domenica 28 aprile 2013

il manifesto 23.4.13
Stefano Rodotà
Un'intesa con l'autore dello sfascio?
«Il capo dello stato messo alle strette dai partiti. Faranno qualche provvedimento, ma non affronteranno la crisi in cui siamo finiti»
intervista di Daniela Preziosi 

http://www.scribd.com/doc/138221264/Intervista-a-Stefano-RodotaParla l'altro candidato: «Il capo dello stato messo alle strette dai partiti. Faranno qualche provvedimento, ma non affronteranno la crisi in cui siamo finiti»
«In questi giorni ho cercato di fare con discrezione, ma con decisione, quello che si doveva fare. A quelli che dicevano 'Rodotà non si pronuncia?', dico che le cose non si fanno in trenta secondi. E a giudicare dalle reazioni, mi pare di esserci riuscito». Il professor Stefano Rodotà, l'«altro» candidato alla presidenza della Repubblica, quello delle forze contrarie alle larghe intese, ha ascoltato Napolitano in tv.

Cosa pensa delle parole di Napolitano?
La prima osservazione è una conferma: l'irresponsabilità o l'interesse dei partiti hanno trascinato il presidente nella crisi che loro stessi hanno creato. Hanno messo il presidente con le spalle al muro: siamo incapaci, pensaci tu. Un passaggio di enorme gravità politica. La seconda: Napolitano è stato indotto a un discorso da presidente del consiglio. E poi c'è una terza. Sono scandalizzato: mentre Napolitano diceva dell'irresponsabilità dei partiti, quellli applaudivano invece di stare zitti e vergognarsi. Hanno perso la testa.

Piazza e parlamento non si possono contrapporre, ha detto.
Vanno riaperti i canali di comunicazione fra istituzioni e società, soprattutto dopo il governo Monti, con il parlamento ridotto a passacarte. Posso ricordare che nel pacchetto della Costituente dei beni comuni ho predisposto un testo per l'obbligo di presa in considerazione da parte del parlamento dell'iniziativa popolare. Basterebbe una modifica dei regolamenti parlamentari.

E nella crisi, cosa pensa del Pd?
Da tutta questa vicenda è uscito vittorioso Berlusconi, che sta imponendo le sue condizioni, e il Pd è andato a raccomandarsi al Colle, e poi ha dato di nuovo spettacolo.

Napolitano indica la strada delle larghe intese. Secondo lei è l'unica?
Non posso mettere fra parentesi il fatto che la larga intesa si fa con il responsabile dello sfascio e della regressione culturale e politica di questo paese. Si faranno interventi economici, si utilizzeranno i modestissimi documenti dei saggi, ma non potrà essere affrontata nessuna della questioni che possono restituire alla politica e al parlamento una qualità di interlocutore della società. Larghe intese? Il protagonista è Berlusconi.

Lei dice: resto un uomo di sinistra. Ora guarda a Vendola?
Sono contento, ma anche molto sorpreso, di questo senso di identificazione emerso nei miei confronti. Io ho una lunga storia personale nella sinistra, di lavoro teorico ma non solo: le forze politiche non hanno capito niente del referendum sull'acqua votato da 27 milioni di persone, e io ho invano cercato di far ricevere i promotori dal vertice del Pd. Ho letto microvolgarità su di me. Come: Rodotà non prende mai un autobus. Non ho preso l'autobus in questi giorni perché per me era imbarazzante. Sull'aereo si sono messi ad applaudire. Hanno riesumato Carraro per fargli dire che Rodotà sta nei salotti. L'unico salotto a cielo aperto in cui sono stato si chiama Pomigliano. Lì, alla manifestazione della Fiom, ho portato lo striscione con il mitico Ciro. Sarò alla manifestazione della Fiom del 18 maggio. Io non ho niente di carismatico. Semplicemente, testimonio che si può lavorare sulle cose: beni comuni, acqua, le discriminazioni. Certo, questa vicenda mi carica di responsabilità. Però, prima voglio vedere con chiarezza le cose. Proprio sul manifesto, appena nata Alba avvertivo di fare attenzione a mettere in piedi un soggettino pronto a sfasciarsi alla prima occasione. Quale cultura politica possiamo mettere in campo?

A proposito di futuro, cosa vede nel futuro del Pd?
In questo momento temo un vero rischio per la democrazia. Il Pd sembra inconsapevole del fatto che la sua frammentazione apre una grande questione democratica, un vuoto. Se viene meno un soggetto forte della sinistra e ci sarà un puzzle impazzito, avremo il confronto Berlusconi-Grillo. Una specie di livello finale.

Lei ha scritto sulla democrazia elettronica come il populismo del terzo millennio. Poi è diventato la bandiera dell'M5S, che professa la democrazia elettronica.
La democrazia elettronica e la tecnopolitica ha vari modi di manifestarsi. Ma certo che c'è una differenza fra chi ritiene che tutto si risolve nella rete e chi ritiene che la rete ha un ruolo crescente. Grillo ha operato in rete, ma quando è venuto il momnento elettorale ha riempito le piazze. Basta pensare a No bavaglio, Se non ora quando: qualcosa che prima era consentito soltanto alle grandi organizzazioni strutturate, partiti sindacati e Chiesa. Le piazze erano state svuotate dalla tv, la rete le ha ririempite. Oggi dobbiamo lavorare su questo. Non siamo al duello finale fra democrazia di rete e democrazia rappresentativa. Piuttosto, vedo un obbligo: nella Costituzione c'è un filo sottile fra referendum e iniziativa popolare che dev'essere rafforzato non come una via alternativa. Nel Trattato di Lisbona c'è un'apertura importante in questo senso. I sindacati europei stanno promuovendo un'iniziativa per chiedere alla Commissione di stabilire le regole sulla non privatizzabilità del servizio pubblico. Sa quante firme sono state raccolte finora? Un milione e 600mila in tutta Europa. È il momento di lavorare su questo. Faccio un'aggiunta personale: Rodotà non è stato inventato da Grillo. Il mio nome circola da mesi sulla rete. Insieme ad altri: la rete ha selezionato tutte persone di sinistra, ci metto con qualche fatica anche Emma Bonino, ma certamente anche Romano Prodi. Questo punto dovrebbe farci riflettere. Ci sono delle oscurità? Grillo e Casaleggio avranno fatto un complotto per tirare fuori solo nomi di sinistra per mettere in difficoltà la sinistra? Il fantasma della rete si aggira. E la politica sa fare solo tweet.

Che idea si è fatto si Grillo?
Posso dire le cose su cui sto riflettendo. La parlamentarizzazione del 5 stelle è ormai un dato di fatto. Quando l'altra sera Grillo ha parlato di golpe, ed io poi ho dichiarato di rispettarela legalità parlamentare e di essere contrario alle marce su Roma, alcuni del 5 stelle mi hanno detto che questo ha aiutato a evitare una bagarre. Io non so quale sarà il futuro del 5 stelle. Stanno in parlamento, vedremo come utilizzeranno lo strumento parlamentare. Hanno insistito perché si cominciasse a lavorare nelle istituzioni, non mi pare che siano andati in parlamento con la dinamite. Come si fa a dire che il Movimento 5 stelle è incostituzionale, quando anche su Repubblica con tanti abbiamo riflettuto sull'incostituzionalità del berlusconismo?

A proposito, Scalfari le ha detto che bisogna fare la politica con cuore, e anche con il cervello.
Non è una bella maniera, in molti mi hanno spesso rimproverato di aver messo sempre in campo troppi elementi di ragione. E però: la cultura illuminista, cara a Scalfari, ha rilanciato tre valori. Libertà, uguaglianza e fraternità. Perché la fraternità è stata la figlia minore della triade rivoluzionaria?

Avvenire 28.4.13
Straordinari doveri
di Marco Tarquinio


L’unico governo possibile, dunque il governo che andava fatto: pieno di facce nuove e seminuove, con la sua dose di usato sicuro, tante donne e molti giova­ni e, com’era scontato, alcune sorprese (non tutte, per la verità, ugualmente pro­mettenti). Un governo che è impossibile attribuire a una parte sola, e che nessuno può proclamare o sentire “suo”. Un governo che è ragionevolmente il primo e l’ulti­mo della XVII legislatura, ma che dovrà an­che essere l’ultimo della cosiddetta Se­conda Repubblica e sperabilmente l’«ostetrico», in decisivo dialogo con il Par­lamento e con l’opinione pubblica nazio­nale, di una nuova Repubblica che preser­vi il meglio di quella saggiamente pensata e realizzata 65 anni fa e che restituisca e­quilibrio e armonia a ciò che, in questi an­ni, è andato smottando e aggrovigliando­si nel nostro ordinamento democratico.
C’è da credere che delineare questo profi­lo del nuovo esecutivo sia stata la princi­pale preoccupazione di Enrico Letta, con­sapevole sin dall’inizio del suo percorso da presidente del Consiglio designato che gli sarebbe toccato di dar vita a un governo “con patria e senza bandiere”. Un gruppo di lavoro, cioè, esclusivamente dedito alla fatica di propiziare la “risalita” dell’Italia dal gran pantano della crisi economica e sociale (che distrugge lavoro, fiducia e mi­na persino le solidarietà di base tipiche del­la società italiana) e del discredito della po­litica (che ormai, appunto, intacca le stes­se istituzioni). Proprio per questo, il gover­no Letta non potrà permettersi di fare nien­te di più di ciò che è indispensabile, inevi­tabile e condivisibile a quel duplice fine: e­conomia e riforme. Un «niente di più» che è davvero e urgentemente molto. Proprio per questo, in nessuno dei suoi ministri, neanche in quelli portatori di visioni più marcate e controverse, il governo Letta po­trà permettersi di servire un qualche inte­resse di partito e di fazione, ma dovrà ap­parire orientato a quello che tutti (o qua­si) potranno immediatamente e pacifica­mente intendere come il «bene comune».
Avevamo auspicato, pensando a questo, che nascesse un «governo di servizio», e abbiamo visto con piacere che quest’idea è affiorata con chiarezza sulle labbra del premier che si appresta a giurare e a pre­sentarsi al Parlamento. Al di là dei nomi e delle storie dei nuovi ministri, un simile at­teggiamento, una simile ambiziosa umiltà ci sembra la precondizione essenziale per dare saldezza e nobiltà, contro la retorica e la pratica (ugualmente meschine) dell’«inciucio», a un’operazione che rea­lizza l’avventurosa e generosa composi­zione di forze e visioni di sinistra, di cen­tro e di destra che per due decenni sono sta­te quasi sempre non componibili e spesso aspramente contrapposte e che nella re­cente fase del governo tecnico avevano più subìto che promosso le severe e non più rinviabili politiche di emergenza.
Giusta­mente il presidente della Repubblica, Gior­gio Napolitano, definisce quello che si è ap­pena formato un «governo politico», ob­bligato e inedito frutto di «un’intesa politi­ca tra forze parlamentari che, secondo Co­stituzione, garantiranno la fiducia in en­trambe le Camere». È così, è esattamente così. E questo vuol dire che siamo al cospetto di un governo straordinario, nato in condizioni di straor­dinaria difficoltà, destinato ad affrontare un percorso straordinario e che si giustifi­ca appunto per gli straordinari doveri che gli sono affidati. Che, lo ripetiamo, so­no quelli di riconciliare noi italiani con chi ci rappresenta, con la nostra storia e intel­ligenza civile ed economica, con le regole fondamentali e con le pratiche ammini­­strative dello Stato in cui viviamo. Il tem­po a disposizione non sarà prevedibil­mente molto. Forse appena un anno, for­se un po’ di più. Premier, ministri e partiti dovranno dimostrarsi all’altezza, guar­dando non solo alle attese dei sostenito­ri e dei più o meno speranzosi, ma anche ai dubbi e alle ostilità dei prevenuti del­la prima ora e ai perplessi dell’ultima, che certo non mancano. La sfida è dura, ma le ragioni per onorarla sono molte e in­calzanti.

Repubblica 28.4.13
Un medico per l’Italia malata
di Eugenio Scalfari


IL GOVERNO Letta è nato ieri pomeriggio. Presterà giuramento questa mattina e si presenterà al Parlamento domani.
Nelle circostanze date è un buon governo. Enrico Letta aveva promesso competenza, freschezza, nomi non divisivi. Il risultato corrisponde pienamente all’impegno preso, con un’aggiunta in più: una presenza femminile quale prima d’ora non si era mai verificata. Emma Bonino agli Esteri è tra le altre una sorpresa molto positiva; sono positive anche quelle della Cancellieri alla Giustizia e di Saccomanni all’Economia.
L’intervento di Napolitano nella sala stampa del Quirinale dopo la lettura della lista e le parole di ulteriore chiarimento da lui pronunciate confermano la solidità del risultato. Persino il Movimento 5 Stelle dovrebbe prendere atto che un passo avanti verso un cambiamento sostanziale è stato compiuto. Ma ora facciamo un passo indietro per capire meglio qual è la prospettiva che ci si presenta e le cause che l’hanno determinata. * * * «L’Italia l’è malada», così cantavano i contadini delle Leghe del Popolo nella Bassa Padana e nelle Romagne, aggiungendo «e il dottor l’è Prampolin»: Camillo Prampolini, che fu uno dei fondatori del partito socialista nel 1892.
Questo stesso titolo lo usai alcuni anni fa sul nostro giornale commentando un altro periodo di crisi tra i tanti che si sono succeduti nella nostra storia.
Questa volta però la crisi è ancora più grave perché non è soltanto il nostro paese ad esser malato, è malata l’Europa, è malato il Giappone, sono malati gli Stati Uniti d’America, è malata l’Africa e il Vicino Oriente. Insomma è malato il mondo. È un dettaglio? Non direi. Ma spesso ce lo dimentichiamo ed è un errore perché ci toglie la prospettiva, ci fa scambiare gli effetti per cause e prescrive le terapie che sono soltanto “placebo” e non medicine efficaci.
La malattia cominciò nel 2008 con la crisi del mercato immobiliare americano che culminò col fallimento della Lehman Brothers. Poi, nei mesi e negli anni successivi, si allargò all’Europa, coinvolse in varia misura il resto del mondo e infine diventò, in Europa, recessione e crisi sociale. Durerà fino all’anno prossimo e questo è lo stato dei fatti.
La politica ha ceduto al passo all’economia e deve riprendere la sua supremazia e puntare sull’espansione? Lo sostengono in molti e Krugman lo teorizza, ma gli sfugge un elemento fondamentale: nel mondo globale la ricchezza tende a ridistribuirsi tra i paesi che emergono dalla povertà e gli altri che riposano passivamente su un’antica opulenza.
Questo movimento ha una forza e una ineluttabilità che non possono essere arginate; possono essere tutt’al più contenute entro limiti sopportabili attraverso un confronto tra le potenze continentali.
Se ci fosse uno Stato europeo, esso sarebbe in grado di sostenere quel confronto, ma fino a quando non ci sarà i governi nazionali resteranno irrilevanti. Che l’errore lo faccia Grillo invocando la palingenesi è comprensibile, ma che lo facciano anche intelletti consapevoli è assai meno scusabile.
Probabilmente la causa dell’errore sta nel fatto che l’analisi della situazione e la terapia capace di guarirne la malattia sono soverchiate dagli interessi, dalle ambizioni, dalle vanità delle
lobbies e degli individui. L’egoismo di gruppo ha la meglio, l’emotività imbriglia la ragione, la vista corta di chi vuole tutto e subito impedisce la costruzione di un futuro migliore. La palingenesi non è la costruzione del futuro, ma un’utopia che porta con sé la sconfitta.
* * *
Il governo si chiama istituzionale perché è stato formato seguendo rigorosamente la procedura indicata dalla Costituzione e lo spirito che ispira il nostro ordinamento democratico. Lo stesso avvenne con il governo Monti nel novembre 2011, in comune i due governi hanno la situazione di emergenza. Quella di due anni fa era un’emergenza della finanza pubblica che rischiava di precipitare in un fallimento del debito sovrano e dello Stato; quella di oggi è un’emergenza economica e sociale che rischia di determinare una decomposizione della società.
Le emergenze limitano la libertà di scelta e impongono soluzioni di necessità. In questi casi il rigoroso rispetto della meccanica istituzionale diventa la sola via praticabile e il primo che ha dovuto cedere a questa scelta obbligata è stato Giorgio Napolitano. Aveva deciso e più volte ripetuto di non voler essere riconfermato al Quirinale e ne aveva spiegato pubblicamente e privatamente le motivazioni. L’emergenza nel suo caso non è stata soltanto la crisi sociale ma la crisi politica che non ha reso possibile la nomina del suo successore. Perciò, suo malgrado, Napolitano ha dovuto restare al Quirinale.
Suo malgrado, ma per fortuna del paese. Napolitano conosce benissimo i limiti e i doveri che la Costituzione gli prescrive; proprio per questo, nell’ambito di quel quadro, può agire con la massima energia. Se le forze politiche non reggeranno ad una “mescolanza” che contiene – non c’è dubbio – anche elementi repulsivi, se ne assumeranno l’intera responsabilità.
Ci sono molti precedenti in proposito e lo stesso Napolitano ne ha richiamato uno: l’incontro politico tra Moro e Berlinguer a metà degli anni Settanta. La mescolanza ci fu, o meglio mosse i suoi primi passi per iniziativa di quei due interlocutori; ma è stata facile l’obiezione di alcuni critici che hanno ricordato non soltanto la diversità delle situazioni storiche ma anche la diversa qualità degli interlocutori. È vero, ma ci sono altri esempi, forse più probanti.
Nel 1944, quando la guerra era ancora in corso e le armate contrapposte si fronteggiavano sulla cosiddetta “linea gotica” a ridosso del Po, Palmiro Togliatti riuscì ad arrivare da Mosca a Napoli. Il Pci era stato ricostituito nel Sud dai dirigenti clandestini finalmente alla luce del sole; a Napoli il segretario locale del partito era Cacciapuoti, comunista a 24 carati. Sbarcato a Napoli, Togliatti arrivò inaspettato a casa di Cacciapuoti.
Commozione, abbracci, convocazione immediata di tutti i dirigenti del partito, cena improvvisata, entusiasmo. Dopo cena si fece silenzio. Togliatti disse che voleva per l’indomani l’assemblea di tutti gli iscritti, dove avrebbe annunciato le decisioni da mettere in atto. «Ci puoi anticipare quali sono le decisioni?» disse Cacciapuoti e Togliatti rispose «riconosceremo il governo Badoglio e l’appoggeremo». Lo sbalordimento fu generale, ma Togliatti spiegò che non c’era altra via almeno fino a quando l’armata americana non fosse entrata a Roma. Pochi giorni dopo incontrò Benedetto Croce che era arrivato da tempo alle medesime conclusioni e faceva parte del governo Badoglio.
C’è ancora un altro esempio che riguarda Berlinguer. Quando il Pci dall’astensione passò al vero e proprio ingresso nella maggioranza, il presidente del Consiglio designato da Moro era Andreotti, sicché il passaggio dalla “non sfiducia” al voto in favore del governo ebbe Andreotti come interlocutore. Moro fu rapito lo stesso giorno del voto che però era stato deciso già prima da Berlinguer.
Badoglio nel ’44, Andreotti nel ’78, il Pci di Togliatti e poi quello di Berlinguer. Napolitano era a Napoli nel ’44 e a Roma nel ’78. Adesso ha responsabilità assai maggiori di quelle che allora ebbero i due leader comunisti. Lui è il primo ex comunista andato al Quirinale 58 anni dopo la firma della Costituzione. Ma un presidente al di sopra delle parti come lui, salvo Ciampi, non è mai esistito. Garantisce tutti, ma garantisce soprattutto il paese e per questa ragione nell’interesse del paese agisce con tutta l’energia necessaria.
Ora vedremo il governo Letta al lavoro. Se i fatti corrisponderanno alle parole molte sofferenze saranno lenite e molte speranze riaccese.

Ansa 28.4.13
Confindustria esulta, la Cgil no

La Confindustria di Giorgio Squinzi è molto soddisfatta del governo e chiede “misure per rilancio del Paese e crescita delle imprese”. La Cgil invece tace, un silenzio pesante visto che il governo è in teoria guidato dal Pd. Uil e Cisl più contente, soprattutto di Giovannini al Lavoro. Ansa

Dlm 28.4.13
Voto palese: niente franchi tiratori

Alla Camera l’alleanza Pdl-Pd-Sc può contare su una maggioranza di 437 voti, decisamente superiore ai 315 che occorrono all’autosufficienza. Al Senato, invece, arrivano a 219, anche qui al di sopra dei 160 richiesti (compresi i senatori a vita). La fiducia è a voto palese. Esclusi franchi tiratori.
I cosiddetti giovani turchi, che avevano preventivato un voto contrario all’assemblea del gruppo pur facendo sapere che erano pronti a rimettersi poi a quanto deciso a maggioranza, hanno incassato la nomina di Andrea Orlando.

Ansa 28.4.13
Chi rappresenta: una minoranza di elettori

Quanti italiani sono rappresentati da questo governo? Alle elezioni gli aventi diritto erano quasi 47 milioni, hanno votato 35,2 milioni. Sommando i voti presi dai partiti che sostengono l’esecutivo Letta, si arriva a 20,1 milioni. Larghe intese, ma di meno della metà degli aventi diritto al voto.

l’Unità 28.4.13
A San Giovanni Valdarno la rabbia degli «irriducibili»
I soldi delle tessere resteranno nel cassetto della segreteria locale finché «non sarà fatta chiarezza. Letta faccia poche cose e poi elezioni»
di Osvaldo Sabato


Isoldi delle tessere il segretario li tiene chiusi nel cassetto della sua scrivania. E resteranno lì fino a quando dal Pd nazionale non arriveranno dei segnali concreti e delle spiegazioni esaustive su quanto è successo in Parlamento sulla vicenda del Quirinale. Non solo: tutta la segreteria comunale si è autosospesa, con tanto di striscione contro l’accordo con il Pdl. Succede a San Giovanni Valdarno, un grosso comune nell’aretino, dove la protesta dell’unione comunale del Pd si è fatta sentire contro i dirigenti nazionali del partito.
Tutto è nato dopo un’affollata assemblea degli iscritti, che hanno deciso «di mettere in atto una serie di iniziative per esprimere la propria viva protesta nei confronti della dirigenza nazionale del partito, con particolare riferimento al percorso intrapreso, subito dopo le elezioni, per la formazione del governo e culminato con la fase gestita a nostro giudizio in modo assolutamente contraddittorio e decisamente incomprensibile dell'elezione del Presidente della Repubblica e della successiva formazione di un governo di larghe intese». È scritto in un documento con cui si chiede alle unioni comunali del Pd del Valdarno, oltre che la Federazione Provinciale e l'Unione Regionale «ad attuare azioni analoghe alle nostre, e ci rendiamo disponibili al confronto e ad organizzare forme congiunte e coordinate di protesta». L’autosospensione della segreteria resta tale fino al prossimo congresso. Anche i Giovani Democratici hanno fatto sentire la loro voce, uno dei più attivi nella protesta contro i vertici nazionali del Pd è Matteo Cardini, bersaniano doc, che non ci ha pensato due volte a piazzare sulla terrazza della federazione un lenzuolo con la scritta «No alla svendita dei valori. Con il Pdl nessun futuro!». E ora con il governo Letta appena nato? «Noi siamo una forza alternativa a Berlusconi, sono stati i fatti gestiti male da noi che hanno portato il tutto nelle mani di Napolitano. Dovrà fare poche cose e poi si deve tornare alle elezioni» commenta il segretario del Pd di San Giovanni Valdarno, Francesco Verniani «sperando in un partito migliore. Quattro circoli e oltre duecento iscritti, qui il Pd alle ultime elezioni ha preso il 46,6% dei voti, una roccaforte democratica, che si ribella. «Noi abbiamo deciso di dare un segnale ai nostri dirigenti nazionali, che hanno completamente perso l’aggancio con la realtà» spiega Verniani «ci siamo stancati di fare le comparse».
Fra le prossime mosse un’assemblea con i parlamentari aretini. I soldi delle tessere? «Noi li teniamo fino a quando il partito non ritorna ad essere una questione di tutti, un sistema che ascolta tutti» spiega il segretario valdarnese. «Nei territori il partito è al collasso, i nostri militanti sono delusi, il Pd deve ritrovare un po’ se stesso, noi qui lo abbiamo tenuto vivo ed unito e lo dovevano fare anche a Roma» dice Verniani. Chi cerca di smussare le polemiche è il segretario della federazione aretina, Marco Meacci «è un momento caldo, l’amarezza non manca, quando ci sono questi stati d’animo qualcuno cerca di dargli voce» dice. Ma per il Pd di San Giovanni Valdarno «la misura è colma».

il Fatto 28.4.13
Un piatto avvelenato
di Antonio Padellaro


Chissà come devono sentirsi gli otto milioni e mezzo di elettori del Pd che lo scorso febbraio avevano pensato di votare contro Berlusconi e che ora si ritrovano al governo proprio con il Pdl di Berlusconi. Un tradimento politico che non ha precedenti nella storia repubblicana, sancito solennemente dal presidente Giorgio Napolitano, vero, unico, grande regista dell’operazione quando stringendo a sé come un figlioccio che deve fare il bravo il premier Enrico Letta ha detto e ribadito che questo è un “governo politico” sancito da “un’intesa politica”. Che poi questo ibrido mostruoso degno del dottor Frankenstein sia ingentilito da un qualche nome di prestigio in più (Emma Bonino, Fabrizio Saccomanni) e da qualche impresentabile in meno è la conferma dell’imbroglio. L’assenza dei pezzi da novanta, da Brunetta a Schifani, da Monti a D’Alema non è una buona notizia per il nipote di Gianni Letta (zio molto presente nelle trattative) perché non offre sufficiente riparo politico al governo politico che, in men che non si dica, potrebbe trovarsi ridotto a rango di governo balneare. Molto dipende da Berlusconi che ha già piazzato il fido Alfano su due poltrone (vicepremier e ministro degli Interni) tanto perché si sappia che comanda davvero. E anche se la Giustizia è toccata al “tecnico” Cancellieri, al Caimano giustamente preoccupato per l’esito dei suoi numerosi processi non mancheranno gli interventi da larghe, anzi larghissime intese di Csm, Cassazione e Consulta. Ancora una volta, l’uomo di Arcore “a un passo da piazzale Loreto” (Giuliano Ferrara), grazie al suicidio del Pd e agli errori di Grillo (non votare Prodi) può giocarsi due carte pesanti. Sfruttare il più a lungo possibile la svolta di Napolitano e approfittare fino all’osso di un governo di cui è azionista di riferimento. Oppure condurre fino in fondo la battaglia per l’abolizione dell’Imu: formidabile calamita di voti nel caso decidesse di staccare la spina e di prendersi tutto il piatto con le elezioni anticipate già nel prossimo autunno. Lo stesso non si può dire dei Democratici, costretti a cantare viva Napolitano e a portare la croce. Il governo Letta è una vera e propria bomba a orologeria per un partito in dissoluzione, con la base in rivolta e che in Parlamento sarà costretto a cogestire i problemi personali dell’ex nemico. Una delegazione di basso profilo completa la tragedia. Il resto, il rinnovamento generazionale, la bella storia di Josefa Idem campione di governo e la novità di un ministro dell’Integrazione di colore, Cécile Kyenge servono solo ad addolcire un piatto avvelenato.

