venerdì 26 aprile 2013

Repubblica 26.4.13
Stefano Rodotà. L’intervista
“È pericoloso fare a pezzi la nostra storia fuori dalla Costituzione l’Italia è perduta”
Rodotà: questa data è un simbolo da cui far partire la ricostruzione
di Alessandra Longo


ROMA — Negli ultimi due anni Stefano Rodotà ha incontrato quindicimila studenti. Lo ha fatto per sponsorizzare la Costituzione figlia della Resistenza, per regalarne i segreti alle future generazioni: «Non è vero che i giovani sono indifferenti. Spesso non sanno nulla. Se gliela spieghi, la Carta, ci trovano dentro i valori in cui credono». E nel giorno in cui Grillo dichiara «morto» il 25 aprile, il professore avverte: «Di questa storia non va smontato nessun pezzo». Il tono è severo, appassionato, anche se l’ex candidato alla presidenza della Repubblica non vuole scendere in polemica diretta con chi ha sostenuto il suo nome. Ma non si scherza con la storia se si vuole rinascere come Paese: «Dobbiamo essere consapevoli della radice profonda che hanno i diritti di libertà
nel nostro Paese».
Professore, ancora una volta il 25 aprile è stato consumato in maniera controversa,
più divisiva che unificante.
«Quello di quest’anno è stato un 25 aprile diverso dagli anni passati. Perché diversa è la situazione in cui viviamo, immersi in un disfacimento civile e politico».
Forse per questo non c’è stato il dovuto e corale omaggio.
«Ma è questa data e ciò che rappresenta che ci può aiutare in un momento di crisi. Mai come ora abbiamo bisogno di una politica costituzionale che abbia come presupposto la consapevolezza piena dei valori della Costituzione e delle loro radici».
E invece c’è chi pensa al 25 aprile come ad un rito polveroso.
«E’ esattamente il contrario. Non si tratta di mantenere viva una memoria storica ma di rendere omaggio alle basi su cui si può fondare la ricostruzione, non solo economica, del Paese. L’identità costituzionale ci può consentire di riedificare un sistema civile e politico
in un momento di crisi profonda».
Molti italiani hanno perso dimestichezza con la storia.
«E allora bisogna ricordarlo. Il 25 aprile è il punto conclusivo di una vicenda che vede coinvolti in prima persona i cittadini a difesa della libertà. C’è un nesso profondo tra lotta armata, coscienza culturale e coscienza istituzionale e il cemento di tutto è l’antifascismo».
Eppure si sente la stanchezza del ricordo, in molti denunciano la retorica resistenziale.
«E’ giusto che la storiografia si interroghi, approfondisca. Altra cosa è convalidare forme di revisionismo che hanno come unico obiettivo, marginalizzando la Resistenza, di attaccare la Costituzione».
Mi chiedo se questo Paese è ancora in grado di pensieri profondi, così alle prese con il quotidiano, con la sopravvivenza.
«Ma di questo stiamo parlando, delle radici, dell’identità, senza le quali non si va da nessuna parte. Se si decide di mettere mano alla Costituzione dobbiamo essere consapevoli che la Carta ha al suo interno valori forti che non possono essere messi in discussione senza abbandonare il quadro di riferimento cui si ispirarono i nostri Padri Costituenti. Ed è un quadro di riferimento vitale e dinamico».
Si riferisce ai diritti.
«Sì, penso alla difesa del lavoro, dell’istruzione, al diritto costituzionale ad un’esistenza libera e dignitosa. Tutti diritti violati dal fascismo e dal nazismo».
E per lei c’è una data che rappresenta tutto questo: il 25 aprile.
«Assolutamente sì, la mia è una risposta netta. Non si può cancellare con un colpo di penna il 25 aprile perché significa avviare un rischioso esercizio di abbandono progressivo del dato costituzionale».
Lei pensa che siamo ancora in tempo per correggere la rotta?
«Io sono andato nelle scuole, ho incontrato 15 mila ragazzi. Ho assistito al risveglio di quello che Habermas definisce “il patriottismo costituzionale”. Non è vero che i giovani sono indifferenti. Dalla seconda metà del 2010 alla prima metà del 2011 la Costituzione è finita sulle magliette, è stata portata nelle piazze...».
Le più recenti performance della classe dirigente di questo Paese certo non aiutano.
«Infatti. Questo ceto politico ha fatto poco o nulla per riprendere le fila anche se è proprio adesso che abbiamo le responsabilità maggiori. O ricostruiamo l’identità costituzionale o subiremo il declino non solo economico ma anche civile e culturale».
Concludendo...
«Concludendo non si può smontare nessun pezzo di questa storia che è la nostra storia più bella ».

l’Unità 26.4.13
Il Pd schierato con qualche mal di pancia
Tutti i big convinti della necessità di far nascere il governo
L’abbraccio di Renzi
I dubbi dei giovani turchi: «Ma in Parlamento ci atterremo alle scelte della Direzione»
Bagnasco: serve esecutivo stabile e immediato
Dopo-Bersani: in campo l’ipotesi Epifani
di Maria Zegarelli


Ci sono resistenze, dei no alla fiducia annunciati quando ancora non si conoscono i nomi dei ministri, ci sono le «minacce» di espulsione a chi non voterà la fiducia, c’è una base e un elettorato a cui spiegare la svolta storica a cui il Pd sta dando il via con il governo che Enrico Letta sta faticosamente cercando di formare. Ci sono i big del partito, quelli senza incarico ma che non per questo contano meno, anzi sono proprio quelli che contano, che stanno serrando le fila. Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Matteo Renzi, per citarne tre, sono in costante contatto tra loro (e con i propri riferimenti nel Pdl) affinché la mission sia possibile, proprio quella che solo a nominarla cinquanta giorni fa avrebbe provocato il terremoto che tanto poi è arrivato comunque.
«Dite a Grillo che Dio è morto ma poi dopo tre giorni è risorto», dice il giovane premier incaricato durante una diretta streaming che stavolta vede i grillini in difficoltà, dopo lo choc elettorale in Friuli e il calo nei sondaggi. Sarà pure malato grave il Pd, attaccato all’ossigeno, ma oggi la diagnosi sembra disperante. Le geometrie interne che sembrano ruotare con una consistente maggioranza attorno al sindaco fiorentino si disegnano in vista del congresso, ma il blocco granitico deve plasmarsi addosso all’obiettivo di mandare il giovane Letta a Palazzo Chigi con una fiducia compatta da parte del Pd.
Luigi Zanda e Roberto Speranza vanno alle consultazioni e restano nella Sala del Cavaliere un tempo brevissimo, segnale evidente che quei «nodi da sciogliere» di cui parla Angelino Alfano si potranno dipanare soltanto oggi quando arriverà a Roma Silvio Berlusconi e darà il via libera definitivo che sembra ormai vicino. «Alcuni nodi sul tavolo richiederanno un supplemento di lavoro. Ma siamo convinti che questo lavoro nelle prossime ore possa portare a sciogliere i nodi e a dare al Paese un governo. Il Paese ha bisogno di un governo forte e autorevole», dice Speranza. Ieri mattina a Montecitorio sono arrivati anche Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini. «Dai Enrico, tieni duro, insisti», l’augurio del segretario dimissionario al suo vice, futuro premier.
E se il Pd si è spaccato come una mela sulla candidatura di Marini al Quirinale, anche per il no deciso di Renzi, oggi sulla fiducia al governo sembra giocare un ruolo importante proprio il sindaco di Firenze. «Se Letta ce la fa vince l’Italia», commenta a margine della cerimonia per la celebrazione del 25 aprile. Assicura di essere «al suo fianco», esorta i democratici a non dimenticare la parole di Napolitano, la sua scelta su Letta «deve vedere le forze politiche passare dalle parole ai fatti». Racconta di aver chiamato Letta, di avergli mandato «un caloroso abbraccio» e che è andato in frantumi un tabù, un altro, dopo quello del governo Pd-Pdl: «Se persino il Salone dei 500, simbolo di Firenze, fa il tifo per uno di Pisa, allora vuol dire che siamo pronti a sostenere un governo di servizio in un momento difficile». L’invito è a non riscrivere «le pagine di prima e a fare i veti incrociati» a «non disertare». Dal fronte veltroniano Walter Verini (che dalla sera delle elezioni invocava un governo del presidente) si dice certo che il Pd «si atterrà» alla decisione del Presidente Napolitano.
Rosy Bindi non era questo a cui pensava, avrebbe preferito di gran lunga un governo a bassa intensità politica, ma voterà la fiducia. Diversa la posizione di Laura Puppato: «Se ci sono Alfano e Schifani, allora non posso dare la fiducia. Diventa un problema di coscienza». E Pippo Civati, contrario al governo, dal suo blog scrive che «il principale azionista del governo è Berlusconi. Lo so, è dura, ma il calcolo è facile da fare. La coalizione di centrosinistra, che non esiste più, ha vinto le elezioni per 120mila voti», sottratti quelli di Sel (1.089.409), «è il Pdl con i suoi alleati a essere il primo azionista del nuovo governo Pd-Pdl». A rispondere ai dissidenti che non accettano «minacce» è il lettiano Francesco Boccia: «La richiesta del rispetto delle regole, almeno di quelle che ci siamo dati tutti insieme, avanzata da me e da molti altri esponenti del nostro Partito, non può e non deve essere mai considerata come una minaccia. Le regole per una grande forza politica sono il naturale ambito in cui si vive e si lavora, soprattutto dopo un momento di grande difficoltà».
Il loro è un botta e risposta che va avanti tutto il giorno, che alla fine Boccia chiude così: «Se chi fa politica alimenta solo la pancia o qualche tweet nel breve avrà qualche consenso in più ma non rende un servizio al paese. A Civati e Puppato chiedo di andare oltre la sostanza dei tweet per aiutarci a costruire il governo del paese. Se invece loro ritengono che Napolitano non abbia diritto a questo consenso lo dicano chiaramente ma la partita, più che da congresso, diventa da campagna elettorale grillina». Il sindaco di Bari, Michele Emiliano twitta duro contro il lettiano: «Tu non puoi insegnare nulla a nessuno né per rigore né per sobrietà né per lealtá, al massimo per supponenza e arroganza.auguri.». E ancora: «Solo il congresso puó far cambiare linea politica Italia Bene Comune adesso agite in nome vostro non certo del Pd».
Critici i Giovani turchi (che hanno lanciato la candidatura di Renzi a Palazzo Chigi), a cui non si può più ascrivere Stefano Fassina: diranno no alla riunione dei gruppi parlamentari ma rispetteranno la decisione della maggioranza. Giacomo Portas, dei Moderati per il Pd riunirà oggi i suoi amministratori locali «per decidere sull'appoggio all'esecutivo Letta». A Milano insofferenza dai giovani dem che ieri giravano con un giaguaro pieno di macchie. «Con Letta non lo smacchiamo», dice Giacomo Marossi. Meglio metterlo via il giaguaro.

il Fatto 26.4.13
Il Pd caccia chi non vota il governo D’Alema-Alfano
I nuovi vertici del partito minacciano: fuori dal gruppo chi dice no
di Wanda Marra


“Chi non vota la fiducia è fuori dal Pd”. Francesco Boccia ci mette la faccia, davanti ai microfoni di SkyTg24. E dunque, se qualcuno non se la sente di dire sì al governo di Enrico Letta e alle larghe intese col Pdl, il Pd che fa, li caccia? Sì, li caccia. Per dirla alla democratica, però, con il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza: “Il voto di fiducia a un governo non è un voto di coscienza, ma è una scelta identitaria che sancisce l’appartenenza a un partito. Quindi chi non la vota è automaticamente fuori”. Aveva messo il dito sulla piaga Laura Puppato: “Se ci fosse un governo di Letta con Alfano vice premier, alla Giustizia magari Brunetta, la Gelmini all'Istruzione, Schifani all'Interno allora davvero io ho un problema di coscienza... e non lo voto”. Pronta la replica di Boccia: “Nessuno può anteporre personalismi a interessi collettivi così importanti”. E lei: “Niente minacce: di minacce non si vive e non si lavora”. Allora, Boccia prova a metterla in un altro modo: “Mica stiamo parlando dell’eutanasia, del testamento biologico o dell’aborto: la fiducia si vota secondo le indicazioni del gruppo. Non è un voto di coscienza”. Non è esattamente d’accordo, Pippo Civati. “Io la fiducia non la voto. E mi fa piacere che Letta debba mandare il suo secondo, Boccia, a metterci la faccia per parlare di espulsioni. Non fa che accrescere il consenso intorno a me. E dimostra che non riesce a fare le larghe intese neanche nel Pd”.
PARLA di “clima da stronzi”, Civati. Sintesi efficace, visti i comportamenti che hanno guidato “i gruppetti di potere” (definizione di Marianna Madia che ha detto di no a Marini e però la fiducia la vota) nelle ultime settimane. Ancora Civati. “L’unità del Pd si ritrova solo se c'è una discussione”. Le facce stravolte dei Democratici che uscivano dal cinema Capranica dopo che si era annunciata la candidatura di Franco Marini al Quirinale, senza concedere neanche un supplemento di discussione, resteranno nella memoria collettiva. Così come gli insulti di tutti contro tutti volati fuori dall’Aula di Montecitorio, dopo i 101 voti mancati a Romano Prodi. Una caccia alle streghe che per ora non ha dato nessun volto ai “traditori” (copyright Bersani). “Noi nella direzione abbiamo dato il via a fare il governo che ci chiede Napolitano”, ancora Boccia. E non fa niente che i militanti occupino le sezioni, che la bistrattatissima base non capisca e che il sentimento di delusione collettiva sia enorme. “Non posso decidere ora cosa farò, ma non si può votare la fiducia a un governo che imbarca i rappresentanti degli ultimi esecutivi del Pdl e qualche vecchia gloria democratica”, dice pure il prodiano Sandro Gozi. Sul no esplicito alla fiducia per ora sono in pochi: oltre a Civati, Gozi e Puppato, Corradino Mineo, Walter Tocci. In grave difficoltà è Gianni Cuperlo, qualche dissenso lo mostra anche Sandra Zampa. Civati sostiene che sulle sue posizioni ci sono una decina di parlamentari “coperti”. I Giovani Turchi sono “prigionieri politici” ma diranno di sì. Visto com’è andata finora, sono le vendette incrociate quelle che fanno più paura: e se qualche big non riuscisse ad avere il dicastero che agogna e decidesse di fare uno sgambetto a chi non gliel’ha dato? Ieri a Montecitorio c’era chi parlava dell’eventualità di un direttorio all’interno dei gruppi parlamentari del Pd, con il compito di decidere le sanzioni. Bersani si era inventato la firma di una Carta d’intenti per garantire la fedeltà alle scelte di Italia Bene Comune. Vendola si è sfilato nel voto su Napolitano, la carta è straccia, l’alleanza è finita. “Il direttorio? Non c’è bisogno: chi non vota la fiducia è automaticamente fuori”, dice ancora Speranza. Mentre Franceschini spiegava che non ci si può mettere all’opposizione del governo restando nel principale partito di maggioranza. “Posso capire le ragioni di chi dissente, ma a quel punto dovrebbe trarre le sue conclusioni. Andandosene”, dice il suo braccio destro, Giacomelli. E la lettiana Paola De Micheli: “Siamo pronti ad ascoltare i problemi di tutti, ma sulle decisioni finali siamo fermissimi. Scattano i regolamenti dei gruppi e del partito”. Sulla linea della fermezza persino la Serracchiani.
A SCORRERE le dichiarazioni di ieri, si nota che le più affettuosamente vicine a Letta sono quelle di Renzi. “No a veti incrociati. Siamo al suo fianco con una forte condivisione”. Sul tema: “Spero che chi sta in Parlamento non faccia mancare la fiducia”. Chi non vota è fuori? “Non sono io a do-vermene occupare”, risponde. Per ora. Perché sono quasi spariti dai radar i bersaniani, a parte Speranza, che ha un ruolo istituzionale. Hanno fatto un passo indietro Orfini e Orlando, onnipresenti ospiti tv negli ultimi mesi. Ecco arrivare invece i lettiani, Boccia e Marco Meloni. Il più fedele collaboratore? Franceschini. L’interlocutore più affidabile? Renzi. Non saranno caminetti, ma forse conversazioni skype. Comunque la nuova cabina di regia democratica si è formata.

