mercoledì 1 maggio 2013

l’Unità 1.5.13
Primo maggio, la battaglia per cambiare
Piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil
per far ripartire lo sviluppo e creare occupazione
Manifestazioni in tutta Italia. Camusso, Bonanni e Angeletti questa mattina a Perugia
di Massimo Franchi


ROMA Il record senza fine della disoccupazione giovanile, il dramma giornaliero delle aziende che chiudono. Ci sarebbe ben poco da festeggiare per questo Primo maggio. Eppure proprio da Cgil, Cisl e Uil ieri è partito un messaggio di unità e speranza con la prima riunione unitaria degli Esecutivi delle tre Confederazioni dal lontano 12 maggio 2008 e il via libera all’accordo sulla rappresentanza. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti questa mattina si ritroveranno per festeggiare la festa del lavoro a Perugia, città scelta per ricordare Daniela e Margherita, le due impiegate della Regione barbaramente uccise lo scorso 6 marzo nel palazzo del Broletto, per mano di un imprenditore che si tolse la vita subito dopo. «Priorità Lavoro» è lo slogan scelto e a tenere il cartello ci saranno i lavoratori alle prese con le innumerevoli crisi dell’Umbria: dalle acciaierie Ast di Terni alla Nestlè Perugina, dal Polo Chimico ternano alla ex Merloni di Nocera Umbra. Ma ci saranno anche le lavoratrici e i lavoratori del commercio e del terziario (in sciopero contro le aperture dei negozi nel giorno della Festa dei Lavoratori) e quelli del pubblico impiego, così come le pensionate e i pensionati, i giovani precari e gli studenti. L'appuntamento è alle ore 10 in Largo Cacciatori delle Alpi (Piazza Partigiani), da qui il corteo si muoverà verso via Luigi Masi, poi viale Indipendenza, piazza Italia, Corso Vannucci, fino ad arrivare in piazza IV Novembre per il comizio conclusivo dei tre segretari generali.
Ieri mattina invece i vertici di Cgil, Cisl e Uil si sono ritrovati all’auditorium dell’Inail per discutere e approvare un documento comune che lancia una piattaforma condivisa e, come anticipato da l’Unità, fissa per sabato 22 giugno «una grande manifestazione nazionale a Roma» a conclusione di una mobilitazione che partirà sui territori dall’11 maggio.
RITROVATA UNITÀ
Il valore dell’unità sindacale ritrovata è stato rimarcato da tutti i protagonisti. «Contro avversari e nemici, torniamo uniti confermando che il sindacalismo italiano è grande riferimento e certezza per i lavoratori e l’accordo sulla rappresentanza è l’energia per far funzionare le relazioni sindacali», ha esordito Bonanni. «La crisi ha spinto i sindacati a convergere, ora dobbiamo indicare delle soluzioni ai problemi dell'economia e convenire a cose essenziali da far fare alla politica», ha proseguito Angeletti, «completando l’insieme delle regole che sostiene il sistema delle relazioni sindacali, regole trasparenti, chiare e democratiche». Dal canto suo Susunna Camusso ha specificato che «le divisioni del passato non si possono nascondere, ma quelle ferite si superano solo costruendo un punto più avanzato. Non si risolve tutto con l’accordo sulla rappresentanza e chi lo pensa lavora per il contrario: si tratta semplicemente di un meccanismo che dà cogenza agli impegni che un organizzazione prende». E alludendo alla sfuriata di Giorgio Cremaschi, unico contestatore dell’accordo che non è stato fatto parlare perché il suo intervento non era fra i previsti, ha detto: «Fare regole certe costa fatica: avremmo qualche notorietà in più gridando al tradimento, ma durerebbe poco perché non risolveremo i nostri problemi». E chiudendo ha ribadito: «È finita la stagione delle divisioni, abbiamo seguito il bisogno di unità che c’è tra i lavoratori, dobbiamo ricostruire la coscienza collettiva per dare gambe ai nostri obiettivi ripartendo dalla democrazia e dalle regole».
PROPOSTE E RAPPRESENTANZA
Nel documento varato Cgil, Cisl e Uil chiedono il «rifinanziamento della Cig in deroga, il completamento dell’effettiva salvaguardia degli esodati», di «ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle imprese che faranno assunzioni nel prossimo biennio, destinando automaticamente a tale scopo le risorse derivanti da un’efficace lotta all'evasione fiscale, reato di cui va sancita la natura penale». Sulla rappresentanza «Cgil, Cisl e Uil convengono di definire con Confindustria (il 6 maggio è già previsto un incontro) un accordo che regoli la rilevazione e la certificazione della rappresentatività basata sull’incrocio tra iscritti e voto proporzionale delle Rsu». I sindacati convengono di definire un accordo che preveda «la titolarità della contrattazione nazionale per le organizzazioni firmatarie che raggiungano il 5% della rappresentanza per ogni contratto. Gli accordi saranno definiti dalle organizzazioni che rappresentano almeno il 50% più uno della rappresentanza e dalla consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, le cui modalità attuative saranno stabilite dalle categorie (e qui le interpretazioni già divergono, ndr) per ogni singolo contratto».

l’Unità 1.5.13
Una nuova unità sindacale
di Susanna Camusso

Segretario generale della Cgil

Oggi è la Festa del Lavoro. È il giorno in cui si celebrano le battaglie operaie per la conquista di dignità e di diritti.
È il giorno in cui si ricorda al mondo la centralità del lavoro, la sua funzione economica e ancor più quella sociale. È il giorno in cui le lavoratrici e i lavoratori si fermano, si ritrovano, festeggiano insieme per rammentare al mondo le loro conquiste e i bisogni ancora da soddisfare.
Nel corso del tempo si è provato e si continua a provare, a ridimensionare la portata e il significato di questo giorno. Si è provato a depotenziare la sua carica politica, a snaturarne il significato, a toglierne il valore sociale. È come se la natura laica di questa giornata di festa consentisse di decretarne l’oblio o di svilirne il significato.
Bisognerebbe, ad esempio, interrogarsi sul perché nel nostro Paese si continua a pensare che aprire i negozi il Primo maggio sia più importante che interrogarsi sulla centralità e sulla funzione del lavoro. Non si tratta, in fondo, di un’immagine chiara, che rende bene la dissociazione intervenuta tra consumo e status sociale ad esso legato, e l’indifferenza a chi e a come produce gli oggetti desiderati.
Non mi soffermerò sull’anacronismo di una rincorsa ai consumi nei sei anni della crisi più profonda che la nostra società abbia vissuto dal dopoguerra ad oggi. Non c’è bisogno di ricorrere a statistiche, di illustrare con i numeri la situazione economica, i consumi che diminuiscono drasticamente, i redditi che calano. Basta guardare alla vita di tutti i giorni a quella di un lavoratore, di una pensionata, di una famiglia che non riesce quasi più a soddisfare i bisogni essenziali. E insieme alla cinghia che si stringe, la sfiducia e la disperazione che continuano ad aumentare.
Gli anni che abbiamo alle spalle sono stati caratterizzati da una folle rincorsa alla svalorizzazione del lavoro. Una rincorsa miope che ha contribuito non poco ad aggravare la crisi in cui siamo precipitati. La preferenza a speculare in borsa piuttosto che a investire, una competizione basata sulla riduzione dei costi invece che sulla ricerca e l’innovazione, il ricorso costante e perverso alla precarietà e ai bassi salari, sono le facce di un’idea sbagliata di economia e di un’idea mercificata del lavoro, che hanno fatto sparire dal gergo comune parole come dignità, sicurezza, identità delle persone.
Questo Primo Maggio del 2013, annus horribilis per il lavoro, vuole essere per tutti e tutte noi un nuovo punto di partenza, l’avvio di una nuova fase che parli dei diritti e della dignità del lavoro, che riproponga il suo valore nella società e nell’economia. Per noi non ci può essere futuro se non torniamo alla centralità del lavoro come motore delle politiche economiche e di welfare. Centralità implica qualità e dignità delle persone, l’opposto della precarietà. Centralità significa creare e redistribuire occupazione. Centralità vuol dire tornare a parlare di piena occupazione.
Il Primo Maggio 2013 può e deve anche avere un altro compito: ricostruire l’unità del mondo del lavoro, superare le tante divisioni e le troppe frantumazioni di questi anni. Riunificare il lavoro è parte essenziale della sua centralità, forse la premessa. Abbiamo scelto questo Primo Maggio per tornare a parlare la lingua dell’unità sindacale con una scelta unitaria sulle regole della democrazia e della rappresentanza.
Quella di una nuova unità tra le grandi confederazioni sindacali è una scommessa da vincere. Una sfida per dare al lavoro una voce forte capace di determinare una nuova agenda politica che punti al cambiamento.
Un cambiamento necessario, indispensabile se si vuole uscire dalle secche di una politica di austerità che ha portato l’Europa e l’Italia in una profonda crisi. Un cambiamento che deve avere il lavoro come suo motore, senza il quale non ci saranno le risposte essenziali per voltare pagina.

il Fatto 1.5.13
Il corteo ufficiale
Cgil, Cisl e Uil si ritrovano più unite e presentano il conto a Enrico Letta
di Sa. Ca.


Susanna Camusso, segretario della Cgil, si è spinta a dire che il Concertone del Primo maggio “è segnato dal tempo”. Il prossimo anno sarà il 25° anniversario e “bisogna fare una riflessione”. La riflessione, forse, rimanda al ruolo più generale del sindacato, ai suoi rapporti unitari e, soprattutto, al modo di recuperare un rapporto con un mondo del lavoro segnato dalla crisi.
In ogni caso, oggi Cgil, Cisl e Uil saranno insieme a Perugia, città scelta per onorare le due dipendenti regionali, “Daniela e Margherita”, uccise dagli spari di un imprenditore “impazzito” da crisi. Un’occasione, spiegano i sindacati, anche per ricordare il carabiniere ferito a palazzo Chigi. La manifestazione sarà particolarmente unitaria perché, proprio ieri, le tre confederazioni hanno siglato un documento comune con cui chiedono al governo l’urgente “rifinanziamento della Cig in deroga” e “il completamento dell’effettiva salvaguardia degli “esodati”. Richiesta anche la “riduzione delle tasse per dipendenti e pensionati”, l’allentamento del patto di stabilità per i Comuni, la riduzione dei costi della politica, la proroga dei contratti precari nella Pubblica amministrazione e, in particolare, la riforma dell’Imu, non la sua abolizione, “esonerando solo i possessori di un’unica abitazione, con un tetto riferito al valore dell’immobile”. Su questa piattaforma Cgil, Cisl e Uil terranno una manifestazione nazionale il 22 giugno prossimo”.
L’appuntamento che, però, si presterà alle principali polemiche è quello di Bologna dove il Primo maggio sarà festeggiato, in piazza Maggiore anche con Confindustria. A parlare, infatti, ci sarà il presidente di Uninindustria, Alberto Vacchi, imprenditore “illuminato”, proprietario dell’Ima, azienda del “packaging” da 2500 dipendenti e che va molto bene. Il profilo di “colomba” non impedirà alla Fiom di disertare l’appuntamento e di festeggiare in provincia di Ferrara con il suo segretario regionale, Bruno Papignani: “Lavoratori e imprese non hanno gli stessi problemi: c’è tutto l’anno per incontrarsi, non serve il primo maggio”. Per quanto riguarda la rappresentanza, il testo varato ieri che ha il consenso della Fiom, prevede la certificazione della rappresentanza e la validazione degli accordi con almeno “il 50%+1 della rappresentanza e la consultazione certificata dei lavoratori , a maggioranza semplice”. Per la Fiom è il superamento del “modello Marchionne” anche se i suoi contestatori sottolineano che sarà costretta ad accettare l’esigibilità dei contratti. Una volta firmato, insomma, non si sciopera più. In ogni caso, è un passaggio centrale nella vita futura del sindacato.

Repubblica 1.5.13
“Segnali importanti sul lavoro l’evasione fiscale sia reato penale”
Camusso: un errore eliminare l’Imu per tutti
intervista di Roberto Mania


«L’Imu sarà il primo vero banco di prova per il nuovo governo», dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Seduta al tavolo del suo ufficio del palazzone di Corso d’Italia, ha appena finito di scrivere a penna l’intervento per il comizio che oggi terrà a Perugia per la festa del primo maggio. «Faccio sempre così per i comizi importanti». Da poco si è conclusa anche la riunione degli esecutivi unitari di Cgil, Cisl e Uil. Hanno deciso insieme le nuove regole della rappresentanza sindacale. Dopo cinque anni di divisioni le tre confederazioni tornano a marciare unite. «Questo — dice Camusso — è il momento delle responsabilità. Vale per la politica ma vale anche per noi». È inutile chiedere al segretario generale della Cgil se, nel caso fosse stato un parlamentare, avrebbe votato la fiducia al governo Letta. Si può chiedere però cosa pensa del programma del nuovo esecutivo. «Penso — risponde — che i titoli, perché di titoli si tratta, siano positivi. Ce ne sono sicuramente molti che rispondono ai problemi che avevamo posto. Di certo il lavoro è tornato ad avere una funzione nel programma. Ora si tratta di capire con quali risorse si costruiscono le proposte. L’efficienza e la qualità dei provvedimenti dipenderanno dalle scelte che si faranno».
Dipende, dunque, dalle coperture finanziarie che si troveranno?
«Certo. Perché quando si parla di rifinanziamento della cassa integrazione in deroga le risorse da trovare sono definite nella loro finalità. Quando si parla di riformulare l’Imu bisogna invece determinare quantità e finalità dell’intervento».
Tanto che Berlusconi dice che l’Imu va abolita e restituita.
«E noi non siamo d’accordo. Una cosa è dire che si sospende il pagamento della rata di giugno per evitare quello che si presenta come un vero ingorgo fiscale per i contribuenti, altra cosa è l’abolizione tout court dell’imposta».
Perché siete contrari?
«Perché anche i possessori di dodici case hanno una “prima casa”, anche chi ha un castello o chi vive in 400 metri quadri in centro a Milano o Roma».
Quindi si deve pagare in base al reddito?
«No, si devono esentare i possessori di un’unica abitazione e fissare un tetto in base al valore dell’immobile. Il solo parametro del reddito favorirebbe gli evasori».
Quali coperture suggerirebbe per le proposte che valgono diversi miliardi?
«Bisogna dare il segno del cambiamento. Bisogna spostare l’equilibrio della tassazione sul versante delle rendite e dei patrimoni. È talmente necessario un cambio di marcia sul contrasto all’evasione fiscale che proponiamo di farla diventare un reato penale. Serve un riequilibrio fiscale che dia anche il senso di giustizia. Un paese che si sta disgregando in questo modo non può più tollerare i “furbi”».
E lei pensa che un’inversione di questo tipo possa farlo un governo di larghe intese Pd e Pdl?
«Faccio parte di quegli italiani che chiedono un cambiamento vero. Dopo le elezioni questa esigenza non è venuta meno, nonostante la straordinaria delusione che abbiamo subìto. Serve un’assunzione di responsabilità collettiva per ridare un orizzonte al nostro paese. Il giudizio sul governo dipenderà, appunto, dalle responsabilità che prenderà. Per questo dico che l’Imu può essere uno dei banchi di prova: prevarrà la bandierina del no alla tassazione delle ricchezze, oppure l’idea che si debba redistribuire il carico su chi ha di più?».
Gli imprenditori di Treviso e Bologna parteciperanno alla festa del lavoro. Che effetto le fa?
«Sia chiaro: il primo maggio resta la festa dei lavoratori. C’è un interesse comune a chiedere un ritorno delle politiche per evitare che il nostro sistema produttivo affondi. Ma non condivido la tesi secondo cui la crisi ha cancellato le differenze».
Quali politiche?
«Per esempio che ritornino gli investimenti».
Questo riguarda le imprese, non il governo.
«Non proprio, Finmeccanica, ad esempio, è una holding pubblica che richiede indirizzi di politica industriale. Non può essere considerata solo un caso giudiziario. Penso che il governo dovrebbe chiamare intorno a un tavolo tutti i grandi gruppi industriali privati e pubblici per rilanciare gli investimenti. Così si crea il lavoro. Basta con l’idea di affidare il lavoro all’ingegneria normativa. La proliferazione giuridica ha solo prodotto guai».
Vuol dire basta alle riforme del lavoro?
«Io dico che bisogna tornare a creare lavoro, retribuito e sicuro, e a riconoscere i diritti dei lavoratori. Questa è la normalità. Così fanno le imprese che funzionano».

