domenica 5 maggio 2013

il Fatto 5.5.13
PD, anatomia di un tradimento
di Antonio Padellaro

Il Fatto ha contato almeno 50 città dove la base del Pd è in rivolta contro le larghe intese strette con il Pdl di Silvio Berlusconi. C’è chi aspetta il congresso sperando nella rivincita della sinistra interna, magari con l’arrivo della cavalleria di Rodotà. C’è chi vorrebbe staccare la spina subito, per creare l’anelato “nuovo soggetto politico”, ma teme che, come spesso in passato, i sogni muoiano all’alba. Molti si chiedono sgomenti come sia potuto accadere. Ecco come. - Breve riepilogo. Nel settembre 2012 Mario Monti annunciò con tono perentorio alla Cnn: “Non correrò alle elezioni, sono senatore a vita”. Una dozzina di volte almeno prima della scadenza del settennato, Giorgio Napolitano aveva escluso decisamente una rielezione, arrivando a definire questa ipotesi semplicemente “ridicola”. Anche dopo i risultati del voto di febbraio non si contano le dichiarazioni di esponenti del Pd ferocemente contrari a un governo con Berlusconi: da Bersani a Franceschini, dalla Finocchiaro a Massimo D’Alema a cui si deve un no senza se e senza ma: “Non è possibile che, neppure in emergenza, le maggiori forze politiche del centrosinistra e del centrodestra formino un governo insieme”. Di Silvio Berlusconi, Enrico Letta ha detto cose piuttosto pesanti, arrivando a definirlo “patetico e bollito”. Così l’8 aprile scorso il vicesegretario del Pd dava il colpo di grazia a qualsiasi possibilità di accordo con il Pdl: “Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile”. Sappiamo com’è finita. Monti si è candidato con un suo partito. Napolitano si è fatto rieleggere. Letta è il premier del governissimo, sostenuto da tutto il suo partito, tranne un paio di giapponesi dispersi nella giungla. Amen.
- Inganno e disprezzo. Dell’uso del tradimento in politica si è occupata, tra i tanti, Hannah Arendt spiegando che, se i politici mentono, è o per debolezza, avendo comunque bisogno di garantirsi il consenso elettorale, o per disprezzo, ritenendo utili i voti, ma inutili gli elettori.
Al militante disprezzato si indicano prospettive in cui non si crede minimamente e che al momento giusto vengono disattese, comportandosi anzi all’opposto. Se altrove l’inganno elettorale è un mezzo cinico per sgraffignare qualche quota di potere, nel caso italiano si è dimostrato un raggiro con inevitabili catastrofici effetti. Nel voltafaccia di Monti era in qualche modo incorporata la sconfitta, mentre la giravolta piddina nasconde tragicamente il germe dell’autodistruzione. Non finiremo d’interrogarci sulla sequenza di fatti che hanno portato al tradimento della volontà di più di 8 milioni di elettori democratici, i cui voti sono diventati carta straccia sotto i piedi del Caimano. Continueremo a chiederci (con molti sospetti) se dietro l’affondamento di Marini e di Prodi nella corsa al Quirinale ci fosse il ferreo proposito di ricandidare il Napolitano, che infatti si è fatto convincere subito. Ma è un fatto incontestabile che, in poche ore e tra gli applausi, il presidente bis abbia costretto il Pd a tagliarsi le vene per rifornire di sangue fresco un governo che, probabilmente, servirà da piattaforma elettorale per il Cavaliere. Il quale, sondaggi alla mano, punta (nel prossimo autunno o a più tardi nella primavera del 2014) a una nuova clamorosa vittoria che potrebbe spianargli la strada verso il Quirinale con tutti i benefici del caso (il Caimano che presiede il Csm: neanche nel film di Moretti si arrivava a tanto).
- La nuova Dc. Se alla fine l’unico risultato ottenuto fosse la propria frantumazione e il trionfo dell’ex nemico, ci sarebbe seriamente da dubitare delle facoltà mentali del gruppo dirigente (?) di largo del Nazareno. Ma forse c’è un disegno più complesso e ambizioso che, con la regia di re Giorgio (da sempre esegeta della mediazione e del compromesso), persegue la ristrutturazione del quadro politico nazionale: la formazione di un nuovo centro attraverso la saldatura dei moderati del Pdl con i moderati Pd. Una sorta di nuova Dc del Terzo millennio con il taglio dell’ala destra (già in parte avvenuto con la nascita di Fratelli d’Italia) e dell’ala sinistra (quella in gestazione che guarda a Barca, Rodotà, Vendola, Landini, Ingroia). Con il M5S di Grillo a fare da terzo incomodo. Fantapolitica? Non proprio, visto che sull’ossessione del grande centro (benedetto, inutile dirlo, dalla Cei del cardinal Bagnasco e dalla Confindustria) si sono bruciate le vanità prima di Casini e poi di Monti. Del resto, i plotoni di ex e nuovi dc che compongono l’esecutivo dc doc Letta-Alfano, sono già il preludio della sinfonia. Adesso tocca al Pd dissolversi e, mentre la base è in tumulto, il naufragar gli è dolce in questo mare.

il Fatto 5.5.13
Effetto inciucio, Viaggio nel Pd in rivolta che ammaina le bandiere /1
Da Prato, “centro” dei ribelli, a Pistoia e Roma: “Mai con B.”
I militanti: “Hanno trasformato il partito in uno scheletro”
“Siamo al governo con B. È tutto sbagliato, capite?”
A Prato e Pistoia militanti e dirigenti locali preparano l’appuntamento nazionale (il 19 maggio) dei giovani di OccupyPd
di Antonello Caporale


Il partito è partito. Uso il participio passato con dolore. Ma come potevi pensare che avesse vita una cosa nata dagli scarti di due opzioni. Non abbiamo voluto essere socialdemocratici e limpidamente di sinistra, e non abbiamo creduto al partito di coalizione, quello dell’Ulivo. Allora abbiamo scelto il principio degli opposti: fare un partito nuovo con dirigenti vecchi, promuovere l’inclusione attraverso la cooptazione, esibire volti inquietanti in tv, gente che calibrava la postura da inquadratura ma zero idee. Abbiamo cambiato bandiera e programma a ogni cambio di leader. E così abbiamo trasformato il Pd in un participio passato, uno scheletro ancora aggrappato a quel che residua di D’Alema e Veltroni. Due dirigenti in gamba che hanno dato tutto quel che avevano in corpo nel secolo scorso. Ma non hanno più benzina, e si vede”. Si chiama Samuele Bertinelli, libraio disoccupato di 37 anni, sindaco di Pistoia. Il Partito democratico è come quei palazzi d’epoca: negli scantinati trovi i mobili di pregio. E Bertinelli è uno di quei politici (pochi purtroppo) che danno l’impressione di conoscere il significato delle parole che utilizzano, di dare senso alle idee e dignità al pensiero.
DELLA TOSCANA si è sempre parlato per via di Matteo Renzi, genio della rottamazione, il pensiero fast, il pensiero da dio del qualunque, eccellente motore di propaganda. Invece questa volta la Toscana si presenta affaticata e lenta, afflitta dalla pena di gestire il dolore grande di una sconfitta che sa di eutanasia. “Io voglio un partito alternativo a quello di Berlusconi, che fa cose di sinistra, ha un’idea di sinistra”. Lasciamo Pistoia e in meno di venti minuti siamo a Prato dove troviamo Lorenzo Rocchi, 26enne studente di Giurisprudenza, che insieme ai suoi amici dei Giovani democratici, ha costruito il movimento di OccupyPd. “Abbiamo scelto un brand che ci desse immediata visibilità, e l’abbiamo ottenuta”. Il brand. Quattro anni fa Prato condusse al municipio un piccolo Berlusconi. Venne infatti il Cavaliere a fare campagna elettorale per Roberto Cenni, patrono della Sash, fabbrica di moda pop, l’industria nata nel nome delle veline, delle letteronze. Fatturato che ruotava intorno ai programmi televisivi del pomeriggio: Amici, Uomini e Donne, oppure la Fattoria, l’Isola dei famosi. Griffe di seconda mano, dal furore popolare: Ribellina, Piru, Bollicina, Monella Vagabonda, Follettina, Bambolina, Fragolina. Marchi di fabrichette nate al sud, nel distretto industriale di Barletta. Sash invece era il nord evoluto, l’industria capostipite che firmava i vestitini di Elisabetta Gregoraci, tagli di seconda scelta per miss di seconda categoria, e sfondava il mercato. Il turbine berlusconiano investì Prato ed elesse a sindaco proprio il patron della Sash, oggi indagato per bancarotta, sconfitto dal mercato che lo aveva incoronato. Ecco il paradosso: il sogno che questa città ha consumato lo rivive come un incubo: “Siamo al governo con Berlusconi, capisci? ”, mi dice Lorenzo. Si avverte un dolore acuto, una strage di sentimenti: “È tutto sbagliato, e anche le primarie dei parlamentari hanno prodotto delle figure senza più connessione con il partito. Credono di essere autonomi e di non dover dare spiegazioni”. Andrea Colzi, consigliere comunale trentenne: “Abbiamo per esempio deciso di rinnovare perchè il sindaco di Firenze ha lanciato la parola d’ordine. Ma, appunto, è rimasta una parola d’ordine. Abbiamo rinnovato i fedelissimi, e costoro, giunti a Roma per votare il nuovo presidente della Repubblica, hanno fatto bye bye al partito. Ognuno per la sua strada”.
OGGI a Prato ci sarà Fabrizio Barca, il 19 maggio tutti i giovani rivoltosi d’Italia si troveranno qui. Da Prato parte una prima miccia, vogliono chiedere conto della strage del partito. A chi formulare la domanda? Boh, non si capisce nulla. Forse sarà Gianni Cuperlo a governare le macerie fino ad ottobre, il mese del Congresso. “Voglio restare nel Pd perché mai come in questo momento il nome – Partito democratico – richiama la questione più grande: la crisi della democrazia, la percezione di una distanza siderale tra popolo ed eletti”. Questa è l’opinione di Bertinelli, il sindaco di Pistoia. “Sul progetto scanniamoci, ma poi però uniti, bisogna ritrovare il senso della comunità, lo spirito di corpo, un piano di vita condiviso”, promette Matteo Biffoni, deputato renziano. “Io voglio bene al partito e penso che sopravviverà. Non c’è altro davanti, o di lato. Esiste solo il Pd, a patto che facciamo i conti con noi stessi”, dice GabrieleCorsi, segretario del circolo centro storico. Tutto giusto, però, magari, affrontare la discussione partendo, per esempio, da questo tweet del deputato Guglielmo Vaccaro, all’indomani dell’incarico dato ad Enrico Letta: “Tutto è bene ciò che finisce bene”.
(1. Continua)

il Fatto 5.5.13
Litigano già sul segretario, Civati invoca la scissione
Post-Bersani: Cuperlo favorito. No di Veltroni. In lizza Epifani
E “super-Pippo” avverte: “Se è così, andiamo da un’altra parte”
di Luca De Carolis


Tra sei giorni nomineranno un segretario, perché non è proprio tempo di reggenti. E nel partito dove tutto cambia per non cambiare quasi mai, il favorito pare il dalemiano Gianni Cuperlo. Ma c’è già chi evoca scissioni prossime (Civati), mentre veterani come Veltroni traboccano insoddisfazione. Il Pd che cerca un centro di gravità riparte da logiche di aree. E allora, se il premier è un moderato di area cattolica (Letta), vada pure per un segretario ex Ds (Cuperlo, appunto) o comunque di sinistra, come l’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani. Il borsino delle ultime ore racconta che il dalemiano di Trieste, 51enne di buone letture e lunga militanza (era segretario della Figci nel 1988) è davanti e potrebbe essere eletto già dall’assemblea nazionale di sabato presso la Fiera di Roma, con circa mille delegati. Un grande seggio per scegliere l’uomo che traghetterà il Pd al congresso in autunno. Sulla candidatura di Cuperlo per ora c’è una convergenza abbastanza larga: dai Giovani Turchi e dai dalemiani, ai Popolari di Fioroni e a nomi come il governatore del La-zio, Nicola Zingaretti, sino a Da-rio Franceschini: non entusiasta ma neppure contrario. Freddo Matteo Renzi, ufficiosamente poco interessato al dibattito sulla segreteria. “Sabato prossimo Renzi guarderà il gioco e si regolerà” è il pensiero di tanti.
UNA POSSIBILITÀ in più per Epifani, ancora in corsa. L’ex Cgil è l’idea di Bersani, che sabato formalizzerà all’assemblea le dimissioni. Ma prima il segretario uscente riunirà i suoi parlamentari (forse martedì), per fare il punto su sabato prossimo. In settimana, sentirà i segretari regionali e forse riunirà il caminetto del Pd. Bersani vuole evitare una conta in assemblea, trovando la soluzione più larga possibile. Da parte sua Epifani potrebbe convincere anche ambienti della sinistra Pd, come l’ex area Marino. E parrebbe non sgradito a Veltroni, che ieri sul Corriere della Sera ha contestato innanzitutto il criterio di scelta: “Il nuovo segretario deve essere uno che rappresenta tutto il Pd, e non mezza mela, come se Letta dovesse rappresentare l’altra mezza”. Un no (anche) a Cuperlo, da parte del Veltroni fautore dell’ipotesi Sergio Chiamparino (impraticabile, allo stato attuale). Walter Verini, vicino all’ex sindaco di Roma, chiarisce: “Nessun pregiudizio verso Gianni, ma il prossimo segretario dovrà partire dall’azzeramento di quel tumore che è il correntismo. Serve una figura di sintesi, e non qualcuno che si presenti in qualità di ex di qualcosa”. E quindi, Cuperlo? “L’importante non è il nome, ma il programma”. Da Giuseppe Civati, ormai riferimento dei ragazzi di #occupypd, un post rumoroso: “Ora i vertici pensano a un segretario che venga eletto sabato dall’assemblea nazionale del 2009 e che poi si candidi alla segreteria a ottobre, con il sostegno del partito (uno schema alla Franceschini di quattro anni fa). Se faranno davvero così, il Pd ci toccherà farlo da un’altra parte”.
TRADOTTO: avanti base, scissione. Ma al telefono Civati precisa: “Non parlavo dell’immediato e non ho nulla contro Cuperlo o Epifani. Voglio solo che sia chiaro che il prossimo segretario dovrà essere solo un garante di tutti verso il Congresso del prossimo autunno, e che non potrà ricandidarsi a ottobre. Hanno riesumato l’assemblea del 2009 per eleggerlo”. E se non fosse così? “Allora vedremo cosa fare, e come. Vorrei però che qualcuno uscisse allo scoperto”. C’è chi invoca una rotta certa, come Enrico Gasbarra, deputato e segretario del Pd Lazio: “I circoli e le federazioni aspettano chiarezza sulla linea politica, chi pensa di risolvere tutto con equilibri e burocrazie regolamentari è fuori del mondo”. Sullo sfondo, domande: per esempio, sulle modalità dell’assemblea. Più d’uno teme proposte di modifica dello Statuto, soprattutto sul tema primarie. Un’area larga, che comprende anche Renzi, vorrebbe i gazebo solo per il candidato premier. A eleggere il segretario sarebbero solo gli iscritti: ipotesi a cui sono contrarissimi Civati, Veltroni e anime assortite della sinistra Pd. L’obiettivo è rimandare la discussione al Congresso, dai tempi ancora non definiti. Sabato in diversi chiederanno certezza sulla data, ovvero la fissazione entro l’anno. Intanto si parla già di un comitato da affiancare al nuovo segretario. Un fardello, a occhio.

La Stampa 5.5.13
Pd alla resa dei conti, scontro sui reggenti
Civati: “Scissione? Il rischio è l’estinzione”
di Antonio Pitoni


Lo scenario è da campo di battaglia. Perché mentre i «moti» giovanili di #occupypd continuano a premere dal basso, le divergenze di posizioni, quelle dall’alto, restano ancora lontane da una possibile sintesi. Al punto che, pure Carlo De Benedetti, tessera numero uno del Pd («Ma è solo una leggenda») mette il dito nella piaga che rischia di mandare tutto il partito in cortocircuito: «A forza di correnti, c’è il rischio che scompaia il fiume».
Distanze rese ancora più evidenti dall’escalation degli ultimi giorni. Le polemiche sui sottosegretariati, dalla nomina (esterna) della pidiellina Michaela Biancofiore all’esclusione (interna) del segretario regionale del Pd Piemonte Gianfranco Morgando (che due giorni fa si è dimesso). Oltre al nodo della Convenzione per le riforme ancora tutto da sciogliere come pure la partita per la designazione (che ne sarà delle primarie?) del segretario-reggente. E l’Assemblea nazionale di sabato 11 maggio si preannuncia già come un’inevitabile resa dei conti. Specie dopo l’ultima bordata arrivata direttamente dal blog di Pippo Civati: «I vertici del Pd non cambiano strada. Anzi, vogliono rimanere al vertice del Pd. Semplice, no? Ora pensano a un segretario (non più a un reggente super partes) che venga eletto sabato dall’assemblea nazionale del 2009 e che poi si candidi alla segreteria a ottobre, con il sostegno del partito (uno schema alla Franceschini di quattro anni fa, per capirci). Come dimissionari, sono parecchio attivi, non trovate?». Sotto accusa, Civati mette l’idea di aprire il Congresso solo ai tesserati e non agli elettori: «Nemmeno quelli del famoso albo, che abbiamo registrato e fatto votare su un testo molto impegnativo, che poi non abbiamo rispettato, perché il segretario non sarebbe più automaticamente il candidato premier». Mentre per «il-segretario-in-due-mosse» si profila una corsa a due tra il bersaniano Guglielmo Epifani e il dalemiano Gianni Cuperlo. «Un derby, diciamo, in cui le magliette si faticano a distinguere». Venti di scissione in vista? «Se faranno davvero così, il Pd ci toccherà farlo da un’altra parte – scrive ancora –. Perché questo non è più il Pd, aperto e inclusivo che ci eravamo raccontati: è più o meno il suo contrario». Ma anche la prosecuzione «di quello che abbiamo visto al lavoro negli ultimi venti giorni» e «con i successi che sappiamo». Insomma, più che rischio scissione, Civati lo definisce rischio estinzione: «Perché il punto è che stiamo snaturando il Partito democratico. Gli avevamo dato un nome: primarie. E un cognome: alternativa a Berlusconi. Il cognome è saltato per le ragioni che sappiamo, cerchiamo almeno di salvare il nome». Ma Come? «Epifani e Cuperlo – conclude Civati – si presentino sabato prossimo come figure di garanzia impegnandosi a non ricandidarsi alla segreteria».
Posizione tanto dura quanto chiara, sebbene di minoranza. «È ovvio che il Pd deve avere un segretario e non una semplice e banale reggenza» checché ne dicano «i raffinati professionisti della politica, rottamatori o meno che siano come Civati e compagnia cantante», replica Giorgio Merlo. Anche il candidato sindaco di Roma, Ignazio Marino, esclude soluzioni a tempo: «Penso che si debba in tempi più brevi possibili scegliere una donna o un uomo che sappiano guidare e possano guidare per i prossimi quattro anni il partito». Mentre Matteo Renzi incassa l’endorsement di Carlo De Benedetti: «È l’unico leader spendibile del Pd oggi. È una persona nuova, pragmatica, è sindaco ed è giovane».

il Fatto 5.5.13
Simboli nascosti
Elezioni romane, Marino non vuole le bandiere
di Carlo Tecce


Circolo di piazza Donna Olimpia, ex sezione comunista “Fulvio D’Amico”, Monteverde Vecchio, luogo di ragazzi di vita per Pier Paolo Pasolini: chiuso.
Circolo al Gazometro, civico numero 1, quartiere Ostiense, stradoni sbilenchi e movida notturna: chiuso.
Circolo zona Garbatella, villette a schiera, alberi curvi e fioriere dritte: chiuso.
Circolo di piazza Bologna, via Catanzaro, bretella fra chi romano fu di generazioni e romano è di università: chiuso.
Ma c’è un gazebo democratico che rievoca le primarie e i militanti in fila, bardato con la faccia di Ignazio Marino, candidato a sindaco, medico spedito per le ultime e disperate cure.
No, non c’è il Pd: “Niente bandiere, niente simboli”, dice Rossella, la signora che, puntuale, alle 15,30 ha aperto il gazebo di piazza Bologna.
I candidati dei Municipi, che conoscono la strategia vincente per il momento da perdenti, sanno perché il vessillo va ammainato. Messo via. Rimosso. Espulso. “Marino non vuole che la campagna elettorale porti con sé i colori Pd: non conviene, allontana i cittadini. Tutti la pensano così. Io ce l’ho una bandiera a casa, quasi quasi, la prossima volta la pianto qui, di fronte a quelli di Alemanno”.
Il circolo di via Catanzaro, ormai di sezione non si parla più, conta 350 iscritti. La 350esima tessera l’ha presa Rossella, a larghe intese già compiute. Non è coraggio né disperazione, ma semplice, maledettamente semplice, voglia di fare: “Mi avvicino, anzi mi riavvicino adesso al partito perché adesso va aiutato. Senza un movimento di sinistra, e vabbè di centro trattino sinistra, cosa ci resta? ”.
Rossella ha conservato in borsa un foglio di un giornale, meglio: ha fotocopiato la pagina di un film introvabile nelle sale dei grandi distributori. Non lo dice, ma s’intuisce, Rossella quel circolo di via Catanzaro vorrebbe chiamarlo sezione: “Perché tenere le serrande abbassate? Perché non offrire cultura e interessi ai giovani? ”.
Il governo di Enrico Letta più Angelino Alfano è rimasto a metà stomaco, appesantisce però non appassisce l’attrazione politica, quella donata in forma gratuita senza un pegno né d’immagine né di potere.
L’avvocato Ottavio Marotta, gran sostenitore civico di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, indossa una simpatica cravatta rosa con balene festanti, ma rimpiange i Ds: la distinzione fra destra, sinistra e centro.
Allora, Marotta, la convince Letta? “Un bravo democristiano. La gente è incazzata. Non ne vuole sentir parlare. Noi assieme a Berlusconi? Incredibile, siamo oltre il fondo”.
Mario Giancotti fa base in via Catanzaro, ma il segretario di quartiere – ora che la politica crea distanza – deve anche tappare i buchi: “Non c’è entusiasmo e non s’inventa”. Ha visto tessere strappate, addii senza ritorno: “Il governo è la botta finale. C’è chi non ne vuole più sapere di noi e chi spera che Letta faccia qualcosa di buona: tutti, però, sono convinti che il Pd vada rifatto. E guardo con piacere, e stupore, chi in questi giorni viene a chiedere la tessera perché avverte l’emergenza, la deriva senza protezione”. La bandiera nel cassetto. L’orgoglio nel silenzio. Perché la vergogna non c’entra, quando è pungente la rassegnazione. Quando qualcosa è finito e qualcosa può nascere.

il Fatto 5.5.13
Gli animalisti contro Ignazio, Alemanno subito col gatto


SABATO animalesco per i candidati sindaco a Roma. Ieri mattina Ignazio Marino è stato contestato a Campo de’ Fiori dagli animalisti, che gli rimproveravano di aver praticato la vivisezione su scimmie quando lavorava come chirurgo negli Stati Uniti. “Volevo dialogare ma me l’hanno impedito” ha poi detto Marino. Alemanno ha provato a sfruttare la situazione, diffondendo una sua foto con un gatto.

il Fatto 5.5.13
La polemica. Stato confusionale
Unità, sveglia: il patto con B. l’ha fatto il Pd


Latitante dalla campagna elettorale, fa la sua ricomparsa sull’Unità “Cristoforo Boni”, simpatico nom de plume del presunto direttore Claudio Sardo, ultimo superstite dello Squadrone Bersani, ormai disperso insieme a 3 milioni di voti. Tre mesi fa il Boni ci bastonava con l’accusa di indebolire il Pd, unico argine contro B. Ora torna a colpirci con l’accusa di indebolire il Pd, unico argine contro B. Non s’è accorto che, nel frattempo, il Pd ha svolto così bene le funzioni di argine da andare al governo con B., con cui si appresta anche a riscrivere la Costituzione. Affetto dalla sindrome psichiatrica del transfert, che porta il paziente ad attribuire agli altri ciò che fa lui, il Boni sostiene che “Travaglio tenta disperatamente di rendere credibile l’asino che vola”, visto che “Grillo non ha mai avuto la minima intenzione di partecipare, né di collaborare, né di favorire un governo senza Berlusconi”. Nessuno l’ha avvertito che l’altra sera, a Porta a Porta, la dirigente del Pd Marina Sereni ha stupito perfino Vespa dichiarando: “L’idea non era di fare un governo con 5Stelle, ma di chiedere a M5S non di fare maggioranza con noi, ma di consentire che nascesse un governo di centrosinistra pur rimanendo cosa distinta”. Infatti, com’è noto a chi conserva un pizzico di memoria, Bersani tentò di spaccare i 5Stelle rastrellando i voti di qualche dissidente per avere la fiducia al Senato e allearsi poi di volta in volta con Monti e Pdl, coi quali governava felicemente da un anno e mezzo. Proposta indecente subito respinta, nel rispetto degli impegni elettorali, da Grillo e i suoi. Fu poi Grillo a proporre al Pd di votare Rodotà al Quirinale e poi governare insieme: proposta ribadita dalla capogruppo Lombardi (“Votate con noi Rodotà e poi si apriranno praterie per governare insieme”), ma neppure considerata dal Pd. Bersani s’era già accordato con B. su Marini e poi, bruciato Prodi (dal Pd, non certo da Grillo), si riaccordò con B. su Napolitano. Ma Boni parla, restando serio, di “un vero e proprio ‘patto’ di Grillo con il Cavaliere”. E accusa chi si ostina a ricordare i fatti di raccontare “balle” e di “lucrare sulle sconfitte del Pd”. Qualcuno, per favore, lo informi che gli unici patti con B. li hanno siglati, in due incontri clandestini, il suo amato Bersani per concordare il presidente della Repubblica e il suo amato Letta (Enrico ) per concordare il governo dell’inciucio. Così il Boni scoprirà un sacco di cose, compresa la sua inutilità: a bastonare chi si oppone al governo Letta-Alfano-Micciché-Biancofiore provvedono già egregiamente Sallusti e Ferrara. Boni, che fra l’altro scrive peggio, può tranquillamente far riposare la lingua e le ginocchia. (m.trav.)

