martedì 30 aprile 2013

l’Unità 30.4.13
Letta ricompatta i democratici Epifani: «Mettiamoci la faccia»
Sì Pd-Pdl, Lega astenuta
Il grazie a Bersani. L’ex segretario: «Ora aiutiamolo»
Rientrati i cinquanta dissidenti sul voto di fiducia 


il Fatto 30.4.13
I Democrats si allineano. Inizia il post-Bersani
Speranza evoca l’”interesse nazionale”
di Wanda Marra


Non potrei iniziare questo discorso, in un passaggio così impegnativo, senza un accenno personale ed esprimere un senso di gratitudine profonda verso chi, con generosità e senso antico della parola lealtà, mi ha sostenuto anche in questo difficile passaggio: Pierluigi Bersani”. Enrico Letta parla da Presidente del Consiglio. L’altro, che era il candidato elettorale, è seduto tra i banchi del Pd. I due si erano presentati in ticket alle primarie del 2009. Insieme hanno gestito questa fase politica. Il vice è diventato premier. L’ex segretario, deputato semplice, sorride, fa il segno di vittoria. Applaude tutta l’Aula (eccettuati i grillini). Passaggio di consegne storico: il Pd ha non vinto le elezioni, l’ex comunista Bersani non è andato a Palazzo Chigi a fare il governo col Pdl, ma ha assicurato “sostegno leale” all’ex Dc con il quale ha lavorato fino all’altroieri. Un Pd che per 60 giorni non ha fatto che litigare, sabotarsi, impallinare i suoi vertici, e in una parola autodistruggersi, cede la sua sovranità, rinuncia alla sua alterità, si rassegna all’inciucio finale. Senza uno strappo ufficiale, se non quello di Pippo Civati (che alla fine, piuttosto che dire no alla fiducia e di fatto mettersi fuori dal partito sceglie di uscire dall’Aula). E del neo eletto piemontese Davide Mattiello, proveniente da Libera, che si dimette dal gruppo.
QUALCHE distinguo c’è. Interviene in Aula Stefano Fassina, responsabile Economico del Pd (e ancora in corsa per un posto da vice Ministro): “I 4 miliardi di euro necessari a cancellare l’Imu, premesso che li abbiamo trovati, possiamo utilizzarli per evitare l’aumento dell’Iva? ”, chiede. “Oppure abbiamo trovato, oltre ai 7-8 miliardi per affrontare i provvedimenti urgenti lasciati scoperti da Monti, altri 8 miliardi all’anno per cancellare l’Imu e per cancellare l’aumento dell’Iva? E come li finanziamo? Con ulteriori ticket sulla sanità? Con ulteriori tagli alla scuola pubblica e all’università? Con ulteriore deindicizzazione delle pensioni basse? ”.
Un intervento da opposizione lo fa Rosy Bindi: “Per molti di noi non è giusto sospendere l’Imu sulla prima casa”. Perché “le priorità sono la riforma delle pensioni, gli esodati. Per l’Imu c’è una data certa, per questi altri temi caldi no”. Mettono il dito nella piaga Fassina e Bindi e preannunciano problemi: Letta è andato incontro al Pdl. E il Pd? Per ora il Pd nel complesso sorride e ingoia. Gozi (fino all’ultimo dissidente) inneggia all’europeismo di Letta, i più critici, come Orfini e Zampa, si allineano. Nel frattempo, qualcuno s’interroga. Mineo: “Ma come si fa a preservare la sinistra? Quando facciamo il congresso? ”, chiede a Orfini. La risposta è un’altra domanda: “Facciamo l’Assemblea. Se no, chi lo convoca il congresso? ”. L’Assemblea prevista per sabato è stata rimandata all’11. Meglio finire la partita dei sottosegretari prima, per sedare qualche malumore. E poi si brancola nel buio. Segretario dimissionario, vicesegretario premier. Si parla di un reggente, Guglielmo Epifani, che dovrebbe traghettare il partito fino al congresso (che è a ottobre e probabilmente non si anticiperà: il tempo serve a tutti). Ieri applauditissimo all’assemblea del gruppo mentre invitava a metterci la faccia, sull’operazione larghe intese e non a subirla. È in pole position. Oppure un Triumvirato, con un renziano, un Giovane turco e un rappresentante di un’altra area.
POCO entusiasmo generale per la leadership del partito. Matteo Renzi si dichiara non interessato. “Può fare tutti i capricci che vuole, ma ora c’è una sola cosa da fare, ed è questa: impegnarsi nel partito”, dice uno dei suoi. L’ultima vittima del governo Letta sembra proprio lui: rottamati i big, il governo dei giovani, moderato e post ideologico, l’ha fatto un altro. Se dura, per Matteo rischiano di diventare guai definitivi. Nell’intervento a nome del Pd il capogruppo, Roberto Speranza ripete il nuovo mantra democratico. Facciamo questa scelta “eccezionale, in un tempo eccezionale”, “nell’interesse nazionale”. Il Pd “farà la sua parte fino in fondo”. E ringraziando il “faro Napolitano” cita Don Milani: “A che serve avere le mani pulite se poi le tieni in tasca? ”. Tutti in piedi ad applaudire. L’era del post Pd è iniziata.

il Fatto 30.4.13
Stralunati e un po’ sorpresi tra le braccia del Caimano
Traversata verso l’ignoto
Il ministro Pd: “Se sei nella melma meglio stare ai posti di comando”
di Antonello Caporale


Clima contratto, bicipiti in tiro, istinto difensivo. Nella traversata verso l’ignoto il Transatlantico sembra una nave senza nocchiero, un po’ concordia e un po’ discordia. “Chissà che ne sarà di noi domani”, dice Andrea Orlando, ligure mite e neo ministro che ha colto l’attimo a modo suo. Ora dà un saggio di politica zen: “Visto che siamo nella melma meglio stare dentro il governo che fuori. La contieni meglio. Alla peggio si rompe tutto e si ritorna come prima”. Come piano non è male. Se uno deve proprio buttarsi a mare meglio scegliere una bella tempesta che l’alba chiara. Prima che Enrico Letta si accomodi in poltrona, arriva la vocina di Silvio Berlusconi via Mediaset (oggi titolo in smagliante risalita): “Vorrei presiedere la convenzione per le Riforme, come da accordi”. Il grande B. reintegrato nelle funzioni di statista e padre della Patria è pronto e sorridente. “E io non lo voto”, dice Orlando che tira verso sinistra. “Io forse sì”, spiega Pierpaolo Baretta che tira verso il centro. Faranno confusione anche questa volta: “Anch’io penso che ci dobbiamo chiarire le idee su chi siamo e su dove andiamo”. “Io ancora non so cosa fare”, ammette Ermete Realacci. C’è mal di mare alla Camera. Brunetta trotterella, Verdini sorride, Santanchè tambureggia. E sono quelli di là. Vogliono subito passare all’incasso, e abbattere l’Imu già oggi. Rosy Bindi, contiene a fatica la bile: “Ho letto della richiesta di Berlusconi, potrò mai votarlo? E poi anche l’Imu: è proprio un’urgenza, una condizione imprescindibile? Non sarebbe stato meglio iniziare dagli esodati? Non ci capisco granchè”.
GIRA LA TESTA e girano le scatole. “Certo, Berlusconi farà quel che meglio sa fare. Incasso immediato degli utili, e con l’Imu non si risparmierà. Spetta a noi trovare una strategia, una quadra, un’idea”. Neanche termina la frase Gianni Cuperlo, inquieto, e spunta in televisione il solito Brunetta che canta vittoria. “L’Imu, la nostra grande battaglia è vinta”. E i soldi? Dove sono i soldi? “Lo vedrà il ministro Saccomanni”. Risposta efferata, veleno puro. Letta, il premier dell’emergenza, ha appena illustrato un programma megagalattico, onnicomprensivo. I soldi sono l’ultimo assillo. Nell’arco delle cose da fare mancano gli impegni di target più berlusconiano (felicità per tutti, o anche il sole tutti i giorni) ma ci sarà ogni cosa possibile, dall’Erasmus in poi. Il centrosinistra batte le mani all’inizio e con più convinzione, quegli altri con più sofferenza. Mano a mano che si allunga e si impasta il lavoro la fatica di fare clap clap si fa notare e la vigoria inizia a scemare. “È stato un discorso un po’ pastoso”, dice il giovane democristiano Valiante (Pd). Un po’ obliquo, anche un po’ ambiguo, sulle energie rinnovabili appena una pennellata, ma una cosina proprio”, annota Realacci. Ci sono tutti e sono un po’ felici e un po’ scontenti, un po’ allarmati, un po’ stralunati. “Venga in Sicilia dottore”, propone a sorpresa l’onorevole Cardinale, ora ex, ora accompagnatore della figliola Claudia, molto giovane e già al secondo mandato da deputata. Non c’è commozione, manca l’ardore, si naviga a vista ma insomma si parte. Le amazzoni del Pdl fanno due conti: la Ravetto per esempio, sarà sottosegretario? E alle altre? Chi fa la lista dei nomi è il solito Denis, a lui bisogna bussare. “Io non so se sarò dentro, temo che l’amicizia con Angelino Alfano produca un ostacolo. Sa, lui non vuol far mai vedere di promuovere gli amici”.
DORINA BIANCHI, crotonese, è in controllata attesa e tanti maschi, più di lei, confabulano e non si arrendono al destino di non prendere parte verso l’ignoto. “Enrico ha messo in fila in meno di un’ora spese per oltre quaranta miliardi di euro. Domani va a Berlino dalla Merkel e le dirà chiaro che ce li deve permettere di spendere, altrimenti finiremo in bocca ai cinquestelle”. L’ignoto è un salto carpiato e Lapo Pistelli non ha motivi per non essere pronto al tuffo: “Fino a una settimana fa tu avresti mai previsto uno scenario simile? Ti dico che se le cose vanno al posto giusto Letta siederà a palazzo Chigi per l’intera legislatura. La ruota è girata troppo velocemente che anche Berlusconi è fuori gioco. Ma lo vedi dov’è finito? ”. A dire la verità il Cavaliere si gode la scena, trasmette sicurezza, sorridente e finalmente rilassato. Guarda il suo Angelino e gli altri intrepidi ministri suoi. Quagliariello e Lupi e Lorenzin. Tolto Alfano erano tutti fuggitivi. A novembre scorso sembravano voler lasciare l’amato Padre per via della sconfitta imminente. Fuggitivi ripresi nell’ultimo miglio e premiati. Perchè premiare i traditori, come disse Verdini? “Facile, perchè noi siamo su un gommone e Berlusconi ha uno spillone in mano, ci bucherà quando vorrà e senza troppi dispiaceri” ha spiegato Gaetano Quagliariello, oggi felicissimo pentito. La quarta della squadra, un po’ qui e un po’ là, è gasatissima: “Cercavo proprio lei. Ricorda quando anni fa mi intervistò (ero appena giunta da Benevento) e mi chiese della mia ambizione più grande, del mio sogno nel cassetto? Le risposi: fare il ministro dell’Agricoltura. Eccomi qua”. Eccola qua Nunzia De Girolamo, con un sorriso smacchia paure e la convinzione che sia salita in groppa al cavallo giusto al momento giusto.

il Fatto 30.4.13
La “coesione” fra Pd e Pdl farà trionfare le ingiustizie
di Maurizio Viroli


Dobbiamo essere tutti sinceramente riconoscenti al governo Letta e a coloro che l’hanno generosamente auspicato, tenacemente voluto e saggiamente realizzato: il capo dello Stato, Berlusconi e il Pd. Essi hanno regalato agli italiani una certezza, che Pd e Pdl non devono più incontrarsi e frequentarsi di nascosto fingendo in pubblico di detestarsi cordialmente, ma possono convivere alla luce del sole. Si sono tolti la maschera, è crollata la menzogna del Pd avversario – incerto, timido, balbettante – ma pur sempre avversario, con la quale i dirigenti di quel partito hanno ottenuto i voti di tanti italiani onesti e saggi e come tali nemici di Berlusconi e dei suoi servi. Di questi tempi, una verità fra tante menzogne, e tanta simulazione e dissimulazione, non è poco.
“GOVERNO politico, unico possibile”, ha commentato il capo dello Stato. Con il più sentito rispetto per l’Istituzione e per l’uomo mi permetto di rilevare che la prima affermazione non è davvero un esempio di chiarezza. Non si capisce che cosa possa mai essere un governo non politico. È vero che il linguaggio italiano abbonda di sciocchezze quali ‘governo tecnico’, ‘governo del presidente’, ‘governo elettorale’ e via di questo passo. Ma sono tutte espressioni che confondono, anziché chiarire la realtà delle cose. Qualsiasi governo attua e concorre a formare leggi, più spesso decreti, che valgono per tutta la comunità e dunque sono atti politici della più bell’acqua. Certo che anche quello attuale è un governo politico, ma che bisogno c’era di dirlo? Se invece quel “politico” indica qualcos’altro lo si spieghi con parole chiare.
La seconda affermazione che il governo Letta è l’unico possibile è probabilmente vera, dopo che il Pd ha deciso di non votare per Rodotà. Il presunto ‘stato di necessità’, diciamo così, che costringe a formare un governo con Berlusconi se lo sono creati il capo dello Stato e il Pd, e dunque non è affatto tale. Ora, potrebbe qualcuno spiegare agli italiani per quale motivo Berlusconi presidente del Consiglio era alla fine del 2011 causa delle patrie sventure, mentre oggi un governo con il suo più fedele yes man quale vice di Letta e capo del ministero degli Interni sarebbe benefico? Si suppone indipendenza di pensiero all’Alfano? Si fantastica di un diverso orientamento di Berlusconi? Insomma, se allora il bene dell’Italia esigeva di allontanare Berlusconi e i suoi da Palazzo Chigi, quale ragione impone oggi di richiamarli?
Coesione! coesione! coesione! È il nuovo imperativo categorico. Non se ne potrebbe trovare uno peggiore. Perché la coesione, ma meglio sarebbe parlare di concordia, è benefica se c’è giustizia. E quale giustizia possiamo aspettarci da un esecutivo che deve operare sotto il comando, o a essere benevoli, il forte condizionamento, del peggior nemico del governo delle leggi, dell’indipendenza della magistratura e soprattutto della Costituzione repubblicana? Quale giustizia da chi ha portato in Parlamento corruttori di giudici, collusi con la mafia, corrotti di ogni tipo e li ha poi difesi con tutte le sue forze? Quale giustizia da chi ha approvato le peggiori leggi a favore dei gaglioffi? Essere concordi o coesi con figuri siffatti vuol dire essere complici di ingiustizie, e così crescono non la concordia ma la discordia, e perfino la rabbia e il furore, due passioni pericolosissime per l’ordine repubblicano.
È TEMPO di gite scolastiche. Suggerisco ai sostenitori del nuovo governo di mettere i panini e la Coca-cola nello zainetto e andare a visitare la mostra su Machiavelli al Vittoria-no, dove spero gli organizzatori abbiano dedicato adeguato spazio a questo aureo pensiero del Segretario: “Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica”. Si riferiva alla Roma antica. Dovremmo seguire il suo consiglio: per rendere libera e civile la nostra Repubblica scegliere non la coesione ma il conflitto: pacifico, nel più rigoroso rifiuto della violenza, civile, meditato e pacato, ma intransigente contro Berlusconi e ai suoi servi e i suoi nuovi alleati. Il nuovo governo gode di un’ampia maggioranza. Proprio per questo la Repubblica ha bisogno di opposizione vera.