Repubblica 1.5.13
Giovani, disoccupazione boom. Sfiora il 40%
di Valentina Conte


ROMA — «Pensare anche al lavoro che non c’è». Quello «cercato inutilmente», ma anche «quello a rischio e precario». Perché «il Primo Maggio non è solo la festa dei lavoratori, ma anche, e più che mai, il giorno dell’impegno per il lavoro». Con questo messaggio, inviato ieri ai sindacati e al neo ministro del Lavoro Giovannini, il presidente della Repubblica Napolitano mette al centro «la nuova grande questione sociale del nostro tempo». E lo fa nel giorno in cui l’Istat comunica dati sconfortanti. Disoccupazione ancora all’11,5%, quasi tre milioni alla ricerca di un impiego. Tra questi ben 635 mila under 24, il 38,4% del totale, percentuale di nuovo in risalita che sfiora il record storico e colloca l’Italia terza in Europa, superata solo da Grecia e Spagna. E soprattutto 248 mila posti persi in un anno, 70 mila nel solo mese di marzo e tutti ricoperti da donne. Un altro triste record.
«Una drammatica perdita di posti di lavoro», la definisce Napolitano che poi chiosa: «Mi addolora che la festa del Primo Maggio presenti questo amaro segno». Il presidente riferisce di «quasi un milione di famiglie in cui nessun individuo ha un’occupazione». La cifra è «più che raddoppiata in cinque anni» e «oltre la metà di queste famiglie si trova al Sud». «Bisogna arginare rapidamente questa situazione di emergenza», si allarma. Non solo «con il concorso di tutte le forze politiche», ma anche di quelle sociali - imprenditori e sindacati - chiamati a «una cooperazione forte e fattiva». Napolitano ricorda infine, come ormai fa da otto anni in questo giorno di festa, le morti sul lavoro. «I dati del 2012 mostrano una flessione, ma questo miglioramento non deve farci abbassare la guardia, anzi spronarci a proteggere al massimo la salute, l’integrità, la vita dei lavoratori».
Il risvolto più grave dei numeri forniti ieri dall’Istat, e relativi al mese di marzo, non è il tasso di disoccupazione (11,2%), di sicuro alto e cresciuto in un anno di 297 mila unità. Piuttosto l’altro dato, l’occupazione, scivolata nello stesso lasso di tempo di 248 mila. Questo significa che se più persone si mettono alla ricerca di un posto, quasi altrettante lo perdono. E i posti distrutti dalla recessione non si ricostruiscono, perché le aziende muoiono. Il quasi record di giovani alla ricerca (il 38,4%, oltre tre punti in più in un anno), fa il paio con il terribile fenomeno degli “scoraggiati”. Persone che non provano neanche più a cercare un impiego, convinte come sono dell’impossibilità di trovarlo. Altro triste campanello d’allarme è la caduta improvvisa dell’occupazione femminile. Fin qui aveva retto. Ora in un solo mese sono scomparsi 70 mila posti “rosa”. E le scoraggiate, rinunciatarie, sono lievitate di 69 mila. La disoccupazione nei Paesi dell’euro è intanto arrivata al 12,1%, ha certificato ieri Eurostat. Inclusi tre milioni e mezzo di giovani a spasso. «Perdere una generazione sarebbe un disastro economico e sociale», ha commentato il commissario europeo all’occupazione Lazlo Andor.

il Fatto 1.5.13
Conflitto d’interessi, vietato parlarne
di Paolo Flores d’Arcais


Siamo in piena “neolingua”, quella del Grande Fratello di orwelliana memoria: ieri sono state cancellate dall’italiano la locuzione “conflitto d’interessi” e il lemma “ineleggibilità”, i concetti stessi devono diventare impensabili, benché (o forse proprio perché) lungo tutta la campagna elettorale il Pd avesse giurato e spergiurato che porre fine al conflitto d’interessi era una questione sia di civiltà istituzionale che di efficienza economica, dunque cruciale e improcrastinabile. Immediatamente dopo le elezioni, il braccio operativo di Bersani, senatore Migliavacca, aveva anzi garantito che il Pd avrebbe votato per l’arresto di Berlusconi in caso di motivata richiesta di un pm, e il presidente dei senatori, Luigi Zanda, che Berlusconi andava dichiarato ineleggibile. Poi la rielezione di Napolitano e il “contrordine compagni! ” con cui il Pd ha completato la sua mutazione antropologica in partito doroteo postmoderno.
“Con la lotta al conflitto d’interessi non si mangia”, è la giaculatoria d’ordinanza e d’amorosi sensi col Caimano, con cui la Casta-Pd cerca di tagliare la lingua a chi gli ricorda le promesse appena gettate al macero. Ma è proprio un liberista doc come Luigi Zingales, laurea alla Bocconi, PhD al Mit di Boston, professore all’Università di Chicago, editorialista del quotidiano della Confindustria, promotore della destra civile “Fermare il declino”, che va ripetendo in ogni talk show come ogni conflitto d’interessi produca impoverimento materiale, come il monopolio televisivo di B. generi mostri (anche economici), come l’Italia non possa uscire dalla crisi finanziaria e produttiva, e dalla cronica inefficienza dell’amministrazione pubblica, senza mandare sistematicamente in galera i ladri, i corrotti e gli “amici degli amici” di ogni specie e rango. Otto milioni e mezzo di italiani hanno votato il Pd credendo di votare anche per queste misure. Scoprono invece che le loro schede fanno mucchio con quelle andate a Cicchitto e Santanchè, Alfano e Scilipoti, per innalzare il Conflitto d’Interessi nella sua forma personificata (tecnicamente: Ipostasi), Silvio Berlusconi, a Presidente della Convenzione che riscriverà la Costituzione.
Nell’intera storia d’Italia un voltafaccia del genere non ha precedenti, il trasformismo di Depretis al confronto sembra una gemma di coerenza. Il ceto politico del Pd che ha votato la fiducia ha firmato la propria ignominia morale, e stabilito che qualsiasi cosa dica in futuro un dirigente Pd la sua credibilità è per definizione zero, flatus vocis per gonzi.

il Fatto 1.5.13
Dipartito democratico
di Marco Travaglio


Dicono che i pesci rossi abbiano la memoria corta, tre mesi non di più. Ma la stampa italiana li supera, diffondendo balle à gogò che non tengono minimo conto della storia degli ultimi tre mesi: elezioni, consultazioni, presidenziali. 1. ”Il governo Letta non ha alternative: i 5Stelle hanno detto no a Bersani e il Pdl ha detto sì a Letta”. Ma i 5Stelle han detto no a Bersani che chiedeva la fiducia a un suo governo di minoranza, fondato su 8 genericissimi punti, che per sopravvivere avrebbe raccattato i voti qua e là in Parlamento. Nessuno ha proposto un governo Pd-M5S presieduto da un uomo super partes. Errore di Bersani, che non andava al di là del proprio nome, convinto di aver vinto le elezioni. Ed errore dei 5Stelle che, quando salirono al Colle la seconda volta coi nomi di Settis, Zagrebelsky e Rodotà in tasca, non li fecero perché Napolitano disse no a un premier extra-partiti. Così rinunciarono a vedere il bluff del Pd: anche se Bersani fosse stato sincero, un suo governo con M5S non avrebbe mai ottenuto la fiducia da tutto il Pd (che s’è spaccato persino su Marini e Prodi, figurarsi su un’alleanza coi grilli).
2. “M5S, se voleva governare col Pd, doveva votare Prodi”. Ma M5S aveva candidato Rodotà, uomo storico della sinistra, uscito al terzo posto delle loro Quirinarie, mentre Prodi era a fondo classifica. Chi ridacchia dei pochi voti raccolti da Rodotà (4677) dovrebbe ridacchiare di più di quelli avuti da Prodi (1394). Ma soprattutto: mentre i 5Stelle facevano scegliere a 48 mila iscritti il loro candidato, Bersani faceva scegliere il suo a uno solo: Berlusconi. Che indicava Marini, poi impallinato dal Pd. Che allora mandava allo sbaraglio Prodi. Ma, mentre Grillo chiedeva ufficialmente al Pd di votare Rodotà per governare insieme, Bersani non ha mai chiesto a M5S di votare Prodi per governare insieme (con Rodotà premier). Si è tentato invece lo “scouting” sottobanco per strappare i 15 voti che mancavano a Prodi al quinto scrutinio. Ma Prodi non ci è neppure arrivato, perché al quarto gli son mancati 101 voti Pd. Come poteva il Pd pretendere che M5S votasse spontaneamente, senza richieste ufficiali, un candidato osteggiato dal suo partito, rischiando di spaccarsi e di non riuscire neppure a eleggerlo a causa dei franchi tiratori Pd?
3. “Grillo voleva fin dall’inizio l’inciucio Pd-Pdl”. Ma, se così fosse, avrebbe lasciato andare le cose com’erano sempre andate, anziché fondare un movimento contro “Pdl e Pdmenoelle”. E soprattutto avrebbe scelto un candidato di bandiera per il Colle (se stesso o Fo o un parlamentare qualunque), per blindarsi in un dorato isolamento: non avrebbe certo interpellato la base online, notoriamente influenzata da grandi personalità della sinistra come quelle poi uscite dalle Quirinarie. In realtà Grillo aveva semplicemente previsto l’inciucio, previsione che non richiede particolare acume a chi segue la politica da un po’.
4. “Quello di Letta è un governissimo di larghe intese”. A contare gli elettori che rappresenta, è un governino di minoranza: su un corpo elettorale di 47 milioni (di cui 35 hanno votato), i partiti che l’appoggiano raccolgono appena 20 milioni di voti, avendone persi per strada 10 rispetto a cinque anni fa. Gli stessi partiti che sostenevano il governo Monti e che, dopo le urne, riconobbero che quel governo era stato bocciato. E ora riesumano lo stesso ménage à trois, con ministri più giovani ma meno autorevoli e competenti dei tecnici. Come se gli italiani non avessero votato.
5. ”Il governo Letta pone fine a vent’anni di guerra civile fredda”. Sarà, ma a giudicare dagli inciuci ventennali, dai teneri abbracci Bersani-Letta-Alfano e dagli occhi dolci che si fanno gli ex combattenti, non si direbbe. Spaccato su nonno Marini e papà Prodi, il Pd ritrova una rocciosa compattezza su padron Silvio, da sempre al centro dei sogni erotici dei suoi dirigenti. Più che di una guerra, è la fine di una lunga relazione clandestina con l’outing liberatorio dei due amanti: “Sì, è vero, andiamo a letto da vent’anni: embè? ”.

il Fatto 1.5.13
La domanda dei democratici: “Ma siamo più coglioni degli altri?”
Il partito tramortito e le lacrime di coccodrillo sulle larghe intese
di Antonello Caporale


Si arriva al nodo dei nodi e Francesco Sanna, sardo d'azione per via del carattere votato al fare qui e ora pone sul tappeto la domanda centrale: “Siamo più coglioni di quegli altri? Siamo noi i più coglioni di tutti? ”
È una bella questione che vale un viaggio dentro palazzo Madama. Infilato nel vicolo della paura il volto di Nicola Latorre, splendido dalemiano dalle larghe vedute, benchè sicuro e convinto della linea lievissimamente teme che la furbizia, quando raggiunge un suo apice grossolano e presuntuoso, si trasformi in una devianza dell'intelligenza e che il sapore di questa avventura prenda presto il senso della fregatura. “Avverto nella pancia qualcosa, rimugino e ripenso. Hai voglia tu se non lo faccio! Ma ha senso prendersi paura? La verità è che è saltata la democrazia, è in crisi il concetto di rappresentanza, il vincolo ideologico, l'appartenenza. Dobbiamo saperlo e interrogarci prima che sia troppo tardi”. Come sapete lo scaltro Latorre non ha mai la cravatta fuori posto e benchè scosso anche oggi ha il volto presente all'obbligo di giornata: molto istituzionale. Il Senato è un vascello di seconda classe, si arriva con i bagagli già ammaccati dal viaggio iniziato. Dopo le prime quindici ore di responsabilità l'esecutivo di servizio alla nazione ha fatto salire a bordo la prima polemichetta: che fare dell'Imu? Annuncio poi precisazione, poi ri-precisazione. Perciò qui il clima è marcatamente rilassato, si naviga utilmente a vista ed è tutto nel solco immortale della Democrazia cristiana. Infatti ci si arrende alla maestà della riflessione di Riccardo Villari: “Corpi che vagano, compreso il mio. Si potrebbe chiudere il palazzo e destinarlo a museo. Non cambierebbe niente. Qua si registra il già avvenuto, il già visto. Siamo notai certificatori, troppi e quindi inutili”. Lei è perfetto per un posto da sottosegretario allora: “Non chiedo niente, sarà la provvidenza a incaricarsi del caso”.
SI VEDE che è tempo democristiano, c’è un ritmo antico della giornata che non può desiderare altro che la pennichella. Niente a che vedere con l'adrenalina berlusconiana che riempiva i corridoi di urla e spintoni, e squadre di parlamentari contrapposte e veramente belligeranti. Oggi no. La maggioranza è tranquilla e si disperde verso il prosciutto e la mozzarella, il piatto freddo alla buvette. Allo sguardo resiste una macchia rossastra, il nugolo dei militi ignoti del Pd, dei caduti in battaglia, dei vinti che in lacrime si uniscono alla gioia dei vincitori. Persino Dario Franceschini, che è stato nominato ministro e vive una rinnovata felicità, ha qualcosa che non gli torna: “Ci penso anch’io, eccome se mi rode. Ma è uno stato di necessità. Non vede? ”. Gli rode, è insoddisfatto ma continua, forse la situazione migliorerà. Ci vuole stomaco, fede, molto ottimismo. Lucrezia Ricchiuti, cooptata dal mondo dell’antimafia, espressa dalle viscere di Libera, la creatura di Don Ciotti, non ce la fa. Lei no. La paura ha già fatto novanta e ha già messo all'angolo Pippo Civati e Davide Mattiello. Troppo sprovveduti, disarmonici, distonici, si sono arresi alla prima prova di responsabilità. Cesare Damiano si è iscritto al purgatorio: ha votato col naso chiuso. Ma guardare il volto terreo di Felice Casson è la dimostrazione che la pena dev'essere infinita. Gli si stringono intorno e qualcuno appoggia la mano sulla spalla per incoraggiarlo. In fondo c’è Enrico Letta laggiù, è un amico, in fondo è del Pd. Ma gli occhi suoi, e siamo nella sfortuna più grande, cadono sul sorriso efferato di Gasparri, e la compostezza ritrovata di Silvio Berlusconi che si gode dal suo banco la performance di Schifani, il capogruppo: “Lei, onorevole Berlusconi ha dato prova di essere uno statista”. Lui ha fatto cenno con la testa e ringraziato degli applausi. “Siamo morti, sono fuori strada quelli del Pd”.
LA PATTUGLIETTA dei socialisti capitanati da Riccardo Nencini (sono tre), si ritrova nell’arsura alla fontanella del bar. Acqua per tutti e orazione funebre: “Bersani ha sbagliato tutto e la sinistra sta scivolando verso il nulla, ci stiamo annientando e siamo stati dei coglioni grandi così”. Marco Di Lello ha risposto all’interrogativo di Sanna sul chi ha fregato chi. Teniamoci su e non pensiamoci: “È un partito nato sbagliato, il concetto di inclusione ha annacquato le differenze, sostituito la passione, chiamati tutti a volgere lo sguardo verso l’obiettivo più breve, l'approdo quotidiano. Dobbiamo sbrigarci a capire che così non si va lontano e al congresso bisogna parlarne”. Il congresso? Gianni Cuperlo pensa che il congresso salverà l'anima dei peccatori. Ma qui è un popolo del peccato, e a squadrarlo appare nient’affatto pentito. Vedere Rosy Bindi stralunata, immobile dentro il corso dei corpi che si accingevano a dare la fiducia e lei, con un sospiro: “Io non ce la faccio”. Ce l’ha fatta, alla fine si è data un pizzicotto come Cesare Damiano e anche la Laura Puppato. Lei e lui, Corradino Mineo, che avrebbe voluto meglio precisare le ragioni del suo distinguo, intervenendo in aula. “Mi dispiace ma devo interromperla, il tempo a sua disposizione è terminato”, ha detto Grasso, il presidente, inflessibile. E tutto è finito. Il governo di Enrico Letta, sono Davide contro Golia ha detto, ha salutato festoso ed è partito per la valle di Giosafat.

il Fatto 1.5.13
La sinistra delusa che aspetta Rodotà
Al convegno Fiom Landini guarda a Grillo e lancia il reddito di cittadinanza
“Siamo un sindacato non un partito”
Il professore atteso sabato all’Aquila


C’è attesa per quello che potrebbe avvenire a sinistra del Pd dopo il varo del governo Letta. Lo dimostrano le scadenze previste per le prossime settimane. Lo dimostra la partecipazione al convegno della Fiom, ieri a Bologna, su “Lavoro e welfare”. L’iniziativa, convocata un mese e mezzo fa, ricorda Landini, doveva vedere la partecipazione, tra gli altri, di Stefano Rodotà, dell’ex ministro Fabrizio Barca e di Sergio Cofferati. Quasi l’annuncio di un evento politico. Forte, quindi, la delusione nello scoprire l’assenza del professore candidato alla Presidenza della Repubblica e l’intervento in video, dalla propria scrivania al ministero delle Finanze, dove è tornato a lavorare, di Fabrizio Barca. L’intervento, dal vivo, di Sergio Cofferati, centrato su un’analisi molto netta delle politiche di austerità e di rigore, non ha invece offerto novità sul fronte politico.
È TOCCATO quindi al segretario della Fiom, Maurizio Landini, offrire qualche appiglio con una relazione-replica al discorso del nuovo premier Enrico Letta e l’’annuncio di un’opposizione esplicita al governo. Opposizione avviata con la manifestazione del 18 maggio a Roma. Ma il piatto più succolento, Landini, l’ha offerto quando, leggendo la lettera con cui Stefano Rodotà si è scusato dell’ assenza, ha annunciato che il professore parlerà dal palco di San Giovanni. E non sarà solo. Accanto a lui anche Gino Strada e, se accetterà, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. “Non vogliamo fare un partito” ha ribadito per l’ennesima volta Landini, “siamo un sindacato fondato sui principi di autonomia e indipendenza”. Però la Fiom “ambisce ad avere un’idea generale” e, in questa fase, punta a costruire un “campo”, una rete di iniziativa sindacale e sociale nella quale chi ha da costruire un’iniziativa politica la possa costruire.
È facile notare che gli ospiti di San Giovanni sono nomi sponsorizzati dal Movimento 5 Stelle per la Presidenza della Repubblica. La preoccupazione di doversi rivolgere a quel mondo, ormai, caratterizza stabilmente l’iniziativa della Fiom. “Nel confronto con i partiti avuto il 9 giugno dello scorso anno - spiega al Fatto Landini, prima di avviarsi a Palazzo Re Enzo, in piazza Maggiore - avevamo di fronte i segretari del centrosinistra. Oggi ci sono gli 8 milioni e mezzo di elettori che hanno votato Grillo e quelli che si sono astenuti”. La proposta centrale di ieri, non a caso, è stato il “reddito di cittadinanza”, un sostegno da offrire a “disoccupati e inoccupati” che non sostituisca la cassa integrazione “pagata da imprese e lavoratori”. Il reddito, spiega Landini, come forma per “riunificare un mondo del lavoro distrutto dalla crisi e ridare forza a un sindacato che altrimenti non ha più futuro”.
LANDINI al sindacato e Rodotà alla politica? È il desiderio di molti. Il professore, in effetti, ha spiegato che “nel sistema sociale e politico italiano si sta aprendo un vuoto pericoloso, che può essere colmato soltanto grazie al ritrovamento di un filo comune da parte del variegato mondo del lavoro e della sinistra”. Ma se ha accettato “con molto entusiasmo” di parlare nella piazza del 18 maggio “per un progetto di cambiamento sociale e politico”, ha anche ribadito che non vuole “prestarsi a operazioni di breve respiro”. Il suo impegno prioritario, del resto, è rivolto alla “Costituente dei beni comuni”, una rete di giuristi e movimenti sociali che si ritroverà sabato 4 maggio a L’Aquila. Un luogo frequentato da molti “grillini” con poche venature politiciste e rivolto all’“azione sociale”. Se una sinistra dovrà rinascere, il rapporto con la novità-Grillo, sarà decisivo.

