martedì 7 maggio 2013

il Fatto 7.5.13
Viaggio democratico. Seconda puntata
La rivolta nel Pd percorrendo la via Emilia passa per la Bolognina
“Rottamare i capi tribù, Renzi compreso”
Da Pesaro fino all’Emilia rossa, la rivolta di “OccupyPd” continua
Forlì, Albinea e la mitica sezione della BologninaIl sindaco forlivese Balzani: “Abbiamo ancora dirigenti del secolo scorso, quando c’erano Dc e Pci. Devono capire che per loro è finita”
di Antonello Caporale


Ecco che la rivolta del Pd passa per la Bolognina, il centro del centro della storia della sinistra italiana, il luogo dove sono accorsi, nelle ore della disfatta del Pd, furenti e disperati, i militi estranei alla guerra degli odi e delle correnti. Caporale pag. 14   Prima di giungere al Piave dello sgomento che è la Bolognina – il centro del centro della storia della sinistra italiana, il luogo dove sono accorsi, nelle ore della disfatta del Pd, furenti e disperati, i militi estranei alla guerra degli odi e delle correnti – c’è bisogno di percorrere tutta la via Emilia verso la Romagna.
Con una lieve e dolce retromarcia da Rimini giungere a Pesaro, dove il presidente della Provincia Matteo Ricci pensa che un partito che si rispetti al primo posto metta un sentimento che si rispetti: “La felicità sarebbe un bel punto programmatico e noi che qui ci facciamo un festival diciamo che esiste un aspetto pubblico di questo sentimento prevalentemente privato. La radice di un buon governo è il buon vivere, dunque la felicità possibile, praticabile, raggiungibile. Un partito come quello che intendo io non avrebbe avuto alcuna remora a usare questa parola così limpida e così dolce, delicata, riformista, radicale. Il fatto è che io sono figlio del Pd, loro, quelli di Roma, sono figli di due ex partiti che non ci sono più”. C’è quest’altro Matteo, di 38 anni, a voler resettare, chiudere in cantina la vita e le opere dei protagonisti della disfatta. “Non ne salvo nessuno. Le correnti ci hanno ucciso e il ceto dirigente patisce una malattia autoimmune. Rigenera cellule malate e con i loro rancori, gli odi, le vendette e i tradimenti tragici stanno facendo la pelle a questo partito che non sentono loro, e che infatti non è loro”.
COVA e prende vigore dalle ceneri questa falange degli invisibili, dirigenti affermati nel territorio ma assenti a Roma, decisivi nella loro provincia, snobbati nella capitale. “C’è una spiegazione oggettiva del perché siamo ai margini: l’indipendenza di giudizio, la ribellione a qualunque cordata, la voglia di non essere incapsulati. Se si parla in libertà, dunque si contesta in libertà e si propone in libertà il risultato è che sei fuori linea e i dirigenti ti dicono: ma così ti isoli! ”. Un altro renitente alla leva è Roberto Balzani, sindaco di Forlì, il zitadon, il cittadone romagnolo. Un paesone più che una città, agricoltura intensiva e sezioni a sviluppo intensivo: molti iscritti (anche se molto meno del tempo glorioso), pochi disubbidienti. L’anestetico di cui soffre questo partito è il risultato della sovrapposizione di due doppie separazioni, due lutti non ancora elaborati, due mega cordate che si rincorrono senza mai incontrarsi. Gli eredi del Pci e quelli della Dc. “Non hanno capito che è finita, che sono dirigenti del secolo scorso e non possono inventarsi un’altra vita e un’altra storia. D’Alema e Veltroni e con loro un mucchio di altra gente, sono stati spremuti come limoni. Non c’è nessuna cattiveria ma amore e passione per il futuro del Pd. È un brand che vale molto ancora e per questo temo che si accapiglieranno”. Balzani trasferirebbe gli inquilini del Nazareno in un torpedone, cambierebbe le chiavi alle porte e forse i quadri alle pareti. “Bisogna solo liberare le energie, non c’è formazione politica che possa vantare più numeri del Pd, più persone in gamba, più amministratori capaci”. Se Antonella Incerti, neo deputata bersaniana, già sindaco di Albinea, nella bassa reggiana, pensa alla disfatta con commiserazione (“La nostra gente capisce che questo governo è figlio di uno stato di necessità. Certo, le assemblee si fanno più turbolente, è un periodaccio”), altri vogliono iniziare a dar legnate, e a far sul serio. Matteo il rottamatore si guardi le spalle, perché potrebbe finire rottamato presto e perire della sua stessa sciabola. “Renzi non può immaginare di trasformare l’Italia senza impegnarsi a trasformare il Pd. Se ha le capacità e le forze si candidi a segretario, esponga il suo pensiero e inizi a lavorare”, dice Ricci, il Matteo di Pesaro.
È IL CALCO dell’operazione reset con cui alla Bolognina è stata issata la bandiera della vendetta. La sezione che chiuse tra le lacrime la vita del Pci apre tra i dolori il nuovo corso. “Azzerare i capi tribù. Far tornare il partito alla sua essenza costitutiva: l’ascolto delle istanze dei cittadini, il governo dei sentimenti collettivi e la trasformazione dei bisogni in atti amministrativi e politici”. Parla Benedetto Zacchiroli, consigliere comunale di Bologna, renziano (“anche Renzi è un capo tribù”) e promotore, insieme ad altri amici e compagni bersaniani del principio rivoluzionario che ha come assunto: “Lasciare il Pd ai nativi. A chi non è stato dei Ds e a chi non ha incontrato in vita sua la Margherita. Lasciare la guida di questo partito al futuro”. “Siamo noi il futuro”, ha detto Giorgio Prodi, figlio di Romano, nell’infuocata assemblea che diede vita, all’indomani del tradimento, all’insurrezione. Resettare, provare con un antivirus.
(2. Continua)

il Fatto 7.5.13
E il terzo libro del fiorentino lo pubblica B.


LIBRO IN ARRIVO per Matteo Renzi, il terzo, questa volta per la Mondadori di Berlusconi. Nel giorno in cui il sindaco ha pranzato con Fabrizio Barca, sono trapelati dettagli sul suo nuovo testo, il terzo dopo Fuori e Dolce Stil Novo, usciti per la Rizzoli. Oltre la rottamazione arriverà nelle librerie entro fine maggio: casa editrice, Mondadori. Un cambio di casacca che, riferisce l’Huffington Post, dallo staff di Renzi spiegano così: “La casa editrice di Segrate ha fatto una proposta complessivamente migliore”. Tale da battere la Rizzoli, che pure aveva sconfitto Mondadori nella corsa ai primi due lavori di Renzi. Ma ora ha vinto il colosso di Berlusconi, con l’ottimo argomento del denaro. Il libro, ancora da ultimare, sarebbe incentrato su tre temi: il lavoro, il futuro, la politica. Il capitolo finale è una lettera a un bambino immaginario nato nel 2013.

il Fatto 7.5.13
I lombardi: “Primarie per il leader”
Sabato all’Assemblea nazionale con un documento “per chiedere il voto degli elettori”
di Davide Vecchi


Milano Non sosterremo più le famiglie politiche che hanno finora gestito il partito e non sono riuscite a individuare una nuova classe dirigente politica adeguata”. Da Milano piovono problemi sul Pd. Non solo l’ex rottamatore Pippo Civati, che da settimane contesta la linea del Pd e non ha votato la fiducia al governo Letta lasciando intravedere una scissione, ma anche i circoli e gli altri parlamentari eletti in Lombardia contestano apertamente i vertici. Mettendosi alla guida (o facendosi portavoce) della cara vecchia base. Lo spiega bene Pietro Bussolati, 31enne segretario dello 02Pd, il circolo milanese che ha “laureato” parlamentare Lia Quartapelle. “Vogliamo una classe dirigente capace e ci aspettiamo di essere ascoltati”, prosegue Bussolati. “Non siamo dissidenti o scissionisti, non siamo né renziani né civatiani né bersaniani, semplicemente vogliamo che il Pd torni a rappresentare noi e gli elettori”. Con lui, oltre a Quartapelle, anche altri due neoparlamentari lombardi: Chiara Braga e Veronica Tentori. Hanno animato l’OpenPd milanese. In diversi circolo hanno incontrato gli elettori, ascoltato critiche, domande, (in particolare una: perché al governo con Berlusconi e Pdl?) e ha risposto mettendoci la faccia. SABATO porteranno un documento programmatico all’assemblea nazionale con al primo punto la richiesta di rispettare lo Statuto: far scegliere il segretario agli elettori attraverso le primarie e non, come nelle intenzioni fin qui espresse, farlo nominare dagli iscritti. Segretario nazionale, certo, ma anche quello regionale. Poltrona lasciata libera da Maurizio Martina “volato” a Roma a occupare quella di sottosegretario alle politiche agricole, forestali, ambientali ed Expo. E il biglietto per le seconde fila del Governo ha riacceso la polemica interna. “Martina aveva promesso le sue dimissioni per gli errori commessi nella gestione del partito e non perché veniva premiato: non gli basta fare il consigliere regionale”, hanno ripetuti molti che pochi giorni fa hanno riempito l’Urban center di Monza per ascoltare Civati. Il deputato dissidente ha spiegato la sua contrarietà al governo inciucista con il Pdl. Tra gli applausi. Con lui i colleghi Lucrezia Ricchiuti, Alessia Mosca e Roberto Rampi. Tutti lombardi, giovani, critici, decisamente civatiani. Sabato parteciperanno all’assemblea romana con un obiettivo: rifondare il Pd. “Se non sarà più inclusivo bisognerà farne un altro”, ripete a modi slogan Civati. E su una cosa tutti sono d’accordo, sia i critici capita-nati da Quartapelle sia i frondisti dell’ex rottamatore: il segretario deve essere nominato dagli elettori con le primarie e non nelle stanze chiuse di un congresso tra tesserati.
“SE FARANNO così dimostrano che questo non è più il Pd che ci siamo raccontati, è il contrario”. Ma, ha ribadito anche ieri Civati, “abbiamo bisogno di uscire dall’assemblea con la decisione di avviare un confronto vero e con un leader di garanzia vera per tutti, senza stravolgimenti delle regole”. E anche le critiche ai vertici sono condivise da Lia Quartapelle: “Una classe dirigente che ha giocato una partita sbagliando tutto; hanno fatto del male al Pd tanto quanto ne ha fatto Bersani. Il conto arriverà”. E si annuncia salato. Intanto lascia il Pd lombardo RiccardoTerzi, 72 anni, segretario dello Spi Cgil, una vita tra sindacato e partito: “Non sono io che lascio il Pd, è il Pd che ha lasciato andare alla deriva il suo progetto”.

il Fatto 7.5.13
Democratici. È guerra sul segretario “a tempo”
In ribasso le candidature di Epifani e Cuperlo. Adesso si cerca una figura di garanzia “super partes”
Circolano i nomi di Sergio Chiamparino (che però per ora dice “no”), di Castagnetti e di Anna Finocchiaro
Fabrizio Barca ha pranzato a Firenze con Matteo. “Siamo alternativi, l’importante è tenere unito il partito”
L’ex Rottamatore per la segreteria vuole decidere il responsabile organizzazione: possibilità per Luca Lotti
di Wanda Marra


