lunedì 6 maggio 2013

il Fatto 6.5.13
Congressi e piazze
Agenda della sinistra possibile: gli appuntamenti


SI SONO GUARDATI in faccia più volte negli ultimi giorni: il padre nobile Stefano Rodotà, il segretario della Fiom Maurizio Landini, i dissidenti del Pd Sergio Cofferati e Pippo Civati, i vendoliani, l’ex ministro Fabrizio Barca. Attorno un mondo di sinistra che vorrebbe riorganizzarsi sotto le insegne di un partito del lavoro. Si rincorrono già ipotesi di nomi. Uno è Partito della Sinistra per l’Europa, con l’acronimo Pse, a rimarcare una scelta precisa: la famiglia politica di appartenenza, quella socialista europea, alla quale il Pd non ha mai aderito in modo organico. E adesso c’è anche un percorso, fatto di appuntamenti. Sabato 11 maggio a Roma ci sarà l’assemblea nazionale del Pd che dovrà eleggere un nuovo segretario in attesa del Congresso. Lo stesso giorno a Santi Apostoli, Nichi Vendola aprirà Sel a un cantiere per una nuova sinistra. Sabato 18 maggio, sempre a Roma, manifestazione della Fiom sul lavoro.Domenica 19 maggio da tutta Italia si recheranno a Prato i Giovani democratici che hanno occupato i circoli del Pd. Domenica 26 maggio, a Bologna, referendum sui fondi alle scuole private. Rodotà si è già posto alla guida della campagna elettorale, rimarcando la necessità di destinare le risorse alla scuola pubblica. Domenica 2 giugno, ancora a Bologna, Libertà e Giustizia chiama a manifestare anche per la Costituzione. In piazza, lo stesso Rodotà e Gustavo Zagrebelsky.
g.cal.

Repubblica 6.5.13
Società, partiti, governo, un triangolo rotto


ROMA — Si intitola Società, partiti e governo: Il triangolo rotto il seminario organizzato da Laterza che si terrà domani pomeriggio nella sede romana della casa editrice in via di Villa Sacchetti, 17. Alla riunione ad inviti che sarà aperta da Piero Ignazi, autore del volume Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza) e Fabrizio Barca: suo il recente intervento Un partito buono per un buon governo.Tra i partecipanti Andrea Baranes, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Carlo Borgomeo, Alessandro Campi, Lucio Caracciolo, Enzo Cipolletta, Pippo Civati, Marco D’Eramo, Stefano Fassina, Nicola Lagioia, Maurizio Landini, Alfredo Reichlin, Massimo Luciani, Claudia Mancina, Corradino Mineo, Alessandro Pace, Nando Pagnoncelli, Andrea Soru, Jean Leonard Touadi, Carlo Triglia, Giovanni Valentini.

l’Unità 6.5.13
«Pd usato come un taxi. Ma noi non ce ne andremo»
A Milano e provincia tante riunioni nei Circoli dopo le travagliate vicende delle elezioni e del Colle
Delusione ma anche voglia di «ripartire»
di Marco Ventimiglia


Il posto è in un quartiere di Milano non troppo distante dal centro. Non facciamo in tempo a varcare la porta ed intravvedere una trentina di persone sedute intorno a un tavolo che una frase fende l’aria: «Io, comunque, non me ne voglio andare dal Pd». Siamo nel Circolo democratico di «Romana-Calvairate», dove va in scena una delle molte riunioni, post elezioni, post Quirinale, e adesso post governo, organizzate dal partito nella provincia milanese. Ma per fortuna il buongiorno non si vede dal mattino, anche se il cielo plumbeo e piovoso non aiuta a tirar su il morale. La frase, come capiremo ascoltando i successivi interventi, non è l’acme di qualche dolorosa seduta di autocoscienza, che peraltro deve esserci stata qui come altrove, quanto un modo per dire: «Nonostante tutto, guardiamo al futuro». E per affrontare settimane che si annunciano ancora molto difficili, più di un partecipante vuole mettere una cosa bene in chiaro: «Ci hanno diviso scandisce le parole Gianni fra ex comunisti ed ex democristiani, fra giovani e vecchi, fra la corrente di D’Alema e quella di Renzi, e chi più ne ha più ne metta. Io non solo non mi riconosco in tutto ciò, ma soprattutto non ho intenzione di vivere i giorni che ci porteranno al Congresso in questo modo. Qui non ci siamo mai divisi guardando alle nostre esperienze passate, piuttosto bisogna continuare a confrontarci sul futuro del Partito democratico, specie in un momento così difficile».
PAROLE CHIAVE
Centouno, taxi e Congresso: sono le parole, non tutte prevedibili, che sintetizzano i temi della discussione. Un confronto, che al di là della sostanza verbale, colpisce per la compostezza degli interventi effettuati da donne e uomini per lo più nella fascia degli “anta”, anche se non manca qualche volto più giovane. L’impressione è che, appunto, dopo gli shock a ripetizione del recente passato, si cerchi adesso una qualche strada che consenta ai democratici di tornare a camminare nella stessa direzione. E anche l’evocazione di quel numero, 101 come i presunti franchi tiratori che hanno affossato la candidatura di Prodi al Colle, non è un modo per chiedere maxi epurazioni. «Io volevo e voglio sapere i nomi dei
nostri parlamentari che non hanno votato per Prodi dice Corrado -. Non è per consumare chissà quali vendette, ma perché ho bisogno di capire. Se non so chi sono e che cosa hanno in testa queste persone, come posso fare affidamento sui vertici del partito nei prossimi mesi?».
Il taxi, perché il taxi? Perché trattasi di veicolo che più d’uno ritiene usato per salire e scendere dal partito a seconda dei tornaconti personali. Ragionamenti esplosi in tanti Circoli di fronte all’implosione del Pd nelle votazioni per il Quirinale. «Non vorrei che anche noi ragiona Claudio si sia stati permeati da vent’anni di berlusconismo, da un protagonismo fine a stesso supportato dai media di turno. Questo mi preoccupa anche in vista del Congresso. Barca, Cuperlo, adesso Civati: stiamo consumando nomi di presunti nuovi leader sulla base di un'intervista pubblicata su un giornale, piuttosto che di una comparsata televisiva. Per non parlare delle esternazioni sui social network...». Anche per questo, aggiunge Giuseppe, «da parte di chi si candiderà alla segreteria non mi aspetto tanto delle spiegazioni sul deludente
risultato elettorale o su quello che è accaduto dopo il voto, quanto l’esposizione di un programma convincente, capace di rispondere alla crisi e di mostrare una visione dei prossimi vent’anni di questo Paese».
Quanto al Congresso, non ci si interroga solo sul quando ma anche sul come. «Mi chiedo dice Doris se non sia il caso di svolgerlo per tesi, con temi individuati dalla base del partito e poi selezionati e affinati sulla strada dei vari Congressi provinciali e regionali». E il nuovo governo? Per quanto possa sembrar strano se ne parla poco, per lo più con una sorta di rassegnata presa d’atto. Sentite il giovane Marco: «A chi mi ha detto che almeno alla mia età bisogna saper sognare ho risposto che poi bisogna pur sempre fare i conti con la realtà. E la realtà ci dice che non ci sono alternative a questo esecutivo». Infine, a fare uno sforzo di sintesi c’è Bruno, consigliere provinciale: «L’importante, adesso, è affrontare la strada per il Congresso con spirito costruttivo. Per andare avanti servono e serviranno delle mediazioni. Pensare che per guidare il Paese basti un grande partito di sinistra è pura illusione».

l’Unità 6.5.13
Ora dirigano il Pd i giovani che occupano le sedi
La testimonianza del circolo Pd di Stoccolma, dove la critica è la più radicale e dove
si chiede di voltare pagina nella gestione del partito
di Emanuele Del Giudice


Sono il segretario del circolo Pd di Stoccolma. Gli eventi che hanno visto protagonista il Partito democratico in queste ultime settimane hanno messo seriamente in discussione l’esistenza stessa del nostro circolo: l’adesione al partito non può essere pretesa come scelta acritica, scontata e data una volta per tutte. La gestione di questi mesi, già durante la fase elettorale, con una campagna timidissima e povera di contenuti forti ed innovativi («un po’ più di lavoro», «un po’ più di equità» sono slogan con i quali si sceglie in partenza di «non-vincere»), e soprattutto quella miserrima dell’elezione del presidente della Repubblica, il cui unico filo conduttore involontario è stato la ricerca di una Caporetto, ha portato molti all'esasperazione.
Le scelte della dirigenza ci hanno condotto, attraverso la ricerca di un accordo con la peggiore destra (dopo aver fino ad allora negato la volontà di patti politici con la stessa), alla candidatura di una figura come Marini che permettetemi di dirlo con chiarezza considero non adeguata a quel ruolo istituzionale così delicato e centrale per il funzionamento della Repubblica: una candidatura che impallidisce al confronto con la statura politica ed intellettuale di personalità come Napolitano e Rodotà.
Dopo questo primo suicidio politico si è candidato Prodi, per pugnalarlo per l’ennesima volta alle spalle (e con lui i nostri elettori); d’altronde incoronare leader per farli fuori è una «nostra» vecchia abilità che fa il paio con quella di rivendicare in maniera sfacciata, appena qualche giorno prima, la necessità di superare il «complesso dell’inciucio», asserendo che l’unico ostacolo al tanto desiderato accordo di governo con la destra era costituito da Berlusconi, come se quella italiana non fosse la sua destra.
Fatto fuori anche il fondatore del nostro partito nonché cosa di grande valore simbolico l’unico che fosse riuscito a sconfiggere il Cavaliere sul piano elettorale, ci siamo inginocchiati ai piedi di Napolitano non sapendo più che pesci prendere e rassegnandoci ad un accordo politico con Berlusconi, consegnando a quest’ultimo per l’ennesima volta la parte del protagonista: qualche mese fa era politicamente finito e ci siamo invece adoperati per farlo tornare in gara più forte di prima, come quei maratoneti o ciclisti sportivi che aspettano l’avversario in difficoltà passandogli l’acqua.
Il governo Letta non è che l’ovvia e inevitabile conseguenza dei fallimenti sopra elencati; la destra lo terrà in vita fin quando converrà, per poi staccare la spina al momento più propizio, come è stato fatto con Monti. E intanto veste i panni di chi vuole abbassare le tasse ad ogni costo, lasciando alla sinistra il ruolo impopolare di dire no o ni.
Ho sentito dire che la vera colpa di tutto quello che è accaduto è stata di Grillo, come se ci fossimo dovuti aspettare un aiuto da lui, al quale invece abbiamo consegnato il più facile dei rigori per le prossime elezioni: un governo Pd-Pdl. Ho sentito dire che il M5S è in calo, perché in Friuli ha vinto il Pd, quando in realtà in Friuli ha vinto la Serracchiani.
Ho sentito dire che le tessere del Pd le hanno bruciate dei figuranti e che nei circoli ci sarebbero file di aspiranti nuovi iscritti. Saremo forse in controtendenza solo qui a Stoccolma allora, dove tutti quelli che hanno deciso di
lasciare il partito, hanno votato Pd da sempre e fondato il nostro circolo; alle primarie c’è chi ha votato Bersani, chi Renzi, chi Vendola, chi Puppato, ma la rabbia e la vergogna è stata trasversale. In molti sono giunti alla constatazione che il nostro partito ha abdicato alla funzione di interprete primario del necessario rinnovamento politico e sociale del Paese e che la sua stessa classe dirigente sia l’ostacolo principale al cambiamento (del partito e quindi del Paese), perché tale cambiamento comporterebbe inevitabilmente la sua scomparsa (o meglio la presupporebbe).
La base ha dimostrato di essere di gran lunga più lungimirante e proiettata in avanti rispetto alla dirigenza del partito. Il ragionare dei militanti non può essere oggetto di delega. E soprattutto: la base ha superato da anni la divisione tra ex-cattolici ed ex-comunisti, una distinzione che sopravvive ormai solo in chi guida il partito, ancorato a schemi del Novecento.
Il partito va rifondato dal basso, i giovani hanno occupato tante sedi: è ora che si prendano la direzione nazionale. Il Pd ai giovani!

il Fatto 6.5.13
Tour nelle sedi
L’ex ministro imBarca la pancia democratica
di Stefano Caselli


Il Pd è il partito a cui una persona di sinistra come me guarda”. A un mese esatto da quelle parole (pronunciate di fronte alle telecamere della tv de ilfattoquo  tidiano.it ) che segnarono il suo ingresso ufficiale nell’arena del partito, Fabrizio Barca inizia il suo tour nella “pancia” dei militanti. Primo appuntamento ieri al circolo “San Paolo” di Prato. Una tappa forse non casuale, dal momento che proprio a Prato, il 19 maggio, si riuniranno i “rivoltosi” di tutta Italia: i giovani di #occupypd che più di tutti gli altri non hanno digerito l’inciucio con il Pdl del governo Letta, ma non solo. Ad ascoltare l’ex ministro della Coesione territoriale del governo Monti – tornato al suo impiego di direttore generale del Ministero del Tesoro – ieri a Prato non c’erano soltanto giovani. La piccola sede del circolo “San Paolo” era gremita di oltre duecento persone, molte delle quali in piedi, con un’età media non certo livellata verso il basso. Segno che la parola “sinistra” scalda ancora i cuori al di là della carta d’identità. Fabrizio Barca, che pure ha annunciato di non ambire alla segreteria del partito (a cui è iscritto da poche settimane) nè alla creazione di una corrente, lo sa bene. Il popolo democratico – o almeno una parte consistente di esso – è in rivolta da Aosta a Palermo: “Dedicherò ogni fine settimana a un incontro nei circoli del Pd – ha detto Barca – voglio capire l’umore degli iscritti e anche far emergere i talenti nascosti nel Pd, persone valide che preparate che spesso non riescono a farsi ascoltare da Roma”.
L’economista torinese arriva all’appuntamento con un’ora di ritardo e per prima cosa – causando per la verità qualche mugugno – chiede alle telecamere di rimanere fuori. Poi, per oltre un’ora, la “pancia” del partito rivela la sua rabbia profonda: “Questo Governo non è riconosciuto dai nostri iscritti ed elettori”; “Vogliamo il partito dei circoli non dei capibastone”; “Io manderei tutti e 400 parlamentari a casa, non solo i 101 che non hanno votato Prodi”; “Dopo 50 giorni in cui ha detto e ripetuto che non si sarebbero mai fatti accordi con il Pdl, il numero due del partito ha accettato di fare il premier con la fiducia di Berlusconi”.
IL TENORE degli interventi è questo. Non è dato ancora sapere se sia esattamente questa la “mobilitazione cognitiva” del partito cui Barca ha fatto riferimento poco prima di presentare il suo manifesto per “un partito nuovo per il buon governo”. Di certo la “pancia” democratica – per usare un eufemismo – è in subbuglio. E c’è da scommettere che la musica delle prossime tappe sarà la stessa.
Intanto prosegue quella Toscana. Oggi l’ex ministro – forse – incontrerà il sindaco di Firenze Matteo Renzi. I due non si amano. Barca considera il “rottamatore” una punta di diamante di quella “lotta fra orazi e curiazi” che strangola il partito; Renzi ha avuto nei giorni scorsi parole sprezzanti per Barca (“l’ho incontrato quando era ministro, mi ha trattato come fossi un ragazzino, la cosa che meno sopporto. Me ne sono andato”).
Tra gli appuntamenti certi, invece, l’incontro al cinema Terminale con i giovani di Sel (l’asse Barca-Vendola, se resiste, è nato durante l’elezione del Presidente della Repubblica, entrambi avrebbero voluto Stefano Rodotà). Quindi dibattito all’università organizzato dai Giovani democratici e finale in serata al Teatro Puccini con Sergio Staino.