Corriere 26.4.13
Il Pd diviso verso il test fiducia: scoppia il «caso espulsioni»
Boccia: chi non vota è fuori. Civati: assurdo, spiegherò cosa penso
di Dino Martirano

ROMA — Le telefonate sono partite nel primo pomeriggio di mercoledì, il giorno dell'incarico di governo conferito da Napolitano al vicesegretario del Pd Enrico Letta. Per i vertici dei gruppi parlamentari dei democratici si è trattato di una sorta di sondaggio tra 293 deputati e i 108 senatori per tastare il polso alle diverse anime del partito: e in particolare, per tentare di monitorare quella divisione agguerrita e coperta di 101 franchi tiratori che appena una settimana fa si è palesata nel segreto dell'urna umiliando il segretario Pier Luigi Bersani con il siluramento di Romano Prodi. Ora per ciò che resta del vertice del Nazareno è questione di pura sopravvivenza blindare il voto di fiducia del nascituro governo Pd-Pdl-Scelta civica.
Ma nonostante la scarsità di dichiarazioni di voto contro il governo delle larghe intese — Civati, Puppato e Mineo con riserva —, nel partito del Nazareno sale la tensione. E c'è chi continua ad agitare lo spettro dell'espulsione per i parlamentari che dovessero voltare le spalle a Letta: «Chi non vota la fiducia è fuori, perché in un partito serio le regole accettate da tutti vanno rispettate», ha detto Francesco Boccia, fedelissimo del presidente del Consiglio incaricato, riferendosi allo statuto del gruppo parlamentare della Camera: quello che, al secondo comma dell'articolo due, prevede che ogni deputato «si attiene agli indirizzi deliberati dagli organi del Gruppo, che sono vincolanti» e che, all'articolo 9, prevede una gradazione di sanzioni (richiamo orale, richiamo scritto, sospensione dal gruppo, esclusione dal gruppo) deliberate dal Comitato direttivo su proposta dell'ufficio di presidenza.
Il richiamo al regolamento non è piaciuto a dissidenti già noti per la loro avversione alle larghe intese con il Pdl. In prima linea c'è, ancora una volta, il monzese Pippo Civati: «Chi non vota la fiducia è fuori dal partito? Sono toni fuori di testa più che fuori dal partito. Perché dovrei uscire dal Pd solo perché ho delle grosse perplessità? La fiducia? Non la voto, e se sarò coinvolto in un dibattito spiegherò le mie opinioni». Da Venezia si fa sentire anche Laura Puppato, che respinge al mittente l'ultimatum: «Niente minacce, di minacce non si vive e non si lavora». E nella partita c'è anche il senatore Corradino Mineo: «Voterei la fiducia ma dopo aver visto la lista dei ministri». Mentre la prodiana Sandra Zampa si sente di «suggerire umilmente ai dirigenti di essere più prudenti e rispettosi del travaglio cui ogni democratico è sottoposto».
Pur colpiti da quello che sta succedendo tra gli elettori del Pd — a Torino il movimento Occupy Pd ha lanciato un appello contro un governo politico con il Pdl —, i vertici sono consapevoli che quello di Enrico Letta è l'ultimo treno utile se si vuole salvare il partito. Una robusta mano la dà anche il sindaco Matteo Renzi, che non a caso il 25 aprile invita la politica a «non disertare». E sempre Boccia cerca di riportare nel suo alveo naturale il dibattito sulle regole interne: «La richiesta del rispetto delle regole, almeno di quelle che siamo dati tutti insieme, avanzata da me e da molti altri esponenti del nostro partito, non può e non deve mai essere come una minaccia». E poi, aggiunge il parlamentare pugliese, «un voto su un governo non è un voto di coscienza, non stiamo mica votando su eutanasia o divorzio....».
La tensione, dunque, è alta. E ci sono molti neoparlamentari che vorrebbero più dibattito, più discussione interna. Ma prevale anche il senso di responsabilità: «C'è un'etica della responsabilità e un'etica della convenienza», spiega Michela Marzano, deputata e docente di Filosofia morale: «Ci sarebbe piaciuto vincere le elezioni ma ora l'oggettività della realtà è quella di dare un governo al Paese. Il compromesso non è sempre immorale...».
Il presidente dei senatori democratici, Luigi Zanda — che in serata ha incontrato Letta insieme al capogruppo alla Camera Roberto Speranza — è fiducioso: «I gruppi del Pd saranno compatti perché il voto di fiducia è un gesto solenne».

La lettiana De Micheli avverte i dubbiosi: “Non possiamo avere una parte del gruppo parlamentare all’opposizione”
Repubblica 26.4.13
Clima sempre teso all’interno del Partito democratico
Pd, lite sull’ipotesi espulsione ma i ribelli usciranno dall’aula. E Renzi: non si può più disertare
I Giovani turchi chiedono lo stop agli “impresentabili” del Pdl
di Giovanna Casadio


ROMA  — I dissidenti si sono tenuti in contatto per tutta la giornata. Rischiano l’espulsione dal Pd, e studiano una via d’uscita: ad esempio, non partecipare al voto di fiducia se nasce un governo con il Pdl «impresentabile». «Meglio uscire, piuttosto che dire “no” a Letta, ma si possono mettere “paletti” chiari», insiste Laura Puppato. La tensione è alta. Rosy Bindi, Puppato, Pippo Civati, i prodiani Sandra Zampa, Sandro Gozi, Franco Monaco e alcuni dei cosiddetti “giovani turchi” resistono all’idea che non si possa fare altro che accettare le condizioni di Berlusconi. Chiedono un governo di scopo, di breve durata, con poche e urgenti questioni all’ordine del giorno e senza i volti noti berlusconiani.
Non sono certi che la “linea Maginot” prevista dallo stesso premier incarico, il “loro” vice segretario Enrico Letta, sia sufficiente ad evitare la débacle dell’abbraccio con il centrodestra. Nel Pd convivono due reazioni al dissenso. Francesco Boccia minaccia l’espulsione inevitabile: «Chi non vota è fuori, ci si mette da solo». Mentre i capigruppo democratici, Roberto Speranza e Luigi Zanda cercano di smussare, ascoltare, convincere. «I gruppi alla fin fine saranno compatti, perché la fiducia è un gesto solenne», assicura Zanda.
Arriveranno stamani a Roma i segretari regionali e provinciali del Pd da tutta Italia, convocati apposta per spiegare la medicina amara del governo di larghe intese. Speranza terrà la relazione. Il “corpo” del partito va preparato, le ragioni spiegate anche a chi nelle sezioni mai avrebbe voluto vedere questo film. La rivolta della base va contenuta. I parlamentari in queste ore sono sentiti uno ad uno: presidenti e vice dei gruppi sia alla Camera che al Senato hanno chiamato, ascoltato, cercato di convincere, informando di quanto stava accadendo nelle consultazioni. Nel disastro-Pd - in cui Bersani, tutta la segreteria e la presidente Bindi si sono dimessi, e che dal governo con Berlusconi rischia di ricevere il colpo definitivo - si sta tentando un «lavoro di accompagnamento a Letta». Le diplomazie interne, o almeno quel che ne resta, sono al lavoro per far passare l’idea che ci si muove nel solco dell’appello del presidente Napolitano e che questa è la sola chance nelle mani dei Democratici per dare soluzione alle emergenze del paese. Lo ribadisce anche Matteo Renzi: «Non ci sono alternative per il governo. Chi ha il coraggio delle proprie azioni deve arrivare fino in fondo, non si può più disertare. Se anche un fiorentino tifa per un pisano...», prova a ironizzare. Se cioè il sindaco di Firenze è con convinzione pronto a sostenere il pisano premier incaricato, è segno che «bisogna mettere fine alla pagina dell’inconcludenza ». Nessuno vuole che Pd e Pdl stiano insieme - spiega - e chi «non vuole fare l’accordo ha sicuramente ragione, però non ci sono al momento alternative». Lui poi, ha sempre detto di non vedere l’ora di tornare al voto. Però va sostenuto il premier incaricato incoraggia Renzi - e i parlamentari non si devono sfilare: «Spero che chi sta in Parlamento non faccia mancare la fiducia. Se ce la fa Letta, ce la fa l’Italia», questa è la posta in gioco. «Stiamo valutando come comportarci, dobbiamo essere comprensibili per i nostri elettori», afferma Zampa, tra i dissidenti in trincea. Gozi fa “distinguo”: «Una cosa è includere nomi del centrodestra come Maurizio Lupi, Enrico Costa, altra coinvolgere gli ex ministri di Berlusconi. Anche da parte del Pd dovrebbe valere questa regola, e D’Alema avere il buonsenso di non entrare. È vero che un governo è necesaario: ma per fare cosa?». I dissensi, soprattutto dei disciplinati “gauchisti”, potrebbero rientrare se pezzi dei vecchi governi tanto di centrodestra quanto di centrosinistra fossero semplicemente cassati. Puppato ne fa un discorso anche di programma (niente decreti, piena centralità del Parlamento) e ricorda che Togliatti accettò il dissenso sull’articolo 7 della Costituzione, quello sui Patti Lateranensi.

La Stampa 26.4.13
Nel Pd cresce l’ala del dissenso
Puppato e Civati si sono già esposti: “Non voteremo la fiducia”
La deputata Zampa, ex portavoce di Prodi: «Preoccupata da ultimatum minacciosi»
di Francesca Schianchi


«È chiaro che chi non dovesse votare la fiducia al governo sarebbe fuori dal partito». Sono le dieci del mattino, il presidente incaricato Enrico Letta è chiuso nella Sala della Lupa di Montecitorio impegnato nelle consultazioni, quando uno degli uomini a lui più vicini, il deputato pugliese Francesco Boccia, interviene al Tg di Sky e dà nome e forma al prossimo travaglio interno al Pd: la fiducia. Se qualcuno dei tanti democratici in sofferenza all’idea di un governo con ministri di primo piano del Pdl dovesse decidere che no, non ce la può fare a dare la propria fiducia, quali sarebbero le conseguenze? Rischiano l’espulsione?
Dario Franceschini lo ha detto qualche giorno fa, il capogruppo Roberto Speranza lo ha ripetuto dalle pagine di questo giornale, ieri Boccia lo ha chiarito ancora meglio. Scatenando la reazione di chi si è più esposto nel dissenso: Pippo Civati («chi non vota la fiducia è fuori? Questi sono toni fuori di testa più che fuori dal partito») e Laura Puppato («niente minacce: di minacce non si vive e non si lavora»). Ma anche la prodiana Sandra Zampa: «Leggo con preoccupazione ultimatum minacciosi», interviene suggerendo «di essere più prudenti e rispettosi del travaglio cui ogni democratico è oggi sottoposto». E a poco serve il tentativo di ammorbidire i toni di Boccia («la richiesta del rispetto delle regole non può e non deve essere mai considerata come una minaccia»): la questione deflagra, anche perché, dopo i voti contrari a Marini e a Prodi nelle votazioni del presidente della Repubblica della settimana scorsa, nessuno se la sente più di garantire sui numeri del Pd.
Così, se Renzi si augura che non manchi la fiducia e il capogruppo al Senato Zanda assicura «gruppi compatti», le anime in sofferenza sono ansiose di capire quale proposta uscirà dal giro di consultazioni di Letta. I giovani turchi, contrari da subito a un’ipotesi di larghe intese, aspettano di vedere quale esecutivo verrà fuori, pronti a votare contro all’interno del gruppo se la proposta dovesse essere indigeribile. «Ma la fiducia la votiamo», dice Andrea Orlando, che invita «a occuparsi di politica, anziché di regole. Noi stiamo lavorando perché il rischio di un governo indigeribile venga evitato. Eviterei qualunque forma di criminalizzazione del dissenso e non mi piacciono le minacce di espulsione, ricordando nello stesso tempo che siamo legati a un principio di maggioranza». Anche Matteo Orfini, che pure aveva definito nei giorni scorsi «un voto di coscienza» la fiducia e che definisce «inqualificabile la minaccia di Boccia, che tra l’altro non si capisce a che titolo parli», ammette «pur capendo tutta la difficoltà di chi dice che non voterà la fiducia» che «la contrarietà si esprime negli organi di partito, poi in Aula ci si attiene al principio di maggioranza».
Un principio che «è la regola del partito», insiste la lettiana Paola De Micheli, vicecapogruppo alla Camera, sottoscritto da tutti i parlamentari aderenti al Partito democratico. «Non può esistere un Pd di maggioranza e uno di opposizione. Sono in dissenso prodiani, bindiani e giovani turchi, ma non credo al punto da non votare la fiducia», valuta la deputata piacentina, per tutta la giornata a Montecitorio, a seguire i lavori del presidente incaricato. «Gli unici che potrebbero non farlo sono Puppato e Civati, ma confido che i nodi si scioglieranno». Altrimenti, le conseguenze sono ancora tutte da chiarire.