il Fatto 30.4.13
La prima cambiale pagata al Caimano
di Stefano Feltri


La politica è l’arte di scegliere come distribuire risorse scarse sapendo che non si possono accontentare tutti. Che qualcuno protesterà, ma non sempre chi urla più forte ha anche ragione. Il governo di Enrico Letta nasce invece promettendo tutto a tutti. Il primo risultato concreto lo incassano Silvio Berlusconi e il suo Pdl che avevano vincolato la fiducia alla cancellazione dell’Imu. L’odiata imposta sugli immobili viene sospesa, a giugno non si pagherà in attesa di una riforma complessiva. Eppure Letta impronta il suo discorso di insediamento su un’altra linea: la priorità del Paese è il lavoro, la coesione sociale dipende dalla capacità del governo di arginare il numero dei disoccupati. Non c’è razionalità economica nel cominciare invece dall’Imu. Secondo i calcoli del centro studi Nens, bastano 400 milioni di euro per esentare dall’Imu il 20 per cento degli italiani più poveri, restituendo loro anche quanto pagato nel 2012. Per ragioni elettorali Berlusconi impone invece un’operazione da almeno 2 miliardi (4 se si arriva alla abolizione completa, 8 restituendo le quote 2012). Il Pd subisce, incapace perfino di ricordare che aveva proposto più o meno la stessa cosa prima del voto. Non c’è un solo economista in buona fede che veda nell’Imu l’origine dei mali italiani. Anche il Berlusconi di una volta chiedeva di spostare le tasse dalle persone alle cose, meglio penalizzare la ricchezza improduttiva piuttosto che imprenditori e lavoratori. Ma il problema è che le larghe intese sono in realtà uno stretto cappio al collo di Letta. Il nuovo premier dimostra di avere la caratura per il compito che è chiamato a svolgere: ha una solida convinzione europeista, rinnega l’approccio da ragioniere che ha caratterizzato spesso il governo Monti, con stangate a ogni zero virgola di deficit in più, capisce l’esigenza di rinnovamento, nel Palazzo e fuori. Ma l’ampiezza della coalizione gli impone di aprire un libro dei sogni in cui non ci sono cifre ma soltanto suggestioni. I soli interventi quantificabili valgono almeno 10 miliardi, che diventeranno molti di più se ai tanti annunci seguiranno provvedimenti concreti. Dove si trovano i soldi? Letta non chiede sacrifici, non annuncia patrimoniali o liberalizzazioni che potrebbero preoccupare le lobby, ma promette: ai giovani, ai pensionati, agli assunti, ai disoccupati, agli esodati, ai precari, ai produttori di energia rinnovabile. I “saggi” riuniti da Napolitano avevano un altro approccio: i soldi disponibili devono andare ai redditi da lavoro più bassi, inutile disperdere le poche risorse tra mille voci. Ma ora sono tornati i politici che amano l’effetto annuncio. Enrico Letta prende impegni che sa di non poter mantenere. Ma d’altra parte, il Pd aveva anche promesso che non si sarebbe mai alleato con Berlusconi. E gli elettori ormai hanno capito quanto possono fidarsi.

il Fatto 30.4.13
Con Letta vince l’incesto Pd-Pdl
Discorso incolore e buonista
di Fabrizio d’Esposito


Sono i due nuovi gemelli quarantenni dell’italico andreottismo. Uno parla per 45 minuti e l’altro subito commenta: “È musica per le mie orecchie”. Enrico Letta, premier. Angelino Alfano, vicepremier. Il governo dell’inciucio si presenta alla Camera per la fiducia, che passa con 453 sì, 153 no e l’astensione leghista, e il discorso rotondo, senza spigoli e senza picchi, buonista e inclusivo del presidente del Consiglio pone le basi per la democristianizzazione di Pd e Pdl e della Terza Repubblica. Un progetto dalla durata di almeno 18 mesi, come spiega Letta, in cui magari si pensionerà B. con un salvacondotto da padre della patria e si combatterà il temuto Renzi, leader annunciato del Pd, con una Cosa neodc e bipartisan. Si sa, dai governi d’emergenza può nascere un nuovo partito. Monti docet.
ENRICO LETTA entra a Montecitorio alle tre del pomeriggio, che i suoi ministri sono quasi già tutti seduti nei due banchi riservati all’esecutivo. Il premier si sistema tra Alfano e la Bonino e il suo discorso della pacificazione si apre con un ringraziamento a Giorgio Napolitano, fautore del nuovo compromesso storico. L’effetto da noia democristiana è accentuato anche dalla tragedia di domenica scorsa, davanti Palazzo Chigi. Alcune frasi di Letta sono citazioni musicali, dei Tiromancino (“due destini che si uniscono” a proposito di Italia ed Europa) e di Ligabue (“bellezza senza navigatore” per la scontata apologia del turismo e del made in Italy”). Visto che c’era poteva anche ricordare il Vasco Rossi degli spari sopra . Lo spavento per gli otto colpi di Preiti è l’incipit del capitolo su “giovani e territorio, risorse per la crescita”. Frase chiave: “Di solo risanamento si muore”. Sulla giustizia pesa l’ambizione dei due nuovi gemelli scudocrociati. Scandisce Letta, nel suo andreottismo versione due punto zero: “Vent’anni di attacchi e delegittimazioni reciproche hanno eroso ogni capitale di fiducia nei rapporti tra i partiti e l’opinione pubblica, che è esausta, sempre più esausta, delle risse inconcludenti”. E soprattutto, immedesimandosi in Davide nella valle di Elah, prima di affrontare Golia: “Come Davide in quella valle, dobbiamo spogliarci della spada e dell’armatura che in questi anni abbiamo indossato”. È il cuore politico dell’intervento. Uscire dalla Seconda Repubblica con Berlusconi, non senza, la vera ossessione di Napolitano, ma anche il ritorno del vecchio riformismo di Massimo D’Alema degli anni Novanta, in salsa centrista però. Non a caso il premier punta sulla Convenzione per le riforme, sinonimo di bicamerale. Sulla “convergenza” tra forze politiche “alternative”, e che sulla carta “dev’essere un’eccezione”, Letta rispolvera il pensiero del suo padre politico Nino Andreatta: “Ho imparato da Nino Andreatta la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, come soluzioni concrete ai problemi comuni”. Ovviamente, lui, il giovane Letta, preferisce le seconde alla prima.
Il Pantheon lettiano comprende Andreatta, Papa Francesco (ai giovani: “Scommettete su cose grandi”), Davide e Golia, finanche Cesare Beccaria. “Ricordiamoci che siamo il Paese di Cesare Beccaria” . Ma anche di Silvio Berlusconi e delle sue leggi ad personam, potrebbe aggiungere. È la sostanza però quella che conta e il pragmatismo che dice tutto ma non dice niente del premier sulla giustizia non va oltre una possibile amnistia per liberare le carceri e fare qualche altro favore ai neoalleati della “banda degli onesti” di B..
Letta parla e gli applausi sono 42 in tutto. Il Pd batte le mani compatto, senza eccezione alcuna. Un po’ fredda, invece, l’accoglienza del Pdl: parecchie assenze e il malcontento di falchi ed esclusi dal governo. Esemplare la fila Santanchè, Gelmini, Carfagna che rimane seduta durante l’ovazione finale. I grillini si uniscono solo nella solidarietà ai due carabinieri feriti domenica. Il discorso di Letta è diviso in capitoli: lavoro, futuro industriale, riforma della politica e delle istituzioni (Senato delle Regioni e abolizione delle province). La promessa più hard la “rivoluzione” dei rimborsi, “un finanziamento mascherato” ai partiti, che è costato dal 1994 al 2012 due miliardi e mezzo di euro a fronte di spese certificate di mezzo miliardo.
Le parole d’ordine sono quattro, per evitare il “canto del cigno” di un sistema: “Decenza, sobrietà, scrupolo, senso dell’onore e del servizio”. Tre quarti d’ora di discorso. Poi il dibattito. Un grillino tira in ballo l’inciucio di famiglia (zio Gianni e il nipote Enrico) ma l’intervento più forte è di Giorgia Meloni, che da destra (Fratelli d’Italia) prende in mano quella che fu un tempo la bandiera comunista del manifesto di Pintor: “Non voglio morire democristiana, perciò voto no”. La fiducia arriva in serata. Una formalità. Prime delle 22 è tutto finito. Oggi tocca al Senato.

il Fatto 30.4.13
Vago sulla corruzione, evoca l’amnistia. E Berlusconi incassa
di Marco Lillo


Conflitto di interessi, intercettazioni, lotta alla corruzione e riforma del finanziamento pubblico ai partiti sono quattro scogli difficili da evitare per un presidente del Consiglio che vuole ottenere i voti del Pdl e anche del Pd. Enrico Letta se l’è cavata da buon democristiano. Chi lo nominò presidente dei giovani Dc a 25 anni, nel lontano 1991, sarebbe stato orgoglioso di lui. Nel suo lungo discorso Enrico Letta non ha citato nemmeno di striscio le parole ‘conflitto di interesse’ e ‘intercettazioni’. Ha accennato solo di sfuggita alla corruzione, come fosse un tema minore. Infine ha promesso l’abolizione dell’ultima legge sul finanziamento pubblico approvata solo a luglio (con il suo assenso) guardandosi bene dal prendere impegni sulla nuova legge, tutta da scrivere con il Pd e il Pdl, cioé i partiti che hanno approvato la legge da gettare nel cestino. Non manca un riferimento all’emergenza carceri che offre una speranza ai fautori dell’amnistia e del condono. Il tono deciso sostiene un contenuto leggero e vago come zucchero filato. Sembrava di ascoltare l’imitazione dei politici del Pd fatta da Crozza. “Nessuno – ripeto nessuno – può sentirsi esentato dal dovere dell'autorevolezza”, premette il premier incaricato ricordando che “11 milioni e mezzo di cittadini hanno deciso di non votare alle elezioni dello scorso febbraio. L'astensione è il primo partito: o lo capiamo o la politica scompare”. Il deputato M5S Cristian Iannuzzi gli urla un suggerimento concreto: “Rinunciate ai rimborsi elettorali!”. Troppo facile, sembra dire Letta che riprende proprio da lì con il tono del professore: “pensate ai rimborsi elettorali: tutte le leggi introdotte dal 1994 a oggi sono state ipocrite e fallimentari , non rimborsi ma finanziamento mascherato, per di più di ammontare decisamente troppo elevato”. Quindi “il sistema va rivoluzionato abolendo la legge approvata e introducendo misure di controllo e di sanzione anche sui gruppi parlamentari e regionali”. I fondi per i rimborsi ai partiti non è chiaro che fine faranno, mentre quelli per i gruppi, sono salvi. Aumenteranno solo i controlli. C’è poi l’abolizione del doppio stipendio per i ministri-parlamentari e la promessa di ridurre il numero dei parlamentari. L’unico annuncio concreto sul fronte del finanziamento ai partiti arriva non contro ma a favore della politica. Letta promette alle imprese private un’agevolazione “sul versante fiscale” alla “contribuzione all'attività politica dei partiti”. Nessun impegno invece sulle riforme contro mafia e corruzione proposte per esempio dal presidente del Senato Piero Grasso in una proposta di legge presentata nel primo giorno di legislatura. Sulla “lotta alla corruzione che distorce regole e incentivi” il Letta-Davide mostra poco coraggio pur di ottenere la fiducia e concede solo una citazione vuota accompagnata da ovvietà come “la giustizia che deve essere giustizia innanzitutto per i cittadini”. Quando Alessandro Di Battista del Movimento 5 Stelle gli chiede di punire severamente il falso in bilancio lui glissa. Mentre a Claudio Fava di Sel che tenta di stringerlo sul concreto (“la priorità non è l'evocazione di una lotta alla corruzione, ma una vera, buona legge sulla corruzione nei primi cento giorni del suo governo”) Letta concede solo “riprendo le parole di Fava sulla corruzione, sarà uno dei grandi temi sui quali lavoreremo”. Fava può star tranquillo: “il confronto ci sarà e sarà forte e importante. Non è possibile che il nostro Paese su questi temi sia un Paese che dà l'idea di una labilità del diritto”. Anche se ieri la labilità che emergeva era quella della politica.