il Fatto 28.4.13
Il fattore B. e il ritorno del governo ad personam
di Furio Colombo


Tranquilli. È arrivato il nuovo governo. Ci ricorda la Corea del Nord, dove uomini, donne e guardie – qualunque sia il loro grado e funzione – si dispongono in forma ornamentale intorno al capo. Il capo, come tutti vedete, è Berlusconi, e a lui vanno dedicati i titoli di coda di questo filmino non da festival, ma da archivio storico. Infatti tutto ciò che vedete in forma di governo (e di ossequio al volto di Berlusconi detto “il garante”) è opera sua. L'ha voluto, l'ha imposto, l'ha avuto. Come Mediaset e la famosa prima legge ad personam sul diritto di trasmissione in tutto il Paese. Conflitto di interessi, falso in bilancio, furto di giornali e case editrici e fiducie di governo, previo acquisto, contro apprezzabili somme, di giudici e senatori?
DICIAMO che era stato tutto un equivoco. Non c'è stato nessun conflitto, non c'è stata alcuna cacciata malevola da Palazzo Chigi, del premier incompetente e di pessima reputazione, solo una temporanea sostituzione per legittimo impedimento. Ma di cosa sto parlando? Se “la stampa deve fare la sua parte”, come dice l’autorità, è del tutto fuori posto rinvangare un passato sterile e inutile, che sarebbe solo un ostacolo alla nascita del nuovo governo. “Non a caso il capo dello Stato ha parlato di un gabinetto ‘duraturo e di spessore, capace di reggere alla prova del Parlamento’, e composto preferibilmente da ministri che abbiano ‘un profilo non divisi-vo’ – che non siano, cioè, dei reduci di vecchie battaglie” (Francesco Verderami, Il Corriere della Sera, 24 aprile). Io, per esempio, non andrei bene.
DA UN PO’ di tempo (vent'anni) vado ripetendo – insieme ad alcune firme del giornalismo italiano che, per fortuna, scrivono su questo giornale (altrimenti difficilmente sarebbero ospitati da direttori ed editori in vena di violare quel nuovo, grande territorio “condiviso” che è diventata all'improvviso l'Italia) la lista dei reati di Berlusconi e quelli delle sue persone di servizio (nel senso dello spirito di servizio che è la politica) tanto tempo fa (“reduce di vecchie battaglie”) ma anche alcuni anni fa, alcuni mesi fa, alcuni giorni fa. Ho certo preso un abbaglio che mi mette fuori dalla politica condivisa, ma mi pareva (come pare ad alcuni giudici) che tutto fosse ancora in corso, e che Mangano (il pluriomicida mafioso) fosse ancora “il vero eroe italiano” secondo Berlusconi e Dell'Utri. Vedete amici, sembra un'auto-celebrazione. Ma vi dimostro subito che non esagero. “Il punto decisivo – lo sappiamo benissimo senza che ce lo ricordino i professionisti dell'anti-inciucio – è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di una indignazione obbligatoria, del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere la ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione e quant'altro, mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe sempre e comunque l'inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi, il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve diventare l'anticamera di una corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante" (Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 24 aprile).
D’ACCORDO, sembra grave, anzi inconcepibile, un simile testo pubblicato senza ironia, in forma di editoriale, sulla prima pagina di un grande giornale italiano che nega all'improvviso, non solo molte pagine e firme di quello stesso giornale, ma anche il divertente bunga bunga “di buon gusto” (definizione dell'autore) per cui l'Italia è irreversibilmente celebre nel mondo e a cui deve (almeno finché Berlusconi resta il nostro eroe) la perdita di ogni credibilità politica, economica, ma anche di normale rispetto. Però è bene prestare attenzione all'improvviso, clamoroso consenso di tutto ciò che adesso è “condiviso”. Sentite come il giovane, nuovo capogruppo Pd alla Camera, l’On. Pazienza, risponde alla domanda di Sky Tg 24: “C'è preoccupazione su chi, dal lato del Pdl, parteciperà al nuovo governo? ” “Non ci appassiona il toto-ministri”, risponde il nuovo e giovane politico Pd (26 aprile). Per fortuna il senatore Dell'Utri non è più in giro e alcuni intimi di Berlusconi sono già in prigione. Ma l’affermazione è senza dubbio un po’ arrischiata e sarà bene tenerne conto per quando qualche facinoroso verrà a gridare fuori dal Parlamento. Ci fa un po’ di luce un articolo del filosofo Maurizio Ferraris, che solo in apparenza sembra occuparsi d'altro: “Immaginiamo che a un condannato a morte venga offerta l'alternativa tra una pastiglia di cianuro e una, che chiameremo ‘amnesina’, che provoca oblio totale. È probabile che sceglierebbe l'amnesina. Ma è altrettanto certo che (...) l'effetto che produrrebbe l'amnesina sarebbe lo stesso del cianuro: la certezza che quello che è lui, ossia la somma dei suoi ricordi, se ne andrebbe per sempre”. Vi rendete conto? Per evadere, dopo vent'anni, dall'incubo di Berlusconi che torna ad affacciarsi sul teleschermo non meno di dieci volte ogni giorno per decidere della nostra vita, ci stanno proponendo l'amnesina.

il Fatto 28.4.13
Legami di sangue. La saga dei Letta
Grazie zio, la famiglia viene prima di tutto
di Pino Corrias


Nell’evoluzione della famiglia politica centroitaliana – presente in certe zone urbane tra Avezzano, Pisa e Roma, di rito democristiano, docile di indole, dieta vegetariana, abitudini diurne – quella dei Letta-Letta introduce la categoria fino a ieri sottovalutata dei nipoti e degli zii. A GUARDARLA da vicino, ora che il nipote Enrico, 46 anni, sale a Palazzo Chigi e lo zio Gianni, 78 anni appena compiuti, scende dall’attico per dargli il benvenuto, quella famiglia è un guazzabuglio di intrecci (studi legali, cattedre universitarie, giornali, salotti, uffici studi, palazzi del potere) moltiplicata dalla nidiata dei due capostipite, otto figli agli albori del Novecento. Ma in realtà è assai semplice da raccontare, unificata com’è da un sorriso spensierato, come se si stessero limando le unghie, e da una naturale inclinazione alle larghe intese. Lo zio, per dire, non ha ancora lasciato la natia Avezzano che già lo chiamano Zolletta, sia per la quiete che indossa ogni mattina all’alba, sveglia alle 5,45, sia perché convola a giuste nozze con la figlia del direttore dello zuccherificio in cui si è provvisoriamente impiegato. Da lì alla direzione del Tempo, nel cuore della Roma andreottiana, per lui è un piccolo passo di danza incorporato agli inchini, che lo porteranno a presidiare per mezzo secolo tutti i segreti della corte, oltre ai divani della signora Angiolillo, scalinata di Piazza di Spagna, da dove sempre un po’ di grasso cola per i piccoli carrieristi che dalle più remote province approdano lassù. Lui li surclassa impiegandosi direttamente nell’ufficetto del cuore di Silvio Berlusconi, suo eterno editore, ma mai iscrivendosi alla cagnara di Forza Italia, mai sciupandosi la pettinatura con una competizione elettorale, mai lasciando il cielo del divo Giulio, né quello dei Gentiluomini di Sua Santità, consustanziandosi nell’Eminenza Azzurrina di cui, ancora in queste ore, si avvera la leggenda.
Il nipote ha la sua stessa, felpata, velocità. Perfeziona i suoi studi di Diritto delle comunità europee al San-t’Anna di Pisa da dove sono usciti Giuliano Amato, la volpe, il compianto Antonio Maccanico e ora la neo ministro Maria Chiara Carrozza. Impara il francese a Strasburgo. E a far di conto dietro le spalle del grande Beniamino Andreatta, l’unico a cui Prodi ha sempre dato del lei, chiamandolo “professore”, ai tempi del governo Ciampi.
ENRICO TIENE al Milan. Legge Dylan Dog. Detesta gli anni Ottanta, quelli del rampantismo, di Craxi, “che hanno fatto morire la Dc”, uccisa, dice lui, “dall’affarismo”, che poi sarebbero le tangenti, una brutta parola che Enrico non maneggia neanche per citazione, come si addice a un promettente membro del club Bilderberg.
Quando nasce il partito popolare europeo, lo trovano già in sede e a 25 anni lo nominano presidente dei giovani europei. Diventa ministro a 32, con D’Alema. Poi sottosegretario con Prodi, anno 2006, ricevendo le chiavi dell’ufficio proprio dallo zio che era sottosegretario di Berlusconi. Una gag che si ripeterà, a parti invertite, due anni più tardi, quando Enrico restituirà a zio Gianni la poltrona che gli aveva tenuto in caldo. Fino all’altro ieri i due hanno fatto una certa attenzione a non farsi intercettare insieme dai fotografi. Questione di stile, ma anche elogio dell’ombra che piacevolmente li accoglie. Grande è stato il disdoro di Enrico quando proprio un fotografo armato di teleobiettivo ha inquadrato la lettera che dai banchi del Pd aveva fatto recapitare da un commesso a Mario Monti, appena accomodatosi sul banco del governo: “Mario quando vuoi dimmi forma e modi con cui posso esserti utile dall’esterno; sia ufficialmente, sia riservatamente”. Ora le cautele fotografiche si sono volatilizzate. L’altra sera, nei panni del Conte zio, Gianni si è platealmente materializzato al fianco del nipote. Spalla a spalla mostravano quel “75 per cento di affinità” di cui narrano le rispettive biografie, e che ora hanno intenzione di perfezionare. Il messaggio era: ecco a voi il passato, il presente e il futuro. Almeno finché dura.

il Fatto 28.4.13
Gli elettori Pd svenduti al Caimano
Sarà dura per i vertici del Nazareno farlo digerire agli otto milioni e mezzo di persone che hanno votato contro Berlusconi e si ritrovano alleati del Pdl e con Alfano al Viminale
La caduta, la rivincita e ora il sogno: nomina di senatore a vita
Caimano forever. Per B. ora il trionfo
di Davide Vecchi


Milano Gran festa nel regno di Arcore. Silvio Berlusconi ritorna vincitore. Ora guarda allo scranno da Senatore a vita e aspetta che si liberi il Quirinale. Sognare è più che legittimo. Ciò che sembrava utopia, del resto, s'è realizzato. Appena tre mesi fa era dato per spacciato. Il Pdl raggiungeva negli adorati sondaggi un nuovo minimo storico ogni giorno. Tanto che per comporre le liste elettorali, a Palazzo Grazioli ci fu una drammatica sfilata di peones per i primi posti: il rischio di restare a casa, per molti, era alto. Oggi il partito dell'amore è l'indispensabile colonna del governo e il suo segretario, Angelino Alfano, vicepremier.
IL CAVALIERE lo propose a Pier Luigi Bersani a fine marzo e per tutta risposta l'allora segretario del Pd disse: “Alfano vice? Non scherziamo, serve serietà”. Alfano oggi è lì. Bersani no. E forse per smacco Berlusconi ha voluto che all'obbediente delfino, costretto per un anno all'imbarazzante balletto primarie sì primarie no, fosse affidato anche il Viminale. Spostando Rosanna Cancellieri alla Giustizia perché tanto, se tutto andrà come previsto, i lodi e le leggi ad personam, che Alfano confezionava con amorevole cura insieme a Niccolò Ghedini, non serviranno più. I processi di Milano, confida il Cavaliere, saranno trasferiti a Brescia e c'è il miraggio della prescrizione. Il rischio è alto, le condanne cui va incontro pesanti. Prostituzione minorile per Ruby, frode fiscale nel caso Mediaset in appello e soprattutto, se confermata la richiesta di condanna formulata in primo grado, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre dalla guida delle sue aziende. La morte politica. Ma come Giorgio Napolitano è intervenuto pubblicamente per fermare i pm ora il governo Letta fornirà la giusta protezione. Altrimenti “tutti a casa, nuove elezioni e mi ricandido premier”, ripete ormai da settimane; certo che riuscirebbe a conquistare nuovamente Palazzo Chigi con ampia maggioranza: i sondaggi sono tornati a sorridergli col 38% e più.
Le ultime garanzie le ha chieste ieri in un incontro di oltre tre ore avuto con Enrico e lo zio Gianni, insieme ad Alfano. Dall'incontro Letta jr è uscito con la lista dei ministri ed è corso da Napolitano. Gongola, Berlusconi. Anche la promessa squisitamente elettorale di restituire i soldi dell’Imu potrebbe vedere la luce. Quando la fece, dal palco a Milano poco prima del voto di febbraio in un incontro pubblico in un padiglione della Fiera per metà deserto, aveva il sorriso del venditore che spara l’ultima cartuccia sapendo di perdere. E invece è stata l’imprevista rimonta. Il vincitore annunciato, il Pd, è stato il vero sconfitto. Certo rimaneva il nodo giustizia. A Marzo i pm di Napoli e Milano, dopo aver atteso le elezioni, ricominciano a lavorare e convocano Berlusconi. Lui non può sollevare legittimi impedimenti per l’attività politica ma il 5 marzo invia il primo di tre certificati: “Soffre di uveite”, spiegò Alberto Zangrillo, medico personale dell'ex premier. “Una sindrome infiammatoria dell'occhio che si trascina da tempo e non accenna a regredire. Il presidente necessita quindi di almeno 7 giorni di riposo assoluto senza esporsi alla luce. Dovrà stare segregato per una settimana”.
DOPO IL TERZO certificato medico Il-da Boccassini invia la visita legale a Berlusconi. Lui, in tutta risposta, dopo aver definito “la magistratura un cancro per l’Italia peggiore della mafia”, fa organizzare al Pdl una manifestazione davanti palazzo di giustizia.
L’attuale vicepremier e ministro dell’Interno è alla guida della protesta, seguito, fra gli altri, da Nunzia De Girolamo, oggi ministro dell’Agricolttra. “Uno scandalo: stanno tentando di eliminare per via giudiziaria Berlusconi”, grida il titolare del Viminale che insieme ad altri parlamentari della Repubblica arriva a occupare il corridoio davanti all’aula dove si stava celebrando il processo Ruby. “Abbiamo un interlocutore di cui ci fidiamo: è Giorgio Napolitano, Capo dello Stato e Presidente del Csm”, dice andandosene. Era l’11 marzo. Neanche 24 ore dopo il Colle interviene: “È comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile”. Il giorno dopo Berlusconi lascia il San Raffaele. A chi andava a trovarlo nella stanza-suite durante il ricovero ripeteva: “Vogliono farmi fare la fine di Craxi”. Certo Antigua è pronta, ed è molto meglio di Hammamet. Ma può ancora aspettare. Perché Berlusconi è tornato al governo. Risorto politicamente in appena tre mesi, ieri ha portato a casa il bottino più alto: persino Beatrice Lorenzin, ex segretaria del fidato Paolo Bonaiuti, ha avuto un ministero (la salute) più pesante di quelli andati al Pd. Poi Alfano, Lupi, Quagliariello. E Gianni Letta che veglia sul nipote, anche per lui.

il Fatto 28.4.13
Sono morti democristiani
Ai democratici servivano pochi voti, invece sono finiti ostaggi di B.
E Letta già si lamenta “Il Cav. parlava solo dei suoi guai giudiziari”
di Fabrizio d’Esposito


Piove, governo Letta. Una nuvolaglia grigissima si addensa sul Quirinale alle cinque del pomeriggio. I giornalisti aspettano in fila, sotto la pioggia. Enrico Letta è al Colle già da due ore. Il premier incaricato arriva direttamente da Montecitorio e ha con sé la bozza della lista dei ministri. Gli incontri con Monti e Bersani sono andati bene, quello con Berlusconi no. Al telefono, dopo aver visto il Cavaliere, lo sfogo di Letta junior non è stato moderato, com’è nel suo stile: “Ho parlato tre ore con lui ed è stato molto faticoso, tornava sempre sui suoi problemi personali, si è sfogato per le sue aggressioni giudiziarie. Io tentavo di riportare il discorso sulla squadra di governo e lui riparlava dei suoi problemi”.
NASCE COSÌ, sulla pietra angolare dei guai giudiziari di B., l’inciucio democristiano che mescola “pulcini”, seconde file e qualche big di Pd, Pdl e Scelta Civica. Un perfido tweet di quel vecchio marpione di Paolo Cirino Pomicino, eternamente andreottiano, rende l’idea della creatura partorita da Napolitano, Berlusconi e infine Enrico Letta: “Un giovane e ottimo governo a larga partecipazione democristiana”. Anche e soprattutto nel Pd: su nove ministri, senza contare Letta, la sinistra fu Ds è rappresentata dal ministero dell’Ambiente, il giovane turco Andrea Orlando, e da quello dello Sviluppo economico, il sindaco di Padova Flavio Zanonato, che è stato anche nel Pci. Ma i numeri del Pd non devono ingannare soprattutto per un altro motivo: al partito del premier, infatti, non è andato alcun ministero di peso, di prima fascia. Ben cinque sono senza portafogli: il big centrista Dario Franceschini a Rapporti con il Parlamento e coordinamento dell’attività di governo; la congolese bersaniana Cecile Kyenge all’Integrazione; la teutonica sempre bersaniana Josefa Idem a Pari opportunità, sport e politiche giovanili; Carlo Trigilia, proveniente da ItalianiEuropei, la fondazione di D’Alema e Amato, alla Coesione territoriale; il renziano annunciatissimo Graziano Del-rio agli Affari regionali. Il resto: la lettiana Maria Chiara Carrozza all’Istruzione e il dalemiano Massimo Bray ai Beni culturali.
LA SOSTANZA vera di questo monocolore dc che rischia la definizione di governo balneare, da qui all’autunno, è spartita tra Napolitano, Berlusconi e gli ex tecnici di Monti. Il gioco dei veti incrociati sui big ha pesato eccome sulla composizione della lista che Letta junior ha iniziato a leggere alle 17 e un quarto nella sala alla Vetrata del Quirinale. Prima un ringraziamento al capo dello Stato, poi quattro fogli con la dicitura “Elenco Ministri Governo Letta”, dove due nomi sono persino sbagliati: Del Rio anziché Delrio e Di Girolamo al posto di De Girolamo. Quest’ultima è donna e berlusconiana, con un marito lettiano, Francesco Boccia. Nunzia De Girolamo alle Politiche agricole compone il quintetto base del Pdl insieme con Angelino Alfano, vicepremier e ministro dell’Interno; Gaetano Quagliariello, già “saggio”, alle Riforme costituzionali; il ciellino Maurizio Lupi alle Infrastrutture e trasporti; Beatrice Lorenzin alla Salute. C’è poi Ma-rio Mauro, alla Difesa, che è stato berlusconiano fino all’estate scorsa. Diventato montiano di Scelta Civica è rimasto però ciellino. Mario Monti, da oggi ex premier, oltre a Mauro si è intestato solo un altro ministro, peraltro il confermato Enzo Moavero Milanesi agli Affari europei. Per il resto Gianpiero D’Alia alla Pubblica amminitrazione è l’obolo all’Udc e il trasloco di Anna Ma-ria Cancellieri dal Viminale alla Giustizia è frutto di una lunga mediazione.
Al Quirinale, infatti, Letta junior è arrivato con due caselle vuote: Giustizia ed Economia, da riempire con la supervisione di “Re Giorgio”. Il prescelto Michele Vietti non andava bene a B. e così la trattativa con il Cavaliere, facilitata da Monti, si è risolta sul nome del prefetto. Anche l’Economia, al centro di un altro scontro con il Pdl, è andata a Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, con il sì decisivo di Berlusconi. Un “saggio” promosso come Quagliariello è il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, destinato a Lavoro e politiche sociali. Altro tecnico uscente è invece Filippo Patroni Griffi, da oggi sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio.
L’unica vera sorpresa è stata la radicale Emma Bonino agli Esteri. Da segnalare che il capolavoro di mescolanza demo-cristiana vede al governo sia la Bonino sia Quagliariello, ex radicale poi teocon che gridò “assassini” al Senato nel giorno della morte di Eluana Englaro.
Letta junior ha letto la lista in uno, massimo due minuti. È sembrato molto più lungo, e inusuale per il protocollo, l’abbraccio tra lui e Napolitano alla fine dell’incontro con la stampa, un abbraccio che suggella la nascita di un altro governo del presidente dopo Monti. Non più tecnico ma politico, con una guida bicefala (Letta e Alfano) e un corpo giovane e forse troppo esile per resistere quando sarà tempo di bufera, in autunno.

il Fatto 28.4.13
Così il Pd si consegna a B. e tradisce i suoi elettori
Figure di secondo piano in ministeri marginali
di Wanda Marra


“Noi e il Pd avevamo sottoscritto un patto di fronte a milioni di italiani che ci diceva: andate a governare per tirare fuori l’Italia dal berlusconismo, non per abbracciare Berlusconi”. Nichi Vendola davanti ai microfoni del Tg3 descrive una realtà amara, che ieri ogni dirigente democratico cerca di cancellare e di rimuovere. Lui con Sel è passato all’opposizione. Il Pd è andato a fare le larghe intese. Un governo “politico” come lo ha voluto definire con tutto il suo peso il presidente Napolitano con il Pdl. Quello che Bersani - e a turno ogni rappresentante del Pd - aveva promesso che non ci sarebbe mai stato.
ALLA FINE, sono nove i ministri in quota democratica (oltre al premier). Perlopiù ministeri minori e politici non di primo piano. Divisi tra correnti, tecnici e facce nuove. C’è il bersaniano ex comunista, il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, il Giovane Turco, Andrea Orlando, il capo corrente di Area Dem, Dario Franceschini, il renziano, Graziano Delrio. E poi, il direttore dell’ Enciclopedia Treccani, Massimo Bray, uomo di Massimo D’Alema (e anche di Giuliano Amato), il rettore dell’università Sant’Anna di Pisa, Maria Chiara Carrozza, legata alla famiglia Letta, la campionessa olimpica Josefa Idem (vicina a Bersani), Carlo Trigilia (Italianieuropei). E CecileKyenge, neodeputata, fuori dal gioco delle correnti. Basso profilo, fuori tutti i big. “Il Pd ha fatto un’operazione politica precisa”, spiega Luigi Zanda, capogruppo al Senato.
In ballo fino a ieri mattina c’erano anche D’Alema, Finocchiaro e Amato. Qualche ambizione la vantava pure Marini. Letta l’aveva detto in tutti i modi che voleva un governo di quarantenni. Poi ha visto Pier Luigi Bersani, che sostanzialmente gli ha garantito il suo sostegno, ma ha anche ribadito la necessità di tenere fuorigli“impresentabili”. “Informa il Pdl che non farai il governo a tutti i costi”, gli avrebbe detto. Asse rinsaldato tra i due, almeno per ora. Tanto che i bersaniani, Stumpo e Zoggia si affrettano a definire nel nome del “rinnovamento” e del “cambiamento” l’operazione-Letta. Mostrano entusiasmo i deputati di Area Dem. “Bravo Letta, fatte scelte non scontate”, dice Antonello Giacomelli, braccio destro di Franceschini. Lui, il neo Ministro per i Rapporti con il Parlamento commenta su Twitter: “Se un amico, vero, chiede una mano in un’avventura così difficile si risponde di sì. Anche caricandosi il lavoro più difficile e meno visibile”. Dopo la delusione della mancata presidenza della Camera e la bocciatura del suo candidato, Franco Marini, al Quirinale, una soddisfazione. Il trio che ha gestito l’ultima fase politica del Pd è diversamente rappresentato: Enrico Letta a Palazzo Chigi, a Franceschini un ministero e in quota Bersani persone non troppo esposte. L’altro polo del Pd è - appunto - renziano. Storia a parte quella dei Giovani Turchi. Avevano dichiarato che un governo così non lo volevano. Si erano persino astenuti nel voto della direzione che dava la delega in bianco a Napolitano. “Avrei preferito che Letta non me lo chiedesse, ma me l’ha chiesto - commenta il neo ministro all’Ambiente, alla tutela del mare e al territorio, Orlando (che appunto s’era astenuto) - è un governo non eccessivamente appesantito, che rappresenta anche un cambiamento. E allora, perché riesca, meglio esserci che non esserci”. Poi spiega: “Avevo sostenuto che era più utile Stefano Fassina”. Mettendo il più “politico” della corrente, Letta prova a disinnescarli. Difficile pensare che Fassina potesse entrarci, visto che è su posizioni diametralmente opposte sui temi economici e del lavoro del neo Premier.
POI, C’È ANCHE chi sostiene che è stato lasciato fuori perché è uno dei nomi spendibili - insieme a Guglielmo Epifani - come reggente del Pd. Per un riequilibrio del partito a sinistra, fino al congresso, insieme a un comitato collegiale. Resta da capire cosa resterà del Pd da qui al congresso. E del governo. “Reggente del Pd? Forse auto - reggente”, ha scherzato ieri sera Renzi. Ribadendo che lui il segretario non lo vuol fare perché è più adatto “ far funzionare le cose”. Da Palazzo Chigi. Ennesimo avvertimento a Letta, se ce ne fosse bisogno. “Una parte del Pd ha preferito vincere le primarie, piuttosto che le elezioni”. Ancora il Sindaco. Domani alle 9 c’è l’assemblea dei gruppi parlamentari per decidere se dare la fiducia. Solo Civati annuncia battaglia. Gozi e Puppato si sono ammorbiditi. Gira un documento del disagio in cui si dice che la battaglia sarà condotta dopo, sulle leggi. Possibili adesioni della Zampa e di Mineo. Ma c’è l’incognita giovani. E la variabile vendette trasversali.

il Fatto 28.4.13
L’intervista: Franco Cordero
“Napolitano ha pretese da monarca”
di Silvia Truzzi