“Sono un militante attivo. A disposizione? Sì, a disposizione” (Gianni Cuperlo). “Non mi interessa, l’ho detto in tutti i modi. Sto lavorando per un’altra cosa. Sono piuttosto gli altri che vogliono farmelo fare” (Guglielmo Epifani). Il ruolo in questione è il “reggente” del Partito democratico, quello che deve traghettarlo fino al congresso di ottobre. Sostanzialmente un ruolo a tempo, tecnicamente un segretario a tutti gli effetti (in caso di dimissioni dei vertici, per eleggerlo fino alla scadenza del mandato bastano i due terzi dell’Assemblea, e non il complicato meccanismo di primarie più delegati). Lunedì pomeriggio, il Pd è in alto mare. Tradotto: non c’è modo di trovare un accordo. E allora si comincia a parlare di una figura di garanzia. Sabato è in programma l’Assemblea e i due candidati per ora più gettonati, Cuperlo (spinto da D’Alema e dalemiani) e Epifani (voluto da Bersani e bersaniani) sono in ribasso. Prima motivazione, queste due componenti del partito ormai sono in guerra aperta e visto com’è andato lo scontro in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica si teme la dissoluzione finale del Pd.
POI, ci sono troppi interessi che cozzano, troppe variabili incontrollate. Matteo Renzi il reggente non lo vuol fare, il segretario neanche. Il premier sì. Ieri ha incontrato Fabrizio Barca. I due hanno pranzato insieme: due ore al Four Season, albergo di lusso di Firenze. Un modo per conoscersi. “La mia partita non è questa - ha ribadito il sindaco al suo interlocutore - Cuperlo, Epifani, Errani? Non mi interessa, per me vanno bene tutti, basta che abbiano la maggioranza”. A Renzi i vertici uscenti del Pd hanno proposto una modifica dello Statuto, per cui verrebbero scisse le due figure di segretario e candidato premier. Un modo per mantenere lo status quo nel partito e mettere in campo Renzi alle elezioni. Lui ci starebbe. Nel Pd in molti non sono d’accordo, a cominciare da Veltroni. “Io sarei pure per dividere i due ruoli, ma non per eleggere un segretario senza le primarie”, dice Matteo Orfini. Un leader scelto nelle chiuse stanze del Nazareno non sembra esattamente la risposta alla crisi del partito. E se il governo Letta per caso dovesse funzionare, il candidato premier non sarebbe forse il presidente del Consiglio uscente?
Barca e Renzi hanno parlato dell’Assemblea di sabato, ma entrambi hanno preso tempo. Barca ha raccontato la sua idea di partito. “Non troppo lontana dalla mia”, ha poi commentato Matteo ai suoi. Mentre l’ex Ministro dichiarava pubblicamente: “Io e Renzi siamo complementari. L’importante è che il Pd rimanga unito”. Dopo settimane in cui sembrava sulla strada verso l’uscita a sinistra, ora evidentemente si riserva di decidere. Ha negato in più occasioni di correre per la segreteria, ma da qui al Congresso, magari in accordo con Renzi, chissà.
La partita dei due, comunque, non si gioca adesso. Il sindaco per ora ha chiesto solo una cosa: vuole il responsabile organizzazione. L’esperienza insegna: Nico Stumpo, che ricopre questo ruolo nella segreteria dimissionaria, è stato l’organizzatore delle primarie, quello che di fatto ha messo in piedi e gestito un regolamento atto a limitare la partecipazione, quello che ha impedito che al secondo turno si aprissero le porte dei gazebo. Ai danni dell’ex Rottamatore. Renzi ha già il suo candidato: Luca Lotti, neo deputato, ex consigliere comunale a Firenze ed ex responsabile della sua segreteria.
NELLA SPERANZA di trovare una soluzione che metta una toppa temporanea, non ipotechi le ambizioni di nessuno e consenta a tutti di elaborare una strategia per il prossimo futuro, domani si riunisce il coordinamento politico del Pd (i vertici, la segreteria dimissionaria, più i segretari regionali e provinciali). Si cerca dunque una figura di garanzia, super partes, che insieme a una segreteria allargata a tutte le componenti, traghetti il Pd al Congresso. Come al solito, è questione di nomi. Sergio Chiamparino piacerebbe a molti. Per ora, lui ha detto no. “Non ho neanche ripreso la tessera”. Ma se glielo chiedessero tutti, le cose potrebbero cambiare. Certo è una figura forte, che potrebbe pure poi candidarsi al congresso. E rompere qualche equilibrio. Altrimenti? Molti ricordano Pierluigi Castagnetti, una sorta di padre nobile. Orfini rifà il nome di Anna Finocchiaro. La Puppato ripropone Bersani. E qualche renziano tira fuori Vannino Chiti.

sull’Unità nelle edicole
Il Pd
Segretario e statuto Nuove tensioni nel Pd
Il candidato più quotato resta Cuperlo, ma Bersani teme spaccature e cerca la soluzione «condivisa»
Rischio sul numero legale dell’Assemblea: molti assenti per protesta?
Barca-Renzi, intesa sul futuro L’ex ministro: noi complementari
Mario Tronti: “Non torniamo alle due sinistre, Bersani resti fino al congresso”


il Fatto 7.5.13
Nozze e martello Bertinotti e Valeria Marini
La Roma godona si è mangiata la rivoluzione
di Enrico Fierro


Roma godona ha il potere di trasformarti. Ti mangia la vita, ti divora il passato e ti riporta ad un solo presente: la festa, la festa continua. Un rito che ha sue regole inviolabili. Il giro delle conoscenze deve essere quello giusto, vip e vippazzi che si mescolano a politici e intellettuali dal pensiero unico e fisso, attrici dal passato glorioso e dal futuro incerto insieme a nobildonne morte di fama.
IL RITOCCO impazza. È Roma godona, trionfo del lusso e del gossip nazionale, oggetto dell’invidia di masse sempre più impoverite e rincitrullite dalla tv. “Siamo qui per vedere la sposa ma lei non ci degna di uno sguardo”, protestavano “gli umili” sulle scalinate dell’Ara Coeli in fremente attesa di Valeria Marini finalmente sposa. Lei, la diva senza qualità, non si è concessa alle folle e quando è arrivata gli ombrelli dei body guard (tutti candidi come l’abito della sposa) hanno coperto la visione agli occhi e agli obiettivi dei paparazzi. Il popolo adorante si è dovuto accontentare di Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo, Alba Parietti e Renato Balestra, Ivana Trump e Vladimir Luxuria e infine loro: Fausto Bertinotti e signora Lella. Ed è con queste due presenze che la Capitale della festa continua celebra il suo trionfo (volevamo cambiare il mondo ma Roma ha cambiato noi) e propone un mistero ancora irrisolto. Dove, come e quando è avvenuta la mutazione genetica del raffinato cultore dell’operaismo torinese che alternava dotte citazioni in latino al ricordo di espiso di inediti della vita di Camus, in Bertinights. Uomo della festa e della notte. Una vita passata davanti ai cancelli delle fabbriche torinesi, poi nelle fumose stanze dove dopo il “tradimento” della Bolognina si vaneggiava di una improbabile rifondazione del comunismo, e infine tra gli stucchi e i velluti del piano più nobile di Montecitorio, che sprofonda nei salotti.
UN TRISTE declino? Negli anni passati Fausto Bertinotti, già assurto a rappresentante della sinistra in cachemire, dall’alto di un eloquio forbito e sempre in bilico su metafore ardite, trovò il modo per spiegare la sua passione salottiera. “Vado nei salotti come vado nelle piazze o in Parlamento: per affermare ovunque il diritto all’alterità della sinistra antagonista”. Va bene, va bene tutto e anche di più. Ma poi il gossip impazza. La coppia Bertinotti ne fu vittima qualche anno fa. Si parlò di separazione e addirittura di tradimenti. E Fausto insorse: “È offensivo solo pensare una cosa del genere”. Salotto continuo, quindi. E baci abbracci alla coppia Valeria Marini e Giovanni Cottone, lei starlette, lui già socio di Paolo Berlusconi, miracolosamente scampato anni fa ad un sequestro di persona, ora può vantare Bertinotti come testimone di nozze. E la cronaca con le sue curiosità non risolve ancora il mistero del salto dalla fabbrica al salotto. “Io non volevo essere semplicemente un mondano, diventare il re dei mondani, non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire”, dice Jep Gambardella, il protagonista de “La grande bellezza”, il film di Paolo Sorrentino sulla Roma godona. E allora l’arcano forse è risolto, la nuova frontiera rivoluzionaria del sub-comandante Fausto è questa: uccidere la Roma by night. Per sempre.

il Fatto 7.5.13
I dolori del Capo. Milano lo può giudicare
La Cassazione respinge il ricorso di Berlusconi du Ruby e diritti Mediaset
Partita finale, a rischio il seggio da senatore
di Gianni Barbacetto


Ora che la Cassazione ha deciso, Silvio Berlusconi ha un problema: come rallentare (di nuovo) i processi che riprendono a Milano, invece di essere spostati a Brescia, dove sarebbero ricominciati da capo. Il calendario è impietoso. Domani, mercoledì 8 maggio, riprende l’appello per il caso diritti televisivi Mediaset, in cui il leader del Pdl è imputato di frode fiscale. Il sostituto procuratore generale Laura Bertolè Viale ha già chiesto la conferma della condanna ottenuta in primo grado: 4 anni di carcere più 5 d’interdizione dai pubblici uffici e 3 dalle cariche societarie. Domani potrebbero concludere la loro arringa i difensori degli imputati Daniele Lorenzano e Gabriella Galletta. E nella prossima udienza (che potrebbe essere fissata per sabato 11 maggio) il processo si avvierebbe verso la conclusione, con sentenza entro metà mese. Ma Lorenzano ha già chiesto di rendere dichiarazioni spontanee e un altro imputato, Frank Agrama, vorrebbe anch’egli prendere la parola, in videoconferenza da Los Angeles. Se le richieste saranno accolte, i tempi saranno rallentati. A meno che i giudici non decidano di stralciare la posizione di Agrama.
L’ALTRO DIBATTIMENTO, quello in cui è imputato di concussione e prostituzione minorile per il caso Ruby, riprende lunedì 13 maggio. Quel giorno il pm Ilda Boccassini completerà la requisitoria, chiedendo la pena. Poi la parola passerà ai difensori Piero Longo e Niccolò Ghedini. La sentenza di primo grado dovrebbe arrivare entro la fine di maggio. Berlusconi, dunque, potrebbe essere raggiunto da due verdetti nel giro di tre settimane. Ma trattandosi di un imputato molto speciale, tutto può succedere. Tanto più nel clima di larghe intese, in cui il leader Pdl è diventato azionista essenziale del governo e forse anche “padre costituente”. È quindi possibile che riprendano le richieste di legittimo impedimento per impegni istituzionali dell’imputato e dei suoi due difensori, entrambi parlamentari.
Nei prossimi mesi inizierà a Milano anche l’appello del processo sul trafugamento dell’intercettazione segreta tra l’ex segretario dei Ds Piero Fassino e il presidente di Unipol Giovanni Consorte. In primo grado, Berlusconi è stato condannato a 1 anno di reclusione per rivelazione di segreto d’ufficio. A Napoli invece è in corso l’indagine sul passaggio al fronte berlusconiano del senatore Sergio De Gregorio, con l’ex presidente del Consiglio accusato di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Ma è il processo Mediaset quello più delicato: se arrivasse la conferma della condanna, entro qualche mese la Cassazione potrebbe porre fine alla vicenda, stilando il verdetto definitivo. Se fosse di condanna, potrebbero essere confermati anche i 5 anni d’interdizione dai pubblici uffici. Vorrebbe dire, per Berlusconi, la perdita del seggio al Senato.
Ultima speranza, la Corte costituzionale: ha lasciato aperto il caso del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato sollevato in primo grado dalla difesa del leader Pdl per via d’una udienza, quella del 1 marzo 2010, in cui i giudici non ritennero valido il legittimo impedimento del presidente impegnato in un Consiglio dei ministri. L’avvocato Longo ha annunciato ieri che chiederà la sospensione del processo (non obbligatoria) in attesa della decisione della Corte. La spada di Damocle della Consulta s’intreccerà con le vicende politiche e i destini del governo: Berlusconi potrà sopportare di essere buttato fuori dal Senato mentre sostiene il governo Letta? E quale salvacondotto potrà mai essere escogitato per l’imputato più eccellente della storia italiana?