La Stampa 26.4.13
I giovani torinesi citano Letta “Un governo? Non a tutti i costi”
Continua la protesta dei ragazzi del partito: “Ci vogliono paletti robusti”
di Giovanni Cerruti


Finisce che si aprono le porte della sede Pd, non c’è bisogno di occupare. E pazienza se arriva quel burbero di Giusy La Ganga e li fulmina, «sciagurati, non capite! ». Pazienza anche perché bisogna aver pazienza con questi ragazzi di «#OccupyPd», fratelli dei bolognesi di «#ResetPd». «Fratelli maggiori, però rivendica Enrico Cara, 23 anni, studente al Politecnico, vicesegretario dei Giovani Democratici torinesi -. Noi abbiamo cominciato subito, appena saputo della candidatura Marini. E la sede l’abbiamo occupata tutta la notte». Bene, ma non è una gara, né con i bolognesi né con altri. «Se è gara, è a chi vuol più bene al Pd».
Prima a piazza Carignano, poi davanti alla sede del Pd regionale di via Masserano. Li fanno entrare, certo che sì. Tutti giù nel Salone ad ascoltare Paola Bragantini, segretaria provinciale e deputata. Gli sguardi della vecchia guardia, di chi ha avuto la tessera del Pci, di chi diffida di questa gioventù che si prende certe libertà. «Dovete ascoltarci - dice Diego Sarno, 33 anni, precario dai tre lavori -. E ci deve ascoltare Enrico Letta, che è il vicesegretario del mio partito. Se dobbiamo fare un governo con il Pdl mettiamo dei paletti robusti, no ad un governo appiccicaticcio prigioniero di veti incrociati».
Alle quattro del pomeriggio, l’ora dell’appuntamento, sotto il lampione di piazza Carignano ci sono solo Diego, il suo megafono e la fotocopia del volantino scritto con un pennarello nero: «Non a tutti i costi!». Lì accanto, i tre giocolieri keniani del gruppo “Karibu” fanno il tifo contro: «Speriamo non venga nessuno, dobbiamo lavorare». E invece ecco Franco, Enrico, il pensionato Felice, l’impiegato Francesco «con tessera dal 1987». E a momenti se lo prende lui, il megafono: «Bravi ragazzi! E ditelo che se non saltano fuori i nomi dei 101 traditori tutto il gruppo parlamentare deve prendere su e tornarsene a casa».
Si mettono in fila, davanti al portone del Palazzo. «Qui è nato il primo Parlamento italiano, e da qui parte il nostro movimento. Che non vuol spaccare, ma è un atto d’amore verso il Pd e il centrosinistra di questo paese». In fila sono in 33, mica troppi. Ma bastano per richiamare chi passa e si ferma, chi domanda e chi consiglia. Come il pensionato Felice, prima iscrizione negli Anni 90: «Bisogna stare attenti, perché Berlusconi non dà mai niente gratis. E invece di bruciare le nostre tessere facciamoci dare quelle dei 101 che hanno sputtanato Prodi, che non è un picio». Sfiducia, rancori, delusione. Il megafono ripete: «Ascoltateci! ».
Vorrebbero parlare con Enrico Letta. «Almeno per dirgli - spiega Marco Sciretti, 23 anni, futuro infermiere - che in campagna elettorale ai banchetti andavamo noi a convincerli, a ripetere agli elettori che mai avremmo fatto un governo con Berlusconi. L’altro giorno, quando alla Camera il presidente Napolitano li ha presi per le orecchie i nostri hanno pure applaudito. Zitti e fermi, dovevano stare! ». Arriva una telecamera e riporta un nome per il ministero dell’Istruzione: «E se fosse Gelmini? ». Diego, Franco, Marco e gli altri sventolano il loro volantino per l’audience: «Non a tutti i costi!, come ha detto Enrico Letta».
La sede Pd di via Masserano apre alle sei del pomeriggio, i ragazzi di «#OccupyPd» sono arrivati da mezz’ora, e Diego dice «i nostri parlamentari li testeremo adesso». Improvvisano un manifesto con le loro domande, e lo attaccheranno alla parete del Salone: «Il Pd che vorrei. Governissimo? Reset della dirigenza? Congresso subito? Congresso aperto? ». Non che ci sia molto da testare. «Certo che li conosco e ci parliamo - dice Paola Bragantini, loro segretaria provinciale e loro parlamentare -. Ma alla fine del discutere si torna alla domanda che frena anche questi ragazzi: bene, allora niente governo e si rivota subito? ».
Farsi sentire, e i parlamentari torinesi li sentono. «Sono un tesoro, questi ragazzi - risponde Umberto D’Ottavio -, anche se il loro affetto rischia di non essere ricambiato...». E Davide Mattiello: «Se qualcuno voleva sbranare il Pd deve fare i conti con loro». Non c’è più bisogno di occupare la sede del Pd del Piemonte. C’è da aspettare Enrico Letta. A sera Diego se ne va e ripete il suo mantra: «Un governo di “scopo” che duri un anno, e senza politici. E la Direzione riunisca e faccia votare i nostri parlamentari prima di andare in aula per la fiducia. Enrico l’hai detto anche tu, “Non a tutti i costi”. Ascoltaci...».

il Fatto 26.4.13
Il sindaco di Bari Michele Emiliano
“Non ci manderanno via. Se ne vadano loro”
di Caterina Perniconi


Quando Silvio Berlusconi due settimane fa è andato a Bari per un comizio, dal palazzo del Comune è spuntato lo striscione “Bentornato”. Firmato: “Il sindaco”. Era “un saluto ironico” dice Michele Emiliano, che di larghe intese non vuole sentir parlare.
Contento di governare con il Pdl?
Guardi, so di esagerare, ma avrei preferito un monocolore berlusconiano a un pastrocchio simile. Sel, Lega e Fratelli d’Italia si sono sfilati, resta solo un duetto perverso.
Un terzetto, con Monti.
Monti è il sensale del duetto. Ha provato disperatamente a diventare la sposa, ma non c’è riuscito.
E l’abito bianco se l’è messo Letta.
Spero che nessuno dei nostri iscritti, tantomeno di punta, debba sedere in un Consiglio dei ministri con chi combattiamo da 20 anni.
Mi sembra chiaro che se fosse in Parlamento la fiducia all’esecutivo che sta nascendo non la voterebbe.
Non ho ancora deciso, voglio vedere la proposta. Se mi dicono che si tratta di un governo di tre mesi per cambiare la legge elettorale e sbloccare situazioni come gli esodati e la Cassa integrazione in deroga, potrei pensarci. Ma se trattasi di governissimo non ci penso proprio.
Lo sa che è passibile di espulsione?
E chi lo dice?
Francesco Boccia, con cui anche lei ha scambiato velenosi tweet, per esempio.
E con quale legittimazione? Quella di amico di Letta? Il mio partito ha una linea politica determinata da una carta d’intenti che hanno firmato tutti gli elettori delle primarie. Compreso Boccia. E quella carta esclude radicalmente l’alleanza con il Pdl. Se la faranno, inviterò i parlamentari a votare contro.
Civati lo farà, ma rischia l’espulsione.
Difenderò Pippo fisicamente, se serve. Vogliono cacciare noi? Noi cacceremo loro, ma se si scusano li perdoniamo. Se poi la linea del partito cambia nelle opportune sedi, allora ognuno farà le sue valutazioni. Per ora, è fuori dalla legittimità democratica dire che si fa fuori chi non è d’accordo. Con che cosa?
Non ne avete discusso?
In Direzione nazionale no. Quando si è trattato di votare un documento in cui non c’era scritto nulla sono uscito, e come me molti altri. Era lesivo della nostra dignità. Altro che 7 contrari e 14 astenuti.
Quindi non sa quali saranno le fondamenta su cui poggerà il governo.
Se le basi sono i punti stabiliti dai dieci saggi me ne terrò lontano.
I saggi erano un modo di Napolitano per allungare i tempi o servivano a favorire le larghe intese?
Sono un magistrato, mi hanno insegnato a rispondere che tutto quel che fa il Capo dello Stato è legittimo.
Ho capito, la seconda. Se ci sarà il governissimo lascerà il Pd?
Se lascio il Pd smetto di fare politica, chiedo piuttosto un congresso subito.
Con chi si schiererà?
Questo lo vedremo, io continuo a spingere per un accordo tra Renzi e Vendola per le prossime elezioni, ma non consumerei Matteo nella segreteria di un partito. Chi c’è passato ora sta dallo psicologo.
Preferirebbe Barca in quel ruolo?
Darebbe un contributo intellettuale importante.
Insomma, in un cantiere della sinistra non ci va.
Io no, ma spero che ci vada tutto il Pd.

il Fatto 26.4.13
Lamezia Terme. Occupata la sede del partito

È Occupy Pd anche in Calabria. Da ieri, nella sede regionale del partito, a Lamezia Terme, un gruppo di dirigenti, amministratori, iscritti e simpatizzanti del Pd si è riunito in assemblea per elaborare un documento in cui spiegare le motivazioni dell’iniziativa e le varie proposte emerse. Ansa

il Fatto 26.4.13
Altro che cani da guardia i giornali non mordono più
di Caterina Soffici


Perché Berlusconi è ancora lì nonostante quello che i giornali hanno scritto su di lui. Questa cosa, vista dall’estero, è incomprensibile. Per un giornalista inglese, “quando una bugia, un comportamento moralmente inaccettabile o un crimine vengono raccontati su un giornale, queste rivelazioni devono avere delle conseguenze”. Perché questo non succede in Italia? L’anomalia italiana è analizzata e vivisezionata da due giornalisti del Financial Times, autori di Eserciti di carta. Come si fa informazione in Italia appena uscito per Feltrinelli (pagg. 283, euro 18). Ferdinando Giugliano (tipico cervello in fuga, 27 anni, dottorato in Economia a Oxford, scrive gli editoriali non firmati per il Ft) e John Lloyd (collaboratore di Repubblica, tra i fondatori e direttore del Reuters Institute for Study of Journalism all’Università di Oxford) scrivono un intero volume per raccontare come si costruiscono le notizie in Italia, eppure alla fine ci si rende conto che hanno prodotto un libro su Berlusconi e sulla domanda iniziale: come è possibile che sia ancora lì?
NESSUN politico del mondo democratico civile (non parliamo di dittatori o di paesi totalitari) avrebbe resistito un giorno al potere se i giornali del suo paese avessero pubblicato anche solo un decimo di quanto è uscito in Italia su B. L’anomalia italiana si chiama conflitto d’interessi, ma non solo. Nell’analisi, Giugliano e Lloyd dicono che il giornalismo è stato plasmato e intrappolato nella radicalizzazione berlusconiana “con me o contro di me”, la dicotomia che ha caratterizzato l’ultimo ventennio di vita politica. E quindi di conseguenza la società e l’informazione. Venti anni di giornali (e soprattutto televisione) ai tempi di B. hanno profondamente cambiato il volto di un giornalismo che comunque aveva i suoi bei vizi e le sue magagne anche prima. Colpisce la rivendicazione dei giornalisti italiani che essere di parte sia una cosa buona. In fondo, è il ragionamento, perché essere ipocriti? Nessun giornalista è libero e quindi più ci si schiera più si è onesti con i lettori, che almeno sanno da che parte stai. Il cinismo di questa tesi è perfettamente sintetizzato dal campione dei cinici e dei trasformisti italici, Giuliano Ferrara, il quale intervistato nel libro dichiara: “Non sono un commentatore indipendente, sono un essere umano, sono un cittadino, una persona. Il giornalismo, per me non è una professione, è un aspetto della vita politica… Non credo nel giornalismo professionale”.
DICHIARAZIONI di questo genere non sono concepibili da uno che guarda dalle sponde del Tamigi. Scrivono Giugliano e Lloyd: “Vista dall’estero, l’informazione italiana sembra fondata sul presupposto che l’obiettività e l’equidistanza non siano possibili, che la neutralità rispetto a interessi e fazioni politiche sia irraggiungibile e che i giornalisti non possano evitare di assumere posizioni di parte”.
Non che i giornali inglesi possano permettersi di fare lezioni di morale, visto quello che è successo negli ultimi anni. Non si capisce dove nasca l’idea molto diffusa in Italia che la stampa britannica sia un modello da seguire. Nel gruppo Murdoch è successo di tutto e di più, si sono dimessi direttori, è stato chiuso un giornale storico, grappoli di giornalisti sono finiti in carcere perché intercettavano illegalmente i telefoni dei vip. Alla faccia dell’equidistanza e dell’imparzialità, uno di questi campioni di giornalismo indipendente anglosassone, Andy Coulson, è stato addirittura assunto da David Cameron come portavoce, per poi dimettersi nell’ignominia quando il bubbone è scoppiato. Quindi, non è necessario farsi fare la lezione. Ma Eserciti di carta è utile perché ha uno sguardo distaccato e spiega che alla fine il cinismo italico enunciato da Ferrara – non si può non essere di parte – si ritorce contro i giornalisti stessi che lo professano e lo praticano. A cosa serve tendere all’imparzialità? “Chi fa informazione deve riuscire a raccontare quanto accaduto in modo da convincere il lettore o il telespettatore, indipendente da quale sia la sua fede politica, a fidarsi della sua tesi e delle sue conclusioni” scrivono i due del Ft. Ma c’è di più: anche il pubblico deve fare la sua parte e credere nella funzione civile del giornalismo. Se il giornalista da cane da guardia diventa cane da compagnia, il gioco non funziona più. Ecco come si è rotto in Italia il rapporto di fiducia tra stampa e società civile.
NEL LIBRO si passano in rassegna il caso Noemi e le dimissioni di Boffo, le 10 domande di Repubblica a Berlusconi e la casa di Fini a Montecarlo, il Tg1 di Minzolini e il caso Ruby. Tutte le notizie e gli scandali sono stati masticati, deglutiti e diluiti negli infiniti botta e riposta dell’informazione “bipolare” creata dal berlusconismo.
Le conclusioni di Lloyd e Giugliano sono sconfortanti: “Nel mondo dell’informazione bipolare qualsiasi fatto diviene opinabile. In questo clima di relatività assoluta è difficile che un’inchiesta giornalistica possa portare a delle conseguenze, perché il politico colto sul fatto avrà gioco facile ad appellarsi alla parzialità, vera o presunta, dei giornalisti che lo accusano”. Il giornalista in un paese normale dovrebbe essere un arbitro. “In Italia ci sono sempre due arbitri, ciascuno portato da una delle due squadre. Chi andrebbe mai a vedere un match del genere? ”.