Professor Cordero, il Presidente della Repubblica ha criticato duramente deputati e senatori, che l'hanno applaudito. Si è scritto d’un masochismo parlamentare: che spettacolo abbiamo visto?
Ce ne sono di migliori: un vecchio signore apostrofa l'assemblea agitando la frusta, e l'applaudono ma siamo in Italia, dove melodramma, commedia, farsa appartengono al quotidiano; parole, mimiche, gesti vanno letti in varie chiavi. Il fondo è conformismo sogghignante, venato d'una cinica crudeltà. Capisce poco del fenomeno italiano chi prenda alla lettera maschere ed eloquio.
Chi ha vinto, alla fine?
“Ho vinto io”, dichiara ridendo B., nel cui quadro mentale vero e falso non differiscono, fluida essendo ogni verità, come nel buio 1984 che Orwell moribondo raccontava, e stavolta crediamogli: 18 mesi fa pareva sepolto, avendo condotto l'Italia a un passo dal tracollo, mentre lui s'arricchiva; ridisceso in campo, sfiora la vittoria elettorale; ed è partner dominante del futuro assetto. Quanto conti, lo dicono due gravi dibattimenti penali: mancava solo la sentenza; voleva impedirla e vi sta riuscendo; tra i compiti del governo nascituro uno, capitale, è liberarlo dalle pendenze penali.
Ma Berlusconi era completamente alle corde!
Era alle corde. Come ha vinto? Senza combattere, gli basta chinarsi e raccogliere. Nel tardo autunno 2011 barcollava stordito dai colpi: lo salva uno scacchiere politico ibernato sotto il governo tecnico, finché rompe l'accordo; e nello stallo postelettorale prendono corpo “larghe intese”, formula eufemistica dell'innaturale matrimonio Pd-Pdl, suicida rispetto al primo. Il candidato al Quirinale era scelto in tale funzione, ma soccombe al primo voto.
Chi ha aperto la via alle “larghe intese”?
Berlusconi bolle l'indomani quando il plenum Pd schiera Romano Prodi nel quarto turno: è temibile; l'aveva sconfitto due volte; liquiderebbe la linea omertosa, su cui lavora una componente riconducibile all'intrigo bicamerale 1997-98. Qui sopravviene il fattore causale negativo. Le Cinque Stelle votavano Stefano Rodotà, nome perfetto ma gl'influenti nel Pd non lo vogliono, e siccome l'arte politica opera sul fattibile, s'imponevano dei ripensamenti; è atto sterile vincere la partita morale sostenendo candidati perdenti, quando la convergenza su Prodi chiuderebbe le porte all'invasore. Lo dicono i numeri: acquattati nella cabina, i bicameralisti voltano la schiena al candidato ufficiale, e stupirebbe un voto leale, ma basta l'apporto esterno; non averne tenuto conto è errore strategico, determinante. Affossata la candidatura forte, il partito sarebbe ricaduto nel penchant suicida. Grillo definisce tale evento in lingua shakespeariana: vanno a nozze i due che copulavano da vent'anni; metafora perfetta ma chi ha mandato a monte l'alternativa pulita? Vengono da lì prevedibili sventure. L'allegro beneficiario eriga un monumento a quel voto.
Non abbiamo mai avuto un Capo dello Stato così interventista.
È luogo d'effetti singolari l'Italia: l'affarista corruttore, smisuratamente ricco, plagia le platee; e avevamo una Repubblica parlamentare ma il Presidente in carica governa, attuando quel che 106 anni fa chiedeva Sidney Sonnino, gentiluomo maniaco, funesto in buona fede (Nuova Antologia, 1 marzo 1897): lo Statuto Albertino forniva qualche appiglio in residui verbali d'ancien régime; l'attuale Carta, no. L'uomo era poco visibile nelle file Pci. Fortunosamente asceso al Colle, parla molto, in un registro d'ipertrofia del potere: vanta prerogative da monarca (nel giorno in cui, rieletto, apostrofa le Camere, vanno in fumo i nastri contenenti misteriosi dialoghi suoi con un ex ministro) ; nella fattispecie opera quale stratega politico. L'idea fissa è che in logica costituzionale Silvio Berlusconi non differisca da Marco Minghetti o Quintino Sella: quindi sia buon maestro d'orchestra; e i dissonanti dal coro meritino castighi. Aveva anche messo mano a una delle leggi invalide con cui il predetto schivava i processi. Incredibile dictu, non vede l'enorme anomalia d'uno Stato in mano al pirata: nella crisi post elettorale rilancia “larghe intese”, in secchi termini imperativi; spiega alle Camere che difetto culturale sia non convolare sotto l'ala d'Arcore; e mancando l'accordo, le scioglierebbe, prospettiva terrificante in casa Pd, mentre B. s'ingrassa.
Giornali entusiasti però.
La stampa governativa gli canta ditirambi quali fiorivano negli anni Trenta: discorso “storico”, nel senso che apra un'epoca, ecc. ; salpiamo verso la nuova Repubblica. Vero, e volendo trovare un nome mitologico al transito, chiamiamolo “Caronte”, con una variante: nel terzo capitolo dell'Inferno le “anime prave” non applaudono il vegliardo che le traghetta; nella commedia italiana succede.
Si sono sprecate le definizioni: governo di scopo, di salute pubblica, del Presidente. Ma davvero sarà “temporaneo”?
L'entusiasta Olonese non sta nella pelle, era uscito dal sarcofago; ha vinto e siccome fortune simili abbagliano la platea, salirà ancora, mentre gli avversari affondano. Che sia lui a condurre il gioco, consta da come martedì mattina 23 aprile sbarra l'incarico al concorrente pericoloso. Non lo è il designato, vicesegretario Pd, mellifluo dialogante, nipote dell'onnipresente Gianni Letta plenipotenziario Pdl, caro al Quirinale: condannava l'antiberlusconismo e dal punto di vista d'Arcore va benissimo. Non sarà “governo ad ogni costo”, avverte (eufemismo democristiano vieux style), ma chi gli crede? Ormai esiste un padrone molto visibile: sceglie i ministri; fissa i legiferanda (salvacondotto penale, divieto d'intercettare, mano morbida contro corruttori e corrotti, guida politica delle procure, ecc.) e gli argomenti da non toccare (cominciando dal colossale conflitto d'interessi). Questo governo nascerà, durando finché gli convenga: ha in tasca il decreto che sbanda le Camere, e la pistola alla tempia assicura un Pd condiscendente, purché sia salva qualche forma a buon mercato. Mala tempora, né confortano analogie storiche: l'inesistente Luigi Facta lascia il posto a Mussolini; dopo Franz von Papen, cavallerizzo vanesio, e Kurt von Schleicher, generale intrigante, viene Hitler. L'Olonese se li divora i partner d'una partita impossibile.

La Stampa 28.4.13
I due mesi orribili del partito che va alla resa dei conti
Al Congresso arriva diviso e con la segreteria dimissionaria
di Federico Geremicca


È vero, non suona bene: perché se dici governo Letta-Alfano, le prime cose che vengono in mente sono Berlusconi, Palazzo Grazioli e certe interminabili riunioni dello stato maggiore del Pdl. Ma considerato che il Letta è Enrico e che Palazzo Grazioli non c’entra niente, per il Pd - per i suoi dirigenti e i suoi elettori, soprattutto - poteva suonare anche peggio. E invece, giunti i democratici ad un solo passo dal loro baratro, il tandem Napolitano-Letta è forse riuscito ad evitare il disastro ed il definitivo deragliamento del Pd: dove una piccola folla di deputati e senatori non aspettava altro che leggere certi nomi nella lista dei ministri (diciamo Schifani e Brunetta, ma anche Santanchè o Gasparri...) per prendere il soprabito, salutare i presenti e andare via.
E così, quando stamane Enrico Letta giurerà nelle mani del Capo dello Stato, metterà la parola fine a due mesi che per il Pd sono stati cupi come un incubo. Il bilancio è pesante, e le macerie che ingombrano il terreno sono lì a confermarlo: un segretario costretto alle dimissioni, un gruppo dirigente triturato, la rabbia di iscritti ed elettori, il patto con Sel infranto e addirittura il rischio di rotture e scissioni. Politicamente, un disastro. Eppure - ed è un paradosso - sul piano delle «posizioni di potere» per il Pd (e il centrosinistra) questi due mesi sono sembrati invece una marcia trionfale: il 30% dei consensi è infatti stato sufficiente per conquistare le presidenze di Camera e Senato, prima, e Quirinale e governo, poi. Il dato, naturalmente, non è irrilevante: e peserà non poco - magari alleggerendo il clima - nella discussione che il Pd si accinge ad affrontare.
Ma la circostanza che probabilmente eviterà scissioni (o le ridurrà al minimo) è proprio il profilo dato al governo-Letta. L’assenza di esponenti Pdl «impresentabili» e quella - contemporanea - di tutti i leader storici del pd (da D’Alema a Marini, da Veltroni a Bindi) hanno tolto molti argomenti al cosiddetto «fronte scissionista» (che Civati quantifica in una cinquantina di parlamentari e Puppato in solo una ventina). Per i «dissidenti» resta - è vero - il vulnus di un accordo politico con Berlusconi che il Pd aveva annunciato di ritenere impraticabile: ma le tante novità del governo (i giovani, le donne, le competenze) rendono più difficile spingere sull’acceleratore fino a giungere ad un voto contrario sulla fiducia e, quindi, alla rottura.
D’altra parte, tempo e luoghi per discutere dello stupefacente sfarinamento del Pd non mancano. Il percorso è tracciato: il Congresso era già previsto per l’autunno, sabato prossimo l’Assemblea nazionale deciderà se anticiparlo e - soprattutto - su che binari incanalare un confronto politico non più rinviabile. E il fatto che a questi appuntamenti il Pd ci arrivi con Bersani e la sua segreteria già dimissionari può forse favorire una discussione più libera da personalismi.
Ciò di cui i democratici hanno assoluto bisogno è un confronto politico a tutto campo col quale tornare a definire la linea da seguire, la natura del partito e perfino gli strumenti attraverso i quali assumere decisioni. Quel che infatti si è rivelato dopo il voto, è stato un partito incapace di scegliere tra due opzioni politiche addirittura opposte: per sintetizzare, se cercare una alleanza con Grillo o con Berlusconi. Una indeterminatezza che nel voto per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica ha portato il Pd all’impensabile: e cioè a votare per Marini il giovedì assieme a Berlusconi, e il giorno dopo per Prodi contro Berlusconi. Il fatto che sia il primo che il secondo alla fine siano malamente affondati, non può dunque esser considerato un caso: a prescindere dall’insubordinazione di tanti parlamentari democrats.
Anzi: proprio l’«ingovernabilità» dei gruppi parlamentari ha riaperto una questione che sembrava risolta: e cioè l’uso delle primarie. Bersani ha molto lodato, nei giorni successivi al voto, il rinnovamento dei gruppi, pieni di giovani e di donne selezionati - appunto - con le primarie. Quando però la base del Pd si è ribellata all’intesa sul nome di Marini e perfino di Prodi, protestando con mail e tweet al vetriolo (e determinando ripensamenti tra i parlamentari) l’indice si è puntato contro i neoeletti troppo deboli e «permeabili», perchè scelti con la primarie. Eppure, ancora un mese prima, era tutto un lodare le primarie, grazie alle quali Bersani si era (momentaneamente) liberato di Renzi. Se ne tornerà a discutere. E soprattutto si attende di sapere cosa pensa di quanto accaduto lo storico gruppo dirigente dell’Ulivo prima e del Pd poi. D’Alema, Bindi, Prodi, Veltroni, Finocchiaro e gli altri sarebbero furiosi per la gestione del dopo-voto. È davvero così? Non bisognerà attendere molto per sapere la verità.

La Stampa 28.4.13
Il Pd guarda avanti e si apre lo scontro
Per la guida del partito sale l’ipotesi Epifani. Renzi: “Io reggente? No”
di Carlo Bertini


«Certo, con Letta premier e un governo Pd-Pdl, serve tenere il campo della sinistra riformista e una segreteria affidata a Epifani eviterebbe di spalancare praterie a Vendola e ai grillini», dice uno dei pezzi grossi di nuova generazione, di area dalemian-bersaniana. Smaltita la pratica delle frasi di incoraggiamento al governo Letta, con Bersani in prima fila impegnato a «lodarne la freschezza e solidità» e ad augurarsi «il sostegno di tutto il Pd», nel Pd si guarda già avanti: a come gestire la ferita con gli elettori che soffrono il governissimo e a mettere al riparo la ditta dalle incursioni a sinistra. E che ora nel Pd si aprirà uno scontro su chi avrà la leadership fino al congresso è cosa sicura, a sentire cosa dicono i «compagni» di ogni ordine e grado. E ascoltando Renzi da Fabio Fazio su Rai3, «la lista dei ministri è migliore delle aspettative, questo è un governo che manda in pensione una generazione di big», si capisce che la bussola ormai è il rinnovamento e che anche la scelta di chi guiderà il partito non sarà indolore. Anche se il rottamatore si tira fuori. Lei è interessato a diventare il «reggente del Pd? », gli chiede Fazio. «Il reggente, l’autoreggente... », e giù scroscio di risate in sala. «È un periodo che vengo candidato a tutto. La risposta secca è no, perché non sono adatto. Voglio stare dentro il Pd, ma mi ci vede a fare l’equilibrista che tiene insieme spifferi e correnti? Sono più adatto a tentare di cambiare le cose nel paese».
Ergo, se colui che viene ormai considerato il futuro leader non vuol essere della partita, è facile prevedere che la grande area trasversale che ormai fa riferimento a lui avrà qualcosa da ridire che a gestire il partito possa salire un ex segretario della Cgil, pur se fosse uno stimato riformista come Epifani. Non è un mistero che il suo nome sia in cima alle preferenze dello stesso Bersani per la «reggenza» del partito che sarà votata sabato prossimo dall’assemblea plenaria. L’ex leader si è speso nell’ultimo giro di boa per far entrare nel governo ministri a lui vicini, come Zanonato, la Carrozza e la Idem; insieme a Letta ha deciso di stoppare le ultime richieste del Pdl «che stava alzando troppo l’asticella delle pretese», raccontano i bersaniani. «Ora pure se ha prevalso il killeraggio al governo del cambiamento bisogna dare una mano a questo tentativo di Letta», sono i ragionamenti che fa Bersani con i suoi uomini. E il successo di questo tentativo «dipenderà dai suoi primi passi, perché Enrico l’imprinting di quello che doveva essere il nostro governo lo darà». Certo, ora è stata fatta la scelta di dar vita ad un esecutivo politico col Pdl e bisogna ridurre i danni.
Un primo sondaggio tra i parlamentari alla vigilia delle assemblee dei gruppi di domani ha rassicurato i capigruppo e l’area del dissenso si prevede più contenuta del previsto. «Certo il documento critico come l’avevamo pensato ora è superato», ammette uno dei suoi promotori Sandro Gozi. Anche i «giovani turchi» al di là dell’ingresso nel governo di uno dei loro leader, Orlando, sono più tranquilli. «Avevamo chiesto a Enrico Letta una foto che guardasse al futuro e non al passato e per questo siamo soddisfatti: molti giovani competenti, molte donne e un generale rinnovamento», dice una «turca» emergente, la vicecapogruppo Silvia Velo.
In ogni caso Bersani darà una mano per far rientrare i maldipancia e per evitare che si scarichino sul partito. Ed è convinto che dopo un governo di larghe intese ci sia bisogno di «assumere un profilo netto e di sinistra», per dirla col suo portavoce Stefano Di Traglia. Che non lesina gli aggettivi sulla figura di Epifani, «solido, di cultura politica, già a capo di una grande organizzazione, insomma uno su cui puntare». E nel frattempo si vedrà se il governo Letta avrà vita facile. Aiuterà la coesione del Pd o favorirà la scissione? chiede Fazio a Renzi: «Aiuterà a riflettere e sono ottimista e a quelli che dicono “non votiamo la fiducia” dico di darsi una calmata: guardate prima com’è, e che discorso farà il premier».

La Stampa 28.4.13
Non era tra i favoriti, ma poi Orlando vince il derby con Fassina
di Guido Ruotolo


Andrea Orlando Ministro all’Ambiente, portavoce del Pd dal 2008, ha 44 anni ed è nato a La Spezia. Nel 1989 è stato segretario provinciale della Fgci. È stato eletto per la prima volta nel 2006 nelle liste dell’Ulivo
Di tutto il gruppo dei cosiddetti «giovani turchi», alla vigilia della formazione del governo, il suo nome non era certo quello sul quale puntavano gli scommettitori. Stefano Fassina veniva dato (quasi) per certo, nelle indiscrezioni della vigilia. Addirittura avrebbe occupato la poltrona del Welfare. E invece alla fine l’ha spuntata Andrea Orlando, spezzino, diplomato e non laureato, responsabile Giustizia del Pd dell’era Bersani.
A dire la verità, mezz’ora prima che si aprisse la porta della Sala delle Vetrate del Quirinale, quello che sarebbe poi stato nominato ministro dell’Ambiente, confidava i suoi dubbi: «Il mio nome dovrebbe esserci. Ministro per i rapporti con il Parlamento. Beh, da questa postazione potrei considerarmi un privilegiato visto che mi ritroverei dentro e fuori il governo, nel gorgo dei rapporti con il Parlamento, a dialogare con i rappresentanti della società civile, anche con i grillini».
Mezz’ora dopo, Andrea Orlando si è ritrovato invece sulla poltrona che fu del tecnico Corrado Clini, il ministero dell’Ambiente. Taranto, l’Ilva, l’Autorizzazione integrale ambientale. E poi i rifiuti, i siti industriali da bonificare.
Di emergenze da affrontare, Orlando ne avrà diverse. Prima di essere candidato nella sua Liguria, ha svolto anche la missione di commissario del partito a Napoli. «La prima cosa che farò da ministro dell’Ambiente? Andrò a Giugliano, nel Casertano, a Gomorra. Dove l’ambiente è stato massacrato dagli uomini e dalle macchine. Quelle terre vanno bonificate. Da tutti i punti di vista».
I «giovani turchi» avevano deciso, una volta che il presidente Giorgio Napolitano aveva affidato l’incarico a Enrico Letta, di non porre nessuna rivendicazione al candidato premier, per evitare «l’ingorgo delle correnti». Insomma, non volevano certo rappresentare loro un ulteriore problema, pur avendo dubbi e perplessità sulla strada intrapresa.
Dario Franceschini, uno degli «emissari» di Enrico Letta, nella giornata di venerdì ha consultato i «giovani turchi». Andrea Orlando, di fronte a una richiesta di indicare un «profilo utile», fa un nome a Franceschini, quello di Stefano Fassina, «per la sua importante forza comunicativa».
Ieri, i segnali di interesse erano puntati proprio su di lui, su Andrea Orlando. Lo stesso presidente incaricato, di fronte ai dubbi e alle perplessità di accettare un eventuale incarico di governo, ha chiamato Orlando: «Dopo che vi siete battuti per un governo più aperto e più rinnovato che fate? Vi tirate indietro? È una contraddizione». A quel punto, Andrea Orlando ha avuto davvero poco tempo per sciogliere la riserva.
E alla fine ha deciso di accettare. Pensava di diventare ministro per i rapporti con il Parlamento, per dialogare con i grillini, e invece è stato premiato con il ministero per l’Ambiente. E si troverà a discutere di inquinamento e ambiente con i cittadini.

Repubblica 28.4.13
Pacificazione e impunità
di Nadia Urbinati


Si sente dire che questo governo delle larghe intese sia il suggello di una promessa di riconciliazione tra forze politiche che per anni si sono contrapposte; in sostanza, di chiusura del ventennio belusconiano. Non semplicemente un governo di emergenza per rispondere alla situazione economica e sociale critica nella quale si trova il paese e per rimediare all’esito elettorale che ha prodotto uno stallo vero e proprio. Insomma nessun’altra soluzione pratica era possibile anche perché andare a elezioni con questo sistema elettorale non prometteva di risolvere il problema. Quindi necessità. Questo dovrebbe in teoria bastare a giustificare questo arduo parto, un connubio tra due forze che, nella nostra mente almeno, sono e restano inconciliabili, salvo appunto dover ammettere un accordo di fronte all’alternativa estrema, che è quella della necessità, della mancanza di una via d’uscita.
Se il Pd si fosse mosso all’interno di questa logica, la brutta creatura che ha contribuito a far nascere verrebbe nobilitata con ciò che basta a giustificarla: l’uscita da un cul-de-sac che paralizza la politica facendo un pessimo servizio anzi un grande disservizio al paese. Avrebbe anche molto chiaro lo scopo dell’alleanza, che è quello di rimuovere la ragione che l’ha resa necessaria: un sistema elettorale ideato e voluto proprio per generare permanentemente una condizione che blocca l’alternanza cosa che, come vedremo tra poco, non conviene per nulla a uno dei partner. Rifare la legge elettorale e risolvere le urgenze sul fronte dell’emergenza lavoro e quindi prepararsi per una nuova tornata elettorale. Questo piano sarebbe non solo comprensibile ma ragionevole e razionale. Perché non darebbe adito a nessun retropensiero sulle vere e non dette ragioni di questo smodato amore per la concordia che muove un leader, Silvio Berlusconi, che conosce e pratica bene la lotta strategica, che lotta rimane anche quando veste i panni dell’alleanza e si tinge dei colori della concordia.
Ma la pacificazione è qualcosa di gran lunga diverso.
Nelle repubbliche antiche la pacificazione veniva dopo guerre civili a seguito di rivolte contro tiranni o lo strapotere della classe aristocratica. L’esempio più eloquente di pacificazione ci viene dal ritorno alla democrazia nell’Atene del 303 a.C., dopo i pochi mesi di governo fantoccio filo-spartano dei Trenta tiranni. Quel sanguinoso colpo di stato il cui obiettivo era di umiliare la democrazia togliendo i diritti politici ai cittadini e restituendo il potere dirigente ai membri delle famiglie più potenti, si consumò con una caccia all’uomo, una repressione dei democratici al fine di decapitare il partito popolare e rendere la città domata e soggiogata. Il piano non riuscì. Il ritorno della democrazia dopo pochi mesi di tirannia fu contrassegnato dal bisogno di ristabilire le condizioni di pace civile. Pacificazione, concordia, fine della contrapposizione. Un obiettivo, come si intuisce, molto più che strategico o di calcolo delle forze in campo. Un obiettivo etico se si vuole: mettere una pietra tombale sulle ragioni di recriminazione, di risentimento, di vendetta. E come domare queste passioni radicali se non operando sul loro motore, ovvero la memoria? La pacificazione fu conquistata ad Atene con l’amnistia, ovvero l’amnesia per legge. Amnesia come condizione di pacificazione.
È a questo che il Pdl aspira quando tinge questa alleanza per ragioni di necessità con i colori della concordia animi che sradichi le ragioni di risentimento o di recriminazione. Lo diceva molto bene la Senatrice Daniela Santanchè. Ovviamente non è necessaria la pacificazione per siglare un accordo di governo tra forze politiche che competono liberamente sul terreno del voto, e per fare il bene del paese. La pacificazione ha un senso in situazioni di guerra civile come abbiamo visto. È un dopo-guerra nel senso più pieno. Se dunque la pacificazione entra ora in scena è perché uno dei partner dell’accordo si sente in guerra e ha sempre interpretato la sua condizione nei confronti della giustizia come una guerra. Il cui esito non può che essere la pacificazione. Non per il bene del paese: ma per chiudere la “guerra” che il Cavaliere dice di avere con la magistratura. Pacificazione dei suoi contenziosi con la giustizia italiana. La più completa pacificazione sarebbe quella che il Cavaliere otterrebbe se non soltanto i suoi processi fossero congelati ma se la sua persona fosse messa al riparo per sempre da ogni possibilità di riaprirli: la nomina a senatore a vita sarebbe il suggello della pacificazione.
Se non si ha chiara questa diversità di ragioni strategiche che stanno dietro a questo nascente governo delle larghe intese, questa alleanza farà solo il beneficio di un partner, regalandogli quello che nessun comune cittadino può aspirare ad avere: l’impunità.