il Fatto 5.5.13
La costituzionalista Lorenza Carlassare
Saggi, pre-incarico e rielezione Quante stranezze dal Colle
di Silvia Truzzi


Le forze contrarie al cambiamento in Italia hanno sempre lavorato”: Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova, sospira al telefono.
Professoressa, chi si oppone ora al cambiamento?
Le stesse forze della società che hanno sempre ostacolato l’attuazione della Costituzione, espresse oggi dalla destra berlusconiana, ma anche da una fetta del Pd.
Si è parlato molto del discorso estremamente politico del presidente della Repubblica. Irrituale?
La situazione era tutta strana. Dal punto di vista costituzionale la stranezza nasce con i limiti posti all’incarico dato a Bersani dal quale si pretendeva l’assicurazione che avrebbe ottenuto la maggioranza. Ma non funziona così! Nessuno lo può sapere in anticipo: molti governi sono caduti appena nominati, compreso De Gasperi. Non è un fatto straordinario, ma semplicemente una possibilità all’interno di un sistema parlamentare. La lunghissima sosta ha portato a un’esasperazione della situazione.
E i saggi?
L’ennesimo tentativo di temporeggiare. Per dare il senso che non si poteva procedere alla nomina di un governo. Più passa il tempo, più la situazione precipita.
Si arriva così alla tanto sbandierata emergenza.
Certo: nell’emergenza poi bisogna fare qualcosa di “speciale”. Da lì tutto quello che è successo dopo. Compresa la rielezione di Napolitano, assolutamente legittima, ma nel segno della continuità. Infatti si è profilata perché era Berlusconi a volerlo: una barriera al cambiamento.
Tanti hanno sottolineato la sempre maggiore distanza tra la politica e il corpo elettorale.
Il popolo aveva chiesto in modo chiarissimo un cambiamento. E qual è stato il cambiamento proposto? Marini. Un’offesa agli elettori e a tutte le istanze di rinnovamento.
Che pensa dei voti segnati? Modalità molto equivoca.
Mafiosa: tanto che in passato, per evitare simili manovre, si era proposto che si votasse con un’unica modalità omogenea e, nel 1992, per garantire la segretezza del voto il presidente Scalfaro introdusse l’uso di cabine. L’idea di fondo è eludere la Costituzione, che vuole il voto segreto proprio perché non sia riconoscibile, e non si possa sapere chi ha eletto il capo dello Stato, che deve essere imparziale e non apparire il presidente di una parte. Ma qui è successo di tutto, con voti firmati in ogni modo. Perché? Per contarsi e mostrare la propria fedeltà alle promesse assunte. Spaventoso.
Perché il Pd non ha votato Rodotà?
È una cosa stupefacente. Ma la risposta è semplice: perché avrebbe rappresentato (e reso possibile) il cambiamento. Quella mossa di Grillo è stata comunque intelligente, ha proposto il nome migliore che veniva dalle file della sinistra. Il Pd ha fatto una figura mortificante.
Mai come questa volta il voto per la Presidenza della Repubblica è stato messo così in relazione alla formazione dell’esecutivo. Cosa vuol dire?
Politicizzare anche la Presidenza della Repubblica. E usarla a fini contingenti. Il contrario di quanto prevede la Costituzione, che non a caso fissa diversa durata per Parlamento e Quirinale, una sfasatura temporale fatta apposta per scollegare il presidente dal Parlamento. Invece si vuol fare anche del Colle uno strumento politico: un degrado assoluto delle istituzioni e della classe politica. Anzi, dell’etica repubblicana.
Perché c’è stata tutta questa fretta di tornare da Napolitano? Si era solo al V scrutinio e nella storia ci sono stati presidenti eletti anche alla ventunesima votazione.
Per impedire che maturasse qualcosa di nuovo. Si è spesso arrivati, per tentativi successivi, all’incontro su un nome. L’unico presidente eletto per accordi al primo scrutinio è stato Cossiga, il presidente meno super partes della Repubblica .
Si parla della “Convenzione per le riforme istituzionali”. Cos’è?
Un baratto. Anzi un ricatto. Questa presidenza che Berlusconi chiede è di nuovo un’offesa al popolo, se la si farà nelle forme volute dal Pdl. La maggioranza di centrodestra aveva già approvato una legge di riforma costituzionale, in senso autoritario: nel 2006 è stata bocciata dai cittadini, tramite referendum. Di questo referendum non parla più nessuno. Di presidenzialismo invece si parla ancora, spesso a vanvera: qui nessuno vuole il presidenzialismo all’americana, ma una forma di governo in cui non ci siano vincoli al potere dell’esecutivo.
Ci sono riforme che sarebbero utili?
La diminuzione del numero dei parlamentari è una. Non è mai stata fatta. Come la legge elettorale, la prima e l’unica indispensabile. Che non la si voglia fare risulta chiaro dall’insistere sulle ’riforme’, mettendola fra le tante.
Può un politico condannato per frode fiscale in primo grado – per non parlare dei processi pendenti e di quelli finiti con la prescrizione – presiedere una Bicamerale?
Il Pd voti ne ha, grazie al Porcellum. Ne approfitti e si opponga a questo ricatto da parte di Berlusconi.
Secondo molti suoi colleghi Berlusconi è ineleggibile: un paradosso che finisca lui a fare il presidente della Convenzione?
Ha già l’interdizione dai pubblici uffici dopo la condanna per frode fiscale, che però non è ancora definitiva. Ma bisogna distinguere la sanzione penale dall’onorabilità, richiesta dall’articolo 54 della Costituzione ai cittadini cui sono “affidate” pubbliche funzione che devono esercitarle “con disciplina ed onore”. Già questo basta. Cosa vuol dire “con onore”? Vuol dire che bisogna sempre anteporre l’interesse pubblico a quello personale. E che la persona cui vengono affidate dev’essere onorevole, degna di onore .
Loro obiettano che Berlusconi è in politica da vent’anni e la norma sull’ineleggibilità di coloro che sono concessionari pubblici non è mai stata fatta valere.
Primo: se il legislatore ha pensato a una situazione di ineleggibilità per un concessionario di pubblico servizio, deve valere non solo per chi lo gestisce, ma a maggior ragione per il proprietario. E soprattutto, l’ineleggibilità non è stata mai fatta valere perché il controllo sulla validità delle elezioni lo esercita un organo del Parlamento dove controllori e controllati si confondono, anziché un organo terzo, imparziale, come avviene in Francia, dove è funzione della Corte costituzionale. Questa sarebbe davvero una riforma costituzionale urgente: altrimenti qualsiasi nuova legge sulle incompatibilità e ineleggibilità è inutile e ipocrita.

il Fatto 5.5.13
Folgorati dall’inciucio
Menichini s’è svegliato, ora azzanna Rodotà
Scomparsi i toni misurati di “Europa”, adesso se la prende con il professore che ha “minato la serenità” del Pd
di Andrea Scanzi


La restaurazione di Letta rischia di portare molti giornalisti alla schizofrenia. Chi da incendiario si reinventa pompiere, come Sallusti, e chi affronta il percorso inverso. Venerdì sera, a Otto e mezzo, Menichini ha attaccato Stefano Rodotà con un livore che, ovviamente, le penne del Pd quasi mai usano contro Berlusconi. Si sa, l’antiberlusconismo fortifica il Caimano, mentre il berlusconismo (neanche tanto) latente lo indebolisce (e i risultati si vedono: un trionfo dopo l’altro). Gli obiettivi preferiti dal Pd sono quelli laterali, inediti: il Movimento 5 Stelle, e di riflesso chi è stato anche solo lambito dalla galassia grillina. Tipo Stefano Rodotà. Laico, di sinistra, giurista, libero, garbato, antiberlusconiano e pure intelligente: troppe anomalie per essere stimato dal Pd. Ironizzare sul 53enne Stefano Menichini, uno che dirige un giornale (30 milioni di euro in 10 anni: tutti soldi pubblici) con più articoli che lettori (1500 copie al dì), che attacca la piazza virtuale pur bivaccando da mane a sera su Twitter e che per lavoro (5mila euro netti al mese, dice lui) è costretto a deificare il Pd sarebbe facile. Solitamente è misurato: diversamente telegenico e catodicamente impalpabile, ma misurato. A Otto e mezzo, no. Una sorta di Geloni in pectore di Sant’Enrico Letta. Era così inebriato dal ruolo da tradire una sudorazione sin troppo guizzante. Quando parlava Rodotà, sfoggiava un sorrisetto perculeggiante. Con lessico politichese e vivo (e vibrante) sprezzo della verità storica, lanciava granate contro un uomo colpevole non si sa bene di cosa (forse di essere preparato e autorevole, turbe effettivamente odiose di questi tempi). Impartiva lezioni costituzionali a Rodotà (come Siani che catechizza Day-Lewis). Sosteneva che Rodotà aveva minato la serenità del Pd. Lo accusava di non avere rispettato la sovranità parlamentare (mentre il Pd ne ha fatto tesoro, soprattutto quando ha proposto Marini). Se Rodotà osava controbattere, Menichini lo interrompeva. Con un impeto tale da rendere quasi morbidi i contrappunti di Mulé. La tesi, invero amena, era che Rodotà avesse la colpa di essere Rodotà: cioè vantare l’affetto di milioni di italiani, sensazione comprensibilmente ignota a Menichini. La colpa non era del Pd che aveva perso il treno Rodotà, ma del treno, reo di essere passato e pure in orario (molto meglio il deragliamento: avrebbe arrecato meno crucci politici al Pd). Nei giorni scorsi, con la prosa di un mini-Breznev folgorato sulla via della Pravda, Menichini ha speso parole colme d’amor per Il Fatto (“linea politica cimiteriale e iettatoria”, “continueremo a rompere le scatole a questi arroganti presuntuosi”). Ultimamente sembra nervoso. Forse perché essere giornalisti senza lettori è come essere pornoattori senza erezioni, o forse perché alla lunga difendere l’indifendibile è dura persino per i Minculpop 2.0. Noi, benché presuntuosi e arroganti, gli siamo vicini: essere fedeli alla linea, quando di linea non c’è traccia, è condizione esistenziale oltremodo dilaniante.

il Fatto 5.5.13
La verità dell’on. Fassina
di Pino Salomè


Santoro, nella trasmissione “Servizio Pubblico” del 25/4, ha chiesto all’on. Fassina: “Perché non avete votato Rodotà per la presidenza della Repubblica?” Fassina ha risposto: “Perché non c’erano i numeri”. Ma questa è una bugia, come dimostra la somma dei voti: 659 elettori (Pd 436, M5S 164, Sel 47, altri sinistra 12) ben al di sopra dei 504 voti necessari dal quarto turno in poi. Essendo stato contestato dal pubblico è uscito dai gangheri e si è fatto scappare la verità! Ha detto: “Non ci sarebbero stati numeri perché metà del Pd non l’avrebbe votato”. Questa è la conferma che il Pd non è un partito ma la somma di due componenti diverse l’una dall’altra; mentre quella ex Dc è saldamente democristiana con tutta la sua pluridecennale amministrazione del potere del sottogoverno, quella ex Pci è scomparsa: non ha nulla di socialista e di rappresentanza con il mondo del lavoro, dei disoccupati e degli studenti. Solo greppie gestite dai vecchi che pensano solo alle loro poltrone e null’altro. A questo punto per salvare la Repubblica e la Democrazia è necessario che Stefano Rodotà prenda l’iniziativa e convochi una Costituente di tutti i veri democratici al di là delle loro collocazioni in partiti, movimenti e associazioni. Che ognuno si assuma le proprie responsabilità! E il Fatto Quotidiano sostenga questo tentativo.

il Fatto 5.5.13
L’alternativa alle larghe intese
di  Franco Buccella


Bene ha fatto Bersani a perseguire il dialogo con il M5S, ma risulta inspiegabile perché non abbia proposto al suo partito di votare Rodotà al quinto scrutinio. Al più le componenti favorevoli alle larghe intese potevano impedire il raggiungimento del quorum, ma avrebbero comunque dimostrato la coerenza nel rifuggire dal suicidio politico della rielezione di Napolitano, favorevole all’accordo con il Pdl. A questo punto il piano è chiaro: cuocere a fuoco lento il Pd, a meno di dover incorrere in qualche meritata condanna e staccare la spina al momento più opportuno con proposte irricevibili, come la restituzione dell’Imu o Totò Riina a Presidente della commissione antimafia. Per evitare questo scenario da incubo non resta che sperare che la nuova leva degli eletti del Pd, quelli favorevoli a Rodotà, raggiunga un accordo con Sel e il M5S per formare un governo con un programma ispirato agli 8 punti di Bersani.

l’Unità 5.5.13
«Niente Festa, mai con Berlusconi»
In un piccolo circolo alle porte di Perugia i vecchi militanti hanno occupato la sede del Pd. «Non siamo marziani. Siamo il nerbo di un partito in pericolo»
di Roberto Rossi


Ponte Valleceppi è una piccola frazione alle porte di Perugia. Mentre la città si aggrappa alle colline, il paese, oltre duemila abitanti, è adagiato nel piano, accanto al fiume Tevere. Una distilleria, una fabbrica metalmeccanica di medie dimensioni, un ponte storico, uno dei parchi più belli della città, e, infine, una Casa del Popolo nel centro del paese, erede di una delle più forti sezioni locali del Pci. Piero Lo Leggio e Angelo Zucchini ci aspettano qui, in questo edificio di tre piani destinato anche alle attività di un’intera comunità.
Politicamente Ponte Valleceppi è una piccola enclave della sinistra. Qui nelle ultime elezioni il Pd ha preso il 40% dei voti, sempre qui, nelle ultime primarie il nome di Bersani ha raccolto, contrariamente al resto della città, più consensi (il 54%) del sindaco di Firenze Matteo Renzi. E ancora, qui la Festa de l’Unità, nata a metà degli anni ‘70 ha mantenuto il suo vecchio nome, se non fosse per l’aggettivo «democratica» inserito svogliatamente nel mezzo.
Piero Lo Leggio e Angelo Zucchini non li definiresti giovani. Almeno non anagraficamente. Il primo ha 56 anni e attualmente è il segretario del circolo, il secondo di anni ne ha 62 ed è stato il referente della sezione per molto tempo. Nei giorni confusi e drammatici dell’elezione del presidente della Repubblica e della formazione del governo Letta hanno deciso, con i cento iscritti, di occupare simbolicamente la sede del Pd al grido «non moriremo berlusconiani», dando vita a una sorta di “Occupy Pd” sui generis, alimentato non solo dalle nuove generazioni, come è accaduto negli altri circoli italiani, ma, soprattutto, da vecchi militanti e funzionari di base. Il circolo, convocandosi in assemblea permanente, ha prodotto un documento durissimo, spedito ai referenti cittadini del partito, nel quale ha comunicato di interrompere il tesseramento, rimarcando la «totale autonomia da un gruppo dirigente locale e nazionale», e congelando, in ultimo, la «Festa democratica de l’Unità».
Un’insubordinazione. Che qui, in questa forma, non si era mai vista. «Noi ci spiega Lo Leggio non siamo marziani. Siamo solo uno di quei tantissimi circoli che costituiscono il nerbo del partito, che fanno le campagne elettorali porta a porta, che fanno le iniziative. È questa parte del partito che si sta ribellando».
Il rapporto di fiducia si è rotto subito dopo la bocciatura di Prodi. «E dopo la nascita del governo Letta questo sentimento si è acuito. Non capiamo come i dirigenti non facciano a capirlo». «L’aver affondato il Professore ci dice Zucchini ha avuto un significato politico preciso: si è scelta una direzione di marcia bloccando la nascita di altri tipi di governo». Tipo? «Uno di scopo, ad esempio, che durava il tempo di fare alcune cose, come la legge elettorale, dopodiché si tornava a votare». Non si è capito, sostiene Lo Leggio, che «le larghe intese non erano necessariamente a destra». Ma non è stato fatto perché «ci sarebbe costato in rapporti interni, ci avrebbe costretto a togliere qualche crosta dal ventennale assetto del partito. Non capisco perché le larghe intese dovevano sottintendere solo Berlusconi».
E invece le cose sono andate in maniera diversa. «Nella direzione voluta da Napolitano, persona straordinaria, ma alla quale il partito ha ceduto una fetta di sovranità». «Si sono affidati continua il segretario a uno che da presidente si è trasformato in sovrano per fargli svolgere tutto quello che il partito non è stato più in grado di svolgere». Un’alleanza, un governo.
«Oggi – scandisce Zucchini siamo in presenza di un abbraccio mortale per il partito, per la sinistra e per la democrazia del Paese». Angelo si ferma e prende fiato. «Vorrei che fosse chiara una cosa. Queste azioni non sono state assunte con superficialità. Sono state vissute e sofferte. Vorrei che altrettanta sofferenza ci fosse nei dirigenti nazionali. Fate un esame di coscienza».
Il problema ora è che futuro dare al partito. «Si dovrà aprire la fase congressuale che ridisegni una classe dirigente innovata e cambiata» spiega ancora Zucchini. «Ho sentito che c’è qualcuno, come D’Alema, che propone l’elezione del segretario già alla prossima assemblea dell’11 di maggio. Ecco, se passa una cosa di questo tipo si aggiungerebbe male al male, si toglierebbe la partecipazione dal basso per scelte riguardanti la democrazia di questo partito. Ci vogliono congressi e candidati contrapposti perché questo deve essere un partito contendibile». «Scalabile» gli fa eco Lo Leggio.
Si vedrà. Per ora l’unica cosa certa nel futuro del Pd, almeno di quello minuscolo di Ponte Valleceppi, è l’assenza della storica «Festa democratica de l’Unità». «La decisione dice Lo Leggio è stata sofferta. Attorno alla Festa ruotano 200 volontari, è un fatto di popolo, è un evento che coinvolge tutto il paese e che è anche un modo di fare comunità. Con i proventi della festa sono state finanziate scuole, fatta beneficenza, opere nel parco, finanziata l’attività politica».
Ma in questa situazione «siamo a disagio. Molte persone mi fermano e mi dicono: “Ma cosa avete fatto?”. Io rispondo: “L’hanno fatto, non mi rappresentano più”. E questo sentimento è lo stesso che abbiamo condiviso nel momento di organizzare la Festa. Ci siamo detti: “Con quale faccia ci presentiamo se non condividiamo niente di quello che sta facendo il Pd?». Dunque, nulla da festeggiare. E se si dovesse fare «sarà con altre associazioni democratiche e del mondo del lavoro». Un’occasione per «ripensare e unirci attorno a valori comuni».

l’Unità 5.5.13
Convenzione, non cambiamo la forma di governo
Equilibri politici precari. Quella che stiamo vivendo non può essere una vera stagione costituente
di Massimo Luciani


La questione, dunque, è ora quella della Convenzione per le riforme. È legittimo istituirla? Ed è opportuno? Di cosa si dovrebbe occupare? E chi dovrebbe guidarla? Sia l’opportunità che la legittimità sono discusse.
Si dice che la Costituzione prevede già uno specifico procedimento di revisione e che il Parlamento ha dimostrato (modificando, ad esempio, il titolo V e la disciplina del bilancio) che si tratta di un procedimento funzionante, che non paralizza le trasformazioni costituzionali. Non solo. Si aggiunge che quel procedimento, essendo una garanzia della Costituzione, non potrebbe essere derogato senza mettere in discussione proprio il sistema delle garanzie, sicché sarebbe illegittimo disegnare un percorso ad hoc, da usare soltanto stavolta. Non sono obiezioni di poco conto, ma non possono essere accolte acriticamente.
Partiamo da una constatazione. La Costituzione repubblicana, sino ad oggi, non è stata oggetto di modificazioni particolarmente felici. La legge costituzionale che ha completamente riscritto i rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali non è un esempio di sapienza. E la recente riforma della disciplina di bilancio, sebbene sia, fortunatamente, molto migliore di quanto avrebbe potuto essere stando ai progetti iniziali, ha ottenuto il discutibile risultato di cristallizzare in Costituzione una precisa dottrina economica, che invece è (a dir poco) opinabile, come è normale che sia per i precetti di quella che non è una scienza esatta. Il procedimento ordinario di revisione, dunque, non ci ha garantito più di tanto.
È vero, però, che quel procedimento non può essere modificato in modo tale da ridurre le garanzie di una discussione aperta, di un apporto delle opposizioni e di un adeguato controllo popolare. In caso contrario sarebbe inciso il cuore stesso della Costituzione. La Convenzione, allora, sarà legittima solo a condizione che tutto questo non accada e che il suo apporto offra, anzi, un surplus di garanzie. Qui, la questione della legittimità incrocia quella dell’opportunità. Certo, la Costituzione si può cambiare seguendo il procedimento ordinario. Tuttavia, in un momento come questo, nel quale è facile prevedere che il Governo avrà un percorso travagliato, non sarebbe male mettere la discussione sulle riforme costituzionali (e, mi sembra, anche quella sulla riforma elettorale) al riparo dalle polemiche contingenti sulle ordinarie scelte di indirizzo politico.
E c’è un secondo incrocio, con l’oggetto del lavoro della Convenzione. Qui si deve essere chiari sin dall’inizio. La precarietà degli equilibri politici usciti dalle elezioni di febbraio fa escludere che quella che stiamo vivendo possa essere una vera stagione
costituente. Stagioni del genere fioriscono quando si consolidano passaggi epocali e ridislocazioni radicali dei rapporti di forza. Qualcuno è disposto a scommettere che quelli di oggi saranno anche quelli di domani? Meglio un po’ di sano realismo, allora. Meglio prendere atto del fatto che solo alcuni interventi sulla Costituzione sono palesemente indispensabili. I rapporti fra Stato e Regioni, certo, ma anche e forse soprattutto il bicameralismo, autentico fattore di non più sopportabile mancanza di chiarezza nella formazione delle maggioranze di governo (sulla marcia indietro quanto alla disciplina di bilancio non c’è da farsi troppe illusioni). Di questo si discuta. Su questo e ovviamente sulla legge elettorale si intervenga, senza ipotizzare trasformazioni globali della forma di governo che non possono essere disegnate dai protagonisti di un equilibrio politico così precario. Poche cose, insomma, ma decisive.
Solo una volta che si saranno chiariti questi punti sarà possibile ragionare sulla guida della Convenzione. Qui, una cosa è facile da dire. Proprio a causa della funzione di questo organismo, che dovrebbe operare da stanza di compensazione nella quale ragionare a qualche distanza dalla contingenza politica, è da escludere che a presiederla possa essere il leader di uno degli schieramenti presenti oggi nel mercato politico. Si è parlato molto di uno solo di questi leader, ma il problema trascende la sua persona ed è assai più generale. E c’è anche un altro problema. Il PDL rivendica la presidenza della Convenzione. Si tratta di una rivendicazione in astratto legittima, certo, ma in concreto discutibile. Il primo interlocutore della Convenzione, infatti, dovrebbe essere il Ministro per le riforme costituzionali. Il Ministro, però, è un autorevole esponente proprio del PDL. Non so se nelle negoziazioni per il nuovo esecutivo qualcuno abbia dato al PDL una sorta di affidamento sulla presidenza della Convenzione o se sia stato il centrodestra ad equivocare. In ogni caso, così non va, perché è evidente che sarebbe una ben strana interlocuzione quella che si avrebbe fra rappresentanti della medesima parte. Anche qui, insomma, sarebbe bene fare esercizio di realismo. E di ragionevolezza politica.

l’Unità 5.5.13
Basta correnti, ora serve un congresso costituente
Per uscire dalla crisi il Pd deve rimettere al centro una nuova idea di società
Far parte delle forze socialiste europee è la sfida della ricostruzione
di Sergio Gentili


