha mandato via twitter un abbraccio e un “in bocca a lupo”. Parole non formali visto che poi ha passato la giornata al telefono per aiutare il suo governo a decollare. Dopo la trasferta romana, ieri prima di pranzo, Renzi è tornato a Firenze. Ha fatto sapere che non sarebbe andato al festival del giornalismo a Perugia e s’è chiuso in Palazzo Vecchio.
Il messaggio è chiaro: sto facendo il sindaco, tutto il resto ora non mi interessa, incarichi ministeriali compresi. Che non vuol dire però che nel governo Letta non ci saranno ministri renziani: il presidente Anci Delrio e Richetti (come sottosegretario) sono in pole. Oggi ad esempio il sindaco celebrerà il 25 Aprile e poi andrà a inaugurare i lavori al giardino dell’orticultura. Ma per il futuro, più o menio prossimo, per Renzi sarà comunque indispensabile allargare la propria sfera di influenza nel Pd. E in questa direzione ha già cominciato a muoversi e a fare muovere i suoi uomini. E infatti Dario Nardella, già suo vicesindaco e oggi deputato, spiega che c’è da rianimare un Pd con «l’elettroencefalogramma piatto». E che la cura sta nel «ricambio del gruppo dirigente» e nel recupero della «vocazione maggioritaria» con una leadership forte (ogni riferimento a Renzi è voluto) mettendo «nel cassetto» l’dea «di un partito di federazioni, di correnti e di potentati».
Il 4 maggio ci sarà l’assemblea nazionale che dovrà convocare il congresso e dare una guida temporanea al partito. Una gestione collegiale in cui saranno presenti anche i renziani. Come uomini del sindaco ci saranno anche fra chi dovrà scrivere il regolamento congressuale e avranno il compito di allargare il più possibile la partecipazione dei cittadini. Il modello sono le primarie di Veltroni e di Bersani-Franceschini, non certo quelle dello scorso novembre. Perché il Pd a firma Renzi se ci sarà, avrà un «senso» assai diverso da quello che Bersani ha tentato di dargli da quattro anni a questa parte.

l’Unità 25 aprile 2013
Il partito democratico salvato dai ragazzini
di Pasquale Scimeca


L’ALTRA SERA, TORNANDO A CASA, STANCO DOPO UNA GIORNATA DI LAVORO E DI FREDDO, IN QUESTO INVERNO che non ne vuol sapere di finire, mi sono buttato sul divano e ho acceso la televisione. È una cosa che non faccio mai, ma avevo letto che su La 7 ci sarebbe stata una trasmissione dove si parlava del Partito democratico.
Be, insomma, lo sapete tutti quello che sta succedendo in questi giorni! Mentre il mio disgraziato Paese affonda lentamente, ma inesorabilmente, verso una decadenza economica e morale che sembra inarrestabile, il Partito in cui avevo riposto le speranze, che avevo votato, e avevo convinto decine di miei amici a votarlo, si era sciolto, come un panetto di burro lasciato sopra una panchina al sole.
Nello studio televisivo c’erano i soliti personaggi: il politico (dalla faccetta furba e stanca), il giornalista di destra ((il direttore del Giornale), e quella di sinistra (Bianca Berlinguer).
Stavo quasi per spegnere il televisore, e andarmene a letto a leggere un libro quando, in collegamento da Udine, è comparsa una giovane donna, dalla bella faccia rotonda come una bambola di porcellana d’altri tempi. Era Debora Serracchiani, che aveva appena vinto le elezioni in Friuli, prendendo 50.000 voti in più della coalizione di centrosinistra che la sosteneva, e insieme a lei, il conduttore del programma, presenta al pubblico che sta a casa, e quindi anche a me, un folto gruppo di ragazzi e ragazze, che sono quelli che in questi giorni occupano, per protesta, le sedi del Partito democratico.
A vedere la faccia della governatrice del Friuli che parlava con grazia, pur dicendo cose terribili: «Voglio sapere chi sono quei 101 traditori che hanno votato contro Prodi, voglio conoscere i loro nomi uno per uno», ma soprattutto, a vedere le facce di quei ragazzi, a sentirli parlare, ho provato, dentro di me, un profondo senso di commozione.
Ma come, mi sono detto, l’impulso primario che stimola l’aver visto/vissuto le vicende di questi giorni è quello di mandarli tutti a quel paese, di lasciare questi dirigenti, questi opportunisti a loro stessi, alla loro deriva e non votarli mai più, e questi ragazzi dimostrano un affetto e una dedizione al loro partito, da spingerli ad occuparne le sedi, a impegnarsi ancora di più a voler lottare per provare a cambiare questa povera patria, dove il destino ha voluto che nascessero.
Mi sono sembrati come i ragazzi della via Pal, disposti a tutto, pur di difendere il luogo che considerano il proprio accampamento, il loro rifugio dai mali del mondo.
C’era un entusiasmo, ma anche una saggezza nelle loro parole, negli occhi e nei gesti che li esprimevano. Uno di loro ha detto: «Io sono andato a occupare la mia casa. Si perché quella casa è anche mia» e un altro ha detto: «Io non voglio lasciare il mio partito nelle loro mani» e una ragazza ha rincarato: «Perché siamo noi il partito. Noi che andiamo nei quartieri e nei mercati a distribuire i volantini, e ci mettiamo la faccia, e ci prendiamo gli insulti per tutte le porcate che combinano quelli lì a Roma».
Se «quelli lì a Roma» uscissero dalle loro macchine blu, e andassero nei circoli, o nei bar, o sugli autobus, o nelle scuole ad ascoltare attentamente questi ragazzi, allora capirebbero con più facilità, quello che molti (i due terzi degli uomini e delle donne di questa nazione) ormai hanno compreso, inclusi quei milioni di elettori di destra che non l’hanno più votato quel signore.
Il motivo inconscio, per cui non vogliono neanche sentir parlare di accordi con Berlusconi, è prepolitico, è prima di tutto morale. Non ha niente a che vedere con la tattica, con le alleanze e tutto il resto, è che loro, sentono il bisogno «esistenziale» di difendersi dalla corruzione morale che quest’uomo, più o meno inconsapevolmente, ha rappresentato in questi ormai quasi vent’anni in cui ha imposto il suo potere sull’Italia.
A sentirli parlare, questi ragazzi, a vedere la sincerità che vi è nei loro occhi mi è venuto il desiderio di prendere anch’io la tessera del Partito democratico, quanto meno per poter avere anch’io una casa da condividere con gli altri, un luogo dove difendermi dalle ingiustizie e dalle brutture di questo mondo.
Mi è venuto in mente l’ultima volta che ho avuto la tessera di un partito: l’anno in cui è morto Berlinguer, quell’uomo che predicava nel deserto la questione morale, quell’uomo che andava di fronte ai cancelli di Mirafiori a difendere gli operai col suo esile corpo.
E con questa piacevole sensazione di «appartenenza» a un popolo che non credevo esistesse più, mi è venuto in mente il pensiero: «Vuoi vedere che questi ragazzini avranno la forza di salvare il Partito democratico»? E quando dico il partito, intendo qualcosa di nobile, un’anima, l’anima cristiana del nostro popolo.
Ho spento la televisione e sono andato a letto, con un sogno, un sogno infantile, lo riconosco, ma nei sogni ogni cosa può avverarsi.
Che i dirigenti, i deputati che abbiamo mandato in Parlamento in nostra vece, potessero, all’improvviso, avere un’illuminazione e ascoltare quei ragazzi, e darsi da fare per cambiare, finalmente, la politica e la morale della nazione.

l’Unità 25 aprile 2013
Non ci salverà il leaderismo serve un’identità sociale
di Pietro Folena


«LA FINE È IL MIO INIZIO», RACCONTA CON SAGGEZZA TIZIANO TERZANI AL FIGLIO FOLCO. L’ epilogo di un modo di essere del Partito, consumatosi in Parlamento la scorsa settimana, vogliamo farlo diventare un prologo. In queste ore difficili in cui migliaia di militanti si interrogano sul senso stesso dello stare nel Partito democratico, vorrei che decidessimo di essere protagonisti della costruzione nel prossimo Congresso di un punto di vista socialista, ecologista, solidale che proponga al Pd un'identità forte e ricono-
scibile: una vera e propria «Costituente delle idee». Una sottovalutazione diffusa delle condizioni di vita della maggioranza delle persone, e del significato del risultato elettorale hanno portato a gravi errori di conduzione da parte del gruppo dirigente scatenando la crisi del Partito democratico. Il Pd è arrivato ad appuntamenti capitali, fino a quello dell’elezione del presidente, come una litigiosa confederazione di capi corrente...Si pone una vera e propria questione morale, nel Pd, la cui ragione più profonda sta nel leaderismo, nell'elettoralismo e nel carrierismo, come fondamenti dell'agire politico. Se l’elezione di Giorgio Napolitano ha frenato una disgregazione e un disfacimento in atto nel Pd, il vero tema che va affrontato è quello dell'identità debole del Partito...che determina nei suoi gruppi dirigenti e nella sua rappresentanza uno scarso senso di appartenenza e di orgoglio di parte; e di una forma-partito che assomiglia più a quella dei partiti notabilari dell' Italia liberale e pre-fascista che non a quella dei partiti democratici. Un ordine nuovo nella vita del Pd può scaturire solo dalla rottura in radice dell'attuale natura elettoralistica e leaderistica del Partito, che trasforma i militanti in tifosi o consumatori di personalità, da esaltare e poi da abbattere, o più mestamente in numeri dei pacchetti delle tessere di questo o di quel notabile. Anche ora sembra si debba cercare come l’Araba Fenice il nuovo leader o la nuova personalità cui affidare i destini del Pd e dei progressisti. Non si smette di errare. Non esiste un Mosè che ci condurrà, attraverso il deserto, alla Terra Promessa. Non ci sono scorciatoie... Dobbiamo rompere questa gabbia. Vogliamo dare alle grandi tradizioni socialiste e mutualiste una nuova voce, e una forza, per impedire uno slittamento centrista che snaturerebbe il Pd, e per agganciare compiutamente, senza se e senza ma, il Partito democratico al Partito del socialismo europeo. Lavoriamo su alcuni punti dirimenti: la politica deve ripartire dalla vita, dall’Europa sociale, dalla libertà solidale, da una nuova nozione di patria.
(Il Partito sociale. Per un «nuovo Pd») Il tema è quindi quello del partito, della sua identità, della sua funzione e della sua organizzazione. In tutta franchezza non sembra che operazioni generazionali, prive di contenuti, siano in grado da sole efficacemente di liberare il partito... La riforma del Pd, il suo rinnovamento profondo, la sua rigenerazione morale possono venire solo se si compie una rottura concettuale. Nella relazione di Fabrizio Barca ci sono spunti interessanti su questi aspetti. La mia opzione di fondo, è quella per un partito sociale: che organizza interessi, o li ascolta, li compenetra, trova forme anche flessibili, tipiche della rete, per attraversare la società, e per ascoltarla, e si propone di produrre cultura e idee, di farlo in modo aperto e partecipativo, studiando il proprio ambito e creando comunità...indirizzandosi al mutualismo, ai servizi autorganizzati, alla promozione di cultura e di educazione permanente. Penso all’apertura di Case della Democrazia, come luoghi di servizi e di cultura di una comunità allargata. Questo impone una natura tendenzialmente federativa e federalista del partito. Ma La condizione per una riconversione di questa natura è la fine dell’identità tra segretario del partito e candidato premier. Anzi: la restituzione dell’elezione del segretario agli iscritti al partito o, per me meglio ancora, al Congresso dei delegati degli iscritti...Sulla base di queste idee intendiamo proporre a tutte e a tutti una Costituente delle idee del nuovo Pd, un’iniziativa politica comune e riconoscibile al Congresso. Nello spirito del Laboratorio, per non essere l’ennesima piccola corrente, ma un luogo unitario di un pluralismo più libero e vero.
Il testo integrale dell’ intervento al Forum del Laboratorio Politico si può trovare su www.pietro.folena.net

il Fatto 25 aprile 13
Dibattito post-diluvio
“Eravamo comunisti, ora siamo la Dc”

Rabbia alla Bolognina
Militanti in rivolta nella sede della svolta Pci-Pds
Giorgio Prodi: mio padre pugnalato
di Emiliano Liuzzi