Corriere 28.4.13
Il mal di pancia dei militanti «Liquidata la tradizione post Pci»
di Maria Teresa Meli


ROMA — I militanti lo scrivono su Facebook senza farsi problema: «Hanno liquidato la tradizione post-comunista del Pd». E ancora: «Il governo Letta è quasi un monocolore democristiano». I dirigenti masticano amaro, ufficialmente fanno finta di niente, ma tra di loro ne dicono di cotte e di crude.
Per questa ragione Pier Luigi Bersani ieri ha cercato tutto il giorno di «dare una mano» a Enrico Letta «per limitare i problemi». L'ex segretario del Partito Democratico ha spiegato con chiarezza al presidente del Consiglio i termini della questione: «Non possiamo firmare cambiali in bianco per il governo, sennò facciamo fatica a reggere le spinte che vengono dalla base. E non possiamo lasciare campo libero a Grillo e a Sel». Dopodiché Pier Luigi Bersani ha cercato di far capire anche ai dirigenti periferici, che «una volta affossato il governo del cambiamento, il governo Letta è l'unica possibilità e per questo va sostenuta con impegno e lealtà». Il che non significa che il «partito non debba avere la sua autonomia» e che si possa «instaurare una normale dialettica tra il Pd e il governo».
Gli ex Ds, comunque, fanno fatica ad accettare l'idea che a loro siano riservati anche ministeri importanti, come quello dello Sviluppo, occupati però da personaggi che non hanno una caratura nazionale, come Flavio Zanonato, bersaniano di ferro. Né sopportano che l'ex ppi Dario Franceschini abbia soffiato al «giovane turco» Andrea Orlando il ministero per i rapporti con il Parlamento.
Ma lo smacco più grosso riguarda il mancato ingresso di Massimo D'Alema nella compagine governativa guidata da Letta. L'ex ministro degli Esteri, che avrebbe voluto fare il bis alla Farnesina, è stato fatto fuori con questa motivazione: altrimenti vogliono entrare anche Berlusconi e Monti e il partito non li può reggere. D'Alema dopo quella spiegazione ha confidato ai suoi: «Tanto avevo capito da giorni il giochino che stavano facendo per tenermi fuori».
Gli ex democratici di sinistra ci sono rimasti male (non tutti, però). Ma lo storico Beppe Vacca, dalemiano della prima e della seconda ora, ha una sua spiegazione per la scarsa presenza della componente diessina del Pd nel governo. Secondo lui «dopo D'Alema e Veltroni non c'è in quell'area l'equivalente di un Letta o di un Franceschini». E a proposito di Veltroni, c'è da dire che anche l'ex segretario del Partito democratico non ha nessuno dei suoi nell'esecutivo.
Non conforta gli ex diessini il fatto che anche due ex democristiani come Rosy Bindi e Beppe Fioroni siano rimasti a bocca asciutta: non c'è nessun loro rappresentante nel governo Letta. Matteo Orfini, però, prova a metterci una pezza: «Poteva andare peggio». Dissapori e malumori potrebbero rovesciarsi ancora sul partito: a tutti i dirigenti continuano ad arrivare email di elettori e militanti sdegnati perché il Pd ha ceduto al governissimo e le pagine Facebook dei dirigenti di Largo del Nazareno sono piene di lamentele, accuse, e persino insulti.
Per questo motivo si sta cercando di correre ai ripari con l'elezione del reggente del partito il 4 maggio. Sta perciò per prendere piede l'ipotesi di non portare lì Guglielmo Epifani. È un ex socialista: sarebbe quindi l'ennesimo posto che gli ex Ds dovrebbero cedere. Di conseguenza ora le ipotesi più gettonate sono due.
La prima, quella di Stefano Fassina: un nome che rassicura l'elettorato di sinistra, un giovane da poter contrapporre a Matteo Renzi. La seconda ipotesi riguarda invece un altro ex Ds, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, avversario del sindaco di Firenze, con cui spesso e volentieri litiga. Lui, per la verità, anche ieri ha smentito, ma il suo nome continua a circolare insieme a quello di Fassina.
Beppe Vacca però mette in guardia il Partito democratico. Secondo lo storico bisogna evitare i rigurgiti massimalisti e scendere ai patti con la realtà: «Il futuro è Matteo Renzi». Come premier, perché quasi sicuramente verrà modificata la norma dello Statuto del Pd che fa coincidere la figura del segretario con quella del candidato presidente del Consiglio. E Fabrizio Barca è già in piena campagna elettorale per la segreteria…

I malumori della base e le email di insulti
Dissapori e malumori circolano nel partito: a tutti i dirigenti arrivano email di elettori e militanti sdegnati perché il Pd ha ceduto al governissimo e le pagine Facebook dei dirigenti sono piene di lamentele, accuse e persino insulti

Corradino Mineo:
La contraddizione esiste perché Pd e Pdl insieme sono una contraddizione in temini

Gli ex Ds e la delusione
Gli ex Ds fanno molta fatica ad accettare l'idea che a loro siano riservati anche ministeri importanti, come quello dello Sviluppo, occupati però da personaggi che non hanno una caratura nazionale, come il bersaniano Zanonato

L'elezione del Reggente e i nomi in corsa

I vertici del Pd stanno cercando di correre ai ripari con l'elezione del reggente del partito il 4 maggio. In corsa i nomi di Stefano Fassina ed Enrico Rossi. Ma per la segreteria scalda i motori anche l'ex ministro Fabrizio Barca

La Stampa 28.4.13
La Cina di Xi più vicina a Delhi
di Jaswant Singh


Jaswant Singh è l’ex ministro indiano delle Finanze, degli Esteri e della Difesa
È l’autore di Jinnah: India - Partition - Independence Copyright: Project Syndicate, 2013 www.project-syndicate.org

È possibile che la Cina, sotto la guida del suo nuovo presidente, Xi Jinping, si crei un proprio obiettivo diplomatico strategico in parallelo al «pivot in Asia» degli Stati Uniti? Le prime e significative iniziative di rilievo internazionale di Xi – la prima visita ufficiale all’estero in Russia, seguita immediatamente dalla partecipazione al vertice dei Bric in Sud Africa - suggeriscono che la Cina potrebbe cercare di giocarsi alla pari le sue relazioni con i più potenti tra i Paesi emergenti del mondo con la diplomazia statunitense. In effetti, questa possibilità è avvalorata da una recente dichiarazione di Xi sui rapporti con l’India, che ha definito «una tra le più importanti relazioni bilaterali» per la Cina.
L’attenzione che Xi ha avuto sin dall’inizio sulle relazioni sino-indiane è insolita per un leader cinese. Ha enunciato una piattaforma in cinque punti, un po’ come i «cinque principi della coesistenza pacifica» di Jawaharlal Nehru, attuati nel trattato di Panchsheel stipulato tra i due Paesi nel 1954.
Secondo la piattaforma di Xi, in attesa di una soluzione definitiva dei problemi territoriali, i due Paesi dovrebbero cooperare per mantenere la pace e la tranquillità ed evitare che le dispute di confine influenzino le relazioni globali. Cina e India dovrebbero mantenere strette comunicazioni strategiche al fine di mantenere le relazioni bilaterali sulla «retta via».
Inoltre, i due Paesi dovrebbero sfruttare i punti di forza reciproci e ampliare la cooperazione a vantaggio d’infrastrutture, investimenti e altre aree produttive; rafforzare i legami culturali per promuovere un’amicizia in espansione e rafforzare la loro cooperazione nei forum multilaterali per la tutela dei legittimi diritti e interessi dei Paesi in via sviluppo nell’affrontare le sfide globali. Infine, dovrebbero dare risposta alle rispettive preoccupazioni riguardo l’altro.
Xi si è occupato delle sfide interne del suo Paese fin da quando è diventato Segretario Generale del Partito comunista cinese lo scorso novembre, e ora, come presidente, da marzo, e le relazioni con l’India possono avere un impatto diretto sulle condizioni interne. Per esempio, il desiderio della Cina di eliminare il traffico di droga nella provincia meridionale dello Yunnan significa che la sua polizia e le forze di sicurezza hanno vivo interesse per ciò che accade in Myanmar, un paese che è di particolare interesse per l’India.
Poi, naturalmente, c’è il Tibet, per la Cina forse il più grande motivo di preoccupazione di sicurezza interna e anche una fonte di perenne tensione con l’India, a causa delle dispute territoriali. La recente arrabbiatura della Cina per una visita del Dalai Lama al monastero Tawang nell’Arunachal Pradesh, territorio indiano rivendicato dalla Cina, suggerisce quanto sia ancora sentito questo problema. Hu Shisheng, importante analista strategico del Sud dell’Asia al China Institutes for Contemporary International Relations, ha suggerito che tali visite non significano che «l’India e la Cina siano [in uno stato di] conflitto», anche se l’allerta rimane alto.
Con Xi, tuttavia, la Cina sembra accentuare gli elementi positivi. Il quotidiano ufficiale del Pcc, il Quotidiano del Popolo, recentemente ha evidenziato le «due aree d’ interesse con l’India» che contano di più. Con la questione dei confini «davvero sotto controllo», ci dovrebbe essere una maggiore attenzione alle «questioni commerciali e multilaterali», il cui successo potrebbe portare ad un «nuovo» e benvenuto «capitolo» nei rapporti bilaterali.
Così, sta venendo meno la «sfiducia» tra le due potenze? Il Quotidiano del Popolo a questo punto sembra considerare normali le relazioni bilaterali. L’India sembra altrettanto fiduciosa. In effetti, un alto funzionario indiano, parlando delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, pare abbia detto: «Non si può presumere che la rivalità marittima tra India e Cina sia inevitabile».
«L ’Indo-Pacifico è una sola area geopolitica», avrebbe detto il funzionario, «ma, vedete, il caso dell’Oceano Indiano. La situazione vicino alla Cina, sia nel Mar Cinese Orientale, vicino al Giappone, o nel Pacifico occidentale, è completamente diversa. India, Cina e Stati Uniti - tutti hanno bisogno di collegamenti marittimi, di lì passa l’energia di tutti».
Gli sforzi di Xi per consolidare i legami con l’altro grande vicino della Cina, la Russia, devono essere visti come complementari alla sua apertura verso l’India. Qui, Xi è stato aiutato dall’evidente disprezzo del presidente russo Vladimir Putin per gli Stati Uniti e l’Occidente. La Cina condivide i sospetti russi in questo senso, anzi, Xi ha proclamato che, in termini di geopolitica, Russia e Cina «parlano una lingua comune».
Ci sono, naturalmente, ragioni perfettamente legittime per le strette relazioni sino-russe. Sono partner della Shanghai Cooperation Organization. La Cina è il più grande consumatore di energia del mondo, mentre la Russia è il maggior fornitore di energia. E il commercio bilaterale è in pieno boom, un giro d’affari da 88 miliardi di dollari l’anno.
Un’area strategica regionale di Xi dovrebbe essere vista come parte della sua grande visione di una «rivitalizzazione della nazione cinese», che essenzialmente prevede che la Cina riprenda in Asia la leadership fondamentale che ha esercitato per gran parte della sua storia. Le sue ambizioni sono enormi e tuttavia lui e il popolo cinese, sembrano determinati a realizzarle. Questo è molto di più di quello che si può dire dei contorti meandri delle strategie indiane.
Traduzione di Carla Reschia

l’Unità 28.4.13
Le parole di Sant’Agostino per un viaggio della vita
«Il sermone sulla caduta di Roma» di Jérome Ferrari è un libro bello e compatto che racconta le sorti di una famiglia
di Segio Pent


«IL SERMONE SULLA CADUTA DI ROMA» ( E/O, TRADUZIONE DI ALBERTO BRACCI TESTASECCA, PP. 175, EURO 17) del quarantacinquenne transalpino Jérome Ferrari è un romanzo bello, compatto, incisivo. Familiare. L’eleganza del linguaggio si sposa con una dosata metrica del tempo che fugge, le generazioni di cui si parla simboleggiano la minuscola – eppure somma importanza di ciascun piccolo destino nel viaggio della vita.
È un libro semplice e diretto, privo di clamori in tempi in cui occorre stupire, o urlare per stupire. È logico che, conoscendo le sindromi proustiane dei francesi, abbia vinto il massimo trofeo in patria, il Goncourt del 2012.
Un simile romanzo, qui in Italia, stenterà a trovare un pubblico, bisogna ammetterlo: la semplicità e la profondità hanno fatto il loro tempo, e appellarsi addirittura – come fa Ferrari – al mitico sermone di Agostino, vescovo di Ippona, sulla caduta di Roma per giustificare la mancata eternizzazione dei destini umani, potrebbe risultare controproducente.
Ma siamo in Francia, e qualche miracolo può accadere. Accade che il viaggio del lettore sia lieve e commosso, nel pellegrinaggio alternato che racconta le sorti di una modesta famiglia originaria della Corsica: dal vecchio patriarca Marcel – che apre e chiude gli occhi dopo aver visto scorrere il Secolo Veloce tra guerre, emigrazione, lavoro in Africa e ritorno al paese al nipote Matthieu, che crede di raggiungere la sua eternità rilevando un bar nel borgo di famiglia in Corsica e facendolo diventare il punto di riferimento socializzante della zona.
Tra fatiche e illusioni si giocano passioni e affetti, amicizie e dolori insostenibili, ma con una leggerezza che solo un tragico sparo in zona Cesarini affonda nel buio dei più cupi finali di partita. Ogni uomo esiste nel suo piccolo impero di luce, sostiene Ferrari, ma ogni piccola – logica – caduta, sembra enorme, assoluta, come la caduta di Roma celebrata per i posteri da Agostino.
Sommesso ma vibrante, con echi tipicamente francesi di autori che vanno ovviamente dal sommo Marcel Proust a nomi forse meno altisonanti ma validi come il «quasi» nostro Angelo Rinaldi o il «quasi» belga Francois Weyergans, il romanzo di Ferrari è una lenta, tenera ma anche crudele passeggiata nei luoghi elettivi delle letteratura, quelli che sanno di luogo comune ma che riescono sempre a rinnovarsi quando l’autore li legge con la percezione singola e assoluta dei suoi occhi.

l’Unità 28.4.13
Storia e memorie. La strana coppia
Vorrebbero stare insieme ma non riescono a coabitare
Anticipiamo l’intervento dell’intellettuale e accademica francese Esther Benbassa che uscirà nel numero 115 della rivista «Lettera internazionale», nei prossimi giorni in libreria
di Esther Benbassa


NON SI NASCE STORICI, LO SI DIVENTA. BANALE. FORSE NON PROPRIO. Ricordo quando, da bambina, viaggiavo nelle enciclopedie per fanciulli, con battaglie, grandi uomini e date memorabili.
A quell’epoca, la storia non conosceva le «mentalità», e ancor meno le donne. Ero una delle rare ebree di Istanbul a immergersi con curiosità nei meandri della storia della nazione turca di cui venivo nutrita con forza e convinzione. Conoscevo a memoria tutte le peripezie gloriose delle gesta kemaliste. Le seguivo su carta di pessima qualità – di quella che ai giorni nostri è detta «riciclata», utilizzata per rispettare i diktat dell’ecologia, la nostra nuova religione – su libri poco attraenti al tatto e alla vista. Per questo, le foto in bianco e nero, spesso sfocate, rendevano male gli occhi azzurri di Mustafa Kemal, per il quale avevo un debole. Certo, non credevo a tutto ciò che mi si raccontava in queste opere di ispirazione ultranazionalistica, ma non per questo ero meno fiera e rapita nel recitarle in classe...
Per me, la storia era un trampolino per comprendere meglio il presente da cui non riuscivo a scorgere quale piega avrebbe preso il mio futuro – ero una «minoritaria», come si diceva allora, alla quale si faceva imparare una moltitudine di lingue per prepararla ad andarsene altrove. Ma non era tutto. Amavo il passato per pura passione. Né concepivo la storia senza la letteratura; per me, le due erano inseparabili. È solo dopo aver compiuto gli studi superiori di letteratura e di filosofia e dopo aver insegnato per lunghi anni lettere nella scuola secondaria, che, alla morte di mio padre, decisi di diventare una storica – per scrivere la storia dei sefarditi dei Balcani e d’Oriente, una storia che ancora non era stata scritta. L’avrei scritta per appropriarmene e per costruirmi, visto che i miei numerosi esilî mi avevano impedito di farlo. Fu la mia psicoanalisi, pagata a caro prezzo quanto a fatica e ad abnegazione. È attraverso questa porta che sono entrata nella storia. Ma non mi sarei fermata lì: avrei presto avuto bisogno di altri orizzonti per considerare con distacco, questa volta, la mia storia personale. È così che mi sono dedicata alla storia degli altri e, allo stesso tempo, mi sono salvata dalla storia narcisistica.
Ancora una parola: so che la storia senza la letteratura è solo un campo di grano falciato. La scienza si concilia bene con una bella lingua e un po’ di poesia.
UN COMPROMESSO TRA SINGOLARE E PLURALE
Memorie contro storia, o memorie e storia? Al plurale, memorie è parola che ci interroga da subito per la molteplicità che denota; invece, la storia si erge di fronte alle memorie, sola, superba.
La memoria ha a che fare con il vissuto, con quanto in esso c’è di emozione, sofferenza, carne, calore umano, senso d’appartenenza; la storia, da parte sua, trovando le proprie fonti quasi sempre nel documento scritto, a volte nel documento orale, privilegiando l’idea di centralità, quindi la nazione, scrivendo la sua saga gloriosa, diffida della memoria, e tanto più delle memorie invadenti e rumorose.
Nella fabbricazione della memoria, ci si sente attori; di fronte alla storia, si ha l’impressione di restare spettatori o lettori. Coloro che non si considerano individui al centro della nazione producono memoria, mentre la storia li relega ai propri margini e spesso li dimentica. Preferire ciò che valorizza non ha nulla di disumano. Né rifiutare ciò che vi dimentica. Se la memoria dà senso a un itinerario di uomo o di donna, se riunisce gli esclusi dalla storia, quest’ultima, da parte sua, non ha una vocazione analoga. Al contrario, la storia dà senso alla nascita di una nazione, al suo percorso, alle sue gesta, anche se da qualche decennio ci si interessa alle mentalità. La storia rinforza le fondamenta della nazione, giustificandone origini e ambizioni. Infatti, è a partire dal passato che la nazione costruisce il presente. Le memorie non si avvicinano molto alla storia, anche se si sa che diffondono storia senza saperlo e che, quando la memoria viene rivendicata, c’è soprattutto storia.
Il problema non è la memoria, è ciò che essa intende veicolare. Il dibattito non si situa a livello della verità. Né la memoria né la storia la incarnano da sole. La storia ambisce a raggiungerla sulle strade della scienza; ma, appartenendo alle scienze umane, come tutto quello che ha a che fare con l’umano, essa comporta una parte di soggettività. Anche quando nega quella parte di soggettività, mettendo avanti l’oggettività delle proprie fonti, le si può controbattere che tali fonti sono quelle che le istituzioni con i loro dirigenti hanno voluto lasciare e quindi tutte passano al setaccio dei ricercatori. Anche gli esseri umani passano, ma spesso senza lasciar tracce. Quanto alle memorie, queste vorrebbero molto semplicemente sostituirsi alla storia. A giusto titolo, la storia diffida delle memorie e fa mostra di non riconoscerle, ergendosi così a unica detentrice del patrimonio della nazione e delle tribolazioni degli uomini che l’hanno prodotta – un po’ meno delle sue donne, a lungo ignorate.
I GRANDI E I PICCOLI
Storia e memoria credono di potersi sostituire l’una con l’altra, ma è una cosa impossibile, perché ciascuna svolge una funzione differente. Ma di quale memoria e di quale storia stiamo parlando? È innegabile il silenzio a lungo opposto dalla saga nazionale francese ad alcune memorie come quella del mondo operaio, delle donne, delle regioni. Possiamo fare la lista di molte altre «comunità» che sono entrate dalla porta della storia solo dopo aver tessuto la propria memoria e averla rivendicata a gran voce, e non senza fatica. Ancora oggi, il posto che occupano non è grande. Ha un senso dire che la memoria precede la storia? Quando si viene a torto considerati «minori», esiste altro luogo in cui trovare rifugio se non quelle piccole isole dette memorie, per evitare di scomparire? Ha un senso dire che le memorie diventano rumorose e arroganti quando la storia oppone loro resistenza? Sì e no. Installandosi nella storia, esse perdono parte della loro forza per perdersi nel paesaggio «banalizzante» della storia, mentre prima la loro incandescenza era fonte di vitalità.
Il tempo e il discorso cosiddetto razionale della storia promettono alle memorie l’avvenire, anche se queste ultime rischiano di perdervisi. Entrare un giorno nella storia non è garanzia di perennità, mentre non entrarci nasconde il rischio di svanire per sempre nel fluire della storia dell’umanità. Il pericolo sussiste nei due casi, ma in modo minore quando ci si situa all’interno della storia. Anche in questo caso, bisogna quindi mettersi al centro?
In realtà, memoria e storia formano una coppia infernale, non proprio insieme, non proprio separate. Ma pur sempre una coppia. La memoria seduce, la storia aguzza l’appetito. La storia si fa desiderare, la memoria desidera. La prima è passiva, la seconda attiva. L’una e l’altra vorrebbero forse mettersi insieme, ma non riescono sempre a coabitare tanto sono differenti le loro strategie, anche se solo in apparenza.
La storia ama i grandi, la memoria i piccoli, i silenziosi della Storia (con la «s» maiuscola). Ma questi ultimi un giorno si svegliano e proclamano alta e forte la loro esistenza. Le memorie sono fatte delle loro grida. Per i pregiudizi subìti, chiedono compensazioni, riconoscimento, diritti: a risarcire il lungo silenzio, il disconoscimento e l’oblio. Quando la corsa è aperta, non c’è più freno a queste voci forti che s’innalzano esigenti. La nazione che si voleva monocorde e monocroma si sente in pericolo. Reagisce in un primo tempo occultando; poi, minacciata da queste voci tonitruanti chiamate «dovere della memoria», la nazione tende ad accettarle per circoscrivere il pericolo, poi lentamente dà loro spazio, un piccolo spazio, uno spazio più grande, e un giorno la storia le assorbe per neutralizzarle incorporandole. Come e quando?
Si tratta di questioni di «politica territoriale» sia da parte dei detentori delle memorie che degli artefici della storia. Spesso sono i rapporti di forza a decidere. Il lavoro successivo è far perdurare le memorie che perdono il loro potere d’attrazione, quel potere d’attrazione capace di mettere e tenere insieme.
LA STORIA PER LE GENERAZIONI IN CAMMINO
Ignorare e restare sordi ai doveri di memoria, che si alzano dalle minoranze, è come mancare al dovere di storia. Ma come è possibile ignorare ciò che è il tessuto stesso della storia? Il problema è quindi sapere di quale storia si parla. Perfino a scuola, luogo per eccellenza della storia, in cui si studia quella della nazione gloriosa, non ci si avvicina affatto alle memorie molteplici che forse un giorno faranno la storia di una nazione plurale. E poi, che cosa si intende per nazione plurale? È questa la questione che ci poniamo sia come insegnanti, educatori e artigiani della storia, sia come semplici cittadini, uomini e donne di un mondo ormai senza frontiere. Quale storia vogliamo per le generazioni in cammino, pluriculturali e plurietniche? Se non riflettiamo per tempo su questo, rischiamo di cadere sotto i colpi di memorie che si comportano da nazioni, spesso poco democratiche. Le memorie esistono per salvare dall’oblio i gruppi minoritari e le loro vicissitudini e non per costituire mini-stati rivendicatori e insaziabili.
Se la memoria è la storia dei gruppi minoritari, la storia dovrebbe essere il loro luogo di riunione, la loro no man’s land, e il territorio di tutti. Come fare per scrivere questa storia evitando di cadere negli inganni di memorie così presenti per noi e al tempo stesso così assenti dalla memoria collettiva? Memorie e storia, un compromesso difficile, certo, ma non irraggiungibile.

l’Unità 28.4.13
Non la prendiamo con filosofia
Siamo un Paese che ha rinunciato al ragionamento, alla coerenza
di Nicla Vassallo


NON TUTTI PERMANGONO RICURVI SU SE STESSI, NEL SENSO METAFORICO E LETTERALE DEL TERMINE, un assestarsi che viene, purtroppo e spesso, vissuto al pari di una rivendicazione di originalità intellettuale. Ricurvi su se stessi, a coltivare il proprio orticello, senza alcuno sguardo aperto, rispetto a un panorama culturale internazionale in costante mutamento e sviluppo. E, limitandoci alla filosofia, alcuni stanno rivolgendo lo sguardo alla filosofia sperimentale, cui Joshua Alexander (incardinato al Siena College, di esplicita matrice cattolico-francescana) ha di recente dedicato un’agile introduzione (Experimental Philosophy, Polity Press), che introduzione rimane, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.
Non riesco ancora a stabilire la misura in cui questa filosofia sperimentale rappresenti una filosofia nuova, e non una forma interdisciplinare di naturalismo, in fondo non lontana da richieste e presagi di coloro che vorrebbero rimpiazzare la filosofia con le scienze. Mi pare solo che si stia sempre più attestando in quanto fenomeno da tenere sotto osservazione e/o controllo, sia per la metodologia impiegata (quella delle scienze cognitive e sociali), sia per i risultati conseguiti, al confronto di una filosofia più tradizionale. Ciononostante, a mio avviso, se ci isoliamo nelle questioni etiche, nel modo in cui alcuni filosofi, sperimentali e non, si figurano, non progrediamo poi di molto.
Non intendo negare l’importanza di domandarsi perché e come i giudizi morali degli esseri umani influenzino questioni apparentemente lontane dall’etica, o perché alcuni attribuiscano oggettività ai giudizi etici, mentre altri considerino i medesimi giudizi relativi, o perché in molti credano di compiere scelte libere, ovvero di disporre del libero arbitrio, senza possedere alcuna cognizione in fatto di determinismo, della possibilità che le nostre esistenze siano prederterminate. Tuttavia, se da una parte, il problema di individuare i processi cognitivi, che producono certi giudizi, non può e non deve limitarsi soltanto a una determinata disciplina, quale l’etica, dall’altra è noto che sulla conoscenza etica, sulla conoscenza del bene e del male, si allunga da secoli l’ombra di un forte scetticismo: possiamo o non possiamo avere questa conoscenza?
Ritengo allora opportuno spostare l’attenzione su questioni, forse più generali, o, comunque, questioni su cui la filosofia sperimentale si esprime, con l’obiettivo di sopperire ad alcune supposte carenze della filosofia tradizionale. Per esempio, sul fatto che, nel fare filosofia, utilizziamo le nostre intuizioni, nella convinzione che queste risultino generalmente condivise. Un banale esempio: noi filosofi, trattando d’identità personale, possiamo giungere ad affermare che, sul piano intuitivo, le persone non sono né solo immateriali, né solo materiali, ovvero né sola mente, né solo corpo, e che, pertanto, sempre sul medesimo piano, la soluzione più accettabile risulta quella intermedia: le persone sono entità psicofisiche, inevitabilmente incarnate.
L’obiettivo diviene quello di verificare se ciò che, in quanto filosofi, consideriamo intuitivo sia di fatto intuitivo per il genere umano, ovvero anche per coloro che non fanno filosofia, sempre che i filosofi concordino tra loro su cosa sono le intuizioni, su cos’è intuitivo, su cosa controintuitivo. Obiettivo da considerarsi sensato, in quanto sussistono buone argomentazioni a favore, da una parte, della necessità di conferme empiriche in relazione alle intuizioni condivise, intuizioni che, stando ad alcuni studi, variano da cultura a cultura (studi comunque che hanno dato adito a non poche perplessità), dall’altra dell’eventualità che i filosofi giudichino qualcosa come intuitivo sulla scorta della loro specifica competenza, competenza che, proprio perché non appartiene a tutti, potrebbe confinare le intuizioni filosofiche al circolo dei soli filosofi.
Ma perché, piuttosto, non esaltare le competenze, non solo quelle filosofiche, per di più, in un Paese quale è il nostro, in cui proprio le competenze, oltre a mancare, vengono troppo spesso ignorate, mentre molti si permettono, sempre troppo spesso, di dire e fare di tutto. Per di più rimango dell’idea che alle argomentazioni, per quanto buone, si possa e debba replicare, ponendo in discussione le premesse delle stesse, mentre la filosofia (non sperimentale) continui a mostrarsi, per molti aspetti, disciplina normativa, disciplina che ci dice come e cosa dobbiamo pensare e fare per vivere bene, cosicché le intuizioni filosofiche potrebbero essere buone intuizioni, ovvero norme per quella gran parte del genere umano che non esercita la professione di filosofo. Senza dimenticare che i problemi filosofici (entro e fuori la teoria etico-politica) riescono a venir affrontati, come ci ha suggerito il grande John Rawls, attraverso il cosiddetto equilibrio riflessivo, ovvero ricercando un equilibrio tra giudizi ponderati e quei principi regolativi che li ispirano.
Di buone argomentazioni e di equilibrio avremmo parecchio bisogno nella vita socio-economio-politico di questo Paese, e, invece, di frequente ne manchiamo. Abbiano rinunciato alla filosofia, ai suoi ragionamenti, alla sua coerenza. Una rinuncia che si deve a molti fattori, tra cui l’impegno che presuppone il buon ragionamento, i vincoli conoscitivi che richiede la coerenza, il rifiuto che istruzione ed educazione contino.
OPINIONE E CONOSCENZA
Guardando alla sola università, il disastro è evidente, e non amo chi lo sbandiera, ma era davvero molto prevedibile da tempo. Ci ritroviamo senza una vera e propria università d’élite, capace di sfornare grandi menti pensanti, e senza una vera e propria università di massa, capace di diffondere cultura e portare la maggioranza a ragionare con la propria testa. In Italia (ma non solo) studiare vale sempre meno, e, a ogni buon conto, allo studio serio si preferisce ergersi a opinionisti, senza averne le competenze, of course: è più facile, spesso basta «farsi» il proprio blog – perché non si è studiato, per l’ignoranza della differenza tra opinione e conoscenza.
Del resto: il nostro «bel» Paese investe in conoscenza, nel sistema universitario, solo l’1% del proprio Pil; limitandoci a considerare la fascia d’età tra i 30 e i 34 anni, solo il 19% degli italiani possiede una laurea, contro una media europea del 30%; la contrazione dei finanziamenti ha causato un netto calo del personale docente, personale sempre più immerso in un’ottusa burocrazia borbonica, e senza, tra l’altro, che si razionalizzi la differenza tra docenza e ricerca scientifica, ponendole su una bella bilancia. E la filosofia, ovvero l’amore per la sapienza, ci rimette parecchio: per citare ancora l’università, una delle tante, quella di Genova, in cui al momento lavoro, ha registrato in solo anno accademico (l’ultimo) un calo delle matricole filosofiche del 39.06%. Siamo lontani da tempi antichi in cui lo splendore politico si accompagnava allo splendore filosofico, in cui, magari, il maestro di Alessandro Magno si chiamava Aristotele.
Oggi la buona filosofia pare ben poco inutile, specie se si vuol governare. Eppure il grande condottiero lo ricordiamo ancora oggi, per la sua eccezionalità (e, a chi non lo ricorda, consiglio un buon libro di storia), nonché per quelle sue tante vittorie, accompagnate da una significativa diffusione della cultura «alta», quella greca, sui tanti territori (fino ai confini con la Cina) che Alessandro ha toccato.
Di cultura ne possediamo or ora in misura misera. Anche per questo, nell’osservarci, il commediografo Plauto non esiterebbe a proferire «lupus est homo homini»; e con lui diversi altri si esprimerebbero in tal senso. Si può solo confidare nel fatto che le attuali inclinazioni egoistiche e narcisiste di troppi ce facciano ben ricordare un’interpretazione filosofica, quella di Thomas Hobbes, stando a cui «bellum omnium contra omnes», assieme alla soluzione, ben poco ottimistica che il filosofo britannico offriva al problema. La filosofia serve anche a ciò, ovvero a ricordarci di Hobbes, in alcuni frangenti della realtà, nella consapevolezza che la sua proposta del Leviatano, dello Stato Assoluto, presenta troppi limiti e contiene troppi errori. E questa filosofia non ha alcun bisogno di alcuna filosofia sperimentale. Fermo restando, però, che non si dà progresso, né economico, né sociale, né politico, ove manca l’istruzione, sia questa di matrice filosofica, o più ampiamente umanistica, oltreché – è scontato – scientifica. E, soprattutto, ove manca l’umiltà antica e greca del sapere di non sapere.