La formazione del governo Letta, nato da uno stato di necessità e non per una scelta per alleanze improprie, permetterà di affrontare i problemi della ripresa economica, della cassa integrazione, degli esodati, delle imprese e di cambiare la legge elettorale. Ma occorre costruire nel Paese un clima di fiducia e di combattività. Per il Pd si apre una fase di riflessione e di radicale cambiamento. La posta è la rinascita. Perché ciò che è successo tra i «grandi elettori» ha scosso le coscienze compromettendo la credibilità dei democratici e seri rischi di abbandono si sommano alla delusione. Sono accadute cose imperdonabili: attacchi personali, insufficiente ricerca del consenso sulle proposte Marini e Prodi, gruppi interni che si sono trasformati in partitini, slealtà, rovesciamento repentino di impostazioni politiche. Abbiamo assistito allo stravolgimento del Pd: la legittima diversità di opzioni non ha avuto una sintesi unitaria e gruppi organizzati hanno agito come autonomi partiti rifiutando e negando il principio di maggioranza, cioè uno dei pilastri di una qualsiasi organizzazione. Sono saltate personalità insieme alle regole e al senso di comunità politica nazionale. Le dimissioni del segretario e della segreteria sono state una conseguenza traumatica e necessaria. Così si è entrati in una crisi strutturale. Per superare tutto ciò e per ricostruire il Pd c'è bisogno di un congresso «costituente» che assuma nitidamente valori, regole, sedi e organismi dirigenti, che dia ruolo e potere agli iscritti superando correnti, sub correnti, personalizzazione e plebiscitarismo. Occorre una rinascita che parta dalla società e dalle tante energie che formano il Pd.
La rinascita non potrà avvenire con le forme del passato, cioè con l'accordo di ristrette élite, ma da un processo consapevole e partecipato degli iscritti e dei circoli per poter ricostruire legami e fiducia sociale, gruppi dirigenti, valori, solidarietà intergenerazionale e indicare forme più ampie di partecipazione. Occorre una vera e propria «costituente delle idee» per ridare vita ad un partito pluralista, partecipato, organizzato nella società, nel mondo dei lavori e nell'intellettualità.
Per la rinascita è indispensabile ragionare sui perché della crisi verticale del Pd. Certamente il risultato non positivo delle elezioni è stato determinante. Tuttavia, la questione di come e in che direzione superare la crisi è quanto mai incerta ed aperta. L'imminente congresso del Pd dovrà affrontare questo nodo essenziale e non potrà essere frettoloso.
Non dovrà vedere votanti organizzati dalle correnti a prescindere dal dibattito politico, perché ciò soffoca la libertà di scelta e la partecipazione consapevole degli iscritti. E abbiamo visto non costruisce un partito. Agli iscritti e ai circoli, e non ai capi corrente, va consegnato (per la prima volta) lo scettro della decisione, cominciando dalla elezione del proprio segretario nazionale che dovrà essere non più eletto con le primarie plebiscitarie ma dal congresso.
Per uscire dalla crisi, i democratici debbono avere una nuova idea di società, pacifica e democratica, in grado di superare ineguaglianze e privilegi, di tutelare i beni comuni e la natura, di considerarsi cittadini europei e promotori della piena dignità delle persone, di promuovere i nuovi diritti civili e di genere, di concepire saldate insieme libertà, solidarietà, e inclusione multietnica, di combattere la speculazione finanziaria e l'assetto burocratico dello Stato, di dare centralità al lavoro e all'interesse generale.
Nell'impegno che guarda al futuro per una società non liberista, si scorge la modernità e l'intreccio stretto tra le nuove idealità socialiste, ecologiste e solidaristiche. In questi anni siamo stati criticati per aver costruito un partito eclettico con una debole identità ideale. Abbiamo il dovere, quindi, di dare risposte convincenti: il prossimo congresso dovrà fare delle forti e innovative scelte ideali e politiche. Tra queste c'è la dimensione europea. I democratici dovranno schierarsi dalla parte della ripresa economica solidale, dello sviluppo sostenibile europeo contro il rigore e la recessione imposta dalle destre. Per sconfiggere le forze liberiste che hanno interrotto e deviato l’Ue su binari neo-nazionalistici ed egoistici l'Ue, occorrerà battersi per una svolta democratica in grado di fare dell'Europa una moderna e democratica federazioni di Stati con al centro il Parlamento. Quindi il nostro congresso sarà chiamato ad indicare, fin dalle elezioni del 2014, idealità e proposte per costruire un grande schieramento culturale, sociale e politico avendo al centro le forze socialiste, in cui dobbiamo decidere finalmente di far parte.

l’Unità 5.5.13
Un partito che non si arrenda allo «stato di necessità»
C’è ancora spazio in Italia per una cultura laica e democratica di matrice socialista?
A questa domanda il congresso del Pd deve dare risposta
di Michele Ciliberto


In Italia negli ultimi tre mesi sono accadute cose «mostruose» (direbbe uno scrittore barocco) e imprevedibili, almeno nella forma in cui si sono realizzate.
Anzi, il fatto che esse fossero imprevedibili e che, nonostante questo, si siano realizzate pone un notevole problema teorico e politico su cui vale la pena di riflettere. Quando infatti si rompe la catena fra il «prima» e il «dopo», e si spezza ogni nesso tra azione e previsione, vuol dire che si è nel pieno di una crisi che tocca le fondamenta di una società (o di un «corpo misto»), e da ogni punto di vista: etico, politico, culturale.
Certo, già da tempo erano evidenti i sintomi di questa situazione una vera e propria «malattia», aggiungo io; ma essa, oggi, è esplosa in modo traumatico e, appunto, imprevedibile almeno in questa forma. Pensiamo alle previsioni che si facevano tre mesi fa: una forte affermazione del Pd; la guida del governo al segretario di questo partito, gloriosamente acclamato alle primarie; una prospettiva politica e governativa nettamente alternativa al Pdl; l’elezione, infine, di un nuovo Capo dello Stato al posto di Giorgio Napolitano.
Di tutto questo non è accaduto niente: il Pd ha perso quasi quattro milioni di voti; il suo segretario si è dimesso; al posto suo Giorgio Napolitano, riconfermato alla presidenza della Repubblica, ha incaricato un altro esponente del Pd prescindendo completamente dai risultati delle primarie; è stato costituito un governo di larghe intese fra Pd, Pdl e Scelta civica. Come in una sorta di specchio maligno, tutte le previsioni sono state rovesciate, una per una: un sogno o un incubo, a seconda dei punti di vista.
In genere, tutti però sembrano d’accordo nel sostenere che questo rovesciamento ha ragioni «obiettive». Lo giustificano, cioè, facendo appello al principio di «necessità»: non ci sarebbero state altre strade. Come se una giustificazione di questo tipo quando fosse accettata non significasse, paradossalmente, che siamo in balia degli eventi, che non sappiamo dove stiamo andando, che una forza più grande delle volontà e dei progetti dei singoli partiti si impone sottomettendo ogni cosa a se stessa secondo movimenti e processi che appaiono, appunto, imprevedibili -. E non confermasse, insomma, che siamo nel pieno di una crisi organica, nel senso stretto del termine.
Ma pur accettato il criterio della «necessità», e che fosse effettivamente necessario seguire la strada che si è scelta, vanno segnalate, e distinte con forza, le responsabilità delle classi dirigenti che hanno governato l’Italia a cominciare ovviamente da Berlusconi e che ci hanno condotto in questa situazione. È loro responsabilità non avere capito che cosa si muoveva nel fondo del Paese; così come è loro responsabilità non avere approntato politiche in grado di contenere la crisi sociale, salvo martellare i ceti più deboli e più indifesi: quelli che da sempre pagano i prezzi più alti, quando la crisi dilaga nel modo più aspro e più violento; è loro responsabilità infine non aver posto su basi serie il problema del rapporto tra Italia ed Europa.
Questo è lo stato delle cose. Che fare, allora? La cosa più sbagliata sarebbe considerare ordinaria l’impossibilità di prevedere; arrendersi al principio di «necessità»; continuare a sostenere la logica se così si può chiamare della mancanza di alternative, dell’assenza di strade differenti; rassegnarsi insomma al «grado zero». Come se questa accettazione dell’esistente non fosse poi, a sua volta, una scelta, una politica: quella della «necessità» è infatti un’ideologia come le altre, e come tale va decifrata e criticata. Mentre invece e dovremmo averlo imparato in Italia, anche dalla storia recente le democrazie vivono di differenze, di contrasti, anche di conflitti.
Dunque, che fare? Bisogna ricominciare a ricostruire progetti, strategie; sollevare lo sguardo dalla immediatezza dell'esistente; individuare valori intorno a cui raccogliersi e simboli e bandiere per cui valga la pena di vivere e lottare. Il contrario esatto di quanto è accaduto negli ultimi decenni. E per farlo occorre ridare spazio e significato alla teoria, alla cultura e, in primo luogo, alle culture politiche, riafferrando il principio essenziale che è quello di «libertà».
È un problema vastissimo, me ne rendo ben conto. Ma qui voglio concentrarmi solo su un punto specifico: c’è ancora uno spazio in Italia per la cultura laica e democratica di matrice socialista, che proprio su questi temi si è interrogata in modo costante? E preciso subito che intendo «socialista» in rapporto a un concetto moderno di democrazia come principio di eguaglianza, di solidarietà, di reciproca condivisione del destino attuale della umanità; come principio e base di nuovi «legami», oltre le barriere del Novecento, comprese quelle di classe. Insomma, intendo «socialista» come principio di una cultura e di una società imperniata sul primato del lavoro, concepito come struttura dell’uomo e del suo processo di emancipazione e di liberazione dai vincoli naturali e dello sfruttamento. E volutamente ho usato il termine secondo principi «minimi», perché in questo modo esso può essere in grado di riprendere a parlare a vaste comunità di uomini e di donne, di oltrepassare recinti di classe, di nazione, anche di sesso, di coinvolgere un ampio consenso. In sintesi: intendo «socialismo» come base e principio di un nuovo «universalismo» concreto, realistico laico -.
Se il Pd vuole avere un futuro, deve confrontarsi con questi temi, alzarsi in piedi, dichiarare i suoi valori, rimettersi in cammino, e ristabilire anche un rapporto tra azione e previsione. O lo farà o non avrà futuro.

l’Unità 5.5.13
Pier Luigi Bersani
«Il Pd ha mancato la prova. Ora diventi davvero un partito»
«Siamo venuti meno a decisioni formali e collettive. Nella partita del Quirinale abbiamo bruciato il governo di cambiamento»
«Dobbiamo sostenere con determinazione Enrico Letta che si è caricato di un compito pesantissimo, in una fase nuova»
«Da Berlusconi non accettiamo diktat. Vuole la presidenza della Convenzione? È una pretesa senza fondamento»
intervista di Simone Collini


«Il mio unico desiderio è che queste dimissioni servano a qualcosa». Pier Luigi Bersani parla per la prima volta dopo il passo indietro da segretario Pd e l’insediamento del governo Letta. In questa intervista ribadisce che il partito deve «sostenere con determinazione» l’esecutivo, stoppa «diktat e pretese senza fondamento» di Berlusconi (abolizione dell’Imu e presidenza della Convenzione) ma ripercorre anche quanto avvenuto nelle votazioni per il Quirinale: «In quel passaggio, nell’inconsapevolezza di tanti di noi, è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento», dice puntando il dito contro «l’irrompere di ritorsioni e protagonismi spiccioli» e ammettendo che, «messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, abbiamo mancato la prova».
E a cosa pensa dovrebbero servire le sue dimissioni, onorevole Bersani?
«A incoraggiare una discussione vera, a decidere delle correzioni profonde riguardo il nostro modo di essere. L’Italia è nei guai e ha bisogno che il Pd sia all’altezza del compito, che sia in grado di assumersi le proprie responsabilità. Certamente in questi anni abbiamo avuti problemi, ma siamo comunque riusciti ad essere i principali protagonisti politici di governo nella gran parte dei territori. Poi, messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, non siamo riusciti a saltare l’asticella. Abbiamo mancato la prova».
Anche nel suo partito c’è chi l’ha criticata per la gestione della partita del Quirinale: come risponde a chi sostiene che è stato un errore puntare su Marini e a chi fa notare che poi la scelta di Prodi era figlia di uno schema totalmente opposto?
«Guardi, ho sentito ricostruzioni francamente favolistiche e giustificazioni di comodo di quel che è avvenuto, ma non ho intenzione di replicare o di ricostruire passaggio per passaggio quelle giornate perché sarebbe doloroso per me e umiliante un po’ per tutti. Mi fermo su un punto incontestabile: noi siamo venuti meno a delle decisioni formali e collettive. Che possono essere variamente giudicate anche se io le ritengo assolutamente giuste, nelle condizioni date le uniche possibili e coerenti con i nostri deliberati ma che restano, ripeto, decisioni formali e collettive».
Che idea si è fatto, perché il Pd non ha tenuto nel passaggio sul Quirinale?
«Già nei giorni precedenti la scelta del presidente della Repubblica, ci eravamo indeboliti caricandoci addosso la responsabilità dello stallo nella formazione di un governo. Un’idea sbagliata, fatta circolare anche dentro il nostro mondo. Poi, quando si è trattato di applicare una decisione che avevamo assunto, quella cioè di cercare un presidente largamente condiviso fino a prova contraria, la prova contraria che io avevo immaginato potesse provenire dagli altri è invece venuta da noi. E nella fase successiva, di fronte all’impossibilità di una larga condivisione, quando abbiamo proposto un nostro candidato sul quale era stata presa una decisione entusiasticamente collettiva, con nessuno che aveva appoggiato la mia richiesta di voto segreto, abbiamo registrato un colossale inadempimento».
È una questione di disciplina o c’è dell’altro?
«È inutile fermarsi a temi per così dire disciplinari, in questa vicenda sono emersi problemi che dobbiamo assolutamente affrontare. Primo: un deficit di autonomia, una nostra incomprensibile permeabilità, una difficoltà ad esercitare un ruolo di rappresentanza, di orientamento, di direzione. Secondo: l’incapacità di distinguere tra funzioni istituzionali, come è quella del Presidente della Repubblica, e funzioni politiche e di governo. E, mi dispiace dirlo, ma è difficile non vedere in questo la lunga semina della cultura berlusconiana che ha messo frutto anche nel nostro campo. Terzo: l’irrompere di rivalse, ritorsioni, protagonismi spiccioli di fronte a un passaggio di enorme portata. È l’insieme di questi problemi che mi fa dire che è arrivato il tempo di dirimere un tema: vogliamo essere un soggetto politico o uno spazio politico dove ognuno esercita il proprio protagonismo?». Una questione non da poco, per un partito che è nato sei anni fa, non crede?
«Questa ambiguità si è resa non più addomesticabile alla prima, vera prova di diretta responsabilità nazionale. Ora però il tema va affrontato, sapendo che se scegliamo la seconda strada possiamo essere utili ad alcuni di noi, ma non al Paese e agli interessi e ai valori che vogliamo difendere. Se dobbiamo invece essere un soggetto politico, dobbiamo chiederci qual è la nostra missione per questo Paese e capire che, se scegli di entrare in una libera associazione, decidi di devolvere a una comunità almeno una parte delle tue convinzioni, delle tue aspirazioni, delle tue ambizioni. Perché se si disperde l’idea che entrare in un collettivo è una scelta morale, di libertà e di responsabilità, noi non possiamo essere utili al Paese».
Ora è in carica un governo in cui ci sono ministri del Pd e del Pdl, che è quello che lei per cinquanta giorni ha escluso: l’errore è stato commesso ieri o è stato commesso oggi?
«È stato commesso nel passaggio per il Quirinale, che ha comportato un nostro pesante indebolimento e un mutamento nel rapporto di forza. Nell’inconsapevolezza di tanti di noi, lì è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento, la possibilità di aprire la legislatura con una terapia d’urto capace di riconnettere il governo e noi stessi con la società. So bene che fra di noi ci sono parecchi che hanno ritenuto irrealistica quella prospettiva. Ma c’era troppo realismo in quei giudizi. Il vero realismo sta nella connessione al Paese, alle sue esigenze. Quello era un tentativo che aveva dentro un elemento di azzardo, di combattimento, ma non era irrealistico, non sarebbe stato irrealistico, anche se certo in quella prima fase della vicenda, non era irrilevante il fatto che il Presidente della Repubblica non avesse la pienezza dei propri poteri». Grillo però ha chiuso a ogni ipotesi di collaborazione, sia nella fase della formazione del governo che in quella per il Capo dello Stato: col senno di poi si è pentito di aver insistito così a lungo?
«Intanto sia chiaro che io mi rivolgevo a tutto il Parlamento. In ogni caso sbaglia chi sostiene che mi sarei fatto umiliare da Grillo. L’arroganza umilia chi la mostra e rimarrà l’idea di una mia disponibilità a lavorare per un governo del cambiamento. L’idea di Grillo è stata fin dall’inizio quella di tenersi totalmente disimpegnato e cercare di lucrare il più possibile sulla necessità di una convergenza tra noi e la destra. Lucrare si può per un giorno, un mese, forse anche per un anno ma, se poi si mostra l’impotenza e l’inconcludenza di certe posizioni, è finita».
Ma perché il Pd non ha fatto sua la proposta di eleggere Rodotà al Quirinale?
«Dopo quanto successo con Marini e con Prodi, pensiamo davvero che ci sarebbero stati i voti per Rodotà? Dopodiché non è accettabile un prendere o lasciare, dire o così o niente. Il Movimento 5 Stelle ha sempre rifiutato qualsiasi dialogo sul governo e sul presidente della Repubblica. Rodotà è una figura degnissima ma è stata strumentalizzata per un’operazione politica finalizzata a creare difficoltà piuttosto che a ricercare soluzioni. Mi piacerebbe piuttosto chiedere a Grillo e tutti gli altri perché hanno detto no a uno come Marini, forse perché riesce a farsi capire dagli edili? O perché no Prodi?» Torniamo alla domanda di prima: è stato un errore dopo il passaggio del Quirinale dare il via libera al governo del presidente insieme al Pdl?
«No, e anzi ora possiamo soltanto ringraziare il presidente Napolitano per aver evitato un avvitamento della situazione e aiutato l’allestimento di un governo che aveva come alternativa soltanto nuove elezioni con il Porcellum. Quindi, adesso noi senza tante chiacchiere dobbiamo sostenere con determinazione Enrico Letta, che si è caricato di un compito pesantissimo e difficile, in una fase nuova, diversa, quella che lui ha chiamato giustamente “governo di servizio”».
Sostenere un governo in cui c’è Micciché e Biancofiore? Con Berlusconi che propone l’abolizione dell’Imu e chiede per sé la presidenza della Convenzione sulle riforme?
«Quanto alla squadra di governo, nessuno può nascondersi la difficoltà di allestire una compagine in queste condizioni politiche. Ma nelle condizioni date Letta ha trovato un buon equilibrio. Noi dobbiamo pienamente sentire in quel governo la nostra responsabilità e combattere perché ottenga dei risultati, a partire dalle risposte da dare alla grave situazione economica e sociale. Per quanto riguarda l’Imu, anche noi abbiamo detto che si deve correggere, ma nel caso si intervenga deve rinvenirsi traccia di quanto da noi proposto. E lo stesso vale sugli ammortizzatori sociali e sugli esodati. Nessuno può avanzare diktat. Per quanto riguarda le riforme istituzionali, sarebbe buona cosa allestire una Convenzione, come già avevo proposto durante le consultazioni. Ma l’autocandidatura di Berlusconi alla presidenza mi pare una miccia accesa e una pretesa senza fondamento».
Le sue dimissioni saranno ratificate all’Assemblea nazionale del Pd, sabato: che tipo di discussione auspica si faccia in quella sede?
«Parto dal punto di fondo: ci vuole un congresso vero, che sia svincolato dalla scelta di un candidato premier, visto che per la prima volta da quando esiste il Pd un presidente del Consiglio lo abbiamo. Quindi penso che sia possibile avviare una procedura per arrivare a una modifica dello statuto tale per cui non ci sia più coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier. Serve aprire subito una discussione che consenta di affrontare i temi che dicevamo prima, la natura del Pd, la sua missione, le sue responsabilità di fronte al Paese. E auspico che l’Assemblea di sabato non sia un mini-congresso».
Comunque dovrà eleggere il suo successore: un reggente o un segretario a pieno titolo?
«È una discussione formalistica. L’Assemblea deve pronunciarsi su una persona, dare un mandato pieno a qualcuno che dovrà condurci nella fase congressuale e intanto rappresentare il Pd di fronte al Paese».
Insomma un segretario.
«Ma sì, una figura che goda di un largo consenso e che sia di garanzia per tutti. Naturalmente queste sono opinioni che impegnano solo me stesso. In settimana bisognerà preparare uno sbocco positivo dell’Assemblea con l’aiuto dei segretari regionali e del coordinamento».
A tutti quelli che le stanno chiedendo di congelare le sue dimissioni fino al congresso cosa dice?
«Che io lavorerò perché al congresso si affronti una discussione seria, vera, ma non rivedo le mie decisioni. Ho sempre detto che non mi sarei ricandidato, che bisogna mandare avanti una classe dirigente nuova, e dovremo discutere sulla base di quali criteri si arriva alla selezione. Dopodiché sono stato segretario per quattro anni duri e appassionanti, so bene che in politica si vince assieme e si perde da soli, ma so anche che la politica come qualsiasi attività umana ha una sua moralità. A questa non ho rinunciato da una vita e non intendo rinunciarci ora».

Corriere 5.5.13
Lo sguardo al Novecento
Non c'è alcun futuro per il Pd se non supera il «peso del passato»
di Angelo Panebianco


Si sa che sulle sorti del governo Letta peseranno soprattutto i modi e i tempi della ridefinizione degli equilibri interni al Partito democratico, uscito totalmente destabilizzato dalle elezioni e da ciò che ne è seguito. È possibile che alcune delle cause della crisi del Pd non siano del tutto chiare a molti dei suoi stessi militanti.
Che cosa ha fin qui frenato quel partito, che cosa gli ha impedito di darsi una identità adeguata, spendibile con più successo nelle nuove condizioni della competizione politica? È stato soprattutto il peso del passato. Il Pd non ha una identità adeguata, utile per vincere le elezioni, perché tende a perpetuare al proprio interno concezioni, di se stesso, del proprio rapporto con gli elettori e con la società italiana, ereditate dal passato e che sono incompatibili con le circostanze presenti.
Il problema principale è che, per un antico retaggio, il Pd concepisce il proprio elettorato assai più come un «blocco» che come un insieme di «flussi». Vediamo cosa ciò significhi. Nato dall'unione fra l'ex Pci e l'ex sinistra democristiana, guidato da persone formatesi in quelle esperienze, il Pd ha ereditato la visione del rapporto fra partiti ed elettori allora dominante. All'epoca, il sistema politico italiano era immobilizzato dalla conventio ad excludendum (la permanente esclusione del Pci, a causa della guerra fredda, dall'area di governo). Inoltre, la mobilità elettorale era molto bassa: pochi elettori si spostavano da un partito all'altro; pochissimi si trasferivano da sinistra a destra e viceversa. In un sistema statico come quello, si conducevano solo guerre di posizione. Il problema dei partiti non era conquistare un bel po' di voti altrui (cosa praticamente impossibile) ma mantenere, conservare, elezione dopo elezione, il proprio «pacchetto», il proprio blocco di voti. Si pensi al Pci. Escluso dalla possibilità di andare al governo, aveva certo interesse ad ottenere qualche voto in più ma l'interesse prevalente, dominante, era conservare i voti già acquisiti. Anche la sinistra democristiana, impegnata nelle lotte con le altre correnti Dc, aveva lo stesso problema: conservare i propri consensi, condizione necessaria per continuare a praticare il gioco del potere dentro l'allora partito di maggioranza relativa.
In un mondo statico, la cosa che conta è preservare la propria forza, non c'è spazio per innovative strategie di conquista: le vittorie e le sconfitte elettorali, in un mondo siffatto, si giocano ai margini, in virtù di piccoli pugni di voti che si spostano, erraticamente, di qua o di là. Sono queste circostanze che portano a pensare al proprio elettorato come a un blocco che, in quanto tale, potrebbe in qualunque momento «spezzarsi»: occorre quindi farne oggetto di manutenzione continua, innaffiarlo, coccolarlo, tenerlo unito a tutti i costi. «La base non capirebbe» è la frase che, in quel mondo, pone termine a ogni discussione nel caso in cui qualcuno, poco consapevole delle vere regole del gioco, si azzardi a proporre idee nuove o innovazioni strategiche.
Si pensi, per contrasto, a un qualunque dirigente di partito (ad esempio, di un partito socialdemocratico) di un altro Paese europeo. Quel dirigente, nell'epoca della propria formazione politica, ha conosciuto un mondo più dinamico. Il suo partito qualche volta ha vinto le elezioni ed è andato al governo, altre volte le ha perse ed è andato all'opposizione. Certamente, anche in quel partito c'era un nucleo di elettori stabili che non potevano essere troppo maltrattati, ma il nostro dirigente socialdemocratico sapeva che per vincere le elezioni bisognava fare guerre di movimento. Sapeva che occorrevano proposte politiche vincenti e che una nuova proposta è vincente se, pur scontentando, come è inevitabile, vecchi elettori, riesce a conquistarne di nuovi (ovviamente, in quantità superiore a quelli che si perdono). Sapeva che si vincono le elezioni solo se il flusso di elettori in entrata (i nuovi elettori che voteranno per il partito) risulterà superiore al flusso di elettori in uscita.
Il problema del Pd è che, guidato da persone che sono state iniziate alla politica nell'ultima fase della Prima Repubblica, ha continuato a pensare, anche nel ventennio successivo, al rapporto con gli elettori nel modo statico di allora (l'elettorato come blocco anziché come insieme di flussi) mentre, nel frattempo, il mondo circostante diventava sempre più fluido e dinamico. Si pensi, da ultimo, alle primarie Bersani/Renzi. È stato anche uno scontro fra la concezione statica e quella dinamica del rapporto con l'elettorato. Matteo Renzi diceva una cosa che sarebbe apparsa ovvia, scontata, perfino banale, in qualunque altro Paese, ossia che per vincere le elezioni bisognava parlare agli elettori di Berlusconi. Ma poiché la concezione prevalente nel partito, ereditata dal passato, era quella descritta, questa tesi suonava come eretica, scandalosa, alle orecchie dei tradizionalisti, e Renzi stesso veniva fatto passare per un cripto-berlusconiano.
Il Pd nacque su una parola d'ordine — «vocazione maggioritaria» — che avrebbe richiesto, se presa davvero sul serio, un radicale rinnovamento di mentalità e di concezioni. Quel rinnovamento non c'è stato. Se non avverrà in tempi rapidi il Pd chiuderà malamente la sua parabola. Dove tutto è in movimento non c'è futuro per chi si attarda in guerre di posizione.