il Fatto 30.4.13
Gianfranco Rotondi
“Letta è il democristiano più bravo”
di Caterina Perniconi


Giacca, cravatta e occhiali da vista sportivi, come se fosse appena tornato da una regata in barca a vela. Gianfranco Rotondi è l’unico berlusconiano ex Dc della generazione di Enrico Letta rimasto fuori dall’esecutivo, ma si mostra tranquillo.
Onorevole, dica la verità, è dispiaciuto.
Ma no, è giusto che non ci fossero ex ministri, sarebbe stato di cattivo gusto.
Comunque questo governo le piace parecchio.
Se si potesse votare la fiducia aggiungendo la formula “con entusiasmo”, lo farei.
É un ritorno a casa.
Diciamo che è un prodotto che conosco bene.
Come Letta.
Per Enrico sarà una passeggiata. Lui ha svolto un compito molto più gravoso di quello di premier: era il mediatore tra Beniamino Andreatta e il resto del mondo.
Difficile?
Parlargli era impossibile. Lui ti ascoltava e al massimo se chiedevi cosa ne pensasse ti dava del “presuntuoso”. Una volta lo chiamai a casa per fargli gli auguri di Pasqua. Mi rispose la moglie, appoggiò il telefono e quando tornò mi disse: “Mio marito non ricambia gli auguri ma accetta i suoi, arrivederci”. Letta è un suo allievo, non può che avere una marcia in più.
Un mediatore, quel che serve.
Io sono più grande, ma lui metteva in soggezione già da ragazzo. Mai disinformato, mai fuori posto. Siamo sempre stati su fronti opposti nel partito, ma io lo vedevo che un altro così non c’era.
Piaggeria?
Non ce n’è bisogno, nella Dc non c’erano mica battaglie, c’erano guerre. Letta era nella sinistra democristiana, che però aveva idee economico-sociali di destra. Infatti ora sta nascendo un grande centrosinistra dove a sinistra c’è Berlusconi non il Pd.
Ecco il punto. Più che un governo un progetto politico.
La maggioranza è la stessa del governo tecnico, ma non si sente più “strana”. Letta li ha già fatti innamorare tutti.
Anche Berlusconi?
Berlusconi è il più felice. Fa la faccia mogia con gli scontenti, per carineria.
Quindi non staccherà la spina?
E come fa? Enrico è abile, lo ha già fregato sui suoi temi forti, Imu e Iva. Ma lui voleva questo governo, era il momento giusto per provarci e passare il testimone. Invece Bersani lo devo assolvere per non aver capito il fatto, il Pd che c’era prima non c’è più.
Nemmeno con Matteo Renzi?
Con tutto il rispetto, stiamo parlando di un Togliatti (Letta) a confronto con un Bersani (Renzi). Matteo è un democristiano nato a Dc morta, anche allora voleva rottamare Forlani, ma oltre quello non va.
Ieri lei ha ricevuto una lettera di minacce, dove si citava anche la sparatoria davanti a Palazzo Chigi.
Sì, ma quella non è una cosa seria. Ne vivo di peggiori.
Secondo il suo partito, il Pdl, è colpa di chi dissente dalle larghe intese.
Se si riferisce a Grillo penso che non c’entri assolutamente niente, anzi. É meglio che quei voti siano dentro il Parlamento e non fuori. I ragazzi eletti sono persone molto civili.
Allora Alemanno, Gasparri?
Parlano al nostro elettorato, ma lo sanno che non è così.

il Fatto 30.4.13
Europa, un quotidiano da 30 milioni (nostri)
Menichini scudiero dell’inciucio Pd-Pdl
Dirige un giornale che non ha mai venduto oltre 3mila copie: ma lo paghiamo noi
di Carlo Tecce


Cosa ne pensa, direttore? Perché il Pd ha sbagliato, direttore? Mi scusi, direttore, ha ragione Enrico Letta? Senta direttore, Obama è il miglior presidente di sempre? E Stefano Menichini, inquadrato in varie pose in vari canali, argomenta con profonde osservazioni. Ma la miglior risposta, quella che il telespettatore attende con trepidazione, arriva con la messa in onda del sottopancia: direttore di Europa. Per chi non lo sapesse è un quotidiano del Partito democratico.
Europa è sopravvissuto a un partito defunto, la Margherita che fu tesoretto di Luigi Lusi, incidentalmente amministratore di un quotidiano con un'esistenza poco evidente. Mai oltre le tremila copie in edicola, mai in pareggio con i conti, mai regolare tra entrate e uscite. Già il primo bilancio che riportava un mese di attività, a rotative ancora ferme, non prometteva nulla di buono: il rosso di 16 mila è poi lievitato a 5,5 milioni. Il direttore Stefano Menichini non ha festeggiato l'anno tondo: le occasioni per un brindisi, anche per un momentaneo sollievo, capitano di solito tra la fine di dicembre e l'inizio di gennaio. Quando il governo dispone il bonifico per il contributo, ora diventato rimborso, per l'editoria politica o cooperativa: l'ultimo assegno staccato è di 2,3 milioni di euro. Un gruzzolo di denaro pubblico che fa superare un traguardo di prestigio, finora l'unico: 30 milioni di euro e spiccioli, tanto ha incassato la società Edizioni Dlm Europa dal 2003. L'Avanti! di Valterino Lavitola ha fatto scuola. Addio finanziamento che non certificava gli investimenti e premiava chi spendeva di più (anche per finta): a chi vuole restare in edicola, il governo garantisce il 50%; a chi vuole riprovare in rete, con un quotidiano online a pagamento, l'indennizzo sfiora il 70%. Al bivio, Europa non ha deciso: si è buttata un po' su internet e un po' conserva la carta, 4 pagine di commenti che svariano dal medesimo Menichini al maturo Pier Luigi Castagnetti. Che l'impresa in edicola non fosse possibile, anche a una lettura rapida, lo testimoniano i bilanci. Quello depositato a giugno 2012 spiega che i ricavi dalle vendite, non più di 1.500 esemplari al giorno, sfondano a malapena il muretto dei 400.000 euro l'anno, ma l'acquisto per la stessa carta è di 373 mila euro più 1,2 milioni per la distribuzione e il trasporto. Non si può dare torto a Menichini di non avere percepito la pericolosa situazione economica, però – con estremo coraggio – non ha esitato a far aumentare il costo per il personale da 1,6 a 1,8 milioni con un gruppo di condirettori e di vicedirettori da far impallidire le multinazionali che tagliano e tagliano senza aiutini pubblici. Qualche milioncino si è disperso nel tempo: già contattato in passato, Meni-chini non ha saputo motivare una stramba consulenza da 150 mila euro l'anno per la raccolta pubblicitaria: praticamente la società disperdeva i ricavi di tre mesi per fare un miracolo matematicamente impossibile.
Il Consiglio di amministrazione non ha rinunciato ai compensi né il quotidiano ha cercato di risparmiare con la sede: affitto di 100 mila euro. Per capire: un quarto di quello che Europa incassava tramite le edicole. Il quotidiano non ha mai avuto proporzioni universalmente valide: lo stesso Meni-chini dichiarò di guadagnare 5 mila euro netti al mese – e si stima un lordo di circa un milione in 10 anni – e ora annuncia che il nuovo sito ha registrato 250.000 visite al mese. Che vuol dire 8 mila al giorno.

il Fatto 30.4.13
Fuori dal coro del Pd Sergio Cofferati
La fiducia non l’avrei votata, ora costruire una rete oltre Sel
di Giampiero Calapà


Sergio Cofferati la fiducia al governo Letta non l’avrebbe concessa, “sono europarlamentare, ma se fossi stato a Montecitorio, per coerenza, dopo le battaglie perse in questi giorni, non avrei votato”. E dopo un ultimo Congresso del Pd la strada non può essere quella di riunire le storie di sinistra “dentro Sel, bisogna costruire una rete di più ampio respiro”. Il “Cinese”, come veniva chiamato ai tempi d’oro della Cgil (con quei 3 milioni di persone al Circo Massimo nel 2002), soltanto otto giorni fa dichiarava a questo giornale che in caso di una fiducia del Pd a un governo col Pdl “sarebbe già tutto finito, non sarà neppure necessaria la verifica del Congresso”. Dopo il sì della Camera all’esecutivo di Enrico Letta, Cofferati frena, prende tempo, eppure non cambia idea, sa che all’orizzonte si comincia a vedere una scissione, ma non vuole tirarsi indietro da passaggi politici evidenti e plateali, affina la strategia: “Il Congresso va anticipato, va avviato il prima possibile: ho un’altra partita da giocare nel partito che ho contribuito a fondare, devo farlo. L’ultima? Non ha visto le mie caviglie, quanti calci ho preso, so che è difficile spostare l’asse del partito a sinistra, ma voglio credere che non sia impossibile”.
Cofferati, spera ancora? Letta ha addirittura annunciato una Convenzione per le riforme costituzionali e Berlusconi si è già candidato alla presidenza... Quali margini ci possono ancora essere?
Lei è molto pessimista. Le incursioni di Berlusconi saranno quotidiane, è vero. Il mandato elettorale è stato tradito, verissimo. Temi come la giustizia, il conflitto d’interesse, le questioni economiche e sociali, sono già stati derubricati. Tutto questo non mi piace. Ma non posso tirarmi indietro, voglio un Congresso per affrontare il partito a testa alta, da sinistra.
È un governo di giovani Dc. Quasi nessuno proveniente dalla storia del Pci (con le eccezioni di Zanonato e Orlando). La sinistra è stata già cancellata, non prendiamoci in giro. Ma il dissenso sembra rientrato. Fabrizio Barca ammicca a Matteo Renzi sul Corriere e ieri il massimo della ribellione alla linea è Pippo Civati che lascia l’aula e non partecipa al voto. Come può vedere ancora delle possibilità?
Non mi aspettavo atti clamorosi da parte di nessuno. È l’abbandono silenzioso che mi spaventa, quei 3 milioni e mezzo di voti persi verso l’astensione o riversati su Beppe Grillo. Aggiungo a questo che la linea politica di questo governo rende impossibile fare le cose che dovrebbero definire il profilo del Partito democratico che vorrei. Ma ripeto che lei è pessimista, voglio e devo fare la battaglia del Congresso. È un’operazione difficile con un obiettivo che pare impossibile, ma va fatto.
In prima persona? Si vuole candidare alla segreteria in un momento in cui la linea di Renzi pare imbattibile? O spera nella soluzione Guglielmo Epifani, già suo successore alla segreteria generale della Cgil?
È presto per fare nomi.
Oggi sarà a Bologna al convegno della Fiom. Dirà qualcosa a Maurizio Landini, Nichi Vendola, Stefano Rodotà e Fabrizio Barca, gli altri partecipanti?
Parleremo di reddito minimo garantito, che insieme ai temi dei diritti, disegna un’identità di sinistra che ci accomuna al di là di dove siamo collocati. È un percorso per indicare elementi di valore comuni, che vorrei fossero anche del Pd.
E questo sembra davvero impossibile. Insomma Cofferati, può interessarla l’annunciato cantiere della sinistra di Nichi Vendola, a cui Rodotà parteciperà?
Ecco di nuovo il suo pessimismo. Se Nichi pensa di riunificare sensibilità e orientamenti di sinistra dentro Sel, non credo possa essere un progetto di ampio respiro. Non vorrei usare un termine abusato, ma bisognerebbe costruire una rete, tessere delle relazioni nella società, nei nostri movimenti.
Enrico Letta ha legato l’esistenza del suo governo proprio al successo della Convenzione (presieduta da Berlusconi per disegnare una Repubblica presidenziale?), indicando 18 mesi come limite di tempo.
Lei è pessimista, ma non ingenuo, sa che questo governo punta a durare il più a lungo possibile.
Appunto. Come può pensare quindi di continuare a rimanere a lottare nel Pd?
Il Congresso è l’ultima possibilità. È il Pd che ha fatto carta straccia del mandato sottoscritto con gli elettori. Ma mi faccia giocare l’ultima partita, le mie caviglie hanno già preso tanti calci, eppure non ho paura e non posso fuggire.

