sabato 27 aprile 2013

l’Unità 27.4.13
L’altra Roma si scopre
Dal 4 maggio «Open City» svela l’architettura dell’Urbe
Oltre 170 luoghi da visitare: dai palazzi nobiliari ai musei passando per i quartieri: Eur, Pigneto, Pietralata, Coppedè, Garbatella...
di Ella Baffoni


CHERCHEZ L’ARCHITECTURE. È IL FILO ROSSO DI OPEN HOUSE WORLDWIDE, INIZIATIVA NATA A LONDRA NEL ’92 CHE TOCCA ORMAI 20 CITTÀ NEL MONDO, DA NEW YORK A TEL AVIV, da Gerusalemme a Melbourne, da Barcellona a Adelaide. Per la seconda volta a Roma, grazie a Open City Roma, l’evento si terrà tra il 4 e il maggio: porte aperte in 170 luoghi di architettura storica, moderna, contemporanea e in 4 cantieri, con visite guidate, workshop per bambini e concerti. Un modo per “capire” e impadronirsi delle ricchezze di Roma, trasformando mura e mattoni in un’esperienza estetica, comprensibile in tutte le sue sfaccettature e persino godibile. In più. Completamente gratuita, grazie a volontari e sponsor; unico vincolo, la necessità di prenotarsi (registrandosi al sito openhouseroma.org) oppure premurandosi di arrivare tra i primi, se si accederà alla visita per ordine di arrivo. I più fortunati potranno avere come guida gli architetti che hanno ideato il progetto, guidato l’edificazione o curato il restauro.
Passeggiate in bicicletta e a piedi, ma anche in tram, come il percorso dell’8 piazza Argentina-Casaletto, a cura di In/arch. O la caccia ai giardini nascosti tra piazza Risorgimento e Prati, la ricerca del barocco e del decò nel quartiere Coppedé. Ancora: i luoghi del neorealismo al Pigneto, tra il set di Mamma Roma a via Montecuccoli, gli itinerari dei martiri partigiani, le grandi fabbriche come la Snia Viscosa, i luoghi filmati da Pasolini. E il tour sull’edilizia popolare della Garbatella, città giardino popolare che fornisce un catalogo delle edificazioni d’epoca che somma villette con orto ai dormitori degli Alberghi del popolo o alle “case rapide”, teoricamente provvisorie, d’era fascista.
Rispetto all’edizione dello scorso anno, infatti, la novità è l’allargamento dell’obiettivo delle visite anche oltre il centro storico, pur ricchissimo di visite e eventi. E se nel 2012 il focus raggiungeva l’Eur e Corviale, Flaminio Parioli e Ostiense, quest’anno occhi puntati anche alla prima periferia, Garbatella e Pigneto e Pietralata. Oscillando sempre tra ieri e oggi, e a volte persino domani.
Dunque, al ricchissimo paniere di proposte per il centro tra le altre, il raffinato progetto di lighting per gli affreschi di Piero da Cortona a Palazzo Barberini, i nuovi locali della Casa di Goethe, la riqualificazione del giardino De Vico di lungotevere Aventino, Palazzo Salviati di Giulio Romano, s.Sabina all’Aventino, villa Maraini, la borrominiana s.Andrea delle Fratte) ecco aperte le porte dell’Accademia d’Egitto, splendida collezione di arte antica in una cornice modernista. Poco più in là ecco il funzionalismo scandinavo dell’accademia di Danimarca. Nel poco conosciuto museo Andersen si potranno vedere ricordi e statuaria di un singolare artista, amico di Henry James e inventore del sogno urbanistico della “Città mondiale”, ospitati nella sua residenza neorinascimentale.
Spigolando nella messe di proposte tra la Nomentata e Pietralata ecco l’ex Lanificio Luciani, oggi Lanificio Factory-Lab, che mostrerà la sua vita passata e i progetti per il futuro, il Mir-Architettura studio e Larchificio Factory. Tra le visite nei cantieri, anche quella alle Residenze città del sole, avveniristico edificio purtroppo edificato su un sito archeologico di grande rilevanza, preservato dall’insediamento in quell’area del deposito Atac di via della Lega Lombarda e mantenuto fortunosamente intatto durante la tumultuosa urbanizzazione del quartiere.
Sulla Tiburtina ecco l’ex Pastificio Cerere, ormai galleria d’arte dopo essere stata la sede del Gruppo di san Lorenzo: Nunzio, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli. Ecco l’ex Vetreria Sciarra, che ospita oggi la facoltà di lettere, filosofia, scienze umanistiche. La visita alle Fosse Ardeatine sarà guidata da Adachiara Zevi e Annabella Gioia, al Quadrato si potrà entrare nel cantiere dell’unica costruzione romana edificata in paglia, progetto di Architecture Group. Molto nota ma non altrettanto conosciuta s.Croce in Gerusalemme, tra i primi luoghi di culto cristiani fuori dalle mura. Peccato che l’adiacente orto monacale, circondato dalle mura dell’anfiteatro castrense, recentemente restaurato e visibile da una splendida cancellata di Kounellis, resti da anni chiuso.

il Fatto 27.4.13
Visti dall’estero: Le Monde
“Alla fine è Berlusconi che vince”

“Alla fine è Berlusconi che vince...” titola il quotidiano francese Le Monde, che racconta le ultime vicende della politica italiana. “Si pensava che il Cavaliere fosse finito - scrive Le Monde - Errore. È bastata la rielezione di Napolitano e la designazione di Enrico per vederlo rinascere”. Ansa

il Fatto 27.4.13
Media e potere
La normalizzazione del giornale unico

Ieri il Foglio di Giuliano Ferrara ha raccolto in un solo pezzo tutti – e ringraziamo per l’utilità dell’operazione ai fini di questo nostro scritto – gli editoriali unici del direttore unico del giornale unico nazionale. Cominciamo con l’Unità, Claudio Sardo scrive che le larghe intese non sono più il diavolo, prendendosela con chi “lucra da anni sul racconto dell’inciucio e se ne frega dei problemi del Paese”. Segue La Stampa, per Mario Calabresi “si può legittimamente dire: mi rifiuto di fare accordi con Berlusconi – grazie al cielo, grazie della concessione direttore, ndr – Perfettamente, va benissimo. Ma non si può paragonare l’attuale situazione al nazifascismo o parlare di morte della democrazia”. Lasciamo perdere l’iper-riformista Antonio Polito sulle colonne del Corriere della Sera: “Uno dei fattori nell’equazione del problema italiano è senza dubbio l’informazione, in ragione dello stravolgimento della lotta politica avvenuto negli ultimi vent’anni sul tema del berlusconismo e dell’antiberlusconismo”. Appunto.

Un pezzo del Pd dovrebbe trovare la forza di staccarsi dalle ‘larghe intese’ e adottare una linea più dura, facendosi interprete della scontentezza degli elettori
il Fatto 27.4.13
L’intervista
Salvatore Settis: “Il dialogo fallito Pd-M5S: tragico errore, adesso torna B.”
“Governare col Pdl significa tradire la volontà popolare”
di Beatrice Borromeo


Stiamo scivolando verso un governo senza popolo, dove a scegliere non sono i cittadini ma le segreterie di partito. Vedo grossi rischi per la nostra democrazia”. Il professore Salvatore Settis, già direttore della Scuola Normale di Pisa, dopo gli appelli al Partito democratico perché trovasse la forza di dialogare con Grillo e la lungimiranza di convergere sulla candidatura di Stefano Rodotà, riflette sulla scomparsa del protagonista più importante: l’elettorato. “Che non conta più nulla, e quando le decisioni vengono prese ignorando chi vota, il futuro diventa preoccupante. Le conseguenze, potenzialmente, sono molto gravi”.
Professor Settis, mai come oggi l’elettore pare ininfluente, e a gestire i giochi è il capo dello Stato. Ci stiamo trasformando in una Repubblica presidenziale?
Sono convinto che Napolitano non volesse essere rieletto. Ha accettato con riluttanza, pensando che la crisi del Paese andasse affrontata subito. Detto questo, il risultato netto del governo Letta-Letta sarà quello di riconsegnare il Paese a Berlusconi, cioè il contrario della volontà popolare.
Ieri mattina Napolitano ha incontrato il neo premier per due ore. Trova normale che il capo dello Stato, nella scelta dei ministri e nella definizione del panorama politico, abbia tutto questo potere?
La Costituzione, entro certi limiti, lo prevede. Spetta a lui indicare i ministri. Ci sono precedenti famosi in cui le prerogative del presidente permisero di scampare a scelte inaccettabili: penso a Oscar Luigi Scalfaro che impedì a Cesare Previti di diventare ministro della Giustizia. Gli siamo tutti grati per questo. Però concordo con quello che ha scritto Carlo Azeglio Ciampi, cioè che lo spirito della Costituzione, implicitamente, dice che è meglio se il capo dello Stato resta in carica per un solo mandato. Napolitano, ne sono certo, non aveva pianificato tutto questo per accumulare potere, però è successo.
E la responsabilità di questa anomalia è del Pd.
C’è stata una tragica incapacità del Pd e del M5S di dialogare. Era fondamentale, per evitare il ritorno del Cavaliere. Anche Beppe Grillo però ha commesso errori: come quello di non sostenere Romano Prodi, nonostante fosse stato indicato dalle Quirinarie online. Che poi, visti i numeri – hanno votato solo 24 mila persone – non mi pare sia stata un’idea straordinaria.
Pensa che l’intransigenza dei Cinque Stelle sia eccessiva?
Quando non offre alternative, l’intransigenza si chiama movimentismo. Quello di cento anni fa, alla Bernstein: ‘il movimento è tutto, il traguardo nulla’. Non si può procedere così. Bisogna darsi una meta, da individuare nei diritti garantiti dalla Costituzione. E credo che gli elettori di Grillo capirebbero questo ragionamento.
Un’apertura però c’è stata: se il Pd avesse sostenuto Stefano Rodotà, il M5S sarebbe stato disposto a governare insieme.
Vero, in quell’occasione hanno avuto ragione. Infatti mi fa più impressione il modo di procedere del Pd, a zig zag: come si fa a proporre prima Franco Marini e poi Prodi, come se fossero sinonimi ed equivalenti? Per due mesi, poi, hanno ripetuto che non sarebbero mai andati al governo con il Cavaliere. L’elenco di dichiarazioni di Enrico Letta contro Berlusconi che avete pubblicato ieri sembra apocrifo. Il patto di legislatura tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola escludeva un accordo con il Pdl: e tradendo quelle promesse hanno perso ogni diritto morale anche al premio di maggioranza, si sono delegittimati di fronte ai cittadini. Alla fine, il bilancio di questa incapacità del Partito democratico e del M5S di venirsi incontro è drammatico.
Cosa succederà ora?
Per evitare proteste troppo forti dovranno contenere i danni del governo tecnico, affrontare il problema della disoccupazione, arginare il fenomeno dei suicidi, la recessione massiccia, il disastro della scuola e il crollo della cultura. Il problema di fondo è che questa legge elettorale è pessima e non la cambieranno mai, perché conviene a tutti. Il primo esperimento di un listino bloccato e senza preferenze l’ha fatto proprio il centrosinistra in Toscana: i partiti non vogliono più sorprese, solo candidati sicuri che poi obbediscono.
Chi ci guadagna, però, è Berlusconi, non la sinistra.
È lui il vero dominus, basta osservare i suoi larghissimi sorrisi in questi giorni. Come ha scritto Barbara Spinelli, sarà lui a condurre i giochi durante questa legislatura: farà cadere il governo quando gli converrà, aspettando qualche altro passo falso del M5S, e poi si farà eleggere al Quirinale. È un quadro agghiacciante, ma non fantasioso.
Soluzioni?
Un pezzo del Pd dovrebbe trovare la forza di staccarsi dalle ‘larghe intese’ e adottare una linea più dura, facendosi interprete della scontentezza degli elettori. E poi non dovremmo più accettare che la nostra politica interna sia dominata da un’idea astratta di Europa, dall’euro e dai mercati. Ci sono altri modi per affrontare la crisi: siamo il terzo Paese al mondo per evasione fiscale. Se la combattessimo davvero avremmo più margini di respiro, e potremmo evitare l’abbraccio mortale con B.

il Fatto 27.4.13
Il Pd crolla: nei sondaggi è già il terzo partito
In una riunione molto tesa i segretari regionali e provinciali:
sì al governo col Pdl. Ma che duri poco


Io non ho paura di Twitter, quando facevo il sindaco di Monteveglio mi minacciava anche la mafia albanese. Ma sono molto preoccupato. La vedo la gente che non capisce quello che stiamo facendo”, Raffaele Donini, segretario provinciale di Bologna, prende la parola con un intervento accorato all’assemblea dei segretari regionali e provinciali del Pd organizzata ieri al Nazareno. Una riunione piena di tensione. In molti parlano di tessere restituite, di mail con minacce di abbandono al partito. “Noi continuiamo a reggere, ma ci avete lasciato soli. Non continuate a farlo”, dice ancora Donini. “Basta al dirigismo e all’unanimismo”. È la riunione delle accuse, delle condanne, dell’autocoscienza. Brucia più di tutto il sabotaggio di Prodi. Ma è anche la riunione della rassegnazione
“AL PUNTO in cui siamo arrivati, non c’è alternativa al governo col Pdl”, dice Donini. È quello che dicono in molti. Praticamente tutti. Chiedendo anche garanzie: che sia un governo che duri poco; che non ci siano troppi impresentabili; che si arrivi rapidamente al congresso. Ma intanto non dicono di no a un’operazione che solo due mesi fa era inconcepibile. I guai - nella miglior tradizione democratica - arriveranno a breve. La lista dei ministri non è ancora ufficiale, ma non promette bene. E intanto il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza incassa il via libera - per quanto effimero - alla linea del partito. Ovvero a “sostenere convintamente Letta” per dare il via a “un governo di servizio”. Un breve saluto arriva pure da Bersani. Che chiede “responsabilità”. La parola d’ordine che finora ha prodotto disastri. Il Pd ha “non vinto” le elezioni (anzi, ormai lo dicono tutti, le ha perse) e va al governo con Berlusconi. La palma del dissenso è nelle mani di Pippo Civati, che è diventato il nuovo idolo della rete. E lavora a un documento, contro il governo con il Pdl. “Sono pronte 50 firme. Se mi espellono, forse lascio la carica di deputato”, dice.
I dirigenti - nel tentativo di sopravvivere - si rifugiano dietro l’inevitabilità della scelta. Ma gli elettori no. Secondo un sondaggio Swg per Agorà, con il 27%, il Pdl si conferma primo partito nelle intenzioni di voto. A seguirlo con un distacco di un punto e mezzo è il Movimento 5 Stelle (25,5%), in ascesa nell’ultima settimana (+1,5%). Crolla il Pd, che perde 5 punti e si attesta al 22%. Persino Matteo Renzi è in calo: con il 56% è ancora il leader più apprezzato, ma con 5 punti in meno rispetto alla scorsa settimana. Sarà per questo che ogni giorno cambia un po’ strategia?
Il sindaco di Firenze ormai a tutti gli effetti parla da dirigente del Pd. Sta convintamente con Letta. Ma non rinuncia ai suoi distinguo. Lunga intervista a Sky, ieri. Per dire che il premier incaricato “va bene, è in grado di tenere tutti insieme”. Però, “non bisogna espellere chi non vota la fiducia”. Anche se “non ci saranno problemi”. Intanto, lavora al futuro. Sarà segretario? Prende tempo. Aspetta di capire come va il governo Letta e quanto dura. Per lui, più dura e peggio è. Ma guidare il partito non è il suo ruolo, e lo sa. Come sa che potrebbe essere l’unico modo per arrivare alla premiership. Nel Pd, peraltro, al momento non hanno nessuno da contrapporgli. Si lavora al governo, all’Assemblea del 4 e al congresso. Architetture incrociate. Il 4 probabilmente ci sarà un reggente. Forse Guglielmo Epifani, qualcuno parla addirittura di Sergio Chiamparino. E poi un “comitato per il congresso”, la famosa cabina di regia. Con un renziano, un Giovane Turco, un franceschiniano, un lettiano.
BUIO PESTO sul futuro, come sul presente. Raccontano a Sant’Andrea delle Fratte che un minuto dopo l’accettazione da parte di Letta dell’incarico i rappresentanti del Tortellino magico di Bersani al Nazareno, nelle persone di Stefano Di Traglia, Roberto Seghetti, Chiara Geloni e Nico Stumpo, siano usciti dai loro uffici. Con Seghetti, capo dell’ufficio stampa Democratico che parlava di un “liberi tutti”. Ieri il tesoriere Antonio Misiani ha richiamato lui e Stumpo: “I vertici sono dimissionari, ma Organizzazione e Comunicazione sono ancora operative. Lo dico anche a nome di Enrico”.

l’Unità 27.4.13
L’irrilevanza politica dei 5 Stelle
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Quando Grillo venne a Marsala gli dissi: Grillo salvaci tu! Lui mi rispose: «Ognuno faccia la sua parte». Pertanto anch’io avevo il cervello annebbiato da Grillo, poi la luce: Grillo è la fortuna dei berluscones! Grillini svegliatelo! Grillo ha fatto harakiri.
Gasparre Barraco