Corriere 28.4.13
L’angoscia non ha occhi per vedere un determinato qui e là da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo
Una malattia, una sensazione o una condizione quasi di privilegio
nell’analisi di medici, psicologi, uomini di lettere
Il concetto dell'angoscia «conteso» da filosofi e psicanalisti
di Armando Torno


La storia della cultura occidentale ha elaborato non poche definizioni di angoscia. Anche se per i contemporanei vale più di ogni altra quella che il poliziotto Al Pacino rivela alla moglie Diane Venora in Heat-La sfida (è del 1995; regia, soggetto e sceneggiatura di Michael Mann): «Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere». È lontana da quanto avvertiva Seneca, forse si avvicina alle parole conservate nel IV libro del De rerum natura di Lucrezio. Il quale, elegante materialista, era certo che essa nascesse «dalla sorgente stessa dei piaceri» (medio de fonte leporum).
Ma che cos'è l'angoscia? È consigliabile rivolgersi alla filosofia per conoscerla o è preferibile recarsi da un medico della psiche per poterla vincere? O forse è quella sensazione inafferrabile che accompagna le esistenze e che fece scrivere a Leopardi nei Canti, rivolgendosi alla luna: «io venia pien d'angoscia a rimirarti»? Una risposta che tenga conto dei diversi aspetti non è semplice. Come riporta il Vocabolario della lingua italiana Treccani, siamo dinanzi a uno «stato di ansia e di sofferenza intensa che affligge l'animo per una situazione reale o immaginaria, accompagnato spesso da disturbi fisici e psichici di varia natura». Nell'uso corrente, occorre aggiungere, con il termine si tende a indicare una condizione più intensa e grave dell'ansia; comunque tale distinzione è accolta solo in parte nei linguaggi di psichiatria, psicologia e psicoanalisi. Del resto in inglese e tedesco non si registra duplicità di termini: si definisce tale stato come ansia, anche se non mancano incertezze. I latini la chiamavano angustia (da angere, «stringere»). Gli effetti non sono mutati nel tempo: sensazione di contrazione dell'epigastrio (zona centrale dell'addome, al di sotto delle costole e poco sovrastante l'ombelico), difficoltà di respiro, tristezza o, come usavano nel periodo romantico, «dolore che quasi preme il cuore».
Perché occuparsene? Ogni epoca ha le sue angosce e la nostra, come tutti i periodi di decadenza, è intenta a moltiplicarle. Non a caso, il pensatore che più di ogni altro ha saputo coglierne aspetti, confini e caratteristiche ritorna con una certa forza in libreria: si tratta di Søren Kierkegaard, morto a Copenaghen nel 1855; aveva 42 anni.
Innanzitutto al filosofo danese è stata dedicata una nuova monografia da Ettore Rocca, nella quale una sezione riguarda appunto «Libertà e angoscia»; inoltre ritorna il breve e intenso saggio di Emmanuel Lévinas intitolato Kierkegaard, dove si rimedita il concetto di «diaconia», ovvero la responsabilità infinita nei confronti dell'Altro, contrapposizione all'angoscia esistenziale. Di più: l'indispensabile Diario del pensatore è stato completamente rivisto nella traduzione e negli apparati e di esso sta per uscire il secondo volume. E anche la raccolta delle Opere di Kierkegaard, curata da Cornelio Fabro nel 1972, ora vedrà la luce con originali a fronte e notevoli aggiornamenti: si avranno così a disposizione, dopo anni di assenza, gli scritti filosofici e teologici.
Il sommo danese lascia, tra l'altro, ne Il concetto dell'angoscia, una spiegazione di questo stato d'animo che diventerà un punto di riferimento anche per le ricerche psicoanalitiche e psichiatriche: «Si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell'abisso: perché deve guardarsi. Così l'angoscia è la vertigine della libertà». E ancora, nella medesima opera, Kierkegaard osserva con acutezza: «Nessun grande inquisitore tiene pronte torture così terribili come l'angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l'angoscia».
Si potrebbe continuare indefinitamente con codesto filosofo, giungendo alle connessioni che egli fa con il peccato e al fatto che la pone a fondamento della stessa colpa originale. Idea subito raccolta da Dostoevskij, anche se Marx aveva cercato nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto di mostrare che «l'angoscia religiosa è espressione dell'angoscia reale». Heidegger aveva avvertito il pensiero contemporaneo nella sua opera di riferimento, Essere e tempo, che «l'angoscia non ha occhi per "vedere" un determinato "qui" e "là" da cui si avvicina ciò che è minaccioso... Il minaccioso non è in nessun luogo». D'altra parte, lo stesso Freud in Inibizione, sintomo e angoscia nota che «è dotata di un certo carattere di indefinitezza e mancanza d'oggetto». Sartre, riprendendo la tradizione esistenzialista, aveva scritto ne L'essere e il nulla che «non possiamo sopprimerla, perché siamo angoscia». Letture che si rinnovano e si diversificano nella ricerca di tutto il Novecento. Varrà la pena aggiungere che per Lacan e per quanto scrive ne Il seminario. Libro X (pagine che risalgono al 1962-63), è possibile cogliere «la positività» dell'angoscia, poiché «è la via privilegiata per accedere al reale».
Per utilizzare i termini cari al francese, essa diventa il passaggio che porta al di là del significante. Freud dirà che i sogni di angoscia sono di contenuto sessuale, Schopenhauer che la metà di quelle che ci assalgono nascono dalle preoccupazioni per le opinioni altrui. Avevano ragione entrambi. L'amore e il prossimo sono tra le fonti della nostra angoscia.

Corriere 28.4.13
Una bibliografia ricchissima per approfondire

Per una visione d'insieme delle definizioni e dei giudizi sull'angoscia, nonché per una prima indicazione delle ricadute che essa ha nelle diverse discipline, si può cominciare dall'articolo di H. Häfner «Angst, Furcht» (Angoscia, Paura) nel primo volume dell'«Historisches Wörterbuch der Philosophie» diretto da Joachim Ritter (coll. 310-14; Schwabe & Co, Basel-Stuttgart 1971). O dalla voce «Angoscia», di E. Borgna e F. Leoni, nel primo tomo dell'«Enciclopedia filosofica» (pp. 448-452, Bompiani). Il «Diario» di Kierkegaard uscì in tre edizioni distinte e con variazioni da Morcelliana di Brescia, quella da noi ricordata è la quarta in corso. La raccolta delle «Opere» del filosofo danese, invece, è del 1972 e la pubblica Sansoni in un tomo con testo su doppia colonna; nel 1995 la ristampa in tre volumi Piemme e ora, con originale a fronte, vedrà la luce nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, diretta da Giovanni Reale. Le «Opere» di Freud sono edite in italiano da Bollati-Boringhieri, «Essere e tempo» di Heidegger è stato citato nella traduzione di Pietro Chiodi (Longanesi), «Il Seminario. Libro X» di Lacan è disponibile da Einaudi, «L'essere e il nulla» di Sartre è ne Il Saggiatore. Il «Kierkegaard» di Lévinas è uscito da Castelvecchi.

Corriere 28.4.13
Kierkegaard
«In questo stato c'è pace e quiete, ma al tempo stesso disordine e conflitto»


Il saggio più recente e aggiornato in Italia sul filosofo danese si deve a Ettore Rocca, Kierkegaard (Carocci editore, pp. 308, euro 20). Questo studioso insegna estetica all'ateneo di Reggio Calabria e da più di un decennio svolge attività di ricerca nel Søren Kierkegaard Research Centre dell'Università di Copenaghen, inoltre collabora alla nuova edizione critica Søren Kierkegaard Skrifter. Il lavoro è uscito nella collana «Pensatori» di Carocci (è il numero 29 della serie) e contiene anche una aggiornata bibliografia. La sezione «Libertà e angoscia», divisa in sette capitoli, offre le coordinate per mettere a fuoco la questione dello stato d'animo che stiamo cercando nei diversi scritti kierkegaardiani. Tra l'altro si sofferma, riportando traduzioni direttamente dall'originale, sul caso Adamo. Il primo uomo nasce nell'innocenza e — si sottolinea — «innocenza è ignoranza». Ma ecco le parole del pensatore: «In questo stato c'è pace e quiete, ma c'è al tempo stesso dell'altro, che non è disordine e conflitto, poiché non c'è nulla con cui contendere. Che cos'è allora? Nulla. Ma che effetto ha questo nulla? Genera angoscia. Il profondo segreto dell'innocenza è che al tempo stesso è angoscia». Insomma, Rocca mette in evidenza questa angosciata ignoranza-innocenza del primo uomo, nonché il fatto che Adamo non capisca il divieto divino di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Del resto, egli non coglie ancora la differenza tra di essi. Rocca sottolinea: «Parla, ma non comprende davvero il linguaggio». È il testo di Kierkegaard che dipana la matassa: «Il divieto lo angoscia perché desta la possibilità della libertà in lui. Il nulla dell'angoscia che lo sfiorava ora è entrato in lui ed è, di nuovo, un nulla, la possibilità angosciante di potere. Che cosa sia che possa, di ciò non ha idea alcuna». Insomma — ecco la definizione — questo stato d'animo che stiamo inseguendo «è la realtà della libertà come possibilità della possibilità». Ma Adamo è libero con la sua innocenza? Rocca osserva, seguendo attentamente la lezione di Kierkegaard: «Se fosse libero, capirebbe e potrebbe; ma non capisce né il divieto né sa che cosa può. Sente solo di potere in modo indeterminato, senza potere nulla di determinato. Non potendo nulla, il suo potere è un nulla e lo angoscia».

Corriere La Lettura 28.4.13
Il trasloco di Dio
«Chiesa vendesi, 2.471 euro al metro»
Negozi e bar, case e officine tra le navate: le destinazioni degli (ex) edifici di culto
di Elisabetta Rosaspina


Sembra un anatema; e invece è poco più di un trasloco: si trasferiscono gli arredi sacri, si porta via il tabernacolo, si chiude il portone. Dio non abita più qui. A volte rimangono l'altare, qualche crocefisso, gli affreschi. Non importa. Le mura che li circondano e sostengono, da quel momento, non sono più sacre. Sono solamente il perimetro di un immobile vacante, e qualche volta pericolante, a forma di chiesa.
E come tutti gli immobili, prima o poi anche le (ex) chiese possono finire sul mercato: 2.471 euro a metro quadro, ne costa una del 1200 a Careggi, Firenze. «Unico ambiente aperto, 170 metri quadri, con altezza di 8 metri, 1 bagno, portico antistante, colonnato» elenca le sue virtù l'agenzia immobiliare, ammiccando alla «particolare atmosfera», che certo non sfuggirà al suo raffinato acquirente. Assieme alla tacita suggestione di subentrare a cotanto Inquilino.
Se si possono comprare e ristrutturare un vecchio mulino, una torre saracena, un ex casello ferroviario, perché non una chiesa sconsacrata? Il diritto canonico lo consente, lo spopolamento delle campagne e la crisi delle vocazioni lo consigliano. I prezzi oscillano tra le poche decine di migliaia di euro e il milione e mezzo. Mentre le possibilità di riconversione, spesso, non hanno limiti: sale conferenze, teatri, biblioteche, musei nei casi più austeri. Uffici, laboratori, officine, in quelli più pragmatici. Case private, per chi può permettersi le spese di manutenzione. Ma anche locali pubblici, enoteche, esercizi commerciali, per chi considera che nemmeno Gesù avrebbe da ridire sui mercanti nel tempio. Purché ridotto allo stato laico.
Il pittore Valerio Berruti ci pensava fin da bambino: «A scuola, quando c'era da disegnare la propria casa, io disegnavo una chiesa. E non perché volessi farmi prete. Anzi — sorride —, non sono nemmeno credente». A diciotto anni appena compiuti, ce l'ha fatta: ha trovato la sua, l'ex chiesa di San Rocco, e se l'è comprata. A Verduno, paesino delle Langhe, dove il rapporto chiese-abitanti era diventato, negli anni Cinquanta, di una a 71: sette chiese per cinquecento residenti. «Erano in duemila, prima dell'ultima guerra, e aveva un senso. Ma adesso il villaggio non ha più un solo negozio di alimentari, né un bar».
L'ha arredata con un paio di sedie da barbiere, un divanetto rosso porpora, e ne ha fatto il suo atelier. Sarà un caso, naturalmente, ma il luogo gli ha portato bene. Per quel senso di sacro e soprannaturale, che neanche mezzo secolo di abbandono era riuscito a diluire, è stata quella navata — l'occupante non ne dubita — a ispirare la sua creazione. Fino a condizionarla.
«Nella mia pittura non c'è il giallo — fa notare Berruti —, perché stona con la tinta prevalente dei muri, l'ocra». E forse proprio per la sensazione di non aver scelto cento metri quadrati qualsiasi, il pittore — oggi trentaseienne — si è assicurato anche la canonica, come domicilio, e ha coltivato l'arte di arrangiarsi: «Ho smesso di studiare, ho cominciato a lavorare dipingendo trompe-l'oeil su commissione nei locali piemontesi per pagarmi i lavori di restauro. Per rifare il tetto, ho decorato i caschi delle Harley-Davidson». Le vie del Signore sono infinite.
Ma Valerio Berruti ha chiuso definitivamente con la decorazione d'interni (e di elmetti da motociclista) non appena la sua chiesetta seicentesca è stata pronta per il nuovo utilizzo e le sue quotazioni sul mercato dell'arte hanno reso meno problematico il pagamento delle bollette per il riscaldamento: «Il soffitto è alto dieci metri» allude, e com'è noto il calore tende a salire.
Da quando l'ultimo sacerdote ha lasciato Verduno, il parroco di un paese vicino si sdoppia per celebrare anche nella piccola comunità, che ha imparato a non diffidare del pittore e, perfino, a sorseggiare un bicchiere di rosso in una delle altre chiese sconsacrate, riadattata come sala di degustazione di vin santo e profano.
Eppure non è stata la crisi economica, e forse neanche la penuria di pastori o l'assottigliamento del gregge, a indurre le diocesi ad alienare parte del loro patrimonio edilizio: le sconsacrazioni non sembrano essere in aumento, ma il tutto si affida alle sensazioni di chi se ne occupa, perché non esiste e non è mai esistita una contabilità al riguardo. Ognuna delle 225 diocesi decide per sé, a norma di Codice di diritto canonico.
«Nel Nord Europa il fenomeno è più vistoso. Lo abbiamo letto anche in queste settimane. Ma in Italia no, anche per la resistenza dei fedeli, che sono comprensibilmente attaccati ai luoghi di culto di tutta una vita» considera monsignor Domenico Pompili, direttore dell'Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana. «In Germania — informa don Stefano Russo, direttore dell'Ufficio beni culturali della Cei — molte chiese sono diventate biblioteche, ma anche bar o ristoranti, e in qualche caso depositi di urne cinerarie; in Italia le chiese di proprietà ecclesiastica sono più o meno 65 mila, forse 70 mila, a volte non più adibite al culto semplicemente perché irraggiungibili in zone appenniniche disabitate. Ci sono parrocchie alle quali fanno capo una ventina di chiese, in ciascuna delle quali è materialmente impossibile celebrare la messa più di una volta all'anno».
Non è il Vaticano a decidere quando è giunto il momento di disfarsene: «La decisione spetta al vescovo, con un decreto. Ma se si tratta di un edificio di valore storico o artistico, che riveste interesse culturale anche per lo Stato, interviene la Sovrintendenza ai beni architettonici — spiega ancora don Russo —. Con diritto di prelazione nell'eventuale compravendita».
Senza contare che, nel variegato mondo immobiliare sacro o secolarizzato, ci sono già molte proprietà pubbliche e private. La Santa Sede interviene solamente quando il valore dell'edificio supera il milione di euro, cioè nella minoranza dei casi, per l'indispensabile «bolla pontificia». «Non sempre una chiesa è sconsacrata, anche se occasionalmente viene adibita ad altri usi, preferibilmente culturali, come mostre o concerti. Può esserci un uso promiscuo e la concessione per alcuni eventi aiuta la diocesi a sostenere le spese di manutenzione», ricorda l'architetto Laura Gavazzi, che sta curando il primo censimento nazionale di tutte le chiese esistenti sul territorio: «Catania è stata una delle più tempestive nel trasmetterci i suoi dati, forse lì hanno un quadro più esauriente della situazione».
«Su 158 parrocchie, nei confini comunali e nella fascia pedemontana dell'Etna, abbiamo cinque chiese chiuse al culto, ma per noi definirle sconsacrate è improprio — osserva Grazia Spampinato, vice direttore dell'Ufficio diocesano per i beni culturali —. Tre sono abbandonate, ma se si trovassero nuove risorse finanziarie potrebbero essere riaperte e ripristinate. San Giuseppe al Duomo, chiusa 20 anni fa, è diventata per esempio una sala convegni; mentre la chiesa dei Santi Giorgio e Dionigi ospita conferenze. Poi c'è stato il caso dell'ex parrocchia del Divino Amore: volevano farne un pub, ma c'è ancora il fonte battesimale, nonostante non sia più utilizzata da dieci anni, e le trattative sono state interrotte. Qui a Catania non è pensabile, così come non ci sono, da noi, chiese convertite in abitazioni private».
A Milano ce n'è almeno una, in via Piero Martinetti, zona Gambara: nelle absidi romaniche dell'ex chiesetta del Molinazzo, dedicata ai santi Filippo e Donato e risalente al XIII secolo, ora abita la famiglia che ne è divenuta legittima proprietaria alcuni anni fa. Circondata dai condomini di otto o nove piani che la piccola chiesa romanica ha visto crescere a metà del secolo scorso.
E a Venezia una delle circa trenta chiese passate ad altra vita è diventata il salotto del presidente onorario della Camera nazionale della moda, Beppe Modenese, e dell'architetto Piero Pinto.
Centri sociali, emeroteche, aule dell'Accademia di Brera, teatri: soprattutto in centro, le chiese sconsacrate di Milano trovano rapidamente un'altra occupazione. Magari notturna, come «La Chiesetta» di via Lomazzo e «Il Gattopardo» di via Piero della Francesca, discobar sorvegliati da massicci buttafuori i cui criteri di selezione del pubblico non sono esattamente gli stessi di un sagrestano.
Anche i loro interni psichedelici hanno spazio nel repertorio di immagini che il fotografo milanese Andrea Di Martino, 46 anni, sta accumulando da cinque anni in tutta Italia, sotto il fatidico titolo «La messa è finita»: probabilmente il più ricco database di chiese sconsacrate, dal Piemonte alla Sicilia. «Non cerco contrasti scioccanti — premette —, mi interessa la varietà delle destinazioni d'uso di questi edifici non più religiosi». Ne ha girati già una settantina, molto meno di un decimo di quanti, secondo le sue stime, esisterebbero in Italia, e ha trovato agenzie bancarie, magazzini, pizzerie, laboratori di tessitura, aule per consigli comunali, enoteche. Una sala per matrimoni civili, dove santificare (un po') l'unione sancita dal sindaco. Perfino un'officina meccanica: «Una delle mie preferite — ammette —. Chiusa al culto dal 1989, la Madonna della Neve a Portichetto di Luisago, nel comasco, è un garage dove si riparano automobili. In segno di rispetto, non è mai stato tolto il crocefisso: il meccanico mi ha raccontato che ogni mattina, quando entra, si fa il segno della croce».
Ne hanno raccontate tante al fotografo che chiedeva di ritrarre il cambio d'identità di una navata. Gli hanno raccontato di preti fuggiti con parrocchiane, di dispute fra eredi, di insospettabili, dissacranti retroscena. Leggende (forse), alimentate dall'incapacità di ammettere che il Santissimo possa traslocare. Fosse anche, l'ex chiesa, diventata un cinema a luci rosse. Come il celebre Mignon di Ferrara, protagonista di un recente documentario e racchiuso tra mura di mattoni consacrate nel X secolo e sconsacrate negli anni 40, inizialmente con il più modesto compito di ospitare un magazzino.
«Le variabili sono tante, ma anch'io dubito che ultimamente la sconsacrazione delle chiese sia in aumento — tira le somme il sociologo Marco Marzano, il cui ultimo saggio, Quel che resta dei cattolici, pubblicato da Feltrinelli, lascerebbe sospettare il contrario —. Anche con un crollo verticale dei praticanti, le parrocchie non chiudono, perché le gerarchie ecclesiastiche non vogliono evidenziarlo. In Italia anche i non credenti difendono le chiese, perché fanno parte del patrimonio artistico. Semmai preoccupa il loro degrado. E il loro futuro: mi chiedo se la Chiesa cattolica sarà in grado di finanziarle tutte». Una soluzione alternativa, secondo Marzano, sarebbe quella di affidarla ai laici, ma non per trasformarle in night club: «A Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli ha affidato alcune parrocchie alle famiglie, che svolgono catechesi e corsi di preparazione al matrimonio. Perché no? Suoni alla canonica e viene ad aprirti un bambino». Tra tante sorprese possibili, forse è quella che più piacerebbe anche al Padrone di Casa.