Repubblica 6.5.13
Pd, il tour di Barca nelle città della protesta
L’ex ministro: “I partiti macchine per produrre eletti. Con Renzi nessun asse”
di Simona Poli


PRATO — Circolo Pd San Paolo, quartiere popolare di Prato, una delle prime città dove è scoppiata la rivolta di Occupy Pd. Comincia da qui il giro d’Italia di Fabrizio Barca, che per i prossimi sei mesi s’impegna a dedicare ogni fine settimana alla presentazione del suo documento sul futuro della sinistra. «Voglio ascoltare il cuore del partito, solo così si possono cambiare le cose. Ci sono talenti nascosti nel Pd che a Roma non riescono a farsi sentire, io intendo scoprirli e valorizzarli», annuncia spiegando il suo programma.
Sala sottodimensionata, a decine sono costretti a restare in piedi, giovani e pensionati, tantissime donne, nuove e antiche correnti terremotate con la stessa violenza, militanti disorientati, in cerca di punti di riferimento. Il manifesto di Barca almeno è una concretezza. In ultima fila è seduto Vittorio Mangani, iscritto al Pci nel ‘66: «Io conoscevo bene il babbo, Luciano Barca. Nel ‘71 ero infermiere e l’azienda sanitaria di Prato organizzò una crociera da Genova a Tunisi, per i dipendenti. Con noi c’era Barca, da dirigente del Pci ci accompagnava per discutere di politica nel viaggio».
L’ex ministro arriva con un’ora di ritardo, al tavolo della briscola un anziano canticchia fin che la barca va, le signore piazzano l’ombrello sulle sedie, finalmente si comincia. Il primo a farsi avanti è Gabriele Bosi, segretario di uno dei circoli più importanti, quello del centro storico, 120 iscritti. Ci va giù duro: «Abbiamo ceduto, in Parlamento persino i 5Stelle ci hanno messi in soggezione, c’è bisogno di rifondare i Democratici, così non funziona», dice rivolto a Barca. In molti parlano dei franchi tiratori: «Chiamiamoli come meritano, sono dei vigliacchi traditori, gente che ha perso ogni rigore morale». Qui nessuno ha capito cosa sia veramente successo nell’ultimo mese. «Abbiamo più correnti noi che l’Enel», attacca Lucio La Manna del circolo Primo maggio.
Barca ascolta in silenzio e prende appunti. E’ un copione vecchio stile, non ci sono i video e gli intermezzi musicali del Big Bang e nemmeno il gong che contingenta i tempi. Novanta minuti di sfogo collettivo prima che l’ospite d’onore prenda in mano il microfono. «Ho scritto questo documento per smontarlo e ricostruirlo insieme a voi», assicura. «Facendo il ministro ho avvertito la solitudine drammatica delle classi dirigenti a Roma e sul territorio e ho sentito l’assenza del partito che abbandona i sindaci ai loro problemi. I partiti sono diventati ormai Statocentrici, macchine per produrre eletti che attraverso il finanziamento pubblico governano il Paese». Non tutti hanno letto l’intero documento ma sanno che ha usato quella strana parola, il catoblepismo, una metafora del partito che mangia se stesso fino a sparire. «E’ impossibile realizzare un sistema di governo che funzioni senza partiti ben strutturati. Un partito è il luogo in cui si incontrano le voci e si trovano le mediazioni. E’ questo processo di dialogo che conta, la rete dei circoli è più forte di quella del web. La politica non è lavoro ma passione e il segretario deve essere
una figura diversa dal candidato premier. Si può fare. Yes we can», dice strappando un’ovazione. E Renzi? «Tra me e Matteo c'è complementarità, nessun asse». Lo vedrà? «E' inevitabile che in sede toscana o romana prima o poi ci si debba incontrare».
Discutere è già un segno di vitalità. Simone Barni, 35 anni, consigliere provinciale, cerca di pensare positivo: «In mezzo a tante macerie sembra rinata la voglia di
dibattito». Filippo De Rienzo, renziano, confessa: «Che fatica far partire il tesseramento, la gente è troppo arrabbiata». Manlio Altimati, iscritto semplice, saluta Barca con una stretta di mano. «Fabrizio, quando la gente mi domanda “ma voi del Pd chi siete?” vorrei sapere cosa rispondere». Prossima tappa, oggi a Firenze. Poi in Calabria. Il tour è appena iniziato.

l’Unità 6.5.13
Pd, pressing per il segretario subito
Ma ancora non c’è l’intesa sul nuovo leader e sulle modifiche allo statuto
La spinta delle città: ora dobbiamo ripartire
Segretario, no a rinvii Il Pd cerca l’intesa
I nomi in campo sono sempre quelli di Cuperlo e Epifani ma i veltroniani avanzano dubbi
C’è chi chiede che sabato si modifichi solo lo Statuto ma dal territorio si insiste: basta perdere tempo
Da parte dei renziani si punta ad alcuni posti chiave: forse la vicesegreteria per Richetti
di M. Ze.


A cinque giorni dall’assemblea nazionale il Pd è ancora diviso sul dopo-Bersani. Lo scontro è sul ruolo del nuovo leader (reggente o segretario) e sulle modifiche allo statuto che prevede la coincidenza di leader e candidato premier. Ma dalle città i segretari provinciali e regionali spingono per fare in fretta: ci vuole subito un leader a tutti gli effetti, il Pd deve ripartire.

ROMA Nessun candidato ufficiale e posizioni ancora divergenti: è questo il quadro che ancora ieri, domenica, si delineava rispetto all’elezione del prossimo segretario mentre dai territori e dalle segreterie regionali arriva la richiesta di una decisione forte e chiara già sabato prossimo. Già, perché adesso, nel partito si è aperto un altro fronte di discussione che tiene banco: se sia il caso di concentrare l’Assemblea nazionale di sabato prossimo sullo statuto e le relative modifiche, e rinviare l’elezione del successore di Pier Luigi Bersani di quindici giorni.
Il rischio sotto gli occhi di tutti è che si arrivi all’appuntamento spaccati, con un elezione a maggioranza e non unanime: un segnale che il Pd non può permettersi di inviare ad una base già in subbuglio per l’accordo di governo siglato con il Pdl e le fibrillazioni che si creano ogni giorno tra i due schieramenti politici. Per questo mercoledì sera è stato convocato a Roma il coordinamento allargato a tutti i segretari regionali: si dovrà trovare una soluzione che tenga insieme il partito da qui al congresso d’autunno e dotarlo di una guida con pieni poteri che sia in grado di rimettere insieme i pezzi. A spingere per uscire dall’incontro con un nome condiviso ci sono, tra gli altri, Andrea Manciulli, segretario toscano e l’emiliano Stefano Bonaccini, come d’altra parte Nicola Zingaretti, Catiuscia Marini e il segretario bolognese Raffaele Donini.
Uno dei temi su cui il Pd rischia di spaccarsi è anche quello della modifica dello statuto in due punti: la coincidenza tra la leadership e la premiership e di conseguenza la modalità di elezione del segretario (solo tra gli iscritti o con primarie). Tra i molti sostenitori del segretario candidato premier ci sono Walter Veltroni e Paolo Gentiloni (tra i pochi parlamentari a schierarsi con Matteo Renzi alle primarie) convinti che questo sia l’unico modo per garantire coerenza tra la linea politica del partito e quella del governo, mentre tra chi ritiene che sia necessaria una modifica ci sono, tra gli altri, Gianni Cuperlo (che si è detto disponibile per la guida del partito fino al congresso) e Beppe Fioroni. Per Rosy Bindi, che è sempre stata contraria alla norma originaria dello statuto, «se ne può discutere ma stavolta voglio sapere chi fa la proposta e con quali motivazioni, altrimenti sa di scambio».
L’UOMO GUIDA
Chi dovrebbe essere l’uomo guida? Bella domanda. Il nome più forte in questo momento sembra quello di Gianni Cuperlo, ex dalemiano, rappresenterebbe quel ricambio generazionale che larga parte del partito chiede. Su di lui sembrano convergere, oltre a D’Alema, i Giovani turchi, molti segretari regionali e amministratori locali, lo stesso Beppe Fioroni. Resistenze dai veltroniani, a cui, come ha spiegato Walter Verini, non piace l’idea «che si debba dare a un ex ds la segreteria del partito per bilanciare Enrico Letta al governo». Veltroni, che sente quasi quotidianamente il sindaco fiorentino, pensa ad una figura autorevole in grado di rappresentare tutto il partito, senza “ex” davanti, e chiede che si tenga conto di personalità come Pierluigi Castagnetti e Sergio Chiamparino, anche se è improbabile che l’ex sindaco di Torino accetti un incarico a termine.
Critico anche Gentiloni: «Non parlo dei nomi, soprattutto se si tratta di stimati dirigenti. Parlo del metodo spiega l’ex ministro del governo Prodi perché se noi sabato prossimo non partiamo dalle ragioni che ci hanno portato alla sconfitta elettorale, tanto più grave quanto più inaspettata, non adiamo da nessuna parte. Non abbiamo risolto con le dimissioni di Bersani, è la rotta che deve cambiare, non può esserci continuità con il passato, si deve dare un profilo politico al partito». E quel profilo per Gentiloni non può andare nella direzione opposta alla prospettiva del Pd che «è Matteo Renzi». Dunque non si può non tener conto, nell’elezione del segretario, che il futuro candidato premier è il sindaco di Firenze. Una delle ipotesi a cui si ragiona è la vicesegreteria a Matteo Richetti, neo-deputato renziano, anche se Renzi ufficialmente dice di non avere preclusioni sui nomi ma la linea della componente verrà decisa nelle prossime ore.
L’altro nome per la segretaria è quello di Gugliemo Epifani, ex segretario Cgil, soluzione che convince di più bersaniani. Areadem non ha ancora deciso, si riunirà probabilmente oggi. Bindi, presidente dimissionaria, dal canto suo ha una posizione diversa: «Siamo un partito in grande sofferenza c’è bisogno di ripristinare il metodo della collegialità, abbandonato nell’ultimo anno. C’è bisogno di una figura che rappresenti tutto il partito, ci metta attorno ad un tavolo per creare le condizioni per arrivare al congresso e alle eventuali modifiche statutarie». Una delle condizioni, secondo Bindi, è che il segretario che uscirà dall’Assemblea di sabato non si ricandidi al congresso. Di sicuro, entro mercoledì tutte le anime del partito prenderanno una decisione in vista dell’incontro previsto per la sera.
E intanto in vista del congresso il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, neo sottosegretario, dalla sua pagina Facebook lancia il suo «manifesto» in cinque punti (ripartire dai territori, un programma chiaro, smantellare correnti e correntismo, dare un’anima al Pd e cambiare tutto). «C’è bisogno, anche per noi scrive più di ritrovare i valori fondamentali, che di coltivare logiche curiali. Non ci salveremo se non offriremo al Paese e se non avvieremo nei fatti una svolta profonda: nel programma, nel linguaggio, nell’organizzazione, nello stile. Dobbiamo liberarci della nostra “presunzione di superiorità”».

il Fatto 6.5.13
La corsa per la segreteria. Pd, quella poltrona per due
L’atipico Cuperlo, l’uomo che sussurrava a D’Alema
Ultimo segretario Fgci, deputato dal 2006
Nel 2009 si astenne sulla mozione per far dimettere Cosentino
di Luca De Carolis


A guardarlo, ha il volto da professore di filosofia benevolo, di quelli che se arranchi nell’interrogazione ti fanno la domanda a piacere. A sentirlo dal palco della (sua) milionesima direzione, mentre discetta di “capitalismo che ha vinto la sua battaglia con la modernità”, sembra quasi fuori posto. Gianni Cuperlo, deputato triestino di 51 anni, dalemiano di stretta osservanza, è un segretario più che possibile, ma poco immaginabile per il Pd. Perché è complicato figurarselo nella battaglia perenne del suo partito, a tenere a bada i capi delle infinite correnti. Eppure potrebbe essere proprio questo il destino di Cuperlo, appassionato di libri e politica. Laureato al Dams di Bologna, la sua carriera nel partito inizia negli anni ‘80. Nel 1988 viene nominato segretario della Fgci, la giovanile del Pci. Un’idea soprattutto del segretario uscente Pietro Folena, che anni dopo sul Foglio rivendicherà: “Scegliemmo Cuperlo perché era quanto più di lontano dal funzionario di partito”. Sarà proprio il triestino “eterodosso” a dover sciogliere la federazione nel 1990, dopo la caduta del Muro e la svolta di Achille Occhetto.
RACCONTANO che una delle sue più grandi soddisfazioni fu l’assemblea dei giovani comunisti a Rimini, nell’estate pre-scioglimento. Si temeva una spaccatura rumorosa tra occhettiani e ingraiani, e invece i giovani discussero e ascoltarono, disciplinati. Nel dicembre successivo, congresso a Pesaro e fine della Fgci. La storia di Cuperlo continua nella Sinistra Giovanile del Pds, di cui è segretario sino al 1992. Poi, il triestino che ama la letteratura americana (il preferito è Joe Lansdale) entra nella direzione del Pds, e diventa dalemiano. È un consigliere molto dietro le quinte, che legge e scrive (anche) per l’ex premier. Comunque atipico, tanto da guadagnarsi l’etichetta di “diversamente dalemiano”: differente dagli altri pasdaran del leader come Claudio Velardi, arcigno capo segreteria, e Fabrizio Rondolino, responsabile della comunicazione, autore di un romanzo erotico. Niente facce feroci o sfregamenti su carta invece per Cuperlo: che, incredibile per un dalemiano, si guadagna la fama di uomo facile al sorriso e alla battuta. Responsabile comunicazione Ds, uno dei primissimi politici con un blog, diventa deputato nel 2006. Due anni dopo è in corsa per la segreteria assieme a un altro ex Fgci, Nicola Zingaretti. Cuperlo commenta parafrasando Groucho Marx: “Non vorrei mai stare in un partito che avesse tra i suoi leader uno come me”. Non fa per nulla ridere nel gennaio 2009, quando si astiene, assieme ad altri 25 democratici, sulla mozione che chiedeva le dimissioni dell’allora sottosegretario Nicola Cosentino, accusato da sei pentiti di rapporti con la camorra. Cosentivo si salva, anche grazie a Cuperlo. Cortese ma testardo, di quelli che non cambiano idea. Oratore ricercato, con i suoi discorsi talvolta da comitato centrale. Se c’è da difendere la linea e D’Alema, morde volentieri. Dieci anni fa attaccava l’Unità di Furio Colombo. Nel marzo scorso, sull’Unità, rispose a Debora Serracchiani che invitava l’ex premier a tirarsi fuori dalla corsa dal Quirinale: “Un’esponente del Pd ammonisce un fondatore del partito a dichiarare che non farà mai una cosa che non ha chiesto, per non precludere il dialogo con Grillo. Logica piuttosto intrigante”. Ma la collisione vera è con Matteo Renzi. Nella direzione del 6 marzo, Cuperlo lo disse al microfono: “Buona parte del confronto tra di noi ruota attorno al sindaco di Firenze, che è qui ma non prende la parola. Questo non è un nodo che investe la nostra democrazia, cos’è un partito e come discute? I percorsi paralleli non funzionano”.

il Fatto 6.5.13
La corsa per la segreteria. Pd, quella poltrona per due
Epifani, il sindacalista socialista in odor di Craxi
Quando guidava la Cgil lo accusarono di eccessiva subordinazione all’esecutivo Prodi
Da qui, la rottura con Cofferati
di Salvatore Cannavò


La proposta di guidare una formazione politica, Guglielmo Epifani l’ha già avuta. Nel 2007, mentre nasceva il Pd a guida Veltroni, verso il quale l’ex segretario Cgil non nutriva grande trasporto, fu Fausto Bertinotti a prospettargli la leadership di una Federazione della sinistra. Non se ne fece nulla. Ora, a 63 anni, dopo 36 anni nel sindacato, è in ballo per la segreteria del Pd. Forse la tesi di laurea su un’icona socialista come Anna Kuliscioff lo fa apparire di sinistra mentre il tono vellutato, e la carriera sindaca-le, rassicurano i moderati. “A me piace” diceva qualche giorno fa Raffaele Bonanni, “almeno so come ragiona”. Prima di fare il segretario della Cgil è stato il vice di Sergio Cofferati. Ultimo esponente di quella “componente socialista” della Cgil che nel 1984, con il decreto Craxi sulla scala mobile, fu a un passo dalla rottura. Epifani restò defilato ma negli anni 80 era quasi impossibile essere socialista e non stare con Craxi. Quando sostituisce Cofferati alla segreteria della Cgil, nel 2002, riceve l’eredità del Circo
Massimo. Epifani la conserva fino al 2003 partecipando al movimento per la pace e poi, in dissenso con lo stesso Cofferati, schierando il sindacato accanto a Fausto Bertinotti nel referendum per estendere l'articolo 18. Poi la Cgil è risucchiata dall’Unione di Romano Prodi, accolto in trionfo al congresso del sindacato: “Il vostro programma è il mio programma” dirà il Professore. Con il governo del centrosinistra la Cgil dismette la posizione anti-governativa.
NASCE QUI lo scontro con Sergio Cofferati che dura ancora oggi. A Epifani viene rimproverata la perdita di autonomia e una eccessiva subordinazione al governo. In questo periodo rinasce il conflitto con la Fiom guidata da Gianni Rinaldini che gli contesta “di aver chiuso rapidamente la fase precedente e di essere tornato alla normale routine burocratica”. Scontro che tocca il culmine con la vicenda Marchionne. Epifani lavora nel solco dell’unità sindacale realizzando l’accordo sulle pensioni con Prodi. Ma la nuova vittoria di Berlusconi spazza via quella strategia. La Cgil, a quel punto, è stretta tra l’ostilità della sinistra interna e il gelo degli altri sindacati. Una sorta di “né-né” che porta all'impasse. Nel 2010 Epifani lascia la Cgil. L’ultimo discorso in piazza lo tiene alla manifestazione della Fiom a San Giovanni. Fischiato dai duri ma “protetto” da Landini e Cremaschi. Qualche giorno dopo saluta la Cgil e il direttivo nazionale, in cui fa eleggere la fidata Camusso, anche lei ex socialista, gli tributa un sentito omaggio. Per quasi due anni si “parcheggia” alla presidenza dell’Associazione Bruno Trentin, creata apposta per lui. Ma, come dice chi lo ha conosciuto da vicino, “il ragazzo è ambizioso”. Vorrebbe fare il ministro del Lavoro, ipotesi sfumata con la sconfitta di Bersani che ne inventa la candidatura alla segreteria del Pd. Epifani, dice in giro, si sente tagliato per quel ruolo. Ma i partiti non portano fortuna ai segretari sindacali. Chi lo ha preceduto alla guida della componente socialista in Cgil, Ottavia-no Del Turco, quando è andato a dirigere un partito, il Psi orfano di Craxi, ne ha accompagnato lo sfarinamento. Luciano Lama, nel 1984, dopo la morte di Enrico Berlinguer, fu bloccato alla segreteria Pci dai “giovani turchi” di allora, tra cui D’Alema. Sergio Cofferati, il naturale leader della sinistra dopo il Circo Massimo, incontrò anche lui l’ostilità di Massimo D'Alema. Epifani è diverso, sa farsi canna che si piega al vento. Ma oggi deve vedersela con un partito allo sbando che potrebbe preferirgli l’ipotesi di Gianni Cuperlo. Anche lui, guarda caso, dalemiano.