Grillo irride la celebrazione del 25 aprile, i suoi in Parlamento abbassano i toni e annunciano una opposizione «costruttiva». Il capolavoro del Movimento 5 Stelle, intanto, è sotto gli occhi di tutti perché quelli che avevano gridato «arrendetevi!» ai rappresentanti dei partiti «si arrendono» oggi di fronte a questa necessità di costruire, senza di loro, un governo che imbarazza tutti. Senza distinzioni. Ridando spazio di parola, di propaganda e di azione a Silvio Berlusconi che si traveste (ancora una volta) da uomo di Stato e che rilancia da Dallas quella che non è una barzelletta ma una sua candidatura vera a ministro dell’economia. Condannati all’irrilevanza politica dalla leggerezza presuntuosa con cui hanno liquidato la proposta di Bersani, i seguaci di Grillo torneranno presto, probabilmente, nel nulla in cui finiscono tutti i movimenti di protesta. Il che è bene, alla fine, perché di danni ne hanno già provocati molti costringendo il Partito democratico a ingoiare il rospo di un governo con gli uomini di Berlusconi. La politica, loro lo comprenderanno probabilmente quando per loro sarà troppo tardi, è fatta di proposte oltre che di improperi e di richiami a una presunta superiorità. Proposte su cui ci si confronta e si ragiona. Utilizzando, per migliorarle e per realizzarle, il confronto con il pensiero degli altri.

l’Unità 27.4.13
25 aprile, i qualunquisti e il partigiano Chiesa
di Enzo Costa


LEGGO DEI SOLITI SPROLOQUI MORTUARI DI GRILLO, questa volta dedicati al 25 Aprile (a suo bloggare, defunto causa gli ultimi sviluppi della politica nazionale), conditi, e ci mancava, con la classica lamentazione sul tradimento degli ideali resistenziali da parte della classe politica. Per carità, l’attuale classe politica ha molto da farsi perdonare, ma che l’invettiva filopartigiana venga dal già ammiccante a Casa Pound suona grottesco. Ma il Guru è sicuro: i Partigiani che non ci sono più l’avrebbero pensata come lui. Io ho qualche dubbio, in compenso sono certo di come la pensa sul suo MoVimento e sull’idea di politica che rappresenta, un partigiano che è ancora molto attento e vigile sulla nostra democrazia: Angelo Chiesa, presidente provinciale dell’Anpi di Varese. Un paio di mesi fa, a ridosso delle elezioni politiche, mi aveva scritto una lettera molto eloquente al riguardo: la pubblico qui di seguito con la sua autorizzazione.
«Ciascun uomo politico vale l’altro, sono tutti mestieranti privi di scrupoli, pronti a strumentalizzare tutto e tutti per la salvezza della loro pagnotta». È una delle tante affermazioni che nel lontano 1946 (non era ancora passato un anno dalla Liberazione) scriveva a nome del suo «movimento» personale sul suo giornale personale «l’uomo qualunque» il commediografo Guglielmo Giannini. Siamo sempre nel novero di uomini di teatro che hanno cambiato mestiere, che vogliono fare politica con un loro personale movimento o un loro personale partito, con le stesse polemiche, con le stesse accuse, anche se sono passati 68 anni.
Quel movimento politico chiamato l’uomo qualunque partecipò alle elezioni della Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 e ottenne un significativo risultato elettorale con ben 1.211.956 voti pari al 5,28 per cento dei voti validi e la elezione di un gruppo di 30 parlamentari. Un gruppo, un Movimento che non assolse alcuna funzione nel processo di elaborazione della Carta Costituzionale se non quello della continua negazione. Il 5 dicembre del 1945 Giannini aveva già scritto sul suo giornale che c’era bisogno di «...un governo di transizione al di fuori di tutti i partiti». L’unica proposta avanzata era che lo Stato «dovrebbe fare solo dell’amministrazione in senso stretto, tanto più che non ha bisogno di specialisti della politica per essere retto, ma da un buon ragioniere».
Come la storia insegna, quel movimento finì presto nel nulla soprattutto perché i partiti dell’arco costituzionale seppero elaborare e approvare in modo unitario, senza alcun inciucio, pure durante il contemporaneo duro scontro politico di quei mesi del 1947, i valori e le regole della vita democratica contenute nella carta fondamentale della nostra Repubblica, sia perché a sostituirlo nacque il «movimento sociale» di chiara estrazione fascista come di chiaro orientamento reazionario è chi oggi pontifica accusando di ogni nefandezza tutti gli altri, minaccia i sindacati che devono essere aboliti (come già fece Mussolini) e, con i voti e i parlamentari che otterrà, vuole aprire il Parlamento come una scatola di sardine.
Ieri, come oggi, il qualunquismo tanto diffuso non sa distinguere. Tutti gli altri sono uguali. L’unico che si salva, è il predicatore di turno, sia quando urla sulle piazze sia quando usa la rete per dare ordini ma, come tutti i predicatori, mai per ascoltare, sempre pronto a pronunciare una condanna quando non si è d’accordo con lui. Facciamo tesoro delle passate esperienze e, soprattutto, i partiti sappiano essere quegli strumenti che la Costituzione vuole quali promotori della partecipazione dei cittadini per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» e non, come è avvenuto troppo spesso, strumenti di gestione del potere.

il Fatto 27.4.13
Stipendio e promesse La prima grana per gli eletti grillini
Accreditati 16mila euro: “Quando l’ho visto m’è preso un colpo, dice un deputato
di Paola Zanca


“Quando l’ho visto m’è preso un colpo! ”. Marco Baldassarre, aretino d’adozione, 16 mila euro sul suo conto corrente non li aveva mai visti in vita sua. Ha 29 anni, di professione fa l’operaio in una ditta che si occupa di informatica e adesso, ligio all’impegno preso prima delle elezioni, dovrà prendere mezzo malloppo e restituirlo allo Stato. Facile a promettere, più complicato quando i soldi sono diventati tuoi. Così, nello staff del Movimento comincia a serpeggiare il terrore: e se questi si tengono tutto? Il primo onorevole stipendio, a Baldassarre e agli altri 163, è arrivato ieri mattina. Telefonate che si rincorrono, battute su chi è già scappato all’estero, shopping per chi si può finalmente permettere di comprare vestiti adatti al Parlamento. Ma qui c’è poco da ridere. Se non la gestiscono bene, questa storia dei soldi, rischia di far scoppiare un discreto casino. Il punto non è l’indennità, lì il codice di comportamento parla chiaro: gli eletti terranno 5000 euro lordi. Si era parlato di 2500 netti, in realtà la cifra varia in base all’Irpef regionale, al reddito precedente, alle detrazioni familiari. Alessandro Di Battista, per esempio, ha già calcolato che a lui rimarranno in tasca 2990 euro al mese. Ma il problema è la diaria da 3500 euro. Beppe Grillo ha chiesto che venga rendicontata voce per voce. Ma che l’avanzo vada restituito, non è scritto da nessuna parte: “I parlamentari avranno diritto - si legge nel Codice - ad ogni altra voce di rimborso tra cui diaria a titolo di rimborso delle spese a Roma, rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, benefit per le spese di trasporto e di viaggio, somma forfettaria annua per spese telefoniche e trattamento pensionistico con sistema di calcolo contributivo”. Restituire? “Dipende dalla coscienza di ognuno... ”, ammettono i parlamentari. E così, la guerra è cominciata.
C’ERA chi suggeriva l’idea di un forfait con cui pagare vitto e alloggio ed evitarsi la seccatura di conservare ogni scontrino. Senatori e deputati ne discuteranno lunedì, in un’assemblea che si preannuncia infuocata. L’idea del forfait non piace a Grillo e Casaleggio. Il capogruppo al Senato Vito Crimi sta elaborando un fac simile, una sorta di file Excel, su cui gli eletti dovranno segnare ogni uscita. Gli scontrini non dovrebbero essere pubblici: si vuole evitare, spiegano, che si sappia quali posti frequentano i grillini a Roma. Ma dovranno comunque essere conservati per qualsiasi controllo: “Ne ho due buste piene – spiega il senatore Alberto Airola – anche se per la verità in questo primo mese e mezzo ho speso pochissimo, perchè ho avuto persone che mi hanno ospitato a casa”. Laura Castelli, invece, tra affitto e stipendio del collaboratore ad aprile ha speso otto mila euro. Gli altri stanno ancora facendo i conti.

il Fatto 27.4.13
Caro Grillo, con Rodotà hai sbagliato i tempi
di Massimo Fini


BEL COLPO, Beppe. L'incaponirsi su Rodotà ha portato ai seguenti risultati. 1) Un bis di Napolitano che ha tollerato senza fiatare tutte le nefandezze di Berlusconi (non per nulla lo chiamavi 'Morfeo'), ha firmato le leggi ad personam e ogni volta che l'energumeno, nelle vesti di premier, faceva dichiarazioni eversive, tipo “la magistratura è il cancro della democrazia”, si limitava a dei generici “abbassare i toni” validi erga omnes. 2) Il governo di ‘larghe intese’ (chiamarlo inciucio è proibito) fra Pdl e Pd che per 18 anni si sono alternati al potere portando il Paese alla bancarotta economica e sociale (oltre che morale), che ora tentano di addebitare, col mantra della ‘responsabilità’, a 5Stelle che nel Parlamento è appena entrato. Hanno avuto 18 anni per dimostrare ‘responsabilità’ verso il Paese. La scoprono solo ora, perché temono che la casa che hanno distrutto gli caschi addosso. 3) Berlusconi, che pareva finito, è uscito enormemente rafforzato da questo giro di valzer e ora detta legge. 4) Il premier incaricato è Enrico Letta, nipote di Gianni il ‘consigliori’ del Cavaliere. Ma si è anche rischiato (e non è detto che il pericolo sia scongiurato) l'incarico al pupillo di Napolitano, Giuliano Amato. Che non è solo il premier che nottetempo, fra il 10 e l'11 luglio del '92, ha messo le mani sui conti correnti degli italiani (altro che Monti), ma è stato il principale sodale di Craxi. Ha detto la figlia di Bettino, Stefania: “Papà era il capo di un partito di ladri? E allora Amato era il vice ladrone”. Ma forse sarebbe stato preferibile che la protervia della ‘nomenklatura’ si spingesse fino a questo punto, fino ad Amato. Perché sarebbe stato un tale schiaffo in faccia agli italiani, da fargli drizzare finalmente il loro membro floscio. Anche se ci credo poco.
Hai sbagliato i tempi, Beppe. Se tu avessi proposto fin da subito, prima che iniziasse la sarabanda, i nomi di Zagrebelsky, di Caselli, di Prodi e anche di Rodotà visto che piace tanto ai tuoi attivisti (che probabilmente non conoscono a fondo il personaggio, ben incistato sia nella Prima che nella Seconda Repubblica), Bersani non avrebbe potuto dirti di no perché quei nomi li aveva ventilati anche lui. E Berlusconi sarebbe finito fuori gioco.
INVECE cincischiando con la Gabanelli e con Strada hai perso due giorni dando il tempo a Pdl e Pd di organizzare il ‘grande inciucio’ su Marini, che poi è fallito non tanto per merito vostro, ma per il disfacimento del Partito democratico. Il resto è venuto di conseguenza. Bersani non poteva più accettare Rodotà dopo che, con i suoi sponsor, gli si era messo di traverso. Sarebbe stato come consegnare le chiavi di casa propria a un altro inquilino.
Caro Beppe so bene, quanto te, che la nostra è una parodia di democrazia, ma se tu intendi, come mi pare, rovesciare il tavolo rimanendone all'interno, devi imparare meglio la sua grammatica e la sua sintassi. Altrimenti i farabutti che giocano questo sporco gioco da decenni ti buggereranno ogni volta.
Con la simpatia, l'affetto e la stima di sempre.

l’Unità 27.4.13
Sinistra crepuscolare e il pugile suonato
di Moni Ovadia


IL PERIODO CHE STIAMO VIVENDO IN ITALIA È, DAL MIO PUNTO DI OSSERVAZIONE, IL PEGGIORE CHE IO RICORDI DA CHE HO L’ETÀ DELLA RAGIONE. Non il più drammatico, il nostro Paese ha conosciuto gli anni delle stragi di Stato, le guerre scatenate dalle mafie, la stagione del terrorismo, ma il peggiore si! Peggiore per la regressione antropologica, per la perdita di un orizzonte morale condiviso, per il disfacimento del senso stesso del fare politica.
Siamo sopraffatti dalla sensazione che il vero governo delle cose, sia nelle mani di speculatori, evasori, mafiosi, finanzieri senza scrupoli mentre la politica strictu sensu, sia prevalentemente il gioco di autoconservazione di una casta impotente e proterva. Lo sconcio spettacolo visto in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, ha avuto un esito prevedibilmente desolante. Il Paese, verosimilmente, sta per essere riconsegnato nelle mani del suo vero dominus, Silvio Berlusconi, primo e principale responsabile dello sfascio in cui ci troviamo. La forza che prometteva di rompere il suo ventennale monopolio e avviare risanamento e sviluppo, il Pd, è uscito dalla contesa elettorale come un pugile suonato, unico responsabile della sua disfatta e ha cominciato a prendersi a cazzotti da solo. Il vecchio presidente della Repubblica richiamato disperatamente in servizio, ha pronunciato un vibrante e nobile discorso per richiamare la politica alle sue gravi responsabilità. Peccato però che a discorso ultimato, la soluzione proposta è quella di affidare il Paese a quei politici che lo hanno portato al punto in cui si trova.
Napolitano per «blindare» quella che ritiene essere l’unica soluzione possibile, ha chiesto a stampa e opposizione di non intralciare il cammino del governo di «larghe intese» prossimo venturo, il vecchio che avanza. La stampa, in una democrazia dovrebbe rispondere alla pubblica opinione e dovrebbe essere la coscienza costantemente critica di qualsiasi governo, anche del migliore. Quanto all’opposizione, opporsi è il suo mestiere e dovere costituzionale. Il Movimento Cinque Stelle nella fattispecie, se ottemperasse alla sollecitazione del Presidente, siglerebbe il proprio immediato declino. Quanto a Sel, mazziato e cornuto, sarebbe ridotto a una malinconica insignificanza più di quanto non sia oggi.
La sinistra italiana ha subito una vera disfatta. Quella europea non sta tanto meglio come spiega in una recente intervista a Le Monde Daniel Cohn-Bendith. La sinistra è vittima dei propri errori, fra i quali l’incapacità di innovarsi nella sostanza e nel linguaggio, la perdita degli orizzonti etici e ideali, l’abbandono dell’elaborazione teorica che crea originalità di pensiero per mettersi alla testa delle trasformazioni invece che inseguirle con la lingua a penzoloni. Se vuole rinascere, furbizie e scorciatoie non sono contemplate.