Repubblica 30.4.13
L’intervista
Achille Occhetto, ultimo segretario comunista: il Pd è una fusione a freddo
“Gli ex Pci hanno abdicato i democratici non sanno più rappresentare la sinistra”
di Umberto Rosso


E’ saltata una generazione intera che viene dal Pci, onorevole Occhetto: nel governo nessun nome a rappresentare quella storia...
«La cosa in sé, per la verità, non mi scandalizza. Prima o poi una generazione salta, c’è una forte richiesta di rinnovamento, che viene dai grillini e anche dal Pd».
Però nell’esecutivo Letta la storia della Dc è ben rappresentata.
«Ecco il punto politico. Non mettiamoci a fare il manuale Cencelli degli ex Pci e degli ex Dc, ma il fatto stesso che venga sollevata la questione è la prova provata del fallimento del Pd: una fusione a freddo, una mancata contaminazione delle culture e delle storie di origine. In Francia per esempio, dopo il big bang della sinistra lanciato da Mitterand, nessuno più stava a chiedersi quale maglietta mettere a uno come Delors. Tutti nella stessa squadra. Nel Pd non è mai successo».
Ma perché resiste in campo l’anima democristiana e non quella comunista?
«Perché c’è un male oscuro che divora la sinistra: ha rotto con l’atto costitutivo della svolta, che io lanciai dopo la caduta del Muro cambiando il nome al Pci. C’erano due modi di uscire dalla crisi del comunismo: uno legato al socialismo europeo, che ho tentato di perseguire, e l’altro invece moderato. Si è imboccata proprio questa seconda via».
E quindi?
«La sinistra ha abdicato alla sua funzione, e il Pd è nato sotto un segno conservatore. Ma, a questo punto, perché scegliere la brutta copia, l’imitazione, se c’è la versione originale, se ci sono i moderati doc che vengono dalla Democrazia cristiana? Meglio scegliere loro, no? C’è una storia eclatante che lo conferma, e che si è ripetuta ancora pochi giorni fa».
Quale?
«Il trattamento riservato a Romano Prodi, la vittima designata di questi perversi meccanismi di risse e guerre per bande interne. Lo hanno ucciso due volte».
Ma non viene dalla Dc?
«Prodi è sempre stato un democristiano assai particolare, una figura autonoma, che davvero puntava a rimescolare le carte, a dare al Pd quella contaminazione fra le componenti che è sempre mancata. Ecco perché lo hanno fatto fuori. Una prima volta affossando l’Ulivo, la sua creatura. E la seconda volta pochi giorni fa, con la carica dei 101: l’assalto dei franchi tiratori per sbarrargli al passo alla presidenza della Repubblica e favorire il progetto delle larghe intese».
Però c’era di tutto in quel voto nel segreto dell’urna, tante correnti e tanti “desiderata”...
«Certo, ma mica cani sciolti o ubriachi. Sono scesi in pista i capi delle correnti del Pd per affossare Prodi, e con lui ogni possibile tentativo di governo del Pd aperto ai 5Stelle».
Insomma, non sembra molto sorpreso dell’assenza nel governo dei big che vengono dal Pci.
«Mi pare, del resto, che la condizione per il varo di questo esecutivo sia stata precisa: fuori Berlusconi e Brunetta e fuori anche D’Alema e Violante».
E non la colpisce che vengano messi sullo stesso piano?
«No. Forse qualcuno è colpito dal fatto che resti fuori Violante che alla Camera in un memorabile intervento difese apertamente Berlusconi?».
Non sarà che è una certa idea di “sinistra” ad essere ormai vecchia, che non è tanto la fusione fredda del Pd che non funziona ma certi modelli che vengono dalla storia del Pci?
«La domanda di sinistra nella nostra società è molto forte e presente. Anche in modo scomposto, disordinato, anarcoide, il che può essere un male ma anche un bene: ha bisogno di rappresentanza. E il Pd non ce la fa».
Sogna un’implosione dei democratici per tornare a riaffermare i valori della sinistra?
«Nient’affatto, sarebbe una catastrofe. Serve una costituente per un nuovo partito democratico, ci sono molte forze di sinistra prigioniere nel Pd».
Vendola ha fatto l’alleanza con Bersani ma ora vota contro il governo Letta.
«Nichi ha fatto un patto con gli elettori: mai con Berlusconi. Anche il Pd lo aveva sottoscritto, ma adesso cambia le carte in tavola. Non durerà molto però. Il rapporto fra Pd e Pdl andrà a rotoli, e si aprirà un rapporto nuovo fra Sel e il partito democratico».

Repubblica 30.4.13
La scomparsa dei post-comunisti
di Michele Serra


A PARZIALE consolazione di quei milioni di elettori di sinistra che si sentono tagliati fuori dalla scena politica (no, non avevano votato per fare un governo con Berlusconi), va detto che una sorte analoga è toccata alla classe dirigente della sinistra storica quasi al completo. Il “quasi” è dovuto all'autorevolissima eccezione di Giorgio Napolitano, riconfermato al Colle e primo artefice del nuovo governo.
Meritato coronamento della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia repubblicana, il punto di vista dello Stato ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari.
Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e di Occhetto, della Bolognina e della “svolta maggioritaria” di Veltroni al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei infiniti e delle infinite attese di “cambiamento” – non rimane, nel consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa.
Almeno in questo senso il principio di rappresentatività è rispettato: eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del Pd che fu la diaspora comunista non fanno parte del governo Letta. Non un solo leader della generazione di mezzo (i D’Alema, i Veltroni, i Bersani) è direttamente partecipe di una compagine che pure pretende di reggersi su tante gambe quante sono quelle all’altezza dell’emergenza politica, e dunque della responsabilità istituzionale. Domina la componente popolare e cristiano sociale; e nei pochi casi (vedi le neoministre Kyenge e Idem) in cui la sinistra italiana può riconoscere almeno qualcuna delle proprie migliori aspirazioni, non si tratta di dirigenti politiche ma di una sorta di evidenza sociale che bypassa il partito: è il partito che le porta in spalla, ma sono loro a salutare la folla.
A meno che, in questo scomparire di una intera generazione di capi politici della sinistra, ci sia un sottile calcolo (“meglio, in questa fase, farsi notare il meno possibile”), se ne deve dedurre un fallimento epocale. Quello di una classe dirigente logorata dal tatticismo e sfibrata dalle rivalità interne; e di un modello di partito così poco permeabile alla società che, evidentemente, non ha potuto selezionare i propri uomini e le proprie donne nel vivo dei conflitti, e si è illuso di potere coltivare in vitro, nel chiuso dei propri ruoli di competenza, una élite che invecchiava, perdeva mordente, perdeva sguardo su una società che guardava a sua volta altrove.
In una recente intervista al “Manifesto” di Stefano Rodotà, al netto delle opinioni che si possono avere sulla persona e sul tentativo politico di portarlo al Colle, ci si riferiva a un episodio che fotografa con assoluta spietatezza la crisi strutturale della sinistra italiana, e del Pd in particolare. Subito dopo la clamorosa e inattesa vittoria nei cinque referendum del 2011 sull’acqua pubblica e altro (quorum ottenuto, dopo molti anni, grazie all’auto-organizzazione sul territorio), Rodotà racconta di avere inutilmente sollecitato un incontro tra i Comitati vittoriosi (con i quali aveva lavorato) e i dirigenti del Pd. Quell’incontro non ebbe luogo, forse non interessava o forse nel Pd c’erano cose più urgenti da fare. Fatto sta che, con il senno di poi, possiamo ben dire che in quel caso la sinistra perdente (quella degli apparati) perse l’occasione di confrontarsi con la sinistra vincente, quella auto-organizzata, vivace, attiva che ebbe tante parte, tra l’altro, anche nella vittoria di Pisapia a Milano e nella caduta del centrodestra in molte città italiane.
Perché quell’episodio è amaramente simbolico? Perché da molti anni – diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni – ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”, riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati, quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera avanguardia politica?
Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà), quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?

l’Unità 30.4.13
Giuseppe Civati
«Sono uscito per alzare la bandierina del dissenso»
di Toni Jop


«Se i gruppi si esprimono così, lo capisco anche: tutto è stato deciso senza che fosse deciso e ci si ritrova con un governissimo in mano e molte responsabilità da gestire. Non ho votato contro, mi sono limitato ad alzare la bandierina del dissenso». Ecco Pippo Civati con le parole di Letta ancora aleggianti nell'aula mentre lui, solitario fin qui, dopo il ripiego di un fronte dissidente all'interno di un traumatizzato Pd, alza la «bandierina». Ti chiederanno se, a questo punto, ti senti ancora nel solco di questo partito... «Certo, non solo: invito i cittadini a investire ancora e con più forza nel Pd. Sapendo che la partita è sempre aperta, a dispetto di chi vorrebbe chiuderla. Non si ingoia un rospo tanto grande senza compiere gli atti necessari per trasformare un colpo di mano in un momento di verità, di autocoscienza...».
A quali atti ti riferisci?
«Dobbiamo parlare e parlare. Chiarire chi siamo e dove vogliamo andare. Mi pare assennato, visto che siamo dove siamo perché un centinaio di parlamentari ancora sconosciuti hanno impresso alla storia un corso diverso, opposto rispetto a quello che era stato praticato dal partito e sostenuto dalla base nelle piazze della campagna elettorale. Non si può sperare di vivere con convinzione e serenità senza un chiarimento. Non si prescinda da questo passaggio...».
Ma il mio pensiero torna sempre là, cantavano i Dik Dik: a quel voto pazzesco di parte del Pd che ha affondato Prodi.
«E dove se no? Non si tratta di un banale dato di cronaca. Dato quel che è successo, e come, si è autorizzati a pensare che ci fosse chi sapeva fin dal primo momento che si sarebbe arrivati a quel punto. E questo è politica, niente da obiettare. Solo che il viraggio è stato condotto al di fuori di ogni regola democratica interna, al di fuori di ogni trasparenza. Ancora non sappiamo chi siano quei 101 parlamentari. Non sappiamo a chi dobbiamo la sepoltura di una linea condivisa e discussa e il trionfo di una linea che ha evitato ogni necessario confronto e che ora governa le cose, in tutti i sensi».
C'è chi sostiene che Bersani avrebbe sbagliato, lungo la strada...
«Abbiamo sbagliato tutti, non me la sento di scaricare su Bersani. C'era di fronte a noi una precisa scelta politica che, è vero, ci apriva un destino ignoto. Ma cos'è la politica senza il coraggio di affrontare navigazioni di cui non intravvedi l'approdo? Invece, qualcuno per evitare quel destino, ha deciso una via ipocrita e anche irresponsabile. Dobbiamo concludere che questa via vada accettata mentre il dissenso palese, per converso, debba essere stigmatizzato? Vogliamo ricordare che tutto questo è stato imposto alla maggioranza dei grandi elettori Pd da una minoranza, tra l'altro, oscura, nell'ombra?».
Ora c'è un governo di cui il Pd è una delle anime portanti...
«Sì, ho ascoltato il presidente Letta. Ma credo sarebbe opportuno facesse operare il governo con grande concretezza e altrettanta rapidità sulle riforme e delle cose che il Paese si attende...».

il Fatto 30.4.13
Risponde Furio Colombo
Scene di opposizione criminale


CARO COLOMBO, non hai l'impressione che quel signore distinto, sconosciuto e “terrorista fai da te” sia andato a sparare davanti a Palazzo Chigi per chiarire subito che, d'ora in poi, ogni opposizione sarà criminale, come il suo gesto?
Francesca

NON VOGLIO PRESTARMI a giochi di dietrismo, sempre sospetti. Vediamo i fatti. Starò soltanto sul lato degli eventi esterni e visti da tutti. Prima scena: intorno a Montecitorio, da cui tarda a uscire un governo, si raduna una folla delusa, irritata e quasi tutta di sinistra, ovvero elettori più che militanti. Parole dure, cartelli, bandiere di sigle sindacali e nomi di fabbriche. Era già successo molte volte. Questa volta c’era più affanno, non più rancore. La polizia è tranquilla e i deputati, magari salutati in modo un po’ grossolano, vanno e vengono e a volte rispondono (vedi infiniti filmati). Seconda scena: una folla più fitta ritorna, una sorta di mobilitazione spontanea, ciascuno con un cartello su cui c'è scritto a mano o stampato al computer il nome “Rodotà”. Questi cittadini sembrano rispondere a una proposta fatta dentro il Palazzo di votare Stefano Rodotà presidente della Repubblica. Dentro il Palazzo non lo fanno (tranne i deputati Cinque Stelle e una quarantina di altri anonimi elettori) senza dirti perché, e questo provoca l'unico incidente che si ricordi fuori dal Palazzo: vedono Franceschini in un ristorante lì accanto e si levano boati da stadio. Franceschini esce per parlare e il suo atto di responsabilità non va né bene né male. Lui non riesce a spiegare, loro sono arrabbiati per l'occasione perduta, e se ne vanno, maleducati ma senza insistere. Terza scena (tre giorni dopo): un signore in giacca e cravatta (questa è la prima descrizione dei media) si presenta davanti a Palazzo Chigi e senza dire un parola spara sui due carabinieri di guardia. Vi pare che ci sia un nesso? Vediamo. Poco dopo l'arresto, l'uomo che ha tentato di uccidere, dice al giudice, che lo descrive “lucido e padrone di sé”: “Volevo ammazzare un politico. Volevo fare un gesto eclatante in un giorno importante”. La frase è strana. Tra tutti i passanti che vanno e vengono nella mattina di sole, tra via del Corso e piazza Colonna, lui (che è appena arrivato da Rosarno, in Calabria) sa che “è un giorno importante”. Probabilmente allude al giuramento dei ministri, ma quella non è una informazione corrente di cui tutti si occupano in un giorno di festa. E si presenta armato, con il colpo in canna. Non risulta che si sia aggirato a lungo nello spiazzo davanti a Palazzo Chigi (poca gente, di domenica). Va subito verso i carabinieri e spara. Quando apprendiamo che il magistrato a cui è affidato il caso non pensa di richiedere la perizia psichiatrica e sentiamo i compaesani che giurano sul suo equilibrio mentale e la sua vita regolare, una cosa capisci con certezza. Così come è stata raccontata finora, la storia è oscura.

l’Unità 30.4.13
Per i psichiatri ora il rischio è quello dell’emulazione

Ora il rischio è l’emulazione: psichiatri e psicologi temono che il gesto di Luigi Preiti non resti isolato. «È certamente inutile enfatizzarlo ma sarebbe altrettanto sbagliato negarlo», spiega Luigi Giuseppe Palma, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli psicologi. «Preiti dice ancora Palma si è trovato al centro di avvenimenti più grandi di lui: sovrastato dalle difficoltà economiche non è stato in grado di intravedere possibili soluzioni e in lui hanno prevalso i fantasmi di una situazione di incertezza e di paura. Purtroppo è una situazione assai frequente nel Paese e certamente destinata a diffondersi: si affievolisce l’idea che il domani possa essere migliore così. E così aumenta l’aggressività».

l’Unità 30.4.13
Lavoratori sul lettino
Primo Maggio: festa per quale lavoro? Un’insolita iniziativa della Spi
La Società Psicoanalitica Italiana on line (su ww.spieweb.it) ha realizzato uno studio sui disagi della società di oggi
di Bruno Ugolini