Corriere 6.5.13
Segreteria pd, il piano di Renzi «Meglio avere le mani libere»
Sabato al consiglio nazionale anche i militanti di Occupy
di Maria Teresa Meli


ROMA — Mentre nel Pd ormai è il tutti contro tutti, l'unico che sembra tenersi defilato è Matteo Renzi. Ma sbaglierebbe chi pensasse che il sindaco non continua a tenere un occhio puntato sulla politica nazionale.
Il primo cittadino del capoluogo toscano sta dando gli ultimi ritocchi al suo libro Oltre la rottamazione. Il tema a cui è dedicato, come ha spiegato lui stesso a chi glielo ha chiesto, «è il futuro del centrosinistra, ma, soprattutto il futuro del Paese e dei giovani». E infatti l'ultimo capitolo è scritto sotto forma di una lettera che il sindaco invia a un bambino che nasce nel 2013.
La presentazione del libro darà modo a Renzi di riprendere i suoi giri in tutta Italia e le sue apparizioni in televisione. Insomma, sarà uno strumento per riprendere a fare politica, senza però immischiarsi nelle beghe interne. Secondo il sindaco rottamatore il Pd ha assolutamente bisogno «di fare una riflessione seria e approfondita su se stesso». Non è tanto un braccio di ferro sul nome del segretario che conta, quanto la linea e l'identità che vorrà darsi il partito. C'è chi vede Bersani dietro la candidatura di Epifani e D'Alema dietro quella di Cuperlo. Ma non è dallo scontro tra i due che, secondo i renziani, potrà venire qualcosa di buono.
Comunque il sindaco, che non punta ad avere un segretario suo, preferirebbe invece poter mettere bocca sul responsabile organizzativo del partito. È il posto finora occupato da Nico Stumpo, l'ideatore delle primarie blindate, che interessa i renziani. Per il resto, il primo cittadino di Firenze ritiene che sia «meglio avere le mani libere» e per questo sta meditando di non candidarsi nemmeno alla presidenza dell'Anci. Renzi pensa invece di impegnarsi a fondo sul tema del lavoro, tant'è vero che qualcuno ha parlato di una sua svolta neo-laburista: la sua prossima battaglia sarà incentrata sulla riforma della legge Fornero.
E il primo cittadino di Firenze non diserterà l'appuntamento di sabato prossimo a Roma e interverrà all'assemblea nazionale del Pd.
Mentre il sindaco prepara le sue mosse future, nel Partito democratico continuano lo scambio di accuse e le polemiche, che, inevitabilmente, si ripercuotono sul governo. Ieri il sindaco di Bari Michele Emiliano ha attaccato direttamente Letta: «Era vicesegretario, ha le stesse responsabilità politiche di Bersani, perciò era l'ultima persona che poteva guidare questo governo». E ancora: «Non è un caso che Berlusconi abbia voluto Letta al posto di Renzi: Matteo è un leader naturale, con lui il governo sarebbe stato diverso».
Tenta invece di far da paciere Beppe Fioroni, il quale teme che «tra un po' non ci sarà il problema degli ex ds e degli ex ppi, ma quello degli ex pd. Il rischio infatti è che il partito si spacchi in tre tronconi: uno centrista, uno di sinistra massimalista, e un altro che tenterà di fare un nuovo Pd. Bersani, D'Alema e Veltroni riprendessero a parlarsi, mentre chi sta al governo non creda che l'esecutivo camperà più a lungo perché non c'è un segretario autorevole alla guida del partito». Evidentemente Fioroni si riferisce alle lotte intestine tra i maggiorenti ex ds e alla volontà di Letta e Franceschini di frenare sull'elezione di un segretario a tutti gli effetti già all'assemblea di sabato prossimo. Come ha detto in serata il premier a Che tempo che fa: «Un reggente o un segretario provvisorio», che porti «ad un congresso che dovrà essere fondativo». L'esatto contrario di ciò a cui punta, per esempio, il «governatore» della Toscana Enrico Rossi, che dà il suo «ok» alla candidatura a segretario operativo di Cuperlo.
È chiaro che tutti questi problemi dovranno essere risolti prima dell'assemblea nazionale di sabato a cui parteciperà anche una rappresentanza di «Occupy Pd», cioè di quei militanti (sopratutto giovani) che in questo periodo hanno occupato le sedi dei circoli del partito per protestare contro il governo con il Pdl.
Nel frattempo, Fabrizio Barca ha iniziato il suo tour per l'Italia con l'obiettivo di aprire un confronto sul documento da lui elaborato. La prima tappa dell'ex ministro del governo Monti è stata ieri Prato. Poi Barca proseguirà approdando a Firenze, dove non è escluso che si incontri con Matteo Renzi.

l’Unità 6.5.13
Enrico Rossi «Diamo segnali: un nome e la data del congresso»
«Bersani ha ragione, il Pd ha mancato la prova
Per ricostruire Cuperlo è la scelta giusta: per raffinatezza intellettuale, lealtà, spirito unitario»
di Marco Bucciantini


ROMA Enrico Rossi ha letto l’intervista di Bersani a l’Unità. Ne condivide il «giudizio sul Partito democratico: molto duro, senza sconti. Il Pd è fallito. È mancato alla prova di farsi trovare unito di fronte al Paese, in un passaggio delicato e drammatico nella vicenda politica, economica e sociale. Un fallimento manifestato nel momento in cui non è stata trovata l’unità su una proposta già formalizzata: il voto per Marini, e per Prodi, in modo ancora più clamoroso». All’elezione del presidente della Repubblica il Pd è arrivato con addosso il peccato orginale: non aver vinto le elezioni. «È mancato qualcosa nella campagna elettorale, forse anche nei contenuti della nostra proposta. Fossimo stati più coerenti con un’impostazione di ascolto e di raccolta della sofferenza e della protesta dei cittadini, il risultato sarebbe stato più forte».
Ultimo giorno di campagna elettorale: Grillo riempie piazza San Giovanni, il Pd si rifugia in un teatro romano.
«Si è avuta la sensazione che nell’ultima fase abbiano dominato le urla di Grillo, soprattutto verso i giovani».
Un fallimento ha un pregio: permette di ricominciare. Come?
«Con due segnali forti, immediati. Sabato eleggiamo un segretario, e non ho problemi a indicare la mia preferenza per Gianni Cuperlo. Contemporaneamente fissiamo la data per il congresso, magari a ottobre, dove affronteremo il tema decisivo di questi anni: come proporsi e misurarsi con la crisi di 30 anni di politiche liberiste, e dei tentativi di uscirne attraverso politiche di rigore e austerità, che poi è il solco che traccia l’Europa. Senza timidezze: dalla società viene una richiesta di farsi carico dei problemi, ma anche di farlo con una necessaria radicalità».
Nel mezzo, c’è da governare con Berlusconi. I circoli sono occupati da gente delusa... «Ci parlo, perché questo è anche il bello del Pd: la gente ha voglia di discutere di questo partito, della sua identità e del suo profilo. Mi impegno a fare assemblee e spiegare cos’è successo, e come la scelta di governo è stata doverosa per non contraddire la nostra caratura di partito di responsabilità nazionale. Verso per esempio quei cittadini che nei prossimi mesi si aspettano il finanziamento della cassa integrazione. E anche per poter trattare con l’Europa e ammorbidire quei vincoli per rilanciare l’economia. Certo, il rospo è indigesto, ma Berlusconi non ha tutte le carte in mano: la sua sconfitta sulla Convenzione per le riforme lo ha dimostrato. Dobbiamo tenere in mano noi la bandiera del cambiamento dentro questa provvisoria alleanza. E dobbiamo essere seri di fronte al Paese e al presidente della Repubblica: l’inusuale elezione di Napolitano ha decretato uno strappo che adesso c’impone quelle riforme di cui si parla da anni, senza esito. L’abolizione delle Province, il Senato delle Regioni, il doppio turno elettorale, un moderato ampliamento dei poteri del premier. Tra l’altro sono argomenti che davanti ai nostri iscritti funzionano».
Come sarà possibile per il Pd essere il motore di quest’azione con il partito in fase pre-congressuale?
«Questo è il punto. C’è un grande bisogno di ricostruzione del Pd. Credo che Cuperlo possa essere riconosciuto da un ampio schieramento. La sua raffinatezza intellettuale e la sua lealtà (e il suo mestiere) possono far dialogare le varie componenti del partito a un livello più alto, elevato della lotta spiccia per la visibilità e il potere. Rappresenta sia la novità di un’altra generazione che scende in campo, sia la conoscenza delle cose di partito. E su di lui si può convergere. La sua elezione può avvenire estirpando la logica della contrapposizione fra ex Dc ed ex Pci. Lui è in grado di amalgamare le culture fondative del Pd, trovarne una sintesi».
Ma sarà appena un reggente...
«Spero nella pienezza dei poteri, per svolgere una funzione di supporto e di condizionamento verso il governo. Il Pd deve poter dettare l’agenda politica in funzione del cambiamento. Per questo bisogna evitare la palude di una reggenza “debole”, magari in vista di un congresso veloce, estivo: sarebbe un segnale disastroso. Con un Pd “strutturato” anche il governo starebbe in sicurezza. Un messaggio forte all’interno del partito e all’esterno. Non è il caso di cominciare domani un’aspra battaglia congressuale, che logorerebbe il Pd, esaltando le varie correnti. Prima sarebbe il caso di far “lavorare” un segretario capace di trovare delle sintesi, per poter preparare un congresso dove ripensare il nostro rapporto con la società, e i mezzi per praticarlo».
Che pensa della separazione fra il ruolo di segretario e quello di premier?
«Sono d’accordo. Proprio per l’enorme lavoro che aspetta il partito: tornare a insediarsi sul territorio, nei luoghi di lavoro e di studio. Con una classe dirigente più ampia e meglio selezionata di quella attuale».
500 anni fa Machiavelli scrisse Il principe, insistendo sull’importanza della vittoria. Ha mai rimpianto di non aver avuto Renzi come candidato premier?
«Tanti dirigenti non hanno capito in tempo l’importanza di una battaglia che in modo personalistico e culturalmente non condivisibile Renzi stava combattendo: il rinnovamento del partito. Ci si è arruolati nelle fazioni, invece di spingere questa necessità come un’istanza di carattere collettivo».

l’Unità 6.5.13
Beppe Fioroni
«È giusto che la guida del partito sia di sinistra»
«Soluzione opportuna dopo il governo col Pdl
E basta avere paura dei tweet: se Bersani D’Alema e Veltroni non si incontrano, il Pd implode»
di Maria Zegarelli


ROMA «Siamo arrivati al punto che abbiamo timori a incontrarci perché altrimenti qualcuno ci critica con quattro twitter e qualche e-mail. Ma un partito, un partito vero, deve avere il coraggio delle proprie azioni e decisioni». Beppe Fioroni stavolta è arrabbiato davvero, se non come il giorno in cui i Grandi elettori del Pd hanno silurato Franco Marini, candidato al Colle, quasi. «Se Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Walter Veltroni non tornano a parlare tra di loro questo partito implode». È un fiume in piena, twitta che adesso basta, perché «nello sforzo di trovare il migliore, si bruciano i segretari possibili».
C’è chi rifiuta la logica secondo cui essendoci Letta al governo la guida del Pd debba andare ad un segretario di «sinistra». Lei che ne pensa?
«Guardi lo dico proprio io, che come è noto di sinistra non sono: dopo aver fatto un governo con Berlusconi, perché è con lui che lo abbiamo fatto, non mi sembra sconveniente che alla guida del partito ci sia un segretario, in fondo, in fondo, in fondo, lo ripeto tre volte, di sinistra». Veltroni dice che si deve uscire da questa logica ex-dc ex ds, pena l’annientamento del Pd.
«Al mio amico Walter voglio dire che il problema non è diventare ex Dc o ex Ds, il rischio è quello di frammentazioni rissose e silenziose, che sono dietro l’angolo. Il rischio è che si diventi tutti ex Pd. Invece di parlarci sui giornali cerchiamo di scoprire una grande novità nel modo di fare politica».
Quale? Il dialogo con i territori e la base che vi stanno mollando?
«Anche con loro, ma prima di tutto la vera novità sarebbe quella di ricominciare a parlare tra di noi e con la base senza subire veti incrociati».
Un bel caminetto tra i big per una nuova tregua?
«Per carità... adesso non solo non si può più parlare di caminetti ma neanche di incontri tra dirigenti. Abbiamo tutti paura delle critiche di Civati, Puppato e quant’altri. Ma ci rendiamo conto o no che è in momenti come questo che i dirigenti di un partito devono mettersi intorno ad un tavolo e assumersi la responsabilità proponendo una soluzione? Il segretario migliore che possiamo votare sabato è quello che unisce perché è autorevole e non perché è sbiadito. E di un segretario forte anche in questo passaggio di transizione ha bisogno l’attuale presidente del Consiglio. Enrico Letta sa come me che il difetto peggiore dei governi della prima Repubblica era di operare per avere partiti deboli. Oggi occorre un Pd unito e forte perché altrimenti il rischio vero è che la spina non la stacchi il Pdl ma l’evanescenza e la conflittualità del Pd».
Si fanno i nomi di Gianni Cuperlo, Guglielmo Epifani, Sergio Chiamparino, Vasco Errani...
«No, non ci sto a fare nomi perché ogni nome che facciamo si brucia, come è accaduto con la presidenza della Repubblica. Quello che dico è che a me non spaventa avere un segretario di sinistra, anzi, penso sia la soluzione migliore». Bersani parla di un deficit di autonomia del partito.
«Il Pd deve essere un soggetto politico orgoglioso dei propri valori e dei propri progetti. Un soggetto politico che sa decidere e rispettare le decisioni, che non si  piega al primo stormir di fronde e non si fa adattabile a qualunque nuovismo; un partito che accetta la sfida delle politiche per gli italiani da realizzare con gli altri partiti, perché ha una “Politica” forte ed autorevole senza la quale tutto diventa evanescente in uno spazio preda di scorribande e di altrui interessi».
E a proposito della norma dello Statuto su leadership e premiership che ne pensa? Devono coincidere oppure no? «Dobbiamo smetterla di essere una fisarmonica che decide oggi in un modo e domani in un altro. Se su proposta di Renzi abbiamo avuto la norma transitoria perché chiunque potesse candidarsi alla premiership oggi è del tutto evidente che quella norma debba diventare regola. Al contrario sarebbe la dimostrazione che è stata stata l’ennesima scelta non a favore del Pd ma contro qualcuno».
Secondo molti suoi colleghi, a partire da Veltroni, separare i ruoli potrebbe provocare una diversa linea tra partito e governo.
«Veltroni ha condiviso contrariamente da me con la maggioranza del partito che questo rischio non c’era ieri e non ci sarà domani. Le primarie saranno di coalizione e un Pd forte e serio darà la linea trainante al progetto politico di centrosinistra. Il candidato premier sarà colui che la incarna meglio, per farci vincere, e non quello che la stravolge di più».
Fioroni, il futuro candidato premier del Pd sarà Matteo Renzi. E lei sa che al sindaco di Firenze non interessa che premiership e leadership coincidano. Come non tenerne conto?
«Matteo sa bene che la sua premiership vincente è legata ad un Pd serio e con molti consensi, quindi lavorerà perché il Pd si rafforzi. Non ce lo vedo a fare il premier di una coalizione di centrosinistra in cui il Pd si trasforma in una bed company che ha bisogno di trovare i consensi in altri soggetti. E so che Matteo, come mi auguro, da futuro presidente dell’Anci, darà al governo Letta un sostegno forte perché, seppur figlio di una “scorciatoia”, a questo governo è legata la sopravvivenza dell’Italia e degli italiani».

l’Unità 6.5.13
Boldrini: lo Stato protegga le donne


Lo Stato prenda atto della realtà per quanto riguarda l'escalation della violenza sulle donne. Lo ha ribadito Laura Boldrini presidente della Camera oggi a Venezia. «Lo Stato ha scandito la Boldrini in un dibattito in Piazza San Marco deve prendere atto della realtà. Non è tutta una questione di leggi ma anche di leggi. Quando ci sono aggressioni con uno sfondo discriminatorio, questa è una aggravante e il legislatore deve poter intervenire». La Boldrini ha aggiunto: «Omofobia, sessismo, violenza sulle donne hanno la stessa matrice. C'è una questione emergenziale. Le donne vengono uccise perchè donne. Il femminicidio è una realtà basta guardare i numeri». Per la Boldrini «l'educazione al rispetto comincia dalle scuole, dall' istruzione».
Per il presidente della Camera ha fatto bene la ministra delle Pari Opportunità Josefa Idem a proporre una task force« contro il femminicidio. «Penso ha aggiunto che sia una misura che dovrebbe esse-
re messa in atto il prima possibile, perchè la situazione in Italia da questo punto di vista è grave, Troppe donne sono oggetto di violenza ad ogni livello, una violenza che si estende dalle famiglie e che arriva anche al web. È importante attenzionare questo odiosissimo fenomeno e cercare di dare risposte adeguate». «Il web ha detto Boldrini, tornando sulla questione che aveva affrontando nei giorni scorsi, suscitando consensi ma anche alcune polemiche è strumento prezioso di democrazia partecipata, ma anche nel web minacce e intimidazioni non possono essere tollerate».
L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
Un altro aspetto da approfondire a tutela delle donne è il lavoro. «Per arrivare a proteggere le donne dalla violenza va rilanciata l'occupazione femminile», ha spiegato il presidente della Camera. «In Italia solo il 47 per cento lavora ha detto ancora detto Boldrini una delle percentuali più basse d'Europa. Se una donna non lavora, in caso di violenza, non ha autonomia». Il presidente della Camera ha ricordato anche che «le case rifugio sono sempre meno».
Infine la questionedelle le unioni civili: «Ci sono soluzioni ha detto per regolamentarlei. L'Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio ma anche questo. Ce lo chiedono anche i cittadini. La politica sembra più indietro dei cittadini». «L'attuale legislatura ha aggiunto la presidente della Camera farà su questo un serio ragionamento». L'Europa ha proseguito oggi è percepita come matrigna, come austerity, ma l'Europa è molto di più. Gli Stati Uniti d'Europa riusciranno a dare competitività in più nell'arena globale. Spero che nei giovani il sogno europeo continui ad esistere».
A una domanda sul riconoscimento dei figli delle coppie di fatto e omosessuali, Boldrini ha risposto: «Questo è un tema non ancora dibattuto, le commissioni non sono ancora al lavoro. Intanto bisogna partire dalle unioni civili. «La strada è lunga, prima o poi ci si arriverà, non è una questione che sarà risolta a breve».