8 MAGGIO Diritti tv: riprende il processo, sentenza (appello) a metà mese Ansa
13 MAGGIO Ruby: Boccassini conclude requisitoria. Primo grado vicino. Ansa
Per la Giunta delle elezioni del Senato, la Lega Nord propone Raffaele Volpi, il Cinque Stelle Michele Giarrusso Ansa

il Fatto 7.5.13
Lega verso la giunta Salva-Silvio
Incandidabilità e decadenza dai pubblici uffici nelle mani del Carroccio
di Sara Nicoli


La giunta per le autorizzazioni e le immunità del Senato in mano alla Lega? Detta così la questione può non destare particolare stupore. Perchè, comunque, l’organismo – per regolamento - spetta all’opposizione. Invece, l’assegnazione di quella particolare poltrona di vigilanza e garanzia al Carroccio rappresenterebbe un caso politico importante. Perché significherebbe dare al principale alleato di Berlusconi la chiave principale della sua salvaguardia politica.
IN QUESTE ORE di meticolosa divisione delle presidenze delle commissioni permanenti, la storia di questo organismo di 23 componenti, chiamato a dirimere questioni di autorizzazioni a procedere a fronte di richieste di arresto o indagini su un senatore oppure a dichiararne la sua decadenza in virtù di una condanna diventata definitiva, è una delle cose su cui Berlusconi sta facendo le pressioni più forti. In questa legislatura, infatti, il Cavaliere siede tra i banchi di palazzo Madama. E qualora arrivasse per lui la condanna definitiva sul processo Mediaset (che si annuncia in autunno, salvo colpi di scena provenienti dalla Corte costituzionale, che potrebbe annullare il processo), sarebbe proprio questa Giunta a dover decidere, in prima battuta, se chiudere anzitempo la sua carriera parlamentare decretandone la decadenza oppure no.
Certo, l’ultima parola spetterebbe sempre poi all’aula di palazzo Madama, dove un voto segreto – in questo clima - potrebbe comunque riservare sorprese.
La presidenza della giunta potrebbe rallentare il voto d’aula. E chi è il miglior “mago” dei regolamenti e dei cavilli presente in Senato? Senza dubbio il leghista Roberto Calderoli. Guarda caso chiamato a gestire proprio lui la divisione dei pani e dei pesci delle poltrone delle commissioni per conto della Lega. Solo che lui è un nome troppo “ingombrante” per essere votato. Meglio una figura più opaca, ma non meno “svelta”. Ecco, dunque, emergere il nome di Raffaele Volpi, un vero funzionario di partito cresciuto a pane e via Bellerio, che ha però ricoperto ruoli delicati. Nella precedente legislatura era in commissione Affari Costituzionali, ma non è considerato uomo che brilla per iniziativa personale. Suo grande sponsor sarebbe il “saggio” Giancarlo Giorgetti, più che lo stesso Maroni, ma soprattutto gode di grande stima di Calderoli. Che, non ci sono dubbi, saprebbe indirizzarne puntualmente le azioni, in caso di necessità.
La Giunta in pugno alla Lega, dunque? I giochi non sono fatti. La trattativa proseguirà, infatti, nella giornata di oggi. Anche perché il Movimento 5 Stelle rivendica per sè quella poltrona. Il motivo? Di fatto, i grillini sono l’unica vera opposizione presente in Parlamento.
E, IN PARTICOLARE, proprio a palazzo Madama, dove Sel non ha raggiunto il numero per poter creare un gruppo autonomo (solo solo sette i senatori di Vendola) e anche la Lega ne ha solo 17, contro i 52 (escluso Mastrangeli, espulso, e la Mangili, che non c’è) dell’M5S. Solo che il Movimento – che avrebbe candidato il siciliano Michele Giarrusso per il ruolo di presidente - non può ottenere tutto. E visto che, comunque, l’ultima parola su questo organismo spetta al presidente del Senato, Pietro Grasso, par di capire che le “larghe intese” potrebbero favorire la Lega piuttosto che i grillini. Insomma, chi comanderà l’organismo avrà in mano la golden share del futuro politico di Silvio Berlusconi. E il Cavaliere non ha intenzione di mollare per nessun motivo.

il Fatto 7.5.13
Nitto Palma alla Giustizia, l’ultimo tentativo di B.
Nel rebus delle Commissioni il Cavaliere reclama più presidenze:
tornano gli impresentabili per l’ultima volata
di Marco Palombi


La trattativa è frenetica. Gli incontri, tanto quelli formali che le chiacchiere sottovoce da corridoio, si susseguono. Grande è la confusione. Qui, però, non si parla della manovra economica, ma del complesso gioco a incastri con cui la maggioranza Pd, Pdl, Scelta civica dovrà spartirsi le 28 presidenze delle commissioni parlamentari permanenti - più relativi vice e segretari – e a quali opposizioni concedere le poltrone di vigilanza.
Sono due partite distinte. La prima si chiuderà oggi pomeriggio con la costituzione delle 14 commissioni in ognuna delle due Camere, la seconda probabilmente domani o giovedì. Al di là dei nomi, la regola del gioco per la spartizione intra-maggioranza sembra quella di concedere ai berluscones più spazio di quanto non abbiano ottenuto nel governo: 7 poltrone a 6 oppure 8 a 5, per dare un’idea. La sostanza, comunque, è che le commissioni di peso andranno ai democratici in un ramo del Parlamento e al centrodestra nell’altro.
PER QUEL che vale, questo è il giochino del totonomine aggiornato a ieri sera all’ora di cena. A dirigere la prima commissione, Affari costituzionali, dovrebbero andare Anna Finocchiaro a palazzo Madama e a Montecitorio Francesco Paolo Sisto, avvocato caro al Cavaliere ma soprattutto a Raffaele Fitto (ma si fa il nome pure di Antonio Leone, altro pugliese). Complicato, ovviamente, il risiko sulla Giustizia, cui sembrano destinati due ex magistrati: la deputata Pd Donatella Ferranti e l’ex ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, su cui Berlusconi sta spingendo moltissimo (per Montecitorio, però, ieri si parlava anche dell’avvocato montiano Gregorio Gitti). Per dirigere gli Esteri, invece, pare necessario provenire dalla Prima Repubblica: Pier Ferdinando Casini è praticamente certo al Senato, per la Camera spera Fabrizio Cicchitto.
Le fondamentali commissioni Bilancio, che saranno il centro della vita parlamentare prossima ventura, dovrebbero andare all’economista (lettiano) del Pd Francesco Boccia e all’eterno senatore Pdl AntonioAzzollini, che ha già occupato quella poltrona per due legislature, rivelandosi abilissimo nel gioco di dare a tutti un po’ di emendamenti (e di fondi). Coppia di ferro, si dice, anche per le commissioni Lavoro: gli ex ministri Cesare Damiano e Maurizio Sacconi. Tramontata invece, ma non si sa mai, un’altra candidatura assai sponsorizzata dal Cavaliere: quella dell’ex ministro Paolo Romani alla commissione Lavori pubblici e Comunicazioni (alla Camera dovrebbe spuntarla il Pd Mi-chele Meta). Poi ci sono altri nomi sparsi, come quello - sorprendente - di Daniele Capezzone alla Finanze, posto di assoluto rilievo, di Guglielmo Epifani alle Attività produttive, di Ermete Realacci all’Ambiente, delle ex ministre Maria Stella Gelmini alla Cultura (col renziano Andrea Marcucci in Senato) e Anna Ma-ria Bernini alle Politiche comunitarie, di Beppe Fioroni (o Rosa Calipari) alla Difesa.
In alto mare, invece, la trattativa tra le opposizioni per le commissioni di Vigilanza. Difficile che il Movimento 5 Stelle strappi sia la Vigilanza Rai che il Copasir (controllo sui servizi segreti) per cui ha protestato ieri rivendicandoli in quanto “unica opposizione”: probabile che ottenga la prima per Roberto Fico, mentre per il secondo si fa il nome di Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia ha votato contro il governo Letta). Così fosse, al M5S potrebbe toccare anche una delle quattro Giunte – due Autorizzazioni e due Elezioni - che spettano alla minoranza: le altre tre, in questo scenario, andrebbero alla Lega (due) e a Sel (una).

Repubblica 7.5.13
Diktat Pdl sulla giustizia e il Pd cede a Nitto Palma
di Francesco Bei


L’ACCORDO c’è, nonostante i forti mal di pancia all’interno del Pd. E così Francesco Nitto Palma, ex Guardasigilli di Berlusconi, amico di Nicola Cosentino, quello che tentò fino all’ultimo di ricandidarlo per evitargli la galera, oggi sarà eletto presidente della commissione Giustizia del Senato. Con i voti del centrosinistra. L’ex magistrato del porto delle nebbie è il boccone più amaro da ingoiare per il Pd. Ma nemmeno tre giorni di trattativa con il coltello fra i denti (portata avanti dai capigruppo Zanda e Speranza) sono stati sufficienti per far desistere il Cavaliere dal suo obiettivo.
BERLUSCONI era partito puntando ancora più in alto: «Voglio la Giustizia e le Comunicazioni». Le due caselle chiave per tutelare gli interessi suoi e delle sue aziende. I nomi portati ieri mattina al tavolo della trattativa dai due capigruppo Pdl, Brunetta e Schifani, erano quelli di Paolo Romani alla commissione Lavori pubblici e telecomunicazioni e, appunto, Nitto Palma alla Giustizia. «Impossibile», hanno spiegato Zanda e Speranza. «Inaccettabili», hanno insistito. «Con il voto segreto c’è il rischio che i nostri li impallinino unendosi ai grillini», hanno provato ad argomentare. Nulla da fare. In contatto con via dell’Umiltà e Arcore, Brunetta e Schifani hanno puntato i piedi: «O Romani o Nitto Palma, almeno uno dei due dovete darcelo». Tutto il pomeriggio è andato avanti così, con telefonate e incontri per provare a superare questo stallo.
Alla fine, a malincuore, il Pd ha ceduto su Nitto Palma, il braccio destro di Alfredo Biondi a via Arenula all’epoca del decreto “salvaladri” nel 1994. Convinto da Cesare Previti a lanciarsi in politica. In cambio la presidenza della commissione Giustizia della Camera andrà alla fioroniana Donatella Ferranti. E a palazzo Madama l’ex ministro Paolo Romani, altra bestia nera del Pd perché considerato la “longa manus” del Cavaliere, dovrà rinunciare alla presidenza della commissione Lavori Pubblici e Tlc. Al suo posto andrà Altero Matteoli, ex An con estimatori anche a sinistra. L’indicazione di Donatella Ferranti alla Giustizia comporta inoltre il “sacrificio” di Beppe Fioroni, visto che il manuale Cencelli del Pd non prevede due presidenze per la sua area. E Fioroni, in corsa per la Scuola o la Salute, fa un passo indietro: «Con il mio gesto — si sfoga in serata con un amico — ho salvato un minimo di decenza a un partito che non sempre ce l’ha».
Risolta la grana principale, il resto delle presidenze sta andando in buca senza troppi scossoni. L’unico scoglio nella maggioranza sono i montiani, che reclamano due presidenze alla Camera e due al Senato. Ma Pdl e Pd sono concordi nel dargliene una soltanto. Quanto alle commissioni più importanti, lo schema dovrebbe essere questo: alla Affari costituzionali del Senato Anna Finocchiaro, alla Camera Francesco Sisto (vicino a Raffaele Fitto, la soffia al Pd Gianclaudio Bressa); la Esteri a palazzo Madama vede in arrivo Pier Ferdinando Casini, a Montecitorio l’ex capogruppo Fabrizio Cicchitto; per la commissione Bilancio, il senatore Pdl Antonio Azzolini farà da contraltare alla Camera al lettiano Francesco Boccia; new entry alle Attività produttive di palazzo Madama dovrebbe essere l’ex vicedirettore del Corriere Massimo Mucchetti, eletto con il Pd. Il suo dirimpettaio dovrebbe essere Daniele Capezzone, ma si parla dell’ex portavoce del Pdl anche come presidente della Finanze. Chi rischia di restare a bocca
asciutta è il Centro democratico, che aspirava a una presidenza di area economica per Bruno Tabacci. Anche i socialisti di Nencini non sono contemplati per le presidenze. Al Lavoro andranno il senatore Maurizio Sacconi del Pdl e il deputato Cesare Damiano (Pd, vicino alla Cgil); alla Cultura il senatore renziano Andrea Marcucci e l’ex ministro Maria Stella Gelmini. Quanto alle Bicamerali, che non saranno decise oggi, avanza la candidatura di Rosy Bindi per l’Antimafia, di Claudio Fava per il Copasir e del grillino Roberto Fico per la vigilanza Rai. I 5stelle, scrive l’Agi, avrebbero avanzato la richiesta di una vicepresidenza per ogni commissione.
Si è continuato a discutere ieri anche della Convenzione per le riforme, incagliata sullo scoglio della presidenza a Berlusconi. Un macigno davvero impossibile da superare per il Pd. Per questo la Convenzione starebbe finendo nell’archivio dei sogni impossibili, fallita ancora prima di cominciare. Un indizio ulteriore che sia questa la strada è arrivato dal nome — quello di Anna Finocchiaro — scelto dal Pd per guidare la commissione affari costituzionali di palazzo Madama. Una candidatura forte (sarebbe dovuta essere eletta presidente del Senato) per la commissione che dovrà iniziare il dibattito sulla riforma della Costituzione.

Repubblica 7.5.13
Mineo, dissidente pd: “È come mettere la volpe a guardia del pollaio, un insulto a chi ha votato per il rinnovamento”
“Osceno l’accordo sugli ex ministri di Silvio più che larghe intese sono ampie divisioni”

intervista di F. B.