il Fatto 26.4.13
Se Parlamento e piazza non coincidono
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, il nuovo Presidente Napolitano ha detto che non si devono contrapporre mai Parlamento e piazza. Eppure, si tratta di un evento normale e tipico, in ogni democrazia. Come spiegare quelle parole?
Ettore
L’AFFERMAZIONE, infatti, sembra difficile da capire. Se un Parlamento esiste e funziona e decide, è perfettamente ragionevole immaginare che qualcuno approvi e qualcuno disapprovi. E non tutti i cittadini sono in Parlamento. Se perdura il completo arco delle libertà democratiche, ci sarà sempre un corteo che sceglie di manifestare contro il Parlamento. La democrazia prevede atti di tolleranza (dunque l'ammissione di qualunque tipo ordinato e nonviolento di manifestazione) ma non chiede conformismo o atti di sottomissione ("non potrei mai dare torto al Parlamento"). Dunque credo che significhi che qualunque dimostrazione di massa delle opinioni in contrasto con le sedi istituzionali debba avvenire mantenendo sempre un’accurata distanza sia dalla violenza sia dalla minaccia. Proprio questi giorni immensamente difficili, però, hanno dato luogo a un solo infelice episodio, le urla contro Franceschini, che per fortuna sono rimaste soltanto urla. Quanto alla folla intorno alla Camera dei deputati, non c'è stato mai il minimo segno di spostamento dalla protesta verso qualsiasi tipo, anche solo simbolico , di violenza. D'altra parte sappiamo tutti che i momenti più difficili della vita americana (per citare un Paese di lunga esperienza democratica) sono sempre segnati da manifestazioni fiume intorno alle istituzioni. Come non ricordare il celebre discorso "I have a dream" di Martin Luther King a centinaia di migliaia di afroamericani arrivati da tutto il Paese a Washington? È stato un capolavoro di manifestazione pacifica, ma solo dopo si è potuto dirlo, e posso testimoniare che lo schieramento di polizia era immenso. Negli anni seguenti (ai tempi della guerra nel Vietnam) i due palazzi del Congresso americano (Camera e Senato), la Casa Bianca e soprattutto il Pentagono (ministero della Difesa) sono stati luoghi di grandi e indimenticate manifestazioni. Una delle proteste più aspre è accaduta a Chicago, dopo l'assassinio di Robert Kennedy, una ininterrotta dimostrazione (giorno e notte) di giovani intorno al palazzo della Convenzione democratica di Chicago (1968) contro la candidatura di Hubert Humphrey (favorevole alla guerra) alla presidenza degli Usa. Qualunque democratico (non parlo di partito ma di costituzione) pensa anche oggi che abbandono, solitudine e apatia sarebbero un segnale molto più pericoloso.

il Fatto 26.4.13
Ha distrutto l’Italia, mai al governo con Berlusconi
di Enrico Letta


Occorre un grande patto costituente tra progressisti e moderati che escluda dal governo i populismi di Grillo, Berlusconi e Di Pietro (26-6-12). Il governo si regge su un patto politico chiaro: il Pd si è assunto la responsabilità di stare in una maggioranza con chi ci ha ridotto così, a patto che l’interlocutore non fosse Berlusconi (3-7-12). L’ipotesi di una grande coalizione col Pdl dopo le elezioni è molto lontana. E la lontananza è data dal ritorno in campo di Silvio Berlusconi, che rende questa ipotesi poco credibile” (22-8-12). Quella di una Grande Coalizione col Pdl è una prospettiva completamente affossata dal ritorno di Berlusconi, responsabile della situazione molto negativa nella quale il Paese si è ritrovato” (23-8-12). Nella prossima legislatura non possiamo governare con un patto politico con Berlusconi. Ha distrutto il lavoro di Alfano per rendere il Pdl un normale partito conservatore europeo e l’ha fatto tornare alla logica di Arcore, per noi inaccettabile (3-10-12). La prospettiva di un Berlusconi-5 la vendetta è una idea repellente rispetto alla buona politica (1-12-12). Tra Pd e Monti ci sarà dialogo e competizione leale. Il nostro avversario comune è Berlusconi (23-12-12). Se dovesse esserci necessità di governare con un alleato, non potremmo rivolgerci né a Berlusconi né a Grillo: il ragionamento andrà fatto con coloro con cui condividiamo la scelta europeista e dunque con Monti e le forze di centro (28-12-12). Risponderemo colpo su colpo alle parole vergognose sul presidente Napolitano pronunciate da Silvio Berlusconi (31-12-12). Alle bugie di Berlusconi risponderemo colpo su colpo. Bisognerebbe aprire una commissione parlamentare d’inchiesta su di lui (2-1-13). Il disastro e la vergogna. Berlusconi, con lo spettacolo, cerca di far dimenticare entrambi al Paese. Lui è il nostro vero avversario. E dobbiamo battere il suo populismo. Confidiamo nella memoria degli italiani che sanno che, dopo tre anni di governo Berlusconi, le famiglie e le imprese si trovavano a pagare i mutui cinque volte tanto rispetto a tedeschi e francesi (12-1-13). Berlusconi non torna, perché i danni che ha fatto al Paese sono tanti e gli italiani non hanno una memoria così fallace (14-1-13). L’Italia è stata distrutta da Berlusconi, che sta cercando ancora una volta di rendere questa campagna elettorale ansiogena ai limiti della guerra civile (15-1-13). C’è stato un periodo in cui andando all’estero a noi italiani ci deridevano per il ‘bunga bunga’ piuttosto che apprezzarci per i tanti cervelli costretti a emigrare (25-1-13). Berlusconi è come Sylvester Stallone o Jean-Claude Van Damme nel film I mercenari, come quei personaggi che ritornano e a 65 anni fanno le cose che facevano quando ne avevano a 25: patetico e bollito (30-1-13).
La proposta di rimborsare l’Imu finanziando l’operazione con la tassazione dei capitali italiani in Svizzera non è credibile: perché la fa Berlusconi, perché è basata su premesse che non tengono conto della verità, perché non si poggia sulla possibilità di realizzarla dal punto di vista della solidità politica. Berlusconi è l’uomo che ha fatto quasi fallire l’Italia e che ora si ripropone, rovesciando la verità e facendo promesse irrealizzabili, contando sul fatto che gli italiani ogni tanto hanno la memoria corta. L’alternativa è tra noi e Berlusconi (4-2-13). I voti a Berlusconi? Era assurdo pensare che non ci fosse chi voleva votare per chi difende l’evasione fiscale, visto che in Italia c’è il 20 per cento di evasione fiscale e gli evasori fiscali votano (8-2-13). Abbiamo chiaro da tempo che l’errore fatto negli anni 90 e quando abbiamo governato è stato di non riuscire a fare una buona legge sul conflitto di interessi e la riforma del sistema radiotelevisivo. E anche se i buoi sono scappati dalla stalla, in questa legislatura bisogna rimediare a tutti i costi: il Pd obbligherà Berlusconi a sciogliere i suoi conflitti di interesse se si vuole ricandidare. Il suo ruolo di tycoon mediatico è emerso in tutta la sua pesantezza anche in questa campagna elettorale.
Sarebbe cambiata la storia del Paese se la legge si fosse fatta prima, perché Berlusconi ha usato in modo sempre scorretto il suo potere (21-2-13). Nel dire no a un governo con Berlusconi non dobbiamo avere alcuna ambiguità, mentre dobbiamo sfidare Grillo senza rincorrerlo (6-3-13). Grande coalizione? Fossimo in Germania e ci fosse la Merkel sarebbe la soluzione perfetta. Purtroppo siamo in Italia e c’è Berlusconi, la vedo complicata” (8-3-13). L’agenda del Pdl ha un solo punto: la difesa di Berlusconi (9-3-13). Non tenti la destra di rovesciare le cose e usare il monito di Napolitano a coperture delle proprie ingiustificabili manifestazioni sulle scalinate del Tribunale di Milano. Pensi il Pdl invece a riflettere sulle argomentazioni del Presidente e a rispettare i principi costituzionali di autonomia dei poteri (12-3-13).
Berlusconi oggi propone un governo della concordia. Ma con quale coraggio e con quale coerenza lo fa, dal momento che nell’unico caso in cui sostenevamo lo stesso governo per fronteggiare la crisi più grave del dopoguerra ha tolto la spina prima del tempo solo per i suoi interessi, perché voleva andare a fare la campagna elettorale? (20-3-13). Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile (8-4-13).

il Fatto 26.4.13
Una Dinasty chiamata Letta
Non solo Gianni nell’albero genealogico del premier incaricato


Il grosso dell’attenzione è sempre stato posto sui rapporti tra Enrico Letta e lo zio, Gianni, braccio destro di Berlusconi. Ma la famiglia Letta, originaria del-l’Abruzzo, è molto ampia e ha altre diramazioni, come raccontato da il Centro. La zia del premier incaricato,MariaTeresa,infatti,è vicepresidente della Croce rossa italiana e presidente del comitato abruzzese, ruolo per cui fu chiamata in causa da un’inchiesta di Report del 2011. Tra gli zii di Enrico ci sono anche Cesare, archeologo di fama mondiale, e Corra-do, detto il “nuovo Lawrence d’Arabia” per la sua attività internazionale. Ma spicca il cugino, Giampaolo, figlio di Gianni, che dirige, da amministratore delegato e vicepresidente, la Medusa film, il cinema del gruppo Berlusconi.

il Fatto 26.4.13
Rosso sbiadito
Pd, la storia sinistra di un partito che si rottama da solo
Uno scontro feroce scandisce la vita di un gruppo dirigente che si è sempre odiato
di Salvatore Cannavò


In principio li divideva solo un trattino. Prima che una gestione devastante si mangiasse uno a uno i segretari di un partito sputandone i resti sul piatto. Quel trattino era la naturale congiunzione tra il centro e la sinistra usciti indenni e malconci dagli anni 80. Renderlo stabile o farlo sparire?.
Era stato Achille Occhetto, con la svolta della Bolognina e la fondazione del Pds, a mettere gli ex comunisti a disposizione di una fase nuova. Costruì la “gioiosa macchina da guerra” pensando che la sinistra fosse autosufficiente a sfondare in un panorama desertificato dal crollo di Dc e Psi. Ma i suoi “progressisti” furono sconfitti dalla novità Berlusconi. L’ex segretario aveva mancato l’accordo con il Ppi, il centro, di Mino Martinazzoli e si beccò l'accusa di non aver prestato attenzione al trattino. Massimo D’Alema gliela fece pagare sostituendolo alla segreteria Pds nel ‘94 e Occhetto non si riprenderà più. D’Alema riunisce la “coalizione dei democratici” in cui centro, sinistra e sinistra-sinistra hanno ognuno il proprio spazio. Vincerà, ma vincerà anche l’Ulivo, l’albero della nuova identità democratica. Quel successo spinge le ali degli ulivisti, che il trattino vogliono abbatterlo. Lo scontro si fa duro: da un parte D’Alema e Franco Marini, dal ‘97 segretario dei Popolari, dall’altra, Prodi e Veltroni. Sembra il film dei giorni scorsi anche se è vecchio di 17 anni.
CON PRODI al governo, Massimo D’Alema ingaggia lo scontro con la Cgil di Sergio Cofferati e con il Prc di Bertinotti: “Non volete le larghe intese? Sostenete il governo” dirà al congresso Pds del 1996. Ma le larghe intese hanno il volto della Bicamerale, la “madre di tutti gli inciuci” che riconosce a Silvio Berlusconi un ruolo da statista improbabile (e che, infatti, non avrà). Quell’intesa indebolirà il governo e Prodi cade nel ‘98. Dietro la mano di Bertinotti si intravede il “complotto” di D’Alema e Marini, il quale lo riconoscerà qualche anno dopo. Tocca al “lider maximo”, da Palazzo Chigi, ripristinare un robusto trattino tra un centro che si è allargato a Francesco Cossiga e Clemente Mastella e una sinistra da collocare stabilmente nel socialismo europeo, in quel momento rapito dalle sirene di Tony Blair. Il Pds si trasforma in Ds e la Rosa socialista prende il posto della falce e martello. Ma è una costruzione fredda e con poco slancio. Alle elezioni del 1999 resta ferma al 17,2%. “Competition is competition” dichiara beffardo Prodi quando alle stesse elezioni gli contrappone i Democratici (7%), dimostrando di non dimenticare nulla. Alla segreteria dei Ds, intanto, passa Walter Veltroni che si concentra nell’elezione di Ciampi alla Presidenza della Repubblica per far dispetto a Marini e D’Alema. Il quale, dopo la sconfitta alle Regionali 2000, sarà costretto a dimettersi. “I sondaggi ci danno vincenti” aveva dichiarato il giorno prima del voto trasformandolo in una conta sul proprio futuro. Perderà. E i segretari caduti sul campo diventano due.
LO SCONTRO si riproduce quando si tratta di scegliere il candidato premier del 2001. La conta è tra Giuliano Amato e Francesco Rutelli: il primo, socialista, ha sostituito D’Alema al governo. Il secondo, ex di tutto, sembra ulivista. Amato farà un passo indietro e Rutelli potrà lanciare la sua sfida, perdente, al Berlusconi più forte di sempre. I Ds, con Veltroni che si rifugia al Comune di Roma, dove vince di slancio, vivono un vuoto di potere. A coordinare la segreteria c’è Pietro Folena, che poi approderà a Rifondazione comunista mentre si prepara la segreteria di Piero Fassino. L’ulivismo di Rutelli si sbriciola subito perché la sua candidatura viene utilizzata per creare la Margherita, fusione tra gli ex popolari, i Democratici e Di Pietro. Il nuovo simbolo supera di slancio il 14% mentre i Ds si fermano al 16,5. Ancora una volta, competition is competition. Prodi, nel frattempo, è stato inviato alla Commissione europea dove resterà fino al 2005. Il centro-sinistra, con trattino o senza, sembra cotto. “Con questi dirigenti non vinceremo mai” urla Nanni Moretti dal palco di Piazza Navona nel febbraio 2002. Ma c’è la stagione dei “movimenti”, quella dei girotondi, dei “no global”, del movimento per la pace. Quei dirigenti prendono fischi nei cortei, ma la piazza costituirà la base per una rimonta.
È di nuovo Romano Prodi, nel 2003, a proporre una lista comune, “Uniti nell'Ulivo”, alle europee del 2004. Al ritmo di Una vita da mediano cantata da Ligabue, Prodi viene osannato da una grande Convention che gli restituisce l’onore. Chiede le primarie e ottiene la partecipazione di 4,3 milioni di persone. Fassino e Rutelli si convincono e creano la “Federazione ulivi-sta”. Ma, ancora una volta, lo fanno a metà. Alle elezioni del 2006, quelle dell’Unione, la lista dell’Ulivo è presentata alla Camera mentre al Senato Ds e Margherita restano divisi. La prima ottiene il 31% mentre le due liste si fermano al 27. Sono i voti che mancheranno per avere la stabilità al Senato.
Il governo, con due voti di scarto, è già azzoppato. Rifondazione lo sosterrà, ma alla fine del 2007 Bertinotti definisce il professore “il più grande poeta morente”. Per dargli forza, Ds e Margherita si decidono al grande passo: fare il Pd. Farlo sul serio, fondere i due partiti, costruire un unico gruppo dirigente. Ma sarà una fusione fredda, realizzata nel vivo di un governo fallimentare. Per scaldarla si ricorre di nuovo alle primarie. Vi partecipano 3,5 milioni di persone - molte meno di quelle per Prodi, ricorderà sempre quest’ultimo - e Veltroni conquista la segreteria. Alleato del professore nel ‘96-‘98, stavolta lo fa fuori.
GIÀ NELL’ESTATE del 2007 circola l’ipotesi di un suo governo. In autunno, invece, debutta da neo-segretario accordandosi sulla legge elettorale con un Berlusconi in crisi. “Voi volete fottere me? E io fotto per primo voi” dirà Mastella a Prodi avendo capito che i piccoli partiti verranno sacrificati. Il governo cade il 24 gennaio 2008. Veltroni però non si cura dell’errore. Dopo la vittoria alle primarie è convinto di avere i sondaggi dalla propria parte, confortato dal quotidiano Repubblica: “Domani si può voltar pagina e aprire un ciclo nuovo”, scrive Eugenio Scalfari alla vigilia del voto. Nessuno vede il clima che monta nel Paese, il successo di libri come “La casta”, la nascita del fenomeno Grillo con il “VaffaDay” dell’8 settembre 2007. La nave è lanciata a tutta corsa verso la disfatta. Il Pd ottiene un buon risultato, il 34%. Ma distrugge gli alleati e favorisce una vittoria schiacciante di Berlusconi. Ancora un segretario sconfitto. Veltroni lascerà la segreteria del Pd nel 2009, dopo la delusione in Sardegna e verrà sostituito da Dario Franceschini. “Siamo un amalgama non riuscito” dirà D’Alema sbagliando per difetto. Quasi venti anni di scontri, infatti, non hanno mai visto un dibattito leale. Ulivisti e partitisti, liberali e socialisti sono etichette di comodo, non documenti congressuali su cui chiamare gli iscritti alla scelta. Franceschini, della cui segreteria si ricordano i calzini turchesi in solidarietà con il giudice Me-siano, sfiderà alle primarie Pier Luigi Bersani che vince grazie a un dispiegamento micidiale dell’apparato. L’ultima fase la guida lui. Con le frasi e le idee inceppate. Rivince anche contro Matteo Renzi e salva il partito dalla “rottamazione” invocata dal sindaco di Firenze. A rottamare il Pd ci penserà da solo. Assieme a tutti i segretari che l’hanno preceduto.