Repubblica 6.5.13
Un omicidio su sei preceduto da Stalking. “Pene troppo miti”
Denunce ignorate e processi lumaca ecco perché siamo diventati il Paese dove il maschio ha licenza di uccidere
di Maria Novella de Luca


REPUBBLICA.IT: Sul sito l’appello contro il femminicidio: gli aggiornamenti e le iniziative
Nella foto a destra, un corteo contro la violenza sulle donne. A sinistra, il presidente della Camera Laura Boldrini: ha chiesto più protezione per le donne è un limite all’utilizzo del corpo femminile nel reclamizzare i prodotti commerciali

ROMA — È dopo la denuncia che arriva il momento peggiore, una paura cupa che segue il coraggio. Perché l’aggressore è braccato ma la vittima è sola. E possono passare centinaia di giorni prima che la giustizia si attivi, fermando il primo, proteggendo l’altra, ed è proprio in queste settimane che spesso accade l’irreparabile. Michela Fioretti ad esempio. Da anni, invano, denunciava le violenze del suo ex marito, guardia giurata, tre settimane fa lui l’ha uccisa, con la pistola d’ordinanza, su un viadotto di Ostia, litorale di Roma. «Tutti sapevano, nessuno ha agito», hanno detto sconsolati i suoi colleghi. Perché il 15% dei “femminicidi”, (quasi un omicidio di donne ogni sei) è preceduto da denunce per stalking, un persecutore su 3 torna a colpire, ma ci vogliono almeno 6 anni di tribunale per vedere uno stupratore in carcere, e se l’aggressore è minorenne allora anche il processo si ferma, pure se si tratta di un branco, l’ha deciso la Cassazione, due anni fa, con una discutibile e discussa sentenza.
«Se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati», ha raccontato Maria, stuprata a 15 anni da otto coetanei (tutti in libertà) nella pineta di Montalto di Castro nel 2007. Tre donne su 10 per stanchezza ritirano le denunce, meno del 20% di mariti e coniugi violenti vengono allontanati dal domicilio familiare, mentre in tutta Italia esistono soltanto 127 centri antiviolenza, e di questi pochissimi (61) sono “case rifugio”, dove donne e bambini spesso in pericolo possono trovare riparo e salvezza.
C’è un triste conteggio fatto di tagli ai servizi e di giustizia che non funziona, di lentezze amministrative e di cecità burocratiche, dietro il bollettino di guerra delle aggressioni alle donne. Perché le leggi ci sono, ma poi il territorio è scoperto, la prima linea è sguarnita, come avvertono da anni le operatrici del centri antiviolenza, unici presidi sul territorio dove madri e figli costretti a nascondersi trovano pace e salvezza. Dice senza remore l’avvocato Giulia Buongiorno, ex presidente della Commissione Giustizia della Camera: «Almeno il 50% delle segnalazioni per stalking e violenza viene accolta come fosse un atto isterico da parte di una donna. Ci sono commissariati che agiscono con un’efficienza straordinaria, altri che invece sottovalutano. Un panorama a macchia di leopardo. E poi l’incertezza della pena: nella lunghezza dei processi il 40% delle donne si scoraggia o viene costretto a ritirare la propria denuncia. E spesso le condanne sono troppo miti». Impunità cioè.
Fondi, risorse, politiche concrete. C’è ben poco di tutto questo nel grande coro di
sdegno contro la violenza sulle donne. Spiega Anna Costanza Baldry, psicologa, responsabile di “Astra” sportello antistalking dell’associazione “Differenza donna”. «Denunciare vuol dire esporsi, far sapere a colui che perseguita che si è deciso di reagire, e questo scatena una rabbia ancora maggiore. In questa fase le donne sono sole: o riescono a nascondersi nei centri antiviolenza, oppure sono davvero a rischio, perché nell’attesa che la giustizia attivi la sua rete di protezione, potrebbe essere troppo tardi».
I centri appunto. Dove le donne arrivano di notte, di nascosto, con i figli al collo. E raccontano: «Sono scappata scalza, mentre lui dormiva», «quando mi ha tirato l’olio bollente mi sono buttata sulle scale e ho corso senza fermarmi più», «lui ha puntato il coltello alla gola di mio figlio, mi ha chiuso in casa, ho chiamato i pompieri e sono fuggita ». Ma i presidi antiviolenza sono allo stremo. Ce ne sono 127 in Italia, concentrati tra Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Lombardia, 500 posti letto in tutto, una goccia nel mare, visto che soltanto nell’ultimo anno più trentamila donne hanno bussato alle loro porte. Ne servirebbero 5.700, a seguire le raccomandazioni della Ue, che ne ritiene necessario uno ogni 10mila abitanti. Titti Carrano, presidente di Dire, (Donne in rete contro la violenza) che rappresenta 60 centri, lancia un vero e proprio Sos: «Noi siamo l’unica risposta alla solitudine delle donne, quando decidono di ribellarsi ai loro carnefici. Eppure gran parte delle case rischia la chiusura, abbiamo pochissimi posti letto, servono finanziamenti subito, ma finora c’è stata una totale insensibilità politica. Invece i centri sono dei laboratori sociali: qui non solo le donne e i loro figli trovano rifugio, ma ricevono assistenza legale, sanitaria, recuperano se stesse, dignità e imparano a riconoscere la violenza».
Non è poco. Lo sappiamo, l’amore malato non è sempre facile da individuare, da togliere via dal cuore. Altrimenti non si spiegherebbe come mai soltanto una donna su due riesce a lasciare il proprio aguzzino. Aggiunge Titti Carrano: «Questo governo sembra voler fare qualcosa. La prima azione potrebbe essere la ratifica della Convenzione di Istanbul. Quel trattato internazionale che finalmente definisce la violenza contro le donne una violazione dei diritti umani».

Repubblica 6.5.13
Quei bambini cittadini a pieno titolo
di Nadia Urbinati


È DIFFICILE dire se ci riuscirò; per far approvare la legge bisogna lavorare sul buon senso e sul dialogo, trovare le persone sensibili». Così ha detto la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge.

Bellissima considerazione che ha suscitato forti polemiche da parte di esponenti politici del Pdl come il senatore Renato Schifani, il quale ha rivolto un appello al premier Enrico Letta «affinché inviti i suoi ministri a una maggiore sobrietà, prudenza e cautela» perché, sottolinea il candidato Pdl alla presidenza della Repubblica, questi annunci «non rientrano nel programma» del governo. Segno evidente di una differenza non piccola, una delle tante probabilmente, tra i partner di questa complicata coalizione. L’onorevole Kyenge richiama l’attenzione su quelli che dovrebbero essere gli ingredienti del dialogo pubblico in una democrazia matura: buon senso e sensibilità. Ingredienti che hanno fatto difetto in questi ultimi anni di polemica politica la quale ha nutrito, invece che stemperare, pregiudizi antirazziali. Quello degli immigrati è uno status che va affrontato con buon senso e sensibilità. È questo che sta a cuore alla ministra e a molti italiani che si riconoscono nelle parole del presidente della Repubblica, il quale ha detto che è «una follia che i figli degli immigrati che nascono qui non siano italiani ». Una follia, l’opposto del buon senso e della sensibilità.
Perché è così difficile far sì che anche da noi come nella maggior parte delle nazioni occidentali a democrazia consolidata valga il principio dello ius soli nell’attribuire la cittadinanza?
Ius soli significa una cosa di grandissima importanza: che il centro di gravità dell’appartenenza politica è la persona, non la sua famiglia, non la nazione o l’etnia di appartenenza, non il colore della pelle. Un fatto di coerenza con i fondamenti della democrazia, la quale ai suoi cittadini chiede solo una competenza: quella di essere attori responsabili delle proprie azioni, e per questo punibili. Se siamo responsabili delle nostre azioni allora siamo competenti abbastanza per decidere. Su questo ragionamento basilare riposa l’idea dell’eguaglianza politica. Già dall’avvento della democrazia moderna questa disposizione giuridica all’inclusione apparve chiara se è vero che durante la Rivoluzione francese fu deciso che bastava un anno di residenza per avere il diritto di voto. Oggi in Italia, quanti sono coloro che, nati qui, sono costretti in un’identità che è a loro estranea, quella che corrisponde a una lingua che, in moltissimi casi, nemmeno conoscono o parlano più? Nelle scuole elementari studiano la storia del nostro paese “come se” fosse quella del loro paese: studiano di Garibaldi e Mazzini, di Cavour e della Costituzione della Repubblica italiana; eppure quando compiono la maggiore età non possono votare né hanno diritto a sedere nelle giurie popolari. Di quale paese è la storia che hanno studiato? Ecco perché la richiesta della ministra è di buon senso e sensibilità. Lo è ancora di più in un paese che ha milioni di emigrati, i quali, loro sì, sanno quanto importante sia sentirsi parte attiva a pieno titolo del paese dove, per scelta o necessità, vivono. A milioni di nostri espatriati è riconosciuta la doppia cittadinanza — proprio per dare a loro e ai loro figli la possibilità di averne un’altra di cittadinanza, quella del paese dove vivono, come è giusto che sia. Eppure chi vive in Italia, addirittura nascendo qui, è dichiarato un paria. Votano gli italiani che vivono all’estero da quattro generazioni e che non parlano neppure più l’italiano. Eppure chi nasce qui e parla perfettamente l’italiano e studia la nostra storia e la nostra letteratura, e paga le tasse qui, non ha voce. La ministra dell’integrazione ha ragione a dire che è una questione di buon senso e di sensibilità che i figli degli immigrati che nascono in Italia debbano essere cittadini a pieno titolo.

il Fatto 6.5.13
Maurizio Landini
“Il sindacato deve muoversi o rischia di scomparire”
di Salvatore Cannavò


La Fiom è l’organizzazione sindacale maggiormente presente tra gli operai. Nella sua esperienza il problema del voto “grillino” se l’è posto concretamente. Maurizio Landini, il segretario, ha avuto un incontro ufficiale con i capigruppo del Movimento 5 Stelle e una idea se l’è iniziata a formare..
Qual è, dal vostro punto di osservazione, la situazione nel mondo sindacale?
Non ci sono analisi fatte dalle Fiom. Però nel nostro mondo sono ormai molte le persone che non solo hanno votato ma che sono impegnate in quel movimento. Lo studio dell'Istituto Cattaneo (che quantifica nel 40% il voto operaio a Grillo, ndr) è significativo.
Qual è la ragione?
Io credo che si tratti di una domanda di cambiamento. Anche chi ha votato per il centrosinsitra, del resto, ha votato per un cambiamento delle politiche di questo paese. Una domanda a cui non è stata data una risposta adeguata.
C’è una ragione più di fondo, legata ai cambiamenti sociali?
Siamo di fronte a una frantumazione dei processi produttivi, a una scomposizione delle forme del lavoro. Questo voto parla anche della crisi della rappresentanza sindacale, non solo di quella politica. C’è il rischio di competizione tra lepersone che lavorano che non c’era mai stato prima. Dal punto di vista sindacale il problema è quello di unificare i diritti
La vostra proposta sul reddito di cittadinanza va in questa direzione?
Per la Fiom sì. Anche se le ipotesi in campo sono diverse. Garantire il diritto al lavoro significa mettere le persone in condizione di non essere ricattate. La proposta che avanziamo non è alternativa alla cassa integrazione e vuole essere a carico della fiscalità generale. Anche se il nostro obiettivo resta quello della piena occupazione. Al M5S abbiamo detto che non diciamo le stesse cose ma anche che è importante avviare un confronto.
Il sindacato è in grado oggi di affrontare questa situazione?
Occorre avere più coraggio nel riconoscere la crisi di rappresentanza delle organizzazioni sindacali. Il dato del calo della sindacalizzazione è evidente. La tendenza a superare una visione unitaria e generale per passare a una contrattazione di tipo aziendale rischia di cambiare la natura del sindacato. Mi permetto di dire che quanto avvenuto in questi anni, penso alla Fiat, ha aggravato la situazione. Io penso a un sindacato generale, che riunifichi i diritti e che si rilanci a partire dalla democrazia. Una legge sulla rappresentanza sindacale, oggi, è importante quanto cambiare la legge elettorale.
In questo è utile il ruolo che sta avendo Stefano Rodotà?
Una figura come la sua rappresenta la domanda di cambiamento. Il punto di fondo è questo. Come avverrà non lo sappiamo, non c’è un progetto compiuto. Il tema dei diritti, della democrazia e della difesa della Costituzione possono essere i temi di una coalizione che riparte dal sociale e non dalle alleanze politiche.
Per questo la manifestazione del 18 maggio?
La manifestazione muove dalla condizione dei metalmeccanici. Lo slogan, “Non possiamo più aspettare” esprime la necessità di un cambiamento. Ma la manifestazione è aperta, la Fiom non ha già deciso tutto. In piazza prenderanno la parola, tra gli altri, lo stesso Rodotà, Gino Strada, Sandra Bonsanti di “Libertà e Giustizia”. La domanda di cambiamento deve trovare delle fome di espressione. E la Fiom non ha mai nascosto di voler svolgere una funzione politica pur conservando la propria autonomia.

l’Unità 6.5.13
Anticostituzionale la restituzione dell’Imu
di Raniero La Valle


C’È UNA QUESTIONE DI GRANDE PORTATA NELLA DISCUSSIONE SULL’ABOLIZIONE DELL’IMU, CHE NON È STATA FINORA SOLLEVATA. SI DISCUTE INFATTI SOLO DEI COSTI DELL’OPERAZIONE: 4 miliardi per l’abolizione, 4 miliardi per la restituzione dell’Imu già pagata nel 2012. Ma mentre la sospensione o cancellazione dell’imposta sarebbe una decisione politica normale, la restituzione dell’Imu sarebbe un atto eversivo, il cui costo sarebbe devastante non per le finanze ma per l’immagine stessa dello Stato democratico. Altra cosa infatti è discutere, anche in campagna elettorale, di quali tasse si debbano mettere o togliere, altra cosa è discutere su quali tasse debbano essere restituite, sul presupposto che trattandosi di un maltolto da parte dello Stato, lo Stato debba risarcirne i cittadini derubati. Se si passa questa soglia, nel momento in cui il dibattito politico si impadronisce del tema delle imposte da restituire, viene meno ogni certezza non solo sui bilanci futuri, ma anche sui bilanci passati e sulle spese già fatte con i denari incassati, che certo non possono essere recuperate, va in crisi la figura fiscale dello Stato, e non solo va per aria l’art. 81 della Costituzione ma tutta la filosofia del patto fiscale su cui si fonda lo Stato moderno di diritto.
Si dice che la restituzione dell’Imu è stata oggetto di una promessa elettorale, e che perciò il partito che l’ha fatta, stando ora al governo, debba onorarla. Ma questa è una tragica aggravante della questione. Quella promessa non poteva essere fatta, in quanto è in contrasto con lo spirito e la logica della Costituzione, che esclude la materia fiscale da quelle suscettibili di essere sottoposte a referendum abrogativo; il che significa che, al di là del referendum, la Costituzione non prevede plebisciti e decisioni elettorali sulle tasse.
Ma al di là dell’impedimento costituzionale, l’impegno di riportare a brevissimo termine, nelle tasche degli italiani, i denari versati per l’Imu, equivale alla promessa di un’elargizione in denaro, mascherata da rimborso fiscale, da fare coi soldi dell’erario, in cambio del voto per il partito che la promette. Gli elettori hanno ricevuto addirittura un modulo con l’indicazione degli sportelli dove ritirare il denaro, non appena insediato Berlusconi al governo.
Questa, in un senso pieno, è corruzione elettorale. Soldi in cambio del voto. Se ora questi soldi venissero effettivamente dati, il reato si perfezionerebbe accomunando corrotti, corruttori e complici, e d’ora in poi chiunque si sentirebbe legittimato, nelle future elezioni, a promettere soldi dell’erario in cambio di voti. In ogni caso questo reato ha già provocato un danno gravissimo nell’ordinamento e nel sistema politico italiano, perché avendo motivato centinaia di migliaia di cittadini a un voto che altrimenti non avrebbero dato, ha alterato gravemente il risultato elettorale, ha mandato in scena la cosiddetta «vittoria» di Berlusconi e ha gettato il Paese nell’ingovernabilità, salvo inciucio.
Data questa esperienza, sarebbe necessario includere nella prossima legge elettorale, oltre alle sanzioni già previste, la pena della cancellazione dalle liste dei candidati e dell’interdizione, per una legislatura, dai pubblici uffici, di chi prometta dazioni in denaro sotto qualsiasi forma in cambio del voto.