ROMA — Corradino Mineo, ex direttore di Rainews24 e ora senatore del Pd, è a cena quando lo raggiunge la notizia che il suo partito avrebbe chiuso l’accordo con il Pdl sulle commissioni parlamentari. A Berlusconi le presidenze della commissione Giustizia e di quella Lavori Pubblici di palazzo Madama, che ha la competenza sulle Comunicazioni. Ovvero sulle televisioni. A Mineo va di traverso il boccone.
È così, se ne faccia una ragione. Amareggiato?
«Amareggiato per una modestissima trattativa partitocratica? Non ci penso neppure. Anche perché vedo grandi spazi per lanciare una politica diversa».
Diversa dalle larghe intese?
«Più che il governo delle larghe intese mi pare che questo stia diventando il governo delle ampie divisioni. Ha visto lo scontro sul ministro Kyenge?».
Stiamo al tema, le presidenze delle commissioni. A quest’ora si fanno i nomi di Nitto Palma alla Giustizia e Paolo Romani alle Comunicazioni. Che ne dice?
«Non ci credo. Questi due nomi sono un insulto a tutti quegli italiani che hanno chiesto, con il loro voto, un rinnovamento della politica e un sistema dei media liberato dagli interessi oligopolistici».
Una provocazione dunque?
«Esatto, una provocazione. Di più: Nitto Palma è quello che vorrebbe mettere la mordacchia ai giornalisti e pensa che la magistratura non debba disturbare il manovratore. Immaginare di eleggere l’ex Guardasigilli di Berlusconi alla Giustizia per me è una proposta oscena».
Per lei non è potabile.
«Per me no».
E Romani?
«Uguale. Una barzelletta: la volpe a guardia del pollaio! È l’uomo che dava ordini alla Rai per conto di Berlusconi. Ma di che vogliamo discutere?»
C’è il voto segreto, potrebbero non passare nelle votazioni...
«Con una maggioranza così larga la vedo difficile. Ma, le ripeto, non me ne importa più di tanto».
Prima si indigna poi se ne lava le mani?
«Ma no, è che guardo oltre questo accordicchio. Pensando più in grande, non mi pare che questo governo sia in grado di far scendere una coltre di ghiaccio sul paese. Ci sono tante cose da fare in Parlamento, a partire dallo ius soli».
E il conflitto di interessi?
«Certamente, anche quello. Anzi proprio una legge severa sul conflitto di interessi può essere la migliore risposta a questa provocazione delle commissioni».
Senta Mineo, il Pd ha fatto un accordo con il Pdl per il governo. Perché mai non dovrebbe farlo per le presidenze di commissione?
«Infatti questo mostriciattolo è solo l’epifenomeno di un problema più generale. Che nasce il giorno in cui sono andati in ginocchio a chiedere a Napolitano di ricandidarsi. Io ero contrario, come si sa».
Lei in quale commissione andrà?
«Sarei andato volentieri nella Affari costituzionali, ma pare che non ne sia degno. Allora mi metteranno alla Cultura. Ora voglio proprio vedere cosa accadrà sulle commissioni bicamerali. Me lo devono dire in faccia che non vado bene per la Vigilanza Rai».
(f. bei)

l’Unità 7.5.13
Cie, per gli stranieri un «diritto» speciale
Isolamento preventivo, pene più severe per i ribelli, questo prevede il documento del ministero dell’Interno
di Flore Murard-Yovanovitch


La gravissima crisi istituzionale ha risvolti ancora più bui di quelli ben noti. Il governo «tecnico» dimissionario ha lasciato in eredità alla nuova legislatura un «Documento programmatico» sui Centri di Identificazione ed Espulsione, che raccoglie le conclusioni, finora non smentite, di una «task-force» ministeriale istituita nel giugno 2012, dalla ministra Annamaria Cancellieri. Non è la prima volta che un governo decide di disporre di un’indagine sui Cie italiani, come la «Commissione De Mistura» del 2006. Ma mentre essa aveva analizzato sistematicamente tutte le criticità e concludeva per il «superamento» degli allora Cpta attraverso il loro svuotamento, l’attuale «task-force», composta esclusivamente da funzionari dell’Interno che hanno lavorato in assoluta segretezza, ignora in toto le conclusioni della precedente Commissione, anzi vuole incrementare il numero di centri di detenzione sul territorio nazionale. Ed inasprire il trattenimento amministrativo dei migranti in luoghi, che, da anni, giuristi autorevoli, associazioni ed alcuni esponenti politici, denunciano come di “non diritto” e di palese violazione dei diritti. Dietro un programma ammantato di tecnicismo, si cela in realtà una vera e propria rivendicazione ideologica dei Cie.
Ignorando il fallimento del sistema Cie e le lesioni inflitte ai diritti fondamentali dei migranti, il ministero dell’Interno individua l’unica criticità dei Cie nella sola condotta delle persone trattenute. I Cie risulterebbero inoltre «indispensabili per un’efficace gestione dell’immigrazione irregolare», trascurando l’inefficacia in qui versano i Cie. Nel 2012, dei 7.944 migranti trattenuti nei 13 Cie operativi in Italia, solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) quindi del 50,54%. Lo stato di sovraesposizione sarebbe imputabile all’alibi della Primavera araba, allorché proprio maghrebini e tunisini furono oggetto di respingimenti illegali. Inesattezze, analisi distorta della realtà, quando non vere e propri errori in materia giuridica. A leggere il documento, sembra redatto con l’obiettivo di leggittimare il sistema, a fronte delle puntuali e autorevoli critiche avanzate dalla cultura giuridica.
Il “rapporto” guidato dal sottosegretario Saverio Ruperto si fa anche scappare alcune candide confessioni sulle scelte compiute nel 2011 dal governo italiano: «L’estensione temporale (a 18 mesi) era giustificata... dall’esigenza di scoraggiare il calcolo di convenienza spesso compiuto dagli stranieri trattenuti (...)», cioè la mera ammissione di una funzione special-preventiva del trattenimento, che è propria della pena in senso stretto, nonché la confessione della violazione della Direttiva Rimpatri. Mentre il trattenimento nel Cie non ha (non dovrebbe avere, secondo la legge) finalità punitiva, né le pene possono essere irrogate senza crimini e senza giudizio... Principi caposaldi dell’ordinamento democratico che nei Cie trova la sua negazione.
«PREVENIRE LE SOMMOSSE»
Ma vi è un aspetto più inquietante ancora sul quale quel documento interno insisterebbe: la necessità di prevenire e domare le sommosse, isolando i «rivoltosi» e addirittura «potenziali rivoltosi» in appositi spazi «moduli idonei ad ospitare persone dell’indole non pacifica» (si passa sui concetti di filiazione lombrosiana). Se l’uso di «celle d’isolamento» a fini di pestaggi mirati e i trasferimenti dopo le azioni di protesta sono sempre stati documentati (Fulvio Vassallo Paleologo), quella prassi viene ormai formalizzata come «soluzione» anche preventiva. Aree speciali per detenuti speciali in carceri speciali...
Lo studio programmatico suggerisce persino interventi normativi, come quello di inserire un’aggravante specifica per i reati commessi all’interno dei Cie: la «ribellione» nei Cie, verrebbe equiparata ai crimini meritevoli di un surplus di pena. Come denuncia l’Asgi l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione -, «il documento sembra ignorare che i reati in questione sono tutti già previsti dal codice penale e dunque mostra di volere implementare quel diritto speciale degli stranieri che viola, clamorosamente, i principi ordinamentali italiani».
La Campagna LasciateCIEentrare, e tutte le associazioni che ne compongono il comitato promotore, intanto, chiedono che il ministero dell’Interno e le istituzioni governative e parlamentari non tengano conto del Documento Programmatico sui Cie e chiama una conferenza nazionale. A noi che entriamo nei Cie, che abbiamo visto le gabbie per «animali umani», questo documento fa rabbrividire, perché formalizza e leggitima la prassi segregazionista e razzista, la violenza istituzionale, addirittura l’implementazione di un diritto sempre più speciale per gli stranieri. Svela soprattutto la rappresentazione che il ministero dell’Interno ha dell’immigrazione e la matrice culturale alla sua radice: migranti-oggetti-da contenere e domare con una logica persecutoria. No, non è un documento storico della ditattura Pinochet contro i desaparecidos. È stato pensato ed elaborato oggi, contro i migranti, in Italia, proprio nel cuore dell’Europa.

il Fatto 7.5.13
Lo “ius soli”, un’utopia ancora da scrivere
È “nel cuore” di Letta, ma non nel suo ptogramma di governo
Le proposte possibili sono molte
di Corrado Giustiniani


Che un bambino nato in Italia da genitori stranieri sia dichiarato solo per questo immediatamente nostro concittadino, appare giorno dopo giorno un’utopia politica. Reclamata, peraltro, dal 72,1 per cento degli italiani, se ha visto giusto l’Istat, in un’indagine condotta su 8 mila famiglie e diffusa nel corso del 2012. Lo “ius soli” è sì “nel cuore” di Enrico Letta ma non “nel programma su cui il governo ha ottenuto la fiducia”. E quel “farò del mio meglio ma vedremo”, con cui il presidente del Consiglio ha concluso il suo ragionamento sul tema, non è certo un buon viatico per la ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge, che pure vuole andare avanti presentando “nelle prossime settimane” un disegno di legge sulla cittadinanza per le seconde generazioni di immigrati: un milione di ragazzi, il 65 per cento dei quali nati in Italia, che costituiscono oltre il 7 per cento della popolazione scolastica.
Ma, al di là dello “ius soli” integrale di stampo Usa, che del resto non ha riscontro in nessun paese d’Europa, sembra tuttavia concretamente possibile migliorare fortemente la crudele legge 91 del 1992 sulla cittadinanza (approvata all’unanimità dal Parlamento dell’epoca) che impone a un ragazzino nato in Italia di trascorrere 18 anni ininterrotti prima di poter accedere alla cittadinanza. E che, colmo della cattiveria, allo scoccare dei 18 anni non ti concede automaticamente la cittadinanza, come avviene ad esempio in Francia, ma ti dà un anno di tempo per presentare domanda e se scoccano i 19 anni, tanti saluti.
CI SONO alcuni segnali politici che paiono incoraggianti. Il primo viene dal Movimento 5S che ha fatto sapere, con il suo capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi, di essere d’accordo con Cécile “se il bambino è integrato e se respira la cultura del paese”. Un bel passo avanti rispetto a quando Beppe Grillo definì in un suo post “senza senso” lo “ius soli”. E se Roberto Maroni lo definisce con un tweet “una perdurante follia buonista, cui la Lega è da sempre contraria” e il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri giura che “in Italia non passerà mai”, spunta sugli stessi banchi del Pdl una proposta del senatore Carlo Giovanardi per concedere all’inizio della prima elementare la cittadinanza ai bambini nati in Italia quando almeno un genitore straniero fosse da almeno un anno in Italia. Questo, per evitare ad esempio che donne in gravidanza giungano a bella posta a partorire nel nostro paese, come accadeva in Irlanda alla fine degli anni ’90, quando vigeva ancora una legge sullo “ius soli” integrale, poi cambiata in tutta fredda. Giovanardi, che prima la pensava in modo ben diverso, ha annunciato l’immediata presentazione di un disegno di legge in questo senso. L’ex ministro dell’Integrazione Andrea Riccardi compie il percorso opposto: dallo “ius soli” in cui credeva prima, allo “ius culturae”, al quale si è convertito: cittadinanza solo dopo la conclusione di un ciclo scolastico, ha proposto a “Repubblica”. A Giovanardi basta la prima elementare, lui chiede la quinta.
Finora le proposte di riforma presentate dal centro sinistra, sin da quella dell’ultimo governo Prodi, insabbiatasi in Parlamento, hanno lasciato aperti due canali: cittadinanza ai bambini nati in Italia subito, con genitori stranieri sufficientemente integrati, e cioè in condizione regolare e in Italia da almeno cinque anni. E cittadinanza ai bimbi stranieri non nati, ma venuti da piccoli nel nostro paese, al compimento di un intero ciclo di studi. E in Europa, quali sono le regole?
IN FRANCIA ci sono tre possibilità: cittadinanza automatica a 18 anni, se i giovani qui nati vi hanno tenuto la loro residenza, continua o discontinua, per almeno cinque anni dagli 11 in poi. A 16 anni, se l’interessato ne fa domanda. A 13 anni, se fanno domanda i genitori, sempre con cinque anni di residenza obbligatoria. In Germania, cittadinanza automatica se un genitore ha il permesso di soggiorno illimitato da almeno tre anni. Nel Regno Unito ci vogliono 10 anni di residenza dopo la nascita senza assentarsi per più di 90 giorni. Resta da vedere cosa esattamente proporrà Cécile Kyenge e se il governo avrà la voglia e la forza di appoggiarla.