La Stampa 27.4.13
La sindrome del governo amico
di Marcello Sorgi


A dispetto di molte previsioni ottimistiche, l’ultima notte di vigilia è stata inquieta. E non, come vuole la tradizione, perché, si sa, la lista dei ministri può considerarsi definitiva solo quando viene letta al Quirinale, e la storia delle crisi italiane è piena di aneddoti su cancellazioni e sostituzioni di nomi avvenute un minuto prima. Ovviamente, come aveva previsto anche Enrico Letta, il toto-ministri infuria. Ma s’intuisce che il problema vero è un altro.
Malgrado gli sforzi fatti da Napolitano, infatti, il Pd non riesce a digerire l’idea di far parte di un governo di larghe intese con Berlusconi. I tentativi di indorare la pillola dandogli un nome diverso, «del Presidente», «di convergenza», «di servizio», finora non sono serviti a niente. Gli artifizi sulla delegazione che per conto del partito dovrebbe affiancare Letta non hanno egualmente portato a nulla: non funziona né l’idea di un paio di ministri giovani (anche se l’incaricato ha detto che non vuole gente che «debba fare la scuola guida») affiancati da super tecnici (tipo Saccomanni), né quella delle vecchie glorie (Amato e D’Alema) che facciano da nave scuola.
Ela ragione per cui nessuna di queste ipotesi rappresenta una soluzione è politica, non necessariamente legata ai nomi. Il Pd, in altre parole, non ha ancora risolto il nodo della pacificazione, seppur temporanea, con il Giaguaro che fino a poco fa voleva «smacchiare». E cerca il modo di far nascere il governo senza aderirvi fino in fondo: un po’ come la vecchia Dc ai tempi dei «governi amici», guidati e composti da propri esponenti, ma senza poter contare sull’effettivo appoggio del partito. Le dichiarazioni esplicite allineate fino a ieri, si tratti dell’ex-presidente del partito Bindi o dell’ex-ministro del lavoro Damiano - per non dire del giovane Civati, che ha lanciato l’allarme sui «traditori che diventeranno ministri» - sono una chiara conferma di tutto ciò. E preoccupante è il computo di una cinquantina di parlamentari indisponibili, o magari disposti solo a denti stretti, a votare la fiducia, e di conseguenza pronti a trasformarsi in franchi tiratori nelle prime votazioni sui provvedimenti del governo.
Ma accanto a queste più o meno esplicite riserve, c’è un interrogativo di fondo che investe tutto o quasi il corpo del partito: perché mai noi Democrat dovremmo entrare, non in un esecutivo di larghe intese voluto/imposto da Napolitano, ma in una coalizione di cui Berlusconi è il vero padrone, come azionista di riferimento che può togliere la fiducia quando gli pare? E di cui Letta, anche come nipote di suo zio, non è il vero presidente del Consiglio, ma una sorta di sottoposto del Cavaliere? A dimostrazione di questo ragionamento, che in tanti, nel Pd, svolgono a bassa voce con queste stesse parole, si cita il fatto che le consultazioni hanno subito un intoppo preventivo, con la dura dichiarazione di Alfano sul «governo balneare», quando Berlusconi ha ordinato di frenare. E sono poi proseguite sul velluto, quando lo stesso Berlusconi, richiesto da Napolitano, da Dallas ha dato pubblicamente il suo via libera.
È innegabile che sia esattamente quel che è accaduto. Ma l’errore del Pd - non di tutto, ma di una sua parte consistente - sta nello scambiare per causa quel che invece è manifestamente l’effetto del proprio atteggiamento. Berlusconi, e con lui tutto il Pdl, hanno detto dal primo giorno dopo le elezioni che il risultato uscito dalle urne non lasciava altra scelta che un governo di larghe intese o il ritorno ad elezioni. Era la stessa indicazione venuta dal Quirinale: tanto che il Presidente, quando ancora non pensava di poter essere rieletto, rendendosi conto che i suoi sforzi in questa direzione non trovavano ascolto presso il suo vecchio partito, aveva voluto egualmente connotare, con la nomina della commissione dei saggi e il documento che ne era sortito, la conclusione del settennato. Ma anche in questo caso, tolto Renzi ed escluso Violante, che era uno dei saggi, da parte Pd non era venuto alcun segno di ripensamento. Almeno fino alla rielezione di Napolitano e al secondo giro di consultazioni, in cui il vertice del partito, dopo le dimissioni di Bersani, finalmente s’era espresso ufficialmente a favore della nascita del governo.
Si dirà che bisogna tener conto del travaglio in cui il Pd è immerso e che una pacificazione, provvisoria per quanto sia, con il nemico di una guerra durata vent’anni, non si fa da un giorno all’altro. O ancora che gli effetti della distruttiva battaglia interna, che ha portato al siluramento di ben due candidati per il Colle, non si digeriscono tanto facilmente. Inoltre, seppure si sia stabilita una tregua, quanto solida non si sa, tra le diverse correnti, alla guida del partito in questo momento non c’è nessuno. Lo stesso Letta, che come vicesegretario s’era assunto il compito di gestire questa fase fino al congresso, ricevendo l’incarico da Napolitano è diventato fatalmente parte, e non più garante dell’armistizio. Occorre, insomma, più comprensione per un passaggio di una complessità inaudita.
Tutto vero. E immaginarsi se qualcuno sottovaluta le complicazioni di un accordo di larghe intese. Anche in Germania, quando l’hanno fatto, non è stato di certo dalla sera al mattino. E in Italia, se pensiamo al governo Andreotti del lontano 1976, ci vollero più di centoventi giorni, quattro mesi, prima di mettere le firme. Con la differenza che sia in Germania, sia in Italia, i partiti già avversari, che dovevano divenire alleati, lavoravano convintamente al raggiungimento del risultato.
A ben vedere, la debolezza del Pd sta in questo: nel credere di potersi consentire incertezze e divisioni, e di arrivare, in conclusione, a un mezzo accordo o a un’intesa poco convinta sul governo, perché tanto a volere la grande coalizione è soprattutto Berlusconi. Una strana convinzione, chissà fondata su cosa, che parte da un’ulteriore sottovalutazione del Cavaliere. Al contrario, quest’atteggiamento del Pd non cambia, la sorpresa delle prossime ore potrebbe essere opposta: il governo, o si fa oggi, o non si fa più. Il centrodestra dà legittimamente la colpa al centrosinistra. E torna il rischio di elezioni, con i sondaggi che danno già Berlusconi per favorito.

La Stampa 27.4.13
Nel partito va in scena il disagio “Chi ci spiega che cosa è successo?”
I cento segretari locali incontrano Bersani: non sappiamo cosa dire ai militanti
di Giovanni Cerruti


Passa appena per un saluto. «Non chiedetemi niente, non dico niente», risponde Pierluigi Bersani sul portone della sede del Nazareno. E su al terzo piano, davanti a questi cento segretari Pd arrivati da città, province e regioni, ha davvero poco da aggiungere. Forse, in questo stanzone, è il suo ultimo intervento da segretario dimissionario. Il partito lo conosce bene, i parlamentari forse meno. E sa che lontano da Roma non sono solo i bolognesi di “#ResetPd”, o i torinesi di “OccupyPd”, a non aver capito. «Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto. Ora vi raccomando il bene della Ditta». Applausi, rimpianti. E altro.
Perchè i cento son venuti qui per sapere cosa è successo. «Perchè mi chiamano, mi chiedono, mi dicono “sei tu che ci rappresenti” e ancora io non so cosa rispondere», come sta spiegando Marco Zanolla, goriziano con una gran coda di capelli. C’è Roberto Speranza, il capogruppo, che provvede alla «relazione introduttiva», e come sempre si vola alto: «Cos’è il Pd? Cosa ci tiene uniti? Quali obiettivi ci diamo? ». E poi giù in picchiata, per dire «che il Pd deve sostenere convintamente il tentativo di Enrico Letta». Certo che sì. Uno esce e telefona: «O è così o ci bruciamo l’ultimo pezzettino di credibilità rimasto».
Di solito, in riunioni come questa, un paio d’ore e tutti a casa, questa è la linea, avanti così. Ieri no. salone più pieno del solito, nessuno che rispetti i cinque minuti, interventi che debordano. Finisce che non finisce, si ritroveranno, almeno in venti che debbono ancora dir la loro. Ultimo a parlare è stato Stefano Bonaccini, modenese, segretario dell’Emilia-Romagna, gli azionisti di maggioranza del Pd «convintamente» deciso a farsi sentire. La sera prima del non voto per Franco Marini era stato proprio Bonaccini a mandare il primo allarme alla sede del Nazareno: «Fermatevi! ». E vuol partire da quella sera, Bonaccini.
«No, non dite che è colpa di Twitter - e ha già passato i cinque minuti -, io ho il cassetto pieno di mail mandate dai nostri iscritti». E’ l’ultimo a parlare, Bonaccini. Forse è il più autorevole, ma non è l’unico. I toscani di Livorno. Gli emiliani e i romagnoli tutti. E Daniele Zoffoli, segretario di Cesena, ha guardato il capogruppo che si chiama Speranza prima di chiudere con una frase da titolo del disagio: «La nostra rabbia è la nostra speranza! ». La rabbia di chi sta aspettando risposte, chiarezza. «Meglio la rabbia della rassegnazione», spiega poi. «Ma quella vigliaccata dei 101 che hanno tradito Prodi deve venir fuori. Non possiamo accettare che il dubbio ricada su tutti».
Rabbia e speranza, come quella dei giovani Pd di Bologna o Torino. «Al terzo piano la voce della base l’abbiamo portata noi», dice Paola Bragantini, deputata e segretaria torinese: «Il gruppo dirigente deve capire che è importante il merito, ma anche il metodo». Più che la testa, nelle periferie del partito, ora comandano pancia e cuore: vuota la prima, a pezzi il secondo. Rabbia, per rimanere nella sede del Nazareno, che si sente anche dalle telefonate che arrivano al centralino: «Non ne posso più di questo partito Pd-Pdl! », urla una signora di una certa età. O da chi, dalla strada, vede arrivare Giuseppe Fioroni, l’ex ministro dell’istruzione: «Ecco il democristiano, vattene! ».
Alle tre del pomeriggio i cento escono e se ne vanno di fretta. C’è chi vuol parlare solo del sì al governo Letta. Bonaccini spera in «un governo di scopo, con una squadra giovane, innovativa». Poca voglia di raccontare la rabbia e la speranza. Che poi non è così, o non sarebbe così, dappertutto. «Mi sembra sia successo a macchia di leopardo, o di giaguaro... », dice Antonio Castricone, deputato e segretario del di Pescara: «Ma adesso, più che la Ditta il problema è il Paese». Perchè, e questo è Roberto Speranza, «il Pd deve mettere al centro l’interesse dell’Italia con l’assunzione di responsabilità da parte di tutti». E di tutto il Pd.
E’ che non sarà semplice spiegarlo a quelli di «#ResetPd» o di «#OccupyPd», o alle altre macchie di giaguaro. Proprio la parola «responsabilità» da quelle parti è la più detestata, presa con sospetto e diffidenze. «Ora che siamo tutti impegnati nel sostenere Enrico Letta - dice Maurizio Martina, segretario del Pd di Lombardia - dobbiamo metterci alla testa di questo progetto e riempirlo di contenuti». E c’è da battere la rabbia: «Ci saranno complicazioni e difficoltà, non sarà immediato, ma dobbiamo guardare in faccia questa nuova realtà. Noi segretari dobbiamo fare quel mestiere». Perchè la rabbia fa male alla Ditta.

Repubblica 27.4.13
OccupyPd arriva alla Bolognina “Niente scissione, resettiamo il partito”
Giorgio Prodi: “Contro mio padre un vero atto politico”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — La Bolognina 2.0 non sarà una mozione congressuale, è una mozione degli affetti. È il Piave dello sgomento organizzato dei militanti dopo l’atroce Caporetto del voto per il Quirinale. Ma è pur sempre una reazione. «Qui c’è più futuro che passato», si rincuorava Giorgio Prodi, figlio di Romano, assistendo in disparte all’assemblea autoconvocata nella sezione di partito che porta un nome che risuona ancora, nella storia della sinistra italiana, e che non riesce a tornare ad essere solo un’espressione geografica, tant’è che pure Matteo Renzi, nel tour delle primarie, pur di parlare alla Bolognina prenotò il locale cinema dei salesiani. In platea, centocinquanta ragazzi seduti per terra, sulle scale, che twittavano #resetPd, che parlavano leggendo dal tablet, che fotografavano con gli smartphone, ma erano lì a presidiare un luogo fisico della politica ancora non dato per perso «Sono la cosa più vicina al Pd che immaginava mio padre nel ‘96».
Sul palco, tre giovani assessori della giunta Merola, Matteo Lepore, Luca Rizzo Nervo, Andrea Colombo, e un consigliere comunale che fu braccio destro di Cofferati, Benedetto Zacchiroli: bersaniani i primi, renziano il quarto, accomunati quel pomeriggio dalla camicia bianca, che è ormai il dress-code di quella parte del Pd che bombarda il quartier generale. Ma con qualche distinzione. «Non rottamare, ma resettare», è la parola d’ordine. «I nostri dirigenti si sono rottamati da soli», insiste Lepore. «Ma se paga solo Bersani è sbagliato», aggiunge il presidente di quartiere Daniele Ara. Non sulle persone, ora bisogna intervenire sulla macchina. «Riparare l’errore di sistema, bloccare il virus», Colombo insiste sulla metafora del computer. Il virus è la fusione fredda «tra gli ex», ex-Pci ed ex-Dc. Non è un caso che, chiunque abbiano votato alle primarie, gli autoconvocati siano in gran parte “nativi” del Pd. Il problema dunque non si risolve «né con la pattumiera né con la scissione», insiste Colombo, «dobbiamo spegnere il Pd che non è mai partito, e riaccenderlo per riavviare il processo». Promettono nuove assemblee autoconvocate, prestissimo: «il fattore tempo è decisivo». E allora si capisce che “Bolognina” vale come richiamo mitico al coraggio delle scelte radicali, ma che il riferimento politico vero ha un altro nome, quello di Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, tradito, pugnalato alle spalle. «No, non è stato un agguato a una persona», precisava quella sera il figlio Giorgio, «quel che è successo nel Pd in Parlamento, e mio padre non ha bisogno di fare i nomi, è stato un atto politico, molto chiaro e molto vecchio».
Bologna, in questo, è tutta una Bolognina. «Rivoglio il mio voto», ha trovato scritto su diversi post-it appesi alla porta del circolo Pd Galvani (quello dove fa la tessera Prodi) la segretaria Cecilia Alessandrini, e ha risposto, sconsolata: «Hanno ragione». E il Pd del Navile, il quartierone popolare oltre la ferrovia che comprende anche la Bolognina, prima dell’incarico a Letta si è riunito d’urgenza votando un documento che «manifesta e ribadisce la contrarietà a un governo col Pdl». «E non si dica che è una protesta marginale», ammonisce il consigliere regionale Antonio Mumolo, «in questo quartiere abbiamo più iscritti che in tutta la Basilicata».
I dirigenti fiutano l’aria e si allineano. C’è un gran vento di riposizionamento sotto le Due Torri. Il segretario della federazione forse più bersaniana d’Italia, Raffaele Donini, veleggia verso Renzi. Il sindaco Merola che capeggiava il comitato elettorale di Pierluigi ha già saltato la barricata. Muto nelle torri di Kenzo Tange, il governatore Vasco Errani, gran consigliere di Bersani, non può certo farlo. Nessuno ancora gli spara addosso, ma per il successore ora si invocano le primarie.
Eppure alla fine dovranno tutti baciare il rospo, anzi il Caimano. «Meglio fare un governo a tempo col nemico che mandarlo subito al potere da solo», si rassegna alla realpolitik Marco Lubelli, segretario del circolo Passepartout che lui stesso, assieme a un gruppo di ragazzi, ha “occupato” sulla scia degli occupyPd. «Ma non biasimo chi trova indigeribile l’idea. Quindi nessuno parli di espulsioni per chi non ce la farà a votarlo. Semmai vanno espulsi i 101 che non hanno votato Prodi».
Del resto, anche i giovani suscitatori di #resetPd danno per scontato che oggi avranno un governissimo. «È nei fatti», ammette Zacchiroli, «giudicheremo sul programma, e speriamo non ci siano ministri impresentabili». «Pensiamo adesso a rifare un partito
paralizzato dalle vecchie appartenenze », aggiunge Rizzo Nervo, «Ma vi rendete conto che il Pd non può fare un incontro con la Fiom, o con la Cisl, perché si alza subito qualcuno a gridare allo scandalo? Un partito che ha paura di un tweet?». Eppure questo partito l’avete sostenuto, voi tre assessori avevate scelto di «partire con Bersani per il mare aperto». «Be’, è successo che la barca si è rovesciata», ammette con sincerità. Sindrome da Costa Concordia: era meglio cambiare il comandante prima? I renziani della prim’ora come il professor Salvatore Vassallo sono ironici con i nuovi insorgenti: «Invece di sparare tweet di riposizionamento a raffica, dite cosa volete fare da grandi». «Se i renziani fanno i gelosi, allora vuol dire che il problema del Pd non è risolto», reagisce Rizzo Nervo. Nervosisimi fra rottamatori e resettatori, nel laboratorio bolognese. Nulla garantisce che, spegnendo e riaccendendo il Pd, il virus sia scomparso.

Corriere 27.4.13
Effetto larghe intese, giù i sondaggi. Per i democratici l'incubo sorpasso
L'ultimo report: 23,5% contro il 27,7 ottenuto dai Cinquestelle
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il Partito democratico arranca. La strada del governo con il Pdl è l'unica che si possa imboccare. Un'altra via non c'è. Ma costa lacrime e, soprattutto, voti che volano via. I maggiorenti del Pd ricevono ogni giorno sondaggi da brivido. Già prima i dati non erano confortanti, ma dall'incarico a Enrico Letta sono peggiorati. L'ultimo test regala un pessimo 23,5 per cento. E, soprattutto, dà al «Movimento 5 stelle» il 27,7. Sorpasso effettuato.
Ma quel che è peggio è il livello di disaffezione che si riscontra negli elettori del Pd. Tornano i numeri. Sgradevoli e inequivocabili. Secondo un sondaggio il 32 per cento di coloro che hanno votato per il Partito democratico è d'accordo con il governo Letta. Il 60 per cento è fermamente contrario, l'8 per cento non sa che pesci prendere. E non è nemmeno la rilevazione peggiore, perché ce n'è un'altra che abbassa quella soglia al 20 per cento o poco più.
Insomma, un partito allo sbando. O quasi. Perché se poi si interpellano quegli stessi intervistati sulla scissione la risposta è ferma: il 67 per cento dell'elettorato del Pd non la vuole. Anche sul leader del futuro le idee sono chiare: il 58 per cento degli italiani che hanno votato per il Partito democratico sogna di avere come leader il sindaco di Firenze Matteo Renzi, il 20 gli preferisce il ministro Fabrizio Barca e il 17 auspica il ritorno di D'Alema.
Sono dati che la dicono lunga sul tormento del popolo democratico. Gli elettori del Pd vorrebbero un partito e un leader, ma si rendono conto che tutto ciò non è possibile. Anche perché tra i maggiorenti di Largo del Nazareno si affilano ancora le armi e ci si illude di poter consumare le ultime vendette. Il segretario che si è dimesso non sembra propenso a dare il via libera al «nuovo» che verrà.
Ieri il «tortello magico» si è riunito con i segretari regionali. Quasi tutti hanno preso il via e sono approdati in altri lidi, ma due o tre resistono e si sentono ancora bersaniani. Anche quel Vasco Errani che, dopo il siluramento di Romano Prodi, andava in giro per il Transatlantico di Montecitorio spiegando a tutti: «Io ero contrario a questa linea». Comunque, per farla breve, quel che resta della falange armata del segretario dimissionario punta a raggiungere due obiettivi nell'assemblea nazionale che si terrà sabato 4 maggio. Il primo, assumere l'egemonia dell'area di sinistra del Partito democratico. Ossia di quella parte del Pd che ondeggia tra D'Alema e i «giovani turchi» di Orlando e Orfini. È su quella fetta di partito, ma anche di elettorato, che i bersaniani vogliono puntare, perché pensano — e sanno — che i malumori i quell'area andranno ad aumentare, tanto più dopo il varo di un governo Letta-Alfano. Soprattutto se non ci sarà D'Alema nella compagine governativa: per quel mondo è la cartina di tornasole e da quello dipenderà l'atteggiamento nei confronti del nuovo esecutivo.
Il secondo obiettivo consiste nello stoppare Renzi. Il candidato per contrastare il primo cittadino del capoluogo toscano è già pronto. È l'ex segretario della Cgil Epifani. È su di lui che puntano tutti quelli che non vogliono Renzi. E con una mossa speculare a quella dei sostenitori renziani si prefiggono un obiettivo a breve termine: l'elezione del sindacalista già il 4 maggio. Questo era il piano dei tifosi del sindaco rottamatore. I suoi avversari interni, sfruttando le perplessità di Renzi di fronte all'idea di farsi assorbire dal partito, tentano ora il contropiede e imitano quella mossa. Tanto il Congresso non verrà mai anticipato: non ci sono né i tempi né lo spazio politico per farlo. La data resta la stessa ed è quella di ottobre. Ma se gli antirenziani riuscissero a far eleggere l'ex leader della Cgil o (ed è questa l'altra opzione) il più giovane Stefano Fassina già il 4 maggio, allora le assise slitterebbero a chissà quando e con loro la candidatura di Renzi. Tutto rinviato a data da destinarsi.