“In venti anni ho fatto fuori sei leader della sinistra”: è la frase pronunciata ieri da Silvio Berlusconi in una intervista alla Fox a Dallas dove era per un’iniziativa in onore dell’ex presidente Usa George W. Bush
Corriere 26.4.13
Il Cavaliere regista di una nuova fase può acuire i sospetti a sinistra
di Massimo Franco


Silvio Berlusconi si vanta in un fuorionda di avere «fatto fuori sei leader della sinistra in venti anni». È vero, ma sentirselo ricordare mentre sono in corso le consultazioni del presidente incaricato Enrico Letta, al Pd non farà piacere. Il leader del centrodestra sta vivendo questa fase come una rivincita. E la visita negli Stati Uniti per l'inaugurazione della libreria dell'ex presidente George Bush viene evocata dal Pdl per consacrarlo come personalità ecumenica in Italia, e di prestigio internazionale: una tappa per la costruzione di una nuova narrativa berlusconiana, nella quale il Cavaliere agirebbe ormai da leader di tutti.
Il «via libera» al governo guidato dal vicesegretario del Pd, Enrico Letta, va incorniciato in questa strategia. Non è ancora chiaro se il capo del Pdl lo accrediterà come coalizione forte, destinata a durare; oppure se alla fine, giocando anche sulle inquietudini della sinistra nei confronti del premier incaricato, sceglierà una delegazione ministeriale di profilo meno politico e più debole. Ma la volontà che il governo nasca appare sincera, e interessata. Una coalizione fra il suo partito e gli avversari storici, frastornati dal fallimento della candidatura di Franco Marini e di Romano Prodi al Quirinale, lo fanno apparire più che mai in sella; e in raccordo stretto con Giorgio Napolitano.
Al punto che, spingendosi forse un po' troppo in là, i suoi sostenitori tendono ad accreditare quello nascente di Enrico Letta come «il governo Napolitano-Berlusconi»: come se il loro leader non avesse perso oltre sei milioni di voti il 24 e 25 febbraio, né avesse portato l'Italia nell'autunno del 2011 sull'orlo di una crisi finanziaria rischiosa. Gli errori commessi dalla sinistra negli ultimi due mesi lo rilanciano come protagonista e regista di questa nuova fase. E inducono il Pdl a parlare di un Cavaliere padrone della strategia e dell'agenda di Palazzo Chigi. L'idea di un «decreto salva Italia» è già stata lanciata. E la restituzione dell'Imu, la tassa sulla prima casa del governo Monti, non è più esclusa.
Il premier incaricato, che è da sempre un europeista convinto, vuole anche propugnare una trattativa con l'Ue per puntare sulla crescita: un tema caro alla sinistra e in parallelo al centrodestra, sebbene da punti di vista diversi. Il fatto che ieri l'incontro fra Enrico Letta e la delegazione del Pdl sia durato oltre due ore conferma l'esistenza di difficoltà ancora da superare; ma anche la volontà di arrivare all'intesa. I problemi, per paradosso, potrebbero arrivare dal Pd. E più Berlusconi esalta e fa sottolineare il proprio ruolo, più possono acuirsi. L'atteggiamento trionfalistico del centrodestra è destinato a irritare una sinistra già nervosa; e a scaricare le tensioni sul premier.
Il livore di alcuni esponenti prodiani contro Napolitano e contro un governo «di servizio» che veda la partecipazione di entrambi i partiti rivela un «no» all'intera operazione. Traspare il timore di dover pagare un prezzo elettorale altissimo nel momento in cui si stringe un patto con il nemico storico. Eppure, il vero concorrente del Pd alle ultime elezioni non è stato il Cavaliere. A succhiare voti alla sinistra ha pensato piuttosto il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E su questo fronte Letta ha dato al proprio partito qualche motivo di sollievo. Il suo incontro di ieri con i grillini è stato un piccolo grande successo. E ha indicato la strada giusta per recuperare voti su quel versante, senza pericolose scorciatoie elettorali.

Repubblica 26.4.13
Se nessuno ascolta la voce della base
di Curzio Maltese


PRIMARIE, parlamentarie, quirinarie e balle varie, per restare in rima, non tolgono che i vertici del Pd e quelli del M5S, in pratica Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, abbiano alla fine preso la più importante decisione della loro storia politica da soli e contro la chiara volontà dei loro elettori.
E allora, perché non finirla con queste ipocrite pagliacciate? Sono ormai mesi che Grillo e il Pd fanno a gara a chi è più democratico, più trasparente nelle scelte. Il Pd rimprovera a Grillo e Casaleggio di guidare un partito personale, una setta dove decidono i due capi, in barba allo slogan «uno vale uno». D’altra parte, Grillo ha accusato il Pd di allestire primarie truccate, dall’esito già deciso, in favore dell’apparato che controlla le regole.
Per mesi ci siamo chiesti chi avesse più ragione. Ora lo sappiamo, tutti e due. Quirinarie, parlamentarie, primarie rappresentano una stessa delega in bianco ai capi. I quali poi sono liberissimi di fare l’esatto contrario di quanto vogliono gli elettori e i militanti. Tutti sanno che Bersani e i bersaniani hanno vinto le primarie contro Renzi per due ragioni sulle altre. La prima è che venivano considerati «più a sinistra » rispetto al rivale, presentato come assai più disponibile nei confronti della destra in generale e di Berlusconi in particolare. La seconda è che fra il primo e il secondo turno Bersani ha ottenuto il decisivo appoggio degli elettori di Vendola e di Sel, proprio sulla base della promessa di non accettare mai compromessi non solo con il berlusconismo, ma neppure con il centrismo rappresentato da Monti. Ora i bersaniani stanno per varare un governo con Berlusconi e Monti. Che si fa, si restituiscono i soldi dell’obolo al partito?
Un discorso non diverso riguarda la tecnologicamente più avanzata ma non meno truffaldina democrazia elettronica di Grillo. Dopo il grottesco delle parlamentarie, che sono servite a mandare in Parlamento troppi sprovveduti col voto del condominio, siamo arrivati al numero da circo delle quirinarie. L’unico voto in due turni al mondo dove prima del ballottaggio non si conosceva il risultato del primo turno. Peraltro non ancora comunicato. Il risultato finale, con numeri risibili, è stato reso noto quando i giochi per il Quirinale erano finiti. Forse appunto perché i numeri erano risibili. In compenso sulla scelta vera, l’alleanza col Pd, la base non è mai stata consultata. La realtà è che tutto viene deciso dai monarchi Grillo e Casaleggio. Per giorni i grillini hanno rivolto una domanda ai dirigenti del Pd: perché no a Rodotà? Lamentando, a ragione, di non aver mai ricevuto una risposta. Anche noi però abbiamo provato a fare una domanda a Grillo e Casaleggio: perché non lanciate un referendum in rete sull’alleanza col Pd? In attesa della risposta che non è mai arrivata, vale quella che ci siamo dati da soli. Perché i capi avrebbero perso.
La soluzione del governissimo in corso è dunque il frutto della totale indifferenza dei vertici del Pd e di Grillo, in questo almeno uguali, nei confronti della volontà di 18 milioni di elettori. Nel Paese e nell’opinione pubblica una maggioranza di governo c’era, largamente maggioritaria. In Parlamento se n’è voluta trovare un’altra, che conviene alle oligarchie vecchie e nuove. Ma che almeno ciascuno si assuma le proprie responsabilità. E per favore, la smettano di organizzare show e di spacciarli per esercizi di democrazia.

Repubblica 26.4.13
L’antiberlusconismo non è più sufficiente
di Chiara Saraceno


È davvero colpa dei neo-eletti, per lo più giovani, per lo più scelti tramite primarie, se il Pd, alla prova delle elezioni del presidente della Repubblica, è andato in pezzi?
È quanto sembra pensare Rosi Bindi, nel denunciare un eccesso di nuovismo giovanilista promosso da Bersani nel definire le liste elettorali.
È una denuncia speculare a quella operata dalla (ex) dirigenza del partito nei confronti dei parlamentari del Movimento 5 Stelle, indicati come responsabili della difficoltà a formare una maggioranza di governo dopo la non vittoria elettorale, perché incapaci, prima ancora che ostili, ad assumere responsabilità istituzionali.
Non sottovaluto l’impreparazione e anche la semplice ignoranza, né la maleducazione e il cinismo di molti parlamentari vecchi e nuovi e trasversali ai partiti. Ed ha ragione Bindi a dire che per rinnovarsi occorre anche formare una nuova classe dirigente. Mi sembra tuttavia che questo tipo di denunce, e l’analisi che le sottendono, siano l’ennesima dimostrazione di quanto poco il Pd e la sua dirigenza abbiano capito che il problema stava e sta nel partito stesso.
Un partito mai nato, come mi sono sentita ripetere più volte (a voce, non via Twitter) in questi giorni di passione da molti militanti ed elettori incontrati in dibattiti che avevano tutt’altro argomento. Da questo punto di vista, ha più ragione Marini di Bindi: il Pd non è mai riuscito ad andare al di là di un assemblaggio di pezzi di partiti, di potentati diversi.
Nonostante la continua evocazione della ricchezza creata dal dialogo tra culture diverse, non c’è mai stata costruzione di una cultura politica comune, su nessuno dei temi importanti. Al contrario, le divisioni e le inconciliabilità sono rimaste le stesse. Anche i nuovi arrivati, complice l’anticostituzionale legge elettorale, sono stati scelti per lo più secondo la logica della spartizione per correnti e per “aree culturali”. Al punto che viene da chiedersi se a tenere insieme i vari pezzi non ci fosse solo l’antiberlusconismo: un collante che trova sempre nuova giustificazione nei comportamenti di chi lo provoca, ma che non è sufficiente a dare identità e motivazione a un partito e ai suoi elettori.
La campagna elettorale è stata da questo punto di vista sconfortantemente esemplare: timorosa di parlare agli elettori in campo aperto, per mancanza di un programma chiaro dopo anni di solo antiberlusconismo seguiti da un anno di subalternità al governo Monti di cui non si era stati capaci di correggere le decisioni più nefaste per la tenuta dell’occupazione e dei bilanci famigliari. I famosi “otto punti” sono saltati fuori ad elezioni non vinte, dando l’idea di una pura strumentalità senza convinzione. Bersani ha certo le sue responsabilità. Ma altrettante ne ha l’intera dirigenza: tanto pronti a combattersi e a bloccarsi vicendevolmente quando sono in ballo questioni di poltrone o temi identitari di corrente, pardon culture (finanziamenti alla scuola cattolica, fine vita, unioni omosessuali e simili), tanto indifferenti di fronte alla pericolosa deriva di un partito che aveva perso contatto sia con il paese sia con gran parte del suo elettorato. Non c’è da stupirsi che quando il collante antiberlusconiano è stato esplicitamente depotenziato in una ricerca di “ampi consensi” e “larghe intese”, che privilegiavano come partner proprio il “nemico”, la fragile intesa su cui il partito si reggeva è andata in frantumi e ognuno per sé.
Non sono neppure riusciti a spiegare perché “non potevano” votare Rodotà, nonostante la sua lunga storia di sinistra e il suo cursus honorum istituzionale. Il fatto è che Rodotà era ed è “divisivo” non solo, come Prodi, rispetto alle larghe intese con il Pdl. È divisivo anche entro il Pd. Perché profondamente laico e perché la sua laicità, come tutta la sua difesa dei diritti, non è solo frutto di un orientamento culturale, ma è radicata nella sua rigorosa interpretazione della Costituzione. Perché, in nome della Costituzione, difende i beni comuni anche in contrasto con le scelte di diverse amministrazioni locali di sinistra. Perché difende le ragioni di chi a Bologna vuole rivedere l’accordo, a suo tempo sostenuto dal governo di Prodi, per cui si finanziano le scuole paritarie (di fatto confessionali) anche a scapito, oltre che della norma costituzionale, delle risorse disponibili per la scuola pubblica. Il Pd non poteva votarlo, non tanto perché lo aveva candidato prima Grillo, ma perché Rodotà ha una visione della sinistra in radicale antitesi con pezzi importanti del Pd e del suo elettorato, cui si contrappongono altri pezzi altrettanto importanti.
Non essere stati capaci di scegliere in questi anni per quale idea di politica di sinistra si doveva lavorare, pur con tutte le mediazioni necessarie, e tanto meno di spiegarla al paese, ha portato il Pd alla resa finale e a rivolgersi di nuovo a Napolitano. Altro che impreparazione e disobbedienza di giovani neofiti preoccupati di perdere amici su Twitter o Facebook. Vecchi e navigati politici distruttivi non trovano altra soluzione che affidarsi di nuovo a chi li aveva tratti d’impaccio un anno e mezzo fa, questa volta d’accordo con l’arcinemico.