Corriere La Lettura 28.4.13
Martin Mystère contro Grillo
Andate oggi a (ri)vedervi il video di Casaleggio La democrazia si distrugge con la democrazia
di Alfredo Castelli


Alfredo Castelli, sceneggiatore di fumetti, è il creatore del personaggio di Martin Mystère

L'ideologo del MoVimento Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio, ha realizzato nel 2008 Gaia, il nuovo ordine mondiale, un film sulla sua personale visione del prossimo futuro. Lo si può vedere nel sito della Casaleggio Associati in inglese (www.casaleggio.it/media/video/gaia-il-futuro-della-politica-1.php) o con didascalie in italiano (www.youtube.com/watch?v=f6_Kcbmd6Z8&hd=1). Il film è stato abbondantemente citato, Crozza ne ha tratto una divertente parodia, ma purtroppo non è ancora abbastanza noto. Di recente l'ho mostrato a due grillini che non l'avevano mai visto: non si capacitavano che fosse opera dell'ideologo del loro movimento e non si trattasse delle farneticazioni di un ospite di Voyager, e all'inizio hanno sospettato il complotto. Dopo una lunga sequenza molto confusa, in cui non risulta chiaro se la comunicazione non-Internet costituisca un bene o un male, se Gengis Khan, Girolamo Savonarola e Leni Riefenstahl abbiano punti in comune, se la rivoluzione francese sia equiparabile a quella fascista (forse quella «buona» cui fa cenno la Lombardi), il filmato traccia una sintetica storia mondiale della comunicazione politica per mezzo di Internet, il cui punto più alto risulta essere il Vaffa Day (2007), svoltosi nella simbolica data dell'8 settembre.
Per quanto riguarda il futuro, Casaleggio prevede la terza guerra mondiale, che avrà inizio tra sette anni e finirà dopo due decenni, nel 2040. Le manifestazioni dell'alleanza pluto-cristiano-massonica, tra cui San Pietro e Nôtre Dame, saranno distrutte e si salverà solo un miliardo di persone, meno di un settimo dell'attuale popolazione mondiale. Il mondo ne risulterà purificato; il 14 agosto 2054, centenario della nascita del «Guru» (controllare per credere), i superstiti organizzeranno tramite Internet un nuovo ordine mondiale che nel XII secolo Gioacchino da Fiore chiamava «età dello Spirito Santo» o «millennio sabbatico», e Casaleggio chiama, in termini esoterici, «Gaia». Qui, finalmente, regneranno purezza, democrazia, felicità e Internet.
Anche Grillo, del resto, ha parlato di un periodo complicato (in questo caso di appena cinque anni) in attesa del momento in cui finalmente saremo tutti «un po' più poveri ma più felici», in un futuro-dopo-la-catastrofe vagamente agreste, tipico dei movimenti millenaristici.
Lascio ai cassintegrati i commenti sulla prima parte dell'esternazione, e faccio rilevare che nella denominazione «MoVimento Cinque Stelle», la V evidenziata sta per Vaffa Day ma anche per «Vendetta» (riproduce il logo di V for Vendetta, il famoso fumetto di Alan Moore) e che «Tsunami», il nome del tour di Grillo, è molto azzeccato in quanto rende l'immagine di un'inarrestabile fiumana, ma è comunque sinonimo di lutti, distruzioni e morte.
In effetti nel lessico di Beppe Grillo compaiono espliciti riferimenti a una distruzione fine a se stessa (a meno di non voler considerare come un programma di ricostruzione le dichiarazioni: «Poi staremo tutti meglio, non pagheremo più il gas e la luce, faremo tutto con Internet, sarà bello!»): il non-più-comico, ma uomo politico Grillo ha più volte ribadito che le frasi «Li sbatteremo tutti fuori» o «Apriremo il Parlamento come una scatola di sardine» non sono né devono essere intese come iperboli pre-elettorali, ma vanno prese letteralmente; ha anche specificato che chi, come me, ha creduto che frasi del tipo «Li sbatteremo tutti fuori» si riferisse solo ai corrotti e ai disonesti, non ha capito nulla e ha sbagliato a votare M5S, in quanto tutti significa proprio tutti coloro che hanno toccato la politica, e sono dunque per sempre contaminati. Tra parentesi, se le frasi vanno interpretate in termini letterali, mi chiedo se sia accettabile che un «club» (il Parlamento) accolga come socio chi dichiara che vuole distruggerlo.
Da un partito che ha scelto come simboli o parole d'ordine la vendetta, la morte, la distruzione non mi aspetto molto in termini costruttivi. Il 99 per cento delle proteste dei grillini sono più che sacrosante, e per questo in tanti li hanno votati; altrettanto sacrosante sono alcune idee di cambiamento. Ancor più che sacrosanta la constatazione dell'insipienza di alcuni partiti: da persona che ha sempre votato Pd, o comunque a sinistra, non riesco a capacitarmi di un simile comportamento autodistruttivo.
Giusta protesta e giuste rivendicazioni non sono però automaticamente garanzia di buona politica da parte di chi le porta avanti. Non lo sono neppure una straordinaria capacità oratoria (in più Grillo gioca anche sulla definizione «comico»: se esagera, si trattava di una battuta), un'ottima gestione della comunicazione e una spregiudicata strategia (Berlusconi insegna) che, per ragioni che sarebbe bene analizzare, è concentrata soprattutto contro il Pd, già cromosomicamente portato all'autodistruzione, e di conseguenza in favore del Pdl. Vuoi per l'errata identificazione tra protesta e capacità di governare, vuoi per malinteso equivoco sui valori («Eccezionale comunicatore = ottimo politico»), vuoi per la tendenza a una suddivisione manichea tra bene e male (se il Pd si comporta male, il M5S, suo avversario, si comporta automaticamente bene, e quindi si comporta bene anche il Pdl), vuoi per sensi di colpa («Si dichiarano senza macchia, io non me la sento di dire altrettanto di me stesso»), vuoi per qualche forma di imbarazzo cultural-pop (come contraddire Dario Fo e Celentano? Come dare ragione a Ferrara?), vuoi per qualche «non si sa mai, è meglio tenerseli buoni», sta di fatto che quando si comincia un discorso critico sui grillini l'esordio d'obbligo è un timido: «Io non ho nulla contro i grillini, ma…».
Io qualcosa contro i grillini ce l'ho. Non con chi li ha votati, magari sperando divenissero un fattivo contraddittorio quale furono a loro tempo i radicali. Ce l'ho con il gruppo dirigente che il MoVimento tende pericolosamente a identificare come «il popolo italiano» e che, «per coerenza» («La coerenza è l'ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione», Oscar Wilde), ha rifiutato di compiere alcune scelte grazie alle quali oggi saremmo in una situazione molto diversa da quella attuale.
Credo che occorra segnalare con chiarezza che, al di là dell'abuso del termine «democrazia» da parte di Grillo e dei suoi, il movimento dimostra forti caratteri totalitari (anni fa avremmo detto «profondamente fascisti») che non possono essere liquidati come semplice folklore. Tra i molti esempi rilevati e riportati dai mezzi di comunicazione e che quindi qui non starò a ripetere, si nota come venga accettata, se non favorita, una forma di disprezzo da parte della base nei confronti del professionismo, della cultura e dell'esperienza in favore dell'ignoranza e dell'arroganza: un atteggiamento tipico di tutte le dittature, Khmer Rossi compresi. Sicuramente Casaleggio non è l'esoterista Jörg Lanz von Liebenfall e Grillo non è il suo discepolo Adolf, ma a me disturberebbero anche un Ron Hubbard e Scientology. Il MoVimento deve poter esistere, ma la sua potenziale pericolosità non solo non va sottovalutata, ma dev'essere accuratamente monitorata, adesso che i 5S non detengono ancora «il 100% al Parlamento» come mira a ottenere Grillo (il quale, ricordo, sostiene di non usare mai iperboli). C'è il rischio che tenti di utilizzare la democrazia per distruggere la democrazia.

Corriere La Lettura 28.4.13
La solitudine è una cosa meravigliosa
«Il numero di single nel mondo cresce proporzionalmente a benessere e diritti Una conquista culturale favorita dalle nuove tecnologie, che educano alla socialità»
Trentadue milioni di cittadini americani vivono da soli e rappresentano il 28% dei proprietari di casa. In Italia (dati Istat 2012) le famiglie costituite da una persona sono il 28% del totale: i single sono più di sette milioni
di Serena Danna


Ci sono parole che assumono un significato positivo o negativo per ragioni esclusivamente culturali. Solitudine è una di queste. Eccezion fatta per artisti e poeti, lo stare da soli è legato — suo malgrado — a contesti di disagio e tristezza. Quando va bene, a una fase di transizione che si risolverà nel tepore della coppia. L'obiettivo di Eric Klinenberg, sociologo della New York University, è riscattare la parola solitudine. Per riuscirci ha trascorso sette anni a studiarne gli attori: i singleton, ovvero le persone che hanno deciso di vivere da sole. Il risultato è Going Solo, libro uscito un anno fa negli Stati Uniti, ma che ancora spunta in molte conversazioni.
Klinenberg, nato a Chicago 42 anni fa, è sposato e ha due figli. Lo chiarisce subito. «Non sono né uno psicologo, né un fan del celibato — spiega seduto alla sua scrivania, al 70 di Washington Square — ma uno scienziato sociale convinto che la sociologia abbia trascurato il più grande cambiamento degli ultimi cinquant'anni: l'aumento inarrestabile e globale di persone — single, separate, sposate, divorziate, fidanzate, vedove — che vivono da sole perché lo scelgono».
Vuole dire che anche gli studiosi hanno ceduto allo stereotipo del single «per scelta di altri»?
«Per pura pigrizia intellettuale abbiamo legato l'aumento dei single al declino della comunità e dei valori familiari, scoprendo infine che la verità è un'altra: la quantità di appartamenti "per uno" è un simbolo di quanto siamo connessi e interdipendenti. Una condizione che favorisce l'indipendenza individuale».
Secondo lei è merito soprattutto della tecnologia e dei social network.
«La tecnologia è uno dei motori del cambiamento in atto: telefono, radio, televisione, fax hanno portato gli altri in casa. Una nuova dimensione esplosa con internet e con i new media, che ci permettono di partecipare, da casa come dall'autobus, a un numero svariato di attività sociali. Una socialità diversa da quella del passato, ma non per questo più debole. Abbiamo sviluppato un rapporto emotivo con i nostri device perché sono il nostro tramite con gli altri».
Eppure la sociologa Sherry Turkle definisce gli uomini connessi tramite la tecnologia «insieme, ma soli».
«Non sono d'accordo. I social media stanno facilitando le relazioni tra gli individui. Li usano abilmente quelli che amano di più interagire con gli altri. Intellettuali come Turkle pensano che trascorrere molto tempo al pc isoli dal mondo, per me è vero l'opposto: i disconnessi sono i veri isolati».
Klinenberg, lei sostiene che i new media abbiano avuto anche il merito di annullare le differenze di genere: può spiegarci in che modo?
«Le donne si sono sempre distinte per una maggiore dimestichezza nello stare da sole. Per noi era molto più difficile, soprattutto dopo un divorzio o una separazione importante. Ma i giovani uomini cresciuti nel web 2.0 hanno migliorato le loro abilità sociali, non si lasciano più trascinare dalle compagne: sono protagonisti della socialità. E forti nella loro indipendenza. Purtroppo la retorica del "si stava meglio prima" è dura a morire: abbiamo un'attrazione profonda per gli argomenti a favore di un passato segnato da un forte senso di comunità e un presente disgregato. Non nasce oggi: in tutti i secoli la retorica del "si stava meglio prima" è stata capace di attirare attenzione».
Com'era «prima»?
«Cinquant'anni fa i single venivano visti come malati, nevrotici o immorali. Non è più così, anche se gli uomini e le donne tra i trenta e i quaranta senza partner vengono spesso letti attraverso la lente del "se è single deve avere qualcosa che non va". Siamo solo all'inizio di una battaglia culturale. Ma è importante partire dal presupposto che c'è differenza tra la solitudine e il vivere da soli. La frase più ripetuta dai miei intervistati in Going Solo è "nulla fa sentire soli come stare in una relazione sbagliata". Quella è la vera solitudine».
Descrive un fenomeno che non è solo americano. A Parigi e Stoccolma i non sposati superano il 50 per cento della popolazione, in Italia le famiglie costituite da una persona sfiorano un terzo del totale. Anche in India, Brasile e Cina la crescita di single è proporzionale a quella economica. Essere soli è indice di benessere?
«Laddove c'è, o comincia a esserci, benessere, welfare e le donne sono libere, le persone vivono da sole. Solo un collasso economico potrebbe portarci a ricominciare a vivere insieme»
La crisi economico-finanziaria ha ridimensionato il fenomeno?
«Solo in parte. La tendenza resta la stessa: a New York, come in tante città occidentali, il business, dal turismo al cibo fino al mercato immobiliare, cresce sui single. Nessuno ha mai "corteggiato" le donne nubili come Barack Obama e Mitt Romney alle ultime elezioni politiche: i politici hanno capito che sono una risorsa economica e culturale unica per gli Stati Uniti. La popolare serie televisiva Mad Men ci ha ricordato quanto fosse frustrante, ma allo stesso tempo "normale", essere infelici in famiglia, nel matrimonio, negli anni Sessanta».
«Sex and The City», serie televisiva cult andata in onda per la prima volta alla fine degli anni Novanta, rappresenta il ritratto patinato delle single americane; mentre la recente «Girls», alla sua seconda stagione sul canale Hbo, sembra il prodotto tv perfetto della crisi economica.
«Girls è la versione matura di Sex and The City e segna proprio il passaggio di consapevolezza di cui parlavamo. Il primo è la storia di quattro over trenta alle prese con sesso e bellezza in una società opulenta e piena di opportunità: vivono in case fantastiche, indossano abiti bellissimi, lottano per trovare un equilibrio tra carriera e hobby. E intanto cercano "Mister Big". Il punto è che alla fine la storia si sbilancia tutta verso la ricerca del partner, fino a toccare la disperazione. Gli spettatori scoprono che, in fondo, l'unica cosa a cui tengono davvero le amiche è la presenza di un uomo.
La serie di Lena Dunham sposta la scena da Manhattan a Brooklyn. Le quattro ventenni protagoniste stentano a trovare un lavoro, sono costrette a vivere insieme per mancanza di soldi, non hanno fiducia nel futuro né nell'America, ma solo in loro stesse. Hanno con l'altro sesso un rapporto consapevolmente irrisolto, sono molto lontane dal vedere nella coppia la soluzione dei loro problemi. Sono libere. Anche di stare male».

Corriere La Lettura 28.4.13
A metà strada tra genio e follia
Cosa hanno in comune Zuckerberg e Newton, Ted Turner e Dickens?
Stravaganti e creativi, spesso si sentono (o si sono sentiti) fuori luogo
di Anna Meldolesi


Mark Zuckerberg non ha rinunciato alla felpa col cappuccio nemmeno per quotare Facebook a Wall Street e si è impegnato a mangiare solo animali uccisi personalmente, almeno per un po'. Il fondatore della «Cnn» Ted Turner è appassionato di imbalsamazione e possiede bisonti. Dean Kamen, l'inventore del monopattino elettrico Segway, vive da solo su un'isola con tanto di bandiera, moneta e visti per gli ospiti (che devono dichiarare eventuali segni particolari su viso e glutei). «Ma questi sono solo i primi nomi che mi vengono in mente, potrei fare una tonnellata di esempi di persone stravaganti e creative». A parlare è Shelley Carson, docente di Harvard e autrice di Your Creative Brain (Harvard Health Publications), di cui «la Lettura» ha chiesto l'aiuto per mappare la coloratissima terra di mezzo tra genio e follia.
L'anticonformismo nel mondo degli affari oggi è più accettato che in passato, ma la peculiarità degli artisti era già stata notata da Platone e Aristotele. Cesare Lombroso accomunava pazzi e geni; per cercare conferme andò persino a trovare Tolstoj, rimanendo deluso dal suo aspetto niente affatto degenerato. Quanto alla bizzarria degli scienziati, è un topos che Albert Einstein ha contribuito a consolidare, mostrando la lingua e raccogliendo mozziconi per strada. John Stuart Mill sosteneva che in una società l'eccentricità fosse proporzionale al vigore mentale e al coraggio morale. La stravaganza come sorgente creativa: mito o realtà?
Carson calcola che gli eccentrici costituiscano il 3% della popolazione. Sono un po' meno (1 su 250) secondo Peter Tyrer dell'Imperial College London, comunque più numerosi di quel che si riteneva in passato. Negli anni Novanta David Weeks, del Royal Edinburgh Hospital, aveva reclutato oltre mille personaggi strani, tracciandone un ritratto sorprendente nel libro Eccentrics. Creativi, curiosi, idealisti, mediamente più intelligenti della popolazione generale, persino più felici. Da allora sono state condotte ricerche più rigorose, ai test psicologici si sono affiancati il brain imaging e gli studi molecolari. Per la scienza di oggi l'eccentricità è ambivalente: può pesare come un fardello, ma anche mettere le ali. «Non so se gli eccentrici siano più creativi degli altri, ma so che fra le persone creative gli eccentrici sono più numerosi della media», ci dice la psicologa americana. Il lato buono dell'eccentricità è che si accompagna al disinteresse per il giudizio altrui, che invece mette in ansia tanti comuni mortali. Nulla vieta che qualcuno possa essere eccentrico e istrionico insieme, come Picasso. Ma la molla che spinge ad allontanarsi dalle norme culturali non è la voglia di attirare l'attenzione. Spesso, anzi, si tratta di persone solitarie, come la poetessa Emily Dickinson o gli scienziati Nikola Tesla e Isaac Newton. Il lato cattivo è il senso di alienazione, la percezione di essere un cubo inserito in un buco circolare: fuori luogo e fuori formato.
Il termine eccentricità non suona scientifico, per questo molti preferiscono parlare di personalità schizotipica. Possiamo immaginarla come il segmento centrale di un continuum che dalla normalità arriva fino alla schizofrenia. «Gli eccentrici possono condividere lo stesso modo anticonvenzionale di percepire la realtà, senza ereditare la malattia», spiega Carson. La loro diversità può manifestarsi in molti modi. Schumann credeva che Beethoven gli dettasse la musica dall'oltretomba, Dickens pensava di essere seguito dai suoi personaggi, l'aviatore-regista Howard Hughes passava le giornate in un punto che riteneva al riparo dai germi. «Tra gli artisti l'eccentricità si accompagna spesso al pensiero magico e a esperienze percettive insolite, tra matematici e scienziati prevale l'asocialità».
Creatività ed eccentricità tendono a ricorrere nelle famiglie, segno che oltre alle influenze ambientali sono al lavoro delle componenti genetiche. Cosa le unisce? La chiave, secondo Carson, è la propensione a essere cognitivamente disinibiti. Tutti noi abbiamo un filtro che ci consente di ignorare le informazioni (input sensoriali o ricordi) che sono irrilevanti per le attività in corso. «Una ridotta capacità di filtraggio spiegherebbe perché le persone molto creative sono assorte nel proprio mondo interiore, tanto da non curarsi dei bisogni propri e degli altri». La disinibizione, d'altro canto, facilita la violazione delle norme sociali, come dimostra uno studio dell'Harvard Business School sul maggior tasso di disonestà dei pensatori originali. Lo stesso meccanismo può portare ai momenti di eureka. Il premio Nobel John Nash, protagonista del film A Beautiful Mind, ha risposto così quando gli hanno chiesto perché credeva di comunicare con gli alieni: «Le idee su questi esseri mi sono venute nello stesso modo delle intuizioni matematiche. Per questo le ho prese sul serio».
Probabilmente le idee creative risultano dalla ricombinazione originale di informazioni che la maggior parte di noi non lascia affiorare alla propria coscienza. Molte sono solo stramberie, qualche volta sono colpi di genio. Di sicuro è solo in presenza di altre doti (l'intelligenza anzitutto) che la disinibizione cognitiva fiorisce in pensiero creativo.

Corriere La Lettura 28.4.13
Mao e la fame che divorò la Cina
di Tommaso Piffer


«In una famiglia di quattro persone, il figlio morì lasciando madre, moglie e una figlia. Poi morì anche la bambina, e la giovane madre ne vegliò il corpo in silenzio in cortile, troppo debole e stordita per piangere. La nonna si trascinò fuori di casa e trasportò il corpo scheletrico della bambina sul retro. Dopo un po' la madre tornò e scoprì che la nonna aveva fatto a pezzi il corpo e lo aveva cotto. La nonna morì comunque, forse sopraffatta dalla gravità di quello che aveva fatto». Il libro di Yang Jisheng sulla carestia cinese del 1958-1962, Tombstone. The Great Chinese Famine, è un'autentica galleria degli orrori. La «peggior carestia nella storia dell'umanità» non fu provocata né da conflitti né da cause naturali ma dalla politica di Mao Zedong, che nel maggio del 1958 lanciava il «grande balzo in avanti» per l'industrializzazione del Paese.
Le campagne furono collettivizzate e i contadini costretti a consegnare allo Stato quantitativi di prodotti stabiliti senza alcun collegamento con la produzione reale. Per rafforzare il controllo e disgregare le strutture familiari (retaggio di una «cultura borghese») i contadini furono costretti a smantellare le loro cucine e consegnare tutti gli utensili alle autorità, che organizzarono «cucine collettive». Alla fine del 1958, ne erano in funzione quasi tre milioni e mezzo, che avrebbero dovuto servire il 90 per cento della popolazione rurale, ma si rivelarono un'enorme fonte di spreco e corruzione.
La produzione agricola crollò, e quanto rimaneva ai contadini non era sufficiente per sopravvivere. Presto la fame colpì le campagne e la gente iniziò a morire per strada. Non tardò molto prima che venissero riportati i primi casi di cannibalismo. La struttura politica comunista, dove «ogni funzionario era uno schiavo di chi stava sopra di lui e un dittatore di chi stava sotto», peggiorò la situazione: sotto pressione del centro, le provincie riportavano previsioni esagerate sui raccolti, in base alle quali venivano stabilite le quote delle requisizioni. Quando i contadini non consegnavano quanto loro richiesto, venivano accusati di nascondere il cibo e puniti duramente. Le voci critiche furono accusate di «deviazionismo di destra» e censurate. Yang calcola che tra il 1958 e il 1962 oltre 36 milioni di persone morirono per la fame e le repressioni attuate dal regime.
L'autore è stato a lungo un sostenitore entusiasta del Partito e il titolo («pietra tombale») è un omaggio al patrigno, che Yang vide morire di fame nel 1959 senza che questo mettesse in discussione la sua fede. Il ripensamento iniziò con la Rivoluzione culturale (1966-76) e si compì con piazza Tienanmen (1989). Da allora Yang ha dedicato un enorme lavoro di ricerca a mostrare come la tragedia che aveva colpito la sua famiglia fosse quella di tutto un popolo. Il libro, pubblicato in cinese ad Hong Kong in un'edizione lunga circa il doppio di quella inglese, è tuttora bandito in Cina, dove le autorità continuano a far riferimento ai morti del 1958-62 come a vittime di «mancanza di cibo» e «disastri naturali».

Corriere La Lettura 28.4.13
Gli atti mancati di Piero Gobetti
di Ermanno Paccagnini


Per certi aspetti Mandami tanta vita di Paolo Di Paolo mi suggerisce l'idea d'un romanzo di assestamento del suo narrare. Penso in particolare ai due percorsi sui quali si è mossa sin qui la sua espressività narrativa: il muoversi a ridosso d'uno scrittore, da un lato; e in Dove eravate tutti (2011) la scelta d'una struttura compositiva all'insegna del combine writing, ove materiali di varia provenienza si combinavano associativamente entro un fondo più propriamente narrativo.
Da un lato è evocata infatti la figura intellettuale e morale di Piero Gobetti, seguito negli ultimi quindici giorni di vita allorché il 2 febbraio 1926 lascia Torino, la moglie Ada e il neonato Paolo per cercare a Parigi quel clima di libertà ormai soffocato in Italia. Dall'altro è creata a contrapposto la figura di Moraldo, coetaneo di Piero, giunto a Torino da Casale con l'ambizione d'un futuro per lui tanto incerto da non aver persino ancora deciso in quale campo emergere. E i capitoli si alternano liberamente in tale procedere a contrapposti: coi gobettiani poggianti sulla tenerissima documentazione epistolare con Ada, ben rielaborata narrativamente da Di Paolo; e quelli di Moraldo però meno sicuri nella gestione narrativa del personaggio. Questo perché la dimensione più propria a Di Paolo è lo sguardo con prospettiva interna ai personaggi: che è poi quella in cui si muove Piero, mentre la necessità anche di costruzione esteriore per Moraldo introduce un procedere più scontato, con cedimenti al romanzesco: come quel far coincidere la partenza per Parigi di Gobetti con l'arrivo in Torino di Moraldo o il loro casuale incontro su una panchina a Parigi; o la storia di Moraldo con la fotografa Carlotta col tratto anche da appendice dello scambio di valigie in stazione da cui nasce la relazione.
Altra cosa è invece il Moraldo raccontato dal di dentro: con le sue incertezze siglate dal costante ricorso al modo verbale del condizionale. In tal senso Mandami tanta vita si dà come romanzo di atti mancati. Forzatamente mancati quelli attuali di Piero, che però ha agito, creato, fatto, risultando coi suoi 25 anni figura di primo piano nel mondo intellettuale, tanto da provocare un brutale pestaggio fascista che ne mina la salute; atti mancati quelli di Moraldo anche verso Piero, da cui è attratto e con cui vorrebbe collaborare, non senza quasi la paura di diventare come lui.
Una contrapposizione che ha la sua spia nella parola-chiave «traccia». Che in Moraldo è interrogazione sulla traccia da lasciare, ma sempre riferita a se stesso; mentre suona lezione morale nel volitivo e rigoroso Gobetti interrogantesi se esista «qualcosa che davvero possa lasciare traccia, in questa eterna confusione del mondo? Un'azione, un gesto umano in grado di modificare il corso delle cose?». Sicché il romanzo, sostenuto da una scrittura elegante (pur con certo eccesso di anafore) che proprio per via della prospettiva interna ingloba lo stesso tratto dialogico, si dà anche quale ricaduta sulle contraddizioni dell'oggi. Riproponendo, come già in Dove eravate tutti ma ora legandosi alla figura di Gobetti, la necessità del «vegliare».

La Stampa 28.4.13
“Assaggiavo i cibi di Hitler Sapevo che potevo morire”
Margot Woelk lavorava nella Tana del Lupo con altre 14 ragazze, tutte uccise dai sovietici
di Marina Verna


Sopravvissuta Margot Woelk 95 anni, l’unica a salvarsi della squadra di assaggiatrici: una SS la aiutò a fuggire
IL FÜHRER: In tavola solo frutta e verdura. Mangiava un’ora dopo che tutto era stato testato

Lei, come tutti i tedeschi durante la guerra, aveva fame. E davanti le mettevano piatti sontuosi: asparagi bianchi con patate lesse e burro fuso, peperoni dolci con riso, insalata di mele noci e cavolo rosso, zuppa di piselli, strudel di mele, macedonia di frutta esotica. Da mangiare, non da guardare. Ma non c’era gioia nel suo saziarsi, non poteva esserci: Margot Woelk era una delle quindici assaggiatrici addette alla cucina di Hitler nella Tana del Lupo, il quartier generale tedesco di Rastenburg nella Prussia orientale. Aveva 24 anni, un marito al fronte, la sua casa bombardata a Berlino. Per questo era sfollata dalla suocera nel paesino di Gross-Partsch - oggi Parcz in Polonia - dove sembrava di vivere in pace. Ma a nemmeno tre chilometri c’era la Wolfsschanze, gli ottanta bunker nascosti tra la foresta e le paludi, protetti da campi minati e filo spinato, dove Hitler passava lunghi periosi. La reclutò il sindaco di Gross-Partsch e lei - ancorché mai iscritta alla Gioventù hitleriana non potè dire di no. E per due anni e mezzo fu assaggiatrice ufficiale del Führer. Non lo incontrò mai, né mai vide un piatto di carne o di pesce: Hitler era strettamente vegetariano.
Di questo suo passato non ha parlato con nessuno, nemmeno con Karl, il marito che nel 1946 tornò a casa e visse con lei a Berlino per quasi quarant’anni. Non ne parlava, ma lo sognava. Finché quel passato è uscito da sè, durante un’intervista in occasione dei suoi 95 anni. Qualche settimana fa una giornalista di un quotidiano locale è andata a trovarla per raccogliere i suoi ricordi di guerra ed è stato lì, davanti a una tazza di caffè e una fetta di torta, che Margot Woelk ha deciso di parlare: «Volevo raccontare che cosa succedeva in quell’orribile posto, con quell’uomo ripugnante, quel porco».
Succedeva questo: ogni mattina alle 8 una SS passava sotto la sua finestra e gridava: «Margot, alzati! ». Quando arrivava nella Tana, i cuochi avevano già cucinato. Il personale di servizio riempiva i piatti di verdure, salse, spaghetti, frutta e li disponeva su un grande tavolo di legno. Lì, tra le 11 e le 12, le 15 ragazze consumavano il loro tetro pasto. Poi, passata un’ora e constatato che erano ancora vive e vegete, i cibi venivano imballati dentro casse speciali e portati a Hitler. Girava voce che gli Alleati volessero avvelenarlo. In realtà, a tentare di ucciderlo furono alcuni ufficiali tedeschi, con una bomba nascosta in una valigetta e portata dal colonnello von Stauffenberg nella sala conferenze della Wolfsschanze. La bomba esplose uccidendo tre uomini, ma non Hitler. Era il 20 luglio 1944.
«Noi eravamo fuori, sedute su una panca - ha raccontato Margot Woelk -. quando abbiamo sentito un fortissimo “bang” e lo spostamento dell’aria ci ha fatte cadere. Qualcuno urlava “Hitler è morto”, ma non era vero». Da quel momento le misure di sicurezza divennero ancora più strette e le ragazze furono trasferite in una scuola vicina ai bunker, dove vivevano «come animali in una gabbia». Ci rimasero fino all’autunno, quando Hitler tornò a Berlino e lei dalla suocera.
Quando l’Armata rossa era a pochi chilometri da Rastenburg, un ufficiale tedesco la prese in disparte, le disse: “Va’, scappa” e la mise su un treno per Berlino. Le salvò la vita: le altre 14 assaggiatrici furono tutte uccise dai sovietici.