Corriere 27.4.13
Partito e sindacato Se a sinistra c'è l'Opa socialista
di Dario Di Vico


Se il 4 maggio Guglielmo Epifani diventerà davvero il segretario del Pd — nel ruolo di traghettatore che ebbe in passato anche Dario Franceschini — si andrebbe a configurare una clamorosa Opa degli ex socialisti sulle maggiori organizzazioni della sinistra italiana. Come Epifani, infatti, anche Susanna Camusso, attuale segretario generale della Cgil, viene dall'area socialista. L'eventuale successo del sindacalista — che, dicono in tanti, assomiglia un pò all'attore americano Harrison Ford — avrebbe anche del paradossale perché si concretizzerebbe in parallelo all'ennesimo disconoscimento di Giuliano Amato a parte del gruppo dirigente del Pd. Insomma non tutti i socialisti in questa tormentata stagione della sinistra italiana vanno bene per i custodi dell'ortodossia, ma Guglielmo sì. A volerlo issare al vertice assoluto del Pd sembrano essere soprattutto i colonnelli bersaniani, che vedono in lui una figura insieme di prestigio e di raffreddamento dei conflitti interni al partito. E comunque non è la prima volta che la sinistra politica pensa a lui per incarichi politici di vertice perché al tempo dei Ds il segretario Walter Veltroni lo avrebbe voluto al suo fianco nella delicata veste di responsabile dell'organizzazione. Il numero due. Non se ne fece nulla ed Epifani preferì aspettare il suo turno in Cgil ovvero che Sergio Cofferati lasciasse e lui fosse il primo ex socialista a indossare la maglia di segretario generale della Cgil. E non la maglietta di segretario aggiunto che storicamente, in virtù degli accordi di vertice tra le correnti, spettava al capofila dei socialisti nella maggiore confederazione italiana del lavoro. Una caratteristica di Epifani è quella di non farsi nemici. Almeno mortali. E così nel giorno in cui si prospetta per lui una promozione politica persino Giuliano Cazzola che, pure lo aveva aspramente criticato per le scelte operate da leader sindacale («dirige senza decidere» è il suo epitaffio), oggi è indulgente. Cazzola è stato anche lui uno dei cavalli di razza della corrente socialista della Cgil e rintraccia nella scelta di Epifani per il dopo-Bersani «una sorta di commissariamento della Cgil sul Pd, si fa ricorso al sindacato come una volta i governi bussavano alla Banca d'Italia». La verità è che gli ex socialisti si considerano tra loro come dei profughi politici, costretti «a salir l'altrui scale» perché la loro casa politica è andata in fiamme e quindi, se non è proprio necessario, non si fanno la guerra. E infatti anche Luigi Covatta, direttore della rivista Mondoperaio, presidio della cultura politica socialista, è convinto che Epifani sia una buona carta per il Pd. «Indica una rottura con la cultura post-comunista per lo più dedita ad ascoltare i ceti medi riflessivi e si torna invece a promuovere uomini che vengono da esperienze fatte in grandi organizzazioni popolari dai grandi numeri». Meglio, dunque, un ex Psi di un ex indipendente di sinistra. «Al punto in cui si trova il Pd la trovo una scelta logica — insiste Covatta — So bene che i bersaniani non scelgono Guglielmo come portatore di una cultura socialista ma comunque aver pensato a lui può rappresentare un embrione di discontinuità». L'eventuale nomina di Epifani avverrebbe, poi, in tandem alle novità che stanno maturando dentro Cgil-Cisl-Uil. Inizialmente impallidite a causa del risultato di Grillo le confederazioni stanno riprendendo a far circolare il sangue e stavolta non lo fanno in ordine sparso, con manifestazioni separate e velleitarie, ma progettando idee e percorsi comuni. Non accadeva da tempo immemore.

Corriere 27.4.13
Il figlio di Prodi: il «nostro» Pd lontano da Roma
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Prodi-Due, la Vendetta, ha la faccia paciosa e lo sguardo curioso di Giorgio (Prodi), 42 anni, figlio dell'ex premier, da cui ha ereditato la passione per gli studi economici e per le dinamiche del grande gigante cinese (è ricercatore e titolare di un corso di Economia applicata avanzata all'università di Ferrara, oltre che membro del Comitato scientifico di Osservatorio Asia). L'altra sera, quando Giorgio è comparso all'assemblea autoconvocata dei «resettatori» bolognesi — giovani amministratori che chiedono «un altro Pd», la messa al bando dei «traditori» che hanno impallinato Prodi e sono a dir poco critici verso qualsiasi soluzione che coinvolga Berlusconi —, più di uno in sala (e anche fuori) ha pensato che il buon Giorgio, come Elwood nei Blues Brothers, fosse lì in missione: per conto del padre. Lui ride e, tanto per restare in tema cinematografico, risponde così a chi ipotizza un'inedita successione sulla via del rancore: «Ma quale risentimento! Sostenerlo, come diceva Fantozzi, è una boiata pazzesca. Mi sembrava giusto esserci per sentire quali idee venivano proposte. E' evidente che quel Pd che si è riunito a Bologna è diverso da quello che ha agito a Roma. Ma sarebbe un errore metterla sul piano emozionale: così è la politica. Non ho mai detto che mio padre è stato pugnalato, è una terminologia che non mi appartiene: ho solo sottolineato che, nel caso della sua mancata elezione, hanno prevalso schemi di un certo tipo, che non tutti naturalmente sono tenuti a condividere».
Di sicuro non li condivide Giorgio, che, pur mantenendo un rapporto distaccato dalla politica («Faccio un mestiere che mi appassiona molto»), non ha mai nascosto le sue simpatie per il Pd, vivendo con sobrietà la vita di partito: «Non era la prima volta che partecipavo a una riunione dei Democratici bolognesi. Lo faccio spesso, soprattutto quando si parla di economia...». D'accordo, ma stavolta il piatto era bollente e la ferita del Colle bruciava. «Può darsi, ma io sono andato con la massima serenità. Sapevo di trovare tanti giovani e di tornare a respirare le atmosfere immaginate nel '96...». Anni lontani, quelli dell'Ulivo. Giorgio si laureava a Bologna in economia e commercio, mentre il padre saliva per la prima volta a Palazzo Chigi. «Penso che quel progetto sia ancora valido — afferma — e che sia quello il Pd che piace alla gente».
E' la normalità ciò che il figlio del Professore cerca per sé e la sua famiglia. Anche se molti non ci credono, la bocciatura di suo padre per il Colle è stata accolta in casa quasi come una liberazione: «Siamo più sereni così, passare tanti anni sotto i riflettori è faticoso». Lo stesso ex premier ha pubblicamente rivelato «la felicità di Flavia quando sono tornato a Bologna non presidente».
Anche se resta la delusione per come è stata gestita l'operazione e per il clima d'anarchia che avvelena il partito. Anche per questo Prodi non si era fatto grandi illusioni.
Raccontano che nell'ampia cerchia familiare ci sia stato chi aveva addirittura scommesso sulla sua sconfitta (animato da affettuosa scaramanzia), vincendo più di una cena. Capitolo chiuso. Giorgio è tornato alle sue lezioni di economia: «Ma parteciperò ancora alle riunioni del Pd: è un mio diritto, non mi faccio condizionare...». A costo di passare per il Vendicatore con delega.

Corriere 27.4.13
Staino e il nuovo rospo da baciare
di Ernesto Menicucci


ROMA — Ci sono domanda e controdomanda, ma manca la risposta: «Babbo, quanti rospi si può ingoiare prima di schiattare?», chiede la bambina. E «Bobo», alla scrivania: «Una persona o il Pd?». Firmato Sergio Staino, prima pagina dell'Unità di ieri. Stesso tema su Repubblica, con Altan: «Ecco il rospo», dice uno. «Wow! Il mio piatto preferito», la replica. Il problema, però, è che Staino ormai ha perso il conto dei rospi: «Il primo? Forse Dini». Copyright di Luigi Pintor sul manifesto. Il papà di Bobo aggiunge: «Ma ricordo anche Vittorio Cecchi Gori e Antonio Di Pietro, nel Mugello. E Mastella, nel governo Prodi». La lista dei rospi da baciare, per il centrosinistra, è piuttosto lunga: «Prima la svolta di Salerno di Togliatti, con l'accettazione della monarchia. E poi l'art. 7 della Costituzione, sui patti lateranensi». Si arriva ai giorni nostri. Con un problema in più: «I rospi veri non sono la Gelmini o Gasparri. Ma i 101 che hanno tradito Prodi: mai visto tale livello di cinismo». Si direbbe: è la politica. «Non quella che sognavamo noi. Anche nel Pci, tra Ingrao e Pajetta, c'erano posizioni lontane. Ma poi si trovava un'unità». Si torna così alla domanda: quanti rospi si possono mandare giù, senza morire? «Non lo so. Ho sempre usato una frase di Bertolt Brecht: "Può darsi che il partito sbagli e tu sia nel giusto, ma se la strada giusta la fai da solo è sbagliata". Ma è la prima volta che ho dei dubbi». Anche la rielezione di Napolitano è un boccone indigeribile? «Stavo tirando fuori vecchie vignette, per una mostra a Forte dei Marmi in estate. Diciamo che la sua è una presenza costante...». Largo ai giovani, dunque. Come il «rottamatore» Matteo Renzi: «Il sindaco di Firenze non è un mio riferimento, preferisco Barca e Petrini. Ma Renzi oggi rappresenta una speranza». E il premier Enrico Letta? «Una persona seria. Spero faccia una squadra con rospi meno brutti del passato...».

Corriere 27.4.13
Il solito «disagio» dei democratici
di Franco Debenedetti


Caro direttore,
non è bastata la soddisfazione per l'incarico affidato a un proprio esponente di punta a fare rientrare i contrasti all'interno del Pd; essi restano un ostacolo sul cammino di Enrico Letta, e sulle possibilità di trarre qualche risultato positivo dalla legislatura. All'origine sta la mancanza nel Pd di una forte identità condivisa. Un fatto conclamato, dopo le oscillazioni del Bersani «esploratore», dopo i voti per Rodotà di Fabrizio Barca più 7, dopo i distinguo, le riserve e i paletti manifestati in direzione.
L'identità positiva della vocazione maggioritaria non ha retto a lungo, il mantra dell'unione di tutti i riformismi non regge più. A funzionare è stata solo l'identità negativa dell'opposizione a Berlusconi. «Un paio di decenni di contrapposizione — fino allo smarrimento dell'idea stessa di convivenza civile — come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti hanno diffuso», è Giorgio Napolitano a dirlo, «una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse». Se il Pd non regge una vera intesa con Berlusconi, è perché ha costruito la sua identità e formato la sua base elettorale nell'averlo combattuto per vent'anni. Ora la sinistra si ritrova con il problema «delle identità dei partiti da preservare, delle differenze da salvaguardare, delle opinioni pubbliche di riferimento da considerare, che conservano un sentimento vivo delle identità politiche delle necessità, delle opportunità, ma anche delle incompatibilità», come riconosce Ezio Mauro (I limiti dell'emergenza, la Repubblica, 23 Aprile). Necessità, opportunità, incompatibilità non stanno logicamente sullo stesso piano. Non sono le necessità di provvedimenti impopolari a costituire problema, né lo sono le opportunità da cogliere con le leggi elettorali: il «disagio» è l'incompatibilità con Berlusconi. Ma, a ben vedere, neppure superarla deve essere un problema, e per la ragione elementare che il Pdl è un partito personale: l'era Berlusconi comunque volge al termine. Tutti dovranno, prima o poi, ragionare etsi Berlusconi non esset. La destra avrebbe già dovuto farlo, non fossero state prima le esitazioni di Monti, poi gli errori di Bersani, a consentirle di uscire dall'angolo: ma il problema si ripresenterà. Fare proprio il problema dell'avversario sarebbe un esempio del masochismo proverbiale della sinistra. Quando finiranno le malattie infantili?
Il governo come scuola di identità: questa è l'opportunità che il Pd non deve mancare. Certo, le identità si definiscono meglio stando all'opposizione, chi governa ha a che fare con la dura realtà, mentre all'opposizione è consentito indicare come trasformare il mondo. Quando finiranno le malattie infantili? È dal governo che bisogna parlare ai cittadini, se si vuole ristabilire la fiducia tra gli italiani e il sistema politico-istituzionale.
Con la rielezione di Giorgio Napolitano siamo entrati in una fase nuova. La discontinuità è sicura. Non è cambiato l'equilibrio politico, saranno ancora tre partiti maggiori che si confrontano. È cambiata la prospettiva entro cui destra e sinistra in Italia devono definire le loro identità politiche: comunque vada a finire. Le probabilità che vada bene aumentano se la sinistra fonda la propria identità sul dopo. Si pensa in particolare alle riforme istituzionali. La riforma della legge elettorale dovrebbe essere questa volta sicura, ma scongiurare la possibilità di stallo richiede il superamento del bicameralismo perfetto. Col che si deve metter mano alla Costituzione: a quel punto, tagliare il numero dei parlamentari favorirebbe la sopravvivenza di un rapporto fiduciario tra i partiti e la loro gente. Ma il punto chiave sarebbe mettere in Costituzione un presidenzialismo che si è già dimostrato necessario. Perché la sinistra non dovrebbe intestarsi questo obbiettivo? Perché arrivarci dopo? Cos'altro chiedeva il suo popolo nella vicenda Marini-Prodi-Rodotà, se non scegliersi il suo presidente? Questa sì che sarebbe una base solida per costruire la propria identità.

Corriere 27.4.13
Il Pd e la minaccia ai dissidenti: gli ex Dc «copiano» il peggio del Pci
di Maria Teresa Meli


Un partito che sia un partito, che abbia una linea e un leader riconosciuti, non minaccia espulsioni. Non ne ha bisogno. Non deve legittimarsi attraverso la delegittimazione dell'altro. Questo vale per tutte le forze politiche. Tanto più per il Partito democratico. Se non altro perché la maggioranza dei dirigenti del Pd ha una storia di comunismo alle spalle e per tutti loro quella parola coincide, in modo scabroso, con un passato che si vorrebbe dimenticare.
Un partito che sia un partito non dà l'immagine di una forza politica invasiva che riunisce un comitato centrale dei tempi che furono per eliminare i dissidenti. Ma lavora, in silenzio, perché le defezioni si contino sulle dita di una mano. La singolarità del Pd sta nel fatto che a minacciare di espellere quanti non voteranno la fiducia, sono stati gli ex democristiani che, a quanto pare, grazie alla fusione, dagli ex comunisti hanno mutuato solo i cattivi costumi.
Sia bene inteso, nessuno vuole fare l'elogio dell'anarchia. È ovvio che se un parlamentare non vota la fiducia al governo sta fuori. Ma non c'è bisogno di dirlo. È un divorzio consensuale, non un ripudio. E si dà per scontato in ogni Paese del mondo civile in cui le forze politiche si dividono o si uniscono secondo canoni laici: l'avversario, interno o esterno che sia, non è mai il Nemico con la «N» maiuscola. Quindi non c'è neanche bisogno di esplicitare quella parola che dà i brividi: espulsione.
Se invece si insiste, significa che qualche problema c'è. E se a pronunciare l'anatema è Francesco Boccia, un amico e un collaboratore del premier incaricato, o Rosy Bindi, presidente dimissionaria del Partito democratico, entrambi ex democristiani, significa che quel problema è amplificato a mille. Perché da quella fusione, a caldo o a freddo che sia stata, ognuno ha preso il vizio dell'altro e non la virtù. Non si è mescolato il meglio, ma il peggio. Senza contare che la minaccia di espulsioni, quando viene da un partito acefalo e, a tratti, afasico, non fa paura: fa ridere.