l’Unità 1.5.13
Torna Cofferati, in una sinistra senza big
Bologna, folla al convegno della Fiom sul welfare, ma i soggetti del probabile partito danno forfait: Sel, Barca, Rodotà
Landini: «Troppa frammentazione»
di Rachele Gonnelli


Il Salone del Podestà è stracolmo già di prima mattina e così i loggiati e il cortile interno del Palazzo di Re Enzo, fino a piazza Maggiore. Almeno un migliaio di persone, giovani e non. Sono lì in piedi anche sotto un accenno di pioggia sottile per il seminario organizzato a Bologna sulla riforma del welfare e il reddito di cittadinanza. O anche no, non solo, forse aspettano un’indicazione, un riferimento e un riconoscimento. In effetti si parla di reddito minimo garantito che poi non è proprio la stessa cosa di quello di cittadinanza, ma non si entra poi troppo nel dettaglio, a parte la netta bocciatura del reddito familiare per i bisognosi, proposta del premier Letta e si parla anche di nuove povertà e della vergogna che comporta, dei cassonetti rovistati dagli anziani e della contrattazione erga omnes, del contratto unico dell’industria, della rappresentanza del lavoro. E anche di molto altro, del governo Letta, dei valori identitari della sinistra, degli interessi in gioco.
Ma Stefano Rodotà non c’è, ha mandato una letterina di scuse, «per ragioni personali» scrive «mi dispiace molto». In ogni caso garantisce la sua presenza sul palco della manifestazione Fiom a Roma del 18 maggio. Non è neanche l’unico a sottrarsi alla platea affamata di leader di Bologna. Anche Fabrizio Barca è presente solo virtualmente, ha mandato un video-messaggio dal suo studio, proprio ieri ha ripreso servizio al ministero del Tesoro finita la sua esperienza da ministro e non può assentarsi, anche perché dovrà poi farlo spesso per il già annunciato tour nei circoli del Pd di mezza Italia ad esporre il suo manifesto sul partito nuovo, che intanto illustra via webcam. Oltre alle defezioni c’è poi un altro assente: Sinistra ecologia e libertà. Tra gli oratori, che pure spaziano tra studenti e associazioni, comitati per la scuola pubblica e intellettuali militanti come Marco Revelli, nessuno viene da Sel, che pure sul reddito di cittadinanza ha raccolto 50mila firme e ha una proposta di legge di iniziativa popolare fresca di consegna nelle mani della presidente della Camera Laura Boldrini. «Non abbiamo l’intenzione di escludere nessuno, dialoghiamo con tutti noi, in piena autonomia», chiarisce nella sala stampa Landini. E però a sua volta non potrà partecipare alla manifestazione lanciata da Nichi Vendola l’11 maggio, sempre a Roma, per lanciare il nuovo soggetto della sinistra. Proprio quel giorno deve partecipare a Foggia al coordinamento dei delegati Fiat per il corteo del 18 e Marchionne non dà permessi in più.
Giorgio Airaudo, ex numero due della Fiom ora parlamentare di Sel, arriva un po’ in ritardo, zaino in spalla, tra il pubblico. «Il fatto è che questo incontro è stato organizzato un mese fa spiega quando Barca era alla Coesione sociale nel governo Monti. In un mese il quadro è cambiato, molto, e sulla Fiom si sono addensate aspettative eccessive, viene strattonata da tutte le parti per fare il partito che non c’è. Ma è un sindacato, con una sua credibilità e una sua elaborazione, pone domande ma tocca alla politica rispondere. E sarebbe assurdo aprire l’ennesimo cantiere per l’ennesima sigla».
Landini nella relazione e poi nelle conclusioni chiarisce, rispondendo a sollecitazioni della sua base, che la Fiom non ha una logica di alleanze se non sociali, ma non intende neanche chiudersi, diventare un alveare corporativo. «Siamo di fronte a una frantumazione tremenda, a una competizione tra poveri che ci sta facendo arretrare anche sul piano sindacale e della democrazia. La Fiom con i suoi 112 anni possiede ancora la sua vivacità e ambisce alla trasformazione della società, senza volersi però sostituire ai partiti». Landini non pensa che ciò che manca sia «qualcuno di intelligente a Roma», ma ricostruendo un tessuto di partecipazione, dai territori e dai luoghi di lavoro, un tessuto capace di elaborare e condividere, «perché episodi di violenza, anche contro se stessi, avvengono quando le persone non credono più di poter trovare collettivamente le soluzioni ai propri problemi».
Resta, a portare il testimone di Landini, Sergio Cofferati, oggi europarlamentare Pd, tornato per la prima volta a Bologna ieri per riconciliarsi con la città-laboratorio della sinistra nelle vesti di ex segretario della Cgil, quella dei tre milioni e della battaglia a difesa dell’articolo 18, la cui cancellazione «ha solo portato licenziamenti», ribadisce. Ha giudizi duri verso il governo dei tecnici, che «non aveva un’idea di equità e ha approfondito la crisi penalizzando le fasce più deboli», verso il presidente della Bce che «dice che il welfare europeo deve essere superato», e anche verso il neonato governo Letta, per ora colpevole di parlare di lavoro senza declinarlo nei diritti. E per il resto da misurare alla prova dei fatti. Per Cofferati la sinistra, Pd incluso, deve «uscire dall’afasia», si riparta suggerisce riproponendo «ognuno a casa propria i valori identitari». Quelli, intanto, che la Fiom eredita da Di Vittorio.

La Stampa 1.5.13
Dai democratici addio alle primarie
Sergio Cofferati è furioso e non lo nasconde
di Federico Geremicca


C’è qualcuno, come Sergio Cofferati, che è furioso e non lo nasconde: «Ora vogliono abolire le primarie per l’elezione del segretario, ed è una follia». «In quella trincea - continua Cofferati - non possiamo arretrare nemmeno di un millimetro». C’è qualcun altro, come Arturo Parisi, ulivista della primissima ora, che prima che furioso si dice sconcertato. «Si toccano le primarie che io e Ilvo Diamanti abbiamo definito il “mito fondativo” del Pd: si pensa ad una riforma, insomma, che snatura completamente il Partito democratico». E c’è chi, come Beppe Fioroni, non si appassiona al tema solo perché ha da lanciare un allarme su una questione che viene prima: «Dobbiamo eleggere subito un segretario, altrimenti rischiamo di restare sotto le macerie del governo Berlusconi-Letta: il Pd deve fare sentire la sua voce, con orgoglio, e anche in dissenso dall’esecutivo, se necessario. Poi parliamo di primarie, che il tempo c’è...».
E questa, dunque, è l’ultima novità che va maturando in casa Pd: niente più primarie per eleggere il segretario del partito e forse niente più primarie (ma questa seconda scelta dipenderà molto dal tipo di legge elettorale con la quale si tornerà al voto) forse niente più primarie, dicevamo, nemmeno per selezionare i candidati al Parlamento. Evocate come elemento costitutivo del Partito democratico ed esaltate come lo strumento capace di favorire il massimo di partecipazione dei cittadini, le primarie rischiano insomma di finire in soffitta. Un po’ in ragione delle cose che vanno male, un po’ per l’irrompere del ciclone-Renzi, la scelta sembra fatta: ma non passerà senza polemiche, a quanto par di capire sondando gli umori qua e là.
Prima di tutto, però, occorre spiegare le ragioni alla base dell’avviata marcia indietro. Per quanto riguarda le primarie per l’elezione del segretario (le prime le vinse Veltroni, nel 2007; le seconde Bersani, nel 2009) la motivazione è che avendo il Pd intenzione di tornare indietro e sdoppiare le figure di segretario e di candidato-premier (tutt’ora, per Statuto, coincidono) sarà scelto con le primarie solo il candidato per Palazzo Chigi, mentre il segretario tornerà ad essere eletto dal Congresso. Diverso invece il discorso (meno definito) per quanto riguarda la scelta dei parlamentari da candidare. Qui pesa, inutile dirlo, la prova fornita dai gruppi del Pd durante le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: centinaia di franchi tiratori in campo, sull’onda della protesta che arrivava dalla periferia prima sul nome di Marini e poi sulla mancata convergenza su quello di Stefano Rodotà.
Che l’«insubordinazione» potesse nascondere problemi e dissensi politici, è ipotesi finita presto (e consolatoriamente) in secondo piano: l’indice accusatore si è infatti subito puntato verso la debolezza e la permeabilità degli eletti, perchè scelti - appunto - con le primarie. Pochi hanno annotato l’evidente contraddizione con quanto affermato prima e dopo la campagna elettorale da Pier Luigi Bersani: con le primarie abbiamo ucciso il Porcellum, i nostri parlamentari li scelgono i cittadini ed abbiamo i gruppi più giovani, rinnovati e pieni di donne. Ma tant’è... La revisione pare avviata anche su questo fronte, e poco importa che il Pd sembri somigliare sempre più alla famosa tela di Penelope, dove regole, alleanze e criteri di selezione della classe dirigente vengono fatti e disfatti continuamente, sotto gli occhi perplessi di iscritti ed elettori.
«Si danno questi cambiamenti per scontati, ma non se ne è mai discusso», lamenta Parisi. È vero, ufficialmente il tema non è ancora stato posto, ma solo per la buona ragione che ricordava all’inizio Fioroni: e cioè che c’è da rimettere in piedi, in qualche modo, un gruppo dirigente. E qui, se possibile, la faccenda diventa ancor più confusa e delicata. Che fare? Un segretario-traghettatore fino al Congresso? Un segretario «vero», da insediare ora e confermare in autunno? O addirittura un semplice «comitato di garanti»?
Tutte le ipotesi sono in campo: ma non tutti i candidati in campo sono disposti ad accettare qualunque ipotesi. Guglielmo Epifani, di buona mattina su un divanetto di Montecitorio, per esempio dice: «Sono interessato solo se c’è una prospettiva: non è che voglio finire imbalsamato fino a ottobre e poi chi si è visto si è visto». Gianni Cuperlo è perplesso, molto tentato di tirarsi fuori. E Anna Finocchiaro, nome forte e in ascesa, attende di capire verso che soluzione si va. La confusione è grande, ma una decisione andrà pur presa: «Ci vuole subito un segretario, per un mese, per tre, per sei, decidano loro, ma ci vuole subito - insiste Fioroni -. Berlusconi la fa da padrone e non abbiamo una voce che dica ai nostri come la pensa il Pd. Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di un partito forte e autonomo, altrimenti rischiamo di diventare il partito del governo: una cosa che era inaccettabile già ai tempi della vecchia Dc...».

Repubblica 1.5.13
Epifani, ex leader della Cgil ora deputato: costretti al cambiamento mentre dovremo sostenere il governo
“Si è spezzato il rapporto con la base ora discussione vera o non c’è futuro”
intervista di Umberto Rosso


Onorevole Epifani, disponibile ad assumere il ruolo di reggente nel Pd?
«Se ne parla molto nei giornali ma non c’è nulla di concreto. Sono un semplice parlamentare, uno dei tanti pronto a dare una mano a rigenerare il Pd. Un partito molto scosso, che se non cambia rischia di avere poco futuro».
E come cambiare? Che ruolo dovrà avere il Pd rispetto al governo Letta?
«La difficoltà sta proprio nel fatto che il cambiamento dovrà avvenire in contemporanea con un profilo di governo che ci vede coinvolti in prima persona. Da una parte il Pd non potrà che sostenere con lealtà l’esecutivo, dall’altra dovrà per forza mantenere un nuovo radicamento nel tessuto sociale del paese. Perché quello che si è consumato è proprio il rapporto tra insediamenti sociali, circoli, giovani e i luoghi della decisione. E’ questa frattura che va ricomposta».
Partito di lotta e di governo?
«Una vecchia espressione, quando c’era un partito forte, disciplinato, organizzato. Ora è diverso. Diciamo che accanto ad un sostegno pieno all’azione del governo serve un Pd molto presente dove la crisi sociale lo richiede di più. Ci sono due aspetti nel cambiamento del Pd. C’è un profilo organizzativo, perché ci sono molte cose da riformare. Ma, prima ancora, con una discussione anche molto esplicita, dobbiamo recuperare il senso dello stare assieme, la missione di questa nostra comunità».
Il Pd ha vissuto giornate sull’orlo della scissione.
«E’ scoppiata una tensione che covava da tempo, in un certo senso inevitabile in un partito molto grande, con varie posizioni politiche» .
Però con Marini e Prodi si è tramato nell’ombra.
«Episodi gravi, non bisogna essere indulgenti con noi stessi. Ma nessun intervento disciplinare può risolvere la questione se non si ritrova appunto il senso della nostra missione. Non solo rispetto al partito ma rispetto al paese. Il Pd è forse l’unico partito non personale, gerarchico, populista oggi in Italia. Insomma, un partito europeo».
Il Pd si rinnova andando più a sinistra, come chiede il suo predecessore alla Cgil Cofferati?
«Non dobbiamo smarrire l’esigenza di pensare in grande per il Pd. Occupa uno spazio molto vasto, dove convivono una cultura di sinistra, matura, europea, e culture democratiche in senso ampio. E’ questa la scommessa. Non abbiamo bisogno di scissioni, di ritrovarci con due piccole formazioni politiche. Sarebbero inevitabilmente subalterne ad altre forze».
L’alleanza con Berlusconi ha sollevato sconcerto nel partito.
«Non c’è dubbio, anche se io penso che il governo Letta è l’unica soluzione possibile. Però dobbiamo spiegarlo. Quando si va in giro e si discute magari le posizioni possono anche restare diverse ma vedo che il filo si ristabilisce».
Oggi, onorevole Epifani, è il suo primo 1° Maggio da parlamentare.
«Sì, e da semplice parlamentare sarò a Napoli, perché mi hanno molto colpito le parole del cardinale Sepe: c’è molto poco da festeggiare il 1° Maggio oggi in Italia».