Repubblica 5.5.13
Tutti ai remi per salvare la nave
di Eugenio Scalfari


DOMANDIAMOCI anzitutto che cosa vuole la gente, le persone che incontriamo o di cui sappiamo tutti i giorni e che appartengono alle più diverse categorie: lavoratori, consumatori, giovani, anziani, occupati, disoccupati, indignati, disperati, civicamente impegnati, indifferenti, antipolitici.
Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo chiamavamo il popolo, il “demos”, sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il futuro.
La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai crimini commessi da una classe dirigente anch’essa degradata; ma anche per colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura sguazzandovi dentro. Le colpe non stanno mai da una parte sola, chiamano in causa ciascuno di noi sicché – come diceva il Nazareno che parlava per parabole – chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Dunque la gente, simulacro sconcertante del popolo sovrano. Che cosa vuole? Vuole un immediato sollievo dai propri disagi, vuole il recupero di almeno una parte del benessere perduto e un po’ più di giustizia sociale; vuole che si diradi la nebbia e si riaccenda la speranza di futuro.
Questo vuole la gente. Detesta la disperazione e per questo è disperata.
Ha bisogno d’essere governata ma non si fida. Un nuovo governo finalmente c’è e il Parlamento gli ha votato un’ampia fiducia ma la gente aspetta di vedere i primi fatti. Le promesse non bastano, gli impegni neppure, quante volte furono traditi?
Ma attenzione, gente: molto dipende anche da te. Se ancora una volta cadrai nell’inganno della demagogia, se ti lascerai sedurre dal canto delle sirene, se non vorrai e non saprai ritornare popolo, sarà poi troppo tardi per piangere perché qui e
ora si gioca il tuo destino.
***
Molti temono ed altri sperano che questo appena costituito sia un governo “balneare”. Altri si augurano che rappresenti una svolta: dopo la guerra civile durata vent’anni tra berlusconismo e antiberlusconismo, finalmente la pacificazione.
Abbiamo già detto che la gente non è interessata a nessuna di queste ipotesi, ma soltanto (e non è poco) al recupero d’una parte del suo benessere, a tutele sociali e al rilancio del lavoro e della crescita. Gli obiettivi sono questi; al governo spetta di trovare gli strumenti e metterli in opera. Può sembrare paradossale, ma i mercati pensano la stessa cosa e la loro risposta finora è positiva. Perciò la natura di questo governo è chiarissima: stato di necessità per oggettiva mancanza di alternative. Dovrà durare fino a quando quei risultati non saranno stati raggiunti.
Un governo balneare non corrisponde a questo mandato perché non è in pochi mesi che gli obiettivi assegnati potranno essere raggiunti. I partiti che lo appoggiano debbono averlo ben presente.
Le provocazioni di sapore pre-elettorale che Berlusconi continua a lanciare ogni giorno, non giovano affatto, inaspriscono una conflittualità che rende friabile una compagine tenuta insieme con gli spilli. Forse il Cavaliere pensa di consolidare in questo modo il ruolo di “kingmaker” cui aspira e di attrarre almeno in parte i sei milioni di voti perduti. Quando vorrà, staccherà la spina come ha fatto con Monti; ma commette un grave errore a coltivare queste ipotesi. Napolitano non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere fino a quando la legge elettorale e le altre riforme da lui ritenute indispensabili per avviare il Paese verso una solida ripresa non saranno state effettuate.
Chi pensa che in quel caso lo scontro avverrà tra Berlusconi e Letta si sbaglia, lo scontro contrapporrebbe il Cavaliere a Napolitano, che avrebbe con sé le Cancellerie europee, i mercati e soprattutto la gente. L’immagine del “meno male che Silvio c’è” andrebbe in frantumi nel breve spazio d’un giorno, perfino tra le file dei suoi fedeli. Forse qualcuno di loro dovrebbe avvertirlo prima che sia troppo tardi.
Quanto ai partiti, dovrebbero riformarsi e rifondarsi perché così come sono ridotti hanno perduto ogni capacità di rappresentanza. Tutti, movimenti compresi. Spetta ai loro militanti di provvedere e alla pubblica opinione di stimolarli mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Viviamo in un Paese dove non è mai esistita una destra liberal-moderata e una sinistra riformatrice e non trasformista. La destra dovrebbe ripudiare il populismo e la sinistra il frazionismo nascosto sotto il mantello dell’utopia.
Se così non sarà, avrà avuto ragione chi ci definì un’espressione geografica. Sono passati duecento anni da allora, ma con scarsissimi progressi.
***
L’abolizione e il rimborso dell’Imu sono richieste prive di senso salvo per quanto riguarda i proprietari di case con redditi bassi. Per il resto l’Imu altro non è che un’imposta progressiva sul patrimonio ed è bene che come tale sia mantenuta. L’economia reale ha bisogno di tutele sociali estese e robuste, alleggerimento del cuneo fiscale, incentivi al consumo e alla creazione di posti di lavoro.
Le risorse disponibili e quelle che l’Europa dovrà mettere a nostra disposizione nel quadro delle trattative in corso vanno canalizzate in questo modo. La lotta all’evasione va continuata con decisione. Le vendite di patrimonio pubblico debbono finalmente essere intraprese; i debiti della pubblica amministrazione liquidati, se ne parla da un anno, che cosa si aspetta? La “spending review” ha dato ben poco finora, eppure l’obiettivo è di palmare evidenza: la burocrazia, cioè la semplificazione amministrativa mai fatta. Questo dovrebbe essere uno dei compiti primari del governo, altro che balneare!
Walter Veltroni sostiene che anche la lotta contro la criminalità organizzata – a cominciare da quella che domina il settore dei videogiochi – è un obiettivo economico di essenziale importanza, ed ha perfettamente ragione. Dai un seguito in questo senso, caro Enrico Letta, sarebbe benvenuto.
E meno male che Draghi c’è. Qualcuno – a cominciare dalla Bundesbank ma non solo – ha dato un’interpretazione riduttiva della diminuzione del tasso di interesse della Bce ed ha trascurato altre parti dell’intervento preannunciato da Draghi: l’accelerazione dell’unione bancaria, i prestiti trimestrali illimitati alle banche europee e il tasso negativo sui loro depositi presso la Bce. Si tratta di iniezioni di liquidità della massima importanza, che sono all’origine del buon andamento dei mercati e dello “spread”. La ripresa dell’occupazione in Usa e la politica di liquidità della Federal Reserve sono altrettanti elementi positivi della situazione. Forse siamo veramente all’inizio della ripresa a cinque anni dallo scoppio della crisi.
***
Un altro sparo a salve di Berlusconi riguarda la sua candidatura alla presidenza della Convenzione indicata nel programma di governo.
Non starò a ripetere quello che è stato già detto da persone non sospettabili di faziosità sulla impossibilità di dare al Cavaliere un ruolo di “terzietà”. Fa ridere la sola idea.
Ma il problema è un altro: creare questa Convenzione non ha alcun senso. Poteva averne quando Bersani la indicò come uno strumento utile per discutere i temi delle riforme costituzionali, distinte da un governo formato dal Pd al di fuori della logica delle larghe intese. Ipotesi rivelatasi ben presto irrealizzabile. Ma ora non ha senso alcuno, espropria le commissioni parlamentari e propone una sorta di Assemblea costituente del tutto sconsigliabile.
Noi non abbiamo affatto bisogno di una generale rilettura critica della Costituzione vigente, tantomeno con l’obiettivo di passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale.
Abbiamo bisogno di specifiche e limitate riforme di stretta competenza del Parlamento sulla base dell’articolo 138 della Costituzione: la riforma del senato federale e del bicameralismo perfetto, la diminuzione del numero dei parlamentari, la riforma del finanziamento dei partiti, l’abolizione delle Province.
Questi sono i temi; per realizzarli la prevista Convenzione è una via sbagliata. Ho visto che anche Stefano Rodotà è su questa linea e me ne rallegro.
Ed ora, come disse l’ammiraglio Nelson a Trafalgar, faccia ciascuno il proprio dovere. Lui purtroppo ci rimise la pelle ma la battaglia fu vinta. Noi speriamo che la vinciamo restando in piedi sul cassero della nostra nave che batte le insegne dell’Italia e dell’Europa.

il Fatto 5.5.13
Crisi e politica
Perdere il lavoro, catastrofe senza fine
di Furio Colombo


Se io avessi potuto dimostrare che la fabbrica è un bene comune e non un interesse privato... ”. Trovo questa frase nella raccolta di scritti e discorsi di Adriano Olivetti raccolti nel volume Il mondo che nasce appena pubblicato dalle Edizioni di Comunità. Accanto a questa frase degli anni 50 vedo il titolo di un articolo di Paul Krugman (New York Times, 23 aprile): “La catastrofe del restare senza lavoro”. Vorrei che fosse chiaro: non sto tentando la contrapposizione di due epoche. Adriano Olivetti, benché imprenditore di immenso successo, era solo nel dire quella frase. E il premio Nobel per l’Economia Krugman è solo nel dedicare al lavoro tutta la sua attenzione e alla mancanza di lavoro tutto il suo allarme. Olivetti vedeva i suoi colleghi imprenditori cedere o resistere di volta in volta ai sindacati senza alcuna idea del rapporto fra lavoro e fabbrica e dunque fra capitale e persone. Krugman continua a fare segnali disperati intorno al cratere in cui sta scivolando il lavoro, con una ammonizione-profezia forse già inutile: “Attenzione, se perdiamo il lavoro non c'è ritorno”.
L’IMPRENDITORE Olivetti e il docente Krugman mostrano, in due secoli contigui e diversi, la stessa visione che sfugge a tutti i politici, o almeno a quelli che contano: non esiste politica, non esiste governo, non esiste Paese, non esiste ripresa se tutto ciò non si costruisce intorno al lavoro. Niente è più folle di una immagine politica del mondo in cui la parola lavoro distingue altruisti da egoisti e benevoli da severi. Non esiste la città senza il lavoro, il benessere con la fabbrica chiusa, il futuro fondato sul disprezzo del lavoro. Eppure se prestate attenzione alla politica del mondo industriale, a quella europea, e (al fondo dell’imbuto) alla politica italiana, vi accorgete che il lavoro c’entra solo come opera buona che alla fine, quando avremo accumulato di nuovo le giuste risorse, potremo tornare a distribuire, un po’ come i pasti caldi e le coperte dopo i terremoti.
In fondo ciò che è accaduto, in quest’ultima strana stagione della politica in Italia, è stato di mettere insieme due visioni cieche della vita: imporre tagli a chi non può sopportarli, chiedere lavoro a chi non sa nulla del problema. Quale problema? Da una parte c’è una mania di garanzia proprietaria che dai più ricchi può anche discendere verso i meno abbienti, ma ha a che fare solo con il mondo fermo del possesso. Dunque togliere ogni tassa sulla casa. La parola d’ordine sembra essere: “Resta dove sei e avrai protezione per ciò che hai”. Dall’altra quello che conta è ripetere con enfasi diritti che non ci sono più, perché erano i diritti del lavoro. E il lavoro – nel frattempo – è stato liquidato.
La mancanza del legame di lavoro danneggia in modo grave la lealtà dei cittadini, che hanno dovuto restituire la loro carta di identità: chi sei, ovvero che lavoro fai e dove? A questo punto le masse diventano fluide e non puoi dire se e dove sono i posti di controllo, perché la politica (tutta) si è ritirata nel luogo chiuso e sordo dove si prendono decisioni che tagliano fuori i cittadini. Si creano due fiumi di comunicazione. Da sopra scende una serie di istruzioni punitive sempre meno condivise e sgradevoli. Da sotto, sale un boato di rifiuto sempre più vasto che però tende a ricadere verso l’abbandono. È qui che nascono i semi della violenza, individuale o di gruppo, ti dicono i finti esperti. Non è mai stato vero. Le condizioni sociali sono sempre state un formidabile alibi per operazioni organizzate, sponsorizzate e con fini precisi benché il più delle volte restino, per quasi tutti noi, oscuri. Ecco perché Paul Krugman avverte il suo Paese ma (come ha detto mille volte) anche noi, che si sta preparando e accumulando il materiale di una tragedia più grande e più grave di ciò che è accaduto finora, ovvero la vita senza il lavoro. La disoccupazione prolungata porta rinuncia (al lavoro), distacco (dalla cittadinanza) e abbandono di lealtà e fedeltà alle regole, lascia campo libero a ogni genere di disordine, dai rifiuti stradali alla criminalità organizzata. Stiamo costruendo una classe di disoccupati permanenti.
NON ERA affatto necessario. L’autodistruzione in cui siamo coinvolti non è una tragedia del destino, ma il frutto di una politica sbagliata e rovesciata come buttare in mare i passeggeri per migliorare le condizioni di navigazione. La metafora è giusta perché qui si sta raccontando qualcosa di irrimediabile. La ripresa, se anche ci fosse, non interromperebbe la catena dei disoccupati da lungo tempo. Questo è il nuovo grande fenomeno dei Paesi ex industrializzati, grandi e piccoli, il frutto pericoloso e umanamente inaccettabile di coloro che perdono il lavoro, restano fuori troppo a lungo e, persino nella più festosa delle riprese, per ragione del tempo trascorso non sono più desiderati. Di colpo si scopre il delitto di avere abbandonato i lavoratori al loro destino e (negli stessi giorni, da parte degli stessi governi) di avere abolito, come privilegi che hanno fatto il loro tempo, garanzie e protezioni. Si è creata l’idea che sostenere il lavoro sia un’opzione che fa pendere un partito o un governo a sinistra. Per correggere questa percezione fuori moda, si è abbandonato il lavoro. Il risultato lo pagano milioni di esseri umani. E i presagi non sono festosi.

l’Unità 5.5.13
Insulti a Boldrini e Kyenge. Vera e propria emergenza
di Mila Spicola


LEGGO PERPLESSA ALCUNI COMMENTI SULLE MINACCE SUBITE NEL WEB DA LAURA BOLDRINI E SUGLI ATTACCHI AL NEO MINISTRO KYENGE. Gravissimi. Esternazioni del tipo: «Pericolosa deriva sessista e razzista». Pericolosa? Deriva? Come se tutto ciò piovesse da cielo e fosse un inedito accadimento. Come se all’improvviso avesse tracimato il Vajont, o stesse per tracimare. Non c’è nessuna deriva. Non c’è nessun avviso di pericolo. Siamo in piena tempesta e in una guerra ormai esplosa.
Con circa 200 donne ammazzate e con un numero di violenze di genere impressionante non possiamo più dire a Cappuccetto Rosso: attenta se vai nel bosco rischi di incontrare il lupo.
Gli attacchi e le derive sessiste e razziste sono il segno di una realtà conclamata: l’Italia razzista e sessista. Lo ripetiamo da tempo che il declino è andato avanti vorticosamente, lo ripetiamo da tempo che assistiamo a troppe inconsapevolezze. Non è necessario introdurre nuove norme di repressione sui social network, e direi nemmeno nella vita reale. Le norme e le leggi ci sono. Quello che manca è la consapevolezza reale della grave emergenza educativa e culturale che sta colpendo il Paese.
Quando qualcuna di noi da anni avverte che la soglia di maschilismo reale si è impennata non lo fa perché è una vetero femminista radical chic, e nemmeno perché è una sprovveduta. Lo fa perché lo vive sulla pelle. Adesso la pelle è quella del Presidente Boldrini, o quella del ministro Kyenge. In genere la pelle è quella di tutte le donne italiane.
Qualcuno mi dirà: sei la solita esagerata. No, non lo sono e dobbiamo stare più che attenti a definire esagerato tutto ciò. I dati confermano quello che dico e non si può andare avanti così. Ce lo ripetiamo da mattino a sera: è un’emergenza sociale, è un’emergenza educativa, bisogna agire. Ma come?
Se l’emergenza è educativa e culturale, è su quel piano che bisogna agire, smontando gli stereotipi ed eliminando le educazioni tacitamente discriminanti che sono la vera fonte di tutto ciò. L’educazione oggi in Italia, nelle famiglie come nelle scuole, è fortemente sessista e sarebbe il caso di analizzare il fenomeno, per agirvi. A maggior ragione perché inconsapevole. Sarebbe il caso di parlarne, di discuterne. Anche in tv, sui media, sui quotidiani, perché no? I testi scolastici sono fortemente sessisti e carichi di stereotipi sessuali da cultura pre-industriale e gli insegnanti non hanno avuto nessuna sensibilizzazione o formazione specifica in tal senso. Di conseguenza nemmeno i genitori. La scuola italiana, specie nella primaria, coltiva e trasmette inconsapevolmente e in buona fede i pregiudizi di genere che poi ci accompagneranno per tutta la vita e che da adulti è difficilissimo scardinare. Direi anzi che, a furia di sottovalutare e non riconoscere, pregiudizi e discriminazioni sono aumentati a tal punto da renderli quasi normali: in un crescendo di azioni nefaste fino ad arrivare ai casi estremi. Nell’opinione pubblica i casi estremi iniziano ad essere derubricati nella loro gravità.
Agire sugli stereotipi, sensibilizzare al rispetto di genere a partire e soprattutto a livello scolastico, sono direttive comunitarie che l’Europa ha indicato a tutti i Paesi membri. L’unico Paese che non le ha adottate con azioni reali e specifiche sul piano scolastico ed educativo siamo noi. Persino il codice Polite di autoregolamentazione non sessista dei libri di testo, scritto, redatto, discusso, alla fine degli anni novanta, la cosa più semplice e concreta da farsi, non è mai diventato operativo. Giusto per fare un esempio sulla superficialità con cui è stato accantonato il problema. Le cose non accadono per caso. Le libertà come le responsabilità, come diceva Hanna Arendt, si declinano al singolare. Ed è singolarmente e individualmente che l’educazione agisce per farsi trasmissione di valori condivisi nel segno del rispetto come leva di sviluppo collettivo e di coesione sociale. L’educazione al rispetto di genere in chiave professionale e specifica è una metodologia sconosciuta alla quasi totalità degli educatori italiani. Reca con sé la cultura del rispetto del diverso: della diversità dei sessi, delle etnie, delle opinioni. In una parola reca con sé la cultura della non violenza rispetto alla cultura della prepotenza che dovrebbe essere il pilastro fondativo delle dinamiche individuali e sociali. Il cerchio si chiude. Sono cose che si insegnano, se nessuno le ha mai insegnate non si praticano. Semplice ma vero. Se Laura Boldrini e il ministro Kyenge vogliono tramutare un atto di prepotenza in un’occasione unica di crescita civile e sociale del Paese, di cambiamento a lungo termine pur in un governo a breve termine, premano affinché la scuola italiana ponga tra i suoi obiettivi educativi, in senso formale e specifico, l’educazione di genere e il superamento degli stereotipi.

il Fatto 5.5.13
Kyenge e la Lega dei soliti razzisti
di Silvia Truzzi


L’UNICA buona notizia di questa grande ammucchiata governativa è il ministero all’Integrazione affidato a una persona che riassume in sé due categorie storicamente discriminate: è donna ed è nera. Mentre gli Stati Uniti hanno un presidente nero (o come direbbe il nostro massimo statista, “abbronzato”), appena questo Paese dà un segno d’illuminata modernità c’è sempre l’intelligente di turno che si alza e dice la sua sciocchezza. O meglio “cazzata” per usare un’espressione cara al lord Brummel di casa nostra, Mario Borghezio, un signore che abbiamo ben pensato di mandare a rappresentarci in Europa (per firmare la petizione “Fuori Borghezio dal Parlamento europeo”, promossa da Articolo 21: www.  change.org  ). Dice l’elegante “onorevole” leghista: “Questo è il governo del bonga bonga”, con una nota di rimpianto per quello dello storico alleato Silvio (il bunga bunga di cui si occupa il Tribunale di Milano in relazione all’ipotesi di prostituzione minorile di una ragazza marocchina , ancorché altolocata perché notoriamente “nipote di Mubarak”). Di nuovo Borghezio: “Mi sembra una scelta del cazzo. So che è un medico, ma mi è sembrata più una brava casalinga. Gli africani sono un’etnia molto diversa dalla nostra, non hanno prodotto grandi geni. Ci avrei visto bene Gentilini”. Ideona: chi meglio dell’ex sindaco di Treviso noto per avercela con i “culattoni”, i terroni e i rom per il ministero all’Integrazione? Si è segnalato anche Erminio Boso: “Il ministro Kyenge deve stare a casa sua, in Congo. Ve la tenete voi, il ministro italiano di colore. Non me ne frega niente se fa il medico”.
CERTO, LA LAUREA del neoministro alla Facoltà di Medicina della Cattolica di Roma cosa può valere in confronto a quella del Trota acquistata in Albania? Matteo Salvini non ha trovato di meglio che dichiarare: “Kyenge è il simbolo di quella sinistra ipocrita che vuole abolire il reato d’immigrazione clandestina, che si preoccupa dei diritti, ma che non sa assumersi le proprie responsabilità”. Il segretario della Lega in Lombardia ne sa qualcosa di responsabilità, visto che si trova a gestire un partito travolto da ogni sorta di scandalo. Il governatore del Veneto Zaia, che ha condannato le parole di Borghezio, invece ha invitato Cécile Kyenge a portare la sua solidarietà a una ragazza vittima di uno stupro da parte di un senegalese. E chi porta solidarietà alle donne, una ogni due giorni, gentilmente massacrate dai propri italici mariti? Intanto su Facebook e sul muro di un liceo di Padova sono comparsi insulti e minacce contro Kyenge. Il ministro (che come prima cosa ha detto di voler abolire i Cie, veri lager, e l’inutile legge intasa carceri, la Bossi-Fini) ha risposto assai pacatamente: “L’Italia non è un paese razzista. Io non sono ‘di colore’: sono nera, lo enfatizzo con fierezza. Se non si conosce l’altro aumenta lo scetticismo, la discriminazione. L’immigrazione è una ricchezza, le differenze sono una risorsa”. Siamo stati un Paese di migranti e abbiamo provato sulla nostra pelle quanta sofferenza porta la discriminazione: evidentemente nemmeno noi siamo ‘sti gran geni.

il Fatto 5.5.13
Nuove avventure del moderato Borghezio
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, la storia ricomincia sempre da capo. I leader della Lega Nord non solo mandano yacht milionari acquistati con soldi pubblici nei porti del più costoso turismo mediterraneo. Ma all’occorrenza sono pronti all’insulto, di volta in volta più volgare e più grave. E la risposta è sempre mite e bonaria. Parlo di Borghezio e di ciò che ha detto del ministro Cécile Kyenge. Una lurida storia si ripete.
Franco

PER RIGUARDO alla cronaca, ripeto la dichiarazione di Mario Borghezio nel corso della trasmissione “Un giorno da pecora” (29 aprile) come riportato dall’Ansa: “La Kyenge (neoministro dell’Integrazione, medico italiana di origine congolese, ndr) ci vuole imporre le sue tradizioni tribali. Sono decisioni prese alla cazzo”. Ai lettori non sfugge che Ma-rio Borghezio è un ex cittadino italiano che ha rinnegato l’Italia con il giuramento secessionista obbligatorio, richiesto dal suo partito, la Lega Nord. E ha frequentemente umiliato la sua ex patria con affermazioni e insulti che si collocano fra il disagio psichiatrico e il teppismo più squallido. Tutto ciò è avvenuto mentre Borghezio era indegnamente (e mai richiamato dai presidenti delle rispettive assemblee) deputato italiano e poi deputato europeo e capogruppo della Lega Nord in quel Parlamento. Intanto il suo partito, con i soldi della stessa Repubblica insultata, faceva incetta di auto di lusso, yacht costosissimi e altri inarrivabili beni di consumo, da donare alla famiglia Bossi a spese dello Stato. E si prodigava per negare il secolare diritto d’asilo a profughi e rifugiati con l’espediente criminale dei respingimenti in mare che, secondo la presidente Boldrini (quando era portavoce dell'Onu) hanno provocato migliaia di morti, compresi bambini e donne incinte. Nessuno ha mai veramente denunciato (salvo l'Onu, Amnesty International e il Partito radicale) quel delitto. Purtroppo ora constatiamo che nessuno considera reato l’aggressione di Borghezio al ministro donna di origine congolese. Aggiunge Borghezio, per chiarezza sui suoi ignobili sentimenti: “E poi gli africani sono africani. Non hanno prodotto grandi geni, basta consultare l'enciclopedia di Topolino. Se quella fa il medico vuol dire che ha tolto il posto a un medico italiano”. Purtroppo noi, umiliati cittadini italiani, disponiamo di un’unica replica di una brava persona del Pd che a quanto pare non sa che cosa sia l'indignazione e il dovere irrinunciabile della difesa dei diritti umani e civili. Infatti Edo Patriarca, deputato Pd, bonariamente risponde all’aperta dichiarazione di razzismo (dunque un reato): “Borghezio si svegli, l’Italia è cambiata. Del resto è smentito pure dai suoi. Se ricorre alle offese personali è segno che è a corto di argomenti”. Nota bene: l’Italia, salvo che durante il fascismo, non è mai stata rappresentata da qualcuno come Borghezio, dunque non l’Italia è cambiata, ma la tolleranza degli altri partiti politici per il delittuoso comportamento di individui come Borghezio, un pregiudicato già noto alle Questure per gesti incendiari condannati in giudicato. Ciò che ha detto alla Kyenge non è “una offesa personale” (come non lo sono gli insulti a Balotelli). A Borghezio mai nessun leghista ha dato torto, e infatti torna continuamente e con successo nelle loro liste elettorali. Come fa Patriarca a non vedere che la Lega risponde solo ai sentimenti peggiori disponibili sul momento in un’Italia devastata dal berlusconismo?