Repubblica 6.5.13
Dopo l’incontro del neoministro Bray con gli storici dell’arte italiani
Usciamo dalla notte dei beni culturali
di Salvatore Settis


PER reagire alla crisi economica, oggi è il momento giusto per investire in cultura molto più di quanto non si sia mai fatto» (Obama). Non così in Italia. Il ministero dei Beni culturali, che potrebbe essere tra i principali del nostro Paese, è devastato da tagli violentissimi (quasi un miliardo e mezzo nel 2008), dal blocco delle assunzioni, dall’età media degli addetti (oggi vicina ai sessant’anni), dalla scelta di ministri mediocri.

Mediocri e incompetenti, come la micidiale sequenza Bondi-Galan-Ornaghi: un terzetto che, fosse capitato a Firenze nel Quattrocento, avrebbe impedito il Rinascimento. Al capezzale del Ministero morente si moltiplicano medici e curiosi di passaggio. C’è chi vuole inglobarlo sotto più redditizie etichette (Turismo o Sviluppo), c’è chi vuol trasformarlo in una cabina di smistamento per svendite o prestiti ai privati; c’è chi ne profetizza la redenzione ribattezzandolo Ministero della Cultura (il Corriere del 25 gennaio). Esso dovrebbe «aprire una fase interamente nuova nella vita del Paese uscendo dalla paralisi odierna», rilanciare la creatività, «la dialettica tra identità e differenza, proprio ed estraneo, territorio e sconfinamento». Vantaggi di questo progetto vaghissimo: non richiede nessuna professionalità, nessun investimento, nessun organico, nessun bilancio. Svantaggi: non farà nulla di nulla. Perché se bastasse cambiare etichetta per mettere a posto le cose, allora oggi a Enrico Letta servirebbe solo un dizionario: basta ri-etichettare l’Economia come Ministero della Prosperità, e la crisi finisce. Ma «l’italiano è la lingua della dilazione e dell’accomodamento con l’insostenibile, buona per divagare e confondere un po’ il destino a furia di chiacchiere» (Claudio Magris).
In questa lunga notte del Ministero, brindano i partigiani del privato: mentre il Giornale dell’arte di marzo avanza la proposta-choc di abolire il Ministero e favoleggia di un’authority insediata al Quirinale per tutelare il patrimonio, sussurri e grida da salotto preparano i destini del caro estinto. Nel migliore dei casi, «la tutela al pubblico, la gestione al privato». Secondo il Giornale, anzi, è arrivato il momento di abolire le Soprintendenze, l’Istituto Centrale del Restauro e quant’altro, «a favore di professionisti privati della tutela» che facciano riferimento al ministero dell’Economia. Svetta per eleganza Matteo Renzi, nel suo libro Stil novo: «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che? ».
Si accredita l’idea che il coma era fatale, dimenticando le cause che lo hanno provocato pur di non pensare ai rimedi. Si ipotizza che si annidino nel Paese legioni di privati pronti a svenarsi pur di salvaguardare patrimonio e paesaggi, ma paralizzati dai soprintendenti arroccati nei loro uffici. La Bocconi ha pubblicato qualche anno fa (con prefazione di Mario Monti) un libro di Peter Barnes, Capitalismo 3.0. Il pianeta patrimonio di tutti, in cui si propone la terza strada: un modello di gestione dei beni comuni (commons), in cui lo Stato mantenga un ruolo di controllo, riconoscendo che «né lo Stato né le imprese private sono adatti a gestire il patrimonio», e dunque «è ora di delegare ai trust». Sarà un’ottima idea nel sistema americano, ma nell’ordinamento italiano può essere solo sussidiaria rispetto alle istituzioni pubbliche, che sono trustees di default, se dobbiamo dirlo in inglese, del nostro patrimonio e del nostro paesaggio. E non in proprio, ma per conto dei cittadini.
Che fanno, intanto, i privati? Vengono forse in aiuto alle Soprintendenze boccheggianti? Succede a Ercolano, dove l’americano David Packard ha versato dodici milioni di euro, a condizione che a gestire tutto sia la Soprintendenza e senza chiedere niente in cambio (diverso è il caso del Colosseo, dove Della Valle ha preteso cospicue contropartite). A Genova, l’Accademia Ligustica di Belle Arti ha chiesto aiuto alla Fondazione CaRiGe per risolvere gravi problemi di bilancio, e l’aiuto è arrivato: la Fondazione ha comprato per 2 milioni di euro 28 dipinti della collezione storica, fino a ieri inalienabili. A Modena, il nuovo polo culturale della locale fondazione bancaria sta per inglobare due importanti biblioteche pubbliche, la Biblioteca Estense (statale) e la Biblioteca Poletti (comunale), costringendole al trasloco nell’ex Ospedale di Sant’Agostino: in una sorprendente intesa con la Fondazione, Ornaghi ha autorizzato a ristrutturare il settecentesco edificio in deroga a tutte le norme, aggiungendovi due torri librarie che ne sfigurano la natura. La privatizzazione è cominciata, e la linea Ornaghi è un rassegnato calabraghismo.
Se il National Trust (privato) è tanto importante in Gran Bretagna, è per rimediare all’assenza di una normativa pubblica di tutela. È quello l’esempio da imitare in Italia? Abbiamo dimenticato di avere la normativa di tutela più antica del mondo (ben anteriore all’unità nazionale), che è anzi stata di modello a tutto il mondo? Di avere, per primi, posto la tutela del paesaggio e del patrimonio fra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9)? La Costituzione non è una litania di principii staccati, ma una sapiente architettura, dove il diritto alla cultura e alla tutela è parte organica dei diritti della persona, strumento di costruzione dell’eguaglianza, ingrediente della pari dignità sociale dei cittadini, e dunque leva della democrazia. In una visione originalissima, paesaggio e patrimonio sono intesi come il cuore identitario dello Stato-comunità che si manifesta nella dialettica fra sovranità popolare e orizzonte dei diritti. Perciò è da respingere la strisciante privatizzazione della tutela, come del resto va condannato il cinico uso del patrimonio culturale in favore di sindaci e assessori (un bel libro recente di Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, ne analizza esempi terrificanti). Servono con urgenza nuovi investimenti, nuova immaginazione, nuova competenza: ma non solo per le ricadute immediate degli investimenti in cultura (La cultura si mangia! è il titolo di un libro di Bruno Arpaia e Pietro Greco, Guanda). Perché la cultura della tutela, dato il suo altissimo status costituzionale, può essere (con la scuola, la ricerca, l’università) fattore essenziale di aggregazione civile, di una consapevolezza del passato che è il rovescio e l’identico di ogni progetto per il futuro. Il nuovo ministro Massimo Bray saprà capovolgere la tendenza degli ultimi anni, ridando respiro alla tutela? La sua presenza ieri all’Aquila alla grande manifestazione nazionale degli storici dell’arte lo lascia sperare. O dovremo immolare ogni speranza sul traballante altare delle “grandi intese”?

Repubblica 6.5.13
Il governo ideale per gli italiani
di Ilvo Diamanti


È SIGNIFICATIVA la rabbia degli italiani contro la “politica”. In particolare, contro il governo che ci governa. Contro la maggioranza che lo sostiene. Contro il Parlamento.

È significativo il ri-sentimento degli italiani contro i “rappresentanti” e contro le istituzioni che li “rappresentano”. Perché, in fondo, è come se gli elettori si ponessero davanti allo specchio. Visto che raramente, come in questa occasione, il Parlamento ne offre una “rappresentazione” fedele. Certo: questa legge elettorale “orrenda” impedisce ai cittadini di scegliere i propri “rappresentanti”. Di esprimere un giudizio e un controllo sui singoli parlamentari. Combinato con il bicameralismo perfetto, ostacola ogni maggioranza stabile e autosufficiente. Ma, nell’insieme, la composizione del Parlamento ricalca fin troppo fedelmente gli orientamenti politici degli italiani. I quali si dividono in tre grandi minoranze, non troppo diverse, per misura. Una di Centrodestra, l’altra di Centrosinistra, la terza “al di fuori”. Esterna ed estranea. Dove si rifugiano “quelli che non ci stanno”. Senza contare un piccolo polo di Centro. Che, in effetti, non conta molto. Perché è stato spinto a Margine, dagli elettori.
In altri termini, se questo Parlamento non favorisce la formazione di una maggioranza politica, non è per colpa di una legge che distorce e deforma le scelte degli elettori. Semmai, al contrario, è perché le riproduce in modo fin troppo fedele. Accentuandone le distanze, più delle affinità.
Così oggi il governo è sostenuto da una coalizione precaria. Perché i partiti e i parlamentari che vi partecipano fanno a gara nel marcare il proprio distacco. Reciproco. Le proprie differenze. Berlusconi e il Pdl: impegnati a promuovere i “propri” prodotti di bandiera. L’Imu sopra tutti. Ma anche a “difendere” i territori critici, per il Leader Imprenditore: la giustizia e le telecomunicazioni. Il Pd: impegnato a dimostrare il proprio impegno, ma senza troppo impegno. Per rispetto verso la responsabilità che spetta ai vincitori – che in effetti non hanno vinto – le elezioni. E per evitare un nuovo voto ravvicinato, a cui oggi non sarebbe pronto. Infine: il M5S, impegnato a esibire il proprio dis-impegno. Ma con impegno. Come se fossero gli altri a non volerne
sapere di lui. E non lui a non volersi confondere e contaminare, con gli altri.
Fuori dal Palazzo, intanto, la piazza rumoreggia. E i cittadini esprimono, in ogni modo, la loro insoddisfazione. La loro rabbia. Ogni gesto di disperazione. Ogni atto di follia individuale. Ogni esplosione soggettiva estrema. Tutto diventa – tutto viene interpretato come – un segno di ribellione contro la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento. Lo Stato. E la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento, lo Stato: diventano – a loro volta – i mandanti, anzi, i veri responsabili. Di ogni suicidio e omicidio, di ogni aggressione. Di ogni atto disperato commesso da disperati. Per disperazione. Come se noi non c’entrassimo. Come se la colpa fosse solo “loro”. Dei Politici, dei Partiti, del Parlamento. Come se questo governo – e questa maggioranza che non piace quasi a nessuno (a me di certo no) – uscissero dal nulla. Come se questo Parlamento fosse stato eletto “a nostra insaputa”.
Non è così. Purtroppo. Il problema, semmai, è che questa legge elettorale orrenda ha prodotto un Parlamento che rispecchia in modo fedele gli orientamenti e le differenze dell’elettorato.
Dove coabitano tre Grandi Minoranze che non si sopportano. Due Soggetti Politici e uno Antipolitico. O meglio: premiato dal voto di molti elettori (due terzi, almeno) per risentimento contro “i partiti”. Contro la Casta.
Così oggi si ripropone una scena nota, in Italia. Il “governo nonostante”. Subìto perfino dal premier, Enrico Letta. Il quale, ospite di “Che tempo che fa”, ieri sera, ha ammesso che «questo non è certo il governo ideale per gli italiani». A torto, perché riflette gli umori degli “italiani nonostante”. Ai quali non piace perdere. Ma nemmeno vincere. Perché non amano la concorrenza, né la competizione. Come in economia e negli affari. Tutti liberisti, tutti contro le corporazioni e contro i privilegi di gruppo e di categoria. Tutti contro il familismo. Tutti per il merito. Eppure quasi tutti coinvolti in – e tutelati da – corporazioni e gruppi. A nessuno verrebbe in mente di escludere figli e parenti dalla successione — nell’azienda e nel mercato del lavoro. In nome del merito. Della società aperta.
Così oggi siamo guidati da un “governo di necessità” perché viviamo in uno “Stato di necessità”. Sostenuto da una “maggioranza di necessità”. Composto da partiti e politici che non si sopportano. Con un’opposizione “estranea”. D’altronde, è dal novembre 2011 che il Paese è governato da un Governo del Presidente. Voluto e garantito da Napolitano. Anche oggi, l’unico presidente possibile.
Per l’incapacità del Parlamento di trovare l’accordo su un altro. Da quasi due anni il Paese è guidato dal Governo del Presidente. Per Stato di Necessità. Anche oggi. Perché il primo garante di Enrico Letta è Napolitano.
D’altronde, per quasi cinquant’anni, dal 1948 ad oggi, gli italiani hanno votato liberamente per eleggere le stesse forze politiche. Al governo e all’opposizione. Visto che la Dc ha sempre governato. Con il Pci sempre all’opposizione. Anche se tutte le leggi e le riforme che contano sono state votate all’unanimità. Secondo il modello consociativo. Dove maggioranza e opposizione coesistono e collaborano. Anzi, di più: co-governano. Come nella società, fra i cittadini. Dove tutti sono divisi. Ma anche uniti. Quando serve. Nelle emergenze. Cioè: sempre, visto che in Italia l’emergenza è perenne. Permanente.
Questo governo e questa maggioranza, dunque, sono “rappresentativi”. Perché “rappresentano” fedelmente gli italiani. Ai quali piace stare “dentro” e “fuori”, al tempo stesso. Al governo, ma senza impegno. D’accordo con Monti, ieri, e con Letta, oggi (secondo i sondaggi, il politico più popolare in assoluto). Perché ci impongono sacrifici che nessun governo “di parte” potrebbe imporre. Ma pronti a prenderne le distanze, appena risulti utile e opportuno. Come ha fatto Berlusconi. Che ha scaricato Monti, quando gli è parso vantaggioso. Gli italiani: un po’ Berlusconi e un po’ grilli. Di governo e di opposizione – secondo il momento. E, talora, un po’ di sinistra. Perché “bisogna saper perdere”.
Ma il problema non è che “la Politica è lontana da noi”. Al contrario: è fin troppo vicina. Troppo simile a noi. Questo è il problema. Più facile cambiare la Politica che gli italiani.