Repubblica 1.5.13
Il vero padrone è il Cavaliere
di Barbara Spinelli


PROPRIO nel momento in cui prometteva il «linguaggio sovversivo della verità», il nuovo presidente del Consiglio ha riscritto a modo suo, storcendolo non poco, il mito di David e Golia. Lo voleva usare come parabola delle larghe intese e della pacificazione, quando è una storia di guerra astuta e cruenta. Ha evocato la rinuncia alle armi
del fanciullo-pastore.
Quasi quest’ultimo prefigurasse un Cristo (falso, peraltro) che porge la guancia all’avversario e per questo rifiuta l’elmo di bronzo, la corazza, la spada – cui non è abituato – portando con sé solo cinque ciottoli lisci e la fionda.
In realtà David li porta per uccidere Golia, non per schivare il duello. Golia, il gigante filisteo alto sei cubiti e un palmo, cadrà a terrà ferito dal primo ciottolo. Il colpo finale, la decapitazione, il giovane pastore l’assesta con la spada, che sguaina dal fodero dell’avversario atterrato. L’atto fa di lui il pretendente al trono di Saul.
Chi ha visto il dipinto di Caravaggio ricorderà la resa dei conti, l’inorridita testa amputata di Golia, che ancora grida. Difficilmente gli verranno in mente le grandi intese magnificate da Letta alle Camere, l’era delle contrapposizioni finite, un intero ventennio di abusi di potere rimosso. Golia non è spodestato (Machiavelli direbbe non è spento): anzi, con lui si vuole difendere la Repubblica dalle avversità. È un Golia riabilitato, perfino premiato. Brandisce addirittura la spada, sull’Imu, per mostrare chi comanda in città. Nell’Antico Testamento, il gigante non è in predicato di divenire senatore a vita, o peggio presidente della Convenzione che ridisegnerà il regno e la sua costituzione. E Letta non è, come nel libro di Samuele, il temerario ragazzo che si getta nell’agone per «allontanare la vergogna da Israele»: indifferente ai fratelli che, impauriti, l’accusano di «boria e malizia», trascinato dalla fede. Nessuna boria né malizia, in Letta che apre le porte a Golia. Ma la fede qual è, dov’è? Quale convinzione forte lo spinge a esautorare il Parlamento — e i cittadini rappresentati — affidando a un organo parallelo e separato la rifondazione della politica, della Costituzione, della giustizia? Come può pensare, se non in una logica di compromissione più che di compromesso, di assegnare la regia della nuova Bicamerale nientemeno che a Golia?
La fede, Letta la possiede su punti tutt’altro che irrilevanti. Fede in un’altra Europa, unita in una Federazione dove non dominino gli Stati più potenti: Monti non osò, non credendoci. Fede in politiche che riducano diseguaglianze e impoverimento creati dalle terapie anti-crisi. Due ministri, Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni, sono competenti e determinati in ambedue i campi, soprattutto quello europeo.
È il linguaggio di verità sul patto con Berlusconi che manca. Gli italiani (compresi gli 11,5 milioni che si sono astenuti, per rassegnazione o rabbia) hanno condannato vent’anni e più di politica offesa da tornaconti partitocratici. Sono stati ignorati: la politica sarà rimaneggiata non dai loro rappresentanti ma da pochi cosiddetti saggi, di nuovo, che pretendono di sapere più degli altri per potere più degli altri.
Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono. Ne citiamo solo due: la parola riforma, sinonimo ormai di tagli ai servizi pubblici; la responsabilità, per cui la compromissione è necessità naturale che esclude ogni alternativa. Giustamente, ieri, Ezio Mauro ha scritto: «L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica» non è vittoria della politica.
Non è vera questa storia della necessità: il patto Pd-Pdl, e l’eventuale elevazione di Berlusconi a Padre Costituente o senatore a vita (in sostanza: a futuro capo di Stato) non sono necessità, ma scelte discrezionali. Per questo abbiamo evocato la post-verità di Bush jr: l’offensiva in Iraq fu presentata come guerra di necessità, quando era di scelta. L’Europa acefala ne uscì a pezzi, la Nato si rivelò arnese di Washington. Speriamo che Bonino ne prenda atto: europeismo e atlantismo non sono più la stessa cosa.
Napolitano ci ha ammoniti severamente, il 24 aprile: «Confido che tutti cooperino – e quando dico tutti mi riferisco anche in particolare ai mezzi di informazione – a favorire il massimo di distensione piuttosto che il rinfocolare vecchie tensioni». Mi permetto di difendere non solo il diritto, ma l’utilità del rinfocolamento. Che altro opporre alla riaccesa torcia del berlusconismo, se non la fiamma della critica, del No. La democrazia è compromessa, l’etica della responsabilità abusata, quando dall’agenda Pd scompare, grazie ai 101 traditori di Prodi, ogni accenno al conflitto di interessi e al dominio berlusconiano sulle tv.
Solo la disputa tra idee contrarie, solo l’Uno che si apre al due, può un po’ riavvicinare i cittadini allo Stato, alla politica. Solo se i media ridiventano quarto potere, libero da doveri di «cooperare»; se i partiti stessi smettono la perversa fratellanza con lo Stato. Solo se nasce, negli uni e negli altri, quella che Fabrizio Barca chiama «mobilitazione cognitiva»: la diatriba diffusa, non riservata a cerchie, cricche, attorno a conoscenze e pareri contrastanti. Salvatore Settis lo ricorda, nell’intervista al Secolo XIX di domenica: 30.000 associazioni cittadine, oggi, rappresentano 5-6 milioni di persone. Non son poche. Il potere negativo del sovrano popolare non muore. Proprio in questi giorni abbiamo avuto una prova, decisiva, dell’utilità della non-cooperazione con la ragion di Stato. Ne ha riferito Paul Krugman, in un articolo che dichiara defunta, almeno nelle accademie, l’Austerità (Repubblica, 27 aprile). È un dogma cui l’Europa è appesa da anni: se non cresciamo economicamente, è solo perché gli Stati sono troppo indebitati. A sfatare l’assioma: tre economisti non ortodossi dell’università di Massachusetts- Amherst (i professori Michael Ash e Robert Pollin, lo studente di dottorato Thomas Herndon) che hanno scoperto errori di computer (l’errore Excel) commessi nel 2010 dai due economisti di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart. Il dogma («i Paesi che si indebitano oltre il 90 per cento del Pil non possono crescere») è in pezzi.
Non si tratta solo di un errore Excel ma di un’ideologia, che mescola abilmente economia, politica, democrazia oligarchica: Krugman smaschera il «diffuso desiderio di trasformare l’economia in un racconto morale, in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza».
Così torniamo al governo necessario di Letta. Se le dispute e le tensioni vengono tacitate, sarà difficile sperimentare nuove vie, istituzionali e anche economiche. Cosa dice il ministro Saccomanni dell’errore Excel e della deduzione di Krugman («Ciò che il più ricco 1 per cento della popolazione desidera, diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare»)? Se l’agenda Monti non è rimessa in questione, se non si mobilitano conoscenze alternative, come superare la crisi? Se non credo nell’evidenza dei fatti scoperchiata dagli economisti dissidenti – si domanda alla fine Krugman – «Cosa sto facendo della mia vita»?

il Fatto 1.5.13
Il nuovo governo
Se la pacificazione è una vergogna
di Furio Colombo


Tutto ciò che è accaduto in questi giorni nella politica italiana appare privo di senso. Certo è privo di senso agli occhi di chi ha votato a sinistra. È accaduto questo: l’intero e vasto gruppo di deputati e senatori che erano stati eletti per contrapporsi a Berlusconi, ai suoi valori e al suo partito, improvvisamente hanno attraversato l’emiciclo e sono andati a sedersi con la parte che avevano il compito di sconfiggere. L’immagine deve essere chiara, affinchè non ci sia confusione. Non è la destra che è venuta a sinistra (fatto del resto indesiderabile e impossibile). Non è stata trovata una terra di mezzo, come in certi racconti o leggende. No, è avvenuto, in modo inequivocabile, il trasferimento sulla destra di ciò che resta della sinistra italiana (tranne il Sel e due deputati Pd). Sono state accettate persone, storie, eventi anche di poco fa, come l’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano, programmi del recente periodo elettorale, progetti per il prossimo futuro, valori.
TUTTO ciò è confermato da immagini in cui non solo scompaiono le distanze simboliche, ma si moltiplicano gli abbracci, come per provare che tutto ciò è accaduto davvero. Sarà difficile per il Pd, chiunque ne diventi il Segretario, spiegare agli elettori (che certo si sentono vittime di un misterioso inganno) perchè questo passaggio in massa da sinistra a destra è avvenuto secondo un rito detto di “pacificazione”, che invece è ovviamente una resa e, al momento, la fine della identità di un importante partito politico. Non basterà la spiegazione della emergenza, e della necessità di dare al più presto un governo all’Italia. Perchè prima bisognerebbe spiegare perchè (e chi) ha negato il voto a Romano Prodi mentre stava per essere eletto subito, e ha fatto finta di non accorgersi del nome di Rodotà, che avrebbe portato, insieme, il nuovo presidente della Repubblica e aperto un nuovo spazio per il governo. È vero, in entrambi i casi vi sarebbero stati effetti collaterali. Prodi era il simbolo stesso del no a Berlusconi. Il voto a Rodotà avrebbe escluso Berlusconi e il berlusconismo da ogni spazio politico in questa legislatura, eccetto gli infelici scatti d'ira di Brunetta, e avrebbero introdotto i Cinque Stelle a una partecipazione politica non solo di veti. E il Pd avrebbe incassato a pieno la sua prima, vera vittoria politica in vent’anni: guidare un governo immune dalle scorie berlusconiane del passato (che, come le radiazioni, avevano già pericolosamente penetrato la vita interna di quel partito) e scollarlo del tutto da quel tanto di collaborazionismo che aveva già segnato paurosamente il più importante partito di opposizione. Il voto unanime per l’eterna amicizia con Gheddafi (su proposta e progetto di Berlusconi e Maroni) può essere un esempio efficace e tetro. Ma a quel tempo Berlusconi governava. Aveva vinto le elezioni. Perchè governa adesso, co - guidando il governo di altri, dopo che le elezioni le ha perse? Perchè ha in mano la “golden share” di un governo detto “di Enrico Letta”, formalmente il vice segretario superstite del Pd, ma in realtà completamente controllato da Berlusconi e dal suo rappresentante Angelino Alfano, un replicante perfetto e succube, dal quale ci si può aspettare solo obbedienza?
QUELL’OBBEDIENZA, lo sanno tutti, è dovuta a Berlusconi, che non ha vinto nulla e comanda tutto. Ormai lo sapete che questa affermazione azzardata purtroppo è vera. Per fargli spazio si è dovuto abbattere Marini (fatto) si è dovuto abbattere Prodi (fatto), si è dovuto evitare di pronunciare il nome di Rodotà e far finta che non vi fossero altri voti in Parlamento (fatto) è stato necessario incaricare i “saggi”, per introdurre in politica il concetto di scuola-guida (fatto), interrompere le votazioni presidenziali di Camera e Senato fingendo che fossero impossibili, per costringere Napolitano ad essere ri-votato (fatto) e infine incaricare di formare il governo al dottor Enrico Letta, colto, gentile e adatto. Adatto a che cosa? Non lo sappiamo, salvo il fenomeno stupefacente della transumanza di tutto il Pd (meno due) che va sulla destra, in modo che sarebbe impossibile per gli elettori rintracciarlo, nel caso che dovessero esserci improvvise elezioni. Ma anche il ritorno alle urne non dipende più dal Capo dello Stato, come da Costituzione. Dipende da Berlusconi. Lealmente lo ha detto subito: o mi togliete l’I-MU adesso e sempre, o liquidiamo tutto. Dunque Camera e Senato hanno approvato, tra gli abbracci, un governo di Berlusconi, con Berlusconi, per Berlusconi, mettendogli in mano il telecomando. Ora l'attesa è in apparenza per la sorte dell'IMU (e di tutti i Comuni italiani). In realtà l’attesa è per certe sentenze e certi spostamenti di processi (per esempio da Milano a Brescia) e certi legittimi impedimenti (che non si possono non riconoscere a chi ha in mano il telecomando di un intero governo) per far scattare certe prescrizioni. Ormai, con il ritorno nei ruoli chiave della stretta osservanza berlusconiana, tutta la Repubblica ha un solo nemico (secondo noi, un solo combattente per la libertà) nelle istituzioni: i giudici. Quando dirigevamo L'Unità, D'Alema ci aveva avvertito: “Non farete fuori Berlusconi per via giudiziaria. Ci vuole la politica”. Eccola la politica. Dio salvi la via giudiziaria, e la Repubblica.

Repubblica 1.5.13
Il gran rifiuto del ribelle Mattiello

“No alla pacificazione di Silvio”

TORINO — Davide Mattiello, deputato del Pd, è uno dei dissidenti che hanno negato la fiducia a Letta. Ha fatto parte dell’ufficio di presidenza dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti e attualmente è presidente della Fondazione Benvenuti in Italia, da lui definita una “lobby che si occupa di politica”.
Onorevole Mattiello, perché ha scelto di uscire dall’aula?
«Mi hanno spinto la mia coscienza, la mia storia, le ragioni per le quali ho accettato la candidatura nel Pd come indipendente».
Una questione di nomi che considera inaccettabili?
«Né nomi né contenuti. Il nodo è il significato storico di questo governo. Come dicono Gelmini e Brunetta, è il tentativo di pacificare il Paese».
Qualcosa in contrario?
«No, ma il punto è un altro. La loro pacificazione significa chiudere sul piano politico la guerra cominciata con le stragi del ‘92 e del ‘93».
La vostra pacificazione invece come si ottiene?
«Vogliamo arrivarci sul piano della legalità, con l’azione della magistratura. L’Italia affonda nella corruzione, nel rapporto irrisolto politica-mafia. Se si chiude con un accordo politico, diciamo agli italiani che la furberia paga».
Ha considerato l’ipotesi di dimettersi?
«Ne ho parlato con il capogruppo Speranza. Le dimissioni sono state respinte».
(s.str.)

il Fatto 1.5.13
Davide Mattiello, Il deputato Pd di Libera
“Pacificazione? Temo giochini sulla giustizia”
di Wanda Marra


Non posso accettare il rischio che la pacificazione nazionale passi non per la giustizia, ma per il negoziato politico”. Da-vide Mattiello, neo parlamentare del Pd piemontese, una vita nell’associazione Libera, non ha votato la fiducia alla Camera. Scegliendo di uscire dall’Aula. Dopodiché ha messo a disposizione del gruppo dei Democratici a Montecitorio le sue dimissioni, che sono state respinte.
Perché questo voto?
È la mia storia, il mio impegno. Io lavoro con i testimoni di giustizia e con le vittime della mafia. L’unica forma possibile di pacificazione passa per la verità storica e giudiziaria. Non posso accettare la tesi espressa da Eugenio Scalfari nei suoi editoriali, a difesa del presidente della Repubblica Napolitano quest’estate, quando si parlava della “trattativa”. Ovvero che ci sia stata una guerra. Ma non è così, c’è stato un attacco criminale. E i politici conniventi e i mafiosi sono criminali.
Scusi, ma perché lei si è presentato col Pd?
Penso che sia l’unico partito con un progetto pesante. E i giovani parlamentari neo eletti mi fanno sperare che sia possibile continuare a pensarlo.
Sulla giustizia le parole di Letta cosa le hanno fatto pensare?
Da come mi sembra partito, c’è il rischio che questo governo faccia delle misure su giustizia e corruzione molto superficiali. E questo non va bene, perché continua a passare il messaggio che i furbi la fanno franca e i coglioni pagano.
Lei come pensa che si dovrebbe risolvere la questione Berlusconi?
Il nostro leader Renzi continua a dire che lui Berlusconi non vorrebbe vederlo in prigione, ma in pensione. Ecco, io dico che lo vorrei vedere processato. Perché continua a difendersi dai processi e non nei processi.
Non è d’accordo col premier e neanche con uno dei papabili segretari, come fa a rimanere nel Partito Democratico?
Io sono un europeista convinto, il mio riferimento è Altiero Spinelli e il mio sogno sono gli Stati Uniti d’Europa. E questo non possono realizzarlo né Sel, né Grillo.

il Fatto 1.5.13
Lucrezia Recchiuti, a senatrice Pd di Desio
“Questo governo non farà niente contro la mafia”


Non potevo votare la fiducia a questo governo. Avrei dovuto sconfessare me stessa”. Lucrezia Ricchiuti, neo-senatrice Pd viene da Desio, per 10 anni consigliere comunale dell’opposizione, poi vicesindaco. Una lunga militanza, dal Pci al Pds, ai Ds, al Pd.
Senatrice, perché il suo no?
La linea del partito è cambiata e nessuno ci ha informato.
Ma voi avete votato in direzione il via alla linea di Napolitano.
Ci hanno sempre informato a cose fatte. Come sulla candidatura di Marini al Colle. E nessuno mi ha ancora spiegato perché non andava bene Rodotà come Presidente, o perché è stato detto no alla candidatura di Zagrebelsy sulla quale alcuni stavano lavorando, la notte dopo l’affossamento di Prodi. Poi c’è la mia storia.
Ovvero?
Per anni a Desio, terra di ’ndrangheta, mi sono occupata di abusivismo e di speculazione edilizia, di discariche abusive. Poi ci siamo auto sciolti nel 2010 e dopo l’indagine “Crimine infinito” abbiamo vinto le elezioni. Berlusconi ha tenuto per anni in casa Mangano: come posso pensare che un governo che si accorda con il Pdl possa fare qualcosa contro la mafia?
Com’è arrivata in Senato?
Ho vinto le primarie
Da chi era portata?
Da nessuno. Non appartengo a nessuna corrente e sono libera di fare ciò che voglio. Come dice l’articolo 67 della Costituzione.
Perché si è candidata?
Mi sono resa conto che io e il mio Sindaco eravamo soli a portare avanti la battaglia contro la criminalità organizzata a Desio. E come noi, ci sono tanti amministratori che vanno tutelati. Volevo portare il tema della battaglia contro le mafie all’attenzione del Parlamento e del governo .
Già delusa?
Nel programma di Letta di questo problemone si fa solo un cenno.
Pensa di lasciare il Pd?
No. Magari mi butteranno fuori. Ma io continuo a fare il lavoro per cui mi sono candidata. Nel gruppo del Senato ci sono molti scontenti.
Che ne sarà del Pd?
Io spero che venga spazzata via questa classe dirigente, che ha sbagliato tutto, dalla campagna elettorale in poi.
wa.ma.

il Fatto 1.5.13
Ignazio Marino, candidato Pd a Roma
“Base scontenta, ma la gente piange per la crisi”
di Luca De Carolis


Vedo grande disagio tra elettori e iscritti al Pd, ma i problemi principali della gente sono altri: in giro per Roma incontro gente che piange dalla disperazione”. Ignazio Marino, candidato sindaco nella capitale per il centrosinistra, senatore Pd dimissionario (“La lettera di dimissioni l’ho mandata, il Senato deve approvarla”), dice di non temere contraccolpi dal caos nel suo partito: “I cittadini mi chiedono soluzioni, e io cerco di darle, studiando come un secchione e ascoltando tutti. Questo è il mio compito, al di là della politica nazionale”.
Marino, che clima respira tra la gente del Pd? Deve giustificare il partito per l’alleanza con Berlusconi?
Il disagio tra elettori e iscritti è forte. Non comprendono le strategie politiche degli ultimi tempi. Ma in generale emerge una grande stanchezza verso tutte le ideologie. Mi parlano e mi chiedono poco di massimi sistemi, e tantissimo dei problemi dei loro quartieri o di quelli personali.
Lei è in campagna elettorale da alcune settimane: dopo il flop su Prodi e il governissimo non si è fatta più difficile?
No: credo pesi il fatto che questa è una elezione amministrativa. Il vero tema sono gli effetti della crisi economica. L’altro giorno una signora è venuta da me a un appuntamento elettorale con le analisi della tiroide, perché sono un medico, e lei non ha i 300 euro per lo specialista. Incontro persone in lacrime, perché non ce le fanno ad arrivare a fine mese o non trovano lavoro.
Non teme davvero di pagare la crisi del Pd? Sul web è rivolta, anche dagli utenti romani...
Non ho timori: piuttosto, mi capita di trovarmi in imbarazzo di fronte a certe domande specifiche della gente. Quando ti chiedono quanto tempo ci vorrà a mettere i pali della luce in un quartiere lasciato a se stesso, è davvero difficile.
Il governo Letta potrà aiutare Roma? A proposito: lei avrebbe votato la fiducia?
Mi limito a fare i migliori auguri di buon lavoro al governo e a Enrico Letta. Spero di interagire con lui da sindaco di Roma.
Sinceramente: in un momento come questo, l’essere un uomo con una storia politica relativamente breve la può favorire?
Le rispondo con i dati: sono stato parlamentare per due anni come indipendente (dal 2006, per i Ds, ndr), poi sono stato rieletto con il Pd. La tessera l’ho presa solo nel 2009, poco prima di correre alle primarie nazionali.
Quindi, questo percorso la avvantaggia...
Dico che questa è la mia storia, di un medico che fa parte del Pd.
Nel partito romano sono volati stracci: il segretario è stato dichiarato decaduto, tra le polemiche. Non teme di finire in una guerra tra correnti?
No, perché a contare sono i voti di 2 milioni e 700mila cittadini, e non le logiche di qualche capo corrente, se esistono.
Quando ha sentito l’ultima volta Bersani?
Abbiamo parlato al telefono nel giorno dell’elezione di Napolitano. Gli ho chiesto consigli, perché lui ha amministrato l’Emilia Romagna.