Corriere 28.4.13
Nel music hall della Storia
La Berlino alla vigilia di Hitler secondo Isherwood: illusioni e incoscienza danzavano sull'orlo dell'incubo
di Giorgio Montefoschi


Com'è Berlino nell'autunno del 1930, quando, in cerca di ispirazione e spunti per i romanzi che vorrebbe scrivere, vi approda dall'Inghilterra il giovane protagonista di Addio a Berlino (Adelphi, pp.252, € 18), vale a dire il narratore stesso: Christopher Isherwood, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler e del nazismo? Cuore pulsante della Repubblica di Weimar stremata dalla crisi economica e morente, la città circondata dalla pianura prussiana con i suoi laghi e le sue foreste, conserva i segni imperiali nel grande viale fiancheggiato dagli austeri edifici storici in pietra grigia che conduce alla Porta di Brandeburgo, e quelli di una ricchezza ormai sempre più elitaria nei vecchi palazzi che hanno portoni tanto pesanti da dover essere spinti con due mani, o nelle ville dei quartieri residenziali, o in quelle sfarzose e spesso non eleganti sulle rive del Wannsee (nei cui campi da tennis Vladimir Nabokov dava lezioni in pantaloni leggeri di flanella). Ma ha anche quartieri miseri e sordidi, nei quali vive la borghesia che sta andando in rovina, il proletariato affamato che vuole riscossa e vendetta dalle umiliazioni, e guarda al comunismo, o si fa incantare dalle folli idee dell'uomo che da lì a quindici anni trascinerà la Germania nel baratro.
Il giovane aspirante scrittore vive, dando lezioni di inglese, in uno di questi quartieri squallidi. Egli ha una mente «visiva»: è come «una macchina fotografica con l'obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa». Alloggia in una stanza in affitto presso la signora Schroeder insieme a una ex cantante di music hall, una donna di facili costumi che riceve i suoi clienti in camera e lo smunto Bobby, un ragazzo che fa il barman al Troika, un locale frequentato da prostitute, papponi, stranieri in cerca di avventura, gigolò.
La vita nell'appartamento-pensione dotato di un solo bagno, fra litigi, spiate e addirittura dei furti, è soffocante. Finché un giorno, a rischiararla, piombata da chissà dove, arriva Sally Bowles. In realtà, viene dall'Inghilterra ed è figlia di una famiglia aristocratica — almeno così lei dice. È a Berlino perché vorrebbe fare l'attrice. Nell'attesa — finora ha fatto solo la comparsa in un film — canta in un locale, il Lady Windermere e quasi ogni notte, in cambio di una cena, di un regalo o di denaro, va a letto con uomo diverso — innamorandosi anche, talvolta. Parente prossima di un'altra attricetta sventata, la Holly Golightly di Colazione da Tiffany (ma lì siamo a New York, nel 1958), Sally ha un viso lungo e magro, quasi sempre coperto di cipria bianca, incorniciato da capelli scuri, grandi occhi marroni, le dita sporche di nicotina. Una sera, Christopher e Fritz Wendel — l'amico che gliel'ha presentata ed è pazzo di lei — vanno ad ascoltarla. Sally ha una voce sorprendentemente profonda e roca; canta male, «senza espressione, le mani penzoloni lungo i fianchi», eppure, proprio per questa sua aria noncurante, il sorriso provocatorio di chi se ne infischia di quello che pensa la gente, lo spettacolo ha un grande successo. Sally e Christopher diventano molto amici, ma non di più: lei va a letto con gli uomini, tutti (meglio se ricchi, se le promettono Hollywood); lui, tra non molto, andrà a trascorrere una estate sul Baltico insieme a due ragazzi.
Intanto, a volte litigano e poi si rappacificano; bevono tè e caffè dopo le sbronze e divorano sontuose colazioni consistenti in un uovo all'ostrica; decidono addirittura di vivere nella stessa casa; sognano il successo: che per Sally consiste nella ricchezza, nella fama, in ricchi contratti cinematografici; per Christopher, in un romanzo che venderà un numero spropositato di copie. «Mi sa» — lei gli dice un pomeriggio, fumando raggomitolata sul divano — «che deve essere favoloso, fare il romanziere. Un sognatore, un idealista privo di senso pratico. La gente crede di poterti fregare quando vuole, senonché poi ti metti a scrivere un libro su di loro, dimostrando che razza di porci sono, e hai un successo pazzesco e fai soldi a palate…». Cauto, il futuro scrittore le risponde: «Ho idea che il mio problema sia di non essere abbastanza sognatore…». Sally è come se non avesse sentito. Esclama: «Ah, se solo potessi diventare l'amante di un uomo ricco sfondato! Farei qualsiasi cosa, ora come ora, per diventare ricca».
Fuori, però, la situazione è diversa: le banche chiudono e, nonostante le rassicurazioni del Reich sui depositi, la gente è sgomenta e ha paura; sui giornali appaiono titoli allarmistici; nelle strade si aggirano le torve squadracce delle SA; di fronte ai negozi degli ebrei i giovani nazisti avvertono chi entra: «Questo è un negozio di ebrei»; la collera aumenta; gli ebrei vengono individuati e picchiati per strada senza che nessuno o quasi protesti; nelle ville in riva al lago di ricchi uomini d'affari ebrei (come i Landauer, proprietari degli enormi Magazzini Landauer) si danno ancora feste, a un passo dalla tragedia, con camerieri perfetti, caviale e champagne; nelle cantine comuniste arrivano i feriti negli scontri e non si aspetta altro che la guerra civile, perché allora arriveranno i russi e metteranno tutto a posto; la signora Novak (nuova padrona di casa di Christopher), una povera donna tisica moglie di un facchino ubriaco, madre di Otto, un ragazzaccio ombroso che si fa mantenere dagli uomini, e di Lothar che è diventato nazista, dice, in un momento di esasperazione: «Forse Lothar ha ragione. Quando Hitler sarà al potere, ci penserà lui a dare una lezione a questi ebreacci»; in un caffè si svolge il seguente dialogo fra un ragazzo nazista e una ragazza: «Sì, lo so che vinceremo» dice il ragazzo ubriaco «ma non mi basta: deve scorrere il sangue» — lei gli carezza un braccio per rassicurarlo e gli dice: «Ma certo, caro, il sangue scorrerà eccome. Il capo l'ha promesso, è nel nostro programma»; nei locali si continua a ballare; gli uomini si travestono; la situazione si fa sempre più grave; il sofisticato omosessuale comproprietario dei Magazzini Landauer, collezionista di antiche statuette orientali, amante della musica dei Meistersinger, muore misteriosamente — come molti altri ebrei cominciano a morire misteriosamente — per «arresto cardiaco»…
Addio a Berlino, pubblicato nel 1939, prima che accadesse il finimondo, è uno dei romanzi più inquietanti del Novecento. Racconta la terribile incoscienza della Storia. In che modo gli esseri umani vanno incontro alle catastrofi della Storia. Ne fecero un music hall. E, dal music hall, Bob Fosse trasse un film di grande successo, Cabaret, interpretato da Liza Minelli: un film brioso, se è possibile dirlo, divertente. Nel 1987, in un grosso teatro dalle parti dell'hotel Kempinsky davano il music hall nella versione tedesca. Non aveva nessun brio — lo ricordo benissimo —, era pesante e se vogliamo volgare. Sembrava un vestito vecchio, fuori moda, indossato male. Ma, quell'autunno, Berlino volava. C'erano due grandi mostre. Una, intitolata Berlin, Berlin che celebrava i 750 anni della fondazione della città, e un'altra intitolata Il viaggio per Berlino, che raccontava come nei secoli si arrivava a Berlino. Due mostre belle, importanti. Preparavano la caduta del Muro. E la collocazione di Berlino al centro dell'Europa. E il pensiero era là.

Corriere 28.4.13
Firenze. Una mostra a Palazzo Strozzi
L’invenzione del Rinascimento
Donatello, Masaccio, Filippo Lippi, i Della Robbia Così scultura e pittura hanno cambiato l'estetica
di Marco Gasperetti


È l'inizio. Che si ricompone come un puzzle di tesori. Capolavori oggi custoditi al Louvre, al British Museum, al Bode di Berlino, e in altre gallerie del mondo e dell'Italia. Sono messaggeri della rinascita del Bello, della sua genesi e della sua affermazione. Ma ci raccontano anche un'altra storia: l'alba del Rinascimento non comincia con la pittura, bensì con la scultura.
Nelle sale immaginifiche di Palazzo Strozzi, nel cuore di Firenze a due passi da Piazza della Signoria, dal Ponte Vecchio e dagli Uffizi, «La Primavera del Rinascimento» ci proietta alle origini dell'epoca più formidabile delle arti e della cultura, in quella Firenze che avrebbe cambiato il mondo guardando all'iperuranio dell'estetica (si respira aria di neoplatonismo nelle dieci sezioni) e regalando al mondo opere immortali. Ed è una sensazione molto particolare, dopo aver varcato la soglia del Palazzo, trovarsi di fronte a quelle origini, quasi come se fossero esplosioni di un Big Bang della Rinascita. Che immediatamente osservi, appena t'immergi nel cuore di Firenze.
Così, entrando nella prima sala dedicata a «L'eredità dei padri», ecco il proto linguaggio scultoreo (dell'arte rinascimentale) di Nicola Pisano che vive nel medioevo è firma alcune delle opere più straordinarie (dal Duomo di Siena al Battistero di Pisa), e poi in un cammino nel tempo l'alfabeto si modifica sino ad arrivare a Jacopo della Quercia il Maestro del monumento funebre di Ilaria del Carretto.
E come non emozionarsi (e stupirsi) varcando la seconda sala, quella dei rilievi dei Sacrificio di Isacco, che due giganti, ancora giovanissimi, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti realizzano per il concorso del 1401 per la seconda porta del Battistero di Firenze? Certo, c'è ancora molto gotico nelle loro anime estetiche, ma il nuovo linguaggio è ormai robusto e si proietta verso un futuro luminosissimo. Ed è un presenza emanatrice in quella sala così sapientemente allestita. Le emozioni si susseguono poi più avanti nelle altre otto sezioni di una mostra apparentemente semplice eppure così sofisticata da essere lei stessa un capolavoro d'estetica costruttiva.
«Non era difficile scivolare nell'ovvio raccontando un'epoca oggi osservata da ogni angolazione, studiata nel minimo dettaglio — spiega James M. Bradburne, il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi —. Eppure abbiamo scoperto che il rischio dell'ovvietà non c'era affatto. La mostra racconta il miracolo della genesi del Rinascimento, dimostrando che dalla scultura tutto iniziò, con prestiti eccezionali. Dopo Firenze sarà replicata al Louvre di Parigi, che l'ha organizzata insieme a noi, ed è un evento straordinario ed irripetibile».
Già, la scultura, come motore della Rinascita. Che ci abbaglia con Donatello e la Madonna col Bambino, una terracotta dipinta; e ci sorprende, sempre con Donatello, con il gigantesco bronzo San Ludovico di Tolosa appena restaurato. Oppure ci mostra il nuovo linguaggio con le terrecotte invetriate di Luca della Robbia.
Scultura che non è fine a se stessa nella mostra fiorentina, ma ci accompagna verso la scoperta di altre opere, anch'esse rappresentative del racconto dell'estetica rinascimentale. Come il preziosissimo Vaso con stemma ed emblema dei Medici, concesso eccezionalmente dal British Museum e l'icona del Bode-Museum di Berlino: La Madonna Pazzi di Donatello.
Come non citare poi altri giganti della mostra Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Masaccio, Filippo Lippi, Michelozzo, Desiderio da Settignano, Mino da Fiesole, Nanni di Banco, Agostino di Duccio, Nanni di Bartolo, Mino da Fiesole.
«Molti dei capolavori presenti alla "Primavera del Rinascimento" sono stati restaurati in occasione della mostra, in Italia e in Francia. — spiega la direttrice del Museo nazionale del Bargello, Beatrice Paolozzi Strozzi, curatrice della mostra insieme a Marc Bormand, conservatore e direttore del Louvre —. Tra questi, oltre al San Ludovico di Tolosa, la Pala Trivulzio di Filippo Lippi, i due Putti bronzei di Donatello, la Sant'Elena di Mino da Fiesole, la Madonna della Misericordia di scuola Ghibertiana, l'Incoronazione della Vergine di Dello Delli e Madonna di Ognissanti di Nanni di Bartolo a Firenze».
Dunque una nuova Primavera anche per queste opere. Che fiere e stupende ci raccontano una storia passata ma sembrano guardare in avanti, enigmatiche. E se proprio da questa mostra partisse un'altra Rinascita?

Corriere 28.4.13
Creatori e non più artigiani Brunelleschi guidò la «rivolta»
La cupola del Duomo di Firenze simbolo dell'artista-intellettuale
di Francesca Bonazzoli


Il 20 agosto 1434 Filippo Brunelleschi, genio di pessimo carattere e ribelle alle leggi con cui la città di Firenze regolava la vita dei propri cittadini, fu gettato in prigione. Si era rifiutato di pagare i tributi all'Arte dei maestri di pietra e legname, la corporazione cui appartenevano tutti i lavoratori edili (architetti e scultori stavano insieme a tagliapietre e muratori) e alla quale bisognava essere iscritti per poter esercitare la professione. La prigionia durò poco perché l'Opera del Duomo, capito che, per quanto dispettoso e ostile, Brunelleschi era l'unico capace di portare a termine il progetto della cupola più grande mai costruita, lo fece liberare. Ma lo strappo era ormai avvenuto. Con quella clamorosa ribellione era cominciata, proprio lì a Firenze, l'inizio della lunga marcia d'emancipazione dell'artista da artigiano a creatore, uno dei segni che più hanno connotato il passaggio dal Medio Evo al Rinascimento.
Dai tempi della Grecia del IV secolo a. C. era la prima volta che l'attitudine verso gli artisti tornava a cambiare. In greco arte, che si dice téchne, era l'esecuzione ben condotta secondo le norme e i canoni del mestiere, una pratica artigianale in cui ci si applicava ripetendo certe regole. Tuttavia, quando alcuni artisti, come Teodoro di Samo o Policleto, cominciarono a scrivere trattati sulle proporzioni del corpo, l'aritmetica o la geometria, si cominciò a nobilitare l'arte come una professione intellettuale e non più solo uno sporco lavoro manuale, come quello che spettava agli schiavi. Zeusi, diventato ormai ricco e famoso, regalava le sue pitture per dimostrare che non era costretto a guadagnarsi la vita col lavoro delle mani. E da parte sua Parrasio, che si firmava «Uno che visse nel lusso», indossava una veste di porpora, sandali con lacci d'oro e cantava durante il lavoro come a dire che la pratica dell'arte non era faticosa.
Tuttavia il pregiudizio verso l'attività fisica degli artisti era duro a morire e anche in Grecia le arti visive rimasero sempre escluse dalle arti liberali. Lo stesso avvenne nella Roma antica e per tutto il Medio Evo la maggioranza degli artisti si accontentò di far parte della propria corporazione, o della fabbrica di una cattedrale, come un membro anonimo operante a maggior gloria di Dio. Certo c'erano state le eccezioni come Rainaldo, che si autoelogia nella cattedrale pisana, o Lanfranco in quella di Modena. Ma persino Boccaccio, pur stimando Giotto, se ne burla descrivendolo come uno straccione e nel Decameron i pittori sono soprattutto furbi autori di scherzi, gente crassa.
Il moto di orgoglio e insubordinazione del Brunelleschi affermava dunque la consapevolezza dell'originalità del proprio intelletto creativo, un'attitudine completamente diversa dall'appagamento della perfezione tecnica del proprio lavoro. L'artista passava così dal rango di lavoratore manuale a quello di intellettuale e si impegnava nella scrittura di trattati e persino, come fecero Cennino Cennini e l'Alberti, a dare regole di vita elegante e morigerata nel mangiare, nel bere e nel vestire. Gli artisti toscani, insomma, si stavano trasformando in gentiluomini.
Certo Brunelleschi, come Leonardo, partiva da un livello sociale diverso perché entrambi erano figli di notai, mentre la gran parte proveniva ancora dai ceti popolari. I Ghiberti si tramandavano il lavoro di orafi nella bottega di famiglia; Paolo Uccello era figlio di un barbiere; Pollaiuolo di un pollivendolo; Andrea del Castagno di un contadino; Donatello di un cardatore di lana; Filippo Lippi di un macellaio. Ma Brunelleschi indicava la strada della consapevolezza di sé a tutti gli ex ragazzini che avevano trascorso molti anni uguali — si cominciava a dodici — nelle botteghe a macinare colori, dorare le cornici, copiare i disegni, preparare il fondo delle tavole, inchiodare cassoni nuziali. Il lavoro nelle botteghe era organizzato in modo rigidamente gerarchico nei ruoli e nelle modalità di apprendimento. La ribellione alle corporazioni era l'insofferenza verso questo vecchio mondo. Leonardo diventerà il primo a trasformare il suo studio da bottega ad atelier dove gli allievi erano compagni, come farà poi Raffaello.
La strada era tracciata, ma ancora molto lunga. Un secolo dopo il gesto di Brunelleschi, Vasari, un altro fiorentino, continuò nell'impresa di nobilitare gli artisti scrivendone le vite come si faceva per le biografie dei condottieri. Ma ancora all'inizio del Seicento Annibale Carracci cadeva in depressione, fino a morirne, perché lo spezzante cardinal Farnese gli pagò una miseria, quasi come a un imbianchino, il capolavoro affrescato nella volta del suo palazzo.

Corriere 28.4.13
«Una strategia politica dietro il modello di libertà civica»
Barbuto: la luce degli ideali classici contrapposta all'oscurantismo dei Visconti
di Roberta Scorranese


Nel definire una delle maggiori invenzioni artistiche nella Firenze del Quattrocento, la prospettiva, lo storico Erwin Panofsky parlò di «ordine simbolico», un sistema di regole elaborate per «guardare attraverso». I quadri così diventavano essi stessi finestre per osservare oltre la tela, le statue erano percorsi conoscitivi. Il critico tedesco era andato dritto al cuore politico e culturale dell'epoca: Firenze era un laboratorio di conoscenza e sperimentazione, rivendicava una grandezza civile e sociale che guardava ai valori dell'antica Roma e alla Atene classica.
La florentina libertas, all'inizio del secolo con Coluccio Salutati, veniva contrapposta alla «tirannia» di Gian Galeazzo Visconti e brandita come arma antioscurantista. «Il conflitto tra la città toscana e i signori milanesi veniva rappresentato come una guerra universale per la libertà culturale — spiega Gennaro Maria Barbuto, docente di Storia delle dottrine politiche all'università di Napoli —. E anche la struttura sociale dell'epoca, dominata da oligarchie forti e ambiziose, favoriva un'arte dal valore simbolico». Le statue, le sculture imponenti, prima di tutto, come si può vedere nella mostra a Palazzo Strozzi. Ma anche la pittura di Masaccio: profondità, unità razionale, psicologia. Non casualmente Vasari lo cita insieme a Donatello. «La strategia culturale dei Medici, che raggiungerà in seguito il suo culmine con Lorenzo il Magnifico — continua Barbuto — cercava e finanziava artisti anche umili ma controllabili, assimilabili ad un pensiero molto forte. Egemonia culturale, la definirei».
E poi in quegli anni si consolidava una diffusa gestione del potere (anche e soprattutto privato) che Machiavelli analizza nelle sue «Istorie Fiorentine». La forza politica delle famiglie richiedeva una corazza specialistica: esperti di diritto, notai, legali e altre figure professionali andarono a rafforzare un notevole sapere professionistico, tutt'altro che sterilmente tecnico. «Non dimentichiamo — dice ancora il professore, autore di una recente biografia su Machiavelli — la rivoluzione anti-scolastica degli umanisti. Ribellandosi al vecchio sistema dei saperi, aprirono le porte non solo a nuove ricerche, scientifiche e letterarie, ma anche ad un vero e proprio linguaggio inedito». Si passò dal concetto di «mondo chiuso» a quello di «Universo infinito», l'Accademia Neoplatonica di Marsilio Ficino diffuse il paradigma dell'idea come fondamento di un sistema creativo che pensava in grande perché partiva da consistenti valori di fondo. La fisica di Aristotele e le sezioni coniche di Apollonio di Perga non potevano non influenzare la scultura fiorentina di quel periodo.
Un individualismo di matrice oligarchica aveva soppiantato il collettivismo artigiano di tipo corporativo del Duecento e di parte del Trecento. «Ma soprattutto — dice Barbuto — sono interessanti le compresenze. Accanto a un grande intellettuale senese come Angelo Poliziano, troviamo personalità bizantine, greche. Era una cultura che riusciva ad alimentarsi, a fondere le visioni di Aristotele con quelle di Plotino. Così la coscienza civile si nutriva di grandi interrogativi».
È così evidente che la grandezza politica fiorentina del Quattrocento nasce da una dialettica tra pubblico e privato. E da una lenta, sistematica, organizzazione professionale del potere che Machiavelli, nei suoi saggi, ha sviscerato con passione. «Certo, le differenze sociali erano e restarono ampie — conclude il professore — però si apriva una nuova modernità».

Repubblica 28.4.13
La crociata dei Rosenberg a caccia di opere d’arte saccheggiate dai nazisti
In 70 anni recuperati quasi 400 capolavori
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — Era una delle (tante) ossessioni dei gerarchi nazisti: rubare opere d’arte. Secondo un calcolo approssimato per difetto, ne saccheggiarono oltre centomila nei paesi occupati per un valore attorno ai 10 miliardi di dollari. Avevano creato una divisione apposta che aveva il compito di setacciare musei, case d’aste e collezioni private. Come quella della famiglia Rosenberg, che da allora, da oltre settant’anni, da tre generazioni, insegue il suo tesoro perduto con pazienza, tenacia e incredibile capacità, tanto da aver recuperato quasi il 90 per cento dei quattrocento pezzi originali. La loro avventura sembra un film, e in effetti — benché solo come spunto — lo è già: “Il treno”. Una pellicola di guerra con Burt Lancaster dove si racconta il tentativo di un colonnello delle SS di mettere in salvo, in Germania, il suo bottino di tele pregiate (e rubate). Ed è anche un libro, 21 rue La Boetie, della giornalista francese, nonché ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, Anne Sinclair che è la nipote del capostipite, Paul Rosenberg. La storia, raccontata dal New York Times, inizia a Parigi negli anni Trenta, dove il giovane Paul fonda una galleria d’arte che diventa presto una delle più importanti. Amicissimo e confidente di Picasso, il quale cerca una casa a due passi da lui: “Ciao Rosi”, “Ciao Pic”, è il saluto dei due ogni mattina, il mercante crea una rete di rapporti con i migliori pittori e, di conseguenza, una collezione prestigiosa: Matisse, Braque, Cézanne e poi ancora Renoir, Van Gogh. La notte scende quando arriva la guerra e con i nazisti alle porte Paul Rosenberg decide, per sfuggire ai campi di concentramento, di andare negli Stati Uniti, destinazione New York, dove apre subito un’altra galleria nell’Upper East Side. Prova a spostare anche le sue opere d’arte ma è impossibile, non c’è più tempo. Prima di scappare, le nasconde inutilmente in una banca e in una casa di Bordeaux, ma soprattutto, cosa che si rileverà molto più efficace, mette per iscritto con amore maniacale un inventario completo. Nei giorni confusi della Liberazione, nell’agosto del 1944, Alexandre, il figlio maggiore, entra nella capitale al comando dell’esercito francese e dopo un breve scontro a fuoco fa irruzione nel treno numero 40044 (quello del film) diretto verso la Germania e nei vagoni trova decine di sculture, oggetti preziosi e quadri, molti di quelli che lui aveva imparato a conoscerle sulle pareti della casa paterna.
La caccia parte da qui. La piccola lista è ora un archivio monumentale con oltre 250mila documenti che occupa un intero piano della casa di famiglia a Manhattan. E a portare avanti “la crociata dei Rosenberg”, c’è Marianne la figlia di Alexandre che fa l’avvocato: «Non lasceremo mai perdere, non dimenticheremo: è la nostra missione».
Per anni, lei e i suoi parenti hanno spulciato i cataloghi dei musei, pubblicazioni delle case d’aste, gli archivi dell’Interpol e quelli delle associazioni — come quella del Getty di Los Angeles o dell’Holocaust Memorial Museum — che hanno messo online l’elenco delle opere rubate dai nazisti. Un dipinto di Braque viene trovato nel negozio di Josée de Chambrun, guarda caso la figlia di Pierre Laval uno dei leader del governo di Vichy. Un Matisse viene individuato durante un’esposizione temporanea al Centre Pompidou, un altro viene scovato, proprio in questi giorni, in Norvegia. E via così, quadro dopo quadro, scoperta dopo scoperta. Ogni volta è una battaglia legale, ogni volta è una sfida contro le leggi dei paesi, che nonostante ripetuti accordi internazionali spesso intralciano il recupero. Difficoltà che non fermano i Rosenberg: «Paul sarebbe andato sino alla fine del mondo per ritrovare e portare a casa i suoi adorati quadri», dice un amico. E gli eredi hanno lo stesso sangue: «Adesso toccherà alla quarta generazione finire la caccia», giura Marianne. Tanto, manca ancora poco prima dei titoli di coda con il lieto fine e la scritta missione compiuta.