Corriere 7.5.13
I diritti dei bimbi e le risse inutili
di Gian Antonio Stella


Cécile Kyenge, che vive la nomina a ministro dell'Integrazione con una certa euforica loquacità, è riuscita a farsi bacchettare perfino dal presidente dei medici stranieri in Italia, Foad Aodi. Il quale le ha raccomandato di muoversi «con cautela». Un passo alla volta. Partendo «dalle cose che uniscono e non da quelle che dividono». Parole d'oro. A mettere troppa carne al fuoco, com'è noto, si rischia di bruciare tutto.
Il tema centrale, gli altri vengono dopo, è quello sollevato da Giorgio Napolitano quando si augurò che «in Parlamento si possa affrontare la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati. Negarla è un'autentica follia, un'assurdità. I bambini hanno questa aspirazione». Verissimo. Ed è uno dei temi che possono unire. Purché, appunto, lo si faccia nel modo giusto. Annunciare genericamente il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli, cioè dalla cittadinanza ereditata dai genitori a quella riconosciuta automaticamente a chi nasce qui, senza spiegare bene «come» e con quali regole, è un errore.
Per carità, le reazioni isteriche di razzisti del web o della politica come Mario Borghezio, che si è spinto a parlare di un «governo bongo bongo» e a dire che gli africani «non hanno mai prodotto grandi geni, basta consultare l'enciclopedia di Topolino», ignorando che erano neri ad esempio Esopo e Alexandre Dumas, cioè due dei più grandi e dei più tradotti scrittori di tutti i tempi, andavano messe in conto. I razzisti sono quella roba lì...
Il guaio è che il modo con cui la Kyenge ha annunciato, insieme con tante altre cose, un disegno di legge in «poche settimane» per lo ius soli è stato così spiccio e insieme vago da creare una reazione di inquietudine, se non di ostilità, anche tra molti che danno per ovvia la necessità di cambiare la legge attuale.
In realtà, come hanno spiegato Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio L'evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale, non esiste una ricetta universale. Nell'Europa del Settecento dominava lo ius soli figlio del feudalesimo che legava l'uomo alla terra e al feudatario. E lo ius sanguinis d'origine romana che oggi ci pare egoista verso gli «altri», fu reintrodotto proprio dopo la Rivoluzione Francese. Non è automatico che di qua stiano i buoni e di là i cattivi. In diversi Paesi africani dopo l'indipendenza, Congo compreso, chi aveva lo ius soli l'abolì all'istante per passare allo ius sanguinis prevedendo in vari casi l'«obbligo» di pelle nera. Una reazione forse comprensibile dopo il colonialismo ma, piaccia o no, razzista.
Certo è che, stando ai numeri, buona parte dei Paesi civili ha seguito da mezzo secolo in qua un percorso abbastanza comune verso l'approdo più sensato: il sistema misto. Nel 1948 lo ius soli, scrivono le due studiose citate, «risulta applicato nel 47% circa dei Paesi (76 su 162), lo ius sanguinis nel 41% (67 Paesi)» mentre il misto è adottato nel restante 12%. Tra i Paesi dove i nati sul suolo patrio erano subito cittadini c'erano «gli Stati Uniti, il Canada, tutti i Paesi dell'Oceania, la maggior parte dei Paesi dell'America Latina, le colonie inglesi e portoghesi in Africa e Asia e, in Europa, Regno Unito, Irlanda e Portogallo».
Oggi non è più così: solo gli Usa hanno mantenuto di fatto lo ius soli integrale. Gli altri, davanti alle grandi ondate migratorie che rischiavano di scatenare reazioni xenofobe difficili da gestire e dunque negative per gli stessi immigrati, hanno preferito introdurre nuove regole. Esattamente come altri Paesi dove valeva lo ius sanguinis ed erano in imbarazzo nei confronti di tanti cittadini nati e cresciuti lì, hanno seguito il percorso opposto andando loro pure verso il misto. Cioè il riconoscimento della cittadinanza grazie al doppio ius soli (ai figli di chi già era nato sul posto) o a precise norme, più o meno restrittive (esempio tedesco: dopo 8 anni di residenza dei genitori) che garantiscano a chi è nato sul luogo la certezza di diventare un cittadino per un diritto e non per concessione di questa o quella autorità. Fatto sta che se nel 2001 erano ancora legati allo ius sanguinis il 69% dei Paesi africani, l'83% di quelli asiatici, l'89% di quelli latino-americani, l'Europa in gran parte era già passata al «misto». Che via via ha visto aggregarsi l'Irlanda, il Portogallo, la Grecia... Insomma, i bambini nati in Italia che frequentano le nostre scuole e parlano solo italiano e cantano l'inno di Mameli e magari vincono come Lihao Zhang il premio Voghera per la poesia dialettale lombarda, aspettano da tempo una risposta. E se rispettano le regole hanno diritto a diventare italiani. Ma proprio per riconoscere loro questo diritto occorre stare alla larga da improvvise forzature solitarie. E soprattutto da certe ambiguità che eccitano le risse e non aiutano il dialogo.

Corriere 7.5.13
Lo «ius soli» nei Paesi europei non basta per diventare cittadini
Oltre alla nascita entro i confini servono altri requisiti
di Alessandra Arachi


ROMA — Sono più di vent'anni che in Italia si parla di ius soli. Da quando, cioè, venne varata la legge sulla cittadinanza, tutta basata sullo ius sanguinis. Ovvero: non importa se sei nato in Italia, si diventa cittadini italiani soltanto se si hanno genitori italiani. Oppure se si aspetta di compiere diciotto anni, come è successo a Mario Balotelli, l'italiano nero più famoso d'Italia.
L'italiano al quale Cécile Kyenge, ministro per l'Integrazione, ha chiesto aiuto per diventare testimonial del suo progetto, il primo del suo dicastero: un decreto per far diventare legge lo ius soli. Super Mario ha accettato immediatamente. Nel Paese si è aperta la polemica, nonostante la benedizione del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova: «La cittadinanza è uno dei diritti umani che deve essere riconosciuto certamente alle persone che approdano nel nostro Paese», anche se «spetta alla politica decidere la formula».
Diritto di terra o diritto di sangue? In Europa non c'è nessun Paese che adotta lo ius soli nel senso puro del termine, così cioè come viene adottato negli Stati Uniti: se nasci in America diventi americano. Punto. In Europa bisogna andare nella cattolica Irlanda o nella liberal Germania per trovare un diritto di cittadinanza che leghi il minore straniero alla terra in maniera un po' più decisa.
Per capire: in Irlanda si diventa irlandesi se si nasce da genitori irlandesi. Ma se i genitori sono stranieri basta che uno dei due risieda nel Paese da almeno tre anni prima della nascita del figlio che il bimbo può ottenere la cittadinanza. In Germania la procedura non è molto diversa: uno dei due genitori deve vivere nel Paese da almeno otto anni e avere un permesso permanente da almeno tre. Molto diverso che da noi.
Da noi Mario Balotelli è potuto diventare italiano perché era nato in Italia, ma sarebbero bastati forse pochi mesi di ritardo perché anche super Mario entrasse in quella trafila di richiesta di cittadinanza che sembra non finire mai.
Se lo ius soli diventasse legge, ogni anno avremmo circa 80 mila nuovi bambini italiani. Poi ci sarebbero altri quasi 600 mila minori che sono nati in Italia e potrebbero sognare una cittadinanza «retroattiva», grazie al nuovo decreto. Ma nel frattempo sono altre migliaia e migliaia gli stranieri che, arrivati in Italia bambini, hanno aspettato dieci anni per chiedere la cittadinanza e adesso attendono inutilmente di ottenerla, nonostante tutti i requisiti corrispondenti.
I nostri cugini oltremanica sono decisamente più morbidi. In Gran Bretagna per acquisire la cittadinanza si deve nascere in territorio britannico anche da un solo genitore che sia legalmente residente nel Paese in modo stabile. In Francia vale il doppio ius soli: ovvero se sei straniero nato da genitori stranieri già nati in Francia la cittadinanza è molto più facile.
Forse solamente gli svizzeri in Europa sono più severi di noi: qui la naturalizzazione è possibile solo dopo dodici anni di residenza stabile. E se ieri i deputati di Scelta civica Mario Marazziti e Milena Santerini hanno presentato una proposta di legge per uno «ius soli temperato» (sul modello tedesco e irlandese) e uno «ius culturae» (legato cioè alla formazione del minore), il governatore del Veneto il leghista Luca Zaia si è fatto alfiere di una visione moderata del suo partito che ha criticato lo ius soli da quando il ministro Kyenge lo ha proposto.
Zaia sostiene lo ius sanguinis, tuttavia non è contrario a dare la cittadinanza italiana a un immigrato «ma la deve avere sulla base di presupposti oggettivi», mentre l'ex ministro del Pdl alla Famiglia, il senatore Carlo Giovanardi apre inaspettatamente allo ius soli. Dice Giovanardi: «Una proposta che avanzo contenuta in un disegno di legge che sto presentando al Senato, è quella di concedere la cittadinanza al bambino, nato in Italia da genitori extracomunitari, uno dei quali già dimorante in Italia da almeno un anno, se dopo la nascita risiede legalmente in Italia, al momento dell'iscrizione alla scuola dell'obbligo».
Ha scatenato molte polemiche un post su Facebook del consigliere comunale della Lega per la Toscana a Prato, Emilio Paradiso, il quale ha definito il ministro per l'integrazione Kyenge «nero di Seppia». «Voleva solo essere una battuta satirica», ha tentato poi di spiegare il leghista.

il Fatto 7.5.13
Noi e loro
Kyenge e Boldrini donne “insopportabili”
di Maurizio Chierici


HA RAGIONE Schifani: il ministro Cecile Kyenge si è montata la testa. Quell’annuncio sul decreto legge non concordato. L’ex presidente del Senato le dà lezione di bon ton: “Non si possono fare proclami solitari senza che gli argomenti siano discussi e concordati in ambito collegiale”. Respirano le signore in parlamento con lo shampoo Pdl: altrimenti dove andiamo a finire ? Traduco per il milione di ragazzi stranieri nati in Italia: “Concordare in ambito collegiale” vuol dire che i parlamentari impegnati a sostenere il governo (incollato con lo scotch) devono adeguarsi al pensiero unico. Pazienza per l’attesa lunga 18 anni che diventano 22, 23, 25: le polizie indagano, le burocrazie dormono. Se hanno attraversato infanzia e adolescenza col candore dei figli di Maria, noi ariani li consacreremo quasi italiani. Attenzione: 18 anni senza movide, incidenti stradali, proibito alzare il gomito altrimenti impossibile accoglierli nella società armoniosa che gli Schifani di ogni stagione hanno disegnato senza ruberie. Prima di tutto la signora deve spiegare com’è sbarcata clandestina in Italia. Legittima richiesta dell’ inventore delle ronde anti stranieri: Borghezio interpreta “i sentimenti di chi non ne può più”. Con qualche disattenzione, colpa della vita su e giù per l’Europa. Non sa che il ministro Kyenge non ha attraversato il mare nella carretta dei disperati ma con la borsa di studio dell’università del Sacro Cuore. Il via vai lo fa pasticciare. Una volta la polizia lo pesca alla frontiera con la cartolina di Ordine Nuovo indirizzata “al bastardo Luciano Violante”: svastiche, viva Hitler e il messaggio “uno, dieci, mille Occorsio”, Vittorio Occorsio assassinato mentre indagava sul terrorismo nero. La difesa della razza continua. E si allarga all’altra donna che alla Camera “rompe i coglioni”: Laura Boldrini, presidente. Borghezio scoppia: “Fancazzista. Finge di interessarsi ai profughi mentre dorme negli alberghi a 5 stelle. C’è sempre qualche stronza di turno che ricatta i governi…”.
PRIMO sasso della grandinata. Che dilaga grazie ai poveri di spirito: minacce e dileggi. Rete trasformata nei muri dei gabinetti di stazioni e autostrade dove gli idioti sfogano il niente nelle parolacce. Colpa della Boldrini è l’aver vissuto fra la gente che scappa. Ne ha condiviso il dolore organizzato da complicità che le democrazie seppelliscono nei segreti: tragedie delle tendopoli, bambini come scheletri, donne e uomini senza speranza. L’Italia è solo l’angolo buio di una trama atlantica dall’aria innocente. Una donna (santo cielo, una donna) non sopporta il silenzio. Ma gli insulti degli apripista Borghezio diventano coriandoli appena la terza carica del paese pretende di aprire gli archivi per dare aria ai segreti di stato. Mafie e politica, obbedienze alle potenze “dell’occidente cristiano”. E affari, sempre affari. Eterni “sì”per i miliardi da spendere magari negli F35 con testata nucleare. La Boldrini vuol sapere troppo. Diventa pericolosa, e allora dai.