“ripeto lo stupito, umiliato, indignato giudizio su questo governo che è governo di Berlusconi e per Berlusconi”
il Fatto 1.5.13
Bonino in casa Letta
risponde  Furio Colombo


CARO COLOMBO, sono un po’ meravigliato. Non mi dirai, con l'ostinato “Non mi piace” del “Natale in casa Cupiello” di De Filippo, che non ti va bene Emma Bonino ministro degli Esteri nel governo Letta?
Enzo

SONO DUE DISCORSI differenti, uno è quanto vale la Bonino, l'altro: di che governo stiamo parlando. Il mio giudizio personale sulla Bonino è noto e risale negli anni. Emma Bonino vale molto. Ogni volta che dovessi fare dieci nomi rispettabili e presentabili in Italia e fuori, includerei (includo sempre) il nome di Emma Bonino fra i primi tre. Ma qui stiamo parlando di un governo-Sindone. Come un lenzuolo tutt’altro che santo, tutto ciò che avvolge la ideazione, preparazione, formazione e presentazione di questo governo mostra vistose, riconoscibili, impronte di Berlusconi. Voglio essere chiaro. Ciò non toglie nulla al valore personale e politico di Emma Bonino (come non riduce di certo la qualità, nota e stimata del nuovo ministro dell'Economia Saccomanni). E neppure significa che adesso queste due figure stimate saranno berlusconiane. Ma il loro valore è inserito dentro una grande pozione salvifica da servire con urgenza al paese affinché Berlusconi eviti miracolosamente sentenze ed esclusione dai pubblici uffici (dunque dalla politica) resti “senza macchia” (pensate a che punto stiamo per arrivare ) nel casellario giudiziario e sia disponibile: a) per restare a pieno diritto a capo del suo partito e della lista elettorale Pdl in non lontane elezioni; b) buon materiale, anziano, rispettato e solido, per diventare senatore a vita; c) salire eventualmente con tutti gli onori alla Presidenza della Repubblica. Voi dite, no, questo no, dopo le notti di Arcore, il rapimento del rag. Spinelli, la compravendita di deputati, senatori e giudici. Dite che questo è impossibile. Non è impossibile se, a pochi giorni dall’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano, deciso e guidato da Angelino Alfano , lo stesso Alfano può diventare vice primo ministro e ministro dell'Interno (dell'Interno) della stessa Repubblica di cui aveva appena attaccato, anche fisicamente (con quella occupazione e cercando i giudici di stanza in stanza), la magistratura del paese. Ripeto la fiducia in Emma Bonino. E ripeto lo stupito, umiliato, indignato giudizio su questo governo che è governo di Berlusconi e per Berlusconi. Purtroppo tra le due notizie, un bravo e competente ministro degli Esteri, e il controllo di Berlusconi su tutta l'operazione, prevale la seconda notizia, che torna con più forza di prima a spingere nell'imbarazzo e nello stupore milioni di italiani. Certo, non tutti.

Corriere 1.5.13
Raid aereo di Israele su Gaza


GAZA — Vacilla la tregua tra Israele e Gaza mediata dall'Egitto: ieri un raid aereo ha ucciso un giovane palestinese. L'uomo, che abitava nel campo profughi di Shati, procedeva a bordo di una motocicletta: secondo Israele, era coinvolto nel lancio di razzi contro Eilat del 17 aprile. Per la prima volta dall'operazione Colonna di nuvola di novembre, dunque, Israele torna a ricorrere alle esecuzioni mirate. Nella stessa giornata, un colono israeliano vicino a Nablus, è stato ucciso in Cisgiordania. L'attacco è stato rivendicato dalla brigate Al Aqsa.
L'azione su Gaza non è stata una grande sorpresa. Ancora l'altro ieri il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, aveva lanciato avvisi espliciti. E ieri ha ribadito che «Israele non tollera alcuno stillicidio di attacchi: né da Gaza, né dal Sinai».
La vittima si chiamava Haitam al-Hasshal e aveva 29 anni. Per Israele, «una figura chiave del terrorismo». Molto diversa la versione palestinese che parla di una guardia di sicurezza che lavorava all'ospedale Shifa e abitava nel campo profughi.

Repubblica 1.5.13
Appello di Abu Mazen all’Italia “Ci avete aiutato all’Onu ora fate pressioni su Israele”
Il presidente palestinese: la pace dipende da Netanyahu
di Vincenzo Nigro


NAPOLI — Il presidente palestinese Abu Mazen si è goduto a lungo la cittadinanza onoraria che Napoli gli ha concesso sabato mattina. Da venerdì sera a lunedì pomeriggio se ne è rimasto in città mentre l’Italia cambiava governo. «Già mi sento napoletano! E sono molto contento che l’Italia abbia il suo nuovo governo, sono sicuro che saprà seguire i destini del popolo palestinese con la saggezza e la comprensione che l’Italia ha sempre mantenuto, confermata dal voto all’Onu favorevole alla Palestina». Il rais palestinese siede in una suite dell’hotel Vesuvio, aziona un telecomando, e dalla sala attigua entra un assistente: lui alza la mano destra con le dita a “V”, e quello gli infila una sigaretta fra l’indice e il medio, e gliela accende.
Presidente, qualcuno dei suoi funzionari teme che nel nuovo governo italiano ci siano amici troppo stretti di Israele, come il ministro degli Esteri Emma Bonino?
«Siamo felici di avere nel governo italiano un partner saggio ed equilibrato, e se in questo governo ci sono amici di Israele siamo ancora più felici. Sapranno parlare con Israele, convincerli di una cosa che tutti dicono essere vera: questa situazione di né pace-né guerra non è più sostenibile, l’Italia e l’Europa l’hanno capito, gli Stati Uniti stanno lavorando per far ripartire il negoziato. Poche settimane e vedremo».
Cosa pensa del nuovo governo di Israele?
«Ci sono ministri, alcuni vice-ministri, di orientamento profondamente radicale. Ma nonostante tutto sarà il primo ministro a decidere. Dipende dalla sua volontà: se Netanyahu vuole, i negoziati partono; e se i negoziati partono noi e gli israeliani, faremo un accordo».
Quali sono i risultati politici della vostra ammissione alle Nazioni Unite?
«Adesso la Palestina è uno Stato, anche se lo status è quello di “membro osservatore”. Ciò significa che in questo momento i nostri sono i territori di uno stato membro dell’Onu sottoposti ad occupazione. Se noi perderemo ogni altra possibilità, ogni altra speranza, potremo ricorrere alle Nazioni Unite per veder riconosciuti i nostri diritti».
Gli Usa vi hanno presentato un loro piano?
«Per ora non ci hanno presentato nulla. Quando il presidente Obama ci ha fatto visita abbiamo discusso degli aspetti politici, della sicurezza, dell’economia. Per cui la fotografia della situazione è molto chiara agli Usa: loro stanno lavorando, fra un certo periodo di tempo torneranno da noi e ci diranno se hanno avuto successo o meno,
se si potrà andare avanti».
Molti vedono l’Europa come un buon partner, pronto ad aiutare i palestinesi, a finanziare progetti di ogni tipo, ma incapace di fare politica, di contribuire a disegnare un futuro per la regione.
«Non è vero: l’Europa, o almeno alcuni paesi della Ue, stanno lavorando molto seriamente per costruire qualcosa di concreto, per aiutare gli americani
a capire meglio quali sono gli spazi di manovra, e non sprecare anche questa occasione. L’Europa ci conosce meglio degli americani, siamo vicini. Sapete meglio degli altri quali potranno essere le difficoltà a cui andremo incontro se continuerà questo stato di “né pace né guerra”, che è una condizione destinata a saltare. Avete visto cosa sta succedendo con le primavere arabe?»
Cosa succede? C’è un processo che oggi crea enormi problemi, ma potrebbe portare a maggiori forme di inclusione dei popoli nel governo dei loro Paesi.
«Queste “primavere arabe” sono state un grosso problema per i paesi in cui sono esplose: come vedete il caos sta crescendo ovunque. Dopo una rivoluzione è normale che ci sia un periodo di confusione, ma qui le cose si stanno mettendo male. I contrasti in molti paesi si stanno approfondendo, stanno per diventare irrisolvibili, le contraddizioni si preparano a diventare ancora più violente. Prendiamo l’esempio dell’Iraq, delle sue divisioni. Guardiamo alla Siria, alla guerra che colpisce il suo popolo. Queste rivoluzioni possono portare la democrazia senza distruggere quei Paesi?».
Fra i leader cancellati dalle primavere arabe c’è il rais egiziano Hosni Mubarak, un presidente per il quale lei non ha cessato di manifestare rispetto e gratitudine.
«Mubarak ci ha aiutato, molto. Sta all’Egitto decidere. Ma io non posso cancellare la storia, ha lavorato con noi, ci aiutato. Col nuovo governo abbiamo relazioni normali; lo sappiamo, sono Fratelli Musulmani, hanno un’ideologia diversa dalla nostra. Per noi non è un problema, e tra l’altro sono i mediatori della riconciliazione fra noi dell’Anp e Hamas, e continuano a lavorare su questo».
Alla fine farete un governo con Hamas?
«Il nostro governo ha rassegnato le dimissioni; abbiamo fissato un periodo di 5 settimane per formare un governo di transizione che dopo 3 mesi ci porterà alle elezioni, a Gaza e in Cisgiordania. Credo che Hamas sia ancora indecisa, spero che vogliano coinvolgersi nel processo elettorale: per il momento però non ci hanno dato risposte concrete».
Ma se non parte il negoziato con Israele cosa farete? Avete dato un tempo preciso agli americani per il loro tentativo, ma poi cosa accadrà?
«Gli americani ci hanno chiesto due mesi e mezzo. Se tutto rimarrà bloccato sappiamo già cosa proporre al nostro popolo. Non torneremo alla lotta armata, alla violenza, ma sappiamo bene cosa fare. Abbiamo delle idee, ma per il momento le teniamo per noi».

Repubblica 1.5.13
Cina
In vent’anni si sono prosciugati circa 28mila corsi d’acqua, una riserva idrica pari al Mar Nero
Sono stati trasformati in strade e ferrovie, deviati verso i distretti industriali o interrotti dalle dighe
di Giampaolo Visetti


PECHINO In Cina, grazie alla fecondazione artificiale, il panda gigante non è più un animale in via di estinzione. A scomparire sono invece i fiumi e la seconda economia mondiale rischia un’emergenza idrica superiore a quella dell’Africa. Lo spettro è la desertificazione, capace di condannare alla sete buona parte dell’Asia, India compresa. Monsoni estivi e alluvioni non bastano più a ricostituire le riserve di acqua saccheggiate da città, industrie e aziende energetiche. A confermare il disastro che ognuno vede con i propri occhi è il primo censimento idrico nazionale, pubblicato a Pechino.
Vent’anni fa, secondo i dati comunicati dalle regioni, in Cina si contavano 52mila fiumi. Nel 2013 i corsi d’acqua rimasti sono circa 24mila: risultano cioè scomparsi 28mila fiumi, con una superficie pari a quella del Mississippi. Non è solo una questione di quantità: il dramma è che, a precipitare, è anche la portata dei fiumi sopravvissuti. Nei primi anni Novanta, la superficie media di flusso era pari a 155 chilometri quadrati, mentre oggi non supera i 45 chilome-tri, oltre un terzo in meno. Fiume Giallo e Fiume Azzurro, corsi un tempo maestosi con le sorgenti in Tibet, in alcuni tratti rimangono asciutti per lunghi mesi, innescando una catastrofe naturale. I ghiacciai himalayani si sciolgono anche al di sopra dei 7mila metri, i bacini delle regioni interne si svuotano, si alza il livello dell’Oceano e le immense pianure alluvionali di Cina e India rischiano di dover abbandonare la coltivazione di riso e tè. Sotto accusa l’urbanizzazione e l’industrializzazione, a cui è corrisposto il boom demografico.
Negli ultimi dieci anni le aree metropolitane cinesi si sono estese di 5mila chilometri quadrati, quelle produttive di oltre 3mila, mentre la popolazione sfiora quota 1,4 miliardi. Le autorità di Pechino si difendono spiegando che la scomparsa dei fiumi è frutto di un cambio dei rilevamenti statistici, oltre che di un cambiamento climatico globale. Per gli scienziati invece l’estinzioneshock dei corsi d’acqua è direttamente collegata al modello di sviluppo del Paese. «Più accelerava la crescita del Pil — ha ammesso il vicedirettore delle risorse idriche, Huang He — più scomparivano laghi e fiumi. Il nesso è da chiarire, ma il dato purtroppo è certo». A inaridire più rapidamente sono infatti le megalopoli, come Pechino, Shanghai, Shenzhen e Chongqing, le regioni industriali del “made in China”, dal Guangdong allo Zhejiang, quelle minerarie, dalla Mongolia Interna al Qinghai, e quelle interne, colpite dalla migrazione forzata della popolazione contadina.
Peter Gleick, presidente dell’Istituto per il Pacifico, al South China Morning Post ha detto che dopo l’era del rischio-estinzione animale si apre per l’umanità quella più pericolosa dell’allarme- estinzione idrica, «prologo di uno sconvolgimento del pianeta». Perdere 28mila fiumi in vent’anni, circa 4 al giorno, per la Cina è come vedere prosciugato un mare interno con una riserva idrica simile a quella del Mar Nero. Colpa della cementificazione urbana, dei letti fluviali trasformati in strade e ferrovie, dei tor-
renti deviati verso i distretti industriali, o dei grandi fiumi interrotti dalle dighe, come quella delle Tre Gole, che devono alimentare le centrali elettriche più potenti del mondo.
Per gli ecologisti però a «spingere l’Asia verso la soglia del non ritorno» sono la deforestazione e la desertificazione innescata dello sfruttamento minerario di aree-chiave per l’equilibrio idrogeologico. «L’idea — dice Wang Yan, docente di conservazione delle acque all’università Fudan di Shanghai — era che il territorio rappresentasse una risorsa inesauribile a disposizione per l’arricchimento della popolazione che lo abitava. Nel nome del “miracolo cinese” tutto è stato lecito. Oggi però, dopo l’aria irrespirabile e l’acqua tossica, scocca l’ora del prosciugamento fluviale: a questo punto costruire altre metropoli è semplicemente inutile». In vent’anni la Cina ha raso al suolo una superficie boscosa equivalente a quella della Germania e le miniere del Nord sconvolgono un’area pari a quella della Spagna, consegnandola alla sabbia del Gobi. Le piogge si sono dimezzate e città come Pechino, per non chiudere i rubinetti, sono costrette a investimenti miliardari per invertire il corso dei fiumi-icona della nazione. Per i mercati cinesi sarà l’acqua il bene più rivalutato del prossimo ventennio e le multinazionali già si contendono canali, pozzi, giacimenti e sorgenti in Himalaya. «Ammesso che nel 2033 — conclude il censimento idrico — in Cina l’acqua sia ancora un elemento pacificamente disponibile».

Corriere 1.5.13
Celebrazioni per Machiavelli I cinque secoli del «Principe»


Il Comune di San Casciano in Val di Pesa, in provincia di Firenze, celebrerà i 500 anni dalla stesura del Principe di Niccolò Machiavelli con un viaggio culturale lungo 365 giorni, per riscoprire e valorizzare il significato del trattato politico più letto al mondo, sospeso tra passato e contemporaneità. Nel corso de «L'anno del Principe» il trattato rivivrà attraverso i luoghi, i documenti, la cultura, la tecnologia, la didattica, l'ambiente. Per presentare l'iniziativa, domani, è prevista una conferenza stampa a Firenze, a Palazzo Strozzi Sacrati di piazza del Duomo 10.

Corriere 1.5.13
Zeta-Jones torna in clinica: disturbo bipolare


C atherine Zeta-Jones (43 anni, nella foto con il marito Michael Douglas, 68) è ricoverata in una clinica specializzata per curare i disturbi maniaco-depressivi di cui soffre dal 2011. Lo ha reso noto la portavoce Sarah Fuller, aggiungendo che l'attrice ha preso la decisione di sua spontanea volontà per sottoporsi a cure regolari così da «gestire la sua salute in modo ottimale». Zeta-Jones è tornata sugli schermi Usa lo scorso febbraio con il thriller Effetti collaterali, accolto con successo di critica e pubblico, da oggi nelle sale italiane. Secondo il sito TMZ, Catherine Zeta-Jones ha iniziato lunedì scorso le cure, che dovrebbero durare 30 giorni. La sindrome maniaco-depressiva, o disturbo bipolare, è un problema dell'umore caratterizzato da episodi alternati di euforia e depressione, per il quale l'attrice è già stata curata in passato. Zeta-Jones, vincitrice di un Oscar nel 2002 con Chicago, spiegò che a provocarle il disturbo fu lo stress legato alla diagnosi di cancro alla gola e alle terapie a cui fu costretto a sottoporsi il marito Michael Douglas.