Corriere 5.5.13
Boldrini: «Proteggere le donne». L'ipotesi di una task-force
di Margherita De Bac


ROMA — Basta violenza sulle donne. È un appello corale quello lanciato dalle ministre del governo Letta. Un appello condiviso cui seguiranno azioni concrete a cominciare da un gruppo di lavoro interministeriale istituito dalle Pari opportunità, sotto il coordinamento di Josefa Idem.
«Non serve una nuova legge per il web», ha chiarito ieri il presidente della Camera in un twitter per precisare il senso di alcune sue dichiarazioni. Laura Boldrini, che pochi giorni fa aveva denunciato di essere stata minacciata e offesa su internet anche attraverso la diffusione di immagini di nudo, chiarisce di non voler assolutamente proporre restrizioni: «Credo nel potenziale partecipativo e democratico di questo strumento, tanto che ho attivato una pagina facebook e un profilo twitter». Ferma la sua determinazione ad intervenire con tutti i mezzi per arginare un fenomeno che ogni giorno riempie le pagine dei giornali con cronache di soprusi e prevaricazioni contro le donne.
«È un problema che deve riguardare tutti anche chi giustamente ha a cuore la libertà della rete», insiste il presidente della Camera.
Josefa Idem ha annunciato la sua prima iniziativa, una risposta che ha subito trovato sponda presso le ministre. Una task force interministeriale che si occupi di questo tema in modo trasversale col coinvolgimento di Interni, Giustizia, Lavoro, Salute. Il primo passo sarà conoscere l'entità del fenomeno, raccogliere dati in base alle denunce e all'attività dei servizi sociali. Sarà fondamentale coinvolgere le associazioni che si dedicano all'assistenza legale e psicologica delle «vittime».
Favorevole alla task force interministeriale il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri: «È una proposta molto interessante. Credo sia necessario impegnarsi con grande slancio per combattere questo genere di reati particolarmente odiosi».
Il progetto di una task force non potrà prescindere dal contributo di Cecile Kyenge, ministro dell'Integrazione, colpita da insulti razzisti, che intervistata da SkyTg24 ha ricordato la lunga serie di delitti. Nel 2012 sono state 150 le donne uccise, 15 dall'inizio dell'anno: «Serve la prevenzione con una legge specifica contro la violenza. Occorre un cambiamento culturale. Bisogna arrivare in fretta alla ratifica della convenzione di Istanbul. Lavoreremo molto, con la ministra Idem avremo modo di collaborare».
La convenzione sulla prevenzione della violenza contro le donne anche all'interno delle mura domestiche è stata sottoscritta presso il Consiglio d'Europa nel maggio del 2011, a Istanbul. Ma non è ancora stata recepita con un atto del Parlamento italiano.
D'accordo sull'urgenza di rispondere con azioni efficaci anche a livello di sensibilizzazione il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: «Da sempre mi batto per sostenere i diritti di chi subisce offese e soprusi. L'intera società civile deve sentirsi coinvolta. Serve una visione a 360 gradi perché è una ferita per le famiglie e la società». Per l'ex ministro Mara Carfagna «ora che finalmente c'è un governo, un esecutivo che può contare su una maggioranza solida e riformista nessuno di noi può chiamarsi fuori dalla responsabilità di fare qualcosa. Qualcosa di più».
Le associazioni sono pronte a fare la loro parte. «Ferite a morte», il progetto teatrale scritto da Serena Dandini in collaborazione con Laura Misiti, che sostiene la Convenzione No More, chiede un intervento forte e deciso: «È ora di fermare questo scandalo. Ancor prima che giuridica è un'emergenza culturale. Chiediamo al Governo di convocare gli Stati Generali contro la violenza sulle donne». Per Telefono Rosa, associazione storica, non servono leggi «ma una grande mobilitazione generale. Volontarie, centri, servizi che ogni giorno sul territorio contrastano questo massacro».

Repubblica 5.5.13
E ora Stati generali in difesa delle donne
di Concita de Gregorio


FORSE ci siamo. Proprio perché è un'epoca in cui essere ottimisti è insensato, bisogna esserlo. Più flebile è il tempo più forte la voce e la responsabilità di ciascuno. Forse ci
siamo.
Forse questa volta la violenza quotidiana contro le donne – diffusa, tollerata, alimentata dal dileggio condiviso, dall'abituale grevità del lessico, dalle parole prima che dai gesti – ecco forse ora questa vergogna la si può guardare negli occhi e chiamarla col suo nome: una colpa collettiva, ognuno si senta offeso.
Con grande coraggio Laura Boldrini, presidente delle Camera, ha toccato un tabù sapendo di farlo, senza paura delle conseguenze. Ha detto: contro le donne l'infamia dell'insulto è diversa, è sessista. Anche la minaccia di morte passa dal sesso: dall’umiliazione, dalla sottomissione. Contro le donne corre sul web un fiume di parole a lutto che il mezzo – la Rete – diffonde velocissimo e in quantità incontrollabile. Possono essere a migliaia contro una: difficili da trovare, infidi, nascosti. Fermiamoci a parlarne: una discussione ferma e serena, ha chiesto. Seria.
Hanno risposto a decine, poi centinaia, ieri. Le donne che possono cambiare le cose hanno detto: ci siamo. Il ministro Josefa Idem ha annunciato la creazione di un osservatorio sulla violenza contro le donne costituito dai dicasteri di Pari opportunità, Interni e Giustizia. Il ministro Cécile Kyenge ha detto: studiamo una legge. Hanno detto ci siamo, in varie forme, Emma Bonino, la presidente della Rai Tarantola, il segretario della Cgil Camusso. E poi uomini, tanti. Ecco: uomini. È questa la novità. Ieri sera lo spettacolo teatrale “Ferite a morte” era di scena a Marsala. Un test di Serena Dandini e Maura Misiti che da mesi si rappresenta in tutta Italia. Monologhi di una Spoon River delle donne uccise. Come Ilaria, Alessandra, Chiara. Le ragazze assassinate negli ultimi tre giorni. Uccise dal malamore, gramigna che si traveste da amore. Da Marsala è partito un appello al governo. Facciamo subito gli Stati generali sulla violenza contro le donne, anche quella sul web. Subito. Tra i primi a firmare sono stati alcuni uomini. Riccardo Iacona, Gustavo Zagrebelsky, Ezio Mauro, Gianantonio Stella. Poi, certo, tutte le donne che in questi mesi sono salite sul palco di “Ferite a morte”. All’ultima replica, a Roma, Laura Boldrini era in sala ad applaudire, Emma Bonino sul palco a recitare. Ilaria Borletti Buitoni dietro le quinte. Se tutta l'energia di quelle sere, di quei palcoscenici si riversasse davvero nell’azione, ecco, allora sì. Allora forse ci siamo, questa volta possiamo partire e cambiare davvero.

il Fatto 5.5.13
Boldrini e il web: “Nessun bavaglio, lotta alla violenza”


IL GIORNO dopo la bufera per l’intervista rilasciata a Repubblica in cui raccontava delle minacce ricevute via web, la presidente della Camera Laura Boldrini chiarisce che non è sua intenzione mettere bavagli alla Rete. “Mai parlato di anarchia o nuova legge per web”, scrive su Twitter. In molti – compreso Beppe Grillo che lamentava la scarsa considerazione sull’attacco hacker – l’hanno accusata di voler censurare Internet. “L’obiettivo è arginare la violenza. Sono certa che saprà condividerlo anche chi ha giustamente a cuore la liberta della rete”. D’accordo il ministro per le Pari opportunità Josefa Idem: “Voglio creare una task force che si occupi di questo tema in modo trasversale che coinvolga il ministero della Giustizia e quello dell’Interno, voglio lavorare insieme a loro”.

Repubblica 5.5.13
Asse Boldrini-Kyenge sullo ius soli. Il Pdl: non sarà mai legge


ROMA — Dopo l’Imu, ora è lo ius soli a minacciare le fragili fondamenta del governo Letta. Ieri nella Modena che l’ha vista nascere politicamente, il ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge ha ribadito quello che è il suo obiettivo primo fin da quando ha accettato l’incarico. «Il governo ha delle priorità — ha detto, partecipando a una cerimonia di consegna dell’attestato a sei nuovi italiani — tra queste c’è il tema del diritto alla cittadinanza: bisogna dare identità a un milione di bambini di origine straniera che attendono di avere la cittadinanza italiana».
Tant’è che all’inizio della legislatura il Pd ha presentato alla Camera una proposta di legge per cambiare la Bossi-Fini. Tra i firmatari c’è appunto il ministro Kyenge. Che se da una parte ha ricevuto l’appoggio manifesto della presidente della Camera Laura Boldrini («bisogna sviluppare una normativa che sia all’altezza delle nuove sfide»), dall’altra ha scatenato le ire del Pdl. «Non sono accettabili scelte demagogiche — commenta subito il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri — dare automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia sarebbe un errore. E la Boldrini sta travalicando il suo ruolo ». «Non accettiamo diktat», gli rispondono in una nota congiunta un gruppo di senatori e deputati del Pd, «quella legge va approvata, lo ha rammentato anche il capo dello Stato». Nel dibattito entra la deputata del Pdl Elvira Savino: «Se si vuole che il Governo vada avanti, partiamo dai temi dell’economia e dell’occupazione ». E mentre il leader della Lega Nord Roberto Maroni si dice disposto a rivedere la Bossi-Fini «purché rimanga il principio che chi viene in Italia deve avere il permesso di soggiorno sulla base di un lavoro», in serata Gasparri insiste: «Lo ius soli non sarà mai legge».
(fa. to.)

Corriere 5.5.13
A Bologna, sulla scuola privata due eserciti bloccati nel fango
di Marco Ventura


Il 26 maggio un referendum consultivo chiederà ai bolognesi se revocare il contributo comunale alle scuole d'infanzia paritarie private. Si tratta di circa un milione di euro, lo 0,8% di quanto il Comune destina alla scuola pubblica nel suo insieme. Ne beneficiano 1.736 bambini tra i 3 e i 6 anni, di cui viene agevolato l'accesso a scuole per lo più cattoliche. Chi chiede un voto contro il contributo comunale alla scuola privata lamenta i gravi tagli che hanno colpito l'istruzione, lasciando, dicono, più di 400 bambini fuori dal servizio pubblico. Viceversa, per chi difende il milione di euro, in una scuola pubblica plurale lo Stato deve almeno alleviare la spesa delle famiglie che preferiscono una scuola privata. La questione travalica Bologna: innesca emozioni profonde e scava fossati.
Ribelle a una scuola cattolica senza aiuti di Stato, il Cardinale Scola denunciò proprio un anno fa «il grave limite di libertà di educazione che c'è nel nostro Paese». Per chi li avversa, invece, i soldi dei Comuni alle scuole private comprimono la libertà di tutti, a vantaggio di quella di pochi. Contrariamente a quanto sostengono i promotori del referendum, l'articolo 33 della Costituzione non vieta il finanziamento pubblico della scuola privata. La norma, in compenso, nega alla Chiesa, e a qualsiasi ente privato, un diritto alla pubblica sovvenzione delle proprie scuole. Si tratta dunque, che si finanzi il privato o meno, di legittime scelte politiche. Dagli Anni Novanta, destra e sinistra hanno aumentato i fondi alla scuola privata paritaria, avvicinando l'Italia all'Europa. Il sistema scolastico pubblico si è intanto deteriorato, per politiche spesso incompetenti, talvolta deliberatamente ostili.
Il quadro non poteva essere peggiore per un Paese stretto tra monopolio statale del pubblico e monopolio confessionale del privato. Invece di costruire una nuova scuola per tutti, le varie tribù politiche, sindacali e religiose hanno perseguito i loro interessi. Il referendum di Bologna fotografa due eserciti bloccati nel fango. E sfida chi ha coraggio a uscire dalla trincea.

l’Unità 5.5.13
Israele attacca in Siria: obiettivo Hezbollah
di Umberto De Giovannangeli


Sette anni dopo, è di nuovo guerra tra Israele ed Hezbollah. Per ora, una guerra a bassa intensità. Ma con il rischio di una estensione devastante. Israele è tornato a colpire in Siria. Fonti di intelligence citate dalla Cnn hanno rivelato che una formazione composta da 16 aerei caccia e velivoli da guerra elettronica è penetrata in Siria nella notte tra giovedì e venerdì dopo aver sorvolato il territorio libanese. Successivamente i caccia avrebbero attaccato un convoglio che trasportava missili destinati al movimento filo-iraniano Hezbollah. Un portavoce israeliano si è limitato a confermare in forma anonima l’attacco senza fornire troppi dettagli mentre Damasco ha negato che sia avvenuto ed ha parlato di «guerra psicologica». Il gabinetto di sicurezza del primo ministro Benjamin Netanyahu aveva approvato il raid giovedì notte in una riunione segreta, ha aggiunto il quotidiano Haaretz. L’incursione rappresenta un sviluppo importante che evidenzia i rischi di allargamento del conflitto segnato da massacri senza fine. Uno sviluppo comunque importante che dimostra come il conflitto rischia di allargarsi coinvolgendo altri attori. Israele, in passato, ha già sferrato incursioni in territorio siriano. Operazioni tese a distruggere equipaggiamenti importanti, missili e tecnologia che il regime di Assad aveva intenzione di trasferire ai miliziani filo-iraniani di Hezbollah.
FAMIGLIE TRUCIDATE
Intanto centinaia di famiglie hanno abbandonato i quartieri sunniti della città portuale siriana di Banyas per sfuggire un nuovo massacro analogo a quello denunciato di recente nella vicina località di Bayda. Lo riferiscono attivisti dell’Osservatorio siriano dei diritti dell'uomo, vicini agli insorti. Le stesse fonti, due giorni fa, avevano attribuito a forze fedeli al presidente Bashar al-Assad un eccidio compiuto a Bayda nel quale sarebbero state uccise 40 persone, fra cui donne e bambini. A testimonianza della strage in atto anche a Banyas, su internet stanno circolando immagini molto crude di civili uccisi, fra questi intere famiglie e bambini, e giovani sottoposti a esecuzioni sommarie. I corpi finora recuperati sono almeno 62, 14 dei quali bambini. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha diffuso un video che mostra un uomo morto con almeno tre bambini all’interno di una stanza. Il direttore dell’Osservatorio spiega che si tratta di Haitham Sahyouni, trovato morto con i suoi tre figli, il fratello Hamid e la moglie Watfa, e spiega che non è chiaro se fosse un sostenitore dell’opposizione. Uno dei bambini aveva le gambe bruciate e il corpo ricoperto di sangue; accanto a lui c'era una bambina con il volto deformato, sembra perché colpita con metallo affilato. «I massacri perpetrati contro civili a Banyas suscitano orrore, e testimoniano in termini drammatici il livello di violenza raggiunto dal conflitto in Siria, che continua a mietere vittime innocenti, anche fra le donne e i bambini». A denunciarlo è la Farnesina, aggiungendo in una nota che «i costi umanitari di una spirale di violenza della quale il regime è responsabile hanno assunto proporzioni intollerabili».
«Gli Stati Uniti si sono detti innorriditi dalle terribili informazioni che riferiscono di oltre cento morti, uccisi il 2 maggio negli orribili attentati nella città di Bayda», una città sunnita del nordovest della Siria, rimarca Jennifer Psaki, la portavoce del Dipartimento di Stato in un comunicato. «Secondo queste informazioni, le forze del regime e i miliziani «shabiha» hanno distrutto la zona bombardandola con tiri di mortaio, poi hanno invaso la città, dove hanno giustiziato intere famiglie, donne e bambini compresi, ha proseguito, per poi condannare «le atrocità commesse contro i civili». In questo scenario, il presidente Barack Obama ha affermato di non prevedere circostanze che richiedano l’invio di truppe di terra statunitensi: «Non vedo uno scenario di questo tipo. Non sarebbe bene non solo per l’America ma neppure per la Siria». Il capo della Casa Bianca ha aggiunto di essersi consultato con i leader mediorientali che vogliono la caduta di Assad e concordano sul fatto che un intervento militare statunitense non sarebbe opportuno: dopo quelli in Afghanistan e in Iraq, non farebbe altro che alimentare l’odio anti-americano. L’ipotesi più probabile, al momento, è che gli Usa imprimano una virata alla loro politica sul conflitto siriano decidendo di armare i ribelli.

l’Unità 5.5.13
Usa, nessun cimitero vuole l’attentatore di Boston
di Virginia Lori


Si continua a cercare un posto dove seppellire Tamerlan Tsarnaev, uno dei due responsabili degli attentati contro la maratona di Boston: gruppi di manifestanti hanno persino circondato l’agenzia di pompe funebri alla quale è stata affidata la salma. Il direttore dell’agenzia di Worcester, in Massachusetts, ha curato le esequie di molti killer di massa della storia recente degli Stati Uniti. Peter Stefan ha mostrato agli organi di informazione il certificato di morte di Tsarnaev, che indica nei colpi di arma da fuoco e in ferite da arma da taglio le cause del decesso. Stefan ha ricevuto il corpo due giorni fa, ma trovare una tomba si sta rivelando più complicato del previsto. Anche per le proteste degli americani, che inizialmente avevano circondato l’agenzia di North Attleborough dove era stato portato il cadavere in un primo momento e hanno poi programmato un’altra manifestazione.
RICERCA
«Tutti meritano una sepoltura», si è difeso Stefan a chi gli chiedeva se fosse o meno opportuno prendersi cura dei funerali di un attentatore. «Non importa chi sia, io non posso prendere e scegliere. Il mio problema è trovare una tomba, molte persone non vogliono il corpo. Non vogliono essere coinvolte in questa vicenda». Secondo il certificato di morte, prosegue la Bbc, Tamerlan Tsarnaev è deceduto all'1.35 del 19 aprile per «ferite d'arma da fuoco al torso e agli arti» oltre che per traumi da arma da taglio alla testa e al torso.
La famiglia Tsarnaev è di etnia musulmana cecena e si è trasferita negli Stati Uniti dalla Russia da un decennio. Il più anziano dei fratelli Tamerlan si è poi avvicinato al fondamentalismo islamico. Sua moglie Katherine Russell, non ha voluto farsi carico del corpo e ha lasciato l’incombenza ai parenti, che ora stanno cercando di organizzare il funerale. Quanto alla famiglia dei due «fratelli del terrore», ha fatto sapere di voler far eseguire un’altra autopsia indipendente.
Intanto, nell’ambito delle indagini, le autorità federali e locali stanno compiendo ricerche nel bosco vicino al campus della University of Massachusetts Dartmouth, dove studiava Dzhokhar Tsarnaev, il fratello del terrorista ucciso, anche lui coinvolto nell’attentato. Il 19enne Dzhokhar, catturato dopo una caccia all’uomo nei sobborghi di Boston, rischia ora la condanna a morte. Tre persone sono morte e oltre 250 sono rimaste ferite, alcune molto gravemente, nell’attentato del 15 aprile scorso, un attentato che ha scioccato l’America. I due attentatori dopo aver fatto esplodere due ordigni, avrebbero anche ucciso un poliziotto e ferito un altro agente.

il Fatto 5.5.13
La libertà nel mirino del popolo del fucile
Al congresso della NRA seminari sui valori americani:
“Educhiamo noi i bambini a difendersi, lo Stato non c’entra”
di Federico Mastrogiovanni


Houston (Texas) La seconda giornata del congresso della National Rifle Association a Houston si caratterizza per un’affluenza notevolmente più massiccia. Si attendeva l’arrivo di gruppi organizzati in opposizione alle lobby delle armi ma non si sono visti attivisti nei paraggi del George Brown Convention Center. Oggi è sabato, ci sono molte più giovani, ragazzi e bambini che devono “familiarizzarsi” con le armi. Henry sta scegliendo un fucile Rascal per sua figlia. Nancy, la figlia di Henry ha 4 anni e mezzo. Il fucile è per quando compirà 5 anni. È un’arma rosa, una specie di miniatura. Sembra un giocattolo, ma calibro. 22. ha la stessa età del bambino che con un fucile del genere ha ucciso la sua sorellina pochi giorni fa.
“È importante che sia io a farla imparare a sparare, a starle vicino. Quello che voi europei non capite è che non è attraverso i divieti che si evitano le tragedie ma con l’educazione. I bambini vanno seguiti, gli si deve insegnare a sparare in sicurezza, e bisogna trasmettere loro i giusti valori”.
Venerdì pomeriggio anche la ex governatrice repubblicana del-l’Alaska, Sarah Palin, aveva parlato di valori. Nel suo discorso conclusivo del gruppo di leaders della Nra, accolto da una vera standing ovation, ha incitato gli iscritti all’associazione a continuare a lottare per questi sani valori americani. “Anche noi siamo sensibili alle tragedie, ha detto commossa la Palin, chi di noi non ha provato tristezza e rabbia per ciò che è successo a Newtown o a Columbine? Sentiamo la stessa tristezza per ciò che succede a Chicago, la città di Obama, o New York, città in mano ai criminali”. Obama è uno che “fa campagna elettorale sui sentimenti della gente, che usa le immagini per commuovere le persone”, mentre i gunowners, i proprietari di armi, sono paragonati a eroi nazionali, sono gli estremi difensori della democrazia e, ovviamente, della libertà. Applausi. Pianti. Emozioni forti in sala. Ma il meglio deve ancora venire.
Viene mostrato un video strappalacrime sulla vita di Chris Kyle il marine famoso per essere il cecchino più letale della storia militare americana, con le sue 160 uccisioni confermate. Questo fino a quando nel febbraio di quest’anno, un ex commilitone affetto da sindrome da stress post traumatico lo ha ucciso in un poligono di tiro in Texas. Al convegno è presente la moglie di Chris, che tra le lacrime e le foto del marito morto esalta il ruolo della Nra, dell’esercito americano, delle armi nella sua vita e di quella del caro marito. Qui le emozioni sono usate a fin di bene.
NELLE DECINE di stanze di questo enorme complesso fieristico, ogni giorno ci sono seminari e dibattiti. Si va dal seminario (per sole donne) sulla difesa personale e il possesso di una pistola, al corso di barbecue “come cucinare carne precedentemente affumicata”. Seminario top della giornata: “Refuse to be a victim” (Rifiuta di essere una vittima). Vi si spiega come mettere in sicurezza la propria casa, installare telecamere di sorveglianza, infrarossi, casseforti. In uno dei numerosi maxi schermi dello spazio espositivo una signora ben vestita osserva con interesse il video di un produttore di fucili da caccia “Varmageddon”, in cui cacciatori sportivi sparano a piccoli animali, quali talpe e roditori con delle armi evidentemente sproporzionate, facendoli esplodere.
Un’altra donna imbraccia un Uzi che si appresta a comprare. Costa solo 459,99 dollari e ci si porta a casa uno dei “prodotti di punta della tecnologia israeliana”.
Quando chiedo a Eric, il padre della bimba che presto riceverà in regalo il suo primo fucile rosa, cosa pensa della pericolosità delle armi nelle scuole, mi risponde convinto: “se i maestri fossero armati le scuole e i nostri figli sarebbero al sicuro”. I bad guys non si avventurerebbero, sapendo che i maestri sono armati. Ma del resto questo è il paese che di fronte ai massacri nelle scuole risponde mettendo metal detectors all’entrata e facendo usare ai bambini zainetti antiproiettile.