il Fatto 7.5.13
Accadde in Sicilia
Mafia, Andreotti era colpevole ma tutti in coro gridarono: “Assolto”
La sentenza d’Appello, confermata in Cassazione, stabilì che il reato fu “commesso fino alla primavera del 1980”. Lo salva la prescrizione
Dalla P2 a Pecorelli il suo nome non manca mai
Le trame golpiste del generale De Lorenzo, i rapporti con Gelli e Sindona, gli Omicidi di Ambrosoli e Della Chiesa. Tra i protagonisti c’è sempre il Divo
L’ex Procuratore di Palermo
“Prove sicure e riscontrate ridicolo parlare di teorema”
di Gian Carlo Caselli


Sul piano umano, la morte merita sempre rispetto. Dell’attività politica del sen. Andreotti non posso parlare perché non ne ho titolo. Posso invece parlare del processo di Palermo, avviato dalla Procura di quella città quando ne ero a capo, che l’ha visto imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino all’80 è stato dichiarato colpevole, per aver COMMESSO il reato contestatogli. È evidente che chi parla di assoluzione anche per i fatti prima del 1980 è completamente fuori della realtà. Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980.
PROCESSUALMENTE è questa la verità definitiva ed irrevocabile. La Corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati – con altre decisive parti dell’impianto accusatorio – due incontri del senatore, in Sicilia, con Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra.
Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro), un “pentito” rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non denunciò le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Piersanti Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”. In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Fissiamo altri punti: fecero ricorso in Cassazione sia l’accusa che la difesa. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980. Mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste.
La prescrizione è rinunciabile, ma l’imputato non lo fece, convinto che sarebbe stato assolto anche per i fatti fino al 1980, ma la Cassazione gli diede torto.
La formula “reato COMMESSO” è nel dispositivo della sentenza d’appello. Sono 10 semplici righe. Sarebbe bastato leggerle per cancellare ogni dubbio.
INVECE la verità è stata stravolta o nascosta: il popolo italiano – in nome del quale le sentenze vengono emesse – è stato truffato. Buscetta (che di Andreotti non volle parlare a Falcone: “Sennò ci prendono per pazzi”) in realtà ne aveva già parlato nel 1985 al pm Usa Richard Martin, che confermò la circostanza (sotto giuramento) in pubblica udienza del processo Andreotti. Con il che diventa ridicola qualunque accusa di “teorema”. Con una sorta di distrazione di massa per cancellare la verità, le cronache (invece che sugli incontri con Bontade) si incentrarono pressoché esclusivamente sul “bacio”, che la Corte ritenne non riscontrato ma senza denunciare per calunnia chi ne aveva parlato. Ricorrendone tutti i presupposti, la Procura esercitò l’azione penale, che è obbligatoria. Non farlo sarebbe stato illegale, disonesto e vile. Nessuno quindi ha mai pensato di riscrivere la storia d’Italia. Chi ha nascosto la verità e non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il consenso, ha reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro Paese.

Repubblica 7.5.13
Il procuratore che portò Andreotti in tribunale: i giudici lo hanno dichiarato colpevole fino al 1980
Caselli: rapporti provati coi boss è stato salvato dalla prescrizione
di Paolo Griseri


TORINO — Un conto è «il doveroso rispetto per la morte di un uomo, un altro è il giudizio storico e giudiziario. E su questo le carte parlano chiaro». Dice così Giancarlo Caselli, l’uomo che, da Procuratore capo di Palermo, fece processare Giulio Andreotti per associazione mafiosa determinando, di fatto, la conclusione della sua carriera politica.
Dottor Caselli, è arrivato il momento di tirare le somme. Qual è il suo giudizio su Giulio Andreotti?
«Un uomo che muore merita sempre rispetto e pietà umana».
Detto questo, chi era Andreotti? Quando lo ha incontrato la prima volta?
«Fu in Puglia. Era il 1964. Io prestavo servizio militare. Al termine di una esercitazione ci passarono in rassegna su di una jeep varie autorità tra cui Andreotti. Lo vidi così, da lontano».
L’incontro successivo?
«A parte le circostanze occasionali, al processo a Palermo».
Voi della Procura di Palermo foste accusati di aver attaccato un politico di primo piano senza prove. Tant’è che Andreotti venne assolto. Non è così?
«Non è assolutamente così. E la storia di Andreotti scagionato è una pagina non bella nella vicenda politica e giornalistica italiana. Noi portammo a processo il senatore Andreotti in base a plurimi elementi di prova. In particolare le dichiarazioni un collaboratore di giustizia, Francesco Marino Mannoia, che narrò di due incontri (di uno era stato testimone oculare), avvenuti in Sicilia tra lo stesso Andreotti e Stefano Bontade. Incontri che avevano per oggetto, com’è scritto nella sentenza di appello confermata in Cassazione, “la discussione di fatti gravissimi in relazione alla delicatissima questione di Piersanti Mattarella”».
Mattarella, capo della Dc siciliana, venne ucciso dalla mafia. Che cosa c’entrava Andreotti?
«Mannoia raccontò che il senatore era andato una prima volta da Bontade per cercare di far cessare le intimidazioni mafiose contro Mattarella, politico onesto che la mafia aveva deciso di uccidere. E una seconda volta Andreotti incontrò Bontade per chiedere ragione dell’assassinio di Mattarella che si era verificato qualche tempo prima. In nessuno dei due casi Andreotti, a conoscenza di circostanze gravissime sull’assassinio di Mattarella, informò mai la magistratura e gli inquirenti».
E allora per quale motivo fu assolto?
«L’assoluzione riguarda soltanto i fatti successivi al 1980. Per i gravi fatti commessi fino a quella data Andreotti è stato riconosciuto colpevole di associazione per delinquere con la mafia. Solo che il reato venne prescritto. Tant’è che lo stesso Andreotti fece ricorso contro la sentenza di appello. In cinquant’anni di magistratura non ho mai visto un imputato ricorrere contro la sua assoluzione».
Quella prescrizione vale anche per l’episodio del bacio a Totò Riina?
«Quell’episodio, narrato dal collaboratore Balduccio Di Maggio, non venne ritenuto sufficientemente riscontrato dai magistrati giudicanti che però non denunciarono mai Di Maggio per calunnia».
Dopo gli anni del processo lei non ebbe più occasione di incontrare Andreotti?
«Non l’ho mai più incontrato».
Né le ha mai indirizzato messaggi?
«No. A meno che non vogliamo considerare un messaggio la nota dichiarazione per cui sarebbe stato meglio se il sottoscritto e Luciano Violante non fossimo mai nati».

il Fatto 7.5.13
Un cardinale laico che ha attraversato 7 pontificati
di Marco Politi


Dieci giorni prima del varo del governo di solidarietà nazionale, che comprende il Pci (e che coinciderà con il rapimento di Aldo Moro da parte delle Br, 16 marzo 1978) Giulio Andreotti sogna Togliatti. “Vestiva di grigio – scrive nei suoi diari – Gli ho chiesto come stesse e mi ha risposto: ‘Lassù non mi hanno trattato male’”. C’è tutto Andreotti nel racconto di questa visione. Il rapporto pacato con l’avversario politico – un nemico con cui si può sempre trattare – il costante collegamento con i Cieli, da cui perviene l’assicurazione indiretta che il comunista non è all’inferno, l’atmosfera fredda, controllata che tinge di grigio minimalista un passaggio difficilissimo della storia politica italiana.
DI VOLTA IN VOLTA Andreotti è stato descritto come un clericale o il portavoce del Vaticano nella lunga serie di governi di cui è stato ministro o presidente del Consiglio. Etichette che lo definiscono troppo poco. Giulio Andreotti è stato uomo di potere allo stato puro. E poiché era cattolico e poiché nella storia italiana l’unico potere sedimentato da secoli si è condensato nella Curia romana, è stato in massimo grado un gestore del potere secondo i metodi freddi, razionali, tenaci della tradizione curiale. Un cardinale laico, si potrebbe dire, nel solco del curialismo tridentino e della lezione di Machiavelli.
Fra tutti i pontefici che ha frequentato – da Pio XII a Paolo VI, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI, passando per Giovanni Paolo II – il più organico a lui psicologicamente è stato certamente papa Pacelli, il supercontrollato gestore di un pontificato politico sino all’unghia, assertore di una Chiesa che si occupa anche delle più piccole chiavi del potere. Grandi o piccoli che fossero, difendeva gli interessi materiali o politici della Chiesa non come un faccendiere, ma come chi fa parte organicamente della sua struttura. Con la stessa cura impassibile, con cui si preoccupava di tutelare i desiderata dei suoi elettori laziali, coltivatori di carciofi. In Vaticano il cardinale a lui più vicino, anzi concretamente “andreottiano”, è stato per lunghi anni il proconsole della Sanità ecclesiastica, Fiorenzo Angelini. Andreotti andava a messa tutte le mattine prima, ma non si troveranno nelle cronache politiche di oltre sessant’anni suoi interventi “cattolici” ideologicamente appassionati. Nei grandi referendum che hanno incendiato l’Italia – quello sul divorzio e quello sull’aborto – è sempre presente dalla parte dei vescovi e della posizione della Democrazia cristiana, ma non si sbraccia mai nelle vesti del crociato. Con freddezza cerca semmai di mediare sino all’ultimo: con Nilde Jotti, del Pci, per evitare il referendum sul divorzio e per quanto riguarda l’aborto sperando di individuare una formula di “aborto terapeutico” trasversalmente accettabile in Parlamento.
COMUNQUE, da presidente del Consiglio, firma nel 1978 la legge sull’aborto. Disciplinatamente Andreotti si allinea, quando il cardinale Ruini lancia la campagna per l’astensione sul referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Benché in un primo momento abbia sostenuto l’importanza di recarsi alle urne, anche se per esprimere il proprio “no” alle modifiche proposte. Ma se la struttura ecclesiastica intima ufficialmente una linea, Andreotti ubbidisce. Mai fare battaglie di principio. Memorabile resta il suo appunto a Pio XII per sconsigliare l’operazione Sturzo, il listone con i fascisti che il pontefice auspica nel 1952 alle elezioni amministrative di Roma. Mentre De Gasperi si lacera nella sua coscienza di cattolico democratico, Andreotti elenca impassibile al Papa i motivi per cui il Movimento sociale acquisterebbe troppo spazio in Italia, finendo per indebolire la Dc e quindi il potere della Chiesa. Il ragionamento, di puro potere, convince Pio XII. Afascista, Andreotti assorbe nella sua Dc i quadri statali compromessi con il fascismo, evitando alla Chiesa scomodi esami di coscienza sui rapporti con il Duce. Cattolico moderato, si allea con Cl negli anni Ottanta per rafforzare la sua corrente in seno alla Dc. Anticomunista, tratta – quando necessario – con il Pci e con i sovietici. Sempre in costante collegamento con le gerarchie vaticane passa indenne attraverso gli scandali più oscuri. Da venti anni dirigeva il mensile 30 Giorni, che circola negli ambienti ecclesiastici e diplomatici. Lì distilla la sua esperienza di politica internazionale, anche pungolando inerzie vaticane. Fino all’ultimo suona l’allarme contro un’aggressione israeliana all’Iran.