Corriere 1.5.13
Caccia grossa al bosono di Higgs
di Giovanni Caprara


«Nel Duemila, inaspettato (ma fino ad un certo punto), arrivò il colpo di scena, quello che mi avrebbe fatto penare e mi avrebbe mostrato la faccia più difficile del potere nella ricerca».
Luciano Maiani, dopo aver guidato l'Istituto nazionale di fisica nucleare italiano, era da tre anni al governo del Cern, il centro europeo di Ginevra, e ancora nel 1994 la comunità dei fisici europei aveva deciso durante un convegno a Losanna la costruzione di una nuova macchina acceleratrice per esplorare quel «deserto» che qualcuno ipotizzava esserci dopo i risultati ottenuti fino a quel momento nel mondo dell'infinitamente piccolo. In realtà c'erano almeno due obiettivi che si volevano conquistare per dare compiutezza al disegno della natura (il modello standard) fino allora concepito grazie anche agli esperimenti condotti con il Large Electron-Positron (Lep), l'acceleratore che correva per 27 chilometri nel tunnel sotterraneo del centro ginevrino facendo scontrare tra loro elettroni e positroni. Ma per andare oltre e trovare i «semi delle cose» (Lucrezio), «occorreva uccidere Lep, il re del Cern, per costruire un gigante più grande, Lhc (Large Hadron Collider). L'avevo fatto. C'era molta enfasi, ma è stato davvero un passaggio intriso di grande emotività. Oltre che di un esercizio cocciuto di razionalità». Così Maiani ricorda il difficile momento che lo vide arbitro del futuro della fisica europea (e non solo) nel libro A caccia del bosone di Higgs scritto con Romeo Bassoli (Mondadori, pp. 196, 17).
Alla teoria del modello standard mancava un tassello, l'ultima prova, cioè il bosone di Higgs diventato più noto come particella di Dio, che garantisce la massa alle altre particelle elementari. Ma, assieme, nel deserto immaginato, dovevano esserci pure altre particelle fino ad allora sconosciute che si conciliavano con lo stesso bosone garantendo un'idea di supersimmetria nel microscopico mondo dell'atomo. Anche Maiani aveva contribuito a questa prospettiva battezzata confidenzialmente Susy (da Super Symmetry). Per conquistare i due obiettivi occorreva, però, una macchina ben più potente del Lep ottenibile scontrando fra loro nuvole di protoni con una tecnologia mai impiegata in grandi dimensioni e ricreando l'energia sprigionata una frazione di secondo dopo il Big Bang, quando l'universo ebbe origine. Concepita agli inizi degli anni Ottanta, il suo grande sostenitore divenne Carlo Rubbia, appena approdato alla direzione del Cern, conseguito il Premio Nobel. Ovviamente anche gli americani puntavano allo stesso obiettivo e si mettevano all'opera avviando la realizzazione di un super acceleratore addirittura più grande e potente di quello allo studio a Ginevra. La sorte non era comunque benigna. Si scavava un tunnel in Texas per ospitarlo ma i costi fuori controllo spinsero il presidente americano Bill Clinton a cancellarlo lasciando i fisici d'oltreoceano smarriti e consapevoli di aver imboccato la via di un temporaneo tramonto in favore dell'Europa.
Altrettanto, nel laboratorio a cavallo tra Francia e Svizzera, non tutto filava liscio: i bilanci scricchiolavano, il ritardo si accumulava. Maiani dedica un puntiglioso resoconto per dimostrare valutazioni iniziali improprie, qualche mancata decisione opportuna e, infine, il riassetto dell'ambizioso progetto. Lo spettro americano era stato allontanato. Quando tuttavia si trattò di avviare la costruzione di Lhc le resistenze di coloro che volevano far sopravvivere la vecchia macchina Lep rimanevano notevoli. «Feci mettere a verbale — scrive Maiani — che, se la situazione non si fosse risolta in una settimana, sarei sceso con il tronchese nel tunnel per porre personalmente fine ad ogni possibile equivoco». Così si arrivò al giorno dell'accensione, il 10 settembre 2008, seguendo, tutti con il cuore in gola, i primi passi del viaggio iniziale dei protoni sconfiggendo il fantasma della creazione di un buco nero e conseguente fine del mondo che il lato oscuro di Internet aveva diffuso. Il 4 luglio 2012 il famoso annuncio atteso da mezzo secolo: il bosone di Higgs era stato catturato. «Ma è solo il primo passo verso una nuova fisica», conclude Luciano Maiani nel suo libro che ben documenta una grande impresa della scienza e della tecnologia europee, soddisfatto di aver pilotato verso il ritorno nel Vecchio Continente il fulcro della fisica mondiale. E così sarà per decenni.

La Stampa TuttoScienze 1.5.13
È scritta nel Dna l’invasione che mutò la storia d’Europa
“Così crollò la prima civiltà continentale dei signori dell’agricoltura, 4500 anni fa”
I vincitori Il popolo che conquistò l’Europa ha lasciato molte tracce: da qui la definizione di «Cultura del vaso campa­ niforme»
di Gabriele Beccaria


Trentanove scheletri possono bastare per riscrivere la storia degli europei? Wolfgang Haak, genetista della University of Adelaide, in Australia, è convinto di sì. Sequenziando il Dna di questo gruppo di progenitori, ha scoperto che le nostre origini sono molto più recenti di quanto pensassero gli archeologi della
scuola classica, non ancora in simbiosi con le provette. Gli europei - sostiene - sono figli di un popolo relativamente giovane, oltre che sofisticato e aggressivo, anche se molti misteri rimangono.
Il Vecchio Continente - ripete la vulgata - è da sempre una terra di lente migrazioni e invasioni repentine. Fin dal passato più ancestrale. Si sa che una prima ondata decisiva si verificò tra 40 e 35 mila anni fa, quando dall’Africa si materializzarono tante tribù di cacciatori-raccoglitori. La calma apparente della storia che non conosceva ancora testimonianze scritte sarebbe stata rotta solo da un altro tsunami, quello scatenato dai primi agricoltori. Settemila anni fa, provenienti dal Medio Oriente, scalzarono dalla scena i vecchi padroni e introdussero i primi regni centralizzati, approfittando della loro conoscenza della natura e di inedite competenze tecnologiche e militari. Finora molti studiosi pensavano che il «Grande gioco» dei popoli rivali si riassumesse così. E invece Haak - racconta su «Nature Communications» - ha introdotto un ulteriore colpo di scena.
Dai suoi scheletri - veri e propri archivi biologici, rinvenuti nella Germania orientale e appartenenti a un’epocachiave che va dal Neolitico antico all’Età del Ferro - è arrivato alla conclusione che nel periodo tra 6 mila e 4 mila anni fa si verifica un cambiamento genetico improvviso: bastano alcuni secoli (un soffio in base ai tempi dilatati del Genoma) e una serie di geni che erano «standard» negli organismi degli europei tendono a estinguersi e lasciano spazio ad altri. Concentrandosi sul Dna mitocondriale - le informazioni che fanno funzionare le batterie delle cellule e che si trasmettono, inalterate, per linea materna - Haak ha annunciato che si tratta del cosiddetto aplogruppo H.
Detta così, può sembrare una notizia da super-specialisti, ma fa impressione anche a chi non ha familiarità con i laboratori che quel pacchetto di mutazioni, rimasto relativamente raro per millenni, di colpo, diventi predominante. E non molla più la presa nel Genoma. Tanto che nel XXI secolo è ancora presente in quasi il 45% degli abitanti del Continente. Il che significa - ragiona il gruppo guidato da Haak - che milioni e milioni di individui discendono da un ristretto clan genetico che avrebbe preso il sopravvento intorno a 4500 mila anni fa, all’incirca quando in Egitto prendeva forma la piramide di Cheope. E non è un caso che l’epopea della grande invasione che il Dna custodisce nella sua doppia elica si incastri con numerose evidenze archeologiche. La prevalenza dell’aplogruppo H è infatti contemporanea con la fine della civiltà degli agricoltori - nota tra gli addetti ai lavori come «Cultura della ceramica lineare» - e con l’affermazione di quella che gli anglosassoni definiscono «Beaker culture», la «Cultura del vaso campaniforme».
In poche centinaia di anni i signori dei vasi si espandono dagli altipiani della Penisola Iberica e dilagano nelle foreste della Germania. Tanto che l’archeologo Vere Gordon Childe, già negli Anni 50 del secolo scorso, li aveva definiti «una popolazione di invasori dediti alla guerra, dalle abitudini autoritarie e con una predilezione per le armi di metallo e gli ornamenti». Oggi gli studiosi australiani ammettono che c’è ancora molto da capire. Quella popolazione che, probabilmente, cancellò la prima civiltà paneuropea, è in realtà un concentrato di enigmi, i cui successi si intrecciarono con veloci metamorfosi sia nella cultura materiale sia in quella immateriale, dagli utensili al linguaggio. E anche con una presunta serie di catastrofi, indotte sia da mutazioni climatiche sia da pandemie. Il collega di Haak, Alan Cooper, sogna di riportare alla luce altre firme genetiche e chiosa così: «La caccia a ciò che accadde veramente resta aperta».

Wolfgang Haak Paleobiologo: È RICERCATORE PRESSO LA UNIVERSITY OF ADELAIDE (AUSTRALIA)"
IL SITO : WWW.ADELAIDE.EDU.AU/DIRECTOR Y/WOLFGANG.HAAK

Andrea Fagiolini, psicoterapeuta
La Stampa TuttoScienze 1.5.13
“Sei nel panico? Ecco perché”
Dietro gli attacchi c’è un doppio meccanismo, nascosto nell’amigdala del cervello
di Daniele Banfi


Helen (chiamiamola così, con un nome di fantasia) è una donna dotata di una caratteristica che tutti, nel bene o nel male, avremmo voluto possedere almeno una volta: l’assenza totale del sentimento di paura. Una situazione che purtroppo le rende la vita impossibile, perché la paura - quella autentica, cioè fisiologica - è assolutamente necessaria alla sopravvivenza.
Helen è capace di stare tranquilla nella gabbia di un leone inferocito, di non avere nessuna reazione di fronte a un serpente nascosto nella borsa, di sorridere a un rapinatore che le punta una pistola alla tempia. Ha una malattia che condivide con poche altre persone al mondo, ma che, inaspettatamente, potrebbe condizionare il trattamento futuro degli attacchi di panico. Ad affermarlo è uno studio, di prossima pubblicazione su «Nature Neuroscience», ad opera degli scienziati della University of Iowa. Perché per la prima volta in assoluto Helen, nonostante la patologia, è stata colta inaspettatamente da un attacco di panico.
Come spiega Andrea Fagiolini, direttore del Dipartimento interaziendale di Salute mentale all’Università di Siena, «mentre l’assenza di paura, nota con il nome di «malattia di Urbach–Wiethe», è una patologia rarissima, gli attacchi di panico sono un disturbo sempre più diffuso nella popolazione. Secondo le statistiche più recenti, a soffrirne sarebbe quasi il 3,5% della popolazione mondiale. Una malattia caratterizzata da intenso disagio, attacchi d’angoscia, terrore di perdere il controllo, continua preoccupazione della possibilità di sperimentare nuovi attacchi, tendenza ad evitare quei luoghi dove gli attacchi stessi si sono verificati o potrebbero verificarsi, oltre a una serie di sintomi «forti», come batticuore, difficoltà a respirare, vertigini, senso di estrema debolezza, tremori, sudorazione, formicolii, dolori al petto e un’incontrollabile paura di morire». Per quanto temuto, l’attacco arriva di solito del tutto inaspettato e a volte, nei casi più gravi, può presentarsi molte volte nell’arco di una giornata. Una situazione di invalidità, poiché la persona, oltre che durante la manifestazione della patologia, vive in un perenne stato di ansia in attesa dell’attacco successivo. E infatti all’inizio della malattia i pazienti si recano in continuazione al pronto soccorso, costringendo anche i familiari a stressanti e quasi continue emergenze.
«Oggi - continua Fagiolini - la strategia migliore per curare questo genere di disturbi prevede un duplice approccio. Da un lato c’è quello relativo alla psicoterapia, per esempio cognitivo-comportamentale, volta a razionalizzare l’attacco per poterlo affrontare e sconfiggere attraverso tecniche di desensibilizzazione. Dall’altro c’è l’approccio farmacologico, non indipendente dal primo: attraverso la somministrazione di “vecchi” farmaci come le benzodiazepine è possibile attenuare immediatamente i sintomi dell’attacco di panico e attraverso interventi con farmaci antidepressivi - che funzionano anche contro l’ansia- è possibile prevenire nuovi attacchi». Approcci validi, che consentono di curare la malattia con discreto successo, ma che, in base agli ultimi risultati pubblicati dagli scienziati statunitensi, potrebbero subire in futuro ulteriori e notevoli miglioramenti. Perché grazie ad Helen (e ad alcune persone che soffrono della stessa malattia), si è scoperto che il meccanismo che porta alla genesi degli attacchi di panico è diverso da quanto si pensava finora.
«Ad oggi - spiega Fagiolini - una delle teorie più accreditata, che spiega come si originano gli attacchi, è quella che vede come protagonista l’amigdala, una porzione del cervello implicata in particolar modo nell’elaborazione delle emozioni e della paura. Si era sempre pensato che una sua iperattivazione fosse alla base dell’attacco di panico. Un’ipotesi suffragata dal fatto che le persone che presentano danni all’amigdala, in particolare la sua distruzione - come avviene nel caso di Helen e delle persone affette dalla malattia di Urbach–Wiethe - sono immuni dal sentimento di paura».
Una teoria che, però, alla luce dello studio pubblicato su «Nature Neuroscience», potrebbe subire notevoli cambiamenti. Il motivo è presto detto: nonostante i danni all’amigdala, le persone affette dalla malattia, che pure erano rimaste indifferenti ad esperienze esterne che avrebbero terrorizzato chiunque, sono state colpite da attacchi di panico. Come? Studiando in modo più approfondito la patologia, gli scienziati statunitensi hanno fatto inalare loro una miscela di ossigeno ed anidride carbonica al 35% che ha innescato l’attacco. Un risultato che ha lasciato impressionati gli studiosi, che mai si sarebbero aspettati una situazione del genere. Come interpretare, quindi, il risultato?
«Quanto accaduto - continua Fagiolini - insegna che l’amigdala, a differenza di quanto si pensava, può svolgere un duplice ruolo. Nel caso dello studio l’attacco di panico è stato scatenato dall’eccesso di anidride carbonica nel sangue, in modo più violento, intenso e frequente di quanto osservato in un gruppo di controllo. Ciò significa che, se l’amigdala funziona bene, può inibire il panico dovuto a stimoli interni. Quando è danneggiata, come nel caso dello studio, il controllo viene meno. Al contrario, invece, quando lo stimolo è esterno - come quando ci si ritrova in una situazione di pericolo -, il danno all’amigdala rende immuni dalla paura generata da eventi esterni».
Risultati che costringono ora gli scienziati a ripensare la funzione di questa piccola ma fondamentale porzione del cervello che ha la forma di una mandorla (in latino amygdala significa mandorla). Anche se lo studio necessiterà di ulteriori indagini, qualora la nuova teoria risultasse fondata è possibile pensare a nuovi approcci nel trattamento degli attacchi di panico. «Avendo scoperto questa duplice funzione, si potranno sviluppare farmaci che agiscano, in modo molto più selettivo, sui circuiti cerebrali dell’amigdala. Non solo - conclude Fagiolini -. Alla luce di questi risultati si apre la prospettiva di trattare il disturbo attraverso nuove tecniche di neuromodulazione, come la stimolazione magnetica transcranica, un approccio indolore ancora poco utilizzato ma dalle grandi potenzialità, soprattutto se sarà possibile calibrarlo meglio in base alle informazioni ottenuti da studi come quello americano».

Andrea Fagiolini Psicoterapeuta
È DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE ALL’UNIVERSITÀ DI SIENA
IL SITO : WWW.PSICHIATRIA UNIVERSITARIASENESE.ORG/

La Stampa TuttoScienze 1.5.13
“Lasciate che i gay si sposino Anche la psicologia ha detto sì”
di Monica Mazzotto