La Bolognina che pianse non c’è più, la passione di quel 12 novembre 1989, quando il Partito comunista diventò Pds, è stata sostituita con la rabbia per una cosa che oggi stentano a riconoscere anche quelli che la domenica mattina arrivavano in sezione e sentivano parlare di Ungheria, Berlinguer, Unione sovietica. “Qui eravamo stalinisti, oggi siamo tornati democristiani”, dice Graziella, quella che conta più del segretario perché ha le chiavi e alle 17 apre il cancello. Nelle stanze dove Achille Occhetto strappò col passato ora c’è un negozio di parrucchieri gestito da cinesi. È lo stesso quartiere, lo stesso circolo. La stessa città, Bologna, grassa e fu comunista, diventata con gli anni di un arancione sbiadito, a luci intermittenti. Già tanto è stato oltrepassare la stagione di Sergio Cofferati, il sindaco che viveva a Genova, e poi quella di Flavio Delbono, il professore bruciato dalle gite d’amore con l’amante, pagate con i soldi pubblici. Già tanto sopravvivere a questo. Per l'appuntamento che probabilmente verrà ricordato come la Bolognina due, con un mezzo passato e un futuro che presenta nebbia e ostacoli, incertezze ricatti, arrivano centinaia di persone. Giovani, vecchi, ragazze e uomini, operai e impiegati. Accomunati da quella paura di diventare ex di un qualcosa che forse “è morto il 24 e 25 febbraio” o che nella peggiore delle ipotesi non è mai nato.
“QUESTA DIRIGENZA se ne deve andare”, dice Matteo Lepore, che in Comune a Bologna è assessore delegato al coordinamento della giunta. È stato bersaniano e oggi è in quella comune molto ampia che si chiama Reset, parola che si rincorre durante tutto il giorno. Reset con l’attuale dirigenza del partito, reset con Bersani, Bindi, Franceschini e Letta. “Siamo per mandare a casa quelli che hanno portato il partito a questo disastro”. Arriva anche Giorgio Prodi, figlio di Romano che in questi giorni, a chi lo incontra per strada, dice di essere “l’ex presidente”. Giorgio, invece, l'ha presa con meno filosofia. “Il Pd che si riunisce qui oggi è diverso da quello che ha pugnalato mio padre”, spiega raggiungendo l’incontro. I giornalisti incalzano: il professore conosce i nomi dei 101 traditori. “A me non ha detto nulla, però mi sembra molto chiaro il sistema nel quale questo è maturato. Mi auguro che qui dentro si parli di quello che accadrà e non di quello che è accaduto. Altrimenti il partito è morto. Il paese è morto”.
Le facce rabbiose disegnano comunque un malato sul lettino di ospedale in prognosi riservata. Questo è il Pd della Bolognina. Non ci sono altre declinazioni possibili. È tenuto in vita dalle macchine. E dalla passione. Dietro l’angolo nessuno sa cosa ci sia. A Bologna almeno una definizione cercano di darsela. E non sono niente di quello che succede oggi. Sono ex bersaniani, renziani, ex giovani turchi, ma tutti accomunati da una speranza che arriverà solo dopo averci dormito sopra. “Partiamo dall'azzerare tutti, poi vediamo”, dice Lepore. Più duro Benedetto Zacchiroli, renziano ed ex-candidato alle primarie per il sindaco di Bologna senza successo: “La generazione che ha guidato il partito si è autorottamata. Siamo stati sconfitti dai dirigenti ai quali ci eravamo affidati. A noi servirebbe un governo che risolva i problemi degli esodati e non che fa le leggine per Berlusconi. Questo chiedeva il Paese. Ma non siamo stati sconfitti dalla candidatura di Marini al Quirinale e dalla trappola per Prodi: abbiamo perso alle elezioni. È questa la presa di coscienza che serve oggi per cercare uno spiraglio”.
C'È DA CAMMINARE in una nebbia a quaranta all'ora. “Ma chi pensava di venir qui a illuminarci coi falò delle tessere ha sbagliato. Noi ci siamo, ma per riprenderci il partito e aprire una nuova stagione”. È quello che dicono durante gli interventi aperti. E poi parlano di Marini, dell'omicidio Prodi, di Letta.
Inizio alle sei del pomeriggio e poi avanti fino a notte fonda. Lo spirito è quello di chi ha perso un appuntamento con la storia e cerca di non alzare le mani e farsi impallinare. Sicuramente c’è tanta gente. Manca l'odore del fumo di sigarette, mancano le bandiere rosse. Ma non c’è nessuna voglia di rimanere sospesi a metà. Riprendiamoci tutto, soprattutto il futuro. “Non vogliamo morire arancioni o sbiaditi. Non vogliamo morire democristiani”.

il Fatto 25 aprile 2013
#OccupyPd, la base anti-inciucio La protesta dilaga sulla Rete
di Luca De Carolis


Non ci stavano, e non ci stanno. La rivolta dei Giovani Democratici contro il governissimo, ormai nota come #occupypd, continua, con sedi occupate in decine di città e una valanga di invettive (“bruciamo le tessere”), appelli e idee a riempire il web. Una febbre che ha contagiato iscritti e simpatizzanti di ogni età e luogo. Il nume tutelare di tanti ‘insorti’ pare Giuseppe Civati, parlamentare giovane (37 anni) e informatizzato. I suoi tweet contro l’accordo con il Pdl ieri sono rimbalzati su centinaia di profili web. Ma la rete brulica di proposte. Daniele Viotti, 39 anni, militante democratico a Torino, ha diffuso su Facebook un appello ai parlamentari del suo collegio: “Non votate il governissimo, ve lo chiedo, vi scongiuro, per noi e per l’Italia”. E un “alto dirigente” del partito torinese gli ha subito telefonato: “Mi ha detto che non posso usare il simbolo del Pd sull’appello, perché serviva l’autorizzazione del partito. E dire che per mesi avevo cercato di parlargli, inutilmente. La verità è che questi dirigenti si sentono accerchiati: ma io non voglio accerchiare nessuno, voglio confrontarmi”. Intanto l’appello è rimasto sul web, assieme alla risposta di Viotti: “Io non posso usare il simbolo, e voi potete usare il mio voto per un governo contrario a quello per cui vi ho votato?”. Il giornalista Daniele Bianchessi propone una manifestazione nazionale a Roma di tutti gli elettori del Pd, “contro il governo delle larghe intese”. Mentre su Twitter semina consensi l’hashtag #lettanonèilmiopresidente.
MA A DOMINARE la scena sono sempre i Gd, che vogliono cambiare la rotta del partito. Come i ragazzi di Palermo, che da cinque giorni occupano la sede provinciale. “Siamo contrari a questo governo e a questi dirigenti, che non rappresentano più il mandato per cui sono stati eletti” spiegavano ieri ad Agorà, su Rai3. Alternative? “Volevamo un governo di scopo”. Occupazioni in serie in Abruzzo, con i Gd de L’Aquila che esortano: “Non bruciate le tessere, rifondiamo assieme il partito”. Niente occupazione ma un’affollata direzione provinciale ieri sera a Milano, aperta a tutti. Perché c’è tanta voglia di ritrovarsi, nonostante tutto.
PERUGIA
I Gd nella sede regionale: “Non bruciamo la tessera, non vogliamo arrenderci. Lo diciamo a gran voce: la base non è morta”

TERAMO
Il Teramano è una delle province italiane con il maggior numero di sedi occupate dai Gd

AOSTA
“Abbiamo occupato simbolicamente la sede contro tutti i dirigenti nazionali senza coraggio: non vogliamo l’inciucio con il Pdl”

PALERMO
Forse il cuore della protesta al Sud. Dai renziani, la “scomunica” nei confronti degli occupanti: che vanno avanti

l’Unità 25 aprile 2013
Andrea Orlando
«Vediamo i ministri, ma non sia la foto dei conflitti del passato»
«Il Pd ha sbagliato a rinunciare a qualunque iniziativa nel rapporto col Capo dello Stato. Decisiva la composizione dell’esecutivo»
intervista di Simone Collini


È come dice Napolitano, al governo Letta «non ci sono alternative»?
«È chiaro che al punto a cui siamo arrivati i margini di manovra si sono ridotti in modo impressionante».
E però lei, onorevole Andrea Orlando, è tra quelli che alla Direzione del Pd si sono astenuti sul documento che dava «piena disponibilità» alle proposte del Quirinale: perché?
«Perché quel documento ha significato la rinuncia a qualunque iniziativa nel rapporto col Capo dello Stato, che aveva ancora diverse opzioni aperte».
C’è stato comunque l’incarico al vicesegretario del Pd: soluzione positiva, o no? «Sicuramente Enrico Letta è una figura di solido profilo. Ora bisognerà vedere quali saranno i prossimi passaggi della formazione del governo. Molto dipenderà dal tipo di composizione che complessivamente emergerà».
Cosa intende dire?
«Ci può essere una squadra in grado di parlare al Paese e una che rischia di rispettare solo gli equilibri interni delle forze politiche. E nel mezzo ci sono molte sfumature».
Stando alle indiscrezioni, il Pdl punta a far entrare Alfano, Schifani, Cicchitto... «Non entro nel merito dei nomi ma si rischia di costruire una squadra che sarebbe più la rappresentazione di un conflitto del passato che non il tentativo di parlare al futuro del Paese». Ma secondo lei il Pdl è veramente intenzionato a far nascere il governo Letta?
«Il Pdl alza la posta. Se stiamo alle dichiarazioni ufficiali vuole far nascere questo governo, se vediamo quello che trapela, compresi i nomi che lei mi ha fatto, sembrerebbe di no. Non credo sia il momento di creare difficoltà al presidente incaricato e spero che sia raccolto da tutte le forze politiche l’appello del Capo dello Stato a cercare una soluzione unitaria, evitando di appesantire eccessivamente la barca di Letta. Altrimenti si rischia l’affondamento».
E per navigare in sicurezza cosa dovrebbe fare, questo governo?
«Una legge l’ha indicata Letta, quella sull’anticorruzione, poi va affrontato il tema della liquidità, data una risposta all’assenza di crescita anche rivedendo i vincoli europei, dovrà arrivare a buon fine la misura sui pagamenti alle imprese, evitare l’aumento dell’Iva previsto per luglio, provare a dare impulso alla domanda interna. E poi una delle ragion d’essere del governo è la modifica della legge elettorale e la riduzione numero dei parlamentari».
Due temi su cui non hanno trovato un’intesa Pd e Pdl, mentre sostenevano il governo Monti...
«Visto il messaggio alle Camere, chi ha raccolto l’appello di Napolitano implicitamente si è impegnato in questa direzione. E penso sia stato fatto esplicitamente anche con Letta».
Nel caso vi venisse proposto, ci saranno «giovani turchi» nel governo o ne volete star fuori?
«Noi non vogliamo aggiungere difficoltà a difficoltà. Pur essendo contro questa formula, ci auguriamo che chi era a favore, anche nel Pd, non renda più difficile l’impresa a Letta».
Fermo restando che bisogna vedere che tipo di compagine nascerà, lei voterà la fiducia al governo?
«La Direzione ha votato un documento sul quale mi sono astenuto ma che per noi è vincolante. Se nella composizione del governo si andrà oltre quanto scritto in quel documento mi riserbo di fare le mie valutazioni all’interno del gruppo. Dopodiché ho un impegno a rispettare quanto deciso dalla maggioranza, così come ho fatto nei diversi scrutini per l’elezione del Presidente della Repubblica». Un’ultima domanda sulla vostra proposta di candidare Renzi alla premiership: era un modo per bruciarlo, per modificare i rapporti interni al Pd o cosa?
«Di letture stravaganti ne ho viste tante, compreso che si trattasse di una sorta di Midas, ma in realtà quella proposta è nata da una semplice valutazione politica. Una formula come quella prefigurata, che è l’opposto di quella tentata per più di cinquanta giorni, può concretizzarsi solo mettendo in campo personalità con un forte rapporto con l’opinione pubblica. E Renzi, piaccia o no, in questo momento è quello che ha un consenso più ampio. Ora la scelta caduta su Letta ci pare in parte il tentativo di raccogliere questa indicazione. Ci dispiace però che della nostra proposta siano stati dati altri tipi di lettura. È la conferma che il nostro dibattito è, spesso, più finalizzato alla marcatura interna che al tentativo di risolvere insieme i nodi irrisolti».

l’Unità 25 aprile 2013
Rifondare i democratici
di Gianni Cuperlo


Enrico Letta è stato negli ultimi quattro anni il vicesegretario del Pd. Oggi ha il compito di guidare un governo di emergenza col concorso di una parte del centrodestra e di Mario Monti.
E con l’opposizione di SeL, 5Stelle e forse della Lega. Questa la fotografia. Su come ci siamo arrivati bisognerebbe scrivere qualche riga in più, ma in una sintesi si devono almeno citare il collasso del nostro partito, la riconferma di Napolitano, le dimissioni di Bersani e dell’intero vertice democratico, le tabelle angoscianti sull’impoverimento di famiglie, lavoratori e imprese.
Il voto di febbraio si era risolto come sappiamo, senza un vincitore e una maggioranza certa. Da lì il tentativo per un governo di cambiamento. Il rifiuto di Grillo. La paralisi, sino al precipitare della crisi politica. Il Capo dello Stato ha usato lunedì parole sferzanti e ha condizionato il suo mandato alla capacità dei partiti di assumersi le proprie responsabilità. Abbiamo applaudito in piedi. Dopodiché ci siamo riuniti e abbiamo offerto al Colle la disponibilità piena a contribuire al nuovo governo. I fatti, più o meno, sono andati così.
Detto ciò, il punto decisivo per noi è in quale modo spiegare un cambio radicale di strategia come quello che stiamo per compiere sotto la pressione di giornate drammatiche e in una condizione di necessità per il futuro del Paese. Cioè come riusciamo a motivare lo sbocco che per mesi abbiamo escluso dall’orizzonte delle cose possibili, e non in ragione di un pregiudizio ma di una valutazione sull’impatto che questa soluzione avrebbe avuto sulla crisi. Lo ricordo perché noi non abbiamo respinto le larghe intese solo perché c’era Berlusconi. Abbiamo detto di no perché era una risposta che non faceva il bene e l’interesse dell’Italia. Ecco perché questo passaggio è così difficile nel rapporto con quella parte dell’opinione pubblica a cui abbiamo chiesto di crederci quando giuravamo che questa politica non l’avremmo decisa mai. Adesso stiamo per fare l’opposto, non per convenienza o paura ma perché ce lo impone il cedimento di un intero organismo sociale, politico, istituzionale. E perché ce lo chiede la sola figura che agli occhi degli italiani mantiene un grado elevato di autorevolezza. Di questo si tratta e nessuno tra noi può sottovalutare le implicazioni di questa nuova realtà.
Ora, non credo che una svolta tanto radicale si possa governare soltanto mettendo l’accento sul profilo della nostra presenza lì. Di chiunque si parli. E sinceramente non capisco la foga a rivendicare fino in fondo un «governo politico». Certo che il governo sarà politico, tutti i governi lo sono. Ma bisogna sapere che più noi stessi carichiamo di un profilo di partito questo passaggio (con le diverse delegazioni di ministri dell’uno e degli altri), più la parentesi che si apre tenderà a venire vissuta come il governissimo osteggiato a parole. Il Pd è in partita con una delle sue figure di maggiore capacità e prestigio, ed è una cosa che conta. Ma se ancora margini esistono per rafforzare il senso di un’operazione necessaria al Paese, li si colga sino in fondo offrendo l’immagine di un governo composto da personalità autorevoli. Alcune potranno avere un profilo politico, altre forse la maggioranza dovrebbero essere espressione della civiltà migliore, della cultura e delle professioni, del lavoro e di quella banca della generosità che vive in tante associazioni e movimenti. Voglio dire che servono personalità che siano esempi e risorse della società, e non banalmente dei «tecnici», fosse solo perché l’ultima prova di quest’ultimi ha confermato come spesso non coincidono affatto con l’eccellenza.
Aggiungo che penso vi siano altre due condizioni per affrontare il passaggio. Da un lato avere una chiarezza estrema sulle cose che il governo si impegna a fare: poche, essenziali, urgenti, con provvedimenti scadenzati e d’impatto. Sia sul versante economico, a cominciare da come si ricontrattano a Bruxelles i tempi del pareggio di bilancio e una flessibilità sul deficit, che su quello istituzionale, legge elettorale, costi della politica, fine del bicameralismo. Per dire, forse sarebbe un segno se il primo consiglio dei ministri comunicasse cinque delibere: il ritorno alla vecchia legge elettorale coi collegi, l’esenzione dall’Imu sino a 800 euro, la copertura intera degli esodati chiudendo una pagina indecente, i fondi alla cassa integrazione in deroga e il blocco dell’aumento Iva a luglio. E le risorse? Insisto, la trattativa con l’Europa ha da essere immediata, convinta e radicale, almeno se vogliamo salvare quel minimo di coesione sociale che regge in una nazione dove sette famiglie su dieci nel primo percentile di reddito (chi sta peggio) hanno tagliato le spese per la sanità (visite e indagini cliniche) e spende il poco che ha per comprare i medicinali.
Allora, ripeto, fare alcune cose poche e farle subito. Dall’altro lato, conterà la durata limitata di un percorso che ci vede obbligati ma lascia non risolto il tema della nostra alternativa alla destra e di un’altra idea di Paese. Immagino che un congresso davvero fondativo, da fissare subito, dovrà aggredire esattamente questo tema. Tenendo assieme la riflessione sulla natura e organizzazione del Pd nei termini di una sua rifondazione con le convinzioni che metteremo a fondamento di un Paese da rivoluzionare nella sua costituzione materiale. Penso che potrà essere una discussione seria, ricca e concentrata su grandi alternative ideali, culturali e di impianto. Bisognerà cambiare molto, moltissimo. Spezzare l’identificazione tra il partito e le istituzioni. Separare la carica del segretario da quella dell’aspirante premier. Rivedere i meccanismi delle primarie. Ripensare completamente il legame tra partito, movimenti e società. Fare della crisi la leva per una diversa visione dell’economia, della politica, della persona. Bisognerà tornare a formare una classe dirigente, sapendo che il luogo esclusivo di quella formazione non possono essere le amministrazioni.
Credo che Bersani potrebbe condurci a quell’appuntamento prima di tutto perché non è su di lui che va rovesciato il peso di errori che appartengono a tutti noi. Se invece la sua decisione di rimettere il mandato fosse irrevocabile, è giusto sfruttare l’Assemblea nazionale del 4 maggio per accelerare ogni procedura. Se davvero abbiamo davanti mesi difficilissimi, la sola cosa che non possiamo fare è rimanere paralizzati dalle nostre impotenze, divisioni o paure. Smetterla di insolentirsi reciprocamente a mezzo stampa, arginare una spirale televisiva di protagonismo, visibilità e consenso che tutto risucchia e che finisce col prosciugare lo spirito del confronto, spostando il luogo della decisione altrove. Riscoprire, in primo luogo tra noi, un linguaggio composto, meno aggressivo o violento perché nel dramma del Paese non saranno i decibel a distinguere il buono dal danno, ma come sempre lo faranno le idee. Affrontiamo la discussione sulla crisi del progetto, assumiamoci il peso dei nostri errori e proviamo a ripartire, ripensando regole e contenuti. D’altra parte se è vero che abbiamo visto il peggio di noi, la sola cosa da fare è guardare oltre per cercare di dare il meglio. Non sarà facile, ma è ciò che serve.