Repubblica 27.4.13
Quei paletti insormontabili
di Pietro Ignazi


LA SINTESI di Enrico Letta è perfetta: «Governo sì, ma non a tutti i costi». Sarà però difficile per il candidato premier trovare un punto di equilibrio perché alcuni costi sono «insopportabili» tanto per il paese quanto per il Pd. Il primo riguarda, ovviamente, i punti qualificanti del programma. Il governo non può certo abdicare alla politica economica definita dal governo Monti in accordo con l’Europa.
Il che significa, in primis, che il pareggio in bilancio, tranquillamente inserito in Costituzione senza alcun dibattito, vincola le scelte in maniera molto stringente. Lo si è già visto quando il governo per gli affari correnti, nei suoi ultimi sussulti, ha varato lo sblocco dei pagamenti dell’amministrazione pubblica alle aziende creditrici: le varie limature al provvedimento derivavano proprio dal contemperare un iter veloce con le rigorose linee guida definite in sede comunitaria.
Il pareggio di bilancio è una linea del Piave. Provvedimenti di finanza creativa o di allentamento del rigore non sono consentiti se non in misura limitata. E qui sorge il problema dell’Imu. Berlusconi ne ha fatto un punto irrinunciabile. È perfettamente comprensibile che non voglia rinunciare al suo cavallo di battaglia. Se vince su questo punto sfonda su tutta la linea: dimostra di essere lui la vera guida del governo, e che la sua proposta, condannata da tutti – Mario Monti, strabuzzando gli occhi alla sua maniera, se ne uscì parlando di grave irresponsabilità – in realtà era giusta. Quindi se Letta – e Monti – cedono su questo, il governo prende una chiara curvatura berlusconiana.
Altrettanto decisiva è la presenza di ex ministri dell’ultimo governo Berlusconi nella lista di Letta. Il ritorno degli ex ministri fornisce una plastica conferma della validità del loro operato fino al novembre 2011. In questo modo la narrazione berlusconiana della caduta del governo della nomina di Monti come l’interruzione a tradimento di un onesto lavoro per il bene del paese, diventerebbe una verità incontestabile. Il governo tecnico e le elezioni non sarebbero altro che un fastidioso intermezzo in una lunga e gloriosa cavalcata alla guida del paese. E se eravamo sull’orlo della bancarotta questo era solo colpa della Merkel.
Prima di consegnare le chiavi (simboliche) del governo al Cavaliere va poi considerato un’altra questione decisiva: l’ostilità dell’establishment internazionale nei confronti di Berlusconi. La sua ombra lunga sul giovane Letta inquieta i mercati e fa storcere il naso alle cancellerie. Oltralpe non dimenticano con la nostra facilità i suoi propositi di ritornare alla lira, di rinegoziare tutto a Bruxelles, di “fargliela vedere” alla Cancelliera. La rispettabilità faticosamente riguadagnata da Monti svanirà in un battibaleno: ritorneremo il paese del bunga bunga. È un costo che possiamo permetterci?
Infine, planando sul terreno più squisitamente politico, cosa deve fare il Pd del programma di cambiamento proposto da Bersani subito dopo le elezioni e che aveva al suo primo punto il conflitto di interessi? Il centrosinistra è stato messo alla gogna per anni e da tutti (non solo dai grillini, buoni ultimi in questo) per non avere mai risolto questo problema. Se non lo affronta, le accuse di tradimento e connivenza con il “nemico” lo faranno a fette. Se lo ripropone, il governo non vede la luce. Un bel dilemma per il presidente incaricato. Un dilemma che comporta, in modo o nell’altro, costi elevatissimi per il Pd. Il vicesegretario del partito ha giustamente accettato l’incarico con riserva perché le trappole del Cavaliere sono insidiose. Valuti i costi sopportabili e non, senza dimenticare cosa è stato il berlusconismo (e una lettura di
tutti quotidiani del novembre 2010 potrebbe confortarlo), e tenendo conto dei vincoli europei e della nostra immagine nel mondo. E infine, non dimentichi che il Pd, per quanto scosso, è ancora il partito di maggioranza assoluta nella Camera dei deputati. Senza il suo consenso non si muove foglia.

l’Unità 27.4.13
Facciamo presto. Salviamo i nostri figli
Da vent’anni a regolare le politiche su scuola e cultura c’è un solo principio: quello contabile
di Angela Cortese

Consigliere regionale Pd Campania

I FOCOLAI CHE STANNO DIVAMPANDO A MACCHIA DI LEOPARDO IN TUTT’ITALIA CI NARRANO CON CADENZA QUOTIDIANA IL DRAMMA DI UNA GENERAZIONE ORFANA. Solo pescando dalla cronaca degli ultimi giorni: un quattordicenne ucciso per mano di un diciassettenne ad Aversa, baby gang che imperversano aggredendo anziani e bambini, risse e accoltellamenti tra minori, un papà che per festeggiare i 18 anni del figlio lo porta con tre amiche meno che adolescenti a Scampia a comprare la cocaina.
Basta unire i puntini, come si fa in quel vecchio gioco della «Settimana enigmistica», per avere limpido, in tutta la sua gravità, il quadro di un disfacimento educativo e morale che bussa con violenza alle nostre porte. E non si tratta, attenzione, di episodi isolati né tantomeno di fenomeni relegati al solito Mezzogiorno derelitto, che pure denuncia le sue peculiari e profonde sofferenze.
C’è un’intera comunità nazionale che sotto i nostri occhi sta deragliando dai binari del buonsenso e del controllo sociale. E c’è stata una lunga, interminabile stagione che ha visto le istituzioni abdicare al proprio mandato fondamentale: quello di formare, a cominciare dai più giovani, una coscienza e un’etica condivisa.
Del resto, non c’è molto da stupirsi se si pensa che da vent’anni in questo Paese a regolare le politiche su scuola e cultura è un unico principio: quello contabile. E a forza di tagliare, ecco che ci resta tra le mani: una società nella quale a 14 anni si è già assassini o vittime.
In un Paese che sulla cultura potrebbe «e dovrebbe» fondare la propria prospettiva di sviluppo e alla scuola dovrebbe affidare la tenuta a lungo termine sul fronte della competitività, il futuro non solo non si costruisce ma nemmeno si immagina. E se manca un progetto di società, se manca il coraggio della lungimiranza, è fatale che nel vuoto proliferino i disvalori.
Siamo felici di sentir dire di una camorra «quasi sconfitta», ma neanche certe parole di speranza riescono a sollevarci dallo sgomento per questi figli dell’abbandono. Figli di una generazione che non c’è stata, una generazione degenerata, che ha sempre delegato. Figli di una solitudine insostenibile, che quando va bene si identificano nel falso mito di un bullo da reality show e quando va male in quello di un boss.
Osservati i sintomi, la diagnosi è tragicamente scritta: il vuoto di progetti e di idee sulla scuola e sulla cultura ha messo in moto un meccanismo distruttivo, lasciando campo libero alle seduzioni nichiliste di un successo a buon mercato. Quel vuoto di proposte e di interesse ha prima creato il mostro e poi lo ha nutrito. Ha attribuito a quei modelli deviati una consistenza e una credibilità.
Insomma, non c’è più un minuto da perdere. Bisogna invertire la rotta subito e senza sconti. Per farlo, serve il coraggio di fermarsi per ripartire con ordine. Poi, serve il coraggio delle scelte. Anche drastiche, se occorre.
La conclusione sta in alcuni punti interrogativi che, da educatrice, da insegnante e da rappresentante delle istituzioni non mi danno pace: cos’altro deve ancora accadere perché i governi locali e nazionali si decidano a rimettere da domani mattina, l’educazione in cima alla lista delle priorità? Cosa deve accadere, ad esempio, perché nel bilancio della Regione Campania, che con fatica si sta cercando di approvare, compaia finalmente la parola «scuola»? Che cosa deve capitare ai nostri ragazzi perché qualcuno cominci a progettare una vera, organica alternativa alla dittatura della telecrazia e della violenza?

La Stampa 27.4.13
L’appello di Telefono rosa
“Ora serve una norma ad hoc per fermare la strage delle donne”
di Grazia Longo


Altro che «Finché morte non ci separi». Le parole che in un quadro romantico e idilliaco possono avere un valore benaugurale sulla durata di una relazione, suonano ormai sempre più sinistre.
L’uccisione delle donne fenomeno noto come femminicidio - si consolida come una realtà a cui ci stiamo tristemente abituando. I dati sono allarmanti: negli ultimi 18 mesi, nel nostro Paese viene ammazzata una donna quasi ogni due giorni. Dall’inizio dell’anno sono già 21 le vittime di questa strage talmente strisciante e frequente da ottenere sempre meno prime pagine e titoloni sui giornali. «E invece non dobbiamo tacere - insiste la presidente del Telefono Rosa, Gabriella Moscatelli - Anzi dobbiamo farci sentire per prevenire e combattere un fenomeno che l’anno scorso ha registrato 127 vittime».
Una legge specifica «sul delitto di genere, quello appunto delle donne» è l’obiettivo più dirompente. «Lo chiediamo a gran voce al governo che sta per insediarsi - prosegue Moscatelli - Esistono tre proposte di legge ancora nel cassetto, è tempo di passare ai fatti».
Non solo con una norma ad hoc, ma anche con la ratifica alla Camera dei deputati del «Trattatto di Instabul», già firmato dal ministro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero. Un provvedimento assai importante perché si occupa, tra l’altro, della «violenza assistita», ossia della frequenza sempre più crescente con cui i bambini e i ragazzi assistono a episodi di violenza subiti dalla madre. Il dato forse più impressionante che emerge dal campione di 1.562 donne che si sono rivolte a Telefono Rosa nel corso del 2012, è proprio quello dell’82% che dichiara di avere figli che assistono alle violenze, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. Per il resto, i numeri annuali dell’Osservatorio del Telefono Rosa confermano che il tragico volto della violenza sulle donne non cambia. L’autore è il marito (48%), il convivente (12%) o l’ex (23%), un uomo tra il 35 e i 54 anni (61%), impiegato ((21%), istruito (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea). Insomma, un uomo «normale». La maggior parte delle violenze continuano ad avvenire in casa, all’interno di una relazione sentimentale (84%), in una famiglia «normale». Per non parlare dell’atteggiamento persecutorio, lo stalking, che continua a perseguitare una donna anche dopo la dine di una relazione.
Le denunce alle forze dell’ordine, ma anche una telefonata a uno dei tanti Centri ascolto (e non solo del Telefono Rosa) sono fondamentali. «Non bisogna rimanere incastrate dalla convinzione “Io ti salverò” - conclude Gabriella Moscatelli - Bisogna chiedere aiuto subito dopo le prime avvisagli. Uno schiaffo costituisce già un precedente che può preludere ad un’escalation mortale».

Repubblica 27.4.13
Lo psichiatra Pietropolli Charmet
“Il sesso èanche amore insegniamo ai ragazzi aviverlo serenamente”
intervista di Elena Dusi


ROMA — «Un problema educativo reale ». L’invasione della pornografia richiede senza alcun dubbio un intervento da parte delle scuole, secondo lo psichiatra dell’adolescenza Gustavo Pietropolli Charmet. «È importante costruire una cintura sanitaria attorno alla testa dei ragazzi per aiutarli a difendersi da chi vende sostanze e comportamenti stupefacenti. E la pornografia ricade sicuramente in quest’ultima categoria».
La scuola è l’ambiente adatto?
«Ne sono convinto. In famiglia discutere di sessualità è più complicato. A scuola bambini e ragazzi si ritrovano insieme, maschi con femmine, in un ambiente che per sua natura è teso all’apprendimento e al raggiungimento di consapevolezze. Almeno per quanto riguarda l’educazione sessuale, che è un mix di biologia e di introduzione al mondo delle emozioni, l’insegnamento dovrebbe iniziare già alle materne e alle elementari, prima ancora della pubertà».
Quali sono i rischi, senza questa “cintura sanitaria”?
«Nella pornografia non c’è ombra di reciprocità o affetto. È un’eccitazione senza amore. Il tono tende sempre al macabro, al sadico e alla violenza. Il desiderio può essere rivolto indifferentemente a esseri umani, animali, oggetti. Immagini simili potrebbero istigare gli adolescenti a un sesso di gruppo, fortuito, rapido, tendenzialmente violento, magari accompagnato da alcool, in ogni caso esercitato al di fuori di qualunque situazione affettiva».
In concreto come immagina una lezione di educazione alla consapevolezza della pornografia?
«Come una vera e propria educazione all’immagine. Dovrebbe insegnare ai ragazzi a distinguere tra ciò che è brutto e fuorviante rispetto alla realtà e ciò che invece è esteticamente accettabile. L’obiettivo è arrivare a vivere una sessualità libera, non schiava delle immagini pornografiche. Bisogna cancellare l’immagine del sesso come godimento senza amore, come prova ginnico atletica o esercizio a corpo libero che nelle immagini porno trova le sue ispirazioni».
Distinguere il sesso della pornografia dal sesso della realtà è uno degli obiettivi dell’iniziativa inglese.
«Il rischio di restare delusi dal sesso reale, dopo il consumo di immagini pornografiche, esiste. Ma è da se stessi che spesso si finisce con il restare delusi, più che dal partner».

il Fatto 27.4.13
Italia solidale
Emergency, il nuovo fronte è a Palermo Cure gratis per i poveri
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Rosario è un operaio della Gesip che chiede una visita oculistica: formalmente ha un contratto di lavoro, ma non prende lo stipendio da cinque mesi e non può pagare il ticket: solo 40 euro, che incidono però pesantemente sul bilancio familiare monoreddito, senza alcuna entrata certa. Dietro di lui c’è Benedetto. Ha perso da poco il lavoro e la moglie ha bisogno di una terapia che costa 90 euro per un farmaco non prescrivibile, da prendere ogni settimana: 360, 400 euro impossibili da spendere. Attendono pazientemente il loro turno in una fila di cittadini extracomunitari nel poliambulatorio di Emergency in via Gaetano La Loggia, a Palermo, tra i pannelli con le foto di Mario Dondero, il fotografo di Pasolini che ha ritratto in bianco e nero la nuova frontiera dell’assistenza sanitaria nel capoluogo siciliano. L’ultima spiaggia per migliaia di palermitani che hanno smesso di bussare alle porte delle strutture pubbliche perché non possono pagare il ticket, o perché dissuasi dalle interminabili liste di attesa. Nella Sicilia dello sfascio sanitario oggi pagato a caro prezzo, l’ambulatorio di Gino Strada ha iniziato da qualche mese a svolgere un ruolo di supplenza sociale, in molti casi determinante. Il campanello d’allarme é suonato due mesi fa con l’istituzione delle prime liste d’attesa: “Non le abbiamo mai avute – dice il coordinatore medico Antonio Romano, volontario come gli altri 70 professionisti – oggi per essere visitati dai nostri dentisti bisogna attendere circa 40 giorni. Un tempo improponibile’’. Vicina all’ex ospedale psichiatrico, la palazzina di Emergency ha aperto il 3 aprile del 2006 con 73 medici, tutti volontari, e sette dipendenti: due mediatori culturali, due amministrativi e due “poltronisti’’, tecnici di ortodonzia, coordinati da Muhammad Abdul Fatah, un immigrato etiope sbarcato anni fa a Lampedusa e rimasto in Sicilia dopo avere ottenuto l’asilo politico, e oggi animatore del centro di Gino Strada.
IN ARCHIVIO ci sono quasi 12 cartelle intestate a pazienti assistiti, e le prestazioni erogate in sette anni sono quasi 70mi-la; la maggior parte sono immigrati che non trovano ascolto nelle strutture pubbliche e tra i medici di base che non parlano né francese né inglese: ma la percentuale di palermitani é in vertiginosa crescita: “Vengono a chiedere farmaci, i soldi per il ticket, le protesi e gli occhiali – dice Abdul Fatah – vengono i senza tetto che senza la casa, e quindi la residenza, non possono nominare un medico di base. Ascoltiamo tutti, cercando di fornire sempre una risposta’’. I tagli alle prestazioni gratuite hanno creato situazioni paradossali: se i disoccupati sono esenti dal pagamento del ticket, gli inoccupati (quelli in cerca di prima occupazione) devono pagarlo, e a Palermo sono oltre centomila. “In una terra in cui il lavoro nero è la prassi – osserva Romano – si tratta di una categoria non valutabile: noi non siamo la Guardia di Finanza, anche se cerchiamo di ascoltare tutti’’. E se il protocollo firmato con la regione prevede una rigida divisione degli ambiti di intervento, vietando a Emergency di entrare in competizione con la struttura pubblica, oggi a Palermo sono gli ospedali ad inviare i pazienti nel poliambulatorio di via La Loggia, in particolare le donne incinte bisognose di un’ecografia: ‘’All’inizio fu un foglietto a quadretti strappato con su scritto Emergency – racconta Romano – e affidato alle donne in gravidanza. Poi dagli ospedali abbiamo cominciato a ricevere le prime, timide, telefonate che ci pregavano di supplire ad un servizio che non riuscivano a garantire. Ora ci considerano parte del sistema e s’incazzano se gli facciamo presente che neanche noi riusciamo a fare tutto. Dovrebbero essere i consultori a svolgere questo ruolo, ma non hanno neanche l’ecografo’’. Oltre a Emergency, in queste condizioni a Palermo ci sono altri quattro ambulatori che offrono assistenza sanitaria per i più poveri e per gli ultimi: il Centro Astalli a Casa Professa, la Caritas Diocesana a Santa Chiara, la Medicina delle Migrazioni al Policlinico e il centro di solidarietà di Biagio Conte, che oltre a fornire un letto e un pasto caldo, ha una piccola attività ambulatoriale di prima accoglienza.