«Non esistono motivazioni scientifiche valide per proibire i matrimoni omosessuali». Più chiaro di così. È la dichiarazione resa dalla Apa, l’American psychological association, la più importante associazione di psicologi Usa, di fronte alla Corte Suprema, interpellata per giudicare, entro giugno, due casi fondamentali per i diritti omosessuali. Il primo riguarda il dubbio di incostituzionalità per il divieto dei matrimoni gay in California e il secondo sfida la legge federale, che definisce il matrimonio esclusivamente come l’unione tra un uomo e una donna. Dottor Clinton Anderson, lei è a ca­ po del dipartimento dell’Apa che si occupa di queste tematiche, noto come Lgbt, Lesbian, gay, bisexual and transgender concerns office: quali sono gli studi che vi hanno spinto a esprimervi così nettamen­ te a favore dei matrimoni gay? «La nostra affermazione si basa sull’analisi di molte ricerche condotte dagli Anni ’50 a oggi e che hanno confrontato coppie eterosessuali e coppie omosessuali. Ancora non possiamo paragonare coppie sposate omo ed eterosessuali, perché, negli Usa, il matrimonio gay è consentito solo in alcuni Stati (il primo è stato il Massachusetts, nove anni fa). Gli studi su cui ci siamo basati comparano coppie dello stesso sesso a coppie eterosessuali e non hanno trovato significative differenze sui motivi che rendono le coppie felici o infelici, di successo o insuccesso, soddisfatte o insoddisfatte».
Non ci sono davvero differenze? «L’unica differenza emersa è che la longevità delle coppie omosessuali potrebbe essere leggermente più breve di quella eterosessuale. Ma dobbiamo cercare di capire le motivazioni: le coppie sposate ricevono un forte incoraggiamento sociale a rimanere unite e inoltre, per divorziare, devono affrontare barriere sia legali sia sociali. Al contrario le coppie omosessuali, ma anche le coppie eterosessuali non sposate, non sono supportate da questi sistemi legali e sociali. Il matrimonio quindi può influenzare la durata di un rapporto e può essere un incoraggiamento a rimanere insieme. Per questo, finché non ci saranno studi su coppie omosessuali sposate, i dati non possono essere paragonati e non abbiamo motivi per pensare che la longevità di una relazione sia correlata all’orientamento sessuale».
La longevità è l’unica differenza? «Ovviamente ci sono differenze di genere. Gli uomini e le donne nelle loro relazioni sono diversi. Negli Usa gli uomini sono più inclini ad avere relazioni al di fuori del rapporto ufficiale e le donne sono più inclini a occuparsi della casa e dei figli. Queste differenze di genere vanno rapportate alla tipologia di rapporto: si è osservato che nelle coppie omosessuali c’è un maggiore equilibrio dei ruoli, per esempio nelle mansioni di casa o nel contributo alla vita di coppia». Ma quali vantaggi, rispetto a una convivenza, derivano dal matrimo­nio di una coppia gay? «Una vasta serie di ricerche su coppie sposate eterosessuali ha evidenziato come il matrimonio porti numerosi benefici non solo sociali, legali ed economici, ma anche psicologici. Crediamo che non vi siano motivi validi per non poter estrapolare gli stessi risultati per le coppie omo. Ed è verosimile che anche per loro e per i figli ci sarebbero gli stessi benefici». Con la Francia, dove è passata la leg­ge sui matrimoni omosex, sono 14 i Paesi, oltre ai nove Stati Usa, dove due persone dello stesso sesso pos­ sono sposarsi: quanto contribuisce la scienza a cancellare tabù e stereoti­pi? «Ci sono molte ricerche psicologiche che spiegano quali siano i fattori nel cambiamento d’opinione rispetto a un problema. Ma, tra questi, la conoscenza del problema stesso non ha la maggiore influenza». «E i figli di coppie gay sono come tutti gli altri» Quali sono, allora, gli elementi decisivi? «L’interagire, il condividere le vite delle persone, il ridurre le proprie ansie grazie a questa vicinanza, il comprendere e l’empatia: sono queste le chiavi che consentono un reale cambiamento di giudi­ zio. Penso, però, che il ruolo della conoscenza e della scienza sia importante, perché costringono le persone a confrontare le proprie convinzioni con dei dati di fatto. Così non ci si può più nascon­ dere dietro l’idea che esistano delle differenze».
In Italia un sondaggio Istat ha evidenziato che il 43,9% degli intervistati si dice d’accordo sui matrimoni gay, mentre solo il 20% sull’adozio­ ne da parte di una coppia omosessuale. L’ Apa, invece, insieme con l’American academy of pe­diatrics, si è dichiarata favorevole anche al­ l’adozione: su quali basi? «Premetto che c’è grande differenza tra Usa ed Eu­ropa. Da noi è più facile per le coppie omosessuali reclamare i diritti relativi alla paternità o alla ma­ternità. In molti Stati è possibile l’inseminazione artificiale per coppie lesbiche, l’utero in affitto per le coppie gay e anche l’adozione da parte del com­pagno omosessuale del figlio di uno dei due. In questo campo sono state fatte numerose ricerche, prendendo in considerazione diversi parametri, quali valutazioni psichiatriche, intelligenza, com­ portamenti problematici, autostima, e c’è sempre stata unanimità nei risultati: non esiste relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e alcun ti­ po di disagio emotivo, sociale e psicologico dei bambini».
Ma i bambini di coppie «non convenzionali» non rischiano qualche forma di emarginazione? «Può essere un problema, ma avviene con minore frequenza di quanto si creda. L’importante è far parte di una comunità, perché la comunità non at­ tacca mai se stessa. Avere un senso di appartenen­za aiuta l’accettazione. Il vero problema è il bulli­ smo nei confronti di tutti i bambini, non solo dei figli di genitori gay. Se si riuscisse a ridurlo, tutte le altre questioni scomparirebbero».

La Stampa TuttoScienze 1.5.13
Se la materia cade l’antimateria cadrà all’insù?
Misurata la massa degli atomi di anti­idrogeno
di Barbara Gallavotti


Negli ultimi giorni due esperimenti al Cern di Ginevra hanno contribuito a chiarire la natura dell’antimateria. In realtà la sovversiva signora si tiene ancora stretto il più grande dei misteri, cioè il perché sia così rara nell’Universo. Ma non è più l’esotica creatura ipotizzata da Paul Dirac nel 1930. Fra l’altro, ormai da decenni è stata addomesticata e a lei dobbiamo l’esistenza della Pet, il sistema diagnostico che funziona appunto grazie agli antielettroni.
L’antimateria è formata da particelle identiche a quelle che costituiscono la materia, solo dotate di cariche opposte. L’elettrone, per esempio, ha come controparte l’antielettrone, detto anche positrone (con carica elettrica positiva anziché negativa), mentre il protone si specchia nell’antiprotone (con carica elettrica negativa) e così via. Le antiparticelle si formano spontaneamente in molti fenomeni cosmici, ma in genere hanno vita brevissima. Basta che si incontrino con le comuni e corrispondenti particelle di materia perché si annichilino, trasformandosi in un lampo di energia. Al Cern, però, i fisici dell’esperimento «Alpha» sono riusciti da tempo nell’impresa di creare e mantenere in vita per qualche istante degli atomi di anti-idrogeno. E in un articolo pubblicato oggi su «Nature Communications» hanno annunciato di aver messo a punto una procedura per capire come l’antimateria reagisce alla gravità.
In effetti, come si sarebbe comportata la mela di Newton se fosse stata di antimateria? Sarebbe caduta sulla testa dello scienziato o avrebbe fatto la bastian contraria, schizzando verso l’alto? La gravità è una forza fondamentale ed è cruciale capire come rispondono le antiparticelle. Per farlo, però, occorre affrontare difficoltà tecniche enormi. Nel test «Alpha» gli atomi di anti-idrogeno sopravvivono brevemente perché sono racchiusi in una sorta di gabbia formata da campi elettromagnetici. Per capire come reagiscono alla gravità occorre «spegnere» la gabbia e osservare cosa avviene prima che l’antimateria si dissolva. Con un’accortezza: al momento del «via» gli antiatomi devono essere sostanzialmente fermi, perché altrimenti la loro energia cinetica li spingerebbe a movimenti casuali in tutte le direzioni dello spazio e sarebbe impossibile distinguere l’effetto della forza di gravità. Per fermare un atomo c’è un solo modo: raffreddarlo, avvicinandosi allo zero assoluto, pari a-273°. Stando alle prime indicazioni ottenute, l’antimateria reagirebbe alla gravità esattamente come la materia, e non in modo opposto. Il che in fondo è quello che i fisici ritenevano più probabile. Ma per avere una conferma occorrerà ripetere il test.
Dicevamo che il maggiore mistero riguardo l’antimateria sta nella sua rarità. Secondo le ipotesi più accreditate, subito dopo il Big Bang materia e antimateria si sarebbero formate in uguale misura, per poi iniziare ad annientarsi reciprocamente. In teoria il processo avrebbe dovuto portare all’annichilazione completa di entrambe, tuttavia si sono verificate delle asimmetrie e grazie ad esse è sopravvissuta un po’ di materia (quella che forma le stelle, i pianeti, i nostri corpi e ciò che conosciamo). I fisici sanno da tempo che in parte, ma solo in parte, queste asimmetrie sono dovute a piccole differenze tra il comportamento delle particelle e quello delle antiparticelle. Nei giorni scorsi l’esperimento «LHCb», sempre al Cern, in uno studio su «Physical Review Letters» ha confermato di avere osservato la minuscola ma cruciale differenza nel caso di particelle chiamate «mesoni Bs», per le quali era stata solo ipotizzata: è un risultato importante, che però non risolve la questione. La quantità di materia nel cosmo, infatti, è superiore a quella che dovrebbe esserci tenendo conto delle asimmetrie tra materia e antimateria. Insomma, l’antimateria è una vicina di casa della cui vita conosciamo sempre di più, ma qualcosa sul suo passato ci sfugge.

Jeffrey Hangst Fisico: È PROFESSORE DI FISICA ALLA AARHUS UNIVERSITET (DANIMARCA) E PORTAVOCE DELL’ESPERIMENTO «ALPHA» AL CERN DI GINEVRA
IL SITO :HTTP://ALPHA.WEB.CERN.CH/"

Repubblica 1.5.13
Elogio del coraggio da Gandhi alle Pussy Riot
di Salman Rushdie


TROVIAMO più semplice, in questi tempi confusi, ammirare la prodezza fisica che il coraggio morale, cioè il coraggio del pensiero o dei personaggi pubblici. Un uomo, con il cappello da cowboy, scavalca una transenna per aiutare le vittime dell’attentato di Boston mentre gli altri fuggono, e noi acclamiamo il suo coraggio, come acclamiamo il coraggio dei militari che tornano dal fronte, o di quegli uomini e donne che lottano per sconfiggere malattie o infortuni invalidanti.
Si fa fatica a vedere politici coraggiosi di questi tempi, con l’eccezione di Nelson Mandela e Daw Aung San Suu Kyi. Forse ne abbiamo viste troppe, forse siamo diventati troppo cinici sugli inevitabili compromessi del potere. Non ci sono più Gandhi o Lincoln in circolazione. Gli eroi degli uni (Hugo Chávez, Fidel Castro), sono gli spauracchi degli altri. Non concordiamo più così facilmente su cosa significhi essere buoni, avere principi, essere coraggiosi. Quando un leader politico prende decisioni coraggiose – come ha fatto l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy quando ha deciso di intervenire militarmente in Libia per sostenere gli insorti contro il regime di Gheddafi – quelli che dubitano sono numerosi quanto quelli che approvano. Il coraggio politico, oggigiorno, è quasi sempre ambiguo.
Cosa ancora più strana, siamo diventati diffidenti verso coloro che prendono posizione contro gli abusi del potere o contro i dogmi.
Non è sempre stato così. Gli scrittori e gli intellettuali che si opponevano al comunismo, Solzenicyn, Sakharov e gli altri, erano tenuti in altissima considerazione. Il poeta Osip Mandel’shtam fu ammiratissimo per il suo Epigramma di Stalin del 1933, in cui descriveva senza timori il temuto leader – «gli enormi scarafaggi che ridono sul labbro superiore» – anche perché quella poesia provocò il suo arresto e successivamente la sua morte in un Gulag.
Più di recente, nel 1989, l’immagine di un uomo con due buste della spesa che sfidava i carri armati di piazza Tien An Men diventò quasi istantaneamente un simbolo mondiale di coraggio.
Poi, a quanto sembra, le cose cambiarono. L’«uomo del carro armato» è stato quasi completamente dimenticato in Cina, e i manifestanti filodemocratici, anche quelli che morirono nel massacro del 3 e 4 giugno, sono stati ridefiniti successivamente dalle autorità cinesi come una massa di controrivoluzionari. La battaglia per la ridefinizione continua, oscurando o almeno confondendo le nostre idee sul giudizio da dare delle persone «coraggiose». È il trattamento che usano le autorità cinesi nei confronti dei loro contestatori più famosi: le accuse di «sovversione» contro Liu Xiaobo e di presunta evasione fiscale contro Ai Weiwei sono un tentativo deliberato per occultare il loro coraggio e dipingerli come criminali.
L’influenza della Chiesa ortodossa che in Russia è tale che le ragazze del collettivo Pussy Riot condannate al carcere sono percepite da gran parte della popolazione russa come delle piantagrane immorali perché hanno inscenato la loro famosa protesta dentro una chiesa. La ragione di quella protesta – l’eccessiva vicinanza della Chiesa ortodossa russa al presidente Vladimir Putin – è passata inosservata agli occhi dei loro numerosi detrattori e la loro iniziativa non è stata vista come un atto di coraggio, bensì come un’azione sconveniente.
Due anni fa, in Pakistan, l’ex governatore del Punjab, Salman Taseer, difese una donna cristiana, Asia Bibi, condannata ingiustamente a morte in virtù della severissima legge contro la blasfemia del Paese asiatico; per questa presa di posizione Taseer è stato assassinato da una delle sue guardie del corpo. L’assassino, Mumtaz Qadri, ha avuto grandi elogi ed è stato inondato di petali di rosa quando è comparso in tribunale. L’assassinato, Taseer, ha ricevuto grandi critiche e l’opinione pubblica si è schierata contro di lui. Il suo coraggio è stato cancellato dalle passioni religiose. L’assassino è stato definito eroe.
Nel febbraio del 2012 un poeta e giornalista saudita, Hamza Kashgari, ha pubblicato tre tweet sul profeta Maometto: «Il giorno del tuo compleanno, dirò che ho amato il ribelle che è in te, sei sempre stato fonte di ispirazione per me e che non mi piace l’alone di divinità che ti circonda. Non pregherò per te». «Il giorno del tuo compleanno, ti trovo dovunque mi giri. Dirò che amo degli aspetti di te, che ne odio altri, e che molti altri ancora non li capisco». «Il giorno del tuo compleanno, non mi inchinerò a te. Non ti bacerò la mano, ma la stringerò come si fa fra eguali, e ti sorriderò come tu sorriderai a me. Ti parlerò come a un amico, niente di più».
In seguito Kashagari ha dichiarato che quei tweet avevano lo scopo di «rivendicare il suo diritto» alla libertà di parola e di pensiero. Ha trovato scarso supporto nell’opinione pubblica, è stato condannato per apostasia e molte voci si sono levate a chiedere che venga giustiziato. È ancora in galera.
Anche gli scrittori e intellettuali dell’Illuminismo francese sfidarono l’ortodossia religiosa del loro tempo, creando il concetto moderno di libero pensiero. Consideriamo Voltaire, Diderot, Rousseau e gli altri come eroi intellettuali. Tristemente, pochissime persone nel mondo islamico direbbero la stessa cosa di Hamza Kashgari.
Questa nuova idea – l’idea che gli scrittori, gli studiosi e gli artisti che si schierano contro l’ortodossia o il bigottismo siano da biasimare perché turbano la popolazione – si sta diffondendo rapidamente, perfino in Paesi come l’India, che un tempo andavano fieri delle loro libertà.
Negli ultimi anni il grande pittore indiano Maqbool Fida Husain è stato costretto a esiliarsi a Dubai e a Londra, dove è morto, per aver dipinto nuda la dea indù Saraswati (anche se basta guardare le antiche sculture indù della dea per vedere che viene spesso raffigurata con gioielli e ornamenti, ma altrettanto spesso senza vestiti).
L’acclamato romanzo di Rohinton Mistry Un lungo viaggio è stato eliminato dai programmi di studio dell’Università di Mumbai perché gli estremisti locali contestavano il suo contenuto. Lo studioso Ashis Nandy è stato attaccato per aver espresso opinioni non ortodosse sulla corruzione delle caste inferiori. E in tutti questi casi l’opinione ufficiale – con cui molti commentatori e una fetta sostanziosa della cittadinanza sono d’accordo, a quanto sembra – è stata sostanzialmente che gli artisti e gli studiosi in questione erano causa del loro male. Persone che in altre epoche sarebbero state celebrate per la loro originalità e la loro indipendenza di pensiero, si sentono dire sempre più spesso: «Mettetevi seduti che fate oscillare la barca».
Nemmeno gli Stati Uniti sono immuni a questa tendenza. I giovani militanti del movimento Occupy sono stati denigrati da più parti (anche se le critiche si sono un po’ stemperate dopo il lavoro efficacissimo lavoro di soccorso in seguito all’Uragano Sandy). Intellettuali controcorrente come Noam Chomsky e il defunto Edward Said sono spesso stati liquidati come pazzi estremisti, individui «antiamericani» e nel caso di Said perfino, in modo assurdo, apologeti del «terrorismo» palestinese. (Si può essere in disaccordo con le critiche di Chomsky agli Stati Uniti, ma si deve riconoscere che ci vuole coraggio per alzarsi in piedi e urlare queste critiche in faccia al potere. Si può non essere filopalestinesi, ma non si può chiudere gli occhi sul fatto che Said ha criticato Yasser Arafat con la stessa veemenza con cui ha criticato gli Stati Uniti).
È un periodo sgradevole per chi, come noi, crede nel diritto di artisti, intellettuali e semplici cittadini indignati di spingersi oltre il limite e prendersi dei rischi, riuscendo a volte a cambiare il nostro modo di vedere il mondo. L’unica cosa che possiamo fare è riaffermare l’importanza di questo tipo di coraggio e cercare di fare in modo che queste persone oppresse – Ai Weiwei, le ragazze delle Pussy Riot, Hamza Kashgari – siano giudicate per quello che sono: uomini e donne in prima linea per la libertà. Come farlo? Firmando petizioni contro il trattamento a cui vengono sottoposte, partecipando alle proteste. Dichiarando pubblicamente la nostra posizione. Ogni piccolo frammento è importante.
© 2013, (Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 1.5.13
L’originale missione dell’antropologo americano Andrew Irving

Gira per Manhattan e interroga i passanti: “Studio la vita degli altri”
Il cacciatore di pensieri svela i fantasmi della mente
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Clarissa Dalloway, la protagonista dell’omonimo libro di Virginia Woolf, passeggia per Bond Street a Londra e ricorda la sua dolce vita in campagna, poi incontra un reduce della Prima Guerra Mondiale e si rattrista. Di colpo cambia umore. La nostra testa funziona così: fluttua da un’emozione all’altra, influenzata dai segnali esterni che si mischiano con i ricordi e le esperienze che abbiamo appena vissuto. Una porta solitamente chiusa, che ora un antropologo dell’Università di Manche-ster, Andrew Irving, prova ad aprire con il suo esperimento. Una ricerca che lo spinge a caccia di pensieri, ad accalappiare i fantasmi della mente: «Il cervello ama il soliloquio, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando stiamo in compagnia di altri, non smettiamo mai di parlare a noi stessi. Ma di solito queste conversazioni restano nascoste, come scritte con l’inchiostro invisibile: io ho provato a scovarle».
L’esperimento va in scena a Manhattan e ha un titolo che evoca il film girato qualche anno fa da Woody Allen, Francis Ford Coppola e Martin Scorsese: New York Stories, con la postilla “la vita degli altri cittadini”. Irving gira per la città, va nei caffè, si ferma sulle panchine dei parchi, scende nella metropolitana, insegue il brusio «delle mille voci sommerse», che lui vuole decifrare. Quando vede un soggetto che gli interessa lo ferma e gli chiede: «Scusi, lo so che è una richiesta insolita ma mi potrebbe dire a cosa stava pensando prima che io la disturbassi?». Qualcuno lo prende per un folle e lo scansa infastidito, ma in molti «più di quanti potessi immaginare», oltre un centinaio durante un anno di lavoro, si fermano. E accettano pure di mettersi una cuffia collegata ad un registratore e di parlare mentre tornano a fare quello che stavano facendo. Irving li riprende da lontano con una videocamera. Lui non può sentire quello che dicono.
Spesso non si vede nemmeno la loro faccia, sono presi di spalle o viene inquadrata solo una parte del loro corpo. L’effetto è allo stesso tempo naturale e oggettivo, dopo un po’, inevitabilmente, le persone si dimenticano di essere cavie: «Da sempre, la scienza tenta di entrare nelle nostre teste: c’è l’analisi con le sue sedute, sono stati studiati i diari e gli appunti che la gente lascia, ma il mio esperimento vuole essere più diretto, il più vero possibile». Una peripatetica trascrizione del flusso di coscienza, come la definisce il sito Salon.
C’è Meredith, che cammina lungo Prince Street, una delle vie più alla moda Downtown: cerca un negozio di cd, va veloce. Poi qualcosa le ricorda Joan, un’amica che le ha appena rivelato «in maniera brutale di avere un tumore». Ci sono poche possibilità che la donna riesca a vincere la ma-lattia, Meredith prova a trattenere le lacrime, poi non ci riesce: «È incredibile pensare che non ci sarà più». Singhiozza. Come è successo mille volte anche a noi, quando ci sorprende per strada un pensiero doloroso «suggerito da un gesto di una persona che incontriamo, da un suono, da una voce». E poi, come è successo mille volte anche a noi, Meredith si distrae guardando un bar pieno di gente e torna a cercare il negozio che non trova. È la signora Dalloway di Virginia Woolf. Siamo noi: «Non ci sono censure o tagli, mi interessa tutto quello che le persone dicono/pensano: da dove si trova un buon posto dove mangiare al senso della vita».
Nei video infatti c’è anche chi, come Thomas, passeggia sul Manhattan Bridge e si lancia in un’analisi socioeconomica, con tanto di digressioni sulla migrazione dei lavoratori di colore dal Sud agricolo al Nord Industriale. Poi, qualcosa lo blocca: l’immagine di suo padre e sua madre ai tempi della Grande Depressione. Il tono della voce cambia, non sta più parlando al microfono ma a se stesso. C’è un altro ragazzo che esce dalla casa del fidanzato, gira attorno all’isolato, più va avanti più si arrabbia, pensa alle scelte importanti della vita che ha sbagliato e ripete a raffica: «O lo accetti o te ne vai, o lo accetti o te ne vai».
Tutti in fila su questo lettino dello psicanalista grande come una metropoli: «Noi passiamo da uno stato d’animo all’altro anche quando non mandiamo segnali esterni: siamo felici o tristi anche senza risate e lacrime. Io ho voluto scandagliare tutto questo, fotografare le fantasie più segrete». Sino a quando incontrerà qualcuno che, con una vecchia citazione, dirà no alla moderna radiografia dell’anima: «Vuoi sapere tutta la verità? Beh, proprio tutta no».