Corriere 26.4.12
E il M5S fa autogol con lo streaming
di Aldo Grasso


Una giornata nera per la Grillo & Casaleggio Associati. Enrico Letta, i grillini, se li è mangiati in un solo boccone. Sembrava il giovane cattedratico che interroga i fuori corso e usa l'esame per spiegare ancora una volta, con santa pazienza, il programma del corso. I ripetenti implorano il diciotto politico e il professore, per bontà, glielo concede, non prima di avergli chiarito per l'ennesima volta come funziona l'università: bisogna studiare.
La differenza con il precedente incontro in streaming con Pier Luigi Bersani è stata impressionante: Bersani sembrava intimorito e i portavoce del M5S se ne sono approfittati per umiliarlo. Letta, per quanto stanco e scoraggiato di incontrare un muro di gomma, ha mostrato subito di essere di un'altra pasta, di conoscere bene l'arte della mediazione, di essere assertivo quando occorre: «In questi sessanta giorni la forza che voi rappresentate, sia numerica che reale nel Paese, è entrata in Parlamento e non ha voluto partecipare alle decisioni assunte. Sarebbe frustrante se questa indisponibilità a mescolare idee e voti si protraesse». I portavoce del M5S (questa volta in formazione quattro più quattro, tipo Nora Orlandi) erano in seria difficoltà, non sapevano cosa rispondere, si rifugiavano nel politichese, s'impantanavano in formule astratte.
Certo che i grillini sembrano non avere alcuna strategia, alcun fiuto politico, tanto da consegnarsi alle stoccate del professore, come quando hanno tirato fuori la questione dell'elezione a presidente della Repubblica di Rodotà e prontamente Letta ha fatto loro notare che se avessero votato Prodi avrebbero cambiato lo scenario della politica italiana.
Si fa presto a parlare di streaming, di Web, di comunicazione globale, ma a un certo punto è saltata fuori la parola «incomunicabilità», che non si sentiva più dai tempi dei film di Michelangelo Antonioni. Letta ha accusato i grillini di incomunicabilità, temeva di vivere in diretta il dramma della frustrazione espressiva (la scena sembrava tratta da «Le sedie» di Ionesco, 1952), di essere di fronte a una sorta di nevrosi espressiva che corrode il linguaggio e le speranze, di vedere in Vito Crimi e in Roberta Lombardi il sigillo dell'incapacità di comunicare. E invece, prese le misure, li ha sovrastati, ha mostrato la pochezza dei quattro più quattro (gli altri che hanno parlato facevano quasi tenerezza per impreparazione e incapacità di esprimersi). Tra l'altro, in termini puramente retorici, il peso delle metafore questa volta ha schiacciato i grillini e Letta è stato ben attento a pascolare nel concreto.
Per i grillini senza streaming non c'è democrazia, tutto deve avvenire in diretta davanti a una telecamera. Lo streaming è l'unica garanzia contro i sotterfugi. Diversamente dal passato, questa volta però lo streaming non ha funzionato come caricatura della democrazia e della comunicazione: limitarsi ad avvolgere ogni rapporto sociale, a mantenere vivo il contatto fra le parti, ad accorciare le distanze, senza preoccuparsi troppo dei messaggi. Questa volta lo streaming è servito per conoscere meglio il programma di Letta, senza le fantasie dei retroscenisti e senza complessi di inferiorità nei confronti della presunzione. La politica ha vinto sul velleitarismo.
Ieri sera due case sono state assalite da dubbi e inquietudini. Nella casa della Grillo & Casaleggio Associati si sarà discusso a lungo sulla performance di Crimi e Lombardi (da abbiocco collettivo, «scongelatevi» ripeteva loro Letta) e la voglia di cambiare i portavoce sarà stata grande. Nella casa del Partito democratico le lodi a Letta saranno forse risuonate anche come rimprovero a Bersani. Par di capire che il 25 Aprile non è morto, come vuole Beppe Grillo.

il Fatto 26.4.13
“Scongelatevi”, il ko dei 5 Stelle
di Paola Zanca


Allora, riassumiamo: prima sproloquia sull’Europa, poi ci rinfaccia di aver votato per Di Maio, ci addossa responsabilità non nostre, ridicolizza un processo democratico come le nostre quirinalie, ci accusa di essere chiusi, glissa quando Roberta gli propone di firmare la legge contro i rimborsi”. In quattro righe, la deputata Paola Carinelli riassume il successone che è appena andato in onda in diretta streaming. Le chiamano “promesse elettorali”, ma dall’incontro con Enrico Letta, i Cinque Stelle sono usciti piuttosto ammaccati. Si sono presentati in 8, eppure l’unico momento in cui sono riusciti ad alzare la testa, dura pochi secondi. Quando, con il consueto sopracciglio alzato, Roberta Lombardi dice: “Visto che siamo colleghi, non so ancora per quanto, ne approfitto per darle la nostra proposta di legge per l’abolizione dei rimborsi elettorali, se vuole diventare subito cofirmatario... ”. Letta prende e porta a casa. Per il resto, per la lunga mezz’ora in cui il presidente incaricato elenca programmi e distribuisce responsabilità, loro guardano verso il basso. Lombardi ha il mento appoggiato al palmo della mano, si sorregge il capo, come gli alunni annoiati a lezione.
La memoria corre alle consultazioni di qualche settimana fa quando, al posto di Letta, davanti alle telecamere accese dal Movimento, era seduto Pier Luigi Bersani. Quel giorno i grillini dissero che si sentivano a Ballarò, oggi parlano di “preclusioni”. Quel giorno il segretario del Pd attaccava la spina della sopravvivenza agli 8 punti, adesso il suo vice può permettersi di congedarli attaccando Beppe Grillo: “Ditegli che Dio è morto, ma dopo tre giorni è risorto. E lui questo non l'ha scritto”. Ce l’ha con il post con cui il capo ha celebrato nella sua singolare maniera il 25 aprile.
Quel giorno, al tavolo con Bersani, Letta c'era. E nel frattempo ha potuto studiare i punti deboli dei Cinque Stelle. Comincia l’affondo: “Finora non avete voluto partecipare alle decisioni, siamo nell'ultimo passaggio per far partire questa legislatura, proseguire nell'indisponibilità sarebbe frustrante, non abbiate paura di mescolarvi: è importante che si scongeli una forza come la vostra”. Scongelatevi, dice Letta. Grillo più tardi dirà: “Con questi non ci mescoleremo mai”. Eppure, quando tocca a Vito Crimi parlare sembra piuttosto provato. “Il congelamento di cui parlava credo faccia riferimento al congelamento del Parlamento.. ” bofonchia. La Lombardi lo aizza: “Alle decisioni non siamo minimamente stati invitati”. Crimi cerca un filo: “Sui singoli provvedimenti terremo una posizione matura, mai di demolizione”. Lombardi insiste: “Noi non siamo il frutto degli ultimi vent'anni”. Letta torna al punto di partenza, finisce quasi in rissa: “Incrocio vostri parlamentari che mi dicono: 'vorremmo trovare un modo per parlarci, non di discutere come se fossimo dentro un grande freezer..' ”. Lombardi: “Noi vi abbiamo chiesto un incontro! ”. Letta: “E noi vi abbiamo proposto di votare un candidato che era nella vostra lista! ”. Crimi: “Vi assicuro che non vogliamo rimanere nell'angolo! ”. Lombardi: “Perchè non avete votato Rodotà? ”. Per una frazione di secondo sembrano in vantaggio. Poi Crimi fa autogol: “La prossima volta magari consultate i vostri iscritti.. ”. Letta: “Eh no eh, non la puoi dire così: Rodotà l'hanno votato in 4 mila, il nostro candidato sindaco di Roma è stato scelto da 50 mila! ”. Lo streaming poteva finire lì. Dopo, la saga degli interventi degli altri parlamentari va decisamente fuori tema. Certo, per una volta si parla, si domanda, si risponde. “Vi chiedo solo di scongelarvi... ” , insiste Letta. Ma che freddo fa.

l’Unità 26.4.13
La legge francese sulle nozze gay
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Nozze gay e relative adozioni in Francia; ora molti pretendono che l’Italia «non sia da meno» e si vergognano di essere noi rimasti gli ultimi a resistere a siffatte «riforme». Ma personalmente non cedo al conformismo anche se planetario e mi vanto che l’Italia, almeno in questo, tiene alta la testa della ragione e della natura contro le mode del momento.
LUIGI FRESSOIA
Formato inizialmente all’interno di una scuola psicoanalitica freudiana, ho avuto anch’io una certa difficoltà ad accettare bijoux artespressione di una patologia. A liberarmi da quello che oggi considero un pregiudizio è soprattutto il lavoro terapeutico con le coppie. Etero ed omosessuali. Soprattutto ma non solo di donne. Con figli e senza. Fra cui ho avuto modo di verificare una somiglianza sostanziale: dal punto di vista dei problemi che vivevano e che portavano in terapia e delle risorse che potevano mettere in campo nei confronti dei bambini e degli adolescenti. Il maschile e il femminile esistono all’interno di ogni essere umano, penso oggi, e il gioco (o, come dicono i terapeuti della famiglia, la danza) delle coppie può essere riuscito ed utile o doloroso e a rischio in tutte le coppie, omo o eterosessuali, dove comunque queste due modalità complementari di sentirsi e di essere nel rapporto con l’altro sono presenti. Con un vantaggio, semmai, per quelle omo più inclini comunque, per la durezza dell’esperienza vissuta prima, a sviluppare livelli più alti di tolleranza per la diversità (o per l’originalità) del figlio. Ma con una considerazione comunque da fare sul rapporto diretto fra maturità affettiva e competenze genitoriali della coppia. Omo e eterosessuale. Come ben chiarito, oggi, da un Paese che tante volte ha avuto cose importanti da insegnarci.

Corriere 26.4.13
L'appello di Muti «Chiudere il Maggio sarebbe umiliante»

Si moltiplicano gli appelli per salvare il Maggio Fiorentino. Dagli Stati Uniti anche quello del maestro Riccardo Muti, direttore della Chicago Symphony Orchestra: «La sua chiusura sarebbe scandalosa non solo per la cultura italiana ma per tutta la cultura europea. Un ulteriore durissimo colpo per l'immagine del nostro Paese già deteriorata all'estero». L'appello di Muti è rivolto a tutti gli uomini politici, in particolare al nuovo governo che dovrebbe nascere. Il «rosso» previsto del Maggio Musicale Fiorentino è pari a 6 milioni di euro. Di questi, 2,1 milioni sono stati recuperati grazie alla rimodulazione della stagione, operata dal commissario straordinario Francesco Bianchi. Mancano dunque all'appello circa 4 milioni di euro, che dovranno essere recuperati attraverso un «doloroso» intervento strutturale.

Corriere 26.4.13
Mo Yan e la Cina: «La vita è una rana»
Il dramma degli aborti forzati, le scelte «obbligate» «Racconto una generazione, ma dietro ci sono io»
di Marco Del Corona e Paolo Salom