Repubblica 6.5.13
I pericoli nascosti nella Convenzione
di Alessandro Pace


Chi abbia ben chiara la specificità storica e giuridica di quegli atti normativi che sono le costituzioni e, nel contempo, si riconosca nei valori della nostra Carta fondamentale non può non essere preoccupato per l’intenzione – esplicitata dal presidente Letta nel suo discorso programmatico – di promuovere l’istituzione di una Convenzione «aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari» per la redazione di un testo di riforma di svariate norme costituzionali da presentare successivamente al Parlamento, il quale – come auspicato da tre dei quattro Saggi nominati dal presidente Napolitano – dovrebbe limitarsi ad approvarlo o respingerlo. Senza quindi la possibilità di apportarvi emendamenti.
Le preoccupazioni sono di ordine sia giuridico che politico. Le prime derivano dalla protervia con la quale le forze politiche insistono, quando si tratti di leggi di revisione costituzionale, nel metodo, contrario agli articoli 72 e 138 della Costituzione, di demandarne la redazione a Commissioni ad hoc.
La nostra Costituzione, nel caso delle revisioni costituzionali, prevede invece il normale procedimento legislativo nel quale le stesse Commissioni parlamentari hanno soltanto la funzione referente (non redigente o deliberante).
Come autorevolmente sottolineato da Valerio Onida - il più titolato dei quattro Saggi, non a caso contrario all’attribuzione alla Convenzione di poteri redigenti su così tante norme - l’istituzione di un tale organismo rischia infatti «di innescare un processo “costituente” suscettibile di travolgere l’insieme della Costituzione, che è bensì opportuno modificare in punti specifici, attraverso il procedimento di cui all’articolo 138, ma mantenendo fermi i suoi principi, la sua stabilità e il suo impianto complessivo; e si rischierebbe di favorire progetti di revisione “totale” da votare “in blocco”».
Un rischio che consegue, per l’appunto, da ciò, che la riforma modificherebbe, con una sola legge costituzionale, una pluralità di disposizioni ancorché diversissime tra loro. Per contro, come risulta ormai condiviso dai più autorevoli studiosi, l’articolo 138 della Costituzione, sistematicamente interpretato, prescrive che le leggi di revisione costituzionale debbono avere contenuto “omogeneo”. Se infatti è vero che, in materia di referendum abrogativo di leggi ordinarie, la Corte costituzionale nega che la libertà di scelta dell’elettore possa essere limitata da un quesito referendario che pretenda di abrogare una pluralità di disposizioni eterogenee, a fortiori la libertà di scelta dell’elettore non può essere limitata quando gli si chiede di approvare, con un referendum confermativo, una legge di revisione costituzionale che modifichi materie disparate. Con la conseguenza che i cittadini sarebbero costretti a votare sì o no all’intero testo ancorché siano ad esso favorevoli o contrari solo in parte.
La soluzione corretta è invece data dalla predisposizione di tanti progetti di legge costituzionale quante sono le materie incise dalla riforma, quand’anche il Parlamento ritenesse di affidare i poteri redigenti ad una Convenzione. Né si dica, in critica alla tesi qui sostenuta, che la deroga al procedimento previsto dall’art. 138 sarebbe prevista da una legge costituzionale ad hoc.
Le deroghe contenute in leggi costituzionali sono infatti ammissibili sempre che i loro effetti siano limitati nel tempo, e non proiettati nel futuro come appunto una riforma della Costituzione.
Passo adesso alle preoccupazioni d’ordine politico. Queste provengono, ancora una volta, dalla varietà delle disposizioni costituzionali che, secondo la Relazione dei quattro Saggi, potrebbero essere oggetto di modifica da parte della Convenzione: vi si accenna alle disposizioni in tema di forma di governo e di rapporti Parlamento-governo, al bicameralismo paritario, al numero dei parlamentari, al funzionamento delle Camere, ai poteri e alle funzioni delle Regioni, al federalismo fiscale, all’amministrazione della giustizia civile e penale, all’ordinamento delle magistrature e così via.
Ebbene, se la Convenzione mettesse davvero mano a tutti questi temi, e se lo spirito ispiratore delle modifiche fosse antitetico a quello che attualmente pervade la nostra Costituzione, ne scaturirebbe una palingenesi del nostro ordinamento costituzionale. Saremmo in presenza di un vero e proprio «processo costituente » (come improvvidamente qualificato dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche), che coinvolgerebbe indirettamente anche la Parte prima della Costituzione, data l’interrelazione tra le due parti (i “Diritti e i doveri dei cittadini” sono infatti condizionati dall”Ordinamento della Repubblica”).
Non a caso, proprio per questa evenienza eversiva, l’onorevole Berlusconi ha manifestato il suo immediato interesse per la presidenza della Convenzione. Il fatto che l’ex premier abbia però più volte etichettato come “bolscevica” la Costituzione che ora pretenderebbe di modificare, nega però ogni legittimità a tale pretesa. La revisione costituzionale è infatti prevista, nel titolo VI della Costituzione, tra le “Garanzie costituzionali” della Costituzione insieme con la Corte costituzionale. In altre parole, il procedimento di revisione previsto dall’articolo 138 ha lo scopo di adeguare la Costituzione ai mutati tempi, non già di sovvertire i valori su cui essa si basa.
Ciò che invece avverrebbe se ci si trovasse di fronte alla manifestazione di un potere costituente.
L’autore è presidente dell’Associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla”

il Fatto 6.5.13
L’architetto Vezio De Lucia
Roma deserta: persi due abitanti su tre
di Ferruccio Sansa


Il centro storico di Roma in pochi decenni ha perso i due terzi dei suoi abitanti: siamo passati da trecento ad appena centomila. Ormai i centri storici rappresentano meno del 10 per cento delle nostre città”. L’architetto Vezio De Lucia è senza dubbio uno dei massimi esperti italiani - e non solo - di centri storici.
Architetto, ecco, partiamo proprio da Roma. Quali sono le emergenze più urgenti nella Capitale?
“Non vorrei nemmeno fare un elenco, sono decine. Basta sfogliare le cronache che parlano di crolli nella Domus di Nerone, lungo le Mura Aureliane... il punto è un altro: si è abbandonata ogni politica per salvare il centro storico. Una volta, giustamente, si riteneva che i centri storici dovessero essere fatti di pietra, ma anche di abitanti. Che dovessero essere salvaguardati i monumenti, ma anche la vita”.
In concreto cosa si proponeva di fare?
“I nostri centri, e Roma in particolare, hanno perso ogni senso sociale. Non sono più abitati da tutti gli strati della popolazione. Abbiamo scacciato chi ha meno soldi, gli artigiani. Oggi le città storiche sono un concentrato di turismo, ricchi e attività opulente”.
Che cosa si può fare per mantenere davvero vivi i centri?
“In Italia negli anni Settanta ci fu chi ebbe il coraggio di riportare le abitazioni popolari nei centri storici. Il primo fu Pierluigi Cervellati a Bologna. Poi toccò al grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Un’idea straordinaria. Non l’unica: Petroselli lanciò il progetto dei Fori che fece parlare tutto il mondo. Si volevano recuperare i fori di Nerva, Cesare, Augusto, Traiano che sono nella zona di via dei Fori. Così l’archeologia sarebbe tornata al centro della città. Non chiusa in un recinto, ma come parte della vita attuale”.
Sono passati trent’anni e non se n’è fatto niente...
“Nulla. Peccato, la nostra sinistra aveva avuto intuizioni importanti, ma oggi sembra quasi vergognarsene. Adesso, e non voglio fare campagna elettorale, però vedo che un candidato, Ignazio Marino, sta riproponendo quel progetto”.
Qualcuno teme di trasformare la città in un museo...
“Macché, sarebbe il contrario. Così il nostro patrimonio tornerebbe a far parte della vita contemporanea. Ricordatevi cosa dicevano i “ragazzi di vita” di Pasolini che abitavano le borgate: “Andiamo a Roma”. Ma sono la stessa città”.
E l’architettura moderna?
Noi non siamo contrari, anzi, ma soprattutto in città come Roma i nuovi interventi, di qualità, dovrebbero trovare spazio nelle periferie che sono tanto degradate”.
Centri storici trasformati in vetrine, deserti, senza abitanti, ma anche cadenti...
“Certo, le risorse sono poche. Ma è una questione culturale, prima ancora che politica. E pensare che restaurare le nostre città porterebbe lavoro”.
Senza contare il turismo, la nostra principale industria...
“Appunto, sarebbe anche un investimento redditizio. Ma abbiamo perso la cultura dei centri storici. Pensiamo ai singoli monumenti, mentre le nostre città sono un monumento nel loro insieme. I palazzi e le persone. E poi... ”.
E poi?
“Ci siamo dimenticati che la nostra storia è fatta di città. Ognuna diversa dalle altre, ognuna con una lingua propria. Ecco, le città ci ricordano chi siamo stati e chi possiamo essere. Ho sentito in questi anni parlare tanto di identità. Più di qualsiasi discorso sono le città la nostra identità”.

il Fatto 6.5.13
L’Unesco ci premia, i turisti no


TERRITORIO E CULTURA Il 2,6% della ricchezza nazionale è pro-dotta dal settore culturale, con un valore pari a circa 40 miliardi di euro. Il fatturato generato dal settore è di 103 miliardi di euro e sono 550 mila gli occupati del comparto culturale. Sono dati resi noti dal Fondo Ambiente Italiano che lamenta la riduzione costante del finanziamento pubblico alla cultura: “Nel Rapporto Federculture leggiamo che nel 2011 lo Stato ha investito in cultura 1.425 milioni di euro contro i 2.120 del 2001”.
Eppure l’Italia ha il patrimonio culturale più ricco del mondo. Il maggior numero di siti dichiarati "Patrimonio dell'Umanità" dall'Unesco (il 5 per cento del totale). Nonostante questa ricchezza, il nostro paese è al 28° posto per competitività nel turismo. Il Colosseo incassa solo un settimo del Metropolitan Museum di New York. Il paradosso è che, sempre secondo Federculture, nel 2011 le famiglie hanno speso in questo settore il 2,6% in più rispetto all'anno precedente. Secondo il rapporto, la spesa in attività dedicate al tempo libero e alla cultura ha registrato un incremento del 26% negli ultimi 10 anni. Nel 2011 i visitatori di musei e siti archeologici sono stati oltre 40 milioni (+7,5%), per 110,4 milioni di euro di introiti lordi (+5,7%). Questo è un trend di crescita costante, che ha visto gli ingressi a musei e aree archeologiche passare dai 25 milioni del 1996 ai 40 milioni di oggi (+60,2%).
47 SITI L’Italia ha il patrimonio culturale più ricco del mondo. Appartengono al nostro paese, infatti, il maggior numero di siti 847) dichiarati "Patrimonio dell'Umanità" dall'Unesco che rappresentano il 5% del totale. PARADOSSI Nonostante questa ricchezza, il nostro paese è al 28° posto per competitività nel turismo. Il Colosseo incassa solo un settimo del Metropolitan Museum di New York.

l’Unità 6.5.13
Le nozze di Valeria Marini e quel dubbio su Bertinotti
di Roberto Rossi


VALERIA MARINI SI È SPOSATA IERI. La soubrette, attrice, è convolata a nozze con Giovanni Cottone. I due hanno detto «sì» nella basilica romana dell’Ara Coeli. L’attrice, raccontano le cronache, è scesa dall’auto ed è stata subito protetta dai flash dei fotografi con grandi ombrelli bianchi fino all’ingresso della chiesa. L’abito della sposa era in pizzo e velo bianco. Tra i volti noti invitati alla cerimonia Maria Grazia Cucinotta, Anna Tatangelo, Alfonso Signorini, Gigi D’Alessio e Fausto Bertinotti.
Auguri, naturalmente. Restano però due interrogativi che segnaliamo. Il primo riguarda la diretta che la Rai ha dedicato all’avvenimento, inserito nello spazio pomeridiano di «Domenica in-Così è la vita» condotto da Lorella Cuccarini, come fosse un matrimonio di Stato. La Marini ci sta simpatica, la ricordiamo con piacere nel capolavoro di Bigas Luna «Bambola», ma nella scala di popolarità in Italia viene subito dopo Topo Gigio. Inoltre le telecamere non hanno potuto mai inquadrarla durante le cerimonia perché aveva venduto l’esclusiva a una rivista di gossip (si deve pur campare). Non si è visto nulla ma si è potuta sentire una sonora bestemmia lanciata da una delle bodyguard al seguito, troppo presa dall’evento evidentemente.
Il secondo interrogativo ci inquieta un po’ di più. Che ci faceva Bertinotti lì in mezzo? Immerso tra le mille griffe che hanno caratterizzato l’evento l’abito della sposa è stato realizzato da Ermanno Scervino, arricchito da gioielli Damiani (compreso un prezioso diadema), i vestiti realizzati da Carlo Pignatelli per lo sposo, i testimoni e 16 paggetti, figli degli invitati, mentre l’organizzazione dell’evento è stata affidata al noto «wedding planner» Enzo Miccio l’ex leader di Rifondazione comunista era uno dei testimoni dello sposo. Già, lo sposo. Chi è Giovanni Cottone? È un noto industriale italiano che nel nostro Paese opera attraverso una società che si chiama Motom Italia, uno che ha tentato di riportare in patria il marchio Lambretta (solo il marchio perché la produzione era nel lontano oriente) e che si è arricchito soprattutto con la diffusione dei decoder tv. Cottone è stato infatti socio al 49% nella società Solari.com che faceva capo al Paolo Berlusconi. Tra le attività di Solari.com c’era, appunto, quella di distribuire i decoder Amstrad e di rilanciare il marchio motociclistico Garelli. L’accoppiata non fu felice visto che la Solari.com chiuse il 2006 con un buco di circa 60 milioni di euro e la Garelli, e i suoi operai, liquidati. Di qui la domanda: come fa l’uomo che affossò Prodi in nome della difesa dei lavoratori essere testimone di un uomo come questo e in un matrimonio così sfarzoso? Non lo sappiamo. Un dubbio che neanche la diretta tv Rai ha dissipato.

l’Unità 6.5.13
Israele alza il tiro, raid su Damasco
Il governo di Assad: «È una dichiarazione di guerra»
La Lega araba fa appello all’Onu
Timori di una rappresaglia sul territorio israeliano
di Umberto De Giovannangeli


Guerra dal cielo. Guerra nei proclami e nelle minacce. Guerra per interposte potenze. Guerra in Medio Oriente. Israele torna a colpire in Siria: dopo l’attacco portato tra giovedì e venerdì contro un carico d'armi come riferito dalla stampa Usa un nuovo blitz è avvenuto l’altra notte. Obiettivo un centro di ricerche militari a nord di Damasco che era già stato attaccato in gennaio. La notizia viene diffusa dalla tv di Stato siriana e confermata anche dall’agenzia di stampa, Sana. Il raid è iniziato con una serie di esplosioni sull’altura seguite da un vasto incendio. Alcune delle deflagrazioni hanno illuminato a giorno il Qasioun mentre l’antiaerea apriva il fuoco in diversi punti della capitale. Dopo una mezz’ora di confusione, con le ipotesi che s’incrociavano, è stata la stessa tv nazionale siriana a confermare l’attacco e ad accusare Israele. Quindi è arrivata una conferma, in modo anonimo, da fonti americane. L’attacco israeliano alla base militare a Damasco è «una dichiarazione di guerra» da parte di Israele, afferma in un’intervista alla Cnn il vice ministro degli Esteri siriano, Faisal al Mekdad, annunciando che la Siria potrebbe esercitare ritorsioni con i suoi modi e con i suoi tempi. Un alto responsabile israeliano ha confermato che Gerusalemme ha condotto il raid. «Il blitz vicino all'aeroporto di Damasco aveva come obiettivo missili iraniani per gli Hezbollah», sostiene la fonte anonima. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, in dichiarazioni sintetizzate dall'agenzia iraniana Fars ha «condannato l'attacco del regime sionista alla Siria e ha consigliato ai Paesi della regione di levarsi con giudizio contro tale aggressione». Il portavoce ha condannato l’insistenza con cui Israele, secondo Teheran, crea instabilità e insicurezza in Medio Oriente fomentando anche «disaccordo etnico e religioso» fra i Paesi islamici.
L'area investita dalle esplosioni di ieri, , quella del centro di ricerca militare di Jamraya, si trova a nordovest di Damasco e a 15 chilometri di distanza dal confine con il Libano. Un video amatoriale girato ieri nell'area di Damasco mostra una gigantesca palla di fuoco che illumina il cielo di notte. Il primo attacco sarebbe avvenuto invece, secondo quanto riportato dalla Cnn, tra giovedì e venerdì scorsi e avrebbe avuto come obiettivo un altro carico d’armi destinato probabilmente agli Hezbollah libanesi. Non ci sono conferme ma lo stesso Libano parla di oltre una quindicina di sorvoli di aerei israeliani nei due giorni del primo attacco. Nessun commento è comunque stato fornito dal portavoce del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Mark Regev. E neanche l’esercito israeliano ha voluto commentare, ma un funzionario del ministero della Difesa ha detto che «Israele sta seguendo la situazione in Siria e Libano, in particolare il trasferimento di armi chimiche e armi speciali'».
Il governo siriano ha dichiarato che proteggerà il suo popolo con tutti i mezzi. Lo riferisce in serata la tv Al Arabiya. Anche la Coalizione nazionale siriana, la principale sigla che riunisce l’opposizione anti-Assad, ha «condannato» l’ennesimo «raid israeliano», affermando che lo Stato ebraico sta cercando di «trarre vantaggio», del conflitto in corso. La Cns ritiene anche che la tempistica degli attacchi sia «sospetta» perché allontana l’attenzione della comunità internazionale dall'uso di armi chimiche da parte del regime: «Non è improbabile che come risultato di questi attacchi che distrarranno il mondo, altri crimini (come l’uso dei gas da parte del regime) saranno commessi».
IL MONDO ARABO
La presidenza egiziana ha condannato, in un comunicato, «l’aggressione israeliana» contro la Siria. In una conferenza stampa il ministro degli Esteri egiziano Kamel Amr ha condannato «qualsiasi attacco» contro i territori di uno Stato arabo, sottolineando la necessità di rispettare la sovranità siriana. Per il regime di Assad è stato senza dubbio un colpo micidiale. Anche perché gli israeliani erano già entrati in azione venerdì, operazione commentata in modo indiretto dal presidente americano Obama che, dal Costa Rica dove era in visita ufficiale, ha sostenuto che Gerusalemme ha diritto a bloccare l’invio di armi in favore dell’Hezbollah. Una sorta di via libera ad interventi mirati, nel momento in cui la Casa Bianca esclude l’invio di sue truppe in Siria, anche se fosse provato che il regime di Bashar al-Assad ha usato armi chimiche nella guerra contro i ribelli, varcando la linea rossa indicata dallo stesso presidente Obama. Washington prende tempo e intanto lascia libero il campo all’alleato di sempre, Israele.

l’Unità 6.5.13
Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp e consigliere di Abu Mazen
«Pronti a trattare sullo scambio di territori Ma Israele deve fermare gli insediamenti»
«L’inerzia della politica fa esplodere il Medio Oriente»
«In Siria come in Palestina pensare di mantenere lo status quo non è un’illusione, è un errore»
di U.D.G.