«SE LA PROTESTA CLAMOROSA SUL TETTO DEL CAPANNONE O IN CIMA ALLA GRU MAGNETIZZA PER UN ATTIMO LA NOSTRA ATTENZIONE, è invece la testimonianza pacata del malessere che forse dal punto di vista psicosociale racconta anche meglio quello che veramente sta succedendo». È un passaggio tratto da uno scritto di Giuseppe De Rita, presidente del Censis. È solo una testimonianza contenuta in un’iniziativa insolita, un dossier sul Primo Maggio promosso da donne e uomini della Spi (la Società Psicoanalitica Italiana) e che apparirà nel sito (www.spiweb.it) di cui è responsabile Jones De Luca. Sono professionisti che trascorrono le loro giornate a contatto con le angosce e i drammi contemporanei. Non a caso il dossier, curato da Silvia Vessella, mette a confronto Psicoanalisi, Sociologia, Media, Stampa, Cinema, Arte, Letteratura. Con un titolo programmatico «Festa per quale lavoro?». E così nella parte «narrativa» troviamo le esperienze dei mutamenti nel mondo dell’informazione raccolte da Silvia Garambois e da Monica Ricci Sargentini (con testimonianze di Monica Maggioni, Massimo Gramellini, Luciano Fontana Dario Laruffa).
Non sono, del resto, tematiche nuove per la Spi. Già il congresso del 2012 portava come titolo «Realtà psichiche e regole sociali: Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo». E aveva visto gli interventi di Susanna Camusso e Alessandro Profumo. Un incontro commentato da Giovanni Foresti che osserva: «Se proseguirà il processo di affrancamento da una concezione prevalentemente endogena del lavoro psichico (l’espressione è di René Kaës), la psicoanalisi potrà non solo contribuire allo studio dei moderni disagi della civiltà (come di fatto fa già), ma anche sviluppare le soluzioni di ricerca/intervento messe a punto negli scorsi anni».
Gli specialisti della mente possono dunque fare molto. Osserva, sempre nel dossier Andrea Seganti «La rabbia e la delusione che sono esplose negli ultimi tempi erano rimaste coperte sotto le ceneri per i continui rilanci delle promesse che venivano fatte nonostante l’videnza che non si sarebbe potuto mantenerle. Bisogna quindi considerare che, per quanto sia possibile individuare dei responsabili maggiori dell’attuale stato di cose, nessuno di noi potrà pretendere di essere del tutto esente da responsabilità. Tra queste responsabilità ci sono anche quelle che riguardano il mondo delle scienze psicologiche nel quale le nostre capacità di contribuire al funzionamento dei rapporti interpersonali in chiave cooperativa non sono ancora state inquadrate in modo sufficientemente lucido». Così ecco Mario Rossi Monti che, a proposito del fenomeno dei suicidi scrive: «Si enumerano le vittime, ma il problema globale del suicidio viene raramente messo a fuoco e si frammenta nell’elenco delle singole vicende». Oltre il 90% dei suicidi passano come depressi. «Ma cosa vuol dire poi essere “depressi” quando nella vita irrompono realtà devastanti?».
E aggiunge: «Se, come scriveva Sigmund Freud, sapere amare e lavorare sono i fondamenti della nostra salute mentale, la crisi del mondo del lavoro in questi anni espone tutti a gravi sconvolgimenti...Se è vero, come scriveva Cesare Pavese, che “non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi» (1938), il problema è che cosa si può fare in quelle situazioni in cui le “buone ragioni” sono più di una».
E però si stanno mettendo in piedi iniziative positive. Ne parla Stefania Nicasi. Così a Cuneo dall’idea di Luca Peotta, un imprenditore sull’orlo del disastro, è nato nel 2009 il movimento «Imprese che resistono». È stato avviato il progetto «Terraferma»: una «rete di psicologi nata per dare ascolto a imprenditori e lavoratori finiti nella stretta della crisi economica». Sono venticinque psicologi sparsi in tutta Italia che ricevono in media tre chiamate al giorno. A Vigonza (Padova) c’è la sede simbolica di «Speranza al lavoro» fondata dall’Associazione dei familiari degli imprenditori suicidi. Qui un numero verde fornirà ascolto e aiuto psicologico agli imprenditori in difficoltà. Mentre una banca Etica studierà percorsi di credito per l’emergenza. Tutto per impulso delle figlie di due imprenditori suicidi, Laura Tamiozzo e Flavia Schiavon: «Vogliamo ascoltare chi rischia la desertificazione emotiva ed economica. La cultura della ricchezza ha aumentato individualismo ed egoismo. Noi vogliamo essere una scelta di solidarietà e di etica di fronte a questo deserto».
Questo inedito viaggio analitico nel lavoro passa anche nel mondo variegato degli adolescenti veneti. Qui il sociologo Galvano Pizzol osserva: «Sembra che il lavoro non venga più percepito dai giovani come il catalizzatore delle proprie aspirazioni e degli orientamenti personali. Vivono “in una cultura familiare dove permea uno stato di delusione personale”. Con genitori, soprattutto i padri, “amareggiati per la loro condizione lavorativa e la relativa condizione economica”. La delusione nei padri “può produrre il disincanto nei figli maschi”».
Diverse le situazioni vissute da Daniela Bonomo, impegnata in progetti terapeutici in una Asl romana. Qui «la gratificazione per il riconoscimento del proprio valore, per un lavoro ben fatto, porta a un aumento dell’autostima, fa crescere il senso di Sé, così come il suo contrario genera frustrazione e vissuti di fallimento, depressione e spesso comportamenti rabbiosi che tendono a mantenere la coesione di un Sé che rischia di frammentarsi».
C’è su questo terreno una estesa letteratura internazionale, approfondita da Maria Grazia Vassallo Torrigiani che, tra l’altro, riprende un’intervista di Alberto Luchetti a Christophe Dejours a proposito di suicidi avvenuti negli stessi luoghi di lavoro in Francia. Non basta, ha spiegato Dejours, analizzare la sofferenza come un’esperienza affettiva individuale, «è necessario indagarla anche come espressione della destrutturazione del vivere insieme». Tutto questo richiede «riformulazioni sia alla psicoanalisi che alla sociologia. Il lavoro non è solo faticare e produrre. Il lavoro può generare malattia mentale e persino il suicidio, ma può essere anche un mezzo e una risorsa per accrescere la propria soggettività e migliorare il proprio benessere mentale».
Così, anche con questo dossier gli psicanalisti italiani sembrano voler uscire dalle loro stanze un po’ segrete. Romolo Petrini, in uno dei saggi, ricorda come nel 1909 Sigmund Freud sbarcava in America a «portare la peste». Ma anche, pensa Petrini, «a contaminare la psicoanalisi con gli apporti di una cultura in rapida crescita». E conclude: «La psicoanalisi da sempre venera il passato e coltiva il riserbo ma coltiva insieme, attraverso l’ascolto e il contatto con i pazienti, la capacità di pescare il nuovo e di lasciarsi trasformare. Con SPIweb la psicoanalisi italiana è sbarcata in Internet e ha gettato la sua rete». Anche con un suo Primo Maggio.

l’Unità 30.4.13
La questione comunista
di Michele Prospero


La sinistra è ancora smarrita, non sa (forse per la prima volta nella storia repubblicana) come riprendersi dalle ferite e avverte un duplice atteggiamento verso il governo Letta. Da una parte sente che questo non è il suo governo.
Lo guida certo un dirigente autorevole e anche abile nella padronanza degli attrezzi del mestiere. Ma non è questo lo scenario con cui il Pd sperava di chiudere i conti con il tempo lungo del berlusconismo e con il momento nefasto della tregua a guida tecnica.
Dall’altra parte però la sinistra, sebbene delusa da eventi così crudeli che l’hanno tramortita, e ancora gonfia di rabbia per come il Pd ha gestito il trauma del dopo voto, è consapevole che non ci sono alternative a un appoggio leale che aiuti l’esecutivo a segnare almeno delle novità visibili: non solo nelle questioni simboliche (costi della politica) ma anche nella dimensione materiale (politiche del lavoro). Dopo lo sfogo per uno spettacolo avvilente, che ha tramutato quello che aveva la parvenza di un partito in un castello di sabbia, deve giungere il tempo del freddo ragionamento.
C’è poco da fare: non era certo questo l’esito atteso del tentativo di innovazione (di cultura politica, di organizzazione, di radicamento sociale) che Bersani aveva cercato di impostare dopo la conquista della segreteria. Era, la sua, una grande proposta di ricostruzione della democrazia parlamentare e di rilancio dei partiti riconciliati con le più elevate idealità. È stata sconfitta, con danni enormi per la tenuta del sistema politico.
Il Pd avrebbe dovuto essere il solido fondamento per una ripresa democratica all’insegna della ritrovata nobiltà etica della politica e della recuperata funzione rappresentativa dei partiti. E invece proprio la catastrofica esplosione di un flaccido partito degli eletti ha costretto ciò che restava in piedi dei suoi organismi dirigenti a firmare delle amare condizioni di resa. Le guerriglie interne (tra chi intendeva sabotare in qualsiasi maniera il tentativo necessario e realistico di un governo di minoranza e chi invece auspicava da subito la linea delle grandi intese o in subordine del governo di scopo) hanno affossato anche le residue possibilità di dettare le carte del gioco.
Al governo di larghe intese con la destra si perviene così per effetto di una spettrale debolezza. L’onda di una bruciante guerra di logoramento interna (con correnti organizzate che pubblicamente annunciavano un voto contrario rispetto a quello deciso dal partito) ha privato il Pd non solo di ogni credibilità dinanzi all’opinione pubblica ma anche di un potere contrattuale, da far valere con gli avversari, che i numeri pure conferivano.
Una voragine si è aperta con il governo di coalizione. Non basta, per renderlo digeribile, la presenza nella delegazione del Pdl di volti più giovani e meno compromessi. Gli umori profondi della base del Pd andrebbero compresi perché percepiscono le insidie di una soluzione centripeta alla crisi. Il governo a palese trazione moderata, con il taglio delle ali nel Pdl e nel Pd, non a caso vede una più accentuata rappresentanza dei settori del Pd che avevano lavorato per la grande coalizione.
Agli occhi di militanti che vagano increduli alla ricerca di qualcosa di sensato che li rimotivi all’azione politica, questa visibile ricomposizione di una fatale attrazione moderata getta serio scompiglio. C’è il timore che si perda ogni traccia della sinistra. Usando una provocazione potremmo dire che rischia di riaprirsi una specie di nuova «questione comunista». Non è certo semplice spiegare le ragioni, a questo punto ineludibili, di un sostegno a un governo a bassa intensità politica ma ancora legato, come il precedente, all’asse Banca centrale europea, Banca d’Italia, Quirinale.
La responsabilità, anche quando riguarda la genesi di formule politiche per nulla gradite, è una risorsa che in politica non bisogna mai accantonare. E per questo non si può far fallire il governo, altrimenti la sconfitta già così pesante si converte in tragedia. Comunque, Letta ha più da temere dal nervosismo di aspiranti leader che già scaldano il motore per la (loro) premiership personale (scommettendo sullo scacco dell’esecutivo e quindi sull’inevitabile ricambio della guida alle elezioni) che non dal malumore di una base fortemente delusa.
Anche chi a sinistra è molto perplesso e persino ostile all’esperienza varata, con la responsabilità necessaria augura a Letta buon lavoro. E intanto però si dedica alla rinascita del Pd. Ci sono idee che non possono tramontare, quale sia il governo in carica.

l’Unità 30.4.13
La questione democristiana
di Marco Follini


Si sta discutendo molto in queste ore del carattere «democristiano» di Enrico Letta e del suo governo.
Prevedo che se ne discuterà a lungo. Un po’ perché la matrice è quella, e non la si può disconoscere.
E un po’ perché la questione democristiana, come si sarebbe detto una volta, resta uno dei grandi nodi non sciolti dell’identità politica del nostro Paese.
Il nuovo premier, di suo, ha molto della migliore Dc. E l’operazione che lo ha lanciato, a sua volta, ha caratteri che ricordano da vicino alcuni tratti di quella lunga stagione politica.
È democristiana l’idea che si debba mediare, includere, farsi flessibili e possibilisti, tentare le strade del compromesso. È democristiana l’invocazione di un rito di pacificazione che andrebbe celebrato anche per espiare i troppi anni passati a combattere guerre che ricorderemo più che altro per la loro inconcludenza. È democristiana, se così posso dire, la stessa evocazione della figura biblica di Davide. Un modo per ricordare che la forza del potere sta soprattutto nella sua mitezza, nella consapevolezza del suo limite fondamentale.
È ovvio che nella storia del Paese la Dc è stata molte altre cose, e non tutte così nobili e positive. Ed è ovvio e risaputo che il suo ricordo è controverso in quasi tutti i settori politici della variegata maggioranza che oggi accorda la fiducia al nuovo governo. E infatti il premier democristianamente evita con cura ogni richiamo al passato e si tiene prudentemente alla larga da quella controversia.
Per giunta si può dire che Letta abbia un’età e un cursus honorum che non lo dispongono più di tanto alla nostalgia, e che lo inducono semmai a esplorare nuove frontiere. La sfida che ha davanti verte sul futuro, sulla nuova Italia e sulla prossima Europa. E verte sulle cifre dell’economia, che sono comunque assai diverse da quelle dei tempi della Dc. Dunque, lo si aiuta forse di più togliendo di mezzo la suggestione dei ricordi storici e ponendo l’accento su quei problemi inediti che faranno la differenza nei prossimi mesi.
Ma se l’argomento democristiano, a vent’anni e più dalla fine di quella esperienza politica, risuona ancora così forte nel discorso pubblico del nostro Paese è segno che dietro quel gioco di analogie c’è qualcosa di più profondo. Qualcosa di cui mette conto parlare, e che magari dice qualcosa anche a chi democristiano non è.
Io la vedo così. La Dc è stata a suo tempo un grandioso tentativo di unificazione politica del Paese. Lo è stata almeno nella sua parte migliore, quella che si poneva costantemente il problema di allargare le basi dello Stato e di coinvolgere nelle istituzioni anche i propri avversari. Verrebbe da dire che si sta parlando quasi di un’ovvietà. Ma per anni e anni quella ovvietà è stata irrisa, demonizzata, raccontata in modo caricaturale. La leggenda del consociativismo è servita a mettere al bando quelle basilari regole di convivenza senza di cui un sistema politico non può reggere. E infatti la cosiddetta «seconda Repubblica» non ha retto.
Ora, è chiaro che il buonsenso di cui sopra non apparteneva solo ai democristiani. Infatti quella esigenza di coesione viene quotidianamente avvertita anche in ambienti che la Dc l’hanno a suo tempo contrastare e combattuta. Ma l’attitudine a banalizzare le cose ha fatto sì che quella regola di buonsenso e di coesione venisse ascritta soprattutto, in modi tipici quasi di un riflesso condizionato, ai discendenti della Dc. Su questo, insisto, dovrebbero riflettere tutti quelli che non hanno militato neppure per un giorno sotto le bandiere dello scudocrociato. E soprattutto quelli che si sono illusi di buttarne al vento le ceneri, evocando uno scontro gladiatorio di cui solo oggi misuriamo la drammatica inanità.
Quanto a Letta, egli si trova oggi a capo del governo nel momento in cui le fortune dei democristiani «ufficiali», quelli a denominazione d’origine controllata, sembrano al lumicino. E anche questo dovrebbe far riflettere. Perché è il segno che quei caratteri politici sono impressi in profondità nell’animo del Paese. Quale che sia l’angolo visuale da cui lo si osserva.