Corriere 5.5.13
Summit ebraico «accolto» dalle svastiche
A Budapest sfilano gli xenofobi
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — «Non tollereremo alcuna manifestazione razzista o antisemita», aveva detto il primo ministro ungherese Viktor Orbán. E perciò aveva vietato il corteo indetto dal movimento di estrema destra Jobbik a pochi passi dal Congresso mondiale ebraico, che inizia oggi a Budapest. Scopo dichiarato di quel corteo: «Rendere omaggio alle vittime del razzismo e dell'antisionismo». E scopo legittimo, ha dichiarato più tardi un tribunale, annullando il divieto governativo in nome della «libertà di manifestare». Così ieri mattina, dopo il balletto di «sì» e di «no», ecco il secolo scorso che torna nelle strade di una delle capitali più civili d'Europa: in centinaia, teste rasate e braccia tatuate con disegni di croci frecciate (simboli del partito antisemita che guidò l'Ungheria dall'ottobre 1944 al gennaio 1945), bandiere al vento con lo stemma delle Ss, e cori contro Israele, quelli di Jobbik hanno marciato nel cuore della città. La polizia era presente in forze, ufficialmente aveva ricevuto l'ordine di intervenire alla minima aggressione. Non vi sono stati disordini: perché non vi sono state aggressioni, è una delle versioni, o perché si è voluto lasciare indisturbati i giovani estremisti, dice un'altra. Poco distante, alcune decine di persone hanno protestato contro il movimento Jobbik levando le immagini di poeti e scrittori ebrei ungheresi. Ma l'effetto prevalente, in quelle strade, è stato alla fine quello voluto da Jobbik. Le svastiche che sfilano indisturbate, nel maggio 2013 il nome «Auschwitz» è risuonato sulle labbra di qualche giovanotto tatuato.
«Pescano nelle fogne nella storia», è il commento di Michele Sarfatti, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, uno dei massimi esperti sulla Shoa in Italia. Ma «se diamo tutte le colpe al solo nazionalsocialismo storico non arriviamo a capire l'Europa in cui viviamo». E certo, con l'ondata antisemita, c'entra la recessione: «Nelle grandi crisi — dice ancora Sarfatti — si cerca sempre un capro espiatorio: e gli ebrei, da circa duemila anni, sono pronti a questo uso».
Il Congresso ebraico, che dura 3 giorni e raccoglie 500 partecipanti, è stato convocato questa volta a Budapest per manifestare la solidarietà nei confronti degli ebrei ungheresi (oggi 100mila, nel 1944 mezzo milione, di cui oltre 400mila deportati e sterminati ad Auschwitz): a 70 anni da quegli orrori, con alcune loro organizzazioni, i figli e i nipoti di quegli ebrei denunciano un clima di discriminazione e di nazionalismo sempre più forte. Il governo smentisce.
E proprio per domani, al Congresso ebraico, è atteso un discorso di Orbán contro l'antisemitismo. Sarà presente anche una delegazione dell'Unione delle comunità ebraiche italiane: in Ungheria esiste «una situazione intollerabile», denuncia il suo presidente Renzo Gattegna, anche a causa «della miopia delle autorità governative che contribuiscono a questo clima con provvedimenti inadeguati che facilitano il proliferare di gruppi razzisti e antisemiti». Secondo il presidente del Congresso ebraico Ronald Lauder, gli incidenti «sono aumentati in maniera drammatica» sotto Viktor Orbán. Il governo smentisce ancora. E intanto, il passato non muore mai.

La Stampa TuttoLibri 4.5.13
Rodotà: la nuova frontiere dei diritti
“Ma la proprietà è divisa per tutti”
“Dall’acqua alla Rai, alla conoscenza sul Web: più dell’appartenenza conta la gestione dei beni”
di Mirella Serri


Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto Civile alla Sapienza di Roma, è tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

“A gli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più ti ama». Recita a memoria - «Felicità raggiunta, si cammina» di Montale - Stefano Rodotà.

«La Rete offre opportunità inedite: la musica si scarica gratis ma i concerti sono più affollati»

Dopo le settimane burrascose che l’hanno visto al centro della contesa per l’ascesa al Colle, il noto giurista è tornato il professore di sempre. E prosegue nella non casuale evocazione montaliana: da anni ragiona sul complicato tema dei diritti e i versi del poeta ligure esemplificano bene il diritto alla felicità, lo stesso che si affaccia nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. In una versione aggiornata con nuovi capitoli arriva in questi giorni in libreria Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni (Il Mulino), pietra miliare sul tema dei patrimoni, delle forme societarie ma anche sui beni più anomali, come l’ingegno o la privacy. E da qualche tempo è sugli scaffali il bellissimo excursus Il diritto di avere diritti (Laterza). Rodotà, in Italia solitario hidalgo (ha il physique du rôle di un nobile spagnolo), è stato uno dei padri fondatori della riflessione sul rapporto tra libertà e nuove tecnologie. La nostra epoca, Norberto Bobbio, la chiamava l’età dei diritti. Professore, pos­ siamo continuare a consi­ derarla tale? «A fianco delle conquiste classiche, come il diritto alla libertà personale, alla manifestazione del pensiero, alla libertà di associazione, nascono sempre inedite acquisizioni. Oggi c’è chi parla di “diritti di nuova generazione”’. Non mi convince. Se viene applicata ai cellulari questa definizione ha una sua ragion d’essere, vuol dire che l’ultimo arrivato surclassa tutti gli altri modelli. Ma in campo legislativo le new entry non cancellano il passato ma lo rendono più ricco e funzionale alle nostre esigenze». Lei parla di una lunga mar­ cia dei diritti. Si è arresta­ ta? «Ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità, sostituita dalla più moderna solidarietà, è stato aggiunto quello di dignità. Quando è accaduto? Con la Costituzione tedesca del ‘49 che all’articolo 1 recita: “La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”. Dopo l’olocausto, che aveva reso gli uomini privi di ogni umanità, si sente la necessità di introdurre un’innovazione. Un principio che sarà la linfa dell’ordinamento europeo».
Altri recenti diritti? «L’autodeterminazione. Il Codice di Norimberga, è un altro esempio, nasce dalle carte del processo che si è svolto al termine della seconda guerra mondiale anche contro i medici nazisti che avevano perpetrato torture e sperimentazioni sui detenuti nei campi di sterminio. Si è avvertita l’urgenza di tracciare una linea di divisione tra sperimentazione lecita e tortura. Piergiorgio Welby, militante del partito radicale, proprio in base al principio di autodeterminazione chiese ripetutamente che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita». Dopo la repressione del 1848 in Francia la proprietà era diventata veramente una forma di religione. Alexis de Tocqueville parla­ va come di un perenne «campo di battaglia tra chi possiede e chi non possie­ de». E’ ancora attuale la questione? «All’improvviso, l’Italia ha cominciato a essere percorsa dalla “ragionevole follia dei beni comuni”, come è stata definita: l’acqua e la conoscenza, la Rai e così via, tutto è diventato tale, persino “i poeti sono un bene comune”, è stato detto. Esagerando, ovviamente. In realtà la dimensione collettiva scardina la moderna dimensione proprietaria. Ci porta al di là della tradizionale gestione pubblica dei beni. Che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo delle generazioni future. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell’”appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione. Se si considera, ad esempio, la conoscenza consentita dalla Rete, l’accesso è un diritto fondamentale poiché contribuisce alla libera costruzione della personalità». E il diritto d’autore, va a far­ si benedire? «Il web offre tante opportunità inedite: la musica si scarica gratis ma i concerti sono sempre più affollati. E se un’opera letteraria viene consumata online lo scrittore potrà avere molti altri benefici: in America, dove questo accade sempre più di frequente, si può, grazie alla notorietà acquisita sul web, diventare un conferenziere superpagato. In politica la Rete è stata capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire nuove soggettività politiche. Il movimento 5Stelle, che deve il suo successo a internet, poi però riempie le piazze. Vecchi e nuovi diritti si integrano e i cittadini da questo mix possono trarre molti vantaggi».

Repubblica 5.5.13
Se fallisce il nostro Io esplode la violenza
di Massimo Recalcati


LA SPINTA alla violenza cieca, alla sopraffazione, all’odio invidioso, alla distruzione dell’altro non è una patologia, ma accompagna da sempre, come un’ombra, la storia dell’uomo.

Non è un caso che l’Antico Testamento si apra con il gesto atroce e ingiustificabile di Caino. Il punto scabroso è che uccidere il proprio fratello non appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. È un aspetto – terrificante – dell’umano sul quale non bisogna chiudere gli occhi. Il crimine non è infatti la regressione dell’uomo all’animale – come una cattiva cultura moralistica vorrebbe farci credere – , ma esprime una tendenza propriamente umana. Questo è il dramma che il moltiplicarsi recente di atti erratici di violenza ci costringe ad affrontare. Se l’umanizzazione della vita avviene come un attraversamento della violenza che ci abita – della nostra ombra più scura – , essa non può mai cancellare la violenza, ma decidere casomai, ogni volta, per la sua rinuncia. È questo uno dei compiti più difficili che incombe sugli esseri umani:
saper rinunciare alla violenza in nome del riconoscimento dell’Altro come prossimo, come essere singolare.
Si tratta di un riconoscimento che non è mai indolore perchè ci obbliga ad accettare che “Io non sono tutto”, che la mia vita non esaurisce quella del mondo e quella degli altri. Significa sopportare quella che Freud considerava una “frustrazione narcisistica” necessaria per riconoscersi appartenere ad una Comunità umana.
Il problema è che questa difficoltà soggettiva a simbolizzare la violenza viene oggi drammaticamente amplificata da quelli che mi paiono i due nuovi comandamenti sociali che sembrano dominare il nostro tempo e che l’attuale crisi economica rende a sua volta ancora più tossici. Il primo comandamento è quello del Nuovo.
È la spinta a ricercare sempre altro da quello che si ha, a scambiare quello che si ha con quello che ancora non si ha nella illusione che è quello che non si ha a custodire la felicità. L’esperienza clinica della psicoanalisi mostra invece che il Nuovo – al cui miraggio molti consacrano la loro esistenza – anziché rendere la vita soddisfatta, non fa altro che riprodurre la stessa identica insoddisfazione. Il secondo comandamento è quello del Successo.
Nessun tempo come il nostro sembra togliere diritto di cittadinanza al fallimento, all’errore, al ripiegamento, all’insuccesso. Nessun tempo come il nostro ha enfatizzato come una questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo personale. Ebbene la violenza su di sé o sugli altri viene al posto di questo lavoro di simbolizzazione del proprio fallimento. Accade, per esempio, nei rapporti tra uomo e donna quando uno dei due non sopporta il tradimento o l’allontanamento dell’altro e si sente autorizzato ad agire violentemente per ristabilire l’autorevolezza della propria immagine narcisistica infangata e umiliata dalla libertà dell’Altro. Il femminicidio non ha altra ragione psichica – ne ha altre e profonde di tipo culturale – se non questa: utilizzare la violenza, il passaggio all’atto brutale, al posto di assumere su di sé il peso della propria solitudine e del proprio fallimento.
Una miscela esplosiva di narcisismo e depressione. Siamo di fronte a quella che Pasolini avrebbe probabilmente chiamato una “mutazione antropologica”: l’uomo è divenuto una
macchina di godimento.
E quando questa macchina funziona meno, non è oliata sufficientemente, non ha più benzina, o, più semplicemente, si guasta, si rompe, c’è la caduta nel vuoto. Per questa ragione l’attuale diffusione epidemica della depressione si può intendere solo dall’intreccio di questi due nuovi comandamenti sociali. Non è più una depressione che sorge dall’esperienza “filosofica” ed esistenziale del vuoto e dell’insensatezza dell’esistenza (Leopardi, Schopenhauer), ma si genera per un difetto di adattamento all’imperativo del Nuovo e a quello del Successo: chi resta indietro, chi resta tagliato fuori, chi non partecipa a questa “mobilitazione totale” della vita verso la sua affermazione positiva, si vive come superfluo, inutile alla società, precipita nel tunnel della depressione. E non si deve dimenticare come questa “diagnosi” sia usata ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad atti di violenza ingiustificabili. Non si tratta di un alibi, al contrario. Non a caso Lacan affermava – suscitando scandalo – che la depressione è una vera e propria “viltà etica”. Si tratta di una tesi non del tutto estranea al giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano sull’accidia e ha l’obbiettivo di mostrare che nella depressione c’è sempre una responsabilità del soggetto che non va mai dimenticata. Essa coincide con la difficoltà ad assumere, ad elaborare simbolicamente, il proprio fallimento, il proprio insuccesso, la ferita narcisistica subita dalla propria immagine. Se non sono l’Io che credevo di essere (narcisismo), nulla ha più senso di esistere (depressione). Di fronte ad una cultura che sembra rigettare il valore formativo dell’esperienza del fallimento e che insegue i miraggi del Nuovo e del Successo, il ricorso alla violenza sembra apparire allora come un talismano malefico per esorcizzare l’appuntamento fatale con la nostra vulnerabilità e insufficienza dalla quale, poiché – come canta il poeta – dai diamanti non nasce niente, potrebbero sorgere invece fiori nuovi.

La Stampa 5.5.13
Ogni volta che muore Atahualpa
Ascesa e caduta dell’ultimo imperatore inca: dal nuovo libro del nostro inviato sparito in Siria, dedicato ai vinti della storia
di Domenico Quirico


Vittima di Pizarro Atahualpa è stato il 13° e ultimo imperatore degli Inca, prima della conquista spagnola. Regnò dal 1532 al 1533, quando venne messo a morte (nella stampa qui sopra) per volontà del conquistador Francisco Pizarro, che lo aveva vinto in battaglia e fatto prigioniero. Fino all’ultimo rifiutò la possibilità di avere salva la vita, in cambio della conversione al cattolicesimo

«Aspettami, Giulietta, e io tornerò, ad onta di tutte le morti». È un appello alla pazienza della moglie - e insieme una promessa che in questo momento vogliamo intendere come fatta a tutti noi, i suoi colleghi e i suoi lettori - la dedica del nuovo libro di Domenico Quirico, il nostro inviato inghiottito quasi quattro settimane fa nel gorgo oscuro della Siria. Si intitola Gli ultimi (lo pubblica proprio in questi giorni Neri Pozza, pp. 238, € 16,50), e racconta «la magnifica storia dei vinti» di tutti i tempi, visti come Liquidatori che chiudono un’epoca per aprirne una nuova: da Dario (il Gran re persiano umiliato da Alessandro) a Romolo Augustolo, da Pu Yi (l’ultimo imperatore cinese) a Gorbaciov, a Rasputin, a Carlo d’Asburgo, a Atatürk, al generale Salan, fino a Benedetto XVI «andato avanti otto anni con periodi di paura, di stanchezza, con una timida leggerezza di cuore». Un capitolo è dedicato a Atahualpa, l’ultimo imperatore inca, vittima di Pizarro. Ne proponiamo un assaggio, in attesa di tornare a leggere i reportage di Domenico dalla Siria.

Il primo a sperimentare il baratro abissale che c’è tra la propria etica e quella degli altri, dei Nuovi, dei vincitori
Vide il vero volto dei secoli che verranno, odio e bugie, guardò negli occhi di Medusa
Non poteva uscirne vivo

Atahualpa: come facciamo a dargli un volto? Potrà mai somigliare davvero alla faccia gonfia, dissennata, infelice dell’uomo nudo che un gruppo di carnefici di membratura immane e di forza orrenda garrotano, tenendolo immobilizzato su una sedia, in uno sfondo da palazzo di Gustav Doré; mentre eleganti hidalgo guardano un po’ annoiati? Nella incisione spagnola si intravede, forse involontariamente, è lo sguardo della vittima a dirlo, che a un certo grado di strazio si giunge alla alienazione di se medesimi: così che il tormento perpetrato nelle fibre della carne non può eccitare null’altro che una sorta di curiosità.
Forse il suo aspetto si avvicinava a quello dei faraoni egizi, sottili pallidi giganti dal petto a triangolo e sottanine da ballerina, la mandorla dell’occhio enorme, lo sguardo conficcato oltre le grigie frontiere del sordo aldilà anche da vivi, a rivendicare, non senza una vena di attonito olimpico dolore, la profanazione che la maestà della loro memoria subisce. Non abbiamo, purtroppo, statue che lo rappresentino, e la scultura, sappiamo, è la risposta dell’uomo alla invocazione della materia a essere richiamata dalla morte alla vita.
Fra benedizioni e reticenze, farneticazioni, inganni, dileggi, stupri tutti santificati dal barbaro crocifisso di fra Vincenzo (è vindicta iustissimam che Dio accorda ai suoi sapranno estrarre per noi che demosgherri, incalza questo capodopera ni da ripetere mille, diecimila volte. della Vera Fede con gioia violenta e La sua tragedia di Inca denudato e quasi ebbra; o Frater, rammenti ucciso in modo così platealmente slemai di essere cristiano?), si disegna ale da gettare anche tra gli assassini in lui la curva scientifica di una ago- il disgusto di sé e un seme di dubbio, nia. È lui il Buon Selvaggio al tra- ahime!, avvizzito sotto tonnellate di monto che affoga in una pozzanghe- oro e di argento, è nel passaggio, ra, impero monolitico smontato da troppo rapido e repentino, dall’onnicentosessanta poveracci sopravvissuti a tutte le osterie di Salamanca e alle stive puzzolenti del re cristianissimo. E la sua voce di stridulo profeta, le sue invocazioni di pietà inascoltate, non soltanto delle antiche guerre sporche che ci parlano, con quegli odori di sangue e di rapina e i primitivi strumenti di morte, potenza al Nulla: Liquidatore non ma sono exordium di quella, nuova e per esaurimento vitale o stupidità, grande e sudicissima, a cui ci in- ma per ingenua innocenza, il primo camminiamo noi tutti, conquistado- forse ad aver sperimentato il baratro res di Occidente, verso il termine abissale e incolmabile che esiste tra della notte. Le sue mani di impoten- la propria etica e quella degli altri, te parente del Sole trapiantato sulla dei Nuovi, dei vincitori, dei padroni terra, dalle viscere della Storia non di vele e cannoni.
Quante altre volte è morto Atahualpa in una manata appena di secoli? Nella Città proibita con i suoi diecimila anni di civiltà profanati dai cannoni feroci di una delle primissime Alleanze occidentali contro il terrorismo. Nella regina degli ashanti trascinata a leccare gli stivali del soperchiatore britannico; nelle capitali di tante altre fragili civiltà: chi ricorda i nomi del Buganda, degli zulu, del bey d’Egitto e di quello tunisino a cui costò caro un ventaglio, del moghul neghittoso (o semplicemente stanco) nei saloni del suo palazzo color porpora? Dove sono scritti questi nomi, e il tuo, Atahualpa, nelle nostre Storie? Tutto quanto è appartenuto a quei tempi, è adesso lontano come la parola di una storia annosa, di una fiaba antica. Sarà per questo in agonia fino alla fine dei secoli, combattuto, struggente martire di una paura, di un presagio. Paura di sé, del tradimento del proprio dio che gli morde lo stomaco, del peccato oscuro che sente crescere attorno: sì, la paura di dio.
Atahualpa poteva sommergere con il semplice peso fisico dei suoi popoli quei centosessanta uomini vestiti di ferro. No, non è il fracasso di un archibugio o il galoppo di un cavallo (li ferrarono di argento, quella troupe che gonfiava le gote nella tuba Christi!), a spaventarlo; o quel crocefisso che gli agitano davanti agli occhi promettendogli salvezza se si sveste dalla sua pelle di Dio. È il non capire che lo vince, lo atterra, lo uccide. Può trionfare senza incomodi e perde, il suo essere l’Ultimo della storia del suo popolo è scritto nel destino, non nei suoi errori. Dunque a che scopo battersi? Cartapecora sopravvissuta al tempo, riassume sotto il borla imperiale la condannata grandezza di altre epoche, il ricordo di una antica civiltà. Non lo sa, ma gli uomini che gli stanno davanti arrivano armati di un Tempo diverso, con regole oggetti astuzie che lui ignora. È un padre sotto i cui occhi pieni di un sonno già simile quasi alla morte, le generazioni dei suoi figli ballano l’ultima danza, sillabano l’ultima preghiera, innalzano l’ultimo palazzo. Aspettando di stramazzare in una miniera, nel Potosì, a estrarre le avvelenate «lacrime di dio», l’argento per il vincitore.
Atahualpa ha visto il vero volto dei secoli che verranno, odio e bugie, ha guardato negli occhi della Gorgone. Non poteva uscirne vivo. È un terribile privilegio che toccherà solo a noi, mitridizzati da secoli di ben più industriali massacri. [... ]
Eppure nella primavera del 1532, pochi mesi prima dello sbarco degli spagnoli a Tumbes, Atahualpa ha festeggiato la vittoria. A poche leghe da Cuzco i suoi generali hanno disfatto l’armata del fratello Huascar che possiede per decisione del padre, il grande Huayna Capac, metà dell’impero del sole. [...]
A Cajamarca dove Atahualpa ha atteso le notizie della guerra, tutto il popolo accorre a festeggiarlo: ora il borla scarlatto, diadema dell’Inca è suo. Ha conquistato la capitale del rivale, si è rivelato guerriero ambizioso e intraprendente, sgominato i generali nemici ai limiti del Chimborazo dopo una battaglia durata un giorno intero. Ha espugnato la arrogante Tunibamba che ha osato chiudergli le porte; ha raso al suolo in quel ricetto di ribelli tutti i palazzi che suo padre aveva costruito (che importa? altri ne sorgeranno, questo sarà un altro segno della sua potenza) ; attraversato il tumultuoso Apurimac, riempito di cadaveri la pianura di Guipayan rintuzzando la molestia e l’insolenza di quei malviventi, e le ossa le ha lasciate lì come terribile monumento della sua potenza. Atahualpa è dunque un vincitore, « carnali potentia tumidus » si è seduto sul trono celeste e quindi è certo di aver ricevuto pulsioni soprannaturali.
Chi potrebbe attribuire questo nome al suo nemico Pizarro, analfabeta e guardiano di porci, che marcia e combatte a piedi non per umiltà, ma perché sta male, da goffo, a cavallo, malaccorto cacciatore di tesori che da decine di spedizioni nel Darien, con Balboa, ha tratto modesta gloria di predone, un po’ di terra malsana e un repartimiento di schiavi moribondi di sifilide e di fame? Girava a casaccio quello spagnolo davvero non « sine macula et ruga » partito da Panama nel Nuovo Oceano, sbarcando qua e là per cercare un po’ di cibo per ciurme che morivano di fame: Puerto de Hambre, porto della fame ha battezzato la località dove aveva mostrato, per la prima volta, ai suoi uomini i monili d’oro che gli abitanti caritatevoli che li avevano sfamati portavano addosso: «Non era dunque la buona strada, come vedete? L’oro c’è, a montagne, come in Messico, più che in Messico. Andiamo avanti…».

La Stampa 5.5.13
Il 200° anniversario di Kierkegaard


Nasceva il 5 maggio di 200 anni fa a Copenaghen il filosofo, teologo e scrittore Søren Kierkegaard, considerato l’antesignano dell’esistenzialismo. L’anniversario è celebrato in tutto il mondo con un fitto programma di eventi, da oggi all’11 novembre (data della sua morte, a 42 anni, sempre nella capitale danese), che include due mostre a Parigi e Berlino, conferenze universitarie in Europa e Sud America, un «rock-cabaret» a Shanghai e una serie di lezioni tenute presso la Biblioteca Reale di Copenaghen da studiosi internazionali. Programma completo su www.kierkegaard2013.dk/en.

Corriere 5.5.13
Parità, missione raggiunta per 70 milioni di donne
L'élite di potere e l'importanza del «Fattore XX»
di Maria Luisa Agnese


Alle donne non basta l'X Factor: per farsi avanti nella giungla della carriera ci vuole l'XX Factor. Ma quelle che dimostrano di possedere quel quid in quantità doppia, sono sicure di potercela fare e di entrare a far parte dell'Élite globale del potere femminile. Nuovo empireo del lavoro rosa, una specie di zona franca dove si affolla una popolazione parecchio privilegiata e molto lontana, per abitudini e stili di vita, dalle altre sorelle lavoratrici.
Area al di là degli stereotipi, dove molti luoghi comuni sulla situazione delle donne ai vertici si sciolgono come neve al sole. A cominciare da quello sul gap che si è sempre lamentato esista fra uomini e donne sul lavoro e nelle retribuzioni. Secondo Alison Wolf, economista e docente al King's College di Londra, che si è dedicata a studiare questa fetta di popolazione, e autrice del libro XX Factor (come le donne che lavorano stanno creando una nuova società), in questo momento il gap che si sta allargando è semmai quello fra donne educate e privilegiate, quelle dell'élite e dell'XX Factor, e le altre, le sorelle meno educate, meno fortunate proprio sul fronte dell'affermazione sul lavoro. «Nella fascia più alta delle retribuzioni, nei Paesi dell'Ocse, uomini e donne sono pagati allo stesso modo, e specialmente le più giovani accumulano ricchezza allo stesso ritmo», parola di Wolf, dall'alto delle sue dettagliate ricerche sullo stato della differenza di genere, riportate dal Financial Times.
Una nuova forbice sociale che si allarga, dunque: dopo quella fra ricchi e poveri, quella fra donne e donne. In vetta alla piramide del lavoro rosa Wolf conta quasi ormai 70 milioni, una cifra che è superiore, per intenderci, alla popolazione di Paesi come la Gran Bretagna o l'Italia, un'élite trasversale in tutto il mondo, che va da Hillary Clinton a Sheryl Sandberg, donne che certamente vivono la fatica quotidiana del potere e del doppio lavoro in casa e in famiglia, ma che riescono infine — grazie al privilegio, alla fortuna, o al misterioso XX Factor — a onorare le proprie legittime ambizioni. E mentre da una parte questa Élite globale svetta e prospera, dall'altra resta indietro un numero sempre più largo di loro sorelle, che lavorano senza soddisfazioni, oppure che sono costrette a gettare la spugna perché non ce la fanno a seguire ritmi frenetici, fra casa e famiglia, in quanto non sostenute da salari adeguati e in questo caso, sì, sperequati rispetto ai maschi.
In più, nel suo studio Wolf ribalta altri luoghi comuni finora prevalenti, come quello che a questi livelli le donne sacrifichino la carriera sull'altare della famiglia, semmai elaborano nuove strategie per trovare tempo per stare con i figli, appoggiandosi su un sistema di turni con il resto della famiglia e le babysitter. O cercando di contrattare, dall'alto del loro status, orari di lavoro famiglia-compatibili. Ormai noto è il caso di Sheryl Sandberg, manager di successo internazionale, braccio destro di Mark Zuckerberg a Facebook, e fresca autrice di Facciamoci avanti, presto diventato un manifesto per le donne che vogliono coniugare ambizioni e famiglia, che non ha mai nascosto la sua battaglia per uscire dal lavoro alle 17.30. Ce l'ha fatta, per quanto con apertura alle eccezioni, data la sua qualifica di amministratore delegato.
Unico mito che resiste sotto i colpi di Alison Wolf resta dunque quello della mamma e della nutrice, perché anche nelle schiere dell'Élite globale le donne fanno fatica a delegare il ruolo di genitrice. E proprio questa vocazione primaria femminile fa prevedere ad Alison Wolf che nelle professioni di altissima gamma la presenza della donna potrà arrivare al 30 per cento, anche al 40 per cento in certi casi, ma non alla parità.
Ma proprio quella che ad Alison Wolf appare come una gabbia se non una trappola, per altri potrebbe diventare al contrario un grimaldello o addirittura un'arma vincente. Lo sostengono due ricercatori, un sociologo e un giornalista, John Gerzema e Michael D'Antonio, in un altro studio, dal titolo programmatico: La dottrina di Athena, ovvero come le donne (e gli uomini che pensano come loro) governeranno il futuro.
Nella società che ci aspetta, è la tesi, il pensiero e i comportamenti strettamente maschio-derivati saranno perdenti. Mentre le caratteristiche femminili — intuizione, lealtà, flessibilità, capacità di essere empatiche e di prendersi cura — diventeranno l'essenza della nuova leadership. Al femminile?