il Fatto 25 aprile 2013
Ora governo ombra dell’opposizione
di Paolo Flores d’Arcais


Nella più antica democrazia d’Europa, quella anglosassone, dopo le elezioni non viene formato un governo: ne vengono formati due. La maggioranza dà vita all’esecutivo di Sua Maestà britannica, e l’opposizione al “governo ombra”. I cittadini possono in questo modo vedere confrontarsi giorno per giorno provvedimenti di legge in alternativa e contrapposizione, e valutare la credibilità morale e politica dei ministri che i due schieramenti propongono.
Sarebbe dimostrazione di grande caratura istituzionale e coerenza democratica, oltre che di lungimirante intelligenza tattica, se i parlamentari del M5S si riunissero oggi (oggi, perché in politica è decisivo l’attimo fuggente, il kairòs che non perdona) per chiedere solennemente a Stefano Rodotà di formare il governo ombra di Sua Maestà il popolo sovrano. Nell’Italia dell’Inciucio, infatti, a differenza che in Albione, il governo Letta jr. rappresenta la minoranza del paese, anche se verrà plebiscitato dagli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. La metà dei parlamentari che quegli scranni occupa è stata eletta nelle liste del Pd, da cittadini che avevano udito Bersani giurare “con Berlusconi mai, nessun accordo per nessun motivo” e promettere “una vera svolta”, più profonda (garantiva Bersani) di quella agitata da Grillo.
Due italiani su tre hanno votato per voltare pagina, per chiudere col quasi ventennio di ruberia e impunità, che ha ridotto l’Italia a macerie. Si ritrovano invece con un governo Napolitano/Berlusconi (prossimo senatore a vita?), forse con la finta opposizione della Lega, per non dare alla vera opposizione del M5S le presidenze Copasir e Vigilanza che per regolamento gli spettano.
Un governo ombra Rodotà sarebbe perciò l’adamantina risposta costituzionale, l’entusiasmante risposta politica, l’ineccepibile risposta parlamentare e istituzionale, al deprecabile “voltar gabbana” dell’intero ceto dirigente del Pd, che ha ingiuriosamente stracciato la parola data agli elettori e tradito la loro inequivoca volontà. Allargando a baratro il fossato profondissimo che già divide i cittadini dal Palazzo.
Un governo ombra Rodotà otterrebbe non solo il sostegno di M5S e Sel, ma anche della pattuglia dei dissidenti del Pd che troveranno indecente condividere il governo con Mussolini e Santanchè, Cicchitto e Scilipoti. E soprattutto garantirebbe che la sacrosanta protesta popolare, che le misure del governo Letta jr. /Alfano non faranno che alimentare e invelenire, saranno incanalate nell’alveo propositivo del vero riformismo, altrove introvabile.

il Fatto 25 aprile 2013
Chiara Geloni
“Letta? Per De Mita era er dannoso”


Il soprannome di Enrico Letta era “er dannoso”. Lo racconta la direttrice di Youdem, Chiara Geloni, allora ufficio stampa del Partito popolare italiano, oggi bersaniana di ferro, in un articolo amarcord sull’Huffington Post. A coniare il nomignolo fu Ciriaco De Mita che definiva i due vicepresidenti del Ppi uno inutile (Franceschini) e l’altro dannoso (Letta).
Geloni, ci rivela perché lo chiamava così?
Non ricordo l’occasione. Letta era il vicepresidente della corrente di minoranza, quella di Pierluigi Castagnetti. De Mita contestava l’inconsistenza del primo e le continue discussioni con il secondo.
Lo sarà anche al governo?
Ma no, a questo punto bisognava fare così e lui se la caverà.
Convinta che formerà un esecutivo?
Ci proverà, naturalmente non sarà facile.
Il numero due di Bersani che prende il suo posto e fa l’unico governo che il segretario (legittimato dalle primarie) non voleva. Non è grave?
Ma non lo fa contro di lui, il punto è che sono cambiate le circostanze politiche. Ci abbiamo provato, non ci siamo riusciti e ora la priorità è dare un governo al Paese. La scelta l’ha fatta Napolitano e Bersani è più contento che sia stato nominato Letta invece di Renzi.
A proposito, di che umore è Bersani?
É arrabbiato. Ma non per sé, piuttosto per la brutta figura che ha fatto il Pd.
Con chi ce l’ha?
Con chi ha mandato a monte un progetto politico dopo averlo condiviso.
Sembra che i “traditori” fossero adirati per la mancata autocritica di Bersani.
Veramente non l’ho sentita chiedere da nessuno tranne da chi contestava lealmente la sua linea.
Volevano l’inciucio con Berlusconi?
Non posso pensare che nel Pd ci sia chi agisce per questo motivo. Credo che qualche politico non abbia calcolato le conseguenze delle sue scelte.
Che problema ha il Pd?
Un problema culturale di individualismo. Gente che non sa dosare la forza quando gioca in collettivo.
Preferiva un’alleanza con Grillo?
Sì, avremmo risposto alle richieste del Paese.
Se fosse in aula voterebbe la fiducia?
Sì, però avrei votato anche per Marini.
Facile, è il suo padre politico. Invece battute sullo zio Gianni ne avete mai fatte con Letta?
Come no, quando andavamo a cena da lui gli dicevamo sempre che portavamo la crostata.
I rapporti tra i due sono buoni?
Credo di sì.
Lei che farà?
Se i reggenti del partito me lo permetteranno guiderò Youdem fino al congresso. Poi vedremo, ancora non ne ho idea.

il Fatto 25 aprile 2013
Pippo Civati
“Voterò contro il governissimo”
di Caterina Perniconi


Nell’urna dell’ultima votazione per il presidente della Repubblica Pippo Civati ha fatto cadere una scheda bianca. Un ribelle nel Pd, attivissimo sui social network, non ha gradito la riconferma di Giorgio Napolitano e, soprattutto, il percorso di larghe intese che quella scelta presupponeva.
Civati, leviamoci il dente subito: voterà la fiducia a un governo Letta?
Se le cose restano come in questo momento non lo voterò.
Che devono fare per convincerti?
Non lo so, davvero non capisco come si possa fare un’inversione di marcia così netta in una settimana. L’ipotesi del governissimo è quella che abbiamo sempre escluso e ora si fa un super governissimo. Al massimo potevo accettare un esecutivo di scopo.
Non hai avuto spiegazioni dal tuo partito?
In Direzione abbiamo discusso solo un’ora e non nel merito. Non sono stato coinvolto in nessun modo, né prima né ora. Ho ricevuto solo una telefonata dal gruppo come ogni parlamentare.
Nient’altro?
Ah sì, un sms di Franceschini che mi chiedeva perché ero contrario alle larghe intese.
Che hai risposto?
Perché sono larghe intese.
Colpa di Berlusconi?
Ma ci siamo offesi per un anno perché ci chiamavano “Pd meno elle” e ora si fa un inciucio?
Allora è colpa del Pd.
C’è una corrente che attraversava prepotentemente tutto il partito e vuole questa soluzione. Che poi sono quei 101 che hanno votato contro Prodi. Non capisco perché oggi non lo dicono a testa alta, tanto hanno vinto. Si parla di Civati sconfitto ma chi sono i vincitori?
Già, chi sono?
Preferirei che i nomi li facessero loro, ma qualche mese di interviste a favore delle larghe intese possono dare degli indizi.
Martedì ti sei anche astenuto sull’ordine del giorno che rimetteva ogni decisione a Napolitano.
C’era scritto solo che si andava da Napolitano a capire cosa fare. Non me la sono nemmeno sentita di votare contro, sarebbe stata un’offesa all’intelligenza mia e altrui.
Ha deciso tutto il Capo dello Stato?
No, ha deciso il partito. Ma siccome noi in Direzione nazionale non possiamo votare un documento con scritto “andiamo al governo con Berlusconi” ce lo siamo fatto dire da una persona saggia, almeno abbiamo la coscienza a posto.
Sei tentato da un nuovo cantiere di sinistra o vuoi restare nel Pd?
Vorrei cambiare questo partito dall’interno.
Quindi al congresso ci sarà la “mozione Civati”?
Certo, e visto come stanno le cose sarà anche più divertente.

il Fatto 25 aprile 2013
Achille Occhetto
“Altro che 101, l’inciucio arriva da lontano”
di Enrico Fierro


Ha ragione Michele Serra: i nemici della sinistra sono dentro la sinistra. Solo così si spiegano gli eventi di questi giorni, il tradimento di cui è stato vittima Romano Prodi, il no assurdo a Stefano Rodotà, la rielezione di Napolitano, il governo che chiamano delle larghe intese e la resurrezione politica di Silvio Berlusconi”. Parla Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Partito comunista italiano, il regista della Bolognina, “un grande processo storico, altro che le cosette di questi giorni, il tentativo di uscire da sinistra dal crollo dell’impero sovietico e dalla crisi del comunismo”. Onorevole, lei parla di resurrezione di Berlusconi, ma il potere del Cavaliere nasce nel 1994, quando sconfisse la sua “gioiosa macchina da guerra”.
Storicamente sbagliato, quella fu una vittoria di Pirro, il vero potere di Berlusconi nasce quando dall’interno dell’Ulivo viene distrutto l’Ulivo e inizia l’inciucio. Sono stanco di questa semplificazione. Presto leggerete tutta la verità su quei giorni in un mio libro, il titolo sarà proprio La gioiosa macchina da guerra.
Ma l’inciucio si materializza oggi.
Sì, ma viene coltivato da ampi settori del Pd. Quello che è avvenuto in queste settimane non è frutto del caso. Vista l’evoluzione degli eventi, posso dire che il tutto era preparato da tempo. Bersani riceve l’incarico ma ha un mandato limitato e non può sperimentare anche per il governo il metodo che ha portato all’elezione di Piero Grasso alla presidenza del Senato. Il secondo passaggio è la proposta di Franco Marini per il Quirinale, la personalità più adatta per arrivare a un governo col Pdl. Fallisce e spunta la soluzione Prodi, subito impallinato da 101 franchi tiratori del Pd. Non si tratta di cani sciolti, Bersani sbaglia quando denuncia l’anarchia dentro il suo partito, quei 101 sono il frutto di una organizzazione forte e con un obiettivo preciso: il governo con Berlusconi.
Praticamente il suicidio del Pd.
Chi ha innescato questi processi non ha affatto a cuore le sorti del Pd, della sinistra e del centrosinistra. Chi ha manovrato per un governo con Berlusconi sa che il Pd è destinato a perdere e a perdersi, ma non è preoccupato di questo. Perché ci sono interessi superiori, la conservazione di quote di potere personali o di corrente, lo stare dentro un sistema di potere forte.
C’è una parte del Pd ricattabile, ci faccia dei nomi?
I nomi me li tengo per me, diciamo che sono le stesse figure che storicamente hanno impedito, dopo la fine del Pci e la svolta della Bolognina, la creazione di un grande partito di sinistra. Gli stessi che nello scontro col vecchio sistema hanno fatto da freno alla trasformazione dei partiti e della politica. É il male oscuro che ha accompagnato la storia della trasformazione del Pci.
Qualcuno paragona questa fase con quella del compromesso storico berlingueriano.
Ma mi faccia il piacere! Quello era un compromesso tra forze e culture diverse in una fase drammatica della vita del Paese, ma era limpido trasparente, chiaro, qui siamo all’opacità totale, al compromesso sotto banco.
Un nome, Beppe Grillo.
Grillo è la febbre del sistema, chi si lamenta della febbre dovrebbe curare la malattia. Noto che molti dei giovani che ha portato in Parlamento avrebbero potuto militare a sinistra, si battono per la giustizia, per l’equità sociale, per la pulizia della politica, temi nostri.
Altro nome, Matteo Renzi.
Lo vedo bene per la voglia di cambiare radicalmente i gruppi dirigenti, sono diffidente sulla sua visione politica tendenzialmente moderata.
Il Pd è finito?
Diciamo che è nato malissimo. Perché è stato il frutto della fusione di due apparati e non la contaminazione di culture diverse.
E adesso Barca, Vendola, Cofferati, la sinistra riparte da qui?
Adesso si apra una fase costituente, facciamo le primarie sulle idee, confrontiamoci su quali devono essere i pilastri di una nuova aggregazione politica. Solo così daremo una speranza a questo Paese. Per non affondare nell’inciucio e per non morire berlusconiani.