La Stampa 30.4.13
Non è un Paese per i Padri
di Marco Belpoliti



NAPOLITANO E LETTA Dal vecchio Presidente al giovane premier 41 anni di distanza: tra l’uno e l’altro si è fatto il vuoto
LA SCONFITTA DI BERSANI Secondo Pietropolli Charmet è attribuibile alla sua incapacità di incarnare una figura paterna"
NARCISO AL POSTO DI EDIPO Per lo psicoterapeuta, Renzi e Grillo sono adolescenti liberati dal senso di colpa verso il genitore"
LO «ZIO TRASGRESSIVO» Nella lettura di Recalcati è Silvio Berlusconi, che fa del godimento un imperativo assoluto"

Dai Nonni ai Nipoti, saltando la generazione di mezzo La cronaca politica italiana conferma un fenomeno da tempo segnalato da psicologi e psicoanalisti Il Presidente Giorgio Napolitano stringe la mano al neopremier Gianni Letta. È la fotografia che immortala la fine dell’ultima lunga crisi politica italiana, e insieme sancisce il nuovo passaggio generazionale: non più di Padre in Figlio, ma di Nonno in Nipote Nonno e nipote. Quarantun anni separano Giorgio Napolitano da Enrico Letta. Se una generazione conta venticinque anni, qui ci sono quasi due generazioni di distanza. Qualcosa è accaduto, anche simbolicamente, nel nostro Paese in questi mesi, se dalla generazione dei nonni si è passati a quella dei nipoti, saltando invece a piè pari i padri.
Da tempo gli psicologi e gli psicoanalisti ce lo segnalano: i padri oggi mancano; la loro autorità simbolica ha perso peso, e di fatto si è eclissata. Il padre tradizionale, autoritario, dominatore, castratore, secondo la vulgata freudiana, Kronos che divora i propri figli dopo averli dominati, è scomparso. Nel Sessantotto i Figli hanno dato l’assalto all’autorità in ogni sua manifestazione: religiosa, politica, sociale, accademica, famigliare, sessuale. La critica antiedipica dei movimenti giovanili nel Maggio del 1968, e poi nella primavera del 1977, ha mandato in frantumi la figura dominante del Padre-Padrone: il sistema patriarcale è finito di colpo, e con lei la struttura stessa delle gerarchie tradizionali.
Pasolini lo aveva capito con chiarezza, e nelle sue Lettere luterane tentava un nuovo approccio pedagogico con Gennariello, il nuovo adolescente. Da allora, dalla fine degli Anni Settanta, i padri hanno cominciato a latitare. Nel 2011 Massimo Recalcati, psicoanalista di scuola lacaniana, in un suo saggio, Cosa resta del padre? (Cortina editore), ha descritto il cambiamento in corso, che sembra aver raggiunto il suo culmine proprio in questi giorni, orientando la forma stessa dell’autorità politica e statale. La composizione del governo Letta è stata salutata nei titoli dei giornali per la presenza di donne e soprattutto per la bassa età di molti dei suoi ministri. Prima di arrivare a questa soluzione, voluta fortemente dal Nonno Napolitano, si è cercato di eleggere dei Padri alla Presidenza della Repubblica: Franco Marini, Romano Prodi, e anche il più anziano Stefano Rodotà, che rappresentavano la generazione di mezzo tra il vecchio Presidente e il giovane presidente.
Secondo Gustavo Pietropolli Charmet, che da tempo studia le trasformazioni del mondo adolescenziale italiano ( La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, Cortina editore 2013), la sconfitta di Luigi Bersani è attribuibile, almeno dal punto di vista simbolico, alla sua incapacità d’incarnare una figura paterna, mentre Napolitano ha assunto il ruolo di Padre-Nonno accuditivo che interviene per placare la lotta tra i fratelli. Non il padre punitivo, bensì un padre dai tratti quasi materni, che provvede a separare i fratelli che si contendono il corpo della Madre-Patria, in un eccesso di litigiosità, fino ad agitare il fantasma sempre risorgente nella comunità umana della guerra civile.
Affidando al giovane Letta, il fratello più giovane della compagine fraterna, il governo del Paese, il Nonno-Padre ha inteso sancire, dice Pietropolli Charmet, un principio di giustizia al di sopra delle parti, o almeno di due delle tre fazioni in cui è diviso, dopo il voto di febbraio, il Parlamento. La lettura che lo psicoterapeuta fornisce delle ultime vicende italiane è quello dello scontro tra adolescenti, tra spavaldi e insieme fragili ragazzi, che non provano più un vero senso di colpa (il Padre è morto), ma piuttosto un alterno senso di vergogna: Narciso ha preso il posto di Edipo. Adolescenti narcisistici sono per Pietropolli Charmet il giovane Matteo Renzi e anche il più anziano Beppe Grillo, entrambi liberati dal senso di colpa verso l’autorità dei padri («Vi rottamiamo», afferma il primo; «Siete morti», urla il secondo), dediti alla continua valorizzazione del proprio Sé.
Per completare il quadro di una lettura psicologica della politica italiana, si può aggiungere la figura dello Zio trasgressivo, incarnata da Silvio Berlusconi, scavezzacollo, irresponsabile, play boy seduttore, privo di freni inibitori, che ha fatto, come scrive Recalcati in Il complesso di Telemaco (Feltrinelli 2013), del godimento un imperativo assoluto, un elemento che s’impasta con l’istinto di morte. Più di trent’anni fa, Pier Paolo Pasolini ha rappresentato tutto questo nei libertini del suo film Salò-Sade.
L’atto compiuto da Napolitano di passare il testimone al «nipote» Letta, reso palpabile dalla fotografia diffusa dalle agenzie, in cui il vecchio Presidente si protende felice nello stringere la mano al «nipotino», è il tentativo di bloccare una deriva pericolosa, almeno dal punto di vista simbolico, instaurata dal conflitto tra i fratelli-adolescenti, che oscillano tra la rivalità totale di Edipo e l’isolamento autistico di Narciso. Privi di figure paterne in grado di richiamare i figli all’ordine della Legge, il Padre accuditivo, Nonno quasi materno, ha cercato la tregua. Un gesto che tuttavia non sappiamo se avrà gli esiti che si propone, ovvero quelli di svelenire la lotta politica degli ultimi vent’anni.
Tuttavia l’elezione di papa Francesco sembra andare nella medesima direzione: la ripresa di una figura paterna che contiene in sé elementi materni, di protezione, tenerezza, parola quest’ultima che Mario José Bergoglio ha usato rivolgendosi ai fedeli. Dio che non è solo Padre, ma anche Madre, come aveva sostenuto nel suo breve regno papa Luciani. Dopo il balcone vuoto annunciato da Nanni Moretti in Habemus papam, in cui Recalcati, psicoanalista lacaniano, vede annunciati i due grandi sintomi del nostro tempo – afasia e amnesia –, sembrerebbe che papa Bergoglio indichi l’inizio di un’epoca nuova. Possiamo interpretare in questo stesso modo la nomina di Enrico Letta a presidente del Consiglio voluta dal Padre-Nonno?
Difficile dirlo. A molti è sembrato un ritorno all’indietro, a un’età politica precedente, quando la mediazione politica democristiana smussava gli spigoli acuti del conflitto, così almeno sino alla crisi degli anni Settanta. Possibile, ma la storia, come sosteneva Hegel, si nutre di astuzie che spiazzano le nostre convinzioni più profonde, e persino le previsioni più accorte.
Non a caso Recalcati, per descrivere la paternità nell’epoca ipermoderna, cita le pagine del romanzo dello scrittore americano Corman McCarthy La strada. Nel libro un figlio e un padre camminano sullo sfondo dell’apocalisse del nostro mondo: è la devastazione totale in un universo senza Padre e senza Dio, in cui la figura adulta si prende cura del giovane ragazzo sino alla fine: «Se io morissi», chiese una volta il figlio al padre, «tu cosa faresti? ». «Vorrei morire anch’io», rispose il padre, «per poter restare con te». La cura come antidoto alla lotta e alla sopraffazione, chiosa lo psicoanalista. A questo siamo dunque arrivati? Non più di Padre in Figlio, bensì di Nonno in Nipote.

La Stampa 30.4.13
Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei
Modi, luoghi, manie dei grandi romanzieri intenti all’opera Un critico americano investiga nella “materialità” della scrittura
di Jacopo Iacoboni


Mark Twain Si chiudeva nello studio dall’alba alle 5, poi la sera, a cena, leggeva ad alta voce ai commensali il prodotto del suo lavoro Ernest Hemingway Scriveva di preferenza stando in piedi, dalle prime luci dell’alba fino a quando non gli si chiariva il passaggio successivo Haruki Murakami Si sveglia alle 4 di mattino, scrive per sei ore, poi al pomeriggio corre o nuota in piscina, e alle nove di sera è a letto Jack Kerouac Seguì nel tempo diversi rituali, tra i quali scrivere di getto alla luce di una candela finché questa non si spegneva
Hemingway stava sempre in piedi, ritto come il suo fucile. Haruki Murakami si sveglia alle 4 di mattina, scrive per sei ore, il pomeriggio fa dieci chilometri di corsa o 1500 metri in piscina, e va a letto alle 9 di sera. Twain si chiudeva in studio dall’alba alle cinque, e poi la sera, a cena, leggeva ad alta voce i suoi prodotti ai commensali. E meno male che era Twain: pensate identico, ossessivo rituale imposto da uno con altra penna.
C’è modo e modo di scrivere. C’è chi batte su una tastiera e chi scrive. Chi scrive male - che è comunque scrivere - e chi scrive bene. Chi crede di scrivere, un fenomeno anche questo interessante, per la psicologia. La scrittura, diceva Jacques Derrida, è l’unico caso in cui il pensiero incontra il mondo (Derrida diceva «l’esteriorità-corporeità»). Di cos’è fatta, appunto, e come, la materialità dello scrivere? Esce in questi giorni negli Stati Uniti un libro bellissimo, pura filosofia del voyeurismo, Daily Rituals: How Artists Work (Knopf), di Mason Currey, un critico che per anni ha lavorato alla ricostruzione della materialità delle scritture, i luoghi, i modi, le fisse, i tic, dentro i quali l’esteriorità del mondo – la quotidianità «innanzitutto e per lo più», avrebbe detto Heidegger – entra nel processo di creazione di uno scrittore. Currey, ma anche il geniale magazine Brainpicker, ha raccolto cose note e altre un po’ meno, finendo col disegnare un quadro imperdibile della psiche d’artista.
Ray Bradbury poteva scrivere ovunque, e si vede, a patto di avere con sé una macchina da scrivere. «Se mi viene qualche idea e non la archivio, è lei che archivia me. Da ragazzo scrivevo nella mia camera da letto, o in salotto con mia madre e mio padre che parlavano con la radio accesa ad alto volume». Questa potenza compulsiva di fronte alla macchina trovò la sua massima realizzazione «ai tempi in cui scrivevo Fahrenheit 451. Avevo trovato un posto alla Ucla dove, con dieci cents, affittavi una macchina da scrivere per mezz’ora». A botte di mezze ore è stato partorito Guy Montag, uno dei personaggi più lunari nella storia della letteratura.
Basta che un oggetto iconico, se non un luogo o una situazione, ci guidi. Protegga la nostra capacità di essere fino in fondo noi stessi, anche nonostante – e anzi, grazie – alla mediazione e gli intralci della materia. Kerouac descrisse nel ’68 vari dei suoi rituali, «una volta accendevo una candela e scrivevo di getto tutto, finché la candela non si spegneva». Poi passò a ispirarsi con la luna piena. A un certo punto cominciò a esser ossessionato dal numero nove, e prima di scrivere faceva nove saltelli, magari chiuso in bagno, quasi a trovare un suo equilibrio mentale, «una specie di yoga». «Io scrivo a mano, su grandi fogli bianchi o gialli che odorano di scrittori americani. Tutte le mattine non più tardi delle otto», ha raccontato Susan Sontag. L’ora è importante. Il mattino ha (spesso) l’oro in bocca; a volte nel senso di Jack Nicholson in Shining, comunque, sempre, costeggiando follia e alienazione, di cui la scrittura è simulacro.
Hemingway doveva alzarsi in piedi, sempre con i suoi mocassini oversize indosso, e davanti a sé, bella alta sulla scrivania, la macchina da scrivere. Si sa che scriveva dalle prime luci dell’alba fino a quando non gli si chiariva il passaggio successivo della narrazione, «fuori è freddo e tu invece sei caldo e scrivi, nessun rumore», tutto è silenzio. Finisci quando cominci a sapere quale sarà il prossimo passo, il giorno successivo. La vera fatica: arrivarci.
De Lillo ha confessato di scrivere quattro ore di mattina e due di pomeriggio, ogni giorno, ma tra i due momenti va a correre. Non mangia, non prende caffè, non fuma («smisi tanti anni fa», disse nel ’93). Per «rompere il linguaggio» ( to break the language) guarda ossessivamente una foto di Borges su sfondo nero regalatagli da Colm Toibin. «La sua faccia fiera, lo sguardo da cieco, le narici aperte, la bocca incredibilmente vivida... sembra dipinto». È l’ammonimento di uno che non perde tempo a guardar fuori dalla finestra. William Gibson ha invece scritto Neuromante andando a pilates tre volte la settimana, e solo dopo, alle dieci, cominciando a scrivere. Vonnegut ha scritto Mattatoio n. 5 tutti i giorni dalle 5,30 alle 8. Dopo, passeggiata fino alla piscina comunale, e nuotare, nuotare. Nel pomeriggio, oltre a varie attività d’insegnamento, immancabile scotch alle 17,30, sempre lo stesso, cinque dollari e cinquanta, allo State Liquor Store. Altro che tè.
In qualche caso la materialità della scrittura è già in sé e per sé teorica, per esempio è interessantissimo – anche se noto – che Vladimir Nabokov scrivesse su cartoncini da biblioteca rigorosamente ordinati in scatole, dove lavorava per sequenze, che quindi potevano essere tranquillamente invertite alla fine, a cose fatte; è un azzardo paragonarlo al cut up di Burroughs, eroinizzato, sui post-it della stanza d’albergo del Pasto nudo a Tangeri?
È con sollievo che apprendiamo che qualcuno, come Gertrude Stein o James Joyce, si alzava tardi. Non è segno di pigrizia mentale. Lo scrittore di Ulisse, anzi, restava anche a letto a perdere tempo e per principio non si tirava mai in piedi per scrivere prima delle undici. In effetti, l’abbiamo sempre ammirato.