«In Medio Oriente il tempo non lavora per la pace. E questa considerazione vale per la Siria come per la Palestina. Pensare di mantenere lo status quo non è una illusione, è un tragico errore. Perché quando la diplomazia abbandona il campo, a riempirne il vuoto sono le forze che puntano alla destabilizzazione».
È un lucido, argomentato, grido d’allarme quello lanciato dalle pagine de l’Unità da una delle figure più rappresentative della leadership palestinese: Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
Mentre il negoziato israelo-palestinese è in stallo permanente, il conflitto siriano rischia di estendersi all’intero Medio Oriente. C’è un filo rosso che lega i vari scenari?
«Credo di sì ed esso va ricercato nell’inerzia della politica. E in Medio Oriente, la storia lo ha insegnato, quando la politica e la diplomazia abbandonano il campo, a riempire quel vuoto sono le armi. Gli appelli non bastano da soli a fermare i massacri in Siria così come non sembrano smuovere i governanti israeliani dalla loro intransigenza rispetto a un punto che per noi rimane cruciale...».
Qual è questo punto?
«Lo stop alla colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Su questo siamo stati molto chiari negli incontri avuti di recente con il presidente Usa Barack Obama e con il segretario di Stato John Kerry: pace e insediamenti sono inconciliabili. Chiederci di “legalizzare” ciò che è illegale gli insediamenti è inaccettabile. Al presidente Obama abbiamo mostrato una cartina della Cisgiordania che dà conto, più di tanti discorsi, di ciò che è stata, sul terreno, la politica di colonizzazione portata avanti senza soluzione di continuità da Israele: insediamenti moltiplicatisi nel tempo, colonie trasformate in città, un territorio, la Cisgiordania, spezzato in mille frammenti. In questo modo, si rende impraticabile una soluzione a “due Stati”, si svuota di ogni contenuto reale un ipotetico negoziato».
E qual è stata la reazione americana?
«Hanno preso atto delle nostre ragioni, il segretario di Stato Kerry ha compreso la gravità della situazione, ma ora è tempo di agire prima che sia troppo tardi».
Cos’è, una minaccia?
«No, è una previsione fondata. Fondata sul malessere crescente nei Territori e su un quadro generale nella regio-
ne che si fa sempre più inquietante. L’approccio giusto è quello globale: la pace fra Israele e gli Arabi, e per raggiungere questo obiettivo è ineludibile dare soluzione alla “questione palestinese”».
Lei parla di pace globale. Può andare in questa direzione la riformulazione del piano di pace presentato dalla Lega Araba nel 2002 e che sostiene ora esplicitamente il principio di uno scambio di territori fra Israele e Palestina?
«Su questa iniziativa si è imbastita una lettura strumentale che va subito tolta dal tavolo: la proposta della Lega Araba non rappresenta una novità, e tanto meno si configura come una pressione sulla dirigenza palestinese. È vero il contrario...».
Vale a dire?
«La delegazione araba che ha di recente incontrato il segretario di Stato Usa, ha presentato la posizione ufficiale palestinese: in cambio dell’accettazione senza riserve da parte israeliana della soluzione a “due Stati”, basata sui confini del 1967, lo Stato palestinese, in quanto Stato sovrano, potrebbe prendere in considerazione modifiche di piccola entità dei confini, ritenute uguali in superficie e qualità, nella stessa zona geografica; modifiche che non minaccino gli interessi palestinesi. Quel che vale è il principio di reciprocità, al quale non siamo mai venuti meno».
Più volte, la leadership palestinese ha affermato la disponibilità a tornare al tavolo delle trattative ponendo come condizione il blocco degli insediamenti. C’è chi sostiene, anche in Europa, che questa asserita disponibilità è contraddetta dalle condizioni poste dall’Anp per riprendere il dialogo.
«Noi non poniamo condizioni alla ripresa dei negoziati. Netanyahu, il presidente Obama e i leader europei sanno bene che il congelamento della colonizzazione non è una condizione palestinese, ma un impegno israeliano. Quello che poniamo non sono condizioni, ciò che chiediamo è l’applicazione da parte di Israele dei suoi impegni, a cominciare dalla cessazione della colonizzazione e dalla liberazione dei prigionieri palestinesi. Mi lasci aggiungere che un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta ma di una farsa che nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso sarà mai disposto ad avallare».

il Fatto 6.5.13
Amnesty
682 le esecuzioni in un solo anno. Dalla Cina agli Usa
di Emiliano Liuzzi


I numeri dicono 682 esecuzioni e 1722 sentenze capitali in 58 paesi. Anche nel 2013 nel mondo si continua a morire per legge, uccisioni previste per chi commette crimini. Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen, i primi cinque stati che praticano la pena di morte per i detenuti secondo il rapporto 2012.
Avvocati contro una pratica sempre troppo diffusa restano gli attivisti di Amnesty International che cercano di tenere monitorata la situazione globale e non far abbassare l’attenzione sulla più vecchia tra le violazioni dei diritti umani. E nella pagella mondiale, tante soddisfazioni a fianco di grandi delusioni. “Abbiamo buone notizie”, ha spiegato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, “e alcuni casi pericolosi da tenere monitorati. Le sentenze capitali ad esempio sono diminuite rispetto al 2012, quando ne abbiamo avute circa 1923. Per quanto riguarda le esecuzioni ce ne sono state due in più rispetto al 2011”. Numeri incoraggianti che però non includono i morti che Amnesty International ritiene abbiano avuto luogo in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono mantenuti segreti. “Sul continente asiatico non abbiamo nessuna informazione certa. Le autorità non ci danno i dati, ma soprattutto se mandiamo qualcuno a cercarli, poi rischia di essere incriminato per violazione dei segreti di stato”. I metodi di esecuzione hanno compreso l’impiccagione, la decapitazione, la fucilazione e l’iniezione letale. “I crimini per i quali nel 2012 sono state eseguite condanne a morte hanno incluso anche reati non violenti legati alla droga e di natura economica, senza dimenticare l’apostasia, la blasfemia e l’adulterio, che non dovrebbero essere considerati crimini”. A preoccupare è l’area Asia – Pacifico, teatro di alcune deludenti battute d’arresto: India, Giappone e Pakistan hanno ripreso le esecuzioni dopo un lungo periodo. Ma non è necessario andare troppo lontano per trovare violazioni ripetute dei diritti umani. La Bielorussia ha continuato a essere l’unico paese nella regione Europa - Asia centrale a eseguire condanne a morte. “Vorrei segnalare con forza questo caso. La Bielorussia è un paese che uccide nel cuore dell’Europa. In più lo fa in forma segreta: si ammazzano prigionieri prelevati senza avvisare le famiglie. Poi abbiamo persone che girano per le tombe a cercare i propri familiari. Scene agghiaccianti a pochi passi da casa nostra”. Nelle Americhe, a mantenere la pena di morte sono rimasti soltanto gli Stati Uniti: 43 le esecuzioni registrate nel 2012, lo stesso numero del 2011, ma in nove stati invece che tredici.
Piccole conquiste che potrebbero lentamente aprire un varco anche nel paese più conservatore. Buoni segnali vengono dal Connecticut, divenuto il 17esimo stato abolizionista, e dal referendum sull’abolizione della pena di morte in California del novembre scorso che non è passato per una manciata di voti. E’ stata inoltre pubblicata un’importante ricerca condotta negli Stati Uniti, dove si è visto che facendo un sondaggio in cui viene presentata un’alternativa alla pena di morte, i cittadini rispondono che ne vogliono l’abolizione. L’esecuzione capitale non può essere usata come deterrente al crimine, ripetono a gran voce i militanti di Amnesty International. E oltre i dati e le considerazioni politiche la vera domanda è fino a quando, o meglio, vedremo mai un mondo senza pena di morte? Considerazioni sul futuro che solo chi da anni lotta per una maggiore attenzione e sensibilità sull’argomento può fare. “Ce lo chiediamo ogni giorno”, conclude Noury, “se queste uccisioni finiranno mai, quando e perché. Io dico che le esecuzioni termineranno nel mondo del futuro, il problema è sempre dare un termine preciso. La mia previsione parla di cinque anni e di alcuni stati che resisteranno come Iran, Cina e Irak. L’obiettivo vicino è quello di ridurre la pena di morte a eccezioni. Sarebbe una conquista”.

Corriere 6.5.13
E Londra diventò padrona dei mari
di Giuseppe Galasso


La guerra, cominciata nel 1701 e terminata esattamente 300 anni or sono, fu lunga. Nel novembre 1700 era morto, senza eredi diretti, Carlo II d'Asburgo, re di Spagna. La Spagna era da due secoli una potenza mondiale. Dominava a Milano, Napoli e isole italiane, in quello che oggi è il Belgio, in tutta l'America Latina, tranne il Brasile, nonché nelle Filippine. Questo enorme impero formava anche un mercato chiuso, intaccato solo dal contrabbando o da qualche concessione sovrana. Alle sue porte bussavano da tempo le grandi potenze politiche e commerciali del tempo: Francia, Inghilterra, Olanda, che vi si erano anche intrufolate, rosicchiandolo ai margini nei Caraibi e altrove.
Alla successione aspiravano, come parenti, i Borboni di Francia e gli Asburgo di Vienna, cugini di quelli di Madrid. Inghilterra e Olanda preferivano una spartizione che salvaguardasse l'equilibrio europeo: l'Italia spagnola e il Belgio a Vienna, la Spagna e le sue colonie extraeuropee ai Borboni. Carlo II, per evitare contese e salvare l'autonomia e l'integrità della corona di Spagna, preferiva un principe bavarese, morto, però, anzitempo. Il preferito fu allora Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV di Francia.
Perché si preferisse un Borbone a un Asburgo non è chiaro. L'ascesa al trono di Madrid dell'ormai Filippo V di Spagna portò Luigi XIV ad appoggiare drasticamente il nipote. La tentazione era irresistibile per lui, che aveva sempre mirato a un'egemonia in Europa, senza riuscirvi che in parte. Un Borbone a Madrid poteva finalmente portare a quel risultato per la conseguente solidarietà dinastica con Madrid. Senonché, la guerra non fu affatto tutta vittorie, e fu pure troppo lunga e costosa anche per una potenza come la Francia. Si combatté, inoltre, non solo in Europa, ma in mezzo mondo: quasi una vera e propria prima guerra mondiale. Dopo molti brillanti successi, tra il 1707 e il 1708 le cose si misero male per la Francia. Per di più una carestia fierissima, tra il 1708 e il 1709, mise il Paese, con le finanze esauste, letteralmente in ginocchio. Fu allora che, con un'iniziativa inconsueta nelle vecchie monarchie, Luigi XIV si rivolse al suo popolo e chiese ad esso di durare negli sforzi e nei sacrifici per l'onore del Paese e della casa reale. La risposta fu degna del Re Sole e di quel grande popolo. Le sorti della Francia migliorarono. Luigi aveva, però, capito la lezione, e già nel 1708 avviò negoziati di pace.
Il raggiungimento della pace non fu meno lungo e travagliato della guerra. La caduta del governo whig inglese di Sidney Godolphin e del suo ministro John Churchill, duca di Marlborough, complicò le cose. Il nuovo governo tory, col premier Robert Harley e il ministro Henry Saint-John, poi visconte di Bolingbroke, riprese e concluse nel 1711 i negoziati coi francesi. Dopo varie resistenze di altri, si giunse così l'11 aprile 1713, tre secoli fa, a un trattato di pace, a Utrecht tra Spagna e Francia, da un lato, e Inghilterra, Olanda, Portogallo, Savoia e Prussia, dall'altro. Seguì il trattato di Radstadt, il 6 marzo 1714, tra Francia e Austria; il 7 settembre 1714 quello di Baden, che comprese tutta la Germania; e infine, il 15 novembre 1715, quello di Anversa o della Barriera, per garantire la sicurezza dell'Olanda da minacce francesi.
Una dozzina, dunque, di anni di guerra e due anni e mezzo per la pace, che fu peraltro di straordinaria importanza. Segnò l'avvio definitivo dell'Inghilterra al dominio dei mari (le procurò anche Gibilterra) e impedì, come Londra voleva, qualsiasi egemonia in Europa, inaugurandovi un'era di equilibrio. Divise la monarchia di Spagna come si era pensato fin dall'inizio: un Borbone a Madrid e nelle colonie, e un Asburgo in Italia e Belgio. I duchi di Prussia e di Savoia divennero re. L'Olanda ottenne forti garanzie per le sue frontiere meridionali, ma cominciò a declinare come grande potenza. Il Portogallo entrò definitivamente nell'orbita inglese. La Francia guadagnò, a carissimo prezzo, solo la solidarietà dinastica con Madrid, che però durò a lungo, mentre Vienna crebbe ancora di potenza e prestigio.
In sostanza, i molti e distanziati trattati furono una lezione, come allora si disse, della sempre molto difficile «arte di fare la pace». E tutta la vicenda, con una fine proposta già all'inizio, avrebbe dovuto insegnare quanto le vie disprezzate del compromesso siano, molto più spesso di quanto si creda, non solo le più conformi al buon senso, ma anche le più sicure contro le tentazioni e gli azzardi rovinosi della volontà di potenza. Ma la storia, si sa, di rado è maestra di vita, e ancor più di rado lo è di saggezza.

Corriere 6.5.13
La Chiesa incontra Rousseau
Il Cortile dei Gentili torna a Bologna. E vola in Messico
di Armando Torno


Il Cortile dei Gentili ritorna con energia dopo l'elezione di Papa Francesco. Numerosi gli incontri previsti già a partire da oggi che vedono il cardinale Ravasi recarsi in Messico e il cardinale Poupard (emerito del dicastero vaticano della cultura) aprire domani a Bologna il primo Cortile dedicato a un personaggio. In tal caso è al centro dell'attenzione Jean-Jacques Rousseau. Ma vediamo le cose da vicino, cominciando proprio dalla città emiliana.
Il celebre filosofo ginevrino, che amava litigare con tutti i suoi contemporanei ed era odiato da Voltaire, finirà sotto la lente dei relatori che esamineranno «La visione di Dio in Rousseau». Se da un lato vi saranno considerazioni sulle radici cristiane di questo pensatore illuminista che già anticipava i temi romantici, dall'altro si parlerà del corpus dei suoi scritti. Del resto, nuovi aspetti sono emersi con la recentissima edizione completa delle opere, ricca di inediti e di sorprese (c'è una relazione di Raymond Trousson che ha diretto l'impresa per Honoré Champion). Il Cortile mette a confronto le interpretazioni di un filosofo che ha influenzato come pochi altri la modernità e al quale siamo continuamente legati per questioni pedagogiche e religiose. L'attrice Anna Bonaiuto leggerà infatti brani dall'Emilio oltre che dagli scritti politici.
Il cardinale Poupard terrà una relazione che riprende tra l'altro giudizi di Maritain («l'indolent Jean-Jacques...»), che pone in relazione il pensatore con Giovanni Paolo II (e marca le notevoli differenze che li separavano). Sottolinea che «Rousseau viveva, di fatto, una religione a suo modo», ma lo ringrazia perché a tre secoli di distanza ci invita ancora a porre questioni di anima e coscienza. Il cardinale Ravasi ci ha confidato a proposito: «Questo incontro di Bologna è il primo di una serie in cui proporremo in un ideale Cortile dei Gentili il coinvolgimento di grandi figure del pensiero di cui restano profonde tracce nel presente. Il Rousseau di Bologna sarà seguito in giugno, a Marsiglia, da un altro incontro dove dialogheranno per interposta persona Camus e Ricoeur nel centenario comune della loro nascita». Insomma, dopo tre secoli l'autore de Il contratto sociale ripropone questioni che riguardano la fede oltre che la democrazia, l'educazione, i diritti. Significativo è il fatto che questo primo Cortile su un filosofo sia nato in collaborazione con Genus Bononiae, realtà bolognese che in questi anni è diventata un riferimento di cultura internazionale. I momenti dedicati a Rousseau saranno trasmessi sul sito cortiledeigentili.com e si potranno rivedere su genusbononiae.it.
E mentre a Bologna si interroga Rousseau, Ravasi porta il dibattito del Cortile oltreoceano. Per la prima volta, anche in tal caso. «Città del Messico — ci ricorda il porporato — avrà due appuntamenti di rilievo. Il primo riguarda la Conferenza episcopale messicana che si riunirà con me nel museo Soumaya da poco inaugurato; e in tale ambito affronterò il tema dell'educazione, di particolare rilievo in questo periodo. Non soltanto per l'istruzione o la presenza di università cattoliche, ma anche per la formazione di una nuova generazione di fronte al grande dramma della criminalità organizzata, vera e propia malattia della società. Il secondo è legato alla figura di un pensatore importante dell'America Latina, il filosofo Guillermo Hurtado. Mi confronterò con numerosi ricercatori dell'università di Città del Messico a cui offrirò una riflessione sul tema della sapienza, soprattutto nelle sue grandi matrici originarie delle culture antiche, cercando di evidenziarne le tante iridescenze. Non mancherà poi un incontro ristretto — il programma parla dell'Università Unam — con intellettuali di alto profilo sul tema delicato del rapporto laicità e religione».
Ravasi poi prosegue a Puebla, emblema della cultura creola, cioè della fusione tra l'arte spagnola e le forme espressive indigene. «Nella sua università — aggiunge — riceverò la laurea honoris causa e terrò una lectio sul rapporto tra atenei, cultura e religione. Qui c'è la biblioteca Palafox, la più ricca di testi antichi del mondo latino-americano». Sarà infine la volta di Monterrey, città industriale per eccellenza del Messico. E ancora Ravasi: «In una università tecnologica terrò una lezione-conversazione con studenti e professori sul dialogo tra credenti e non credenti».
Il dibattito del Cortile continua. A Bologna con il «nuovo» Rousseau, in Messico sui mille temi che la fede mette in luce. In autunno sarà la volta di Varsavia, Praga, Berlino.