il Fatto 25.4.13
Il premio nobel Dario Fo
No alla grande ammucchiata Pd-Pdl
“Scelta disperata per salvare un partito e il Cav”
di Beatrice Borromeo


È un lapsus freudiano a far sgranare gli occhi celesti al premio Nobel Dario Fo: quello del neopremier Enrico Letta, che ha indicato Giorgio Napolitano come il presidente del Consiglio. “Perché di fatto lo è. Chiamarlo “Re Giorgio” oggi non è più un trionfalismo satirico, ma la verità. Napolitano è il croupier”, dice Fo mentre, passeggiando sulle colline umbre, descrive come se fosse un’opera la grande messa in scena dell’“inciucissimo”.
Dario Fo, lei era il primo firmatario di un appello al Pd perché non mettesse “una lastra tombale sulla speranza di rinnovamento di due terzi degli elettori italiani, portando alla Presidenza della Repubblica una figura della vecchia casta”. Poi è riapparso Napolitano.
È stata una scelta sballata, e non solo perché inconsueta: un gesto disperato per salvare sia il Pd, allo scatafascio, sia il collo di Berlusconi.
Da cosa?
Dal pericolo di essere acchiappato e condannato. Il numero esorbitante di processi che il Cavaliere ha in corso l’ha fatto tremare. Nel pacchetto c'era questo: voi salvate me e io salvo voi.
Le chiamano larghe intese.
È la grande dimensione dell’inciucio, che Napolitano definisce patteggiamento civile. Ma vendere la salvezza a un uomo che non la merita e garantire le sue aziende e la sua forza economica e strategica è un patto scellerato.
Dice che il conflitto d’interessi non sarà al centro del programma di governo?
Questo elemento, che è fondamentale, non è saltato dopo la nomina di Letta, ma appena Napolitano ha ottenuto il secondo mandato. Il Pd gioca con regole alterate. Se si fosse impuntato, questa volta, avrebbe potuto sistemarle. Invece, come sempre, ignorerà il conflitto d’interessi e continuerà a perdere.
Enrico Letta è un politico trasversale, che piace a Washington come al Vaticano, va d’accordo con Alfano e con D’Alema. Pensa che riuscirà a formare un governo?
Non so, lo conosco poco. Ma l'ho sempre visto come un’ombra, come un porta parola di secondo livello. Diciamo una riserva, per non offenderlo. Di quelle che parlano nel più profondo linguaggio politichese.
Eppure è giovane.
All’anagrafe sì. Ma ha già imparato a deviare dalle questioni centrali che la politica dovrebbe affrontare.
Abbiamo votato pochi mesi fa eppure ci ritroviamo con un premier che gli elettori conoscono a stento, scelto, proprio come Monti, da Napolitano. Anomalia italiana?
E anche un bel colpo di fortuna, per lui. La bravura di certi giocatori sta nell’esserci quando c'è bisogno, pronti ad accontentare tutti, tranne che il pubblico. Questi personaggi emergono grazie ai difetti degli altri, troppo invisi, incapaci o sleali.
E gli elettori, in questi giochi, dove sono?
Spariscono. Esistono solo in campagna elettorale. Il Pd ha fatto le primarie promettendo di ascoltarli. “Siete voi che decidete”, giuravano. Poi invece impostano un governo nel quale gli elettori proprio non contano. Per questo, a protestare in piazza, ci sono quasi più tesserati del Pd che grillini.
Molti hanno faticato a capire la candidatura di Marini.
Quelli del Pd volevano qualcuno che, al momento giusto, si occupasse di loro. Rodotà sarebbe stato difficile da gestire.
Così però il Pd rischia di sparire, appena si torna alle urne.
Da sempre i politici, nei momenti cruciali, si aggregano in caste interessate solo alle posizioni individuali. Pensano a continuare la propria scalata al potere, non solo politico ma anche bancario. E perdono il contatto con le persone. Pensate a Bersani, che non va a Taranto, massacrata dai veleni dell’Ilva, perché aveva accettato soldi dalla famiglia Riva. Procedono per cinismi, insultando quelli che li votano e li tengono in piedi. Sto leggendo poemi straordinari di Majakovskij sugli operai.
Li esortava a non credere mai a un dirigente politico, perché ci si accorge subito che mente, che non è interessato ai problemi di chi lo ascolta. “Voi operai, i fottuti”, scriveva. Sono passati settant’anni, ma che precisione.

il Fatto 25 aprile 2013
Tutto a carico del Pd
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non so se hai notato che, da quando è iniziata la ricerca di un nuovo presidente della Repubblica e di un nuovo governo, tutto si è svolto a spese del Pd, che però viene indicato sempre come colpevole. Ti sembra giusto?
Melissa

RICAPITOLIAMO. Tutto comincia con l'attesa e la legittima speranza del segretario della coalizione che ha avuto più voti: ricevere l'incarico di formare il nuovo governo. Ma invece viene affidata a Bersani solo la limitata missione di “verificare se esistono le condizioni”. Come è ovvio, due aspetti negativi si nutrono a vicenda: la missione è piccola, e la risposta è niente. E il Pd - pur avendo apparentemente in mano il bandolo della matassa - appare incapace di formare un governo. Intanto arriva la scadenza istituzionale: eleggere il nuovo Capo dello Stato. Poiché il Pd oscilla fra “grandi intese” e rispetto per i propri elettori che non vogliono “grandi intese”, indica due nomi opposti, Marini e Prodi. Due diversi gruppi di “obiettori di coscienza” (detti un tempo “franchi tiratori”) votano contro, in segreto, dall'interno del Pd, e così non si ottiene un presidente e si spacca il Partito democratico. A questo punto accadono due cose: Bersani si dimette. E il Pd decide di proporre l’immediata rielezione del presidente uscente Napolitano. Il rispetto universale, comprensibilmente dovuto a Napolitano, riporta il presidente uscente di corsa al Quirinale. Ma è stata tolta l'iniziativa al Parlamento, quando invece, in passato, si è votato decine di volte, bruciando molti rispettabili nomi, pur di arrivare a un risultato, senza mai rinunciare. L'operazione Quirinale, ovviamente, era stata concordata tra parti diverse. Ma l'interruzione del processo di selezione e di voto resterà a carico del Pd, che in apparenza guidava il gioco. Al momento di formare il nuovo governo, il Pd è senza segretario però ha un vice segretario, naturale “reggente” in attesa di congresso. Ma il “reggente” viene prontamente chiamato a formare il nuovo governo, forse a causa della sua indole diversa da quella di Bersani (“mi vedete governare con Brunetta?”) e benevola verso le grandi intese. Adesso i casi sono due: se Letta non ci riesce, il Pd avrà fallito ancora una volta. Se ci riesce, il Pd resta senza segretario e senza reggente, costretto a un Congresso improvvisato, e dovrà rispondere della lista di governo che, ammettiamolo, non sarà eccellente, e non potrà separarci a lungo da nuove elezioni. In conclusione, un prezzo non da poco, tutto a carico del Pd. Mi correggo: a carico dei suoi ex elettori.

il Fatto 25 aprile 2013
Lezione dal Friuli: vince la Serracchiani, non il Pd
di Gianni Barbacetto


QUELLI DEL PD da Roma e da Milano guardano Udine e Trieste, e si fregano le mani. “Vedete?”, dicono, “in Friuli-Venezia Giulia abbiamo vinto. Abbiamo battuto il centrodestra di Renzo Tondo e stracciato i grillini di Saverio Galluccio”. Beati loro che si consolano così, scivolando dolcemente verso l’inciucio che li porterà a subire l’ennesimo ritorno di Berlusconi (a Palazzo Chigi o al Quirinale, si vedrà). Farebbero meglio a considerare invece quel che è successo ai confini orientali del Paese. Non ha vinto il Pd, ma Debora Serracchiani (come a Milano non ha vinto il Pd ma Giuliano Pisapia e via elencando). Mentre a Roma il Pd impallinava Romano Prodi e si accodava alle “larghe intese” di Re Giorgio, a Udine e Trieste la candidata del centrosinistra ripeteva: “Bisogna votare Stefano Rodotà”. E martedì, alla direzione nazionale del partito a Roma, si è scontrata a muso duro con Pier Luigi Bersani: “Ho chiesto perché si è arrivati alla candidatura di Marini e ai no a Prodi e Rodotà”. Serracchiani ha ottenuto il 39,4 dei consensi, il Pd il 26,8. E ha comunque portato a casa più della somma dei voti che sono andati ai partiti della sua coalizione. Insomma: la malattia scoppiata a Roma e a Milano (e nel resto del Paese) – purtroppo per il Pd – non può certo essere dimenticata grazie alla buona salute dimostrata a Udine e Trieste.
Sconfitto il Movimento 5 stelle, che prima del voto era dato alla pari con gli altri due schieramenti, tanto che ci si chiedeva se il Friuli-Venezia Giulia non potesse diventare la prima regione a cinque stelle. Invece Galluccio ha raccolto solo il 19,2 per cento e la sua lista ancor meno, il 13,7. Che cos’è successo? Intanto si sa che il cosiddetto “voto di protesta” è più forte su scala nazionale (alle politiche il M5S aveva ottenuto in Fvg il 27 per cento), mentre a livello locale e regionale prevalgono la concretezza, la voglia di risolvere i problemi concreti, le facce e le storie (e le clientele) dei candidati. Alle regionali in Lombardia, per esempio, svolte in contemporanea con le politiche, il movimento di Grillo è andato peggio che in Friuli-Venezia Giulia. Qui poi la “protesta” ha preso un’altra strada: la metà degli elettori non ha votato (alle politiche gli astenuti erano stati il 23 per cento e il 27 alle precedenti regionali). Tante le schede nulle, quasi 12 mila su un totale di circa 520 mila vo-tanti, e quasi 6 mila quelle bianche.
GALLUCCIO ha preso cinque punti più della sua lista: sono più o meno i punti che mancano allo sconfitto Tondo, che si è fermato al 39 per cento, mentre i partiti di centrodestra della sua coalizione hanno ottenuto il 44. Tondo, che non ha fatto tutta la pulizia che aveva promesso dopo gli scandali che anche in Fvg hanno coinvolto la Lega e gli altri partiti, è stato azzoppato dalla concorrenza della listina di centrodestra “Un’altra regione” di Franco Bandelli, che ha portato a casa il 2,4.
Ora Debora Serracchiani dovrà dimostrare di saper governare la regione e Saverio Galluccio di saper guidare un movimento che non ha ottenuto il trionfo sperato, ma che rappresenta pur sempre un quinto della regione.

il Fatto 25 aprile 13
Sinistra da “Foglio”
Povero Manconi, non sa quel che fa
di Marco Travaglio


Sul Foglio di Giuliano Ferrara, edito da Silvio Berlusconi e famiglia e finanziato dagli italiani con soldi pubblici, il senatore Pd Luigi Manconi, che vi collabora stabilmente, si occupa ancora una volta del sottoscritto. Sostiene che avrei “perso l'autocontrollo” e anche “l'equilibrio”. E fin qui niente da dire: se l'equilibrio di un parlamentare del Pd è quello di attaccare gli avversari di Berlusconi su uno dei tanti giornali di Berlusconi, sono felice di averlo perso, anzi di non averlo mai avuto (nel '94 fui talmente squilibrato da lasciare il Giornale insieme a Montanelli e a 50 redattori, per denunciare quello che per i sinistri alla Manconi è un oggetto misterioso: il conflitto d'interessi di un editore che entra in politica). Aggiunge il Manconi che “nessuno vuole bene a Travaglio” (sul che, se si informasse, potrebbe avere brutte delusioni). Poi mi accusa di “gerontofobia”, “sentimento schiettamente reazionario”, per aver io criticato la rielezione di Napolitano a 88 anni: ma vorrei tranquillizzarlo, io adoro gli anziani, solo che, almeno dopo gli 85 anni, li vorrei in pensione (sul modello schiettamente gerontofobo e reazionario di tutte le democrazie del mondo: esclusi dunque lo Zimbabwe dell'ottantottenne Mugabe, e l’Italia). Il Manconi è anche molto offeso perché ho scritto che il titolo dell'Unità sul presunto “Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento” era falso, visto che Grillo non ha mai incontrato Berlusconi, anzi i parlamentari del suo movimento sono stati i primi ad aderire all'appello di MicroMega per l’ineleggibilità di Berlusconi (vedremo come voterà il Pd di Manconi, ci sarà da ridere). “Travaglio e tutti i travaglisti-leninisti – rincara il Manconi – hanno costruito proprio su quel paradigma del ‘patto oggettivo’ un'intera letteratura criminale, un'infinita leggenda nera” sull'inciucio centrosinistra-B. Ora, a parte il fatto che diversamente da Manconi non sono mai stato né comunista né leninista (semmai anti), è singolare che l'accusa di “letteratura criminale” giunga dall'ex capo del servizio d'ordine di Lotta continua, che di letteratura criminale se ne intendeva, visto che il giornale omonimo additava i nemici del popolo da sprangare e/o assassinare. Ed è ancor più grottesco che Manconi tenti di smentire l'eterno inciucio destra-sinistra proprio nel giorno in cui nasce il governo Letta con Pd, Pdl & C. Giorno decisamente sfortunato , specie per chi è stato appena eletto in un partito che giurava di non governare mai con B. e chiedeva voti agli ingenui elettori contro B.
Ma il suo meglio Manconi lo dà quando si dipinge come impavido combattente “da alcuni decenni su cruciali questioni di giustizia: dal problema dei centri di identificazione e di espulsione alle campagne per la verità sulla morte di Aldrovandi, Cucchi, Uva, Mastrogiovanni, Ferrulli... Ci fosse uno, tra i ‘tutori della legalità’, da Travaglio ai travaglisti-leninisti, che trovi il tempo e l'energia per mobilitarsi su quelle tragedie, oltre che contro le ‘larghe intese’”. Non resta che augurare al senatore Manconi di riuscire a mobilitarsi contro le larghe intese con un centesimo del tempo e dell'energia che noi impieghiamo da sempre a mobilitarci sulle tragedie da lui citate. Perché lui alle larghe intese, di cui è una plateale incarnazione (ve l'immaginate, in America, un senatore democratico che scrive su un giornale del leader repubblicano?), si appresta a votare la fiducia. Mentre noi – le collezioni del Fatto sono a sua disposizione – ai centri per immigrati e ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Mastrogiovanni, Ferrulli ecc. abbiamo dedicato e continueremo a dedicare centinaia di articoli. Non solo: il Fatto ha prodotto e distribuito un film su Stefano Cucchi, 148 Stefano, mostri dell’inerzia di Maurizio Cartolano, presentato da Padellaro e dal sottoscritto al penultimo Festival del cinema di Roma insieme a un certo Manconi (ma forse a sua insaputa). Quanto all'impegno di Man-coni sulle tragedie dei centri per immigrati e di Uva, Cucchi, Aldrovandi ecc., non sussistono dubbi: nel 1998, quando i Cpt furono istituiti dalla legge Turco-Napolitano, Manconi era il leader dei Verdi che la votarono; e nel 2006, quando l'indulto abbuonò tre anni di carcere a molti agenti picchiatori (dal G8 di Genova ai casi Aldrovandi ecc.), Man-coni era il sottosegretario alla Giustizia che non solo lo sostenne: lo propose proprio.