Corriere 5.5.13
Chi davvero mette i «diversi» in gabbia
di Michela Marzano


Caro direttore, non si può non reagire di fronte ai problemi che i diritti delle minoranze sembrano porre oggi all'Italia. Dopo le polemiche di ieri, il Presidente Letta ha ritirato le deleghe alle Pari Opportunità alla neo-nominata Michaela Biancofiore, ufficialmente per «mancanza di sobrietà» nelle interviste rilasciate. Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il problema è la sostanza delle dichiarazioni della Biancofiore che mostrano bene l'incapacità di una parte del mondo politico italiano di prendere sul serio il tema delle Pari Opportunità. Al punto che è lecito domandarsi se questo problema non rappresenti oggi la questione «divisiva» per eccellenza. In un momento in cui, in Europa, si moltiplicano le leggi capaci di tutelare i diritti di tutti promuovendo l'uguaglianza nella differenza, l'Italia continua a restare l'ultima della classe, costruendo barriere insormontabili tra «noi» e «voi», «bianchi» e «neri», «eterosessuali» e «omosessuali».
A pochi giorni dalla giornata mondiale contro l'omofobia (17 maggio), è triste leggere nel suo giornale che per Michaela Biancofiore «ormai gli omosessuali sono una casta, si sono messi in una gabbia, si autodiscriminano». Dichiarazioni del genere non solo portano pregiudizio alle associazioni gay, lesbiche e trans, ma cancellano anche, in poche battute, anni e anni di lotte per il riconoscimento dei diritti di tutte le minoranze. Parlare di «autodiscriminazione», significa non capire tutti gli sforzi e i sacrifici fatti nel corso del Novecento da coloro che, rimasti per secoli nell'ombra, hanno cercato il modo di acquisire visibilità. Non solo gli omosessuali, ma anche le donne, le persone di colore, i disabili. Tutti coloro che, per secoli, sono stati appunto emarginati perché «diversi», e quindi costretti ad organizzarsi in associazioni per la difesa dei propri diritti: rivendicare la propria omosessualità — ma lo stesso discorso vale per il colore della propria pelle, come ci ha ricordato con coraggio e umiltà Cécile Kyenge — non significa «mettersi in gabbia», ma chiedere che la propria differenza non comporti né esclusione, né giudizi di valore.
Il modo in cui vengono trattate in Italia le Pari Opportunità è sintomatico dell'arretratezza di una parte del nostro Paese. Se si analizza la grammatica del potere, ci si rende infatti perfettamente conto che quest'ultimo si è costruito e consolidato proprio grazie all'assenza di visibilità delle minoranze. L'oscurità ha reso invisibile non solo la verità, ma anche le persone. È per questo che la lotta per farsi vedere e sentire è diventata un aspetto fondamentale della lotta per i diritti da parte delle donne, delle persone di colore, degli omosessuali. È solo quando si rivendica la propria diversità come parte della propria identità che si può uscire dall'afasia e ci si può battere per il riconoscimento dei propri diritti. Dietro queste rivendicazioni, c'è sempre e solo una domanda di riconoscimento e di accettazione della propria identità, delle proprie differenze, delle proprie specificità. Non si tratta di pretendere che le proprie idee e i propri valori siano approvati o condivisi da tutti. Si tratta solo di fare in modo che tutti abbiano il diritto di esprimersi e di rivendicare i propri diritti, senza per questo essere stigmatizzati dall'esclusione.
Certo l'Altro, in quanto «altro», disturba e sconcerta. A causa della sua «differenza», l'altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l'alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. L'altro è il contrario dell'ordinario e dell'abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama quella «stranezza inquietante» di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all'interno di sé una parte sconosciuta, una zona d'ombra. Ecco perché le nozioni di «normalità» e «natura» sono spesso state utilizzate per erigere barriere tra «noi» e gli «altri», accusando spesso proprio gli «altri» di «autodiscriminarsi» e «mettersi in una gabbia». Ma non è proprio il fatto di considerare gli «altri» come «altro rispetto a noi» che li costringe a rivendicare per sé dei diritti? Cerchiamo allora di non confondere tutto, invertendo «cause» e «conseguenze». Perché in fondo siamo noi ad avere messo i «diversi» in una gabbia. Non sarebbe allora opportuno che l'Italia fosse capace di avere posizioni europee non solo nel campo economico ma anche in tema di diritti?
Filosofa, docente alla Université Paris Descartes

Corriere 5.5.13
«Dobbiamo essere dei civilizzatori»
Veronesi: non credo agli scienziati neutrali, il primo a schierarsi fu Socrate
di Luigi Ripamonti


«L'idea di una Fondazione "per il progresso delle scienze" mi venne quando, parlando a un convegno di "Lotta ai tumori", conclusi il mio intervento dicendo che questa lotta sarebbe stata vinta se avessimo avuto fiducia nella forza del nostro intelletto, nella capacità di migliorare il mondo che ci circonda e nel primato della ragione. In una parola nella scienza. Avevo la percezione di una situazione di crisi nel mondo della scienza».
Una visione piuttosto insolita, visto che negli ultimi decenni la scienza ha fatto progressi come mai prima nella storia
«In effetti può sembrare un paradosso. Di solito in un sistema, o in un'organizzazione, si parla di crisi quando c'è un rallentamento, o quando non si riesce a procedere: oggi, lo sappiamo, c'è crisi economica e crisi politica. La scienza si trova nella situazione opposta: negli ultimi trent'anni ha progredito così rapidamente da creare una sorta di disagio nella popolazione. Si è formato un divario tra gli obiettivi della scienza e della tecnologia e il livello di consapevolezza della popolazione, che è rimasta disorientata davanti all'incalzare delle novità. È come quando, di fronte a un ragazzo adolescente che cresce un po' troppo rapidamente, i genitori si preoccupano perché pensano che si tratti di un fenomeno anomalo che non sanno come gestire. Se ci pensiamo bene, la scienza di oggi è una scienza adolescente: mi riferisco a quelle nuove aree di sviluppo che sono l'informatica, la genetica, la robotica, la nanotecnologia, che non esistevano trent'anni fa».
Ma non è sempre stato così? L'esempio più classico è Galileo, ma non è certo un caso isolato.
«In realtà si comincia ben prima di Galileo: lo scienziato è sempre stato visto con interesse o con curiosità, ma anche con sospetto. Basti pensare a Socrate, che secondo me è il primo grande eroe della scienza, che fu costretto a bere la cicuta perché aveva dichiarato di non credere agli dei dell'Olimpo. E tuttavia la scienza ha progredito imperterrita malgrado gli oscurantismi, le crisi economiche, i disastri naturali, le epidemie, le catastrofi. Ora, però, l'esplosione di produttività scientifica degli ultimi anni ci pone di fronte a un panorama inedito che, nella sua positività, suscita anche qualche perplessità. Facciamo un esempio: tecnicamente possiamo clonare un essere umano, ma di fronte a un clone umano siamo spiazzati eticamente e giuridicamente. Ecco dunque l'obiettivo e la ragione della nascita di una Fondazione che si occupi di questi temi. Che affronti i temi della ricerca e della creazione di una comunità scientifica internazionale, e che si impegni a costituire un vivaio di giovani scienziati e una selezione di menti sagge che indichino i limiti della sperimentazione scientifica».
Una missione che però dovrebbe essere già, almeno in parte, retaggio della rappresentanza politica e di chi delega alle questioni etiche.
«Non dobbiamo aspettare che a prendere decisioni siano il magistrato o l'uomo politico, che possono avere idee alterate dal bisogno di consenso. Il movimento di cui parlo deve nascere all'interno della scienza, ho pensato, e la scienza risponde a grandi principi etici: «l'universalità del pensiero scientifico», cioè il bisogno di rendere partecipe tutta l'umanità di ogni nuova scoperta, «l'oggettività della scienza», «la riproducibilità della scienza», ma soprattutto «la funzione civilizzatrice della scienza». La scienza deve essere in grado di aprire un discorso etico e di mantenere una valenza etica forte».
Ma la scienza non dovrebbe essere «neutrale»? Produrre conoscenza e poi lasciare decidere alla società ciò che è giusto o meno utilizzare di questa conoscenza?
«Io non credo che sia così. La scienza in questo caso sarebbe come una specie di corpo estraneo alla società, privo di coscienza etica, privo di percezione del significato di una collettività. Io credo che lo scienziato inconsapevole sia una leggenda e che il mondo della scienza debba essere consapevole e orgoglioso della sua funzione civilizzatrice. Il compito di questa Fondazione è dunque anche quello di richiamare gli scienziati a dotarsi di un codice etico e di impegnarsi per il progresso civile. Abbiamo creato un movimento sia di ragione che di morale. Il nostro progetto è rivalutare la dimensione sociale della scienza e diffondere una nuova cultura scientifica. Siamo attivi nelle scuole e stiamo progressivamente creando una nuova compagnie di giovani ricercatori biomedici — erogando centinaia di borse di studio ogni anno e finanziando progetti avanzati di ricerca — per preparare i medici del futuro a una medicina totalmente nuova, che è il risultato delle nuove conoscenze sul Dna, che incideranno moltissimo sul nostro modo di curare i pazienti del futuro.
Le nostre battaglie non sono state per nulla facili, ma questa Fondazione ha avuto un consenso, inaspettatamente, molto forte e sta diventando un'opera sempre più incisiva nella realtà nazionale ed internazionale.
Le speranze quindi sono davvero molte, e io sono molto ottimista, perché, dimostrando che abbiamo tutti insieme un grande tema da affrontare, cioè il ruolo della scienza per il futuro, abbiamo già in parte colpito nel segno».

Corriere La Lettura 5.5.13
Al festival di Gorizia la frontiera incerta tra legalità e devianza


La IX edizione del festival internazionale èStoria, in programma a Gorizia dal 24 al 26 di maggio, si propone di esplorare il confine, sempre labile e oggi più incerto che mai, tra legalità e illegalità, giustizia e devianza, potere e opposizione al potere. Quest'anno il titolo della manifestazione, organizzata dall'associazione culturale èStoria, è infatti «Banditi»: una parola che spesso è stata usata anche per bollare in negativo coloro che animarono sommovimenti politici o fenomeni di rivolta sociale. Del resto, basta guardare alle vicende che verranno trattate negli incontri in programma a Gorizia. Pensiamo alla grande rivolta degli schiavi contro Roma guidata nel I secolo a.C. dal gladiatore Spartaco, o alle imprese degli uscocchi, i pirati slavi che nell'Adriatico del XVI e del XVII secolo costituirono una componente di rilievo delle contese tra la Repubblica di Venezia, i turchi e l'Impero asburgico. Nel corso del festival sono previsti anche dibattiti sul leggendario fuorilegge americano Jesse James, sul capo rivoluzionario messicano Pancho Villa, sul bandito siciliano Salvatore Giuliano, sulla criminalità organizzata nell'Italia di oggi, sui delitti finanziari che attualmente vengono commessi anche per via informatica. Tra i partecipanti agli oltre sessanta incontri in programma: Alessandro Barbero, Giordano Bruno Guerri, Lucy Riall, Giulio Giorello, Massimo Carlotto, Enzo Ciconte, Mimmo Franzinelli, Armando Torno, Marc Augé, Roberto Chiarini, Nicola Tranfaglia, Stephen Turnbull, Barry Strauss, Edward Luttwak. Il 25 maggio sarà consegnato allo storico inglese Ian Kershaw, biografo di Adolf Hitler, il premio FriulAdria «Il romanzo della storia», creato da èStoria in collaborazione con il festival letterario Pordenonelegge.

Corriere La Lettura 5.5.13
Barbarossa, il corsaro di Allah
di Franco Cardini


Q uando, tempo fa, Muhammar Gheddafi minacciò l'Italia di farla tremare «come ai tempi del Barbarossa», tutti pensarono a Federico I di Svevia e alla battaglia di Legnano: che non c'entravano nulla. Se gli italiani avessero maggiore familiarità con la storia del Mediterraneo, si sarebbe capito subito che il rais stava alludendo a un personaggio di mezzo millennio fa, il dey di Algeri e di Tlemcen, vale a dire governatore di una regione del Maghreb per conto di Solimano «il Magnifico», sultano d'Istanbul.
Si tratta di Khair ad-Din, lo Hariadenus delle nostre cronache, detto popolarmente «il Barbarossa»: forse un «rinnegato» d'origine greca, albanese, calabrese o addirittura provenzale, ma più probabilmente il figlio di un comandante militare ottomano — un agha — e di una greca di nome Catalina.
Nato nel 1466 circa a Mitilene, nell'isola di Lesbo, gli fu imposto il nome di Hizir; fin da giovanissimo esercitò con i fratelli Elias e 'Aruj la «guerra di corsa» nel nome del sultano nelle isole greche dell'Egeo. Più tardi, conquistata Algeri, ne fece la base per una serie di incursioni contro le coste andaluse e italo-tirreniche. Nel 1526, nelle acque davanti a Piombino, fu battuto dall'ammiraglio genovese Andrea Doria: ma da allora cominciò la loro ambigua amicizia, fondata su molteplici rapporti di collaborazione e d'interessi. Essi furono spesso tramite anche delle relazioni tra il sultano Solimano e l'imperatore Carlo V.
Quasi settantenne, colui che ormai era conosciuto col nome onorifico di Khair ad-Din era divenuto ricchissimo e potente: dal 1533 era stato nominato kapudan pascià, cioè comandante generale della marina ottomana, e come tale nel 1534 compì, con una flotta di 82 galee, una tremenda incursione che si abbatté sulle coste tirreniche. Fu in ritorsione a quel raid che Carlo V organizzò, nell'anno successivo, la poderosa spedizione culminata nella conquista di Tunisi e di Biserta. Dopo quell'episodio, circolò la notizia che il Barbarossa fosse stato ucciso. Ma egli provò subito che era in grande forma: piombò sulle Baleari ancora in festa per la vittoria cristiana e le mise a ferro e fuoco, riportandone un favoloso bottino. Fece quindi rotta verso Istanbul, dove offrì al sultano una cospicua parte delle ricchezze razziate, ricevendone in cambio molti onori e un bellissimo palazzo.
Era instancabile. Approfittando dell'appoggio del re di Francia Francesco I, in lotta con Carlo V, organizzò per il 1537 una nuova campagna navale, diretta stavolta a colpire il basso Adriatico e quindi sia il regno spagnolo di Napoli, sia le isole soggette alla Repubblica di Venezia: devastò le coste pugliesi, traendone migliaia di prigionieri, quindi osò attaccare la munitissima piazzaforte veneziana di Corfù; solo il maltempo e le efficaci artiglierie veneziane gli impedirono di averne ragione. La controffensiva veneto-pontificio-imperiale, guidata da Andrea Doria, non bastò a fermarlo: anzi il Barbarossa inflisse al suo eterno avversario genovese una cocente sconfitta nelle acque albanesi.
Era quasi ottantenne quando, in coincidenza con la ripresa delle ostilità tra Carlo V e Francesco I, fu inviato con la sua flotta nel 1544 a colpire le coste liguri-provenzali in appoggio al re di Francia. In tale occasione si situa anche l'episodio del suo assedio a Reggio Calabria, che pare evitasse il saccheggio solo perché il Khair ad-Din si era invaghito della non ancora ventenne figlia del governatore spagnolo della città. Sembra invece che le sue responsabilità nell'attacco a Nizza, il porto del duca di Savoia alleato con l'imperatore, siano state meno gravi di quanto la tradizione narri. Pesante invece, sulla via del ritorno, il raid contro l'isola d'Elba.
Il Barbarossa morì nel 1546, sembra per un attacco di «febbre gialla». Fu sepolto a Besiktas, a nord di Istanbul, in un mausoleo costruito per lui dal celebre architetto Sinan. La sua figura divenne leggendaria nel folklore mediterraneo.

Corriere La Lettura 5.5.13
Pancho Villa di lotta e governo
di Massimo De Giuseppe


Agli inizi del 1914, al culmine della lotta tra i diversi fronti rivoluzionari messicani e le truppe del generale Victoriano Huerta, salito al potere dopo il golpe costato la vita al presidente Francisco Madero, lo stato maggiore di Pancho Villa firmò un primo contratto con la Mutual, una compagnia cinematografica statunitense che era intenzionata a ricostruire la vita del general revolucionario. Villa era al culmine del suo potere: alla testa di un'organizzatissima macchina da guerra, la División del Norte, era in grado di controllare un'ampia fascia di frontiera, con dogane ed empori, poteva sfruttare imponenti allevamenti di bestiame del Chihuahua e la produzione cotoniera della zona Lagunera.
Egli sembrava il più affidabile interlocutore degli Stati Uniti ed era già inseguito dal reporter John Reed. Pur senza aver perseguito una coerente politica di riforme agrarie (come Zapata nel Morelos o l'ala riformista dei costituzionalisti), grazie anche a collaboratori quali il giornalista Silvestre Terrazas e il generale Felipe Ángeles, Villa tendeva allora ad accreditarsi non solo come il Centauro del Norte, ma come il caudillo popolare, il rappresentante dei ceti disagiati.
Eppure il mito del bandito antisociale che Villa portava sulle sue spalle non si era dissolto e una serie di azioni (dall'uccisione del cittadino britannico William Benton alle violenze commesse a Città del Messico nei giorni del famoso incontro con Zapata nel Palacio Nacional) continuavano ad alimentarlo. La storia di Villa è segnata in profondità da questa dicotomia, che ha affascinato storici esperti (da Guzmán a Katz) e letterati navigati (da Muñoz a Taibo II). Essa pervade le vicende di un uomo che si mosse tra un orizzonte locale ed uno (incompiuto) nazionale, tra il fascino per i proclami di riforma e un machismo politico esibito, con un amore spassionato per gli Usa poi ribaltatosi in odio viscerale, tra la capacità di guidare 400 guerriglieri nascosti nella Sierra Madre o un esercito di 50 mila soldati in battaglia. Villa restò sospeso tutta la sua vita tra l'alleanza con l'esercito contadino di Zapata e il rapporto con bandoleros come Tomás Urbina o il killer professionista Rodolfo Fierro.
Soprattutto, però, su di lui avrebbe pesato un dato politico, alimentato dalla distanza con il primer jefe costituzionalista Venustiano Carranza, che, dopo un periodo di latenza, aprì la strada a una stagione di guerra civile, che avrebbe devastato il Messico centrale tra il 1915 e il 1916. Una distanza che avrebbe a lungo escluso Villa dalla gran familia revolucionaria, celebrata nella muralistica di Rivera, Orozco e Siqueiros. Qui risiede la contraddizione profonda di José Doroteo Arango Arámbula, nato nel 1878 presso il rancho La Coyotada, a San Juan del Río, Durango, e poi divenuto Pancho Villa, icona internazionale (più che nazionale) del Messico rivoluzionario, passata attraverso una vita rocambolesca intessuta di assalti, tradimenti, massacri, saccheggi e distribuzioni di cibo ai poveri, scoppi d'ira e di pianto, una fucilazione mancata, una fuga dal carcere nella notte di Natale, l'inseguimento da parte dei marines della colonna Pershing, vittorie eclatanti e sconfitte disastrose.
Villa è una figura tutt'altro che semplice da inquadrare (tra l'altro era astemio e non fumava), ma rappresentò un elemento importante di una rivoluzione che unì l'antico al moderno e fu la prima grande guerra civile del Novecento. Egli riuscì a trasformare uno strano conglomerato di piccoli gruppi armati (rancheros, allevatori, minatori colpiti dalla crisi, contadini, maestri, veri e propri banditi), mossi soprattutto da rivendicazioni localistiche, in un esercito moderno e ben disciplinato. Quando venne ucciso, il 20 luglio del 1923, si stava però già costruendo un'altra storia e il nuovo presidente Obregón incarnava in fondo ciò che era mancato a Villa: una visione del Paese profondamente nazionale, per tenere insieme la composita dimensione regionale, etnica, perfino di genere, emersa nel processo rivoluzionario.

Repubblica 5.5.13
Fine vita, perché dico sì alla libertà di scegliere
di Vito Mancuso


ALLEVIARE la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile. Rispettare la libera autodeterminazione della coscienza sempre, con senso di solidarietà e di vicinanza umana. È questo il duplice punto di vista a partire dal quale a mio avviso occorre disporre la mente di fronte al grave e urgente problema dell’eutanasia o suicidio assistito.
Alleviare la sofferenza è la forma più misericordiosa di rispetto per la vita. Io non ho dubbi (e penso che in nessuna persona responsabile ve ne siano) sul fatto che la vita vada rispettata sempre e che la vita sia qualcosa di sacro. È la stessa conoscenza scientifica ad attestarci mediante i suoi dati che la vita è un fenomeno stupefacente, emerso lungo i miliardi di anni percorsi da questo Universo a partire dai gas primordiali scaturiti dalla Grande Esplosione iniziale, e tutto ciò non può non generare in chi ne prende coscienza un sentimento di sacralità. Basta applicare la mente al lunghissimo viaggio della vita apparsa sul nostro pianeta per sentire che ogni forma di vita merita di essere considerata sacra, anche la vita delle piante e degli animali, anche la vita dei mari e delle montagne, tutto ciò che vive è sacro e va trattato con rispetto dal concepimento fino alla fine. La vita umana non fa eccezione: anch’essa è sacra e va trattata con rispetto dal concepimento fino alla fine.
Ancora più stupefacente però è il fatto che il fenomeno vita emerso dalla materia (se per caso o per spinta intrinseca della materia nessuno lo sa, anche gli scienziati si dividono al riguardo) si evolva secondo diverse forme vitali, già individuate dal pensiero filosofico greco mediante i seguenti termini: vita-bios, cioè vita biologica; vita-zoé, cioè vita zoologica o animale; vita-psyché, cioè vita psichica; vita-logos, cioè logica, calcolo, ragione; vita-nous, cioè vita spirituale o della libertà. Quando diciamo “vita” esprimiamo con una parola sola tutto questo complesso processo evolutivo, filogenetico e ontogenetico al contempo, in cui ciascuno di noi consiste. E quando diciamo “rispetto per la vita” dobbiamo estendere tale rispetto in modo da abbracciare tutte le forme vitali, dalla vita biologica alla vita della mente.
Normalmente si dà armonia tra le diverse forme vitali. Normalmente rispettare la vita di un essere umano significa rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e rispettarne la vita spirituale che si esprime nella libertà. Si danno però situazioni nelle quali l’armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta e il processo virtuoso in cui fino a poco prima consisteva la vita si trasforma in un lacerante conflitto, fisico, psichico e spirituale. Sto parlando ovviamente della malattia e della disarmonia che essa introduce tra le varie fasi del processo vitale, tra la vita fisica (bios + zoé), la vita psichica (psyché) e la vita spirituale (logos + nous). La malattia cronica e inguaribile segna il conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita spirituale non sono più in armonia. Che cosa significa in questo caso rispettare la vita?
Io penso che il rispetto della vita di un essere umano debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale, della sua coscienza o libertà. Di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante, vi sono esseri umani che intendono mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accettandone la sofferenza. Per loro, tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani nella passione di Cristo. Questi esseri umani intendono mantenere fino in fondo l’armonia tra corpo, psiche e spirito, sentono di avere le risorse interiori per farlo, e io ritengo che vadano rispettati nel loro prezioso proposito. Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me, esserne parte, anche se non so se ne avrò la forza e il coraggio, penso che molto dipenderà dalla malattia con la quale avrò a che fare.
Ci sono però altri esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale. Per loro la vita-bios diviene un tale carico di ansia, paure e sofferenze da risultare devastante per la salute psichica e spirituale. Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve applicare l’etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la vita biologica oppure la vita spirituale?
A mio avviso rispettare la vita di un essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve rispettare.
Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in concreta azione politica, nell’impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la possibilità di “vivere” la propria morte nel modo più conforme a come ha vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l’ultima pagina del libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere.
Un’ultima parola a livello teologico. Ha dichiarato Jorge Mario Bergoglio dialogando con il rabbino di Buenos Aires: “Occorre assicurare la qualità della vita”. Io penso che non vi sia al riguardo assicurazione migliore della consapevolezza che le nostre volontà siano rispettate da tutti, Stato e Chiesa compresi.