Corriere 27.4.13
La morte nella fabbrica dei nostri jeans
Il crollo di Dacca, le oltre 300 operaie uccise. E la Ue chiede regole
di Michele Farina


Sofura Begum è rimasta 27 ore sotto la sua odiata amata macchina da cucire, schiacciata tra il muro e il macchinario, al buio. Quella che fino alle nove di mercoledì mattina era una grande fabbrica di vestiti a otto piani alla periferia di Dacca in pochi secondi si è trasformata in un telaio di morte, la Ground Zero del Bangladesh: poteva muovere soltanto le palpebre, ha raccontato Sofura al quotidiano The Daily Star, e aveva una sete così spaventosa da benedire la collega che per bagnare le sue labbra riarse ha strisciato fino a lei dandole tutto ciò che aveva, un po' di saliva.
Malgrado le ferite alla testa e alle gambe la signora Begum, come altre 2.200 persone, è sopravvissuta al crollo del Rana Plaza. La conta dei cadaveri portati nella scuola vicina è provvisoria: 304 ieri sera, con centinaia di nomi che mancano all'appello. Pompieri e volontari scavano da giorni nell'ammasso di cemento e tessuti colorati, stoffe diventate funi con cui calarsi fino alla salvezza, o barelle di fortuna, o sudari per i morti. Sofura è fortunata: lavorava al terzo piano e in un attimo si è ritrovata risucchiata in quello di sotto, con la macchina da cucire addosso, viva. Fino a mercoledì cuciva camicie per la Phantom Apparel, una delle cinque ditte del formicaio chiamato Rana Plaza (in tutto 3.122 dipendenti, in gran parte donne) che produceva 3 milioni di capi di abbigliamento all'anno per grandi (e piccoli) marchi occidentali, dall'Inghilterra agli Usa (dall'Italia Benetton ha smentito ogni rapporto con le ditte coinvolte nel crollo). Ma in qualche modo la Phantom e le sue migliaia di sorelle (il Bangladesh è il secondo esportatore al mondo di tessile dopo la Cina) sono davvero aziende «fantasma», di cui tutti (autorità, committenti, clienti) ci dimentichiamo fino a quando non accade una nuova tragedia. Sofura, mamma divorziata, voleva bene alla fabbrica che produce le nostre T-shirt e i jeans a prezzi scontati, la fabbrica che per milioni di donne come lei è stata anche luogo di emancipazione, la fabbrica che da tre anni dava da vivere a Regina e Sohel, i suoi bambini lasciati in provincia. Le donne come Sofura vogliono (volevano) bene alla fabbrica più o meno quanto noi amiamo l'abbigliamento low-cost, anche se l'orario lievita dalle 8 ore di contratto alle 18 a ridosso della consegna, anche se lo stipendio (talvolta di 30 euro) non arriva ogni mese (Sofura si era appena fatta prestare i soldi dallo zio per comperare un chilo di riso), anche se il giorno prima del crollo sulle pareti del Plaza erano apparse crepe minacciose e il palazzinaro Rana si era fatto intervistare: «Nessun pericolo». I manager delle ditte di abbigliamento avevano diffuso messaggi più discreti: «Venite a lavorare, tutto a posto», aveva fatto sapere il capo di Sofura, aggiungendo una minaccia più grande di una crepa: «Altrimenti vi lasciamo a casa e vi scordate gli arretrati».
Ieri il padrone del Plaza, Sohel Rana, 30 anni, era l'uomo più ricercato del Bangladesh mentre i manager delle ditte in questione dovranno presentarsi alle autorità entro il 30 aprile. Secondo alcune fonti l'edificio era omologato per cinque piani (gli altri tre abusivi). La premier in persona, Sheikh Hasin, ha ordinato l'arresto di Rana negando in Parlamento i suoi legami con l'Associazione giovanile dell'Awami League, il partito di governo. Dieci anni fa, partendo da un pezzo di terra acquitrinosa lasciatogli dal padre che produceva olio di senape, Rana si impossessò con le minacce (e gli appoggi politici) del resto dello stagno. Lì sorse il palazzo a otto piani crollato mercoledì, un'ora dopo l'inizio del primo turno di lavoro. In seguito all'allarme del giorno prima, i negozi e la banca al piano terra erano chiusi. Le «aziende fantasma» no, avanti con la produzione. Le fabbriche-formicaio sono spesso ricavate da palazzine pseudo-residenziali, con vie di uscita inadatte o chiuse dall'esterno per impedire l'allontanamento dei lavoratori e delle lavoratrici (su 4 milioni di dipendenti del tessile, oltre 20 miliardi di dollari di fatturato, quattro quinti sono donne). Lo scorso novembre un incendio bruciò vive 112 operaie che facevano golf e calzoncini per il mercato estero. Altri 41 «incidenti» hanno costellato il 2013. Le aziende occidentali che si riforniscono in Bangladesh a ogni tragedia rispondono lanciando proclami per condizioni di lavoro migliori. Anche questa volta dall'estero è arrivata una raffica di condoglianze e dinieghi che sembrano fatti apposta per non sporcarsi l'immagine.
L'Europa è il maggior mercato del tessile made in Bangladesh. A Bruxelles il commissario agli Affari Sociali Laszlo Andor ha detto ieri che «questa tragedia ci ricorda l'importanza della cooperazione in seno all'Organizzazione Mondiale del Lavoro». Da mesi la Commissione Europea lavora a un piano per promuovere norme più stringenti, il Parlamento di Strasburgo ha invitato le aziende a rivedere la catena di produzione. La responsabile della nostra diplomazia Catherine Ashton quest'anno ha esortato il governo di Dacca a rispettare le norme internazionali. Adesso cambierà qualcosa? Migliaia di persone ieri hanno manifestato la loro rabbia in diverse città. Il governo ha stabilito per oggi (sabato) un giorno di lutto: niente lavoro (e meno occasioni per manifestare). Tra il cemento e i tessuti colorati si continua a scavare. Sofura Begum, quando è tornata alla luce, ha telefonato ai suoi bambini. Soufuddin Sheikh invece ieri guardava il volto del suo unico figlio estratto dal Rana Plaza: «E' questo che porterò ai miei nipoti? Un padre morto e una mamma rimasta sotto le macerie?».

Corriere 27.4.13
Rogo all'ospedale psichiatrico, 38 morti

MOSCA — Sono morti carbonizzati nel cuore della notte: un incendio in un ospedale psichiatrico alla periferia di Mosca ha ucciso 38 persone, la gran parte pazienti che dormivano sotto sedativi e non sono riusciti a scappare. Solo un'infermiera è sopravvissuta portando in salvo due ricoverati. I pompieri hanno impiegato oltre un'ora ad arrivare: la caserma più vicina si trova a 50 km. La tragedia, probabilmente accidentale, allunga l'elenco di roghi mortali in Russia (12 mila morti in incendi nel 2011) e ripropone il problema della sicurezza in questo tipo di istituzioni, e quello dell'efficacia dei soccorsi al di fuori delle grandi città. La regione di Mosca ha proclamato per oggi un giorno di lutto.

Corriere 27.4.13
Canfora, l'antico gioco del potere che avvicina Pericle e Angela Merkel
Il filologo denuncia l'oligarchia finanziaria. E difende De Felice
di Paolo Franchi


Storico del mondo antico, filologo classico, saggista e dotto polemista, Luciano Canfora non ha bisogno di presentazioni ai lettori del «Corriere della Sera». Per scrivere di questa bella Intervista sul potere in uscita per Laterza, e delle risposte che vi dà alle domande (spesso puntute, mai corrive) di Antonio Carioti, più che soffermarsi sulla sua biografia politica e intellettuale, è forse il caso di tenere ferme due sue affermazioni di carattere generale.
La prima riguarda lo «sforzo di chi scrive la storia», che, a giudizio di Canfora, «deve consistere nel capire le ragioni di chi viveva allora, non nel giudicare il passato secondo i criteri di oggi». La seconda concerne quel «pensiero analogico» che Canfora trova rispettabilissimo fin da quando, sedicenne, lesse le pagine in cui Tucidide descrive come un regime democratico, nell'Atene del V secolo a.C., si suicida votando in assemblea i provvedimenti destinati a esautorarlo, nei giorni stessi del suicidio della Quarta Repubblica francese di fronte a quello che, ai suoi occhi di sostenitore convinto della democrazia parlamentare, resta ancora «il colpo di Stato» del generale Charles de Gaulle. A rendere utile e magari necessaria la ricerca di un nesso «non velleitario» tra vicende storiche di epoche diverse, sostiene Canfora, non è tanto l'immutabilità della natura umana, quanto piuttosto la ripetitività delle dinamiche politiche.
L'assunto è, fuor di dubbio, interessante. Anzi, affascinante. Anche se molte delle tesi sostenute sulla sua scorta nell'intervista curata da Carioti, che spazia in modo affascinante dall'antichità greca e romana alla crisi italiana dei nostri giorni, passando per la rivoluzione americana e soprattutto quella francese, Napoleone, il Risorgimento, l'Ottobre sovietico, Gramsci, Stalin, Roosevelt, il fascismo, il nazionalsocialismo e molto altro ancora, non sono sempre, almeno agli occhi di scrive, convincenti.
Cito (volutamente) alla rinfusa. Davvero la Cina attuale è un «gigantesco nazionalsocialismo»? Davvero Giovanni Paolo ha incarnato il «socialismo feudale» di cui parlò Karl Marx? Davvero Enrico Berlinguer e il suo Pci si mossero entro quell' orizzonte socialdemocratico che fin dagli anni Settanta (con buona pace di chi lo considera un veterocomunista) Canfora considerava acquisito e imprescindibile? Davvero, per contestare i limiti (o peggio) della costruzione europea, si può tracciare un parallelo tra il disegno a suo modo (e che modo!) «europeista» di Adolf Hitler e la politica di Angela Merkel?
Queste e altre consimili affermazioni, con tutto il loro ricco corredo storico e filologico, restano delle più o meno felici provocazioni intellettuali. Che però hanno l'indiscutibile merito di provare a farci ragionare fuori dal chiacchiericcio e da schemi ideologici deboli e già consunti prima ancora di essere compiutamente formulati. Un esempio per tutti. Si può discutere, e del resto da tempo si discute, sulla tesi secondo la quale la rivoluzione russa e quella cinese sono state soprattutto le forme assunte dalla modernizzazione in quegli sterminati Paesi. Non si può, o non si dovrebbe, più mettere in discussione né il fatto che siano state tappe essenziali di una storia che non è finita, con buona pace di Francis Fukuyama, nel 1991 (senza Ivan il Terribile e Pietro il Grande non si capisce Stalin, senza Stalin non si capisce Vladimir Putin; e ci sarà pure un motivo se l'icona di Mao Zedong sovrasta tuttora indiscussa la Cina) né il nesso che le lega ad altre e opposte rivoluzioni del Novecento (il fascismo e, soprattutto, il nazismo) così come a Roosevelt e al New Deal.
«Nessuna esperienza storica può essere valutata come se fossimo il padreterno con intorno gli angeli del giudizio universale. Vale per il fascismo come per il comunismo», dice Canfora ricordando gli «attacchi» e le «strumentalizzazioni senza senso» di cui fu oggetto Renzo De Felice, reo di aver studiato il fascismo come era giusto che fosse, rifiutandosi cioè alla logica di un «giudizio monolitico e uniforme»: e su questo è davvero difficile non convenire.
Qualche parola, infine, sulle conclusioni cui giunge Canfora. Secondo il quale il rapporto, sempre conflittuale, e comunque incerto e instabile, tra democrazie e oligarchie volgerebbe ormai tutto a vantaggio delle seconde, giacché sarebbero organismi non democratici, ma tecnici, legati al grande potere finanziario sovranazionale, a dettare le regole e le finalità stesse del gioco: inutile sorprendersi se, in un simile contesto, dilagano populismi vecchi e nuovi (grillismo compreso) nei cui confronti, peraltro, Canfora non dissimula un profondo fastidio politico e intellettuale.
Per quanti, non pochi, elementi di verità questo giudizio contenga (chi scrive resta convinto del fatto che il divorzio tra la sinistra, la sua storia e il suo popolo rappresenti da decenni uno dei più potenti fattori di crisi democratica), il suo catastrofismo, e anche il suo carattere semplificatorio, balzano agli occhi. È vero, Canfora non si sottrae affatto al realismo, anzi, si chiede pure perché mai, di fronte a elezioni che hanno consegnato a ciascuno di loro grosso modo il 25 per cento dei voti, non solo il Pd e il Pdl, ma pure il Movimento 5 Stelle, non facciano insieme un governo. Ma è, in fondo, una domanda retorica. I perché, o almeno i suoi perché, li conosce benissimo. E in questo libro li ricostruisce. Passando attraverso non venti, ma duemilacinquecento anni e passa anni di storia.

La Stampa 27.4.13
Alla “guerra dei sessi” vince la scienza
Giorgio Marchesi conduce il programma tra documentari scientifici ed esperimenti estremi
di Egle Santolini


Giorgio Marchesi, il bel giornalista avventuroso del Medico in famiglia, in inedita chiave perversa, bastone e barba incolta, che ti spiega che cos’è il piacere e perché confina col dolore: è una delle sorprese nella seconda serie di La guerra dei sessi, il programma di DeASapere HD in onda dal 2 maggio. All’introduzione di Marchesi (dalle stanze patrizie di Villa Bozzolo di Casalzuigno, patrimonio Fai), che racconta di essersi ispirato a Faust ma pure al dottor House, faranno seguito per sette giovedì di seguito, alle 20:50, al canale 420 di Sky e fino al 15 maggio anche al 131, alcuni dei migliori documentari scientifici in circolazione, in primis di provenienza Bbc, sui misteri e i pregiudizi della psicologia umana, con speciale riferimento alle differenze di comportamento fra maschi e femmine.
Ma dimenticatevi qualsiasi pedanteria, perché la parola d’ordine è factuality, cioè vivere in prima persona per dimostrare. Nella puntata che è stata presentata in anteprima alla stampa, per esempio, si assiste al volenteroso sacrificio del giornalista scientifico britannico Michael Mosley, che per scandagliare i misteri dell’ossitocina e della serotonina si getta a capofitto per 200 metri col bungee jumping, fa indigestione di cioccolato (lì sì che l’orgasmo si tramuta in piccola morte) e partecipa a una degustazione verticale di peperoncini, da quello più innocuo all’esplosivo Naga dell’India nord-orientale. Marchesi, lei nel caso sarebbe disposto?
«Bisogna che mi ci attrezzi, ma certo questo programma di cose me ne ha insegnate». Per esempio? «Che le donne sono più fantasiose nella risoluzione dei problemi, ma che hanno bisogno di discuterne. Mentre se chiedete a noi uomini di condividere quel che non va ci fate soltanto un dispetto».
Padre di due figli, uno di sei anni e l’altro di tre mesi, Marchesi si è sentito molto coinvolto nelle sequenze girate da Mosley in una nursery inglese: «Piangete, commuovetevi, che dopo, con i pannolini da cambiare, non ne avrete più il tempo! ». E intanto l’uomo che potenzialmente potrebbe chiedergli di ingollare i peperoncini, cioè Massimo Bruno, direttore dei canali De Agostini, si chiedeva come mai in Italia non si faccia più divulgazione in tivù, visto che di certo si aprirebbero orizzonti sconfinati: «Il successo di ascolti dei Segreti di Leonardo, andati in onda il 15 aprile, mi fa capire che questa è la strada giusta. Leonardo è roba nostra, un orgoglio nazionale. I colleghi di Zodiak (la società di produzione con sede a Parigi e a Londra che è controllata da De Agostini, ndr) proprio questo ci sollecitano: coproduzioni in cui trovino posto e rilievo i contenuti che fanno parte del nostro patrimonio. Abbiamo cominciato a parlare di un prossimo Caravaggio». La nuova frontiera è il factual: Bruno dice meraviglie di un format inglese di cui DeASapere sta doppiando la versione americana, The Secret Millionaire, incentrato sul ritorno in incognito di uomini che hanno fatto una grande fortuna nella propria comunità d’origine, con inaspettati risvolti emotivi e sociali.
Quanto ai programmi di Giorgio Marchesi, ancora Una grande famiglia e ancora voglia di cinema, dopo i due Ozpetek Mine vaganti eMagnifica presenza: «Anche se chi fa fiction purtroppo non ha sempre la disponibilità di tempo da dedicare ai set cinematografici».