l’Unità 25 aprile 2013
Sel all’opposizione «Ma non è tradire»
Vendola: «Indecente chi parla di scorrettezza Vogliamo ricostruire le ragioni del centrosinistra»
di Rachele Gonnelli


«Succede a volte che i film si capiscano fino in fondo, trama e lezione da trarre, solo ai titoli di coda». Così Nichi Vendola ieri, nel corso della sua lunga relazione alla direzione di Sel, ripercorre alla moviola gli eventi che si sono succeduti, a tratti in modo convulso, nelle ultime settimane, partendo dalla vittoria in Friuli e tornando alla nuova prospettiva di Sel, all’«opposizione costruttiva e responsabile al governo» che ora Enrico Letta cerca di comporre.
Per Sinistra Ecologia e Libertà quella di ieri è stata la prima pietra della «ripartenza», in una fase nuova «in cui si intravede una svolta reazionaria». Il nuovo posizionamento non è più l’alleanza con il Pd ma non vuole neppure essere di spaccatura netta. No, Sel non vuole diventare «la zattera di Medusa dei profughi di altre avventure politiche», neanche del Pd. E neanche vuole logorare ai fianchi il Movimento 5 Stelle per prendere le briciole della crisi dei grillini, una crisi su cui Vendola rivede una malattia che gli è nota dai tempi della Sinistra Arcobaleno: la crisi di legittimità all’interno del suo elettorato per mancanza di efficacia dell’agire politico. Come dire che se non ottieni niente, se fai solo protesta, la gente, anche scontenta o rabbiosa, non ti vota più, com’è successo, appunto, in Friuli. A Grillo forse può non interessare dare risposte ma a Vendola sì. Perciò respinge recisamente ipotesi di rassemblement «degli sconfittismi della sinistra e dei reducismi», «perché non sommeremmo le fragilità di ciascuno, ma andremmo di fronte a uno schianto e non reagiremmo con la necessaria lucidità».
Ricostruire tra le macerie della sinistra, con «un’unica missione: riaprire la partita», senza mai voler «piantare bandierine, mettere il cappello» o peggio, puntare sulla scissione altrui. Questo è l’imperativo categorico, che va anche oltre la prospettiva di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, chiamato a battesimo con la manifestazione del prossimo 11 maggio a Roma. Un lavoro più lungo e capillare di un semplice collage di pezzi rotti, che secondo Nicola Fratoianni dovrebbe far perno su luoghi di confronto e di iniziativa politica aperti, anche a chi non ha abbandonato l’adesione ad altre forze politiche. E anche rispetto alla manifestazione dell’11 maggio Massimiliano Smeriglio vicepresidente della Regione Lazio con Zingaretti e impegnato a sostenere la candidatura di Ignazio Marino a sindaco di Roma spiega che «non vogliamo passare dalla foto di Vasto a una più ristretta con Landini e qualcuno di Micromega e manifesto, né vogliamo un sorta di Sel Pride, circondati solo dalle nostre bandiere».
Quanto al recente passato, Sel non ha alcuna autocritica da fasri, anzi rivendica tutti i passaggi. «Solo oggi si può capire quanto forte fosse l’azzardo del progetto Italia Bene Comune», nei confronti dei poteri forti, è la lezione del film che ha visto Vendola sulla scena pre e post elettorale. «Avevamo una coalizione e un programma ma non abbiamo potuto metterli in campo per una torsione moderata del Pd e per il fantasma di Monti», su cui erano puntati tutti gli occhi, dal Pd a Ingroia. «Il ring era il nostro corpo, il nostro potenziale consenso». Lobby potenti hanno «fatto di tutto per evitare un’uscita a sinistra dalla crisi italiana». E anche «il metodo Boldrini» per la soluzione dell’impasse istituzionale alla Camera e al Senato «ha fatto paura». Arriva così la spiegazione di Nichi Vendola sulla mancata elezione al Colle di Stefano Rodotà. «Rodotà esprime un’idea di sinistra ma anche della democrazia incompatibile con tutti i cantori del liberismo. Il resto è infingimento, sono pezze che nascondono la verità. Rodotà è uguale referendum e contestazione di Berlusconi non dal punto di vista della camera da letto ma da quello dei beni comuni. Per questo non andava bene». Vendola ammette di non aver fatto quel nome per primo, di aver cercato la mediazione su Prodi «che rappresentava la ricomposizione della spaccatura a sinistra del ‘98 e sbarrava la porta a Berlusconi, dialogando con l’Europa». Ma su Prodi si è consumata quella che chiama «un’azione selvaggia di sabotaggio» perché «tutti sanno chi è Bruto, tutti sanno chi sono i 101, non c’è bisogno di investigatori e lo sapeva Prodi con tutto che stava in Mali». A quel punto, ricostruisce sgonfiando ogni eventuale polemica sul Quirinale «che non conviene a nessuno» Sel «non ha votato contro Napolitano ma per Rodotà». E con lui vuol continuare a costruire la casa comune della sinistra. A Bruto, insomma, nessun invito. Al contrario di Fabrizio Barca o di Debora Serracchiani.

l’Unità 25 aprile 2013
Affile, «apologia di fascismo»
Sindaco indagato
Inchiesta della Procura di Tivoli sui fondi regionali utilizzati per il mausoleo della vergogna
di Pino Stoppon


Il sindaco di Affile, in provincia di Roma, Ercole Viri e due assessori, Giampiero Frosoni e Lorenzo Peperoni, sono indagati dalla procura di Tivoli per apologia di fascismo per la costruzione del sacrario intitolato al gerarca fascista Rodolfo Graziani, tra l'altro ministro della Repubblica di Salò.
Il loro coinvolgimento nell’inchiesta è legato alla delibera con la quale fu decisa l'intitolazione del monumento a Graziani e per il quale la Regione Lazio ha sospeso l'erogazione dei finanziamenti. Originariamente il monumento doveva essere dedicato al milite ignoto. Gli indagati saranno interrogati prossimamente dal procuratore Luigi De Ficchy, titolare del fascicolo processuale aperto sulla base di una denuncia presentata dall'Anpi.
«Non ho commesso alcun reato e sono tranquillo. Indagarmi per apologia del fascismo è assurdo» ha detto il sindacoin sua difesa. «Al parco di Radimonte non c’è' alcun elemento che possa ricondurre al fascismo» ha aggiunto Viri, indagato dalla procura di Tivoli per apologia di fascismo per la costruzione del sacrario intitolato al gerarca fascista Rodolfo Graziani, tra l'altro ministro della Repubblica di Salo'. Gli atti inerenti alla delibera per realizzare il sacrario sono stati acquisiti dagli inquirenti.
Qualche giorno fa, dopo che il caso era stato sollevato da l’Unità nella scorsa estate, il neo governatore del Lazio Nicola Zingaretti aveva deciso di togliere il finanziamento all’opera mettendo così fine fine alla tempesta di polemiche suscitate dall’opera oggetto anche di molti atti di boicottaggio.
Polemiche che avevano creato sdegno in Italia, soprattutto nella Comunità ebraica e negli ex partigiani, ma che avevano travalicato i confini del Paese, comparendo sulle pagine del New York Times, che chiedeva al governo italiano di rimuoverlo, del Pais e sulla Bbc.
Anche dopo l’intervento del Governatore c’era stata la reazione del sindaco Viri : «È un gesto stalinista» aveva detto «se Zingaretti continua lo querelo. Sia il presidente di tutti». ma l’unico a finire indagato è stato proprio lui. Anche il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici aveva commentato in maniera positiva l’intervento regionale: «Questa notizia rende giustizia alla Storia
Il mausoleo di Affile del nostro Paese». Zingaretti accusava l’amministrazione di Affile di avere usato «impropriamente» i 180mila euro, tanto è costato il mausoleo, originariamente destinati alla «realizzazione di un monumento al soldato»: «'palese violazioni sull'utilizzo del finanziamento pubblico», ha detto il presidente della Regione. Dunque il finanziamento si sospende fino «al ripristino della proposta progettuale originariamente finanziata» ovvero «modifiche strutturali al monumento da intitolare come originariamente concordato “al soldato”, facendo scomparire qualsiasi riferimento a Rodolfo Graziani e cancellando questa provocazione». «È un monumento al soldato aveva replicato Viri e non possiamo farci nulla se Graziani è di Affile ed è un soldato come altri».
Come gli altri non proprio visto che comandò le truppe italiane in Etiopia, gasando interi villaggi, fu processato e condannato dalla comunità internazione come criminale di guerra a nove anni di reclusione. Un fascista vero, che partecipò tra l’altro anche all’avventura della Repubblica di Salò.

Repubblica 25.4.13
Cronistoria di un disastro
di Adriano Sofri


ERA convinto che il successo fosse già nel sacco. Ci teneva come all’occasione culminante della sua vicenda militante, e si proponeva di usare la vittoria per rinnovare fortemente la composizione del Pd e per cimentarsi con un governo che rompesse col feticcio dell’austerità. Dopo la delusione elettorale, ha investito sulla propria debolezza per stanare la demagogia grillista: ottenerne una collaborazione, o svelarne il nullismo. Bersani aveva un punto fermo: nessun accordo di governo con il Pdl. Attorno a lui si moltiplicavano i dissensi, malcelati e via via più trasparenti. Avrebbe potuto rinunciare alla candidatura al governo: ci si può chiedere se ci fossero altri accreditati e risoluti altrettanto a non trattare del governo con Berlusconi.
La resistenza di Bersani (tenace oltre ogni previsione, e non spiegabile con una disperata ambizione personale) aveva una sola prospettiva: che Napolitano lo mandasse alle Camere. Lì, se non un calcolo politico, il dolore sentitissimo di tanta parte, e trasversale, dei nuovi eletti per l’eventualità di tornarsene a casa, avrebbe potuto dargli una striminzita e caduca fiducia, di cui però avrebbe potuto approfittare per prendere tre o quattro iniziative radicali, a cominciare dalla legge elettorale. Se fosse stato sfiduciato, avrebbe potuto guidare un governo provvisorio per l’elezione al Quirinale e la successiva campagna elettorale anticipata. Napolitano non ne ha voluto sapere: aveva le sue ragioni, ma sia lui che i numerosi esponenti del Pd che mordevano il freno e davano segni di impazienza crescente nei confronti di Bersani e della “perdita di tempo”, rivendicavano di fatto (guardandosi dal dirlo, nella maggior parte dei casi) un accordo di governo con il Pdl.
Bersani ha tenuto duro a oltranza, posponendo la questione del governo alla rielezione al Quirinale, così da ammorbidire l’esclusione del Pdl grazie alla distinzione fra governo e Presidenza della Repubblica, quest’ultima costituzionalmente orientata alla più vasta condivisione. Ha qui fatto due o tre errori fatali: ha creduto che quella distinzione fosse chiara; ha ritenuto che fosse convincente per la base e l’elettorato di sinistra; si è illuso che il notabilato del Pd lo seguisse. Soprattutto, non ha formulato pubblicamente il nome o i nomi dei candidati che il Pd avrebbe proposto a tutte le altre forze politiche.
Così, mentre un nome degno come quello di Marini passava per scelto da Berlusconi, Grillo candidava Rodotà, persona esemplare per uno schieramento di sinistra dei diritti civili e dei movimenti. I 5Stelle erano fino a quel punto piuttosto nell’angolo, essendo evidente come il loro compiaciuto infantilismo settario (oltre che l’insipienza dei loro portavoce) facesse dissipare un’inverosimile opportunità di riforme e regalasse al centrodestra una forza di ricatto insperata. Del disastro della notte e del giorno di Marini (che non lo meritava) inutile ripetere: Bersani ne è uscito, dopo 50 giorni di resistenza catoniana, come un inciucista finalmente smascherato. (Ve li ricordate, dal primo giorno, i titoli “da sinistra” sull’inciucio avvenuto?). Avrebbe potuto il Pd aderire alla candidatura di Rodotà, come tanti hanno auspicato? Forse: sarebbe stata una capitolazione nei confronti dei 5Stelle, che in Rodotà avevano visto soprattutto una ghiotta occasione per imbarazzare il Pd, ma cedere a una pretesa strumentale e arrogante può non essere un errore. Lo considererei più nettamente tale se Rodotà avesse risposto all’offerta della candidatura dichiarando che l’avrebbe accettata solo nel caso che fosse di tutta la sinistra: Scalfari ha fatto un’osservazione simile. I 5Stelle hanno sventolato il nome di Rodotà come una loro stretta bandiera, e al tempo stesso l’hanno proclamato come il candidato di tutti gli italiani contro quelli del Palazzo. Gli italiani avevano moltissimi altri candidati degni, per fortuna, e le stesse consultazioni varie lo mostravano (com’è noto, Emma Bonino era la preferita: è diventato un tic, gli italiani ce l’hanno, i politici non ci fanno più caso). La postuma pubblicazione di voti e preferenze delle cosiddette (pessimamente) quirinarie, hanno aggiunto un tocco di ridicolo al tono grillista. Bene: quando si sbaglia, specialmente se in buonissima fede, è buona norma di lasciar perdere, pena la valanga.
La candidatura brusca di Prodi – meritevolissima – è stata la toppa peggiore del buco. E ha mostrato come il Pd non abbia, come si dice, “due anime”, ma forse nemmeno una, e invece una quantità di cordate e bande, tenute assieme da altro che le divergenze politiche. Le convinzioni politiche sono la cosa più importante in un partito che aspira, come si dice, a cambiare il mondo, tranne un’altra: l’amicizia fra i suoi membri e i suoi militanti.
Per questo la scissione è forse un pericolo, ma non una cosa seria: la frantumazione sì. Sarebbe bene che ne tenesse conto chiunque si proponga davvero di “rifondare” (verbo inquietante) il Pd, e sia tentato da escursioni minoritarie. Eravamo al punto in cui il Pd, in stato del tutto confusionario, era a rimorchio della demagogia a 5Stelle da una parte – e di sue piazze scandalizzate e scandalose – della furbizia di Berlusconi dall’altra. L’elezione di Napolitano (una pazzia, in un mondo normale: un uomo molto vecchio che si era finalmente preparato uno scampolo di esistenza privata) è stata un escamotage provvidenziale: il suo effetto, quel governo delle “larghe intese” che si voleva escludere a priori, è il boccone più indigesto. È, amara ironia, il rovescio della distinzione cui Bersani aveva confidato la sua ostinazione, fra governo mai col Pdl e Quirinale condiviso: Quirinale confermato, e governo condiviso, a capo chino.
I 5Stelle? Le mosse furbe hanno gambe corte. I portavoce hanno spiegato che i voti in Friuli-Venezia Giulia sono quelli normali nelle regioni. Però il capo aveva annunciato che sarebbe stata la prima regione in loro mani. Credo che le persone che li avevano votati e hanno sentito sprecato il loro voto siano molte. Il bilancio provvisorio, con 5Stelle e Pd in caduta, e il Pdl in ascesa, è un capolavoro.
Vorrei aggiungere una cosa. Ci sono molti aspetti della situazione attuale che ricordano, ben più del precedente di Mani Pulite, quello remoto del primo dopoguerra, quasi cent’anni fa. Non c’era, nello scontro frontale fra sovversivi diciannovisti ed eversori fascisti una distinzione così netta di sinistra e destra. Le file del fascismo movimento erano piene di ex-socialisti, interventisti rivoluzionari, sindacalisti soreliani, massima-listi di ogni genere. Non era così chiaro, e a distanza di tanti anni fu penoso per tanti chiedersi da che parte erano stati, e perché, e come fosse stato possibile. A suo modo, e con una gran dose di autoindulgenza, Grillo evoca questa ambiguità quando ripete che il suo movimento è l’argine italiano all’Alba dorata greca o al lepenismo e alle altre insorgenze neonaziste in Europa. Il programma dei 5Stelle contiene molti obiettivi buoni per una sinistra della conversione ecologica, e anzi da quest’ultima pensati e proposti da lungo tempo. La differenza sta altrove, nel Vaffanculo, nei Morti che camminano, nel Tutti a casa. La differenza fra il federalismo verde e aperto di Alex Langer e il razzista federalismo leghista passava dalle imprecazioni di Bossi e dei suoi. I buoni programmi smettono di essere minoritari e vincono quando vengono distorti e incattiviti dalla demagogia. “La gente” non ha infinite ragioni alla sua ribellione contro i privilegi e l’impudenza dei potenti? Certo. Ma che i parlamentari escano da Montecitorio da una porta secondaria – se è andata così – è un episodio di violenza e di viltà vergognose. A proposito del 25 aprile.