Anche le rane hanno la voce di un premio Nobel. Perché un premio Nobel può scegliere le rane per dare voce a uno dei temi che spaccano il cuore del suo Paese. È così che Mo Yan, lo scrittore che l'anno scorso ha regalato alla Cina un riconoscimento d'importanza epocale, è sceso nel pantano avvelenato e doloroso della politica del figlio unico. E ha affrontato la contraddizione fra la gioia del mettere al mondo un figlio e l'obbrobrio degli aborti forzati, pratica che tuttora sopravvive là dove la solerzia criminale dei funzionari locali ha la meglio sulle direttive più moderate emanate a Pechino. Le rane è uscito nella Repubblica Popolare nel 2009 e si inerpica, con la varietà di registri che hanno reso unica la prosa di Mo Yan, sull'esistenza di una ostetrica di campagna. Figura doppia: eroica nel portare alla luce bambini in circostanze difficili e poi — quando Pechino impone per legge il controllo delle gravidanze — ferocemente coraggiosa e coerente, a suo modo, nell'obbedire all'ordine di evitare nascite. Una stakanovista degli aborti.
Vita. Vita della Cina. E letteratura. La letteratura secondo Mo Yan: «Anche se io scrivo partendo da vicende mie personali — spiega al "Corriere" — in realtà racconto una generazione. Ho sempre pensato che la buona letteratura dovrebbe permettere al lettore di ritrovare se stesso nelle pagine che scorre, dovrebbe suscitare emozioni condivise. La buona letteratura consente allo scrittore di raccontare il proprio mondo emozionale e di esperienze. Allo stesso tempo, rappresentando le storie e l'universo interiore delle persone comuni, è in grado di fondere universalità e particolarità. Può darsi che lo scrittore non se ne renda conto quando prende la penna in mano, ma è qualcosa che accade comunque. Da sé».
Del retroterra intimo che nutre la materia di Le rane Mo Yan aveva parlato già anni fa. «Spero che così i lettori comprendano quant'è preziosa la vita e capiscano la nascita, evento fondamentale che nella Cina contemporanea s'è fatto tortuoso e difficile». Mo Yan, padre di una figlia che ora ne cura alcuni aspetti degli affari, non ha nascosto nulla: «Personalmente — aveva dichiarato nel 2010 alla rete tv Phoenix — non trovo buona la politica del figlio unico. Senza la pianificazione delle nascite sarei stato padre di due o anche tre figli. Da giovane non me ne rendevo conto». Ha ammesso che l'aborto cui si sottopose la moglie «è sempre un grande dolore» e «un'enorme ombra». Rimpiange — lui, di famiglia contadina dallo Shandong — di non avere avuto un maschio, confessa l'«invidia» che lo coglie quando vede «due sorelle scherzare fra di loro». E tuttavia il Mo Yan iscritto al Partito comunista, membro della Conferenza consultiva (una sorta di camera minore del Parlamento) e vicepresidente dell'Associazione degli scrittori («un ruolo senza sostanza, però») ha in altre occasioni riconosciuto che «trent'anni fa la Cina era stata obbligata ad abbracciare la politica del figlio unico».
Travaglio intimo, dieci anni di lavoro, più revisioni, le lodi del «Quotidiano del popolo» dopo la sua pubblicazione nel 2009 per aver saputo affrontare un tema che, anche all'interno delle gerarchie, viene valutato in modi opposti: c'è chi vorrebbe smantellare e chi mantenere la pianificazione demografica. Le rane, che martedì 30 aprile Einaudi manda nelle librerie italiane nella traduzione di Patrizia Liberati e a cura di Maria Rita Masci, gioca fin dal titolo la carta dell'ambiguità (o meglio: della ricchezza di senso), complici le caratteristiche della lingua cinese: Wa, il titolo originale, significa appunto «rana», ma con un accento diverso vuol dire «bambino», e Nuwa, poi, è addirittura la mitologica progenitrice dell'umanità. È in questo reticolo di allusioni che si muove la «zia» del libro: il solito intrico di storie e sottotrame, perché «con i miei romanzi — aggiunge ora Mo Yan — io desidero soltanto raccontare emozioni, destini di uomini e donne: un processo che non ha confini nazionali o culturali».
Il premio Nobel, spiega ancora al «Corriere», ha cambiato in parte il mondo intorno a lui: «Ma io da sempre non amo mettermi in mostra. Preferisco fare le cose in modo tranquillo, ma questo non è più possibile. Nello Shandong vogliono costruire un grande parco a tema dedicato a me e ai miei lavori? Questo genere di cose non mi piace».
Effetti collaterali di un riconoscimento che la Cina ha accolto come un riconoscimento al suo status che non poteva essere rimandato: «I premi alla letteratura dovrebbero servire a suscitare più attenzione per quello che scrivono gli autori. Tuttavia ammetto che più di 10 anni fa ho davvero preso in considerazione di poter vincere il Nobel, poi ho smesso di pensarci perché se uno scrittore non mette tutte le sue energie nella scrittura ma cerca di rispondere ai cosiddetti criteri del premio Nobel finisce coll'abbassare la qualità delle proprie opere. Ogni premio è uguale: più ci pensi, più s'allontana da te; se non ci pensi, ti si avvicina silenzioso».
Dopo il premio, Mo Yan è stato investito dalle critiche per il suo ruolo «collaterale» se non proprio «organico» al potere e per la freddezza nei confronti del Nobel per la Pace imprigionato, il critico letterario dissidente Liu Xiaobo (una sola dichiarazione esplicita di simpatia e poi un ritrarsi sull'argomento: «Trovate interessante costringere una persona a ripetere quello che ha già detto?», ci aveva confidato).
Ma pur senza pronunciarne il nome, Mo Yan ora accetta di rispondere a una domanda su Gao Xingjian, lo scrittore ora naturalizzato francese che nel 2000 ottenne un Nobel non considerato dalla Cina: «Gli scrittori hanno nazionalità, la letteratura no: non ha confini. E dunque la buona letteratura appartiene a tutta l'umanità». Con questo stato d'animo Mo Yan attenua la durezza di alcuni suoi giudizi sui nuovi scrittori, che aveva definito non in grado di descrivere la Cina attuale: «Ogni epoca ha la sua letteratura. Ai giovani diamo tempo: prima o poi produrranno opere importanti».
E poi c'è sempre il mondo. Il mondo che lo legge, che ha imparato a conoscerlo. E il mondo dei suoi libri, dove, a partire da Sorgo rosso, gli stranieri — siano i tedeschi che prima colonizzano lo Shandong o gli invasori giapponesi — sono descritti come individui strani, spesso crudeli e orribili, anche se nelle Rane il padre della protagonista, un dottore dell'esercito rivoluzionario, «era stato allievo di Norman Bethune», canadese, leggendaria figura di medico unitosi ai comunisti. «Nei miei romanzi ci sono in realtà anche figure positive di stranieri. Per esempio, in Grande seno, fianchi larghi il missionario svedese Ma Luoya è un personaggio estremamente coraggioso e di buon cuore. È vero che in Sorgo rosso i giapponesi non ne escono molto bene, però ho anche scritto di un ufficiale a cavallo nipponico che, ferito, mostrò a mio nonno una fotografia della moglie e del figlio e di come quel gesto lo rese "simpatico" ai miei. Comunque, in futuro mi regolerò su un principio: se ci saranno stranieri nel racconto appariranno per quello che sono. Per spiegarmi meglio: se l'economia della storia lo richiederà, i personaggi avranno una loro vita e caratteristica autonome che non necessariamente coincideranno con la visione dell'autore». I premi restano fermi, le storie no.

l’Unità 26.4.13
No al segreto di Stato sulle stragi
Pubblichiamo ampi stralci del discorso che il presidente della Camera ha pronunciato ieri a Milano durante la manifestazione per il 25 aprile
di Laura Boldrini


Oggi festeggiamo la riconquista della libertà, il dono più prezioso per ogni essere umano. C’è gioia
ma c’è anche commozione, perché il nostro pensiero va ai tanti che per farci questo dono, la libertà, hanno perso la vita, sono stati uccisi, torturati, internati nei campi di sterminio.
Ed erano giovani, giovanissimi. Di diverso orientamento politico, di diversa fede religiosa. La Resistenza non fu di parte. Fu un moto popolare e unitario, per restituire dignità all’Italia intera. Quando sono stata eletta Presidente della Camera, mi è stato regalato un libro che conoscete bene: «Le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana». Un libro straordinario perché non è scritto con la penna, è scritto con la vita. La vita di tante persone. Quello che più mi colpisce di quelle lettere è l’età di chi le scrisse, a poche ore dalla morte. Quasi tutti attorno ai vent’anni. Tutti animati da una grande speranza per il futuro dell’Italia.
Durante la mia esperienza negli organismi internazionali ho conosciuto gli orrori della guerra, non me li hanno raccontati: nei Balcani come in Medio Oriente o in Africa, altre ragazze e altri ragazzi feriti, imprigionati, torturati. E se riescono a mettersi in salvo diventano rifugiati, persone costrette a fuggire dai loro paesi perché vittime di persecuzioni e di violenze.
Come Sandro Pertini, costretto dal fascismo a riparare in Francia, e molti altri italiani come lui. Così sono quei giovani della primavera araba che hanno sfidato regimi dittatoriali che sembravano irremovibili e molti altri in tutto il mondo che continuano a farlo, rischiando la vita ogni giorno. Sono anche loro combattenti per la libertà. E alcuni vivono in casa nostra, che deve essere anche casa loro. Ce lo dice la Costituzione ! Ce lo dicono i nostri ideali: libertà, uguaglianza, fraternità!
Mai più il fascismo. Mai più guerre. Questa l’invocazione dell’Italia libera, subito dopo il 25 Aprile. E questo monito avevano in testa i costituenti nel redigere la nostra carta fondamentale. Oggi, insieme alla Liberazione, celebriamo i valori della Costituzione: il ripudio della guerra, l’uguaglianza, la giustizia sociale.
È una giornata di ricordo. Ma deve essere anche l’occasione per riflettere e per chiederci: da che cosa ci siamo liberati il 25 Aprile? Da un regime politico totalitario, innanzitutto. Ma anche dai valori che propugnava.
Ci siamo liberati dal mito della nazione e del popolo come comunità chiusa, che deve essere «purificata» da coloro che possono infettarla: i dissenzienti, i diversi, i deboli, le minoranze etniche e religiose. Ci siamo liberati dall’autoritarismo e dal conformismo. Ci siamo liberati da una concezione del potere tutta basata sulla violenza, dall’idea di superiorità razziale, dall’espansionismo aggressivo. Ci siamo liberati dalla celebrazione della virilità, del maschilismo, della riduzione della donna a «madre e sposa», dalla sua esclusione dal mercato del lavoro, dalla società e dalla politica.
Da tutto questo ci siamo liberati! E abbiamo abbracciato altri valori: quelli di una società pluralista, dei diritti individuali e collettivi, della cittadinanza attiva. Quelli del ripudio della guerra e della ricerca della pace tra i popoli. Quelli della liberazione delle donne e dell’uguaglianza di genere.
Sono gli stessi valori che troviamo scolpiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che è per me l’espressione più alta della cultura antifascista. Sono i nostri valori, i valori della Repubblica italiana. Guai però a considerarli acquisiti una volta per tutte. Essi sono continuamente minacciati da gruppi e organizzazioni neofasciste. Gruppi pericolosi, perché cercano di fare proseliti tra i giovani. Approfittano dello smarrimento di ragazze e ragazzi ai quali è stata sottratta la fiducia nel futuro.(...)
Queste idee vengono da lontano e hanno fatto breccia in una parte dell’opinione pubblica. Si sono perfino convertite in luoghi comuni, in chiacchiera da bar. Ma sono idee completamente sbagliate e bisogna dirlo con forza !
Bisogna dire che non è mai esistito un fascismo buono. Che il fascismo è stato un regime illegittimo perché nato dall’esercizio massiccio della violenza squadristica e da una pratica del potere basata sull’assassinio politico, sulla soppressione delle libertà individuali e collettive, sulla persecuzione degli oppositori, sulla manipolazione dell’informazione.
Ce ne siamo liberati, con il 25 Aprile del 1945 e con la Costituzione del ’48. Ma il germe dell’autoritarismo è sempre pronto a diffondersi, soprattutto in tempi di crisi economica. (. . .) Dobbiamo quindi stare in guardia e respingere ogni insorgenza neofascista e ogni populismo autoritario. Ma dobbiamo soprattutto, le istituzioni debbono il Parlamento, il Governo, le Regioni dare lavoro ai giovani, aiutare i pensionati, sostenere le madri e i padri di famiglia che perdono il lavoro, gli artigiani e i piccoli imprenditori strangolati dalla crisi. No. Nessuno deve essere lasciato solo. Anche così si difende la democrazia !
E la democrazia ha bisogno costantemente di essere difesa. Quante volte gli italiani sono stati chiamati, nella storia repubblicana, a difendere la libertà e le istituzioni democratiche!
E’ stato necessario, perché il fascismo ha lasciato una impronta profonda sulla vita della Repubblica.
La vita delle istituzioni italiane è stata particolarmente travagliata, molto più di tutte le altre democrazie europee. È stata attraversata in modo più violento che altrove dalle lacerazioni della guerra fredda. Minacciata più di altre dalla presenza inquietante di strutture parallele, da settori militari e civili infedeli,dal rumore di sciabole...
L’Italia è stata colpita ripetutamente dalla violenza politica, dal massacro indiscriminato di cittadini inermi, dall’attacco militare della mafia, dalla barbarie del terrorismo, dall’assassinio a tradimento di servitori dello Stato e di politici, sindacalisti, giornalisti. Tanti, troppi, anche dopo la Resistenza, hanno continuato a morire per difendere la nostra libertà e la nostra democrazia.
Ci inchiniamo ancora una volta alla loro memoria, abbracciamo le loro famiglie, sentiamo come fosse nostro il loro dolore. Ma si tratta di una ferita dolorosa. Una ferita ancora aperta. Tante, troppe di quelle vite perdute nelle piazze, sui treni, sugli aerei, non hanno ricevuto giustizia. In tanti, troppi casi le istituzioni non hanno saputo dare una parola di certezza sugli esecutori e sugli strateghi del terrore. Questa mancanza di verità e giustizia è una sconfitta per le istituzioni. Per questo, ci tengo a dire proprio oggi, 25 aprile, che mi unisco a quanti chiedono l’abrogazione completa e definitiva del segreto di Stato per i reati di strage e terrorismo. Perché in un paese civile la verità e la giustizia non si possono barattare e non si possono calpestare.
Vorrei concludere con le parole che Piero Calamandrei rivolse ai giovani, qui a Milano, dieci anni dopo la Liberazione. Era un discorso sulle origini della nostra Costituzione. «Se volete andare in pellegrinaggio disse Calamandrei nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione».


Repubblica 26.4.13
La storia non si calpesta
di Adriano Prosperi


LA CELEBRAZIONE del 25 aprile nella funebre filastrocca di Beppe Grillo è lo strumento per creare una prospettiva illusionistica: tanto alta la sacralità del 25 aprile, quando bassa e indegna tutta la realtà quotidiana dell’Italia e dell’Europa di oggi – escluso Grillo, ovviamente. Il calcolo è semplice: in tanto parlare di un bisogno italiano di memoria condivisa, la realtà dimostra che se c’è un valore condiviso, una moralità civile viva nella nostra storia, è quella che si esprime nella celebrazione di questa data.
Ci sarebbe stato da meravigliarsi se la torrenziale creatività del leader del M5S non avesse colto la ricorrenza per portare avanti la sua strategia di delegittimazione di ogni altra forza politica. Non possiamo dimenticare che grazie alla sua scelta della contrapposizione totale a tutte le altre forze politiche presenti in Parlamento è fallita sul nascere la prospettiva di un governo di cambiamento. Ora, è pur vero che ci sono molte ragioni per non essere contenti del modo di andare delle cose nel nostro paese. Le battaglie del rinnovo del Parlamento e quelle per la elezione del presidente della Repubblica alle quali affidavamo tante speranze hanno avuto esiti imprevisti e inimmaginabili. Quella che sembrava l’occasione per mettere finalmente tra parentesi la stagione dell’amministrazione controllata del paese e per un nuovo avvio della normale dialettica politica, fondata sulla regola democratica del voto popolare, si è risolta in uno scontro lacerante: è stata una partita avvelenata dove veti incrociati, giochi sotterranei e inettitudini varie hanno avuto l’esito di far vincere chi partiva perdente e aveva tutto da guadagnare dal fallimento delle speranze di cambiamento.
Tutto questo ha lasciato tracce profonde e ha aperto una fase di rese dei conti soprattutto ma non solo in casa del vincitore atteso e mancato della gara elettorale, il centrosinistra. Ne siamo usciti con una dose abbondante di quel sentimento di vergogna che è sempre il termometro del senso di appartenenza al proprio paese. Ci sono ira, frustrazione e disgusto davanti a quella che resterà come una delle più brutte e inconcludenti pagine della cronaca politica degli ultimi anni. Anche perché la malattia mortale dei partiti lascia scoperti e indifesi coloro che più hanno bisogno di vedere affermati e tutelati i principi della Costituzione. Laura Boldrini lo ha ricordato ancora ieri a Milano. quando ha detto che «nessuno deve essere lasciato solo perché anche così si difende la democrazia».
Bastano parole come queste a dimostrare che le celebrazioni del 25 aprile non sono — come dice Grillo — «un rito ruffiano». Il ricordo delle lotte e delle sofferenze che sono state necessarie per conquistare il diritto di celebrare liberamente sulle piazze il 25 Aprile come data fondativa della Repubblica serve a ricondurre ai suoi fondamenti la convivenza civile. Questo non è mai stato e non deve diventare un rito vuoto e distratto: né la festa può far dimenticare il senso di frustrazione davanti alle delusioni del presente. Ma proprio di qui si può ripartire, come ogni volta che si deve tornare al fondamento ultimo del nostro essere una nazione.
Di questi sentimenti di frustrazione e di diffusa perplessità Grillo fa un uso strumentale talmente scoperto che non meriterebbe soffermarcisi se non fosse che il disorientamento del paese è grande e tanti rischiano di cadere nella trappola di chi come lui gioca all’eversione controllata. Sarà utile dunque ricordare che se c’è stato il 25 aprile e se è stata necessaria una lunga e durissima stagione di lotte e di sofferenze è perché un demagogo tonitruante sulle piazze aveva sfruttato la delusione per le bassezze dei giochi parlamentari liberal-democratici e la gravità delle ingiustizie sociali per mettere l’arbitrio di pochi al posto della libertà di tutti.
Tragedie antiche che — diciamolo con chiarezza — non si possono accostare oggi alla farsa recitata da un attore abile e consumato, del quale non vorremmo sopravvalutare le minacce eversive, come quella, subito rientrata, di una possibile «marcia su Roma».
Sappiamo bene, però, che il pericolo di messa tra parentesi del sistema democratico assume oggi forme nuove e più insidiose che nel passato e ha le sue radici proprio nella crisi profonda del sistema dei partiti che dalla Liberazione in poi hanno costituito la struttura fondamentale per il funzionamento della Costituzione e l’esercizio dei diritti di cittadinanza. La celebrazione del 25 Aprile trova un suo profondo significato proprio nell’imporre a tutti di fare i conti con la lezione del passato. Un passato da non dimenticare, una storia collettiva che non si può calpestare. Da lì si ricavano alcuni principi elementari. Per esempio, quello per cui nessuno deve porsi al di fuori o al di sopra dei meccanismi costituzionali della competizione politica. E questo significa intanto che nessuno può pretendere di essere riconosciuto come l’unico capace di onorare e far rivivere la sacralità del 25 Aprile e il suo deposito di valori, denunziando tutti gli altri come infami traditori. A Reggio Emilia una senatrice del movimento grillino avrebbe dichiarato: «I nuovi partigiani siamo noi». Che pena non conoscere la storia: è una frase che nell’Italia del post-terrorismo fa amaramente sorridere se si pensa quale prezzo abbiamo pagato già una volta con un accostamento
così tragico.