Repubblica 28.4.13
Tra gli scaffali e le barricate. L’archivio delle Rivoluzioni
C’è un palazzo a Mosca che custodisce memorie e segreti del mondo in rivolta
E che ora rischia di scomparire
di Giancarlo Bocchi


Il Palazzo dei segreti è un edificio imponente, in pietra grigia, sulla Stolešnikov, una delle vie più alla moda del centro di Mosca. Ha un nome ufficiale, Rgaspi, Archivio della Storia politica e sociale, ma tra i moscoviti c’è chi lo chiama ancora Archivio del Comintern. Probabilmente è il solo luogo al mondo che per vastità di materiale e ricchezza di possibili interpretazioni si potrebbe paragonare alla Biblioteca infinita immaginata da Borges. Nell’invenzione letteraria dello scrittore argentino, il visitatore cerca il libro che contiene la Verità. Lo trova, ma scopre che ne esistono innumerevoli altri con altre verità, talvolta opposte. Nel Palazzo dei segreti sono i documenti storici a mostrare tante verità, talvolta l’una alle altre opposte. Dal primo piano un grande bassorilievo in bronzo di Lenin osserva severo le boutique di Vuitton, Fendi, Prada e il via vai delle macchine di lusso.
Per varcare l’ingresso dell’edificio, più esteso dell’atrio di una stazione ferroviaria, bisogna passare tra agenti con giubbotto antiproiettile e superare una statua di Lenin che guarda perplesso i poveri fiori di plastica lasciati ai suoi piedi da qualche estimatore. All’interno quattro piani di casseforti e armadi blindati gonfi di cartelle protetti da serrature elettroniche e piccole telecamere. Due milioni di fascicoli contenenti ciascuno una media di duecento documenti. I corridoi e gli uffici hanno un odore particolare. Non è quello acre delle carte ammuffite, semmai il profumo di documenti ben tenuti. Quello del Comintern è il più grande archivio della storia politica al mondo. Decine di milioni di fogli, su cui è scritta, e in parte è ancora da scrivere, la storia delle rivoluzioni e della politica dalla fine del Settecento a tutto il Novecento. Oltre ai documenti dei cento partiti comunisti aderenti all’Internazionale, oltre alle risoluzioni del Politburo sovietico, agli atti e alle comunicazioni dell’Nkvd, la polizia segreta staliniana, i carteggi sulla lotta fratricida tra anarchici e comunisti nella guerra di Spagna, le carte private dei maggiori dirigenti del comunismo, l’Archivio contiene materiali di tutte le trame clandestine, di tutte le insurrezioni e le rivoluzioni dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’America latina. Carte molto invidiate dai cinesi, che ne vanno a caccia pagando fino a quindicimila euro a foglio.
In queste stanze silenziose, lungo i corridoi che i funzionari percorrono con rispetto, quasi in punta di piedi, sempre parlando sottovoce, si aggira anche un fantasma benevolo. Ha un nome che tra gli archivisti russi incute rispetto e ammirazione, quello di David Borisovic Rjazanov, l’uomo che nel 1921 fondò l’Archivio chiamandolo Istituto Marx-Engels. Eccentrico, coltissimo, dotato di una memoria eccezionale e di una capacità illimitata di lavoro, passò gran parte della giovinezza in esilio e in prigione. Già negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’ottobre, criticò la linea bolscevica di soppressione dell’opposizione e della libera stampa («Le discussioni non danneggiano il partito, lo rafforzano! ») e denunciò le posizioni autoritarie di Lenin e di Trotskij, sfidando infine anche il monolitismo degli anni bui del terrore staliniano. Inizialmente il suo Archivio fu aperto al mondo e alle testimonianze. Rjazanov creò una rete internazionale unica, quasi un suo personale “servizio segreto culturale” di corrispondenti autorizzati a scovare e acquistare libri rari e manoscritti dei grandi rivoluzionari nelle maggiori città europee, tanto che negli Anni Trenta l’Istituto divenne la Mecca per gli studiosi di tutto il mondo: Kautsky, Béla Kun, Maksim Gorkij. Quando l’Urss non aveva fondi per comprare in Occidente neppure un trattore, partivano dalle capitali europee decine di vagoni ferroviari pieni di carteggi che i segugi di Rjazanov erano riusciti ad acquistare dagli antiquari e nelle aste. Quando nel ’27 Stalin visitò l’Istituto e vide i ritratti di Marx, Engels e Lenin gli chiese: «Dov’è il mio?» lui rispose: «Marx e Engels sono stati i miei maestri, Lenin un mio compagno. Tu chi sei per me?». Un’altra volta lo irrise pubblicamente, interrompendolo mentre dissertava di questioni ideologiche durante un congresso: «Smettila, lo sanno tutti che la teoria scientifica non è esattamente il tuo campo!». Fu inviato in esilio, nel luglio del ’37 arrestato e l’anno successivo fucilato.
Nessuno osò però distruggere il suo lavoro. Così, da allora, i preziosi scritti di Marx e Engels sono ancora conservati dentro il caveau sotterraneo fortificato, chiuso non solo al pubblico ma sovente anche agli studiosi e in cui vengo eccezionalmente accompagnato. Superare le sue enormi porte blindate, che sembrano uscite dalla fantasia di Jules Verne, è come accedere alla macchina del tempo. Nell’immenso caveau spettrali corridoi, rivestiti di piastrelle, portano a numerose porte blindate che proteggono grandi locali stipati di austeri armadietti grigi e anch’essi blindati. Il responsabile del settore è Valerij Fomichev, un sessantenne che ha trascorso molta parte della sua vita qui dentro. Ogni giorno, come facevano una volta i tre decrittatori ufficiali degli scritti di Marx, sfoglia pagine e pagine seguendone la scrittura minuta e le annotazioni veloci in cui saltava tutte le vocali, per svelarne poi l’ultimo segreto. Con aria divertita osserva dei documenti sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che il padre del comunismo non volle mai riconoscere, e estrae poi un foglietto dove Stalin ha scritto: «È una cazzata. Lasciate sepolto questo materiale per sempre». Qui è custodito persino il fiocco rosso che Marx era solito indossare: «Era ricavato dalla stoffa di una bandiera dell’ultima barricata della Comune di Parigi», ci racconta con appena un filo d’emozione.
Negli uffici dei piani superiori è conservata in perfetto ordine anche una preziosa collezione di manoscritti che spaziano dal ’700 al ’900 e che riguardano tutta l’Europa. Atti della Rivoluzione francese, lettere di Voltaire e di Rousseau, l’originale della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, lettere di Garibaldi e di Mazzini. «Ma il più grande segreto di tutti i segreti del Novecento sono i carteggi dell’Nkvd, la polizia segreta sovietica… » racconta il vice direttore dell’Archivio, Valerji Šciepeliov. Attraverso le carte del Politburo è possibile ricostruire molte trame ancora sconosciute, e per esempio si può scoprire che molti dei membri della dirigenza sovietica erano tenuti all’oscuro delle strategie di Stalin. «Non era affatto matto, giocava sempre d’anticipo…» commenta Šciepeliov, che conosce bene quelle carte. Con un semplice ma efficace sistema di numerazione dei dossier, ad esempio, Molotov veniva informato di un fatto che invece danov non doveva sapere. Anche il caveau di Lenin è uno dei grandi segreti custoditi in questo edificio. Sta sottoterra ma nella parte opposta dell’edificio, protetto da una serranda corazzata e, di nuovo, da enormi porte blindate fabbricate appositamente dai tedeschi della Krupp negli anni ’30: uno scudo d’acciaio in grado di resistere a una bomba di 500 chili. All’interno casseforti
a tenuta stagna per permettere in caso d’incendio il completo allagamento dei locali. La mastodontica impresa letteraria di Lenin è fatta di trattati, tesi, proclami, risoluzioni, saggi di storia, filosofia, economia. «Come avrà trovato il tempo di scrivere tutto questo… » sfugge detto a Svetlana Kotova, l’esperta del reparto nonché curatrice dei due musei smantellati negli anni Novanta per far posto ai club della nuova aristocrazia russa, il Museo della Rivoluzione e il Museo di Marx e Engels.
Un vero cruccio per gli archivisti, espertissimi e necessariamente poliglotti, è quello di non essere riusciti a fare passi avanti con la decifrazione dei codici segreti che il Comintern usava nei messaggi più riservati. L’allora Kgb, ora Ffb, non ha mai dato la chiave di decodificazione: «Segreto di Stato». Ma anche il processo di desecretazione di molti altri documenti essenziali a comprendere la storia del Novecento è stato avviato solo in minima parte. L’archivio online, finanziato negli anni Novanta anche da istituzioni straniere, è solo una goccia nell’oceano delle carte dell’archivio reale. Ma del resto non è neppure questo il problema più impellente. Oggi questi custodi dei grandi segreti del Novecento guardano sconsolati dalle finestre l’assedio al loro fortilizio. Invece di essere tutelato dall’Unesco, come meriterebbe, è circondato dalle grandi firme della moda che puntano a questo grande spazio come all’ultima casella che ancora manca loro per poter aggiungere un’altra vetrina di lusso per lo shopping dei ricchi del post comunismo. Nella notte moscovita il rigido volto di Lenin, sulla facciata di pietra grigia del Palazzo, è un’ombra che pian piano scompare tra le insegne multicolori.

Repubblica 28.4.13
Quando la Russia sogna l’Unione Sovietica
di Viktor Erofeev


In una fredda sera del 25 dicembre 1991 fui casuale testimone di una cerimonia tutt’altro che solenne: al Cremlino si ammainava la bandiera rossa. Non credevo ai miei occhi: possibile che quel mostro fosse davvero morto?
Ora mi sembra che la mia incredulità fosse in parte profetica. Si può far risorgere l’Unione Sovietica? O l’ipotesi appartiene a una cattiva metafisica politica che non poggia su alcuna base reale? Penso che fino a pochi anni fa giochetti del tipo “Facciamo risorgere l’Urss” sarebbero apparsi come una beffa. Ma i tempi cambiano, e nella coscienza del potere russo l’idea del ritorno ai valori sovietici sta diventando più dolce del miele.
Cominciamo dal tentativo di restaurare il concetto arcaico di popolo. È questo lo scudo che oggi il potere innalza contro qualsiasi dissenso.
Si civetta con il popolo, in particolare con la classe operaia, della quale chissà come negli ultimi vent’anni ci si era dimenticati. Il popolo è nuovamente chiamato a diventare eroe della storia, con il suo innato patriottismo, la sottomissione e la diffidenza per tutto ciò che è straniero. Agli eroi della storia odierna d’ora in poi sarà conferita, per iniziativa di Putin, la più alta onorificenza, quella di Eroe del Lavoro: simbolo assolutamente sovietico.
Come può tutto ciò conciliarsi con l’economia della Russia, orientata verso il capitalismo? In nessun modo. Ma se così ordineranno, si concilierà. Il passo successivo sarà la riesumazione del bel distintivo Gto: Gotov k Trudu i Oborone, “Pronto al lavoro e alla difesa”. Lo assegneranno in massa, come in Unione Sovietica, a tutti quelli che sono bravi nella corsa e nel salto, e nel contempo a difendere il paese dal nemico. Parallelamente, è prevista l’introduzione dell’uniforme scolastica obbligatoria per tutti i bambini e le bambine della Russia — ancora una volta, come nell’Urss.
Stiamo andando verso una generale caserma della felicità. Come reagisce a questo il nostro
popolo semimitico, che nei vent’anni dopo la fine dell’Unione Sovietica si è trasformato in
popolazione con un diverso livello di reddito e di bisogni, e con concezioni diverse circa i valori della vita? A dire la verità, il popolo reagisce fiaccamente. Fiaccamente perché è appunto semi-mitico e quindi semi-inventato. Rivolgendosi al popolo, il potere tenta di toccare le corde ideologiche, quelle dell’eterna anima russa e dell’ex Homo Sovieticus. Ma il popolo si è disgregato, diviso tra giovani che non sanno giocare all’Uomo Sovietico e anziani che guardano al potere attuale con indifferenza o sospetto. Per loro l’Unione Sovietica è proprio l’esempio di ciò che ora non vedono: dove sono le imprese spaziali? Dov’è l’assistenza medica gratuita? Dove sono gli alloggi a basso prezzo? Dove sono i nostri intellettuali? Mi capita spesso di parlare davanti a queste persone nelle biblioteche comunali: sono per lo più persone stanche, disilluse su tutto. Ma dubito che il potere russo nel suo giocare all’Unione Sovietica punti davvero su di loro. Punta in realtà sulle proprie ambizioni imperiali. Con la stessa instancabile consequenzialità con cui Stalin procedeva a riappropriarsi degli spazi dell’Impero russo perduti dopo la rivoluzione del 1917, il potere attuale aspira a riportare la Russia al rango di superpotenza. E questa è un’efficacissima arma nella disputa con ogni genere di opposizione politica, dai liberali ai nazionalisti: voi non fate che chiacchierare a vanvera, noi invece rimettiamo in piedi la Russia e la rendiamo invincibile. Il guaio di questo sogno è che Mosca parla con i vicini, fratelli ucraini in primis, in maniera brusca, perentoria, impaziente. Invece del sorriso e della seduzione, la voce brusca del fratello maggiore. Ecco, non riusciamo in nessun modo a sbarazzarci di questo tono da fratello maggiore, a cui ci siamo troppo abituati in epoca sovietica e addirittura zarista. Altrimenti forse li avremmo anche convinti. E adesso vivremmo tutti - russi, ucraini, georgiani - in una nuova Unione Sovietica, senza Lenin, ma con il rispetto per Stalin, senza kolchoz, ma in compenso con il gas e il petrolio. E della vecchia Unione Sovietica ricorderemmo solo il bene, il lato più gioioso ed eroico, mentre cancelleremmo dalla memoria tutto il resto, come una spiacevole inezia. E vivremmo felici, e voleremmo ogni giorno nello spazio — in barba a tutti voi!

Repubblica 28.4.13
Mondo e-book
Il pensiero di Gramsci in digitale
di Stefania Parmeggiani

Antonio Gramsci scrisse i suoi quaderni durante gli anni di prigionia: note e appunti analizzati dagli studiosi di tutto il mondo, ma a causa della mole e della frammentarietà difficilmente conosciuti al grande pubblico. Per avvicinare anche i non esperti al pensiero gramsciano la casa editrice Nilalienum ha deciso di digitalizzare i Quaderni dal carcere.
Link intertestuali ai nomi, agli eventi, ai movimenti culturali e politici citati, diventano una guida alla lettura. L’opera, curata da Luigi Anepeta, è anche organizzata attraverso una griglia tematica e ogni Quaderno è preceduto da una nota introduttiva. Tutti i testi sono consultabili gratuitamente sul sito http://www.nilalienum.com/Mappa/ Gramsci.html

Repubblica 28.4.13
Il Perseo del preraffaellita Burne-Jones eroe per caso di un fumetto dark
di Melania Mazzucco


Non ho mai capito se quelli che vogliono salvare il mondo sono più ingenui o pericolosi. Li ammiro e ne diffido. La Confraternita dei Pre-Raffaelliti voleva salvare l’arte riportandola a una presunta ingenuità originaria. La formazione artistica di Burne-Jones era stata finanziata da John Ruskin, mentore della Confraternita, che gli aveva pagato nel 1859 il primo viaggio in Italia. Così la sua pittura idealizzante e anacronistica, ispirata a Beato Angelico e Gentile da Fabriano, rifletteva gli ideali di un’arte pura ed elitaria, che si opponeva alla volgarità del realismo e al materialismo del mondo contemporaneo. La società vittoriana gli oppose resistenza, ma poi lo adottò, facendone un personaggio della Londra fine ’800: un mistico apostolo della bellezza, e alla fine anche un baronetto.
Per me sir Burne-Jones è il protagonista di un paradosso. Amo le sue superfici senza profondità abitate da dee, cavalieri erranti, statue e sirene; non perché avesse senso resuscitare un’arte morta da secoli con le convenzioni e le convinzioni che la ispirarono, ma perché – teorizzando l’esatto contrario – Burne-Jones stava inventando un’arte del futuro, popolare e universale. Il fumetto. O, come si dice oggi, la graphic novel.
Il destino compiuto è un episodio del mito di Perseo, uccisore di Medusa e liberatore di Andromeda, che impegnava Burne-Jones dal 1868. Narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, era stato dipinto da innumerevoli pittori (fra cui prediligo Piero di Cosimo, Tiziano e Moreau). Ma lui era partito da William Morris. Amico e sodale dai tempi di Oxford, quando leggevano a voce alta tomi di Platone, Morris aveva riscritto il mito nel poemetto The Doom of the King Acrisius (che fa parte della raccolta The Earthly Paradise).
Burne-Jones intendeva illustrare il volume dell’amico con 500 disegni. Ne preparò una settantina, poi il progetto naufragò.
Intorno al 1875 il conte Arthur Balfour, rampante politico tory nonché occultista, spiritista e letterato, gli commissionò la decorazione del salone principale della sua casa di Carlton Gardens. Gli lasciò la scelta del soggetto, e Burne- Jones tornò a Perseo. Un quadro, per lui, era il risultato di una maniacale elaborazione. Realizzò dunque svariati disegni a penna e inchiostro; poi li traspose ad acquarello su cartoni; approntò rilievi in gesso dorato su pannello di quercia e solo dopo iniziò a dipingere (lasciava asciugare il colore per mesi, e talvolta aspettava anni prima di verniciare). Passò il tempo: delle 10 tele a olio promesse a Balfour, ne finì solo 4. Il destino compiuto prevede lo scontro finale fra Perseo e il mostro che minaccia la vergine Andromeda. Scontro elementare, etico: il Bene contro il Male.
Ma Burne-Jones non credeva in un’arte didattica: i quadri non devono spiegare, piuttosto sug-
gerire il mistero. La perfezione elegante della linea, il nitore formale, la meticolosità della pennellata, la precisione dei particolari conferiscono al quadro il ritmo ipnotico di una danza. Si tratta di una lotta mortale: ma non c’è movimento, furore, dinamismo. Totale è l’assenza di dramma. La composizione è cristallizzata in un’immobilità onirica.
Andromeda callipigia, in posa come una statua greca sul piedistallo dello scoglio, ci offre la visione di un nudo integrale femminile dal lato b tra i più attraenti della storia dell’arte. Appena sciolta dalla catena che la ancorava alla roccia a forma di menhir (ma anche di fallo), non sembra spaventata: volge il viso a destra verso il suo liberatore, Perseo. Non fosse perché in testa ha l’elmo che lo rende invisibile e non una chioma di capelli di rame,
l’androgino eroe sarebbe identico a lei. Stesso volto aguzzo, stesso naso, stessi occhi.
Il suo abbigliamento è stupefacente. Burne-Jones studiò per mesi le armature da collezione, e si fabbricò un elmo di cartapesta. Non voleva inserire nel quadro armi o oggetti che rimandassero a un’epoca precisa. Il mito è fuori dalla storia e dalla realtà. È sempre.
Perseo indossa un’armatura che riverbera barbagli d’argento, o una corazza sottile di cuoio nero che gli aderisce alla carne come una seconda pelle? Entrambe, direi: la lamina d’acciaio sembra subire una metamorfosi e diventa guaina sulle cosce e i polpacci. Perseo è protetto da una sorta di maschera – guscio e talismano – come il supereroe Batman.
Il mostro, Burne-Jones lo immagina come un fascinoso serpente (e così gli assegna natura diabolica). Ma acquatico: una murena gigante, dalla pelle nera, liscia e lucida come la camera d’aria di un pneumatico. Perseo e il Mostro hanno la stessa pelle. Insieme, formano un’unica figura: Perseo è inglobato dentro le spire del Mostro, che gli si avviluppa intorno come una ruota: in precario equilibrio, la mano sinistra sul collo di quello, deve subire sull’inguine la pressione vagamente oscena del corpo dell’altro. La spada magica nella mano destra, sta per tagliargli la testa. Il mostro digrigna i denti, e lo fissa negli occhi.
Non c’è paesaggio. L’ambiente è ridotto a nuda materia: carne, roccia, acqua, metallo. Non sembra di essere in mare, ma all’interno di uno spazio claustrofobico, mentale. Insomma, grazie all’estetica da fumetto dark, il quadro trasmette minaccia e inquietudine. Il titolo contrasta con l’immagine: l’efebico Perseo sembra inadeguato e nulla suggerisce che possa vincere il Mostro e compiere il suo destino. Anche il messaggio è perturbante. Nessuno è ciò che dovrebbe essere: il maschio e la femmina sono gemelli; il Mostro e Perseo un’entità ambigua; l’eroe è solo la parte emersa dell’essere oscuro che li abita entrambi.
Forse si può essere innovatori senza saperlo e senza volerlo, perseguendo una pittura raffinata ed estetizzante, ignara delle asprezze dell’avanguardia, capace però di aprire spazi di libertà inaudita, lasciando affiorare sulla tela le paure e i fantasmi della psiche. Lottando coi propri demoni segreti tutta la vita, come Perseo. O come Burne-Jones.

Edward Burne-Jones: The Doom Fullfilled (Il destino compiuto, 1888) Stoccarda Staatsgalerie

Repubblica 28.4.13
Scalfari racconta la nascita dell’Espresso
Eugenio Scalfari oggi su RaiTre


È DEDICATA alla fondazione di L’Espresso la quarta delle conversazioni di Eugenio Scalfari con Antonio Gnoli sulla storia del giornalismo italiano, prima serie dei Testimoni del tempo, prodotto da Rai Educational, in onda alle 12.55 su RaiTre. Ricorda Scalfari: «Facemmo prima L’Espresso a colori, che era un supplemento del formato più piccolo e poi facemmo, invece, il supplemento economico di L’Espresso, che erano 24 pagine, stesso formatone grande, un lenzuolo, e con questi due la vendita arrivò intorno alle 100.000 copie». Il fondatore di Repubblica racconta alcuni dei momenti chiave nella storia del settimanale L’Espresso, dal progetto ideato con Arrigo Benedetti, che ottenne il sostegno da «industriali illuminati» come Adriano Olivetti, alla pubblicazione del primo numero il 2 ottobre 1955; dai cambiamenti di gestione ai vertici del giornale alle grandi inchieste; dalla comparsa dei supplementi al decisivo mutamento di formato agli inizi degli anni ‘70, da «lenzuolo» a tabloid.

Corriere La Lettura 28.4.13
Ridatemi la libertà di mangiare da schifo come insegna mamma
di Fulvio Abbate


Mia madre cucinava da schifo, riteneva nemici giurati perfino i fornelli, comprammo insieme le prime pentole, quando lei, mamma, aveva quasi cinquant'anni. Non gliene ho mai voluto per questa sua diserzione dai (falsi) doveri femminili, «donneschi», così come venivano indicati sulle pagelle scolastiche al tempo dell'Agro Redento dal fascio littorio. Addirittura, oggi, davanti alla retorica del cibo in tavola, davanti alle facce dei cuochi innalzate sugli altari glamour del luogo comune spettacolare, ne ricordo la ribellione verso il conformismo familiare come un grande dono, insieme al meraviglioso coraggio di dare idealmente alle fiamme i grembiuli e le tovaglie con i loro ricami. Sorvolando il paesaggio dei nuovi orrori post-umani, l'esistenza della gastronomia molecolare l'ho scoperta per caso, grazie a un libro sull'argomento. In copertina, dove ci si sarebbe aspettato un naturale mestolo di legno, brillava invece una fiamma ossidrica. Segno che la post-modernità ha ormai trafitto l'innocenza, metti, della cotoletta, della carbonara, dell'involtino. Segno che molti secoli sono trascorsi dall'Artusi, dal Talismano di Ada Boni e perfino da Il Rigettario di Ugo Tognazzi o da Nonno pane e Nonna minestra di Aldo Fabrizi, dove il pensiero della tavola mostrava ancora un volto rionale, docilmente vomitevole, tra le tarantelle e i caroselli. Dell'invadenza mediatica dei cuochi, degli chef, delle rubriche cartacee e televisive, che inquadrano pentole e fornelli come fiamme eterne di uno still life arcimboldesco con prenotazione obbligatoria, non ne posso davvero più. Infatti, ciò che ormai sogno è il ritorno del tempo in cui, assai umanisticamente, si mangiava male, malissimo. Di più, pretendo un monumento equestre che innalzi all'eterna gloria dei cieli lo scopritore del bicarbonato, e ancora, pensando sempre a mia madre, tragica cuoca trasmigrata nel frattempo nell'aldilà della vita e dei menu, un grande busto dorato per colui che inventò il Gaviscon e il Maalox.
Fra le molte retoriche fiorenti nel mondo delle bugie, nel mondo dell'oppio per i popoli con l'hobby della gola, quella che solleva i tegami e le forchette a massimo simbolo araldico della frustrazione contemporanea è, almeno ai miei occhi, la peggiore. Così, l'ho già detto, rivendico il ritorno alla pessima tavola, lo rivendico in nome dell'ironia e del bisogno di rivolta caro al filosofo Albert Camus. Proprio l'autore di La peste, sempre a proposito di cibo, racconta che in casa sua, colpa della miseria, perfino gli oggetti destinati alla tavola non avevano nomi: «…prendi questo, prendi quello», diceva la madre analfabeta, diversamente da casa dello zio Auguste dove invece c'erano «le grès flambé des Vosges, le service de Quimper…».
Non è necessario conoscere i tempi di cottura della terrine de queue de boeuf o del nostrano risotto alla milanese per diventare premio Nobel. C'è stato un tempo in cui il cibo e l'eros sembravano costituire un unico pranzo, ed era un eros pieno, assoluto, copioso; la tavola venuta al mondo al tempo degli chef, sostituendo l'idea pagana dell'abbondanza con il saggio, l'assaggio, ha affermato piuttosto l'idea della gola come «coitus interruptus». Ma io, in nome della gioia, sogno e pretendo la libertà di tornare a mangiare da schifo, come mi ha insegnato mamma. Grazie, Gemma, per l'orrore delle tue ripugnanti zuppe, giuro.