Repubblica 25.4.13
Nel Pd la paura del governissimo l’altolà di prodiani e giovani turchi Bersani: “Dovevo parlare prima”
Democratici divisi. Resa dei conti all’assemblea nazionale
di Tommaso Ciriaco


L’incubo peggiore del Pd prende forma nel pomeriggio. Ha le sembianze di un ministero di peso affidato a Renato Schifani e di una poltrona dell’esecutivo a disposizione di Renato Brunetta. «Che vi aspettavate? - si infuria Pippo Civati - Non è che se noi mettiamo a Palazzo Chigi il vicesegretario, il Pdl sceglie come ministri le scamorze... ». Perché un conto è il governissimo, un altro l’abbraccio mortale con le incarnazioni più autentiche di vent’anni di berlusconismo.
In pochi minuti le correnti si riuniscono e i dubbi si moltiplicano, ma la balcanizzazione delle ultime settimane resta per qualche ora sullo sfondo. Per molti dirigenti lo schema prospettato dal Pdl risulta semplicemente indigeribile. Il primo a pensarla così è Enrico Letta. Consapevole delle difficoltà, il premier incaricato riunisce i big del partito alla Camera. Ci sono Franceschini e Bersani (D’Alema smentisce di aver partecipato). Il nodo politico, però, quello resta tutto.
Letta ascolta tutti i dubbi del composito puzzle democratico. I dalemiani non sono contrari per principio a un coinvolgimento diretto di alcuni pezzi da novanta nell’esecutivo. I nomi che circolano sono quelli di sempre, da D’Alema a Finocchiaro. Le controindicazioni pure, perché a quel punto difficilmente il giovane premier riuscirebbe a stoppare la presenza di berlusconiani di stretta osservanza nell’esecutivo.
A sera tocca proprio a Letta tirare le somme: «Per il momento si tratta di dialettica fisiologica». Non senza difficoltà, ma al momento il premier può contare su una fetta rilevante della classe dirigente dem. E lo spettro di un Cavaliere pronto a dettare condizioni inaccettabili fa il resto. Certo, i maldipancia non mancano. I Giovani turchi, ad esempio, preferiscono non anticipare il giudizio sull’operazione: «Prima - spiegano - vediamo la composizione dell’esecutivo». Matteo Ofini, però, intercettato al Nazareno non si sottrae: «Noi la fiducia la votiamo». Come faranno i veltroniani, assicura Andrea Martella.
Chi invece manifesta dubbi che superano il livello di guardia sono i prodiani. Sandro Gozi, ad esempio, non si nasconde: «Il governo duri sei mesi». E comunque con dentro Gelmini o Quagliariello «mi farebbe molto schifo». Corradino Mineo, l’unico ad aver contestato la soluzione del Napolitano bis, propone una via d’uscita: «Voto la fiducia ma se mettono Schifani alla giustizia mi risolvono il problema.. ». E Civati non sembra da meno: «Per ora voto no alla fiducia. Adesso basta! Serve un dibattito aperto». La resa dei conti è fissata all’Assemblea nazionale del 4 maggio.
Per stoppare tentazioni scissioniste, il capogruppo Roberto Speranza ha inviato un sms promettendo un’assemblea appena saranno disponibili «novità». La riunione dei senatori, invece, è stata sconvocata. La segreteria, pur dimissionaria, marca ad uomo i dissidenti. Bersani non rinuncia a togliersi qualche sassolino: «Cosa mi rimprovero? Di non aver detto prima qualcosa ai nostri». Il segretario, comunque, dà una mano. E ieri, prima di un pranzo accompagnato da un calice di Montepulciano alla “Scalinata”, ha confidato con un sorriso a un amico: «Io tengo duro, ma a volte mi sembrano tutti matti...».

Repubblica 25.4.13
La rivolta dei giovani e della base Giorgio Prodi: “Questo è il partito”
di Diego Longhin

TORINO — La base dei Democratici non ci sta. Teme che l’abbraccio con il Pdl e la nascita di un governo politico significhino la fine del partito. E il tam tam corre sulla rete. Con nomi diversi, tra resetPd e occupyPd, si trasforma in occupazioni e autoconvocazioni. Ieri assemblea alla Bolognina, oggi doppio appuntamento a Torino, dove il movimento della Pallacorda ha chiamato a raccolta gli iscritti.
Sala stipata a Bologna, dove è arrivato anche il figlio di Romano Prodi, Giorgio: «Il Pd che si vede qui è diverso da quello che ha pugnalato mio padre». A chi si riferisce? «Non lo so, lo schema è chiaro, i nomi no». L’iniziativa, dopo le riunioni spontanee dei giorni caldi dell’elezione del Capo dello Stato, è stata organizzata dai giovani amministratori di Bologna. «Non siamo più disposti alle deleghe in bianco», dice Matteo Lepore, coordinatore della giunta Merola. «Un governo va fatto, ma c’è governo e governo — aggiunge — l’attuale gruppo dirigente ha fallito, si sono autorottamati
». Gli fa eco il renziano Benedetto Zacchiroli: «Il Pd ha perso le orecchie, il partito che voglio non è quello che prende decisioni chissà dove, poi viene nei circoli e noi dobbiamo spandere il verbo». È un movimento di base, «non una corrente — dice Luca Rizzo Nervo — non vogliamo scissioni, ma vogliamo rifare il Pd».
Mobilitazioni oggi anche a Torino da parte di quelli della Pallacorda Alle 16 appuntamento in piazza Carignano, davanti al primo parlamento italiano. E fanno propria la frase di Enrico Letta «Non a tutti i costi». Poi nella sede locale del Pd per partecipare all’incontro tra parlamentari e coordinatori dei circoli. «Il voto di fiducia al governo Pd-Pdl potrebbe essere il capolinea del Pd. Sì ad un governo di scopo e con tempi molto stretti, no ad altre formule. Non possiamo stare allo stesso tavolo Gelmini e Quagliarello», dicono Fabio Malagnino e Matteo Franceschini, due autoconvocati. E i Giovani Democratici di Napoli stanno organizzando una riunione di tutti i circoli.

La Stampa 25.4.13
Nel Pd ora scappano dal partito per una poltrona di governo
Già molti si sentono ministri. I “turchi” resteranno fuori ma voteranno la fiducia
di Carlo Bertini


Ora a far paura è la rete, quel mostro a più teste, facebook, twitter, blog vari, che può scatenare l’inferno e mettere in ginocchio un partito già azzoppato, che i migliori sondaggi danno al 23,5% e i peggiori al 20, con una calo di cinque punti in due mesi. «Le prime reazioni dei nostri sono meno peggio del previsto, certo quel cognome non aiuta, molti gridano all’inciucio, ma aspettiamo a vedere cosa succederà quando usciranno i nomi dei ministri del Pdl... », è quel poco che trapela dalle stanze dei bottoni, da cui parte l’ordine di scuderia di «rassicurare i militanti che inciucio non sarà».
Invece la preoccupazione del premier incaricato supera i confini patri, perché la situazione economica è tale che «bisognerà provare a convincere la Germania ad allentare qualche vincolo», va dicendo con i suoi interlocutori; mentre sul governo vorrebbe sgombrare il campo dal sospetto che stia mettendo mano all’elenco di ministri col criterio del bilancino, perché «il pressing su Enrico è tale che sembra quasi che faremo un monocolore Pd e che ci siano decine di posti liberi da assegnare... », raccontano dal Nazareno. Chi non fa alcun pressing è il sindacato di blocco dei «giovani turchi» che voteranno la fiducia compatti, come spiega Andrea Orlando, ma solo per disciplina di partito. Senza però voler far entrare alcun loro esponente, tipo Stefano Fassina, né come ministro né come sottosegretario.
Il timore di una foto di gruppo con i Brunetta e Gasparri raggela infatti tutti i dirigenti e big che temono di dover andare a elezioni in ottobre dopo aver dato vita ad un governo col «nemico» inviso ai militanti di ogni ordine e grado. Ma bisogna fare buon viso a cattivo gioco, perché come dicono Gentiloni e Veltroni nei conversari privati, «un mese fa avremmo potuto fare un governo di scopo, ma ci siamo intestarditi e ora possiamo mettere ben poche condizioni».
Malgrado tutto «qui tutti si sentono già ministri in carica, di sicuro Amato e Violante», racconta in un corridoio della Camera uno dei più alti in grado del Pd. Quanto a D’Alema la possibilità che anche lui possa entrare nel governo sfuma per la consapevolezza di tutti che sarebbe difficile convincere l’altra parte a non pretendere un ingresso in pompa magna dei numeri uno. Ieri si è sparsa la voce che Letta avesse incontrato D’Alema, di sicuro ha visto Bersani e i capigruppo per preparare le consultazioni di oggi e il percorso a ostacoli da qui alla firma sulla lista dei 18 ministri. Renzi non ci pensa affatto a entrare nella squadra, che potrà annoverare due suoi esponenti, Graziano Del Rio, come ministro e Roberto Reggi come sottosegretario, mentre Chiamparino non entrerà.
Insomma sul governo scatta il gioco dei veti incrociati tra i partiti e nel Pd che guarda al suo ombelico martoriato dalle ferite la tensione si taglia a fette: all’apparenza Letta è uno dei nomi meno «divisivi» in quel partito, ma anche sua madre dice senza mezzi termini che «Enrico ha molti nemici» e certo la sua ascesa nell’empireo del potere può inquietare molti ex diessini. Basta sentire cosa dice, riferito a Renzi, un bersaniano di ferro come il governatore della Toscana Enrico Rossi, «chi fa il premier non può fare il segretario di partito»: bordate sparate all’indirizzo del rottamatore, ma che possono valere ormai anche per lo stesso Letta. Visto che se per una congiunzione astrale le cose andassero meglio del previsto, tra qualche mese Letta potrebbe pure poter giocare come anti-Renzi al congresso, conquistando sul campo del governo una leadership spendibile per il partito. Perché mai come ora, il Pd è una prateria tutta da conquistare, senza un capo riconosciuto ma con in mano l’arma di un governo, condizione più unica che rara; e foriera di appetiti senza precedenti. «Potrei candidarmi anche io alla segreteria, perché no? », butta lì ad esempio Rosario Crocetta, governatore della Sicilia.
Il segretario del Pd campano Enzo Amendola è tra i meno pessimisti «questa fase servirà a ricompattare il partito». Che venerdì riunirà tutti i segretari regionali e provinciali e il 4 maggio l’assemblea dei mille delegati chiamati a stabilire chi comanderà fino a ottobre: «Verrà nominato un comitato di reggenti, certo ci mancherà Letta, ma ci staranno dentro tutti e le cose miglioreranno», dice Amendola.