La Stampa 7.5.13
Il “Cardinale esterno” che dava consigli ai Papi
Durante il fascismo suggerì a Pio XII di non parlare contro i cattolici comunisti
di Andrea Tornielli


Non un politico cattolico, ma un «cardinale esterno». È l’illuminante definizione che lo storico Andrea Riccardi ha dato di Giulio Andreotti: «è un cattolico romano, prima di essere un italiano. Ed è un politico che ha usato l’internazionale della Chiesa cattolica come una risorsa; e ne è stato usato». In effetti nel caso del romanissimo Divo Giulio, più che di un «amico» dei preti, si dovrebbe parlare di qualcuno che con il mondo ecclesiastico è vissuto in perfetta osmosi. Da bambino, cresceva in via dei Prefetti ascoltando i racconti della zia Mariannina, che aveva vissuto la presa di Roma del 1870 e gli raccontava di come «alcuni romani, che fino a quel giorno erano stati ostili al Papa, quando venne meno il potere temporale ne divennero apertamente nostalgici». È ancora un bambino, quando riesce a intrufolarsi nei sacri palazzi e mischiandosi a un gruppo di pellegrini in udienza si ritrova a tu per tu con Pio XI.
Andreotti si forma nella Fuci legatissima a Giovanni Battista Montini. Ha una concezione della politica lontana dalle utopie e nel 1942 scrive su «Azione Fucina»: «Accanto a un socialismo ateo c’è, senza dubbio, anche un ateismo – non meno accentuato – del capitalismo egoista, di fronte al quale la condanna è parimenti severa». Il primo Papa che frequenta assiduamente è Pacelli. Nella sua anticamera scrive quasi tutta la tesi di laurea: le attese erano lunghe perché Pio XII lo riceveva per ultimo, alla fine delle udienze, per potergli dedicare più tempo. Con l’austero e ieratico Pontefice il giovane politico ha un rapporto schietto e diretto, un esempio per molti colleghi devoti di ieri e di oggi, sempre pronti alle genuflessioni in cambio di una foto ricordo.
Nel 1943, il Divo Giulio manteneva i rapporti con «Sinistra cristiana» il gruppo di Adriano Ossicini e Franco Rodano, in quel momento incarcerati a Regina Coeli. L’anticomunista Pio XII non guardava certo con simpatia a questo movimento e aveva fatto organizzare una grande riunione di operai nel cortile del Belvedere, in Vaticano. Andreotti si preoccupa che il Papa, ribadendo in quella occasione la condanna verso i comunisti cattolici, possa aggravare la posizione dei politici prigionieri. «Allora mi permisi di far arrivare un appunto al Santo Padre, pregandolo, per piacere, di non parlare in quell’occasione dei comunisti cattolici. E così fu. Pio XII non ne parlò e qualche giorno dopo, durante un’udienza di universitari, mi domandò: “Andava bene? ”, e me lo disse con uno sguardo così severo…».
Tra le libertà che Andeotti si sarebbe preso con Papa Pacelli, una volta diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo De Gasperi, c’è la fulminante risposta riguardante una copertina della rivista La Settimana Incom Illustrata giudicata poco pudica. Pio XII chiese che fosse inoltrata una vibrante protesta alla proprietà: «Ma la proprietaria è la Santa Sede», rispose serafico Giulio al Pontefice che «mostrò di gradire poco la mia dialettica difensiva». Il costante contatto con l’appartamento papale e con il sostituto della Segreteria di Stato Montini, emerge dall’archivio andreottiano, ora riversato all’Istituto Sturzo: è zeppo di corrispondenza, di biglietti, di messaggi con le personalità d’Oltretevere. Il Papa, ad esempio, si rivolge a lui, nel 1950, per far sì che s’interrompa la distribuzione nelle scuole del giornalino comunista «Il Pioniere». Detto, fatto.
Amicissimo di sacerdoti romani che sarebbero divenuti cardinali, come Angelo Felici, Vincenzo Fagiolo e Fiorenzo Angelini, il Divo Giulio è stato un attento testimone dei conclavi. Nell’ottobre 1958, durante la sede vacante, incontra patriarca di Venezia Angelo Roncalli, che gli parla senza giri di parole. Andreotti esce dall’udienza con la certezza che il porporato, fiero delle sue origini bergamasche e contadine, sarà il successore di Papa Pacelli. Così manda un’unica fotografia per la copertina della rivista «Concretezza», chiusa in tipografia prima del conclave, ma pubblicata dopo l’elezione. E con Roncalli, c’azzecca. È sempre ad Andreotti, ricevuto in udienza con la famiglia, che il «Papa buono» confida l’intenzione di convocare il Concilio, tre giorni prima dell’annuncio ufficiale.
Con l’avvento di Paolo VI, nel 1963, diventa Papa colui che aveva formato la generazione di democristiani che governano l’Italia nel dopoguerra. Andreotti cerca di interpretare dagli scranni del governo l’«Ostpolitik» montiniana verso i Paesi della Cortina di ferro. Riceve sofferti biglietti autografi del Pontefice bresciano che si lamenta per la legge sul divorzio. È sempre lui a tenere i contatti con il Vaticano durante i giorni drammatici del sequestro Moro, ricevendo assiduamente la visita di don Pasquale Macchi, il segretario particolare di Montini. Molti anni dopo Andreotti confiderà che il Papa era pronto a pagare dieci miliardi per salvare la vita del presidente della Dc: «Il tramite con cui cercavano di arrivare ai brigatisti era un cappellano delle carceri. Era Paolo VI che si muoveva, io non frapposi alcuna difficoltà».
Nel 1978, al momento dell’elezione del «giovane» cardinale Wojtyla, Giulio racconta di essere rimasto molto colpito. Per la prima volta il Papa eletto «aveva meno anni di me». Tantissime sono le occasioni di contatto e collaborazione, come pure i legami consolidati, ad esempio con monsignor Donato De Bonis, prelato dello Ior. L’inchiesta che lo vede coinvolto con l’accusa di mafia non gli fa venir meno il sostegno dei sacri palazzi. Rimane impresso nella memoria di tutti il gesto pubblico di stima e amicizia dimostrato da Giovanni Paolo II, che al termine della cerimonia di beatificazione di Padre Pio, nel 1998, in piazza San Pietro, saluta e incoraggia in mondovisione l’imputato Giulio Andreotti, in quel momento ancora nel pieno della bufera giudiziaria che lo aveva coinvolto e che lo vedrà successivamente assolto. Anche con Joseph Ratzinger ci sono stati rapporti e scambi epistolari. Dal 1993 fino al luglio 2012, Andreotti ha infatti diretto la rivista internazionale «30Giorni», dedicata alla Chiesa nel mondo, che ha più volte ospitato testi e anteprime del futuro Pontefice.
Quanto alla capacità «profetica», già dimostrata nel 1958, non si deve dimenticare che nel 2000 Andreotti scrisse un libricino fuori commercio regalato agli amici. Un racconto intitolato «1° gennaio 2015», nel quale indovinava il nome del futuro Papa – Benedetto XVI – e si sbilanciava su alcune caratteristiche del nuovo pontificato con cinque anni d’anticipo: «Il latino tornerà ad essere lingua veicolare della chiesa». E non va nemmeno dimenticato che proprio durante gli anni bui dei processi, aveva scritto un altro piccolo libro, «I Quattro del Gesù», prendendo le difese della corrente modernista che all’inizio del secolo scorso era stata condannata. «Cardinale esterno» sì, ma senza alcuna nostalgia per l’Inquisizione.

Repubblica 7.5.13
La leggenda di Belzebù
di Eugenio Scalfari


GIULIO Andreotti è stato il vero – e mai risolto – mistero della prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant’anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno. L’elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all’epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena).
Epoi lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l’arresto del direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, e l’incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti ad una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e, infine, lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.
Ciascuno di questi casi può assumere l’aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.
Quest’uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d’ira o di gioia, non un risentimento percepibile né di odio né di riconoscenza. Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell’immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti, ne fanno un enigma vivente. Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l’immagine d’un alto consigliere della Città Proibita dell’impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto di scorcio dal Tiziano, tra un cardinal de’ Medici e un cardinal Barberini. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.
Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.
Non so se sia stata un’inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l’obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio. È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l’importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.
In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell’inclinazione del carattere di cui abbiamo detto che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, con il Vicariato di Roma e con alcuni dei sostituti della Segreteria.
Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. Ma in alcune cose importanti i due si somigliavano. Per esempio nel radicarsi al centrodestra per meglio aprire sulla sinistra. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d’affari: se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e i suoi Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato.
Ma Moro, proprio perché aveva il gusto della strategia, puntò fin dall’inizio sul partito come strumento indispensabile per attuarli. Andreotti invece sul partito non puntò mai. In un’ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per “apparigliare”, mentre Andreotti è il giocatore “sotto mano” che gioca per “sparigliare”.
Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. Ad eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.
Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il “divo” avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un’epoca tramontata per sempre.
Che possiamo dire oggi di lui se non augurargli che riposi in pace? “Sic transit gloria mundi” oppure “Ai posteri l’ardua sentenza”, ma i posteri sono già tra noi e c’è da scommettere che molti di loro che hanno appena vent’anni non sanno neppure che sia mai esistito.

Emma Bonino

Il ministro degli Esteri, Emma Bonino: “Negli anni in cui è stato alla guida della Farnesina, Andreotti ha fornito un contributo di alto profilo al ruolo dell’Italia nel mondo ed in particolare in Europa, assicurando al nostro Paese un ruolo di primo piano anche alle Nazioni Unite”

Camillo Ruini

“Ho conosciuto Andreotti nell’86, quando sono venuto a Roma. Lui aveva già un notevole ruolo politico. Sono sempre rimasto colpito dalla saggezza, dal senso dell’umorismo e anche dalla sua maniera discreta ma tenace di tenersi agganciato ai valori cristiani. Parlava con tutti: era capace di tenere rapporti a 360°”, conclude Ruini

Romano Prodi
“Esprimo le mie più sentite condoglianze ai familiari del Presidente Giulio Andreotti. Con lui scompare uno statista che ha segnato le fasi più importanti della storia politica e istituzionale del dopoguerra”.

Repubblica 7.5.13
Il dovere di raccontare i fatti


QUANDO si passa dalla propaganda ai fatti, può capitare che le promesse assunte in campagna elettorale si dimostrino irrealizzabili. O almeno non praticabili. Alcuni parlamentari del Movimento 5Stelle, come il “cittadino” Fico, hanno accusato
Repubblica e una sua giornalista, Annalisa Cuzzocrea, di volere «screditare» i grillini. Il motivo? Aver semplicemente raccontato ai lettori che i deputati e i senatori del M5S hanno deciso attraverso un referendum on line di lasciare alla libera scelta di ciascuno se trattenere o meno l’intera diaria e i rimborsi spesa per altri 8.440 euro al mese. A questa cifra va aggiunta la metà dell’indennità di mandato, pari a 5 mila euro lordi (gli altri 5 mila in realtà ancora non si è capito dove finiscano). Questo giornale non punta a «screditare» nessuno ma solo a raccontare i «fatti». L’obiettivo di un cronista è descrivere cosa accade e informare i lettori. Senza piegarsi alla propaganda, di nessuno. E al di là degli insulti, infatti, neanche un grillino - nemmeno il “cittadino” Fico - è riuscito a smentire nel merito quanto è stato scritto. Hanno tentato di impartire qualche goffa lezione di giornalismo. Ma il contenuto dell’articolo non è stato contestato. Perché? Semplicemente perché ha riportato fedelmente i risultati della loro consultazione. Fatti, non propaganda.
(c.t.)