Repubblica 5.5.13
Il grande autore sloveno racconta la guerra il lager la letteratura
Boris Pahor
“Mi ha salvato conoscere il tedesco. Evitai il lavoro nelle gallerie”
“A cento anni scrivo e prendo l’autobus mi spaventa l’idea di dover lasciare la vita”
intervista di Antonio Gnoli


Boris Pahor è nato a Trieste il 26 agosto 1913. Scrittore sloveno, la sua opera più nota è il romanzo autobiografico Necropoli sulla prigionia a Natzweiler-Strutho

Al bar Luksa di Prosecco, pochi chilometri da Trieste, sulla mezza costa che guarda il mare, mi attende Boris Pahor. Arrivo che è già lì, di prima mattina, seduto di spalle alla grande specchiera, in attesa di un piccolo caffellatte. Ha appeso il cappotto e il basco e tra le mani stringe un giornale sloveno che parla di lui. L’occasione, credo, sia la pubblicazione di Figlio di nessuno un’autobiografia (scritta in collaborazione con Cristiana Battocletti) che racconta la sua vita. Pahor compirà alla fine di agosto cent’anni e la sua vita per come si è svolta si può considerare davvero straordinaria. Dice che per giungere al bar, da dove abita a un paio di chilometri, prende un autobus. È un uomo energico e minuto quello che siede di fronte a me. Vestito con la dignità che si usava in certe domeniche di paese. I grandi occhiali disperdono il volto affilato, la voce risuona ancora chiara e netta. Una frase mi colpisce: «Le parole non redimono la condotta umana, ma aiutano a chiarirla, a spiegarla, a intenderla».
C’è una parola che predilige?
«Un tempo è stata la parola “No”. L’ho pronunciata, a volte gridata, nella consapevolezza che dovessi oppormi a qualche ingiustizia. Ci scrissi anche un libro Tre volte no: no al fascismo, no al nazismo, no alla dittatura comunista. Ho imparato questi “no” a mie spese, sulla mia pelle».
Quando il No si è affacciato la prima volta?
«Avevo sette anni, a Trieste i fascisti diedero fuoco al Narodni, l’edificio nel quale era stata ricavata la sede della casa della cultura slovena. Fu l’inizio di una lunga persecuzione per il nostro popolo. I libri nella nostra lingua venivano accatastati e bruciati, a scuola dovevamo cancellare le nostre origini. Ci obbligarono a parlare e scrivere esclusivamente in italiano. Questo fu per me, per noi sloveni, il fascismo. E il No che ne conseguì».
Come visse il trauma?
«Con enorme sofferenza, paura e vergogna. Ancora oggi non mi rassegno a quelle umiliazioni. I miei mi mandarono in seminario. Anche lì dovevamo leggere e scrivere in italiano. Ricordo che il maestro mi obbligò sadicamente a leggere un mio tema. I compagni scoppiarono a ridere per gli strafalcioni che conteneva. Avevo perfino scritto che “il piroscafo s’annegò” invece di “naufragò”. Mio padre decise a quel punto che avrei preso delle lezioni private».
Cosa faceva suo padre?
«Era un venditore ambulante. La nostra famiglia triestina era dedita al piccolo commercio. Papà vendeva soprattutto burro, ricotta e miele. Girava per i mercati con una cassapanca fornita di ruote. Poi alzava una tenda, che quando c’era la Bora era difficilissimo tenerla su. E l’estate il caldo scioglieva il burro. Capii che quel lavoro era una dannazione e che se avessi potuto avrei fatto altro nella vita».
Intanto studiava.
«Già, ma le scuole fatte in seminario non erano equiparate e mi ritrovai a dover sostenere gli esami di liceo nientemeno che in Africa, dove ero stato spedito durante la guerra. Feci l’esame di maturità a Bengasi. Eravamo in 36 e solo in tre passammo».
Che ricordo ha dell’Africa?
«Niente di particolare. Come sloveno ero macchiato. Però a Bengasi, più che a Tripoli, c’era una buona convivenza tra le popolazioni. Ma non ho grandi ricordi. Gli inglesi ci bombardavano e noi sentivamo che quella guerra si stava perdendo. Poi contrassi l’itterizia e fui rispedito in Italia. Era il gennaio del 1941. Fino all’otto settembre del 1943 ho lavorato nel servizio informazioni militari come interprete ».
L’8 settembre fu la data della disfatta. A lei cosa accadde?
«C’era il caos. Tutti cercavamo di metterci in abiti civili. Tornai a Trieste, pensando di entrare nelle file partigiane. La mamma mi portò gli scarponi da montagna. Alla fine decisi di restare in città, anche da lì si poteva fare la lotta clandestina. Malauguratamente una mattina irruppe in casa nostra un gruppo di domobranci.
Formavano un’organizzazione clerico-fascista di Lubiana che rastrellava la zona a caccia di partigiani. Trovarono un volantino, mi arrestarono, consegnandomi alla Gestapo. Fui lungamente torturato».
Cosa volevano i tedeschi?
«Sapere chi mi aveva consegnato il volantino, che poi era un proclama per la liberazione di Trieste».
E lei?
«Ho resistito, per fortuna parlavo abbastanza tedesco per poter fornire una storia convincente. Invece di impiccarmi mi spedirono a Dachau».
Questa storia tragica lei l’ha raccontata in quel romanzo avvincente e disperato che è
Necropoli. Lei era un prigioniero politico cosa la distingueva dagli ebrei?
«Avevamo disegnato un triangolo rosso, con cui i nazisti distinguevano il deportato politico. Ovviamente, era diverso il nostro status. Voglio dire che nessuno di noi era destinato alle camere a gas. Finivamo nei campi di lavoro. E qui spesso si trovava la morte per malattia o per stenti».

Repubblica 5.5.13
Il dolore insostenibile del Cristo nel realismo brutale di Grünewald
di Melania Mazzucco


Ti atterra come un pugno in faccia, appena entri nell’ex coro della cappella di un convento di monache agostiniane. Stai visitando il museo di una linda cittadina alsaziana, e credi di essere preparata. Hai visto centinaia di Crocifissioni, hai le tue preferite. Sai che questa viene ritenuta la più sconvolgente opera d’arte occidentale. Eppure ti turba come una rivelazione: è come se avessi visto morire qualcuno, e non l’hai aiutato. E anche se non tornerai più a Colmar, rimane dentro i tuoi occhi e dentro di te, indelebile come una colpa.
Eppure è soltanto il pannello centrale di un polittico, dipinto a olio su tavola di tiglio cinque secoli fa. Ci sono Cristo, Maria ai piedi della croce (a differenza che nella tradizione iconografica, è una giovane dal volto bellissimo, vestita di bianco), il diletto Giovanni e la disperata Maddalena stravolta dal pianto — come ovunque. C’è anche Giovanni Battista, dall’altra parte della croce, e ciò è forse unico, e ha un significato: ma la prima volta che guardi la Crocifissione trovi normale che ci sia il barbuto profeta con l’agnello, visto che ci sei anche tu, dunque la spiegazione ti basta. Insomma, è la solita scena. Tuttavia questa Crocifissione non somiglia alle altre.
Innanzitutto per le dimensioni. Questo Cristo in croce è enorme, o lo sembra perché gli altri personaggi sono in scala ridotta. Il pittore usa la misura per esprimere l’intensità, e la solitudine — non conosce le regole della prospettiva, o le ignora. Poi c’è l’oscurità. Il pittore non ha dipinto la collina del teschio detta Golgota. Distoglierebbe l’attenzione. Il paesaggio è ridotto a una massa avvolta nella notte. Il pittore sceglie dunque l’istante cruciale della religione cristiana: la morte di Dio — come un uomo, in nome dell’uomo e per il suo riscatto.
Scrivo “il pittore” e non Mathis Grünewald, perché la questione dell’identità dell’autore, su cui si discute da secoli, mi lascia indifferente. Per me conta solo questo: fu contemporaneo di Giorgione e Dürer ma visse nella provincia tedesca, ai margini della grande arte del Rinascimento; non dipinse mai opere profane, e quasi solo Crocifissioni (almeno cinque); fra il 1510 e il 1516 fu chiamato da Guido Guers, priore del convento di Issenheim, a dipingere il polittico per l’altar maggiore della chiesa dell’ospedale. Composto di ante apribili, a libro, doveva contenere svariate tavole, con effigi di santi e episodi della vita di Gesù.
Cristo soffre. Una corona di spine, pesante come fosse di ferro, gli incarta la testa insanguinata. Le mani e i piedi, che i chiodi configgono a una trave di legno grezzo, si contraggono nello scatto estremo dell’agonia (le dita si increspano verso il cielo, le braccia si slungano). Il sangue cola da ogni ferita. Il perizoma è uno straccio lacero, il corpo un sacco bucherellato come un puntaspilli. Miriadi di schegge, residui della fustigazione con le verghe, crivellano infatti la carne. I buchi sono infiammati e la pelle verdastra, la cassa toracica sollevata in uno sforzo estremo. La bocca è livida, le labbra socchiuse, perché l’uomo morente, dopo aver gridato il suo “Padre, perché mi hai abbandonato?”, esala l’ultimo respiro. Il pittore ci costringe a guardarlo morire.
La visione può risultare intollerabile. Molti detestarono il realismo brutale di Grünewald, in seguito un pittore non avrebbe più potuto immaginare di dipingere Gesù come un ladrone, umiliato da una morte brutta e infame. Prevalse l’idealizzazione. Suggerire il dolore, ma non mostrarlo. Ancora oggi si discute se sia lecito mostrare la morte e la sofferenza degli uomini, ogni volta che una foto rubata ce li mostra nel loro orrore. Si parla di pornografia del dolore. C’è chi ne abusa — e per provocare convoca frattaglie, mutilazioni e corpi avariati, negando il confine dell’invisibile.
Ma Grünewald, chiunque fosse, non vuole scioccare né provocare. Vuole, al contrario, consolare. La sua spaventosa Crocifissione serviva proprio a questo. Confortare i ricoverati nell’ospedale di Isenheim, che vi venivano rinchiusi come Cristo salì sul Golgota: per morire. Erano infatti colpiti dal “fuoco sacro” o “fuoco dell’inferno”: fra le tante malattie che allora potessero colpire un essere umano, la più crudele. Letale come la peste, lenta come la lebbra, e anche vile, perché si accaniva sui poveri. La pelle brulicava di pustole, che causavano allucinazioni e degeneravano in ulcere, corrodendo le membra; braccia e gambe enfiate andavano in cancrena, e si staccavano dal corpo o dovevano essere amputate; il tronco ormai nero come carbone e duro come cuoio puzzava di putrefazione. I balsami dei monaci fatti con la verbena, la prunella e l’oppio del papavero davano sollievo ai dolori atroci: ma non esisteva cura. Solo secoli dopo si scoprì che le epidemie erano causate dal fungo che guastava la segale, e si coniò il termine “ergotismo”. Quel Cristo repellente diceva ai poveri moribondi che anche il figlio di Dio aveva sofferto ogni dolore. In fondo, che anche loro erano figli di Dio.
Grünewald vuole anche rafforzare. La fede, intendo. Poiché era credente, e sapeva che solo morendo Cristo poteva risorgere. Cioè che tutto il male sofferto — da lui e da loro — doveva essere accettato, e sopportato, perché aveva un senso. Questo era il messaggio più autentico del cristianesimo, e la ragione della sua popolarità fra gli ultimi del mondo. E la luminosa Resurrezione, in un’altra anta del polittico, mostra infatti lo stesso Cristo già torturato salire sorridente al cielo in una abbagliante nuvola d’oro. La  Crocifissione di Isenheim sarebbe uno scandalo senza la Resurrezione. Eppure confesso che col tempo il resto del polittico svanisce. I demoni con la testa di pappagallo, il grugno di maiale e gli occhi di fuoco; gli angeli piumati come uccelli, l’eremita con l’abito di canne; perfino la bellissima Madonna in bianco che sviene sotto la croce. Svaniscono le innovazioni alle convenzioni pittoriche, le invenzioni, le verità teologiche che pure il pittore esibì con mirabile intransigenza espressiva e coraggio. Resta il dolore insostenibile di una creatura che muore. E la domanda che esala da quelle labbra dischiuse. Perché mi hai abbandonato?

Mathis Grünewald: Crocifissione (1512-1516) Colmar Musée d’Unterlinden

Repubblica 5.5.13
Internet, democrazia e populismo
di Giovanni N. Ciullo


La rete sta trasformando ogni aspetto della nostra esistenza. Una nuova forma del conoscere e del partecipare che porta vantaggi ma anche delusioni e dubbi. In particolare nell’ambito della politica e dell’economia. Ne discutono da giovedì a Udine esperti, filosofi, semiologi durante la nona edizione del festival “Vicino/Lontano”. Un’occasione per fare il punto sulla crisi internazionale

Forse dovremmo abituarci a chiamarla iperdemocrazia. Iper perché enorme: un movimento di idee-proteste-azioni su scala planetaria, persino non quantificabile nei numeri. Ma iper anche in quanto iperbolica. Esagerata e amplificata: l’idea che in democrazia non sia vero che “nulla si crea e nulla si distrugge”, perché l’obiettivo qui è invece resettare tutto. Fare punto e a capo, ripartire.
Fondamentale, ovviamente, la rete. Che cosa sarebbero stati gli indignados spagnoli o gli Occupy Wall Street senza le catene virali che li hanno fatti crescere in maniera esponenziale (creando effetti emulativi a ogni latitudine)? E che cosa le primavere arabe senza tweet e retweet che le hanno fatte uscire da una dimensione locale (e permesso di conquistare spazio sui media tradizionali)? O per venire a casa nostra, che peso politico avrebbe avuto il MoVimento 5 Stelle senza “il” blog, i post, gli amici e i follower (e un uso quasi messianico del web)?
Di tutto questo si discute a Udine (nell’ambito del festival “Vicino/Lontano”), in due dibattiti che fanno il punto sulla rete come forma del conoscere e partecipare. Il primo (domenica 12 maggio, alle 10) è intitolato “Passione politica e democrazia” e prevede un focus sui movimenti di protesta e sulle differenze fra antipolitica e iperpolitica. «Non tutto è populismo, rifiuto dell’impegno diretto, lotta alla casta o antipartitismo fine a se stesso», ci anticipa uno relatori, Massimiliano Panarari, docente di comunicazione e marketing politico, che è affiancato da esperti di filosofia come Umberto Curi e Luca Taddio. «Esiste invece un’enorme richiesta di partecipazione, molti di quelli che criticano vorrebbero entrare nel sistema per cambiarlo e si sentono pronti a fare il “lavoro sporco”. Il problema semmai è che si entra in una visione salvifica che rischia di portare a enormi delusioni. La rete è una grande vetrina e ha rivoluzionato tutto, ma spesso dà l’illusione che si possa contare di più».
Qual è la soluzione? «Nel dibattito parlo anche di “pedagogia civile”: per evitare di essere trascinati in una spirale solo populistica o protestaria, c’è bisogno che le nuove minoranze esprimano un’élite competente, democratica e inclusiva. Serve un progetto organizzato per evitare che il successo di certe iniziative rimanga un bel flash-mob politico, ma con il fiato corto».
È questo anche il tema del secondo dibattito di cui parliamo: “La rivolta intermitten-
te. Politica e antipolitica in rete” (domenica 12 maggio, alle 15). «Perché intermittente? Perché spesso è concentrata su singoli obiettivi: è il caso delle lotte ambientali, dei movimenti tipo no-Tav o per l’acqua pubblica », ci dice Carlo Formenti, giornalista e saggista, per anni docente di teoria e tecnica dei nuovi media, che affianca il semiologo spagnolo Ignacio Ramonet durante il dibattito. «Una rivolta ciclica che mostra i suoi limiti quando si allarga alla denuncia della mancata democrazia partecipativa».
Quali sono le minacce e le opportunità rispetto all’architettura istituzionale di un Paese? «Io parto da quella che chiamo la “base comune” di fenomeni come Occupy Wall Street e MoVimento 5 Stelle. Ed è la classe creativa, giovane, con formazione nel campo della new economy, che ha subito più di altre la pressione della crisi e di uno stato sociale traballante. Si tratta di ragazzi che conoscono la disoccupazione, la precarietà o che hanno trovato impiego nel terziario arretrato (tipo i cassieri di Walmart negli States o i call center in Italia). Decisamente infuriati, sono quelli che meno degli altri si rassegnano rispetto alla situazione. Risultato? L’iperdemocrazia diventa tale quando dall’online si passa all’offline. La fiducia quasi taumaturgica nel mezzo deve trasformarsi in voglia di contare davvero, accettando comunque l’idea che sarà sempre una minoranza a guidare le maggioranze: l’uno vale uno è un’utopia».

Repubblica 5.5.13
Il “Times” incorona gli Uffizi “È il museo più bello del mondo”


LONDRA — Il museo più bello del mondo è la Galleria degli Uffizi. A dirlo è un sondaggio tra i critici d’arte del Times che ha incoronato la galleria fiorentina prima nella classifica dei 50 migliori musei del pianeta. Per l’Italia non finisce qui: nella graduatoria del Times ci sono anche la Galleria Borghese di Roma, al dodicesimo posto, e i Musei Vaticani, diciannovesimi. Subito dopo gli Uffizi, nella classifica figurano nell’ordine il Museo del Prado di Madrid, l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo d’Arte Moderna di New York. All’ottavo posto il Louvre.

l’Unità 5.5.13
Obiettivo Europa
Il Festival della Fotografia nel segno del «cambiamento»

A Reggio Emilia fino al 16 giugno oltre venti allestimenti
Quattro i fili conduttori: straniamento, fiducia, sorpresa e visione
di Stefano Morselli


CENTINAIA DI MOSTRE, WORKSHOP, INSTALLAZIONI, CONFERENZE, SPETTACOLI. IN LARGA PARTE GRATUITI. SPARSI IN TUTTA REGGIO EMILIA E IN PARECCHIE ALTRI CENTRI DELLA PROVINCIA. Nei luoghi deputati alle attività espositive, alla cultura, all’intrattenimento, ma anche in altri meno frequentati e più impensati. Il Festival della Fotografia Europea, organizzato dal Comune di Reggio con qualificate partnership nazionali e internazionali, ha aperto i battenti venerdì e per l’intero fine settimana trasformerà la città in un multiforme contenitore di eventi, di vario genere e varia umanità.
La parte più propriamente espositiva del Festival durerà più a lungo: le mostre resteranno aperte fino a metà giugno, proseguiranno anche laboratori e progetti rivolti soprattutto alle scuole. Ma i tre giorni iniziali chi ha partecipato alle precedenti edizioni lo sa costituiscono il cuore pulsante della manifestazione, nel suo genere la più grande in Italia e una delle più importanti a livello europeo.
Il filo conduttore di questa ottava edizione è «il cambiamento», del quale scrittori, filosofi, musicisti, giornalisti, critici d’arte cercheranno in questi giorni di proporre le loro chiavi di lettura. «Fotografia Europea promette il sindaco Graziano Delrio, da qualche giorno anche ministro nel nuovo governo Letta ci porta anche quest’anno a confrontarci sul piano artistico e filosofico attorno a un tema di grande attualità e aiuterà il nostro sguardo a cogliere ciò che normalmente fatichiamo a vedere e a interpretare».
Cambiamento, dunque, nella società, nella politica, nella tecnologia, nella natura. E, naturalmente, nella fotografia che osserva e racconta le mutazioni della realtà, nel contempo cambiando essa stessa. «Abbiamo concepito quattro percorsi spiega Elio Grazioli, curatore della rassegna legati ad altrettante parole chiave: straniamento, fiducia, sorpresa e visione».
Ognuno di questi percorsi propone opere di nomi eccellenti della fotografia, con incursioni anche oltre i confini europei. La rappresentazione dello straniamento è affidata alla giapponese Rinko Kaiwauchi, al francese Philippe Chancel, all’inglese David Stewart. La fiducia nel cambiamento del sé alla mostra collettiva Vita Nova, alle Rock Stars di Mick Rock, agli scatti di Anders Petersen nei luoghi emiliani colpiti dal terremoto dell’anno scorso. La sorpresa nel riconoscere il cambiamento ai progetti surreali di Cristina De Middel, agli spettri del passato di Sergey Shestakov, al desiderio di evasione di Lucia Ganieva. La visione della strada per iniziare il cambiamento alle indagini sul territorio emiliano del finlandese Esko Manniko, agli esprimenti nei mari del nord di Andrea Galvani, alla documentazione di Stefano D’Amadio sul lavoro di scienziati spaziali.
Ma elencare tutti i nomi e tutto il programma, anche solo per la parte espositiva, richiederebbe pagine intere. Stiamo parlando, infatti, di qualcosa come ventuno mostre degli autori più noti, allestite nelle sedi istituzionali; altre 88 ospitate nelle gallerie d’arte, nei palazzi antichi, nelle chiese; e ancora altre 165 inserite nel circuito off , che comprende anche negozi, bar, ristoranti, alberghi, scuole ospedali, case private e del quale sono protagonisti appassionati, studenti, semplici cittadini. Se non bastassero queste mostre «reali», ce ne sono anche 120 «virtuali», proposte da fotografi italiani ed europei nell’apposito Portfolio Online. Chi vuole conoscere nei dettagli tutto quello che c’è da sapere, per tuffarsi in una full immersion nel Festival reggiano, può agevolmente consultare il sito internet www.fotografiaeuropea.it.
A questo indirizzo sono reperibili anche le notizie che riguardano tante iniziative collaterali, tra le quali, di gran richiamo per i più giovani, lo show multimediale con cui è stata salutata l’apertura, animatp dal dj set di Morgan, il circuito dei Giovani Artisti Italiani e diavolerie interattive assortite, attraverso specifiche applicazioni per iPhone. Infine, non sarà inutile darà una occhiata anche agli itinerari gastronomici, con menù dedicati e prezzi scontati, che l’organizzazione del Festival ha messo a punto in collaborazione con numerosi bar e ristoranti.

Fausto Bertinotti testimone nel rito...
Repubblica 5.5.13
Padova, bufera su monsignor Gioia che oggi celebrerà a Roma il matrimonio della soubrette
Il prelato di Sant’Antonio “sposa” la Marini, la Basilica insorge: basta vip, la misura è colma
di Filippo Tosatto


PADOVA — In veste di delegato pontificio per la Basilica di Sant’Antonio, monsignor Francesco Gioia ha esortato spesso i fedeli a rinunciare alla vanità: «Basta con i tacchi a spillo vertiginosi che esaltano l’apparenza e mortificano l’essenza della persona». Oggi, però, sarà proprio lui a celebrare il matrimonio dell’anno a Roma, officiando all’Ara Coeli il sì tra Valeria Marini (della quale è consigliere spirituale da tempo) e l’imprenditore Giovanni Cottoni. Settecento gli invitati al ricevimento, in Villa Piccolomini, tra i quali spiccano Maria Grazia Cucinotta, Ivana Trump, Anna Tatangelo e Gigi D’Alessio, Fausto Bertinotti (proprio lui, testimone dello sposo).
Una parata di vip che non sembra coerente con la sobrietà predicata dal Taumaturgo di Padova. Così, a dare voce all’insofferenza dei frati è il presidente della Veneranda Arca del Santo, Gianni Berno: «Quando vedo pubblicati online foto e video di monsignor Gioia con Valeria Marini sento un profondo imbarazzo e disagio e mi chiedo in coscienza se sono io nel posto sbagliato, o qualcun altro», afferma su Facebook. «In questi mesi Papa Francesco ha dato dei segnali nettissimi che hanno riacceso la speranza in tutti noi per una Chiesa che metta al centro la sobrietà, la povertà, l’essenzialità del messaggio evangelico. Eppure per certi alti prelati è come se in questi mesi non fosse successo nulla. Tutto continua come prima». Insiste Berno, un cattolico progressista che alla fede unisce l’impegno politico (è capogruppo pd in Comune): «La Basilica del Santo richiama ai devoti pellegrini il messaggio di Antonio e Francesco e la testimonianza dei frati va quotidianamente in questa direzione. La misura è colma, Padova merita più attenzione da parte della Santa Sede».
L’area che ospita il complesso di Sant’Antonio è territorio vaticano e ciò richiede un delegato di nomina pontificia.
Ma la scelta di Gioia, settantacinquenne prelato di origine brindisina, molto vicino agli ambienti d’affari della borghesia romana, ha complicato ben presto i rapporti, sia con la comunità francescana che con la Veneranda Arca del Santo. Il monsignore è criticato per aver affidato decine di appalti edili ad aziende capitoline non proprio specchiatissime (alcune compaiono negli atti delle inchieste P3 e P4) e di aver ordinato la realizzazione di mini-alloggi abusivi in un’ala del complesso, tanto da indurre la Soprintendenza ad inviare un esposto alla procura. Circostanze avvenute all’insaputa dei frati (che si sono dichiarati «sdegnati») e dell’autorità laica rappresentata da Berno, che sulla vicenda
ha già chiesto udienza al Papa.