La Stampa 25.4.13
Alla Bolognina con Prodi jr I militanti: è un 8 settembre
E la giovane democratica piange: sembriamo tutti democristiani...
Bolognina 24 anni dopo la storica frattura di Occhetto, i militanti di una base molto perplessa sui no a Prodi e sul governo col Pdl si riuniscono in un dibattito su «Reset Pd»
di Giovanni Cerruti


Giorgio, quando entri tu cominciamo... ». Perchè Giorgio è un Prodi, professore come il babbo. Basta la presenza di uno di famiglia e i ribelli di «#ResetPd», stretti nello stanzone del Circolo della Bolognina, sanno che un bel titolo è già assicurato. Non bastasse, provvedono loro: chi sale sulla pedana e senza nemmeno un microfono si lascia andare: «Diciamo la verità, siamo all’8 settembre del Pd, qui ognuno va dalla sua parte». In piedi, al quinto gradino della scala, Giorgio Prodi ascolta e commenta: «Credo che questo Pd sia ben diverso». Da quello, s’intende, che ha maltrattato il padre. «Così non fosse, il Pd sarebbe morto».
Questo Pd, come dice Prodi jr., che sceglie proprio la Bolognina, il luogo simbolo, dove il 12 novembre 1989 Achille Occhetto annunciò «la svolta», la fine del vecchio Pci, e adesso c’è un partito che non si sente proprio bene. Per la verità la Bolognina di Occhetto sarebbe duecento metri più avanti, dietro le tre vetrine che da anni ospitano la parrucchiera cinese. «Bolognina 2», dunque, almeno nelle intenzioni dei due assessori e dei due consiglieri comunali che l’hanno convocata. Appuntamento alle 18,30. Ma la signora Graziella aveva aperto il cancello già un’ora prima. «Mai vista gente», dirà alla fine.
Da Piazza Verdi, davanti all’Università, è arrivato il piccolo corteo di studenti. C’è Elena, svizzera di Lugano: «Appena finisce la riunione chiamo Pippo Civati». Ci sono i “renziani”. E i “bersaniani” delusi come Marco Capponi, barba bianca e riccia, per anni docente di fisica, tessera di partito dal 1970: «Il realismo dice che ce l’abbiamo in quel posto, ma io ce l’ho con i giovanotti che hanno alimentato la marea del “si perde tempo”. E questo non lo dimentico». Al professore non piaceranno certe impietose analisi dalla pedana, e se ne andrà dopo mezz’ora: «Per me questa è la parata dei reset e dei refresh... »
Avrà le sue ragioni, ma nello stanzone stanno suonando un’altra musica, seguono un altro spartito. C’è chi la prende da lontano, come Matteo Lepore, assessore, ciuffo, barbetta, occhialini: «Il vero dramma del voto non è quello su Marini o Prodi per il Quirinale, ma quello del 24 febbraio. Tutto parte da lì». dal passato al presente di queste ore, all’incarico di governo per Enrico Letta. Che piace sì e no. «Ho stima per Enrico, ma questo governo quanto dura e che fa? E’ un governo che risolve il problema degli esodati o un governo che fa qualche leggina per risolvere i problemi di Berlusconi? Ancora non l’ho capito».
Giorgio Prodi è sempre lì, sul gradino della scala. Dalla pedana parlano del babbo, dei 101 che l’hanno infilzato: «A ma non ha detto nulla dei 101, ma è molto chiaro il sistema nel quale tutto questo è maturato». Forse s’accorge d’aver detto troppo: «Parliamo di quella che accadrà, non di quel che è accaduto. Altrimenti non muore solo il Pd, muore il Paese». Romano Prodi, a sera, ha ascoltato la cronaca della Bolognina 2. Nessun commento, meglio dimenticare. O addirittura riderci su, come martedì a cena dagli amici. «Eccomi, sono l’ex Presidente. Ho appena dato una bella all’Ansa... ». Momenti di apprensione. «Sul Giro d’Italia! ».
A questa Bolognina 2 non riescono a riderci su. C’è chi ha voglia di piangere come la Graziella: «sembriamo tutti democristiani». Gli applausi arrivano per i “bersaniani” amareggiati, ma sempre bersaniani: «Se paga solo Pierluigi è un altro errore. Qui dobbiamo scavare nei rancori dei piccoli gruppi di potere». E’ ancora l’assessore Lepore, troppo giovane per aver conosciuto il Pci del «centralismo democratico», il partito che discute litiga e mai si divide sul voto. «Ma qui, con quel che è successo tra Marini e Prodi, è saltato il tappo. L’ordine, nel Pd, si è sempra fatta fatica a mantenerlo».
Nel cortile della Bolognina le voci dalla pedana arrivano appena. E allora se ne ascoltano di altre, e c’è chi racconta di Cecilia, la segretaria del Circolo Galvani che ha tesserato tutta la famiglia Prodi e l’altra mattina si è trovata un biglietto sulla saracinesca: «Rivoglio il mio voto». E lei l’ha lasciato lì, con accanto un altro cartello: «Avete ragione». O Francesco, del Circolo Belle Arti, quello dei professori dell’Università, che si è sentito maltrattare da Patrizia, bella signora delusa come una ragazzina innamorata: «Non vengo alla Bolognina perchè dovrei protestare contro me stessa. Lasciami stare con il mio dolore».
Nello stanzone adesso sta parlando Benedetto Zacchiroli, consigliere comunale, “renziano” battuto alle primarie dal sindaco Virginio Merola. «Ora tocca a quelli che devono capire come il loro futuro conta più della loro storia. Qui è come un terremoto, dobbiamo ricostruire in modo antisismico». Non si sa cosa faranno, non si sa come andrà questa storia di «#ResetPd». «Noi non ce ne andiamo, non ci sono tessere da bruciare. Volevamo sentirci meno soli e lo siamo», dice Zacchiroli. Ma il futuro è già qui, con il governo Letta. «Con una squadra da Champions League si prende applausi, se è da serie B si prende fischi». Dalla Bolognina 2.

Repubblica 25.4.13
La ricorrenza della Liberazione
25 aprile
Storia di una festa civile nata per essere condivisa
di Guido Crainz


E un ampio snodarsi di generosità, incertezze, paure, in uno scenario in cui quadri mentali consolidati crollavano assieme al fascismo. «C’era la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale », ha scritto Luigi Meneghello: «che cos’è l’Italia? Che cos’è la coscienza? Che cos’è la società?». Si leggano le lettere al padre scritte allora da Giovanni Pirelli: «mi sento vuoto», annotava alla vigilia dell’8settembre, «perché tutto si è disciolto, ciò che mi pareva saldissimo, nella realtà dei fatti». E la scelta resistenziale implicava percorsi sin lì impensabili: «per molti di noi – ha ricordato Italo Calvino – rifiutare la mentalità fascista voleva dire innanzitutto rifiutarsi di amare le armi e la violenza», ora eravamo di fronte ad un mutamento drastico.
Avrebbe innescato processi molteplici, la congiuntura drammatica del 1943-45. Con percorsi diffusi di “resistenza civile”, intrecciati o affiancati alla lotta armata, ma anche con mille forme di “non scelta”, o di presa di distanza da un conflitto che aveva in sé il rischio quotidiano della tragedia, dell’incrudelirsi del vivere. Una grande complessità, che non può però nascondere un aspetto centrale: si affermarono allora modi di “essere italiani” in contrasto aperto con altri. Nella scelta di donne e uomini prese corpo insomma la polemica di Piero Gobetti contro la “società degli Apoti” propugnata da Giuseppe Prezzolini nel 1922: la società di coloro che “non la bevono”, distanti allora tanto dal fascismo trionfante quanto dall’antifascismo soccombente (e portati in realtà a prosperare all’ombra del primo).
Di qui la forza di orientamento reale venuta dalla Resistenza: «Occorre rifare l’Italia e gli italiani insieme», scriveva Carlo Dionisotti nel ‘45. Di qui un sostegno all’etica pubblica capace di farsi sentire in più occasioni nella vicenda successiva. Molto meno, certo, di quel che sarebbe stato possibile. Più debole del dovuto, e del necessario, nell’influenzare la vita della Repubblica. Perché? Pesarono certo le contraddizioni stesse dell’antifascismo, e pesò il modo con qui il 1943-45 fu vissuto nelle differenti parti dell’Italia, ma la risposta rimane insufficiente se non si considera anche la “memoria pubblica” posta poi in essere, nei differenti climi politici. Si pensi alla “guerra fredda”, quando la discriminante anticomunista venne a prevalere su quella antifascista e la Resistenza fu largamente emarginata (e sostanzialmente mutilata) “ufficialità”.
Ci vorrà la mobilitazione antifascista del luglio ’60 contro il governo Tambroni e il congresso missino per mutare il clima e innescare il processo che avrebbe portato al centrosinistra. Allora il panorama certo mutò, ma si ebbe anche una sorta di cortocircuito non virtuoso: dalla rimozione della Resistenza ad una ufficializzazione retorica di essa che ne banalizzava spesso contenuti, ragioni, contraddizioni. Dall’oblio ad una memoria pubblica astrattamente apologetica che si sovrapponeva alle differenti memorie private senza riuscire a risolverle in sé. Senza offrire realmente ad esse un orizzonte comune.
Venne poi il ’68, con la contrapposizione ideologica fra “Resistenza rossa” e “Resistenza tricolore” (ma anche con interrogativi reali sulla nostra democratizzazione incompiuta). E venne anche una attualizzazione dell’antifascismo drammaticamente provocata da una “strategia della tensione” intessuta di terrorismo neofascista e trame eversive (ma la
Milano accorsa ai funerali delle vittime di Piazza Fontana disse subito al Paese che quella strategia non sarebbe passata). Venne infine la tragica deformazione brigatista con i suoi caricaturali simboli, e al dissolversi di quell’incubo, nella conclamata “fine delle ideologie”, emerse una opposta e ben più diffusa deformazione di memoria.
«La libertà sembra diventata ormai quella di poter dimenticare» scriveva il Censis al declinare degli anni Ottanta: registrava così un dissolversi del senso storico che aveva al centro una “riappacificazione morbida” con il passato, in particolare con il passato fascista. In quel quadro, anche, “i vinti” divennero non più gli emarginati e i deboli ma i fascisti e i torturatori di Salò, e nel 2003 Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa si limitò a proseguire un ciclo. Un ciclo rafforzato nel 1994 dalla vittoria di un centro-destra che comprendeva il Msi non ancora depurato a Fiuggi e, soprattutto, aveva come perno un’ideologia e un modo di “essere italiani” che apertamente confliggono con lo spirito del 25 aprile (il discorso di Berlusconi ad Onna nel 2009 fu un’isolata e quasi inspiegabile eccezione). Comprendiamo meglio, allora, quella tenace estraneità se non avversione al 25 aprile di una parte del Paese: quella data è lì a ricordare a tutti che ci fu un’Italia che seppe scegliere. Seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune.

La Stampa 25.4.13
25 aprile
Se questi sono bambini
Deportati nei Lager, uccisi o sopravvissuti senza più radici, incapaci di identificare le loro provenienze: dagli archivi dell’International Tracing Service, in Germania, le storie delle vittime più fragili della Seconda guerra mondiale
di Umberto Gentiloni


Per oltre sessant’anni il patrimonio inviolato dell’International Tracing Service (Its) ha conservato sotto l’egida della Croce Rossa Internazionale oltre 50 milioni di documenti relativi a più di 17 milioni di uomini e donne travolti o colpiti dalle vicende del secondo conflitto mondiale. Un archivio di nomi e storie, un insieme di percorsi raccolti con cura, custoditi con scrupolosa attenzione. La piccola città di Bad Arolsen, nel Nord dell’Assia, è la sede dei quasi 27 chilometri di schedari e faldoni provenienti da settemila sedi toccate in vario modo dal conflitto: industrie, campi di lavoro e di sterminio, snodi di transito, postazioni di polizia, campi di accoglienza e smistamento per i milioni di displaced persons che hanno attraversato confini e appartenenze nel vecchio continente
Dal 1947 la cittadina tedesca ha iniziato ad accogliere le tracce, scelta per la sua collocazione geografica: in mezzo alle quattro zone di occupazione e divisione della Germania. E da quel momento l’archivio ha iniziato a costruirsi, prima come centro di raccolta, poi come destinatario di ricerche e quesiti da parte di parenti o sopravvissuti. Solo dal 2007 si è trasformato in un centro di documentazione, avviando le procedure di digitalizzazione della sua immensa dotazione. Un insieme composto da storie individuali di deportati, internati, rifugiati, prigionieri di guerra, criminali, lavoratori forzati a servire il Reich; spostamenti di famiglie, modifiche di confini e appartenenze; vicende che investono la seconda metà del Novecento.
Sono le tracce dell’Europa che si specchia dopo la tragedia, alla ricerca di se stessa e di un possibile futuro. Milioni di documenti sono frutto del lavoro degli Alleati e riguardano la registrazione e l’assistenza fornita ai sopravvissuti e ai profughi. Oltre tre milioni di incartamenti si riferiscono al destino di uomini e donne coinvolti dal conflitto: gli esiti delle ricerche, le domande di risarcimento dei sopravvissuti, i certificati per ottenere il trattamento pensionistico, le risposte dell’amministrazione tedesca.
I bambini sono i più indifesi e fragili, esposti alle intemperie degli eventi, talvolta incapaci di raccontare le proprie storie, identificare provenienze, radici lontane, possibili legami. È in fondo l’essenza più profonda della guerra totale: lo sradicamento di milioni di persone, la rottura di tessuti familiari e comunitari, la lacerazione irreversibile della trama che aveva sostenuto il cuore della civiltà europea. E la ricerca dei bambini nelle incertezze dell’immediato dopoguerra diventa una priorità dell’istituzione, un suo compito specifico che la coinvolge e la condiziona.
Sentiamo le parole di Susanne Urban, responsabile studi e ricerche dell’Its: «Il punto di svolta avvenne con l’istituzione della Child Search Branch, un dipartimento indipendente finalizzato alla ricerca dei bambini che assunse un’importanza enorme per i bambini e gli adolescenti liberati dai campi e dai lavori forzati, per i nati da madri incarcerate o deportate e per coloro che erano stati letteralmente rapiti per essere germanizzati ( Eindeutschung) ». Un universo diffuso nel quale immergersi per tentare di riannodare fili, trovare speranze, evitare i lasciti drammatici di vite spezzate troppo presto.
Jack Terry, nato nel 1930 in Polonia come Jakub Szabmacher, è l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Nel 2011 partecipa a un incontro nella struttura dell’ex chiostro del campo dei bambini di Indersdorf; è diventato uno psicoterapeuta affermato, si sofferma su ciò di cui hanno bisogno i bambini dopo un trauma, in particolare dopo la profonda cesura del 1945: «Appartenere a qualcuno. Essere desiderati. Avere dignità».
Spesso i documenti e le tracce dei carteggi sono un tentativo per restituire dignità a una vita, provare innanzitutto a definire il nome, un’identità che la guerra aveva portato via. E le giovani vite sono il primo tassello di una possibile rinascita, graduale e complicata. Il primo atto diventa quello di riunire le famiglie divise individuando chi non aveva i genitori e tentando contestualmente di far luce sul destino dei deportati o dei dispersi. I membri del gruppo venivano successivamente accompagnati e assistiti all’interno di un campo e assumevano la definizione di Unaccompanied Children (non accompagnati), un termine che ben definisce lo stato di distruzione e separazione delle famiglie nell’Europa sconvolta dal nazismo. Ai non accompagnati (oltre 300 mila tra il 1945 e il 1956) restava un barlume di speranza di poter trovare un fratello, un genitore o un parente. Il cammino della speranza nell’Europa che rinasce.