Corriere 30.4.13
La solitudine di Spinoza il precursore scandaloso
Fondò il pensiero laico, ma tutti lo tennero a distanza
di Paolo Mieli


Spinoza fu un valido divulgatore delle teorie del filosofo francese René Descartes, detto in italiano Cartesio (nel ritratto qui sotto), ma le sue idee sulla religione e sulla Bibbia lo avvicinavano piuttosto al pensatore inglese Thomas Hobbes (nel ritratto al centro, foto National Trust), autore del «Leviatano», da cui però lo dividevano le posizioni politiche
Tra gli studiosi di Spinoza vissuti nel Novecento, uno dei maggiori è il filosofo Leo Strauss (nella foto qui sopra), autore del libro «La critica della religione in Spinoza» (Laterza)

Quando diede alle stampe il Trattato teologico-politico, Baruch Spinoza era consapevole dei guai a cui sarebbe andato incontro e non trascurò nessuna precauzione: scrisse il saggio in latino, lo destinò a una circolazione limitata e, soprattutto, lo pubblicò anonimo. Ma erano trascorse poche settimane da quell'inizio del 1670 in cui il Trattato era stato messo in circolazione da un piccolo editore olandese, che contro quel libro si scatenarono tempeste. A dispetto delle sue cautele, Spinoza fu presto identificato come autore del libro: in una lettera del giugno 1670, Friedrich Ludwig Mieg, professore dell'Università di Heidelberg, metteva in guardia un suo collega dicendogli di esser certo che il Trattato era opera di «Spinoza, un tempo ebreo», già «conosciuto per essersi occupato dell'opera di Descartes». Nell'agosto di quello stesso anno, Johan Melchior, pastore di un piccolo villaggio nei pressi di Bonn, scrisse una pesante «confutazione» del libro, in cui dava conto di voci che lo attribuivano a Spinoza. Sempre in quell'estate, un altro professore, stavolta di Groningen, Samuel Desmartes, rivelò che quel testo «atroce» andava ricondotto a «Spinoza, un tempo ebreo, empio e ateo dichiarato».
Prima di loro, in ogni caso, si era già messo in moto il concistoro di Utrecht, che il 6 aprile del 1670, pur senza fare riferimento diretto a Spinoza, aveva definito quel volume «profano e blasfemo» e aveva chiesto che fossero prese «appropriate misure preventive» contro la diffusione dell'opera. Un mese dopo fu la volta del concistoro riformato di Leida, che si pronunciò in termini ancora più severi. In maggio intervennero anche gli organi ecclesiali di Haarlem e in giugno quelli di Amsterdam. Sempre in maggio il teologo tedesco Iacob Thomasius lo definì un «testo senza Dio» e il suo collega olandese Regnier Mansveld, docente all'Università di Utrecht, scrisse che sarebbe stato giusto seppellire il Trattato nell'«oblio eterno». In luglio si passò al sinodo distrettuale dell'Aja, che si rivolse al sinodo dell'Olanda meridionale perché decretasse essere il Trattato un libro «osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto». In agosto si conformò a tale giudizio il sinodo dell'Olanda settentrionale, che annunciò di essere «profondamente disgustato» da quel tomo nuovamente definito «osceno». Ma non è tutto.
Nella primavera del 1673 fu pubblicato La Religion des Hollandois di Jean-Baptiste Stouppe, uno svizzero di fede riformata che partecipava all'occupazione francese dei Paesi Bassi (ne parleremo più avanti). Il libro di Stouppe era molto aggressivo contro gli olandesi, messi sotto accusa per la loro «fiacca devozione religiosa» e per la loro «irragionevole tolleranza verso le differenze confessionali». Stouppe si diceva scandalizzato per la mancanza di iniziativa nel contrastare Spinoza, «un uomo nato ebreo che non ha né ripudiato la religione ebraica, né abbracciato la religione cristiana, ed è pertanto un pessimo ebreo e di certo non è un cristiano migliore». «Questo Spinoza», scriveva Stouppe, «ha prodotto alcuni anni fa un libro in latino, il cui titolo è Tractatus Theologico-Politicus, nel quale sembra porsi come obiettivo principale di distruggere tutte le religioni, in particolare quella ebraica e quella cristiana, e di introdurre l'ateismo, il libertinismo e la libertà di tutte le religioni». A quel punto toccava alle autorità politiche procedere contro Spinoza. Queste però — come ha ben ricostruito in uno studio accurato Jonathan Israel — procedettero a rilento, quanto meno fino all'uccisione del grande statista Johan de Witt (e anche su questo torneremo). Sicché il Trattato fu ufficialmente messo al bando nella Repubblica delle Sette Province Unite solo nell'estate del 1674.
L'intera vicenda è adesso raccontata dal più grande biografo del filosofo di Amsterdam, Steven Nadler (docente all'Università del Wisconsin), in Un libro forgiato all'inferno. Lo scandaloso «Trattato» di Spinoza e la nascita della secolarizzazione, che esce oggi da Einaudi nell'eccellente traduzione di Luigi Giacone. La violenta reazione sollevata dal Trattato teologico-politico, scrive Nadler, fu senza dubbio «uno degli eventi più significativi della storia intellettuale europea, specie considerando che si verificò agli albori dell'Illuminismo». Dai contemporanei di Spinoza, il Trattato fu considerato «il libro più pericoloso che fosse mai stato pubblicato». Ai loro occhi, «quell'opera minacciava di minare dalle fondamenta la fede religiosa, l'armonia sociale, politica e perfino la morale di ogni giorno». Era loro convinzione che il suo autore — la cui identità, come abbiamo visto, non rimase segreta a lungo — fosse «un sovversivo, impegnato a diffondere l'ateismo e il libero pensiero in tutta la Cristianità».
Che cosa contenesse di così minaccioso quel libro è stato ben messo in luce (comprese le innumerevoli sfumature) da Leo Strauss in La critica della religione in Spinoza (Laterza). Spinoza, riepiloga Nadler, fu il primo a sostenere che la Bibbia non rappresentava alla lettera il Verbo di Dio, ma era piuttosto un «frutto letterario dell'ingegno umano»; che la «vera religione» nulla aveva a che vedere con la teologia, le cerimonie liturgiche o i dogmi settari, ma era costituita unicamente da una semplice regola morale, quella che si riassume in «ama il prossimo tuo»; che alle gerarchie ecclesiastiche «non spettava alcun ruolo nella gestione di uno Stato moderno». Spinoza sosteneva altresì che la «divina provvidenza» non era altro che «l'insieme delle leggi di natura»; che i miracoli (intesi come infrazioni all'ordine naturale delle cose) erano «impossibili» e che la fede in essi era solamente l'espressione «della nostra ignoranza sulle vere cause dei fenomeni»; che i profeti del Vecchio Testamento erano «semplici individui, come tanti altri», i quali, seppure dotati di qualità etiche superiori, possedevano «un'immaginazione particolarmente fervida».
Assai irridenti i passaggi del Trattato dedicati ai profeti nell'Antico Testamento: «Se il profeta era allegro, gli si rivelavano le vittorie, la pace, e in genere le cose che generano letizia, poiché simili cose tali temperamenti sogliono più spesso immaginare; mentre, se era triste, gli si rivelavano guerre, castighi e ogni sorta di mali; così a seconda che il profeta fosse di indole misericordiosa, mite, iraconda, severa eccetera, era più adatto a questo o a quel genere di rivelazioni». In materia di miracoli, poi, (laddove Maimonide, in quanto rabbino e capo religioso, era stato, qualche tempo prima, maggiormente cauto) la posizione di Spinoza fu più radicale addirittura di quella che sarebbe stata assunta mezzo secolo dopo dallo scozzese David Hume, per il quale quei prodigi divini erano «talmente poco verosimili da rasentare l'incredibile». Per Spinoza, invece, «il miracolo, sia esso inteso come fatto contrario o come un fatto superiore alla natura, è soltanto un'assurdità». Un'assurdità. Più netto di quel «rasentare l'incredibile». La vera remunerazione della virtù, diceva infine il filosofo di Amsterdam, «non sta in qualche ricompensa ultraterrena per un'anima immortale, dal momento che non esiste nessuna immortalità della persona; è soltanto un'invenzione usata da un clero manipolatore per costringerci in un eterno stato di paura e di speranza e in tal modo controllarci». La «beatitudine» e la «salvezza» consistono piuttosto nel «benessere e nella pace della mente che la conoscenza riesce a offrirci in questa vita».
I capitoli del Trattato dedicati alla politica, scrive Nadler, «rappresentano il più accorato appello alla tolleranza (soprattutto alla "libertà di filosofare", senza che qualcuno fosse costretto a subire interferenze da parte delle autorità) che sia mai stato scritto». Anche se il filosofo era assai diffidente nei confronti della gente comune: «So», scriveva in un passaggio che attirò l'attenzione di Leo Strauss, «che è impossibile sottrarre le masse alla superstizione e alla paura e so che per il volgo è perseveranza l'ostinazione, e che non è guidato dalla ragione, ma dalla passione è trascinato ora alla lode ora al vituperio... Il volgo, dunque, e tutti coloro che ne condividono le passioni non sono da me invitati alla lettura di questo libro; preferirei anzi che lo trascurassero del tutto, piuttosto che interpretarlo, come fanno sempre, tendenziosamente, allo scopo di creare difficoltà». È vero che, prima del Trattato, Spinoza aveva scritto l'Etica, un libro altrettanto importante. Ma, a differenza del tono freddo e distaccato dell'Etica, il Trattato, scrive Nadler, «è un'opera appassionata, perfino rabbiosa, non si può fare a meno di notare un fervore e una sorta di urgenza che percorrono in modo impercettibile (e a volte nemmeno così impercettibile) tutti i capitoli del libro». Inoltre, prosegue Nadler, il Trattato appare, ben più dell'Etica, «un'opera polemica che esamina i fondamenti storici, psicologici, testuali e politici della religione tradizionale o popolare». E in quanto tale, assai più dell'Etica, si prestava a essere «interpretato» da un maggior numero di lettori. Cosa che preoccupava e infastidiva l'autore.
Quando diede alle stampe il Trattato, Spinoza aveva 38 anni. Era nato nel 1632 da un'agiata famiglia di mercanti della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam. Una comunità di sefarditi, fondata dai cosiddetti «nuovi cristiani», o conversos — ebrei che in Spagna e Portogallo, tra la fine del Quattrocento e l'inizio del secolo successivo, erano stati costretti a convertirsi al cattolicesimo. Questi conversos, messi in difficoltà dall'Inquisizione spagnola che non credeva al loro cambio di religione, all'inizio del Seicento avevano abbandonato la penisola iberica e si erano trasferiti ad Amsterdam (o in qualche altro centro dell'Olanda settentrionale). Città che avevano offerto a questi profughi l'opportunità di «ritornare alla fede degli avi e di riprendere la loro vita secondo le consuetudini ebraiche».
L'ebreo Spinoza — il quale, contrariamente a quel che è stato più volte scritto, non cercò mai di diventare un'autorità religiosa — ebbe come insegnanti tre rabbini: Menasseh ben Israel, che all'epoca era probabilmente l'ebreo più famoso di tutta Europa, Isaac Aboab da Fonseca e il «sapientissimo» Saul Levi Mortera della comunità di Amsterdam, sotto la cui guida ebbe accesso alle opere di Maimonide, autore nel XII secolo dell'opera più importante di tutta la filosofia ebraica, La guida dei perplessi. Per Maimonide — altro pensatore che, come Spinoza, avrebbe attirato l'attenzione di Leo Strauss — il contenuto della profezia sarebbe, almeno in parte, filosofico, sicché sia il filosofo sia il profeta sono «veicoli di verità»; e poiché «una verità deve essere di necessità coerente con le altre verità», filosofia e profezia, se correttamente intese, «devono sempre concordare». Cosicché «la verità filosofica e la verità rivelata non entreranno mai in conflitto». Spinoza si sofferma su Maimonide, che userà nel Trattato a proprio vantaggio per polemizzare contro la tradizione («I profeti della Bibbia ebraica», sostiene Spinoza, «erano in effetti, come dice Maimonide, personaggi dotati di grande forza d'immaginazione ma non filosofi, né uomini particolarmente dotti»). Successivamente, per dedicarsi al latino e ai classici, Spinoza sarà allievo anche di Franciscus Van den Enden, un ex gesuita di idee politiche radicali destinato a finire sul patibolo per aver preso parte a un complotto repubblicano contro il re di Francia Luigi XIV. E Van den Enden lo avrebbe introdotto ai Princìpi della filosofia di René Descartes, a cui il giovane dedicò in seguito una delle prime sue importanti opere. Un intreccio, quello della sua formazione, che dà conto della complessità del personaggio. E che ci aiuta a capire i guai a cui, da uomo libero, andrà incontro.