Repubblica 6.5.13
Un dialogo con i non credenti nel nome di Gesù di Nazareth
Esce il nuovo libro di Vincenzo Paglia un lungo testo in forma epistolare indirizzato a chi non ha la fede
di Eugenio Scalfari


Carissimo amico non credente, così comincia il libro di Vincenzo Paglia e il titolo lo rispecchia fedelmente: A un amico che non crede (Piemme). Ma in realtà quelle 230 pagine, dense di riflessioni, citazioni e narrazioni, sono dirette all’uomo in quanto tale, credente e non credente, cristiano o non cristiano.
Mi sento tra i destinatari di questa lunga lettera anche perché Vincenzo, anzi don Vincenzo, lo conosco da vent’anni e forse più e la conoscenza è diventata amicizia e scambio di sentimenti e pensieri. Pensieri discordi nelle reciproche conclusioni, ma coincidenti nel metodo, cioè nel dialogo alla ricerca di quanto i laici non credenti debbono alla storia e all’esperienza cristiana e reciprocamente quanto i cristiani debbono al pensiero critico dei non credenti e alla sua storia.
L’autore, per chi non lo sapesse, è stato il co-fondatore della Comunità di sant’Egidio e da una decina d’anni è vescovo di Terni. Di recente Benedetto XVI l’ha nominato presidente del “consiglio delle famiglie”, tema di fondo della Chiesa e della società. Non è un “martiniano” don Vincenzo, ma ha molto apprezzato le posizioni del cardinale da poco scomparso. I suoi punti di riferimento sono stati papa Wojtyla, Benedetto XVI e ora, a quanto capisco, papa Francesco.
Il suo libro tocca tutti i punti del confronto tra il credente e l’amico non credente. L’obiettivo non è di convertire alla fede il suo interlocutore né di esporsi all’eventuale reciprocità, ma di trarre reciproco profitto spirituale dal saggiare le posizioni dell’uno e dell’altro. I temi del confronto sono: la zona del mistero che l’autore chiama l’Oltre; l’affermazione e la negazione di Dio; il Dio assente o presente di fronte al Male; Gesù il Cristo; la fede e la scienza; l’amore verso gli altri; la verità e l’assoluto; la morte e l’aldilà.
L’elenco comprende gran parte del dibattito in corso da sempre, anche prima che il cristianesimo facesse la sua comparsa. Ma è un dibattito che non si svolge mai allo stesso modo perché cambiano le culture che si confrontano, le società e i problemi della convivenza. Cambia il mondo e gli interrogativi che si pone l’“homo sapiens” da quando l’evoluzione dette forma ad un animale pensante. Rimane tuttavia come tema costante del confronto quella zona del mistero che a volte sembra restringersi e a volte estendersi, ma è direttamente connessa alla ricerca del senso.
Questo è il punto di fondo che il libro affronta. Viviamo in un’epoca che ha reso ancor più incalzanti le domande e ancor a più difficili le risposte e il dibattito è diventato sempre più acceso rivelando aspetti di drammaticità.
* * *
Al primo punto c’è il dibattito sull’esistenza o la negazione di Dio. Debbo dire che monsignor Paglia non è un patito delle cinque regole di San Tommaso, le ritiene importanti ma non decisive e pensa piuttosto che la vera prova dell’esistenza di Dio derivi dalla fede. Da questo punto di vista gli è molto utile rievocare l’intuizione ontologica di sant’Anselmo: se tante persone pensano Dio come trascendenza eterna che tutto pervade, è impossibile che questa fede non poggi sulla realtà oggettiva.
La maggior parte dei non credenti pensa invece (ed io sono tra questi) che l’idea stessa della divinità sia una meravigliosa invenzione dell’“homo sapiens”, a quale scopo? Per sconfiggere la morte immaginando un aldilà che eternizza l’anima e dà un senso al passaggio terreno riscattandone la precarietà. La tesi del dio inventato è presente da molto tempo e fu anche ufficializzata da alcuni imperi d’Oriente e da quello romano: l’imperatore era un dio umano durante la sua vita. Dunque era la carica, il ruolo ad essere divinizzato.
Comunque non è l’ufficializzazione imperiale che interessa e preoccupa il credente, ma l’invenzione della divinità da parte della mente umana. A quell’idea l’autore del libro obietta che la mente umana, pur capace di sorprendenti invenzioni, non può arrivare a tanto, troppo complessa è l’invenzione di un Divino che non abbia un fondamento di realtà, qualunque cosa s’intenda per Divinità.
Perfino il bosone di Higgs? Questo vorrei domandare all’autore della lettera all’amico non credente: una particella elementare può essere Dio?
Credo di conoscere la risposta, ed è un’altra domanda: chi ha creato la particella elementare? Anzi le particelle elementari non sono un’invenzione ma una scoperta degli scienziati come la meccanica dei quanti, le onde magnetiche, i buchi neri e il big bang che la scienza ipotizza arrivando a tracciarne la storia fino ad un miliardesimo di miliardi di secondo, arrestandosi a quel punto prima che il big bang avvenga. Ma prima ancora che cosa avviene? Il credente gli risponde che prima ancora c’è Dio. Il non credente invece continua da parte a ritenere che quel Dio che ha creato perfino le particelle elementari sia un’invenzione della mente per esorcizzare la morte. Io rispetto la fede, rispetto il mio amico credente, rispetto il mistero, ma Dio è un’invenzione, un mito che personifica il concetto dell’Essere.
Anche qui credo di conoscere le risposte del credente: se Dio è l’Essere, l’Essere non è un’invenzione della mente ma una realtà come è una realtà il suo rapporto con gli Enti. Gli Enti emergono dall’Essere, nascono, muoiono e si disfano nell’Essere il quale sta, esattamente come Dio. Infatti sono la stessa cosa.
Siamo arrivati dunque ad un punto comune? In un certo senso sì, siamo arrivati a un punto comune con alcune precisazioni. L’identificazione di Dio con l’Essere spoglia Dio da ogni umanesimo, non è pensabile che sia misericordioso o vendicativo o giusto o sapiente o qualunque attributo umano che gli si voglia attribuire, salvo forse quello dell’eternità ma anch’esso con molte riserve poiché l’Essere è fuori dal tempo.
L’altra precisazione riguarda noi umani: la nostra mente arriva fin qui, può esprimere Dio attraverso equazioni matematiche o attraverso metafore che lo raccontino come un personaggio, ma al di là di questo la nostra mente non può andare. C’è l’Oltre? Cioè qualcosa di non esprimibile? Sicuramente c’è l’Oltre, per noi inconoscibile, terra ignota e non esplorabile.
Qui finisce in disaccordo il discorso sull’esistenza di Dio. Ma voi, credenti cristiani, avete un altro capitolo da raccontare che per voi anzi è il primo perché da esso prendete il nome ed è il capitolo di Gesù di Nazareth, figlio dell’uomo e figlio di Dio. Forse su questo capitolo potremo incontrarci.
* * *
Le fonti sono i Vangeli, gli atti degli Apostoli, le lettere da essi inviate alle comunità cristiane e poi Paolo e poi Girolamo e poi Agostino e Ambrogio e Bernardo, la dottrina, la mistica, la Chiesa di Gregorio di Saona e quella di Bonifacio e duemila anni di storia del potere spirituale e di quello temporale passando attraverso gli scismi, le crociate, l’Inquisizione, la Riforma. Infine lo scontro con la filosofia moderna da Montaigne a Cartesio, a Kant, all’illuminismo, a Hegel, a Nietzsche, a Freud. Infine il Vaticano II che ha cercato di rompere la gabbia costruita dal Vaticano I.
Tutto questo è stato messo in moto e dominato dal personaggio Gesù di Nazareth, raccontato dagli evangelisti che hanno parlato di lui senza averlo conosciuto fondandosi sulle narrazioni di alcuni apostoli.
Gesù di Nazareth. Il libro di don Vincenzo, che ricorda tutte queste tappe di storia religiosa con dovizia di citazioni e di riflessioni – fornisce di Gesù un ritratto dove risplende la sua dolcezza, la sua mitezza, il suo amore per il prossimo, la sua consapevolezza del destino che lo attende e soprattutto la sua predicazione.
Il ritratto è molto bello, ne emerge la forza di quell’uomo ed anche le debolezze insite nella sua forma umana; perfino alcuni momenti culminanti dove l’essere uomo sommerge la sua fiducia e lo spinge a dubitare di sé e perfino del Padre: nell’orto del Getsemani qualche ora prima dell’arresto e poi sulla croce del Golgota.
Questo è il ritratto. Quanto alle fonti esse offrono varie possibilità d’interpretazione, dovute alle molteplici trascrizioni dall’aramaico al greco antico e poi al latino, soprattutto per quanto riguarda il Vangelo di Marco. Cronologicamente esso è il primo poiché Matteo aveva scritto alcuni appunti andati perduti ma la scrittura del suo Vangelo è posteriore a quella di Marco.
La differenza tra i vari Vangeli consiste in questo: il ritratto di Marco raffigura un personaggio in certi momenti mite e dolce ma in altri aspro, triste e inquieto. Una personalità forte, bizzarra e contraddittoria. Comincia a trent’anni la sua storia, senza che poco o nulla si sappia sulla nascita, sull’infanzia e sull’adolescenza. Comincia col battesimo nelle acque del Giordano dove predica ed urla Giovanni Battista. Dopo il battesimo, il deserto e le tentazioni del demonio, poi la predicazione, le parabole, i discepoli, le folle; le parole dure nei confronti della famiglia, anche della propria; l’identificazione di sé con il figlio di Dio. Attenzione: non il Messia ma il Figlio. Quello di Marco è un ritratto in parte alternativo ma che sottolinea quasi ad ogni riga la divinità del personaggio e coincide con tutti gli altri Vangeli sulla dottrina dell’amore come carità nei confronti del prossimo.
Io penso che l’uomo Gesù abbia predicato un’umanità cui dobbiamo riferirci come il modello nobile e ad esso ispirare i nostri comportamenti. Ciascuno nell’autonomia della propria coscienza e – oso dire – costi quel che costi.
Su questo, caro Vincenzo, siamo d’accordo e tu lo sai.

Repubblica 6.5.13
Arriva in Italia la “sex enciclopedia illustrata”, scritta da una terapeuta danese e da una giornalista tedesca
Manuale d’amore
L’educazione sessuale, nuove istruzioni per l’uso
di Natalia Aspesi


Un manuale che piomba anche in Italia (L’Ippocampo Edizioni) in un momento di intensa proliferazione soprattutto letteraria, giornalistica e in rete di quelle cose lì, dalla pornofiaba al pornorosa al pornomedico allo psicoporno, al porno archeologico e storico e alla pornoarte (vedi per approfondimento dotto, scienziati, filosofi, poeti, artisti del passato in With the hand, “Storia culturale della masturbazione” dell’olandese Mels van Driel). A questo punto si spera anche in una nuova edizione di un informato triplo saggio di Piera Detassis (2006, contenuto in una pubblicazione accademica sulla sessualità maschile) dedicato al pene nel cinema: “Pene d’amor perduti”, “L’oggetto invisibile”, “Non tutti ce l’hanno”. Intanto circola, per i pornocinefili, un librettino americano di cinecitazioni epocali: esempio, Jeanne Moreau che nel film Querelle de Brest, 1982, di Fassbinder dice a Brad Davis: «Ho molto sognato ultimamente il tuo pene». E lui: «E nei sogni era meglio? ». C’è pure molta attesa per un fondamentale La gnocca, istruzioni per l’uso, opera di due erudite signore romane, che verrà pubblicato in autunno da Salani.
Make Love, scritto per i giovani ma prezioso anche per gli anziani che ancora non son sicuri di aver capito come funziona davvero, è opera di Ann-Marlene Henning, 49 anni, terapeuta sessocorporea danese e di Tina Bremer- Olszewski, 40 anni, giornalista tedesca. Ancora una volta due donne, genere che se sino agli anni ’50 doveva far finta di essere vergine e di non capire le barzellette spinte, oggi si è vista delegare la gestione tuttora spinosa della questione sessuale, vuoi in letteratura che in abbecedario. Il nuovo manuale, simpatico, pratico e a cui nulla sfugge, è arricchito da numerosi grafici (tipo, “A partire da che età è permesso fare sesso nei vari paesi? ”, e per esempio in Madagascar sarebbe 21 anni e in Vaticano 12 ?!!), ma anche da graziosi disegnini per le varie posizioni (dette della rana, del ragno, dell’amazzone e anche doggy style in due versioni, abbassata e no). Ma ciò che rende particolarmente appetibile questo ricettario, anche secondo Camila Raznovich che ne cura la prefazione, è il fatto che tutte queste penetrazioni erezioni pompinismi masturbamenti e ogni altro esercizio che si spera abbiate già sperimentato prima di affidarvi a questo “livre de chevet”, o enciclopedia da comodino, siano illustrate da fotografie di autentiche coppie nella vita: fortunatamente molto giovani e belle e quindi non horror come certe immagini che si scambiano flaccidi esibizionisti su Internet.
Certo, per quanto tecnologicamente avanzata, Heji Shin, 37 anni, fotografa coreana, non riesce a penetrare del tutto nei grovigli dei bei corpi lisci e quasi irreali, così, se proprio si vuole una informazione visiva più particolareggiata e per il solo sesso femminile non si ha sottomano una riproduzione dell’Origine du monde di Courbet, ci si può rivolgere per una più ampia casistica al buon vecchio e sempre istruttivo The Joy of sex, “Guida succulenta al fare l’amore”: che, si spera, chiunque avesse 20 anni o giù di lì nel 1972, abbia utilizzato e conservato sino ad oggi con particolare riconoscenza, tutta ingiallita e spiegazzata. Non meno prezioso, in caso di diverse inclinazioni, e ugualmente fondamentale per giovanetti e giovanette frastornati, The joy of gay sex, 1977 (in Italia 1985). I disegni che illustrano i due bestseller mondiali in anni di vera rivoluzione sessuale, sono molto belli e non lasciano dubbi tanto sono accurati sino all’ultimo inciucio o pelo. In ogni caso, make love!
E per cominciare chiamalo e chiamala come vuoi anche in italiano, ciò che importa è non aver paura di parlarne secondo fantasia ma non come un insulto: consigliati tra i tanti, Anaconda o Trappolina, Durlindana o Fisarmonica, Amico Freddy o Topa, ecc. Vuoi farlo da gran signora? C’è un vero e proprio galateo dei baci, anche il mordicchiamento può essere considerato chic. Vuoi sapere cos’è la clamidia? Il libro lo dice, ti fa prendere un gran spavento però ti insegna ad evitarla. Rispetto ad altri manuali del ramo, ci sono interessanti novità: per esempio l’uso di lenzuola di vinile, che a dirlo viene la nausea, e invece, «sono perfette per un’orgia a base di olio». Seguono spiegazioni entusiasmanti, risultato, «si crea un’intimità meravigliosa e si ride parecchio». Ci sono vetero suggerimenti di tipo movimentista, naturalmente per le ragazze: da sedute, mettetevi uno specchio tra le gambe e ammiratevi. A consigliarlo per primo, nel 1971, fu il grandioso, rivelatore, rivoluzionario libro Our Bodies Ourselves opera di un collettivo femminista di Boston. In seguito alla pubblicazione in Italia da Feltrinelli nel 1974 col titolo Noi e il nostro corpo (tuttora acquistabile per 5 euro su Internet), anche i nostri collettivi più politicizzati si imposero la prova specchietto, e tale fu il raccapriccio delle più fragili che molte di loro per anni non si tolsero più le mutande. Nel nuovo manuale non manca un vero e proprio scoop: ce l’hanno anche le donne! Lo scoprì per primo l’anatomista Renaldo Columbus nel XVI secolo, un secolo dopo se ne occupò il medico olandese Regnier de Graaf; ma niente, che una cosa così maschile fosse anche femminile era del tutto inaccettabile. Dal 2001, in seguito agli studi del dottore slovacco Milan Zaviacic, non lo si può più negare, addirittura a livello internazionale. Anche le donne hanno quel fruttuoso e nascosto tesoretto della virilità che si chiama prostata e che per confondere le idee ha fatto favoleggiare di un miracoloso e introvabile punto G. Per far fruttare quello che non è un punto ma un tessuto, è necessario far pratica secondo le precise indicazioni del libro. E ora bisogna proprio dirlo: tra la grammatica e la pratica c’è spesso un abisso, e a darsi troppo seriamente alla teoria è possibile che passi del tutto la voglia.
Ma, sostengono le autrici del manuale, «Il sesso si impara, come si impara una lingua straniera». Quindi bisogna studiare, farsi una cultura specifica, applicarsi, esercitarsi. Non accontentarsi del fatto che il sesso è ovunque, nella pubblicità del cono gelato, nell’offerta di tettone in rete e neppure nello spogliarellista in Skype. I corpi veri che si incontrano, quando si incontrano davvero, ci tiene a far sapere il libro, creano quella meraviglia che si traduce con la parola “passione”. Meglio se sei una enciclopedia ambulante del piacere imparando a memoria Make Love.
E se poi l’amato partner è ancora a livello asilo e si vorrebbe di colpo promuoverlo alla maturità, senza sgridarlo apertamente, si può fornirgli il libro come sapiente “cahier de doléance”.

Make love di Ann Marlene Henning e Tina Bremer Olszewski L’Ippocampo pagg. 256, euro 18