La Stampa 25.4.13
S.Anna di Stazzema l’ultimo carnefice non vuole ricordare
Karl Gropler vive in un paesino tedesco Lo abbiamo rintracciato: “Io non ero lì”
di Niccolò Zancan


L’ ultima speranza è dietro questo portone di legno giallo. «Attenti al cane», c’è scritto. In via Haupstrasse tira vento. Passa il camioncino dell’immondizia a raccogliere i sacchetti lasciati sul ciglio della strada. Una signora con i capelli bianchi ricci accelera le sue pedalate per diffidenza. Siamo degli intrusi. È un paese perso nelle foreste. Settanta chilometri da Berlino. Oblio in terra. Rumore di zappe, cinguettio di uccelli. E dietro al portone, c’è un uomo di novant’anni che può dire per la prima volta quello che nessuno ha mai detto.
Karl Gropler è uno dei dieci ufficiali delle SS condannati all’ergastolo per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. Otto sono morti. Gli ultimi due, quest’anno. Il nono è il comandante Gerhard Sommer. Non si è mai fatto interrogare. È ricoverato in una casa di riposo di Amburgo. Neppure viene a rispondere al telefono. E comunque, per il procuratore militare Marco De Paolis: «È sempre rimasto fedele all’ideologia nazista». Resta il sergente Gropler. L’ultimo carnefice. L’ultimo testimone. L’ultimochepuòdireunaparola di comprensione e pietà sulla prima strage di civili in Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il sergente ha firmato due verbali. Il primo in qualità di testimone: «Siamo saliti in cima al monte. Io e altri soldati tedeschi abbiamo accompagnato un gruppo di civili che dovevano riunirsi sulla piazza davanti alla chiesa... ». Ricorda di essere stato a Sant’Anna di Stazzema la mattina del 12 agosto 1944. Ma nel verbale successivo, quello da indagato, non ricorda più nulla. Al punto che il procuratore De Paolis sbotta: «Ho l’impressione che lei ci stia prendendo in giro». Suoniamo al campanello.
Per primo esce il nipote. È un ragazzo di 28 anni già stempiato, si chiama Conrad: «Mio nonno è un uomo molto anziano e malato. Ha sempre sostenuto di non aver partecipato al massacro. Ogni volta che pensa a quel periodo, cade in un incubo. Non voleva arruolarsi». Anche su questo punto, per la verità, la procura militare italiana eccepisce. Secondo i documenti ufficiali, Karl Gropler si arruola nella gioventù hitleriana nel 1937, quando la leva era ancora su base volontaria. Nel 1942 entra nelle SS. Diventa un membro delle famigerate «Totenkopf». Responsabile della disciplina e della sicurezza nei campi di concentramento. Va sul fronte russo, a Karkow. Dove si ricorda una delle stragi naziste più sanguinose. È ancora sul fronte in Polonia, Ungheria, Prussia, Italia. La sua artiglieria è a Sant’Anna di Stazzema nell’agosto del 1944. Come risulta da diversi documenti d’epoca, oltre che dalla testimonianza di un soldato: «Gropler era capopezzo».
Il sergente torna a casa nel 1945. Non si allontana più da Wollin. Da questo paese dell’ex Germania Est, antinazista per costituzione. Il signor Gropler si mette a lavorare nella cooperativa agricola Lpg. Coltiva patate e mais. Produce mangimi per animali. Fa quattro figli. Non parla del passato. Soltanto l’ex collega Kahl Udeke, attuale vicino di casa, ha un ricordo che lo inquieta: «Una volta, tanto tempo fa, mi ha fatto vedere il tatuaggio delle SS sul braccio». Per il resto, il sergente Gropler sta al riparo dai suoi incubi. «Mai una parola su quel periodo», dice l’amico Fritz Lenz. La figlia Ingrid è impiegata all’Ufficio delle Entrate: «Io credo a mio padre. Era in Toscana, ma non ha partecipato al massacro. Se fosse stato colpevole, non sarebbe mai andato in vacanza in Italia sul lago di Garda».
Non ci sono foto di Karl Gropler. Né all’epoca delle SS, né attuali. La figlia e il nipote lo proteggono. Vogliono che resti chiuso in casa. «Abbiamo già avuto molti problemi, pagato 120 mila euro di spese processuali. Hanno fatto una manifestazione antifascista qui davanti. Due omonimi Karl Gropler, che non c’entrano, hanno avuto dei problemi». Alla fine, però, accettano di andare a parlare con il Gropler che c’entra. Aprono il portone di casa. In cortile c’è una vecchia Opel senza targa. Un gatto grasso. Attrezzi da lavoro. Ed ecco quello che l’ultimo testimone dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ci tiene a far sapere: «Il diritto tedesco si basa sul fatto che si deve provare la colpa di ogni singola persona. Io non ho niente da temere perché non ero lì». Non una parola di più.
Nulla sul soldato che uscì dal massacro suonicchiando un’armonica a bocca. Nulla sul tedesco che giocava a tirassegno con i cadaveri. Nulla sui corpi bruciati insieme agli armadi e le raffiche di mitra a falciare i bambini. Nulla nemmeno sulle parole del soldato semplice Ignaz Lippert: «Erano orgogliosi. Euforici per quello che avevano fatto. Vere SS. Per loro non era mai abbastanza». Non c’erano partigiani nella zona, solo popolazione inerme. Il sergente Gropler non ricorda più. «Per fortuna non ho dovuto partecipare», dice. Nulla sulla signora Lina Antonucci che corse nella stalla e si salvò sepolta viva dai cadaveri. Nulla di Ennio Navari, nascosto dentro il forno del pane. Nulla per Mario Marsili che aveva sei anni, e la madre lo appese a cavalcioni in alto sulla stalla un attimo prima di essere ammazzata. «Urlavano. Sembravano drogati» disse Elio Toaff che si era rifugiato proprio su quelle montagne, molti anni prima di diventare rabbino. Lasciarono dietro di loro 560 vittime innocenti.
Sono successe molte cose in questi anni. I pochi sopravvissuti, come Ennio Mancini e Enrico Pieri, hanno testimoniato ogni giorno contro il silenzio. Gli storici Paolo Pezzino e Carlo Gentile hanno ricostruito i fatti. Il procuratore De Paolis ha ottenuto dieci ergastoli. La procura di Stoccarda, invece, ha archiviato. Eppure gruppi di cittadini tedeschi sono venuti a Sant’Anna a piangere. E il 22 marzo scorso anche i presidenti Gauck e Napolitano sono rimasti in silenzio vicini, mano nella mano, davanti alla lapide in memoria dei martiri. Ma i protagonisti di quella mattina di orrore continuano un’inesorabile opera di rimozione. Eccolo, il sergente Gropler, dietro al portone giallo: «Io non volevo andare. Prendetevela con lo Stato tedesco, piuttosto. Non con me».

Corriere 25.4.13
E Bottai fece infuriare Goebbels
Il culto fascista del diritto romano, inviso al Terzo Reich
di Luciano Canfora


«Cari camerati, bisogna avere il coraggio che hanno avuto tutte le rivoluzioni: di prendere per il collo i disfattisti, di denunziarli. Perché in Russia l'ambizione dei comunisti è quella di essere della Gpu, in Germania di appartenere alle SS. La rivoluzione spagnola aveva le brigate d'assalto. Ora noi, per causa dei regimi passati, per certe funzioni non siamo in quest'ordine d'idee. È un errore». È la perorazione conclusiva del discorso pronunciato da Mussolini al direttivo del Partito nazionale fascista il 17 aprile 1943, dopo gli scioperi che nel marzo avevano coinvolto varie decine di migliaia di operai nelle fabbriche dell'Italia settentrionale. Ben si conosce l'epos connesso a quella vicenda, che, in ogni caso al di là della sacralizzazione, fu un serio indizio di crisi del regime fascista nel momento in cui la guerra cominciava ad andar male. È merito di Roberto Finzi (Marzo 1943, Clueb, pp. 156, 14) aver ripreso in mano l'intero dossier della vicenda ed aver ripubblicato il testo stenografico del lungo e preoccupato commento di Mussolini, rintracciato quarant'anni fa da Umberto Massola.
Si può osservare che, nel tentativo di rilanciare la lotta al «disfattismo», Mussolini risfodera un tema intermittente, ma mai del tutto dismesso: quello dell'analogia tra le rivoluzioni (bolscevica, nazionalsocialista e fascista). È un tema che fa capolino più volte nella ventennale parabola del fascismo: dalle battute con cui Mussolini interrompe l'intervento di Gramsci alla Camera (16 maggio 1925: «Facciamo quello che fate in Russia!») all'esultanza de «La Verità» di Bombacci (settembre-ottobre 1939) e di Goffredo Coppola sul «Resto del Carlino» (12 e 23 aprile 1940) per il blocco formatosi, col patto russo-tedesco del 1939, fra le tre grandi «nazioni proletarie» contro quelle «plutocratiche», al finale di questo discorso mussoliniano. Esso merita una menzione particolare, giacché il tema delle «rivoluzioni» che si assomigliano viene qui sfoderato mentre ormai l'Asse ha invaso l'Urss e si è consumata, nel febbraio del '43, la disfatta italo-tedesca a Stalingrado.
Questa è solo una delle facce del fascismo, anche se a interpretarla è lo stesso Mussolini. Un'altra, antitetica, è quella della contrapposizione italo-tedesca, che si manifesta quasi nelle stesse settimane degli scioperi e dell'allarmato discorso del Duce. Ne è promotore e protagonista Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione nazionale. Si tratta della inaugurazione il 7 dicembre 1942, addirittura a Berlino, di un nuovo istituto, Studia Humanitatis, volto a promuovere, nel nome del primato e dell'attualità del diritto romano — e in polemica implicita col rifiuto nazista di esso —, un «umanesimo moderno» capace di ricongiungere le due culture (umanistica e tecnico-scientifica) sotto il segno della civiltà romano-cristiana, di cui appunto il diritto romano costituirebbe il più duraturo monumento.
L'orazione di apertura, a Berlino, la tenne Bottai e il pezzo forte scientifico fu l'amplissima lezione di Salvatore Riccobono De fatis iuris Romani (sulla ricezione del diritto romano), pronunciata in un magnifico latino davanti ad un irritato «Gotha» del Terzo Reich. «Goebbels è irritatissimo» commenta Enrico Castelli nel suo Diario e Rosenberg ha soggiunto: «È passato il nemico. L'Istituto Studia Humanitatis è una longa manus del Vaticano». E Goebbels nel Diario: «È evidente che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al predominio spirituale in Europa». Merito di aver ricostruito l'intera vicenda è di un agguerrito romanista di Milano, Ugo Bartocci, nel recente volume Salvatore Riccobono, il diritto romano e il valore politico degli «Studia Humanitatis» (Giappichelli, pp. 154, € 18).
È notevole come in Italia venisse messa la sordina a questa controversa incursione «umanistica» a Berlino: Bottai fu costretto a parlarne lui stesso in un editoriale di «Primato» del 15 gennaio 1943. Nessuno dei protagonisti della vicenda poté, o volle, complicare il quadro osservando che la lotta del nazionalsocialismo contro il diritto romano avrebbe potuto vantare un antecedente illustre e imbarazzante (per tutti) negli scritti di Engels (Storia e lingua dei Germani, testi raccolti ed editi molti anni fa per gli Editori Riuniti da Paolo Ramat), dove ugualmente l'imposizione del diritto romano al mondo germanico è vista come fenomeno di una violenza dominatrice. Questo tassello avrebbe creato un ulteriore cortocircuito tra le «tre rivoluzioni».
Aporie del genere si creano soprattutto quando si fa ricorso all'ambiguo concetto di «popoli proletari», o «nazioni proletarie»: le quali possono continuare a proclamarsi tali e nondimeno giungere a farsi la guerra tra loro, come accadde nel cruciale biennio 1939-1941. Cimentarsi con quella storia è un compito che sta tuttora davanti agli studiosi che vorranno, si spera, liberarsi via via dall'ottica deformante delle varie storie «sacre» in conflitto e inevitabilmente foriere di confusione e, alla lunga, di paralisi della conoscenza. Un monito straordinariamente efficace, in direzione di una storia «vera» (secondo il motto di Hobsbawm che Finzi pone in esergo del suo libro) viene da un bellissimo saggio di Ivan Jablonka uscito di recente per «Le Scie» di Mondadori: Storia dei nonni che non ho avuto. Uno storico sulle tracce della propria famiglia scomparsa ad Auschwitz (pp. 348, 22).
Il libro descrive il cammino negli archivi d'Europa e d'America che l'autore, docente di storia in Francia, ha compiuto per ricostruire la vicenda biografica dei suoi nonni, a partire dalla loro entusiasmante giovinezza di ebrei bolscevichi, «rivoluzionari di professione», che prese le mosse dal villaggio polacco di Parczew. L'autore spiega efficacemente che cosa significava essere ebreo e comunista («satana scarlatto dal naso adunco») nella Polonia di Pilsudski, così vicina all'Italia di Mussolini e così furiosamente antisovietica. Una condizione di vita ben diversa dalla festosa militanza dei «compagni che vendono "l'Humanité" a Billancourt, nella periferia rossa di Parigi».
Il racconto finisce in tragedia in un mondo in cui la «rivoluzione» nazionalsocialista si avventa contro quella bolscevica perché «ebraica» e trascina con sé quella «mussoliniana» in barba all'umanesimo moderno di Bottai e alla tardiva nostalgia del Duce per le «tre rivoluzioni». Alla fine del libro Jablonka trae una morale profonda e salutare per ogni ricerca storica: «Non ha senso contrapporre scientificità e partecipazione emotiva, eventi esterni e passione di chi li comunica, storia e arte del racconto, perché l'emozione non nasce dal pathos o dall'accumulo dei superlativi: essa scaturisce dalla nostra tensione verso la verità».