La Stampa 27.4.13
Shakespeare e Cervantes un incontro da letteratura
di Osvaldo Guerrieri


Nel 1605 William Shakespeare e Miguel de Cervantes si incontrarono a Valladolid. Detto così sembra vero. Invece è una fandonia inventata da Anthony Burgess nel radiodramma Incontro a Valladolid reso disponibile in italiano dalla succosa traduzione di Masolino d’Amico e collocato dalla regista Consuelo Barilari al centro di un piccolo festival dedicato proprio ai due sommi in occasione della Giornata internazionale del Libro. Lo strano incontro non è del tutto campato in aria. Will e Miguel hanno pubblicato nel medesimo anno (il 1600) due capisaldi della cultura occidentale quali Amleto eDon Chisciotte, sono morti nello stesso giorno, il 23 aprile 1616 che però, per la difformità del calendario inglese da quello spagnolo, cadeva con una settimana di differenza. Pur nella separatezza erano perciò contigui.
Dentro un fitto programma di tavole rotonde e di film, ecco dunque la fantasticheria di Burgess. Shakespeare arriva in Spagna con i King’s Men (i suoi attori) al seguito di una missione diplomatica che ha lo scopo di festeggiare la pace tra Spagna e Inghilterra nel nome della cultura. Il Bardo soffre moltissimo la trasferta e non nasconde la repulsione per i costumi forti locali (ad esempio per la corrida). Condotto al cospetto di Cervantes, prova per lo sconosciuto un’immediata antipatia. L’hidalgo ostenta una superiorità derivata dalla fede cattolica e dal fatto che Shakespeare sia un autore di tragedie, mentre tutti sanno che il massimo dell’arte sta nella finezza della commedia. Il dialogo finisce qui. Sempre più inorridito, Shakespeare fugge.
Il radiodramma ha un numero enorme di personaggi, salta da un’epoca all’altra, racconta una città pulciosa, beona, crudele. Consuelo Barilari lo colloca in uno studio radiofonico, finge una trasmissione in diretta con quattro attori che hanno avuto il testo all’ultimo momento e sono costretti a interpretare tutti i ruoli e a fare i rumoristi. I quattro malcapitati sono i bravissimi Roberto Alinghieri, Marco Avogadro, Francesco Bonomo e Adolfo Margiotta. Allo scoccare delle pause pubblicitarie fingono di scambiarsi opinioni su ciò che stanno facendo, si danno consigli e si correggono a vicenda. Recitano insomma al quadrato, finiscono per sovrapporsi a Burgess in una ilare falsificazione della Storia.
Lo spettacolo sarà in tournée italiana e il radiodramma replicato.

La Stampa TuttoLibri 27.4.13
Dai lumi a Internet: è esplosa la conoscenza
«Dall’Encyclopédie a Wikipedia» Peter Burke (Il Mulino)
di Massimiliano Panarari


È una sorta di opera mondo la Storia sociale della conoscenza scritta da Peter Burke, uno dei maggiori e più famosi studiosi di cultural history (e di storia dell’età moderna). Dopo aver pubblicato, alcuni anni or sono, la «prima puntata» ( DaGutenberga Diderot ), esce, sempre per i tipi de il Mulino, il «secondo episodio» di questa affascinante carrellata Dall’Encyclopédie a Wikipedia, consacrata all’organizzazione del sapere dell’epoca contemporanea, quella dell’«esplosione della conoscenza», in cui lo sviluppo (ordinato) della conoscenza cede il passo alla frammentazione e alla disseminazione. Ed è anche l’età della coesistenza, all’interno dei campi della conoscenza, tra processi antitetici e antagonistici, che, in talune fasi, vedono il generarsi di squilibri tra le spinte contrapposte alla nazionalizzazione e all’internazionalizzazione, tra il professionismo e il dilettantismo, tra la specializzazione e l’interdisciplinarietà, fra la standardizzazione e la personalizzazione, e tra la democratizzazione dei saperi e le attività volte a contrastarla.
La conoscenza si sviluppa secondo un processo articolato in quattro fasi (mutuate dalle procedure dei servizi segreti), ovvero raccolta e accumulazione, analisi, diffusione e azione, e vede il ruolo decisivo di varie istituzioni: università, biblioteche, archivi, musei, riviste scientifiche, società culturali e think tank, altrettanti spazi sociali dedicati in molti dei quali si «fa ricerca», una locuzione che diventa sempre più frequente nei titoli dei libri (e nelle varie lingue europee) a partire dalla metà del XIX secolo.
La storia culturale indagata dallo studioso britannico è quella della «seconda età delle scoperte» (1750­ 1850), con una nuova ondata di esplorazioni che misero a disposizione dell’Occidente un impressionante accumulo di informazioni in precedenza sconosciute. Ed è quella dell’osservazione di ambiti che vanno dallo spazio profondo dell’astrofisica (guardato da telescopi sempre più potenti) al foro interiore scandagliato dalla psicanalisi, fino ai sistemi di televisione a circuito chiuso e di videosorveglianza.
Una storia di circuiti accademici, in primo luogo, e, più in generale, dei luoghi di interazione sociale tra intellettuali e produttori di conoscenze (dai cabinet sino agli istituti di ricerca avanzati degli Stati Uniti novecenteschi), senza i quali, per fare un esempio illustre, La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (socio del Political Economy Club di Glasgow che trasse alcune idee dalle conversazioni con gli altri membri) non sarebbe stata la stessa.
Avendo sempre a mente, ci ricorda Burke, che le modalità di cambiamento di tecnologia, istituzioni e mentalità hanno un passo e seguono andamenti tra loro assai differenti. Velocità di crociera che dettano il ritmo della conoscenza e, oggi, andrebbero urgentemente riallineate, perché, come ebbe modo di dire il premio Nobel Herbert Simon, «una sovrabbondanza di informazioni crea una povertà di informazioni».

La Stampa TuttoLibri 27.4.13
Giuseppe Cambiano
“Ma in Grecia i filosofi nessuno se li filava”
Non era un paradiso per Platone, Socrate, Aristotele &C.: il viaggio controcorrente di un storico alle fonti del pensiero
intervista di Maurizio Assalto


Giuseppe Cambiano «Platone e le tecniche» Laterza pp. 260, € 18,59
Giuseppe Cambiano «I filosofi in Grecia e a Roma» Il Mulino pp. 278, € 24
Giuseppe Cambiano, insegna Storia della filosofia antica alla Normale di Pisa
«Pensare era un modo di vivere talvolta in luoghi distinti e persino lontano dalla città» «Dall’800 in poi il filosofo diventa un “professore”, ma riscopre anche la voglia di pubblico»

Quando pensiamo all’antica Grecia, è facile cadere nella tentazione di rappresentarcela come il paradiso della filosofia, uno spazio felice in cui anacronisticamente incrociare le domande di Socrate con i dubbi degli scettici, le analisi logiche degli stoici con le lezioni di Platone e Aristotele, e magari il fricchettonismo ante litteram dei cinici. E invece... «Se leggiamo gli oratori del IV secolo a. C., non c’è nessuno che parli dei filosofi. Lo stesso Senofonte, allievo di Socrate, a cui dedica tutta una serie di opere, quando scrive le Elleniche non cita nemmeno il processo e la condanna del suo maestro». Ah. «Vuol dire che in quella che i greci concepivano come storia - che è poi storia politica, di vicende politiche cittadine - i filosofi non erano percepiti come ingredienti essenziali. Mentre se leggiamo per esempio Hobsbawm, Il secolo breve, troviamo molte pagine dedicate alla cultura, e anche dei filosofi».

Chi parla è Giuseppe Cambiano, professore di Storia della filosofia antica, che si avvia a concludere una ragguardevole carriera di docente alla Normale di Pisa, dopo molti anni all’Università di Torino. Dal Mulino è da poco uscito il suo nuovo libro, dal titolo un po’ anonimo, I filosofi in Grecia e a Roma, ma dal sottotitolo assai più promettente. Quando pensare era un modo di vivere: che cosa si­gnifica? «Per noi il filosofo è uno che elabora le sue teorie, poi fa la sua vita tranquilla, va a casa, va al cinema, come tutti. Invece nei filosofi antichi c’è qualcosa di più impegnativo: il pensiero non è un’attività che occupa una parte della loro vita, ma la coinvolge in blocco. Si sono costruiti in quel mondo tutti dei personaggi che prima non esistevano, individui ben riconoscibili, che vivevano in luoghi distinti. Platone per primo acquista un terreno suburbano e vi costruisce un edificio, l’Accademia, dove non si va soltanto per seguire delle lezioni, bensì per condurre una vita comune, una synousía. Ma questo “stare insieme” riguarda sempre pochi individui, perché i filosofi si presentano come personaggi eccezionali, si rendono conto che un coinvolgimento così totale, una vita così permeata dal pensiero dal mattino alla sera è un ideale realizzabile solo da cerchie ristrette». Ci sono differenze tra il mo­ do di essere filosofi in Gre­ cia e a Roma? «Secondo me sì, e su questo non si è posta sufficiente attenzione. Perché non dimentichiamo che in Grecia la filosofia nasce in un contesto che è suo, mentre a Roma è un corpo estraneo. Cicerone lo dice chiaramente: è adventicia e transmarina, qualche cosa che viene dall’altra parte del mare. Da qui il problema di trapiantarla e acclimatarla nell’Urbe. In Roma nasce una nuova figura, il filosofo non di professione, che - come Cicerone e Seneca - scrive di filosofia quando non può più svolgere attività politica. Però non filosofa per sé, ma perché qualcuno lo legga, per le generazioni future: in forma diversa, anche qui, come in Grecia, la filosofia non è mai un esercizio puramente solitario». Se la filosofia era in Grecia un’attività tutto sommato marginale, come lei dice, co­ me si spiega che sia diventata così importante in seguito, per noi? «È il tema del libro che sto preparando da quattro-cinque anni: come mai l’Occidente a un certo punto ha ritenuto che la filosofia greca fosse uno dei tratti distintivi della sua identità, accanto al diritto romano. Io credo che sia un fatto abbastanza recente».
Cioè? «In genere si pensa a Hegel. Io risalgo più indietro, all’inizio del ’700: è allora che emerge chiara la consapevolezza della filosofia come fenomeno esclusivamente greco, mentre prima per secoli si era pensato non fosse altro che uno degli elementi di una più vasta “pia philosophia”, come diceva Ficino, ossia di una antica sapienza di origine orientale. In quel momento lì, invece, si individuano i tratti distintivi che riconosciamo ancora oggi, e cioè: la filosofia presuppone la libertà, se non c’è libertà non si può filosofare. E dove poteva esserci nell’antichità la libertà? Non certo nelle monarchie orientali dominate da caste sacerdotali depositarie di saperi tradizionali, ma solo dove esistevano istituzioni libere: ecco il nesso filosofia- ». L’avvento del cristianesimo ha cambiato la figura del filo­sofo? «Intanto è emerso un tipo di vita nuovo, alternativo: la vita cristiana. I filosofi antichi erano pochi, marginali; la vita cristiana è un modello che tende a proporsi in maniera generalizzata, e quindi diventa molto più potente e scalza il bíos filosofico degli antichi. Quando questo riemerge in epoca moderna - pensiamo per esempio a Montaigne - è appunto sempre solo un’esperienza personale, non è più un modello per gli altri. La vita cristiana ha reso desueta la vita filosofica». E dal punto di vista teoreti­co? «Dal punto di vista teoretico incomincia l’operazione di smembramento delle filosofie antiche - lo stesso platonismo nei primi Padri della Chiesa viene smembrato, alcune cose vanno bene, alcune cose non vanno bene... Comincia la funzione ancillare della filosofia rispetto al contenuto della rivelazione». È un decadimento della filo­ sofia? «Più che decadimento... il fatto che si scorporino i contenuti dottrinali dal tipo di vita che li sosteneva lascia però sempre in piedi questi corpi dottrinali, che continuano a essere elaborati, ma scissi da quel supporto di esistenza che era il bíos filosofico». Comincia lì la divaricazione tra filosofi e filosofia? «Penso di sì, soprattutto dal III-IV sec in poi. Ormai la filosofia non ha più quel senso forte che aveva in Grecia». E così ora un filosofo può sol­ tanto essere un professore... «Non necessariamente. Certo, la dominante dall’800 in poi è l’insegnamento - cosa contro cui Nietzsche polemizza - ma ci sono alcune figure di filosofi che filosofano fuori della scuola, e però mirano ugualmente ad avere un pubblico. Pensiamo per esempio a Croce, che ha una rivista, oppure a Sartre. La trasformazione dei mezzi di comunicazione ha trasformato le modalità della comunicazione filosofica».

il Fatto 27.4.13
Intervista a Massimo Monaci, il direttore dell’Eliseo
“Nei teatri di Roma regna il vuoto”
di Anna Maria Pasetti


I teatri italiani al tempo della crisi? Se la cavano malissimo. Chiusure, tagli drastici, vita da equilibristi. Per sopravvivere serve un cambiamento radicale, “una visione organica in senso moderno”. La denuncia-proposta arriva dal più giovane direttore artistico di uno storico stabile romano quale è l’Eliseo, sorto nel 1900 e “calpestato” dai maestri che vanno da Visconti a Romolo Valli, dai De Filippo a Patroni Griffi. Il 38enne Massimo Monaci ne è alla guida dal 2007, una responsabilità affiancata dalla nomina – di quest’anno - a presidente dell’Associazione Generale Italiana per lo Spettacolo (AGIS) per il Lazio. “In Italia lo spettacolo dal vivo è abbandonato a se stesso da almeno 40 anni. E questo si aggrava in Lazio e nella città di Roma, dove esiste il maggior numero di strutture. Un paradosso”. Con una laurea in economia politica alla Bocconi e una famiglia pasionaria di palcoscenici incarna la doppia anima – artistica e imprenditoriale – oggi imprescindibile per sopravvivere a una crisi “devastante”.
Quanto è profonda la crisi del teatro osservata dal doppio punto di vista di direttore artistico dell’Eliseo e presidente di Agis Lazio?
Il discorso è complesso. C’è un problema nazionale e ce n’è un altro – forse peggiore– regionale in Lazio e comunale a Roma. Partendo dal Paese, la crisi dello “spettacolo dal vivo” esiste da 40 anni e nasce dalla mancanza di un approccio organico al settore e da una legge che lo regoli. Si tratta di un mondo ancora “artigianale” verso cui la politica di qualunque colore ha sempre mostrato indifferenza “apparente”, perché in realtà ha interesse a fagocitarlo per farne uso e consumo propri: dividi et impera.
Sarebbe a dire?
Lo spettacolo dal vivo – tranne le fondazioni lirico-sinfoniche che “rastrellano” il 50% del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) – è normato con decreti annuali “a discrezione”, secondo un modello gestionale obsoleto alla mercé di piccole lobby di potere e senza una riforma strutturale. Certo, tutti siamo corresponsabili di aver marciato sul clientelismo. Manca una visione, ciascuno ha sprecato finora come voleva, aizzando battaglie surreali attorno al FUS - peraltro risicato dalla Finanziaria, nel 2013 saremo sotto i 390 milioni di euro, rispetto ai già pochi 411 del 2012. Nella seconda metà dell’anno scorso, si è aggiunta la crisi dell’economia reale con la perdita fisiologica di pubblico. Unendo i fattori sopra elencati, il risultato è la chiusura dei teatri, come l’Ambra Jovinelli. D’altra parte, viviamo nel Paese europeo che meno investe in cultura.
Quanto pesa questo sull’Eliseo, teatro privato ad interesse pubblico?
Nell’ultimo anno abbiamo ricavato circa 6,5 mln di euro e un contributo dal FUS di 1,3 mln. Il costo di gestione annuale si aggira tra i 1,5 e 2 mln. La crisi ha causato almeno un -20% del volume d’affari, non tanto nel numero di spettatori che sono fidelizzati (circa 7mila abbonamenti resistenti) quanto nel maggior sfruttamento di pro-mozioni e sconti. Tra il 2011 e 2012 abbiamo tagliato dal 10 al 15% su tutto.
Parlavi di una crisi profonda anche a livello regionale e comunale.
Il Lazio è una delle poche regioni a non avere una Legge Quadro per lo spettacolo dal vivo. E ho detto tutto, considerando che contiene circa 70 teatri, al 99% concentrati su Roma. A regnare è il vuoto. Il motivo si riconduce a negligenza politica e volontà di distribuire i soldi - che non mancano se si cercano maniera poco trasparente.
Cosa ti aspetti dall’arrivo di Nicola Zingaretti?
In campagna elettorale Zingaretti ci ha dato fiducia, parlando di cultura come reale attività produttiva ed economica importante. Speriamo alle parole seguano i fatti.
Quanto al Comune di Roma?
Qui conta il colore politico. Il centro-sinistra è tradizionalmente sensibile sulla cultura, ma questa si è comunque mostrata personalistica, con sindaci elevati a “direttori artistici” della città, dimenticandosi di fornirle un “modello culturale metropolitano”. Il centro-destra ci ha totalmente trascurato, riducendo addirittura a 400mi-la euro l’unico bando che eravamo riusciti ad ottenere. Paragonando Roma a Milano, nel capoluogo lombardo esiste una relazione “istituzioni-territorio-teatri” virtuosa. A Roma solo a una guerra tra poveri.
Hai chiesto un tavolo con la neo Assessore alla Cultura regionale Lidia Ravera. Con quali proposte?
In un Paese come l’Italia la cultura deve diventare un volano economico, specie a Roma, che può auto sostenersi col proprio patrimonio culturale: il futuro sindaco dovrà capirlo bene. A livello regionale serve una Legge Quadro subito con un Fondo Regionale per lo spettacolo dal vivo che si autoalimenti, con criteri chiari, virtuosi e trasparenti.