A 23 anni, il 27 luglio del 1656, Spinoza subì il primo grande trauma. Quel giorno gli ebrei di Amsterdam gli inflissero un herem, cioè un provvedimento di messa al bando: «(lo) espelliamo, malediciamo e danniamo... Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra... La collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest'uomo, e tutte le maledizioni penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo», sentenziò contro di lui la comunità a cui, fin lì, apparteneva. Fu il cosiddetto «herem del mistero», dal momento che gli fu inflitto per non meglio identificate «abominevoli eresie da lui compiute e insegnate», nonché per «atti mostruosi» (anch'essi non definiti). La virulenza era del tutto inconsueta, quasi assurda, nelle righe che chiudevano il documento di messa al bando: «Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti, né legga alcun trattato composto o scritto da lui». Terribile. Tanto più che, fino a quel momento, il filosofo non aveva dato alle stampe neanche un libro. Per di più il bando, a differenza di numerosi altri provvedimenti dello stesso genere e della stessa epoca, non fu mai revocato.
Secondo Jean-Maximilien Lucas, il primo biografo di Spinoza che scrisse poco dopo la sua morte, all'origine dell'herem era la testimonianza di due giovani, i quali avrebbero udito Spinoza mentre diceva che, «non essendoci nella Bibbia nessun riferimento al non materiale o all'incorporeo, non c'è motivo di credere che Dio non abbia un corpo»; che «per quanto riguarda gli spiriti, le Scritture non dicono che essi sono sostanze reali e permanenti, bensì semplici fantasmi, chiamati angeli poiché Dio li adopera per annunciare il suo volere; sono fatti in modo tale da restare invisibili, come gli angeli e ogni altra sorta di spiriti, dal momento che la loro materia è assai fine e diafana, tanto che li si può vedere solo come si vedono i fantasmi, negli specchi, in sogno, oppure di notte»; e che «ogni qual volta le Scritture ne parlano, la parola "anima" è usata solo per significare vita, o qualche essere vivente... Si cercherebbe invano un solo passo che parli di immortalità, mentre l'ipotesi contraria è confermata da centinaia di brani, ed è piuttosto facile da dimostrare». Inoltre, sempre secondo i due delatori, Spinoza avrebbe definito gli ebrei «gente superstiziosa, nata e cresciuta nell'ignoranza, che non conosce Dio e tuttavia ha l'impertinenza di considerarsi il Suo popolo, mettendosi al di sopra di tutte le altre nazioni».
A quanto riferisce Lucas, Spinoza accolse l'espulsione dalla comunità ebraica senza battere ciglio: «Meglio così», avrebbe detto, «non mi costringono a fare nulla che non avrei fatto di mia spontanea volontà se non avessi temuto lo scandalo... Ma dal momento che è questo che vogliono, imbocco volentieri la strada che mi si apre davanti». Strada che lo porterà ad avere nuovi scontri, stavolta con la Chiesa cattolica e con quella riformata.
Spinoza, dunque, non si perse d'animo e, come s'è detto, si dedicò alla filosofia di Descartes. Nel 1663 diede alle stampe l'unico volume che avrebbe pubblicato con il suo nome in copertina: Renati Des Cartes principia philosophiae more geometrico demonstrata, che gli conferì (a ragione) la fama di divulgatore del pensiero cartesiano e (a torto) la reputazione di suo seguace. Forte fu invece la sua sintonia con Thomas Hobbes e con il suo Leviatano, pubblicato in inglese nel 1651, tradotto in olandese nel 1667 e in latino nel 1668. Hobbes e Spinoza avrebbero avuto, sì, idee diverse sull'organizzazione della società: mentre Hobbes riteneva che la sovranità dovesse essere affidata a un singolo individuo e che la monarchia costituisse la forma di governo più stabile ed efficace, Spinoza riteneva che all'efficienza dello Stato fosse più funzionale la democrazia. Laddove compito della democrazia, per Spinoza, era quello di «evitare gli assurdi dell'istinto» e di «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione, affinché vivano nella concordia e nella pace». Ma, per tornare ai nostri discorsi, l'approccio di Hobbes e di Spinoza all'Antico Testamento fu simile.
Già Hobbes aveva analizzato la natura delle profezie e la veridicità dei miracoli, sollevando dubbi sulle Sacre Scritture. «Considerate dalla prospettiva di un sacerdote del Seicento e dei fedeli della sua congregazione», scrive Nadler, «le opinioni di Hobbes su molti problemi non potevano che apparire assai lontane dall'ortodossia e perfino blasfeme; nella sua visione materialista della natura e dell'uomo, Hobbes si spingeva fino a negare che potesse esistere una qualsiasi "sostanza immateriale", escludendo così la possibilità di un'anima incorporea, ma anche di un Dio incorporeo». Tutto ciò con un tono (da parte del filosofo inglese) «spesso beffardo, che lasciava intendere di non nutrire troppo rispetto per le religioni settarie, prima di ogni altra il cattolicesimo». E fu per questo che molti dei detrattori di Spinoza lo accomunarono all'autore del Leviatano. Eppure Hobbes, quando ebbe in mano il Trattato, disse di esserne rimasto «profondamente turbato» e che lui «non si sarebbe mai permesso di scrivere simili insolenze». Insolenze? La verità è che sia i seguaci di Descartes (morto a Stoccolma vent'anni prima della pubblicazione del Trattato), sia Hobbes ebbero paura di rimanere vittime degli stessi anatemi che, avvertivano, sarebbero stati scagliati contro Spinoza. Il quale si risentì per queste prese di distanza. Soprattutto nei confronti di alcuni allievi di Descartes, come Regnier Van Mansvelt e Lambert Van Velthuysen che lo avevano apertamente criticato: in una lettera a Henry Oldenburg nel 1675, si disse indignato del fatto che «certi sciocchi cartesiani, i quali hanno fama di condividere le mie idee, per allontanare da sé questo sospetto non abbiano cessato e non cessino tuttora di screditare ovunque le mie opinioni».
Amsterdam non fu tenera con Spinoza. Singolare, perciò, appare a Nadler l'elogio che il filosofo fa della sua città. Una città, scrive, dove «convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazionalità e di tutte le religioni; e, per affidare i propri beni a qualcuno, i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto di sapere se costui sia ricco o povero, o se sia solito agire in buona o in mala fede... La religione o la setta cui egli appartiene non li interessa affatto, perché ciò non contribuisce per nulla a far loro vincere o perdere la causa dinnanzi al giudice... E non vi è alcuna setta così odiata, i cui seguaci (quando non rechino danno ad alcuno, rendano a ciascuno il suo e vivano onestamente) non siano protetti e tutelati dall'autorità dei pubblici magistrati». Parole sorprendenti, dal momento che, quando furono scritte, uno dei più cari amici di Spinoza, Adriaan Koerbagh, era da poco morto in prigione, «condannato per le sue idee filosofiche e religiose proprio dalla città di Amsterdam, con un brutale atto di intolleranza istigato dal Concistoro calvinista».
Il fatto era accaduto tra il 1668 e il 1669 (pochi mesi, anzi, poche settimane prima che Spinoza vergasse l'«elogio di Amsterdam»). Koerbagh aveva dato alle stampe, proprio ad Amsterdam, un libro dal titolo Un giardino di fiori con ogni sorta di bellezze, in cui negava la paternità divina della Bibbia, attaccava l'elemento irrazionale presente nella maggior parte dei culti, con i loro dogmi, riti e «cerimonie superstiziose», e prendeva in giro tutte le religioni istituzionalizzate, compresa quella della Chiesa riformata. Per sovraccarico Koerbagh scriveva in olandese, rendendo la sua opera accessibile al grande pubblico, e firmava il libro con il suo nome. Risultato: nel 1668 fu imprigionato, si ammalò gravemente e il 5 ottobre del 1669 morì. Per Spinoza fu un colpo durissimo. Ma ciò non gli impedì di trattare in modo assai benevolo la città in cui tutto questo era accaduto.
Nadler sospetta che l'«elogio di Amsterdam» contenga, opportunamente dissimulata, «una buona dose di amara ironia». Più probabilmente si trattò di parole dettate dal calcolo, calcolo politico. Il filosofo, come Nadler ha ricostruito in un altro grande libro, Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento (Einaudi), era un estimatore del più grande statista dell'epoca, Johan de Witt. Non è provato che i due abbiano avuto rapporti diretti (anche se il coevo Lucas sostiene di sì e lo stesso affermarono a fine Ottocento Jacob Freudenthal e, all'inizio del Novecento, Carl Gebhardt), ma tutti e due ebbero, scrive Nadler, «il privilegio di essere maltrattati e spergiurati dalle autorità religiose olandesi ed entrambi furono vilipesi e disprezzati dagli stessi nemici».
I democratici radicali come Spinoza e Koerbagh, radicalmente laici e difensori di una concezione più ampia della libertà, racconta Nadler, erano fermi oppositori degli «orangisti» e, a dispetto di non poche diversità di vedute, alleati naturali di de Witt. Un nemico dell'uomo politico giunse addirittura a dire che si avvertiva la presenza di de Witt nella stesura del Trattato teologico-politico. E questo nella battaglia tra orangisti (sostenitori della causa di Guglielmo I), «voetiani» (seguaci di Gisbertus Voetius, grande oppositore di Cartesio, nemici di de Witt), «cocceiani» (discepoli del teologo di Leida Johannes Cocceius, amici di de Witt) e perfino «sociniani» (ultimi adepti di una setta fiorita in Polonia alla fine del Cinquecento sotto la guida del teologo Fausto Sozzini, che continuò a battersi contro il dogma della trinità anche nella prima metà del Seicento) fu un elemento di destabilizzazione.
Uno dei nemici di de Witt arrivò a denunciare che, tra i libri presenti nella biblioteca dell'uomo politico, figurava anche quel Trattato, «forgiato all'inferno (di qui il titolo del libro di Steven Nadler) dall'ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan (de Witt, ndr)». Al punto che anche de Witt — come Hobbes e gli allievi di Descartes — si sentì in dovere di prendere le distanze dal Trattato. Sostiene Abraham Gronovius, ricercatore all'Università di Leida, che quando a Spinoza fu riferito che de Witt aveva gradito assai poco il Trattato, «egli inviò qualcuno da Sua Eccellenza per dirgli che voleva parlare con lui, ma gli fu risposto che Sua Eccellenza non voleva vederlo varcare la soglia di casa». Nonostante ciò, il grande protagonista politico del «secolo d'oro olandese» non riuscì a salvarsi dagli odi che aveva accumulato per via del supposto rapporto con quel filosofo in odore di zolfo.
Luigi XIV, re di Francia, fece il resto. Nell'aprile del 1672 dichiarò guerra alle Province Unite e il 23 giugno i francesi entravano a Utrecht. De Witt fu la principale vittima di quel disastro militare. Fu accusato da pamphlet anonimi di «essere del tutto incompetente», di essersi messo in tasca parte dei fondi pubblici, di volere «vendere la Repubblica ai nemici, per continuare a governare su loro mandato». Il tutto accompagnato dalle consuete insinuazioni sui suoi rapporti con il «malvagio» autore del Trattato. La notte del 21 giugno 1672 de Witt fu ferito in modo abbastanza grave da un gruppetto di giovani di buona famiglia. Il 23 luglio suo fratello, Cornelis, fu arrestato con l'accusa di cospirazione. E quando Cornelis, a fine agosto, uscì di prigione, una folla si impadronì dei fratelli de Witt, li uccise, denudò i cadaveri, li appese a testa in giù e poi squartò i loro corpi. Spinoza ne fu sconvolto. Nel corso di un soggiorno all'Aja, quattro anni dopo, Gottfried Wilhelm Leibniz così annotò sul diario una visita al filosofo olandese: «Dopo cena, ho chiacchierato a lungo con Spinoza; mi ha raccontato che il giorno dell'orrenda uccisione dei de Witt voleva uscire di notte per andare a riporre una lapide sul luogo del massacro, con sopra scritto ultimi barbarorum (più o meno «i peggiori dei barbari», ndr); ma il suo padrone di casa era poi riuscito a impedirglielo, chiudendo la porta a chiave, per timore che anch'egli fosse fatto a pezzi».
Quelli erano i tempi. Del resto, osserva Nadler, «se la Repubblica delle Sette Province fosse stata davvero libera come Spinoza sembra voler far credere, non ci sarebbe stato alcun bisogno di scrivere il Trattato». Trascorsero pochi mesi da quell'incontro con Leibniz, e Spinoza, uno dei più grandi filosofi della storia, morì. Aveva 44 anni. Le idee contenute nel Trattato, scrive Nadler, ispirarono rivoluzionari di fede repubblicana in Inghilterra, America e Francia. E, agli inizi dell'Età moderna, incoraggiarono la comparsa di movimenti contrari a una concezione settaria della religione che avrebbero cambiato la storia dell'umanità. Talché tutti dobbiamo in qualche modo considerarci eredi di quello scandaloso Trattato teologico-politico.