Repubblica 26.4.13
La chirurgia etica che cancella i nostri ricordi
di Maurizio Ferraris


Immaginiamo che a un condannato a morte venga offerta l’alternativa tra una pastiglia di cianuro e un preparato chimico chiamato “amnesina”, che provoca oblio totale. È probabile che sceglierebbe l’amnesina, se non altro per pesare sul regime carcerario con il costo del suo corpo immemore. Ma è altrettanto certo che l’atteggiamento con cui prenderebbe l’amnesina sarebbe lo stesso che avrebbe nell’assumere il cianuro: la certezza che quello che lui è, ossia la somma dei suoi ricordi, se ne andrebbe per sempre.
E adesso, spostandoci dall’individuo alla società, immaginiamo di somministrare a tutti gli attori di un qualche evento sociale pillole di amnesina di effetto più circoscritto, che durino quanto un matrimonio, una seduta di borsa o una partita di calcio. E immaginiamo che tutte le memorie esterne, dalla carta ai video al web si cancellassero. A questo punto, del matrimonio, della seduta di borsa o della partita non resterebbe nulla, perché l’essenza degli oggetti sociali consiste proprio nell’essere pensati e registrati.
Prendiamo infine un caso a mezza via tra l’individuale e il sociale. Immaginiamo due persone che hanno commesso lo stesso crimine, ma uno ne ha memoria, l’altro no. Stranamente (questa è almeno la mia intuizione) ci sembrerebbe meno colpevole l’immemore. Perché? La risposta ci viene dai due neuroetici Andrea Lavazza e Silvia Inglese in Manipolare la memoria. Scienza ed etica della manipolazione dei ricordi
(appena uscito in Mondadori Università, nella collana Forma Mentis diretta da Michele Di Francesco): perché l’immemore è dopotutto un’altra persona. Lady Macbeth senza i suoi rimorsi è ancora Lady Macbeth?
Il libro prende l’avvio dall’esame di tutte le strategie, tecniche, legali, mediche per garantire l’oblio, che si manifestano in modo macroscopico in quell’archivio implacabile che è la memoria esterna del web. Ma anche nel caso della memoria interna la tecnica ha elaborato vie di cancellazione non meno efficaci delle foto che si autodistruggono in pochi secondi di cui parlavano Riccardo Luna e Marino Niola su La Repubblica del 9 febbraio. Abbiamo a che fare con una serie di sistemi chimici o fisici che realizzano quello che, nel guazzabuglio del cuore umano, si presenta contemporaneamente come un sogno e come un incubo: l’oblio. E non si parla soltanto di vecchi rimedi, come l’alcool, che non serve solo (e male) per dimenticare retrospettivamente, ma anche per dimenticare preventivamente come nelle azioni di guerra compiute in stato di ubriachezza. Ci sono anche interventi più mirati, come il propranololo, un betabloccante che annulla non i ricordi, ma le reazioni emotive ad essi legate, neutralizzandole. Perché le memorie contano davvero in quanto sono emotivamente investite, come dimostra il fatto che in tante lingue imparare a memoria si dice “imparare con il cuore”, sottolineando il nesso tra memoria e cuore come sede tradizionale delle emozioni che riemerge nell’italiano ricordare. Per non parlare poi del cosiddetto ZIP (peptide inibitore zeta) che sembra in grado di cancellare l’intero ricordo e non solo il suo portato emotivo.
E come sempre accade le nuove possibilità tecniche producono nuove perplessità etiche. Perché indubbiamente riuscire a produrre un oblio selettivo può mettere al riparo le vittime di un trauma. Ma al tempo stesso, cancellandone il ricordo, può impedir loro di elaborare delle strategie difensive rispetto a ulteriori traumi, e soprattutto di elaborare il dolore e il ricordo creando quel prodotto tipicamente umano che è l’esperienza. Se si impara attraverso il dolore, come suggeriva Eschilo, l’assenza del ricordo significa non imparare niente.
Per non parlare poi di come potrebbe essere l’oblio non dal punto di vista delle vittime, ma da quello dei carnefici, che, se non scoperti, non avrebbero neppure la punizione del rimorso. Con riflessi che riguardano anche una morale utilitaristica: se chi commette crimini efferati lo fa spesso perché ha una soglia di coinvolgimento emotivo inferiore ad altri, la possibilità di cancellare il ricordo equivarrebbe a una crescita della pericolosità sociale di una casta di indifferenti morali.
Ma, al di là delle conseguenze, per vittime e carnefici, la questione del ricordo viene a toccare la struttura profonda dell’io, come suggeriscono conclusivamente gli autori. Perché dopotutto, se concepiamo l’io in termini costruttivistici (o, secondo la terminologia degli autori, “cerebralistici”), come un fascio di ricordi, alla maniera di Hume, la rimozione di un ricordo non sarebbe una falsificazione, nel senso che non verrebbe ad alterare una sostanza, ma semplicemente un aggregato accidentale di tracce mnestiche. Mentre se concepiamo l’io con una prospettiva realistica, come qualcosa che ha una identità non accidentale, allora l’ablazione dei ricordi equivarrebbe a una falsificazione di ciò che noi siamo. Dopo decenni di silicone, botulino e chirurgia estetica le varie amnesine a disposizione ci stanno per mettere a confronto con una farmacologia e una chirurgia etica di cui non abbiamo ancora preso, nemmeno da lontano, le misure.

Repubblica 26.4.13
Neopartito e antipartito
L’deologia nascosta dietro la repubblica
Lo storico Salvatore Lupo ricostruisce in un saggio le pulsioni prepolitiche dal fascismo alla P2 a oggi
di Simonetta Fiori


«L’antipartito? Non è la soluzione ma il problema. Sono convinto che molte tendenze degenerative non siano state conseguenza di “un eccesso di partito”, ma al contrario della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana». Salvatore Lupo, studioso non nuovo ad analisi controcorrente, ha appena dato alle stampe un libro che si intitola Antipartiti (Donzelli), ideale prosecuzione di Partito e antipartito che si fermava all’uccisione di Moro. Questa volta la sua riflessione storica arriva all’oggi, seguendo le tracce di “un’ideologia” — l’antipartito — che sin dal fascismo si estende prepotentemente nel sottofondo della storia nazionale, fino a esplodere nel 1993 con la retorica della nuova politica contrapposta alla vecchia — vedi Lega o Forza Italia — ora ripresa quasi in fotocopia dal Movimento 5 Stelle. Un fiume sotterraneo che invade luoghi inaspettati, come la destra eversiva e la P2, le mafie e la nuova camorra organizzata, ma anche — su un versante opposto — il movimento del Sessantotto e più di recente il «partito dei giudici». Con conseguenze talvolta simili, nell’arco degli ultimi vent’anni, «perché i propugnatori del cambiamento hanno dimostrato analoghi se non maggiori difetti della tanto detestata partitocrazia: partiti personali o neopartiti che — sventolando il vessillo della novità e della società civile — sono stati assai meno incisivi dei partiti tradizionali».
Nostalgia per i vecchi partiti?
«No, nessuna nostalgia. Però dobbiamo levarci gli occhiali con cui negli ultimi vent’anni abbiamo guardato la storia repubblicana. Non solo nei primi decenni le forze politiche furono in grado di rappresentare davvero l’Italia reale, ma anche negli anni Settanta — a dispetto delle tesi storiografiche prevalenti — fecero cose fondamentali come la riforma delle pensioni, della sanità, della psichiatria, il nuovo diritto di famiglia, e molto altro ancora. E aggiungo: non è forse un caso che tra le rovine fumanti dell’attuale scena pubblica il massimo leader morale, il presidente della Repubblica, sia figlio di quella storia, una personalità cresciuta nel “partito più partito” di tutti».
Perché definisce “l’antipartito” un’ideologia, distinguendola dall’antipolitica?
«Mi sembra più azzeccato questo termine: chi tuona contro i partiti non rinuncia a far politica. Non hanno certo rinunciato le formazioni nate dalla crisi della prima Repubblica, anche se per ragioni di marketing hanno preferito definirsi movimenti».
Lei rintraccia un’analogia con i 5 Stelle.
«Grillo porta all’esasperazione i toni dell’antipartito, riprendendo la retorica dei neopartiti: i partiti tradizionali fanno schifo, noi siamo un’altra cosa. Pretende di incarnare il nuovo e ripete slogan coniati dai manifestanti di vent’anni fa. “Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano”, è un’espressione usata dai militanti neofascisti davanti a Montecitorio nel 1993. E poi ritorna la mistica della società civile, una formula fin troppo abusata nell’ultimo ventennio».
A che cosa si riferisce?
«A un meccanismo che ritroviamo nei 5 Stelle ma anche in quei movimenti che hanno arruolato la magistratura nella lotta politica: questi movimenti non ammettono di essere una parte tra le altre, appunto “partiti”, ma si pensano come totalità. Noi siamo la società civile — e dunque l’insieme delle persone perbene — voi no. Ora questo procedimento diventa inquietante quando coinvolge la magistratura, che è un potere dello Stato, e dunque non dovrebbe per principio prendere parte».
Di solito l’origine dell’antipartito viene collocata nel movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, tra il 1944 e il 1946. Lei risale ancora più indietro, a Giuseppe Bottai.
«Bottai fu il primo a cogliere dentro lo stesso fascismo la dinamica tra antipartito e iperpartito: prima la diffidenza verso il Pnf, sospettato di riprodurre il vecchio mondo prefascista delle parti, poi la sopravvalutazione di quel partito unico che si identifica con lo Stato, ed è qui la nascita del regime. Questa doppia pulsione la ritroveremo in età repubblicana, specie a destra, con la liquidazione dei partiti come principale ostacolo nel rapporto tra popolo e sovranità».
Tra i più tipici rappresentanti dell’antipartito, negli anni Cinquanta, lei include personalità diverse come Indro Montanelli ed Edoardo Sogno: tutti artefici in vario modo di oscure trame anticomuniste.
«Sì, sospettavano che gli scrupoli legalitari della Dc — che si rifiutava di mettere fuori legge i comunisti — dipendessero da solidarietà partitocratiche. E il loro arcinemico era l’iperpartito per eccellenza, il Pci. Non è un caso che l’antipartito fosse diffuso soprattutto nelle correnti culturali e politiche della destra».
Può sorprendere che in questa genealogia dell’antipartito lei arruoli anche la P2, la loggia massonica di Gelli.
«Senza però sposare tesi complottiste. Non penso infatti che la P2 sia stata la centrale dello stragismo, piuttosto un importante campo di comunicazione tra membri dell’establishment. La loggia massonica si proponeva come un pezzo importante della destra che non riusciva a farsi partito. Se si va a rileggere i documenti della P2, colpisce il tono critico al “professionismo politico corruttore”, “incapace di esprimere gli interessi della società”».
Lei sostiene che lo stesso Grillo, pur totalmente estraneo alla loggia, sia consapevole della curiosa parentela.
«È stato lui a dichiarare: “Vedete, io ho messo su una piccola P2 sobria e trasparente. La piduina degli aggrillati”. La sua è una provocazione, ma mostra di saper bene che la loggia massonica fu una forma di antipartito».
Continuando in questa storia nera, tra le forme di antipartito lei inserisce anche la mafia e le Brigate Rosse.
«Sì. Per la mafia occorre una distinzione: fino a un certo punto rappresentò una struttura di servizio per la macchina politica, poi si mise in proprio per una drammatica scalata al potere in concorrenza con i partiti».
Ma sarebbe sbagliato liquidare l’antipartito come pulsione storicamente antidemocratica.
«Sbagliato sì, anche perché è esistito un antipartito di tutt’altro segno, di radice azionista o liberaldemocratica. Ed era antipartito anche il Sessantotto. Quel che però viene fuori è che la retorica antipartititica è vecchia quanto è vecchio il Novecento, seppure più robustamente fondata negli anni Novanta del secolo scorso. E il fatto che oggi Grillo ripeta slogan del ’93 rivela il carattere fumoso e inconcludente di queste formule. L’antipartito non ha mai portato da nessuna parte. E più che distruggere i partiti, dovremmo oggi preoccuparci di rifondarli daccapo ».

Antipartiti di Salvatore Lupo Donzelli, pagg. 260 euro 19