l’Unità 27.4.13
Viaggio tra i segni dell’evoluzione con l’arte preistorica
Al British Museum di Londra fino al 7 maggio «The Ice Age»
Tra neuroscienza e reperti millenari
di Enrico Palandri


LA NECESSITÀ DI RIAVVICINARE LA CULTURA UMANISTICA E QUELLA SCIENTIFICA RINASCE DALL’INGHILTERRA CHE, con la celebre lezione cantabrigense The two cultures di C.P. Snow nel 1952, ne aveva sentenziato la separazione. Mentre a University College è partito da un paio di anni un corso di laurea in Arti e Scienze, a poche centinaia di metri, nel British Museum, è in corso «The Ice Age» (fino al 7 maggio), che promette nel catalogo di combinare le conoscenze che abbiamo sullo sviluppo del cervello e le prime forme d’arte. L’idea, spiegata in modo molto convincente dalla curatrice Jill Cook nel catalogo, è di capire come l’uomo moderno che arriva in Europa 45.000 anni fa, si distingua sia dai suoi antenati africani che dall’uomo di Neardenthal, che incontra in Europa.
Bisogna subito aggiungere che il filo del ragionamento della curatrice, così limpido nella scrittura, non si coglie immediatamente nella visita della mostra. Affiancare agli straordinari artefatti ritrovati in Germania, Liguria, a Brno o negli altri siti in cui crediamo vivessero i nostri antenati, le opere di pittori contemporanei, da Matisse a Picasso, dimostra le affinità artistiche tra epoche molto distanti; ma se queste siano state il frutto della moda del primitivismo, e quindi di un movimento intellettuale che si è articolato in forme storicamente collocabili nella nostra cultura, o di costanti neurologiche, quasi di universali che il cervello concepisce in luoghi e epoche che non hanno contatti tra loro, è un altro discorso.
Si resta quindi forse un po’ delusi nell’esposizione dalla difficoltà di far lavorare insieme i due discorsi, due culture erano già dalla fine dell’ottocento e due culture purtroppo restano ancora oggi, nonostante lo sforzo da una parte e dall’altra di gettare ponti tra le due sponde.
I curatori avranno certamente riflettuto su questa sfida, forse mostrare il modo in cui il cervello umano si è costruito nel tempo avrebbe avuto un effetto troppo didascalico; forse è impossibile dimostrare, come suggerisce la mostra, che la corteccia frontale distingua l’uomo moderno dai suoi predecessori, che il suo sviluppo sia legato all’immaginazione artistica e che in questo si trovino a coincidere i ritrovamenti archelogici, la misurazione dei crani, e quello che mostrano le neuroscienze oggi attraverso imaging, e cioè le particolari aree del cervello che sono al lavoro quando il soggetto è stimolato in maniera simbolica, attraverso l’uso di metafore, musica, di tutto quello che può essere interpretato come cultura.
Ancora più avventuroso sarebbe opporre corteggia celebrale a momenti antecedenti, al semplice correre al riparo, fuggire, soddisfare la fame. Forse non è possibile estendere il darwinismo oltre certi limiti, ci si avventura in un campo così induttivo che il paradigma dell’evoluzione diventa una fede para-scientifica, impossibilitata a provare il proprio percorso così come riesce a fare per altri passaggi della storia del pianeta e dei suoi abitanti.
Nella mostra quindi, dopo un annuncio iniziale che promette l’arrivo della mente moderna, siamo di fronte solo alla grandissima arte dei nostri antenati. Arte in cui le immagini di donne, fatte da donne per donne, vengono raffrontate con i corpi disegnati da Matisse, Picasso, Courbet, per dimostrare la capacità di concepire le forme in una loro essenza simbolica. Seni, fianchi, pancia. Quello che colpisce di più in questo è che artisti che erano in grado di ritrarre in modo tanto realistico un daino o un mammuth, non ritraggano quasi gli umani e quando lo fanno, come appunto per le donne, lo facciano in modo così stilizzato, quasi come se il processo simbolico distinguesse già per loro una descrizione da una metafora. Sembrerebbe un primitivismo del mondo primitivo.
Si tratta di descrizioni e simboli di una finezza straordinaria e di una grandissima importanza. Basti dire che è esposto nella mostra lo strumento musicale più antico del mondo, un flauto di 42.000 anni fa. Resta il sospetto che neppure qui si riesca a superare, come di fronte a Oetzi, l’uomo del ghiaccio conservato a Bolzano, una proeizione di primitività nei nostri antenati che rischia di mettere l’uomo di oggi in una posizione insostenibile.
Dalle spalle dei giganti non possiamo che cadere, mentre l’arte dei nostri antenati dovrebbe insegnarci, nel modo in cui descrive la vita, gli animali e la nostra relazione con loro, non quello che eravamo, ma quello che siamo.

l’Unità 27.4.13
Messer Boccaccio che difese le donne
Un’eloquenza ricchissima a favore dei sentimenti nei «dilicati petti»
Un grande narratore da rileggere e rivalutare. Soprattutto quando si schiera a sostegno della causa femminile, dando voce ai tormenti e alle passioni di schiere di ragazze e signore. Come Ghismonda
Egli fu sempre in grado di tenere conto del dislivello tra sessi, con le donne escluse dalla sfera culturale
di Renato Barilli


I CENTENARI SONO UTILI PERCHÉ CI STIMOLANO A RILEGGERE I CLASSICI CERCANDO DI SPREMERNE FUORI MESSAGGI SEMPRE RINNOVATI E SUL FILO DELL’ATTUALITÀ. Non fa certo eccezione a questa regola aurea il caso del Boccaccio (1313-1375), la cui opera è ben lungi dal doversi considerare esaurita nei tanti motivi che se ne possono trarre. E si può partire proprio da certi aspetti che a questo grande autore si riconoscono per convenzione, tanto da averne modellato l’appellativo di «boccaccesco». A questo aggettivo si possono dare due significati, uno non alieno dal suscitare qualche sospetto e forse da limitare, se non proprio da abbandonare, un altro, invece, di sorprendente e non ancora del tutto sondata profondità.
L’autore di Certaldo è «boccaccesco» non tanto per una sua presunta capacità di inventare storie gremite, articolate, pronte anche a toccare aspetti pruriginosi, mosse insomma da una fantasia illimitata. Al contrario, chi ha avvicinato con gli strumenti della filologia i vari capolavori del grande narratore, e in particola l’opera massima, il Decamerone, ha potuto constatare che quasi tutte le trame erano a lui preesistenti, egli non ha fatto altro che recuperarle, col fine principale di metterle in bella forma.
Già qui si sfiora un motivo di attualità, si può infatti considerare il Boccaccio quale un campione di «riscrittura», di colui che non inventa, ma muta la chiave espressiva delle storie prese da altri. Col che, si passa alla seconda accezione del «boccaccesco», che questa volta è tuttora pienamente rispondente, e anzi da accentuare, da portare agli ultimi esiti. In questo caso ci si rivolge al suo periodare complesso, ricco di incisi e di subordinate, proprio di chi non si limita a riportare «storie» nude e crude, nel puro andamento della trama, ma le arricchisce senza fine di aggiunte, perifrasi, subordinate, nell’intento di circostanziare, precisare, fornire dettagli ulteriori. Basterebbe fare il confronto tra la nuda e scarna povertà di certe vicende quali si incontrano nel Novellino, dovuto a un anonimo scrittore del Duecento, e la pienezza di particolari con cui il Boccaccio le riscrive. Perché egli è stato un allievo ideale di Cicerone, e del suo periodare gonfio, esuberante di svolte e dilatazioni. Sta in ciò l’appartenenza del Boccaccio al fenomeno storico dell’Umanesimo.
Ma la gonfiezza di Cicerone, che magari sui banchi di scuola abbiamo imparato a detestare, era in realtà al servizio della professione in cui eccelleva, quella di avvocato, il quale deve essere eloquente al massimo, disteso nel presentare i casi, pro o contro la persona sotto esame. Ebbene, questo è stato il Boccaccio, attraverso il suo strenuo ciceronismo, un grande avvocato, ma a favore di quale causa?
Qui possiamo scoprire in lui un motivo di straordinaria attualità: egli ha patrocinato con ardore, esuberanza, eloquenza generosa e illimitata la causa delle donne. Bisogna premettere che per lui il tema dei temi, in tutta l’opera, è stato quello dell’amore, psicologico e anche fisico, tra l’uomo e la donna, ma subito accompagnato dalla constatazione di un dislivello. Le donne, a suo avviso, nei loro «dilicati petti», sentono, soffrono, vivono più dei maschi le pene d’amore, però mancano di strumenti per comunicarle adeguatamente. Il Nostro parte da una precisa diagnosi sociologica. Le donne, ai suoi tempi, anche se di ceto alto, erano escluse dal ricevere una buona educazione scolastica, non sapevano insomma di latino, non accedevano ai sacri testi ciceroniani, mentre d’altra parte restavano vittime dell’ozio, non essendo concesso loro di lavorare, a differenza delle consorelle degli strati popolari. E dunque, bisognava pure che qualcuno parlasse per loro. Questa la nobile causa cui il Boccaccio si presta, con impegno e devozione: dare la parola, e nei modi più ampi, articolati che la sua frequentazione di Cicerone gli consente, a quei tormenti e passioni muliebri che altrimenti sarebbero condannati al silenzio.
Troviamo in ciò la chiave principale che si può applicare alla maggior parte degli scritti del nostro autore, con applicazione quasi ad apertura di pagina. Tra la infinità di luoghi in cui questo elementare teorema potrebbe essere verificato basterà qui andare a compulsarne due. Per esempio, l’Elegia di Madonna Fiammetta concepita dal Nostro nel fecondo periodo del suo soggiorno a Napoli, allora capitale economica e culturale non seconda a Firenze. Vi si narra di una donna di nobile nascita, mal maritata come allora succedeva a un anziano «buon partito» che la trascura, ma concedendole il diritto di farsi un amante, pur di rispettare le apparenze. Sennonché questo giovane partner si allontana dicendole che deve tornare a Nord dove vive il padre, che essendo morente vuole sistemare con lui le questioni ereditarie, ma stia tranquilla, Fiammetta, che lo vedrà ritornare al più presto. Però passano i giorni, lui non si ripresenta, e anzi ben presto le giungono voci che sta per sposarsi con un conveniente partito della sua terra. Questi i fatti, che suscitano in Fiammetta una serie di commosse orazioni a tutela dei diritti, suoi e delle consorelle, contro il maschio traditore, in un balletto incessante tra la speranza in un ritorno e la cupa delusione di un abbandono definitivo.
Ma rivolgiamoci pure al Decamerone, giornata quarta, dedicata proprio agli amori che vanno a finire male, tra cui quello della Ghismonda, figlia di un principe titolato, Tancredi. La giovane ha la cattiva idea di innamorarsi di un giovane paggio, un legame sconveniente, agli effetti sociali, il che induce il padre a sopprimere addirittura l’indegno pretendente. Quando Ghismonda lo sa, pronuncia un’orazione sublime, che si solleva al livello della tragedia e potrebbe essere declamata sulle scene. O meglio, è l’avvocato Boccaccio a metterle in bocca una delle più belle e commoventi orazioni di tutti i tempi. Questo in deroga, evidentemente, ai canoni di una piatta verosimiglianza psichica, in primo luogo per la ragione a lui ben nota che le donne in quegli anni non erano capaci di tanta eloquenza, e poi per l’altra ragione ancor più cogente che chi è in uno stato di profonda emozione non riesce quasi a parlare. Invece la Ghismoda professa una delle più belle dichiarazioni a favore dell’uguaglianza dei diritti, non conta nulla la nobiltà di sangue, a confronto con quella dell’animo. Male ha fatto il padre-padrone a sopprimerle la generosa figura dell’amante, non pretenda che la figlia accetti quell’ignobile verdetto, essa intanto sente di continuare un dialogo spirituale con l’ombra dell’adorato, e non vuole tardare a raggiungerlo buttandosi dalla finestra e dandosi la morte.
La causa del femminismo è così superbamente tutelata, con anticipo di secoli rispetto allo stato attuale delle cose, in cui le distanze tra i sessi non sono ancora del tutto superate. Non guasterebbe un Boccaccio che si ripresentasse in panni attuali a riprendere la sua perorazione così straordinariamente anticipata e preveggente.

La Stampa 27.4.13
Paolo Conte “Jazz e vino rosso la mia anima antica”
Al Regio di Torino l’unico concerto italiano dell’anno “Né computer, né Internet: sto alla larga dalla tecnologia”
intervista di Marinella Venegoni


Paolo Conte sarà lunedì prossimo al Regio di Torino: «Per il jazz i tempi di nicchia sono passati da un bel po’. Si vede poca creatività all’orizzonte. Se parliamo di jazz classico, più che ispirazione dico: adorazione»
Paolo Conte, quello del 29 aprile al Regio sarà il suo unico concerto italiano in questo 2013. Una scelta? Un caso? Un segno della crisi che travaglia l’Italia, dove si esce di meno per ascoltare musica?
«Francamente non avrei problemi a tenere concerti in Italia, il mio pubblico è sempre pronto. Però devo ottemperare agli impegni con teatri stranieri e dunque ho deciso di fare una cosa alla volta».
Con il suo concerto torinese, ha aderito a una causa, la costruzione di un ospedale ad Haiti a cura dei padri camilliani. La musica popolare abbraccia sempre più spesso tematiche di impegno sociale: lei è spesso invitato? Che pensa del fenomeno?
«A dirla tutta non ci vedo nessun fenomeno, almeno per quanto mi riguarda. Direi semplicemente che se si può fare del bene dando un po’ delle proprie energie si fa onore a se stessi. Del resto ho fatto in vita mia tantissimi concerti a scopi benefici, per non parlare della beneficenza che Egle ed io facciamo direttamente di tasca nostra».
A proposito di concertoni. Elio e le Storie Tese hanno appena inciso una canzone che si fa beffe della kermesse del Primo Maggio, con le sue liturgie prefissate. Cosa ne pensa? E cosa pensa della loro «Canzone mononota» sanremese, che prende in giro stilemi e trucchi della scrittura delle canzoni?
«Ho sempre stimato molto Elio e le Storie Tese per la musicalità e la vocalità. Non conosco tuttavia le canzoni di cui mi parla e non posso commentarle».
Per lungo tempo, nella prima parte della carriera, lei ha scritto canzoni ironiche, quadretti che tracciavano meravigliosamente personaggi di provincia. Com’è cambiata la provincia italiana, dal suo angolo privilegiato di osservazione? Può essere ancora motivo di ispirazione?
«Tutto cambia, anche la provincia, soprattutto nel linguaggio. Ma già all’epoca delle mie prime canzoni c’erano le case costruite dai geometri che facevano sbandare il paesaggio. Tuttavia la provincia (e soprattutto la campagna) cantava la sua anima antica, primitiva e goldoniana insieme».
È appena stata celebrata anche in musica la Giornata Mondiale della Terra. Condivide le cause ecologiste, lei che vive in modo bucolico tra i vigneti? C’è un filone che la appassiona di più?
«Partiamo pure dalle vigne: se oggi fai parlare un giovane tastevin uscito dalle università enologiche, ti riempirà la testa di goudron e retrogusto di viola mammola, mandorle e cuoio, ma non potrà sapere cos’era il vino scomparso prima della sua nascita (erbicidi? industria?) né si accorgerà che tutto il vino rosso oggi somiglia al cabernet sauvignon. Senza vino si può magari campare, ma cosa dire del degrado della natura che viene perpetrato sistematicamente? Speriamo che gli Ufo abbiano più rispetto».
Il jazz, la sua passione di sempre, si muove lentamente nel suo spazio di nicchia. Vede emergere linee interessanti? È ancora per lei fonte di ispirazione?
«Per il jazz i tempi di nicchia sono comunque passati da un bel po’ di tempo. Diciamo piuttosto che si vede poca creatività all’orizzonte. Se parliamo di jazz classico (che esiste solo sui dischi) più che ispirazione le direi adorazione».
La musica cede sempre più alla forza fascinante della tecnologia, sostituisce la creatività con la modulistica. Quali spazi residui trova un autore autoriale? O come può un autore battere un computer?
«Pochi ormai sanno la fatica e la goduria nell’usare un pianoforte, un pentagramma, una matita e una gomma. Del resto, le risposte alle sue domande in quest’intervista le sto proprio scrivendo a mano».
Che uso fa del computer e della rete?
«Non ne faccio niente perché non ne so niente. Pigrizia? No? ».
Quale letteratura, o poesia, stanno in questi tempi a portata di mano nel suo scaffale?
«Ho appena letto un fantastico Camilleri, mezzo in siciliano e mezzo in spagnolo. E poi non sono male questi scandinavi, che non ti lasciano niente ma sono molto ben fatti».
Se la musica è espressione del suo tempo, dove sta il filo di rottura che pare premere da sotto il nostro tempo standardizzato?
«Che la musica sia espressione del suo tempo non è cosa sicura. È la storia che, a posteriori, opera questa dislocazione. Il filo di rottura di cui mi parla va cercato, e trovato, nel disco L. P., cioè a lunga durata, che continua a permettere ripetizione e sbrodolature quando ormai la fine del sinfonismo era stata decretata da tempo».
Che cosa pensa della rielezione di Napolitano e dei tumulti che attraversano questa stagione politica?
«Come ben sa, di politica non ci capisco niente, né mi illudo di capirne qualcosa».