Repubblica 11.5.13
Elogio del libro. I libri hanno bisogno di noi
Così i libri si specchiano in noi
Anticipazioni Il rapporto “intimo” di autentica “devozione” tra un testo letterario e il suo pubblico nel nuovo saggio di George Steiner
di George Steiner


I più grandi lettori di Sofocle e di Shakespeare sono gli attori e gli sceneggiatori che animano le parole. Imparare una poesia a memoria è come incontrarlo a metà strada nel viaggio ogni volta sorprendente della sua venuta al mondo. In una “lettura ben fatta” (Péguy), il lettore lo rende qualcosa di paradossale: un’eco che riflette il testo e contemporaneamente entra in sintonia con esso attraverso le percezioni, i bisogni e le sfide che lo caratterizzano. I nostri momenti d’intimità insieme con un libro, dunque, sono a tutti gli effetti dialettici e reciproci: leggiamo il libro, ma, più profondamente forse, è il libro a leggere noi.
Ma perché l’arbitrio, la natura sempre discutibile di questi momenti d’intimità? I testi che ci trasformano possono essere, sul piano sia formale sia storico, delle banalità. Come un ritornello alla moda, il romanzo poliziesco, la notizia trascurabile, l’effimero può presentarsi d’improvviso alla nostra coscienza e penetrare nella profondità di noi stessi. Il canone dell’essenziale varia a seconda dell’individuo, della cultura, ma anche della fase della vita. Vi sono libri considerati capolavori durante l’adolescenza e che in seguito diventano illeggibili, o altri improvvisamente riscoperti sulla scena letteraria o nella vita privata.
La chimica del gusto, dell’ossessione, del rifiuto è strana e indecifrabile quasi come quella della creazione estetica. Individui molto simili tra loro per le origini, la sensibilità o l’ideologia in comune possono adorare il libro da tutti detestato, considerare kitsch ciò che altri considerano un capolavoro. Coleridge parlava di hooked atoms della coscienza che s’intrecciano nelle forme più imprevedibili; Goethe parlava delle “affinità elettive” — ma sono soltanto immagini.
Le complicità tra l’autore e il lettore, tra il libro e la lettura, sono imprevedibili, volubili, hanno radici misteriose come quelle dell’eros. O, forse, dell’odio; esistono infatti testi indimenticabili che ci trasformano e che arriviamo al punto di odiare: a teatro non sopporto, e tantomeno posso insegnare, l’Otello di Shakespeare, la versione di Verdi invece mi sembra, sotto diversi punti di vista, la più coerente, quasi un miracolo dell’uomo.
Il paradosso dell’eco vivificante tra libro e lettore, dello scambio vitale improntato alla reciproca fiducia, è legato a particolari condizioni storiche e sociali. “L’atto classico della lettura”, secondo la definizione che ho cercato di fornire nel mio lavoro, richiede silenzio, intimità, cultura letteraria (literacy) e concentrazione. In mancanza di tali elementi, una lettura seria, una risposta ai libri che sia anche responsabilità è inconcepibile.
Leggere, nel vero senso del termine, una pagina di Kant, una poesia di Leopardi,
un capitolo di Proust, significa avere accesso a momenti di silenzio, alla salvaguardia dell’intimità, a un certo livello di formazione linguistica e storica pregressa. E poi avere a portata di mano strumenti che aiutino nella comprensione quali dizionari, grammatiche
e opere d’importanza storica e critica. Dall’epoca dell’Accademia ateniese fino a metà del XX secolo, molto schematicamente, una condizione simile coincideva con la definizione di cultura. In misura maggiore o minore, essa costituì sempre il privilegio, il piacere e l’obbligo di un’élite. Dalla biblioteca di Alessandria alla cella di san Girolamo, dalla torre di Montaigne all’ufficio di Karl Marx presso il British Museum, le arti della concentrazione — che Malebranche definiva come la «devozione naturale dell’animo» — hanno sempre avuto un ruolo centrale nella vita del libro.
È sotto gli occhi di tutti che ai giorni nostri queste arti hanno ridotto il proprio campo d’azione, diventando un “mestiere” universitario sempre più di competenza degli specialisti. Tra gli adolescenti americani una percentuale superiore all’ottanta per cento non è capace di leggere in silenzio; nel sottofondo vi è sempre musica più o meno amplificata. L’intimità, la solitudine che rende possibile un incontro approfondito tra il testo e la sua ricezione, tra la lettera e lo spirito, oggi è una singolarità eccentrica, psicologicamente e socialmente sospetta.
Inutile soffermarsi sul declino del nostro insegnamento secondario, sul disprezzo che esso nutre verso l’apprendimento classico, verso lo studio mnemonico. Ormai nelle nostre scuole è ampiamente diffusa una forma di amnesia pianificata.
Contemporaneamente, il formato del libro in sé, la struttura del copyright, dell’edizione tradizionale, della distribuzione in libreria, come sapete meglio di me, sono in pieno mutamento, per non dire che si stanno rivoluzionando. Già oggi gli autori possono raggiungere i propri lettori direttamente su Internet, chiedendo loro d’instaurare un canale di comunicazione diretto (così è stato “pubblicato” l’ultimo John Updike). Sono sempre più numerosi i libri che si leggono online, sullo schermo di un computer, o che si acquistano via web. Ottanta milioni di volumi della Biblioteca del Congresso, a Washington, sono disponibili (soltanto) in forma elettronica.
Nessuno, per quanto bene informato, può prevedere che cosa ne sarà del concetto stesso di autore, di testualità, di lettura personale. Non vi è alcun dubbio che si tratti di evoluzioni veramente elettrizzanti, che implicano liberalizzazioni economiche e opportunità sociali di grande rilievo. Ma sono contemporaneamente la causa scatenante di gravi perdite. Sempre più, libri scritti, stampati, pubblicati e acquistati “alla vecchia maniera” apparterranno alle “belle lettere”, a quello che i tedeschi definiscono, pericolosamente, Unterhaltungsliteratur, “letteratura d’intrattenimento”. Sempre più la scienza, l’informazione e il sapere in tutte le sue declinazioni saranno trasmessi e memorizzati online ricorrendo a strumenti elettronici. Segnali di crisi già presenti nella nostra cultura e nelle nostre lettere (literacies) non potranno che accentuarsi. Più che mai abbiamo bisogno dei libri, ma anche i libri hanno bisogno di noi. Quale privilegio più grande se non quello di essere al loro servizio?
Traduzione Emanuele Lana © 2013, Garzanti Libri spa, Milano © Édicions de l’Herne, 2003 Published by arrangement with Agence litteraire Pierre Astier & Associés
I libri hanno bisogno di noi di (Garzanti) pagg. 85, euro 10 è in libreria da domani

Repubblica 1.5.13
Quando la democrazia ha bisogno di un padre
Da Freud a Recalcati passando per Kelsen. Una serie di saggi fra politologia e psicanalisi
Sulla figura paterna identificata nel leader è ora riedito Psicologia delle masse e analisi dell’io (Einaudi)
di Roberto Esposito


Nulla come questa fase convulsa della vita politica italiana sembra attestare la necessità, simbolica e istituzionale, del Padre. Non per caso Eugenio Scalfari, in occasione della elezione del Presidente della Repubblica, ha potuto ripubblicare su queste pagine lo stralcio di un editoriale scritto quindici anni prima. In esso era richiamata l’esigenza, per una comunità nazionale, di riconoscersi in un’autorità al di sopra delle parti, capace di rappresentare l’interesse comune come solo un padre simbolico può fare. In assenza del quale si corre il rischio che l’insieme dei cittadini regredisca al livello primitivo di un branco mosso soltanto da spinte acquisitive non riconducibili ad un progetto condiviso. È difficile non ritrovarsi in tali parole, che oggi, alla luce di quanto successo, acquistano, oltre la forza della ragione, l’evidenza dei fatti.
Eppure si può dire che la questione sia definitivamente risolta? Che non esistano alternative possibili al regime paterno? A queste domande rispondeva, nel 1919, Paul Federn, in un testo, intitolato appunto La società senza padre, tradotto, con una pregevole introduzione di Luisella Brusa, da Artstudiopaparo. Federn era allievo di Freud, ma capace di allontanarsi da lui su un tema decisivo non solo sul piano analitico, ma anche sociopolitico. Alla fine della prima guerra mondiale, l’Europa è battuta dal vento della rivoluzione. In tale situazione, Federn immagina un passaggio epocale da una società sottoposta all’autorità verticale del padre a un’altra organizzata orizzontalmente nella relazione tra fratelli. Anche i fratelli sono stati figli. Ma possono essere governati, più che dal dominio paterno, da una sorta di diritto materno, meno repressivo e più aperto al mutamento. L’elemento dirompente dell’analisi di Federn sta nel fatto che, pur al cospetto della rivoluzione sovietica, egli individua una potenziale società dei fratelli in quella repubblica americana costruita da una massa di emigranti giunti «oltre oceano senza padre, con la speranza che la libertà, la cui statua li accoglie e saluta nel porto, li possa trasformare in fratelli con uguali diritti».
Già qui è possibile misurare sintonie e distonie con l’impostazione di Freud, come si va configurando nel suo testo, pubblicato a due anni di distanza, Psicologia delle masse e analisi dell’io (adesso riedito da Einaudi, a cura di Davide Tarizzo). Certo, anche Freud auspica una eliminazione del senso di colpa che accompagna la subordinazione al padre. Per non dire di quella coazione alla servitù volontaria, già rilevata da Étienne de la Boétie, su cui si veda adesso Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa di Fabio Ciaramelli e Ugo Olivieri (Mimesis). Ma, ecco la differenza, per Freud la liberazione dal padre tiranno non può che passare per la sua immagine, che non è possibile cancellare. Gli stessi fratelli che, in Totem e tabu, lo uccidono e ne mangiano le carni. Una società che volesse disfarsi del Padre, o del totem che ne prende il posto, non potrebbe resistere al conflitto che si genera tra fratelli. Non è appunto questo che ci dicono i miti di Caino e Abele e di Romolo e Remo, insieme a tutte le guerre fratricide che hanno insanguinato la storia? È inutile illudersi — del padre non si può fare a meno. Ma come va intesa la sua figura? E che forma essa può assumere nelle moderne democrazie? Una risposta radicale viene da uno dei più grandi giuristi novecenteschi, Hans Kelsen, chiamato a redigere la Costituzione austriaca del 1920 e anch’egli membro della Società psicoanalitica di Vienna. Appunto in quella sede, nel 1921, egli tenne una conferenze su La nozione di Stato e la psicologia sociale.
Con particolare riguardo alla teoria delle masse di Freud, seguita, l’anno successivo, dalla pubblicazione di un saggio dal titolo Dio e Stato.
Al contrario di Carl Schmitt — che finirà per scambiare il Custode della Costituzione con il capo del nazismo — anch’egli identifica nella democrazia una “società di fratelli”, in cui il comando personale del padre si scioglie nell’impersonalità della legge. L’immagine di Dio, dell’Imperatore, e anche di un Presidente- monarca deve essere sostituita da un insieme di norme, sempre rinnovabili, espressive del patto di fratellanza.
Si tratta di un tema decisivo, questo della fonte del potere, che non è possibile affidare alla sola competenza dei politologi, perché investe aspetti psicologici e simbolici cui essi spesso non hanno accesso. Che ne è del padre nella stagione della sua “evaporazione”, come si espresse Jacques Lacan? In più di un saggio di rara intensità, l’ultimo dei quale è Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre (Feltrinelli), Massimo Recalcati avanza una tesi di estremo interesse: il padre di cui abbiamo bisogno è un padre assente, la cui funzione non è quella del comando, ma della testimonianza di ciò che non sta nella nostra disponibilità, del limite che taglia come un’alterità ineludibile la nostra esperienza. Ma il problema che resta aperto è appunto questo: è possibile tradurre il puro nome del padre assente in una forma istituzionale che ne trasformi l’autorità in potere effettivo? E che ne sarebbe, in questo caso, di quella società dei fratelli che il pensiero democratico, nonostante le tante smentite storiche, non può esimersi dal pensare? È possibile, insomma, sfuggire alla macchina della teologia politica che da duemila anni ci tiene prigionieri?

l’Unità 1.5.13
Comunicato del Comitato di redazione e Comunicato dell’azienda


La redazione de l’Unità e la sua rappresentanza sindacale si sono viste presentare per due volte una bozza di piano industriale con drastici tagli. Non contestiamo l’esigenza, legittima e doverosa, di puntare a risanare i conti, ma così l’azienda finisce per mortificare il giornale, le sue professionalità e la sua storia. L’azienda continua a parlare di rilancio mentre agisce con un vero piano di dismissioni. Dopo anni passati a chiedere stati di crisi, a espellere i giornalisti più esperti, a bloccare l’ingresso dei giovani, dopo l’accordo sottoscritto per un contratto di solidarietà al 20%, oggi si arriva al colpo finale con la richiesta di una solidarietà al 50% e della chiusura di due cronache storiche come Firenze e Bologna, oltre alla riduzione a 20 pagine del quotidiano.
Un quadro di netto ridimensionamento, che rende ancora più drammatica la situazione dei collaboratori, molti dei quali attendono da mesi di essere pagati. L’azienda sostiene di puntare allo sviluppo del web (mai osteggiato dalla redazione), ma contemporaneamente dimezza la forza lavoro, chiede tempi di chiusura sempre più anticipati, conferma il taglio della distribuzione in Sicilia, Sardegna e una parte della Calabria, dopo l’assenza di iniziativa proprio in zone che richiedono maggiori sforzi per il sostegno del confronto democratico.
Siamo consapevoli delle difficoltà che vive l’editoria, con il calo degli introiti pubblicitari, delle copie vendute in edicola e il drastico taglio del finanziamento pubblico. Una crisi oggettiva che non ha visto un’azione adeguata e tempestiva di contrasto e di rilancio del prodotto da parte della proprietà composta da Renato Soru, da Maurizio Mian, Matteo Fago e con una partecipazione simbolica, ma politicamente significativa del Pd attraverso la società Eventitalia.
Come si pensa con queste premesse di rafforzare la presenza del giornale a partire dalle sue «piazze» più importanti? Come si pensa di sostenere il tessuto di partecipazione democratica presente in quei territori, le lotte sociali e culturali, le stesse nuove esperienze di governo del centrosinistra? Come si parla al popolo democratico senza essere presenti almeno nelle edicole o essendolo sempre meno?
I piani presentati dall’azienda non si pongono queste prospettive. Questa dismissione di fatto mascherata da rilancio «modernista» è inaccettabile, così come lo sono i pesanti costi chiesti ai lavoratori. Non è con i soli tagli che si aggiustano i conti, ma con il rilancio. Su questo i giornalisti chiedono l’apertura di un confronto vero in mancanza del quale sono pronti a tutte le forme di lotta. La prima giornata di sciopero è proclamata per giovedì 2 maggio.
IL CDR

Comunicato dell’azienda
Dispiace che il Cdr e i giornalisti reagiscano con queste parole al piano industriale proposto dall’azienda. Dispiace che un progetto realmente innovativo, che intende proiettare l’Unità ai vertici italiani in termini di innovazione e capacità di generare numeri e revenues, venga cosi banalmente descritto.
Certo, per ripartire sono necessari sacrifici. Ma forse disattenti, Cdr e giornalisti non sono consci della situazione socio-economica attuale ed evidentemente neppure dell’incredibile sforzo di Azionisti e Azienda per il rilancio del giornale.
Fabrizio Meli
Presidente e amministratore delegato