Repubblica 7.5.13
L’Italia delle due crisi
di Massimo L. Salvadori


Ci troviamo appieno nella seconda crisi di sistema — dopo quella dei primi anni ‘90 del secolo scorso — nella storia della Repubblica. Le analogie sono evidenti: l’esplosione dell’indignazione popolare contro fallimentari oligarchie di partito e una dilagante corruzione; grandi sommovimenti all’interno dei partiti; l’irruzione di un nuovo soggetto – allora la Lega, oggi il Movimento 5 stelle – postosi in guerra contro tutti gli altri e investitosi di un compito salvifico; l’ansia di un radicale cambiamento. Ma ecco le differenze. Se nella prima crisi lo sprofondamento della politica si accompagnava ad una situazione critica dell’economia, nella seconda l’emergenza economica si presenta ancora più grave e strutturale; se nella prima aveva toccato un livello molto alto, nella seconda il discredito della politica ha raggiunto un picco ancora maggiore; se nella prima la gente indignata aveva scoperto una corruzione dilagante, nella seconda la nuova Tangentopoli ha svelato un saccheggio delle risorse pubbliche da parte di singoli politici peggiore di quello operato nella precedente; se nella prima allo sbandamento dei partiti aveva fatto seguito una sia pure inadeguata loro riorganizzazione tale da dar vita ad una maggioranza e ad una minoranza parlamentare, nella seconda dalle elezioni sono usciti tre tronconi dalle forze quasi equivalenti l’un contro l’altro armati. Dopo la prima crisi di sistema, nel paese si era diffusa una grande speranza: nella rinascita morale, in una stabilizzazione del sistema politico basata sulla competizione tra due schieramenti che si erano reciprocamente legittimati e sull’alternanza di governo. Ciò che è seguito l’ha completamente delusa. Ora si spera sempre, ma non si sa bene in che cosa.
I prodromi della seconda crisi di sistema sono da rintracciarsi nella guerra scoppiata nella coalizione di governo tra Berlusconi e Fini, che diede la definitiva prova di quanto il posticcio bipolarismo fosse minato dai tarli interni di ciascun schieramento. Si sono succeduti l’aggravamento della situazione economica; il sempre maggiore indebolimento della leadership del Cavaliere e della maggioranza di centrodestra, la caduta del governo; l’avvento dell’esecutivo dei tecnici, la cui barca è andata ad incagliarsi quando il Pdl gli ha fatto mancare la fiducia per motivi elettoralistici volendo svincolarsi dallo scontento per un rigore finanziario non compensato dalla crescita economica; la crescente debolezza di Monti; l’esplodere – un vero e proprio malefico fuoco di artificio – degli enormi scandali che delegittimarono la «casta», pesata spesso ingiustamente all’ingrosso, più di quanto avvenuto vent’anni prima.
Caratteristica tipica delle crisi di sistema è di seminare previsioni e aspettative destinate a risultare fuochi di paglia, facendo largamente perdere il contatto con la realtà. Mentre la crisi era ormai in pieno svolgimento, il Cavaliere veniva dato per fuori gioco e il Pdl e la Lega erano considerati in difficoltà pressoché insormontabili: i pronostici assicuravano una solida vittoria del centrosinistra. Grillo attaccava tutto e tutti, ma la sua protesta, pur dotata di presa crescente, sembrava destinata a restare abbastanza marginale. Così si arrivò alle elezioni del febbraio 2013, senza che anzitutto i due maggiori partiti – non volendo i loro dirigenti, sordi alle esortazioni del capo dello Stato, rinunciare a tenere le chiavi nella formazione delle liste dei candidati – avessero mostrato alcuna determinazione di modificare la legge elettorale «porcata », a parole universalmente deprecata.
La campagna elettorale vide ancora una volta la moltiplicazione dei pani e dei pesci ovvero dei soggetti in competizione. Berlusconi, in maniera che nessuno immaginava, riuscì a ricompattare il suo popolo disperso; Monti “salì in campo” convinto con la sua Scelta civica di poter mietere larghe messi nel campo centrista; il magistrato Ingroia fondò Rivoluzione civile; Grillo condusse la sua battaglia populistica da capo assoluto che esaltava nondimeno la democrazia diretta mediante la rete; Bersani pieno di ottimismo prometteva di dare il definitivo calcio dell’asino al Cavaliere. I risultati elettorali provocarono un terremoto: l’affossamento del pur traballante bipolarismo e l’emergere di un inedito tripolarismo intorno al risorto Pdl, a un mortificato centrosinistra, uscito bensì vincitore ma senza maggioranza al Senato, e a un trionfante Movimento 5 stelle. Al terremoto elettorale se ne accompagnarono tre altri: l’insuccesso di Bersani di dar vita a un esecutivo, l’incapacità dei parlamentari e dei rappresentanti delle regioni di eleggere un nuovo capo dello Stato successore di Napolitano, lo scollamento del Pd entrato in una fase potenzialmente prescissionistica. Un vero «impaludamento del sistema».
Il discorso di Napolitano riconfermato alla presidenza, sostanzialmente feroce nei confronti dell’inettitudine dei partiti, ha messo a nudo in tutta la sua portata la crisi di sistema che ancora una volta sta vivendo la Repubblica. E ora dobbiamo capire se il governo Letta di grandi intese, postosi «al servizio» del paese ma costituito con componenti tanto diverse, segnerà l’inizio della fuoruscita dalla crisi oppure un ulteriore capitolo di essa. Certo è che questo governo non può se non avere una compito limitato, di transizione. Sarà in grado di fare le invocate riforme atte a rinnovare le istituzioni della Repubblica e a favorire il ritorno, su nuove e più solide fondamenta, alla normalità democratica che presuppone l’alternanza al governo di opposti schieramenti?

il Fatto 7.5.13
Siria e gli ultrà di Israele
Poligono e rabbia: una giornata in colonia
di Roberta Zunini


Efrat (Cisgiordania) Il vento fa turbinare la polvere e le sagome si offuscano per qualche secondo. Non è il momento di tirare. Poi il colpo esplode, secco, e centra tra gli occhi il terrorista di cartone. “Quando abitavo a Williamsburg la mia era l’unica famiglia bianca in una via di neri. Mi sono sempre sentito estraneo là e nel 1972, quando ho compiuto diciannove anni ho Alyah (fare ritorno in lingua ebraica) in Israele dove per prima cosa sono entrato in Tsahal, l’esercito per i 3 anni di servizio militare. Allora la leva era obbligatoria, ma anche se non lo fosse stata, avrei servito il mio Paese comunque”. Yisrael Danzinger, ebreo americano, ricorda con astio la sua vita di adolescente nel quartiere di Brooklyn, allora malfamato e pericoloso, oggi centro della movida newyorkese. Mentre parla ricarica l’M16, il mitra più usato dai coloni ebrei della Cisgiordania, da loro chiamata Samaria e Giudea, secondo la Bibbia. L’associazione no profit da lui fondata nel 1988, Mishmeret Yesha – i guardiani di Judeah e Samariah - oggi conta circa 5mila volontari, tutti coloni ovviamente, e ha come obiettivo principale la difesa armata delle colonie e degli avamposti ebraici nei Territori palestinesi. Per questo, organizza corsi di addestramento, in collaborazione con la compagnia di sicurezza Caliber3 (Calibro 3) quando si tratta di far toccare con mano come si difendono le colonie.
Daniela, Sarah e Ruth, ebree americane in tour nei Territori, iniziano così ad armeggiare maldestramente con il calcio di un’enorme pistola nera a doppia canna. Lo sguardo azzurro ghiaccio di Yisrael, circondato da una ragnatela di rughe provocate dal sole e dall’aria secca del deserto, si scioglie in un’espressione di tenerezza per queste ragazze volenterose e così fedeli alla causa da aver pagato circa 150 euro per 5 ore di training (costo per l’addestramento base offerto da Caliber3) ma decisamente incapaci, anche se per nulla intimorite dalla potenza letale di queste armi: si spara ai bersagli con pallottole vere, mica a salve.
Un plus che rende questa “giornata particolare” ancora più elettrizzante, almeno dal loro punto di vista. “Sono le nipoti di amici e vogliono capire come si vive nelle colonie e negli outpost dove siamo costretti a difenderci dai palestinesi 24 ore su 24. Tutti i giorni dell’anno, senza riposo. Siamo sempre in pericolo. Abbiamo appena sepolto un giovane uomo, Evyatar Borowskydi 32 anni, padre di 5 figli che ora cresceranno orfani. Un palestinese, un terrorista, l’ha accoltellato mentre stava aspettando l’autobus, appena fuori dalla colonia dove viveva vicino a Nablus”, racconta Danziger con una smorfia di rabbia, mentre il suo sguardo torna glaciale. “Dopo averlo ammazzato gli ha anche rubato la pistola che aveva nella borsa e ha cercato di sparare ai soldati israeliani che stavano a un check point poco lontano. Non possiamo mai abbassare la guardia”.
Poi aggiunge lapidario che i palestinesi li vogliono tutti morti ma che anche Netanyahu non li ama. “Qualche mese fa i soldati dell’esercito israeliano hanno fatto un’incursione notturna nell’avamposto di Migron e l’hanno distrutto dopo aver sgomberato tutti quanti, anche i bambini sono finiti per strada nel cuore della notte. Ma se pensano che ci arrenderemo si sbagliano di grosso. Netanyahu dovrà passare sul nostro cadavere prima di farci uscire dalle colonie. Da qui non ce ne andremo mai e continueremo ad ampliarle perché questa terra è nostra, come è scritto nella Bibbia”. Mentre ascoltiamo queste affermazioni senza ritorno, arriva Mark, un gigante di 35 anni di origine sudafricana, che ogni anno rientra temporaneamente nell’esercito come riservista volontario.
È UNO DEGLI ISTRUTTORI di Caliber3 oltre che un colono di Efrat, ma ora si sta preparando per diventare rabbino. “I coloni sono come tutte le altre persone, mica siamo delle bestie rare o facciamo cose diverse dagli altri”. Ognuno ha il proprio lavoro. C’è chi fa l’impiegato, chi il medico, chi l’insegnante di matematica o il politico come l’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, sollevato dall’incarico perché in attesa di essere giudicato dai magistrati israeliani per abuso d’ufficio.
Mark continuerà a fare l’istruttore presso Caliber3 per i servizi di sicurezza delle società israeliane e straniere (per questioni di privacy non ci dice quale sia quella italiana che si è rivolta a loro) che vogliono migliorare la resa delle loro guardie private. “Anche se divento rabbino devo pur vivere e mantenere i miei 4 figli”, dice ridendo. Nel tardo pomeriggio ci raggiunge David, docente di storia in una scuola media. Anche lui vive in una colonia, Shilo. È un volontario di Mishmeret. Oggi anziché addestrarsi con le armi, aiuterà il suo amico Ysrael a piantumare. Il secondo obiettivo dell’ong di Danzinger è lo sviluppo del territorio. Ma deve anche comprare un giubbotto antiproiettile nuovo, prodotto da una fabbrica gestita da Mishmeret. Secondo loro, per fare il contadino in queste zone è meglio indossarlo.

Repubblica 7.5.13
“Siria, no ai raid israeliani senza mandato Onu”
Il ministro Mauro: “Rischi per i nostri militari in Libano”. Sparati due razzi sul Golan


IL PRIMO intervento politico del nuovo ministro della Difesa Mario Mauro è destinato a Israele. Preoccupato che i bombardamenti israeliani in Siria possano ritorcersi sui soldati italiani che in Libano guidano la missione Unifil, Mauro ieri a Bruxelles ha criticato il governo di Gerusalemme. «Non sono possibili interventi di Israele o di altri in Siria senza un mandato chiaro dell’Onu» ha detto Mauro a Bruxelles, dove era per un incontro con la Commissione Esteri-Difesa del Parlamento europeo. «Non possiamo permetterci di vedere esplodere la Siria, il contesto siriano è di una particolare delicatezza, in particolare per noi italiani che siamo schierati in Unifil con migliaia di uomini», sostiene il ministro della Difesa. «Io quindi sono del tutto contrario a forme di intervento o di complicazione della crisi siriana che prescindano da un mandato chiaro delle istituzioni internazionali e segnatamente dell’Onu».
Per il momento l’impressione è che — almeno nelle prossime ore — la tensione fra Israele e Siria possa rimanere sotto controllo. Dopo aver bombardato per due volte depositi di missili destinati ad Hezbollah, lo Stato ebraico ha fatto avere messaggi sia pubblici che riservati al regime di Bashar Assad. La sostanza è «non vogliamo immischiarci nella lotta in corso in Siria, vogliamo soltanto che non arrivino altre armi ad Hezbollah». In verità nei suoi attacchi Israele, oltre ai missili destinati ad Hezbollah, avrebbe anche ucciso molti militari siriani: secondo il New York Times decine di soldati delle unità d’élite siriane che si trovavano vicino al palazzo presidenziale sono stati colpiti nell’attacco di sabato notte. E il governo di Assad ieri ha minacciato di rispondere, agendo però «quando lo riterremo opportuno». Ieri due razzi sparati dall’esercito siriano sono finiti all’interno del Golan occupato da Israele, senza colpire nessuno. I portavoce di Israele si sono affrettati a precisare che secondo le loro valutazioni «l’esercito siriano era impegnato in un’operazione collegata al conflitto interno al quel paese ».
Di Siria si parlerà da domani a Roma dove arriva per una visita urgente il segretario di Stato John Kerry. L’inviato di Barack Obama vedrà Enrico Letta ed Emma Bonino: il ministro degli Esteri italiano ha confermato che «con Kerry si parlerà anche di Siria», oltre che di questioni bilaterali e di Israele-Palestina. Il segretario di Stato atterrerà a Roma dopo aver incontrato a Mosca Vladimir Putin, l’ultimo grande alleato di Assad assieme al governo iraniano. Potrebbe portare nuove idee su come fermare la guerra civile siriana.
(v. n.)

Corriere 7.5.13
Gli omicidi degli immigrati. La sposa nazista alla sbarra
La Germania costretta a interrogarsi sul razzismo
di Paolo Lepri


BERLINO — È la donna a cui Anders Behring Breivik, l'autore della strage di Utøya, scrisse una affettuosa lettera chiamandola «cara sorella». Beate Zschäpe, l'unica sopravvissuta della cellula neonazista responsabile di quelli che furono definiti «gli omicidi del kebab», è finalmente sul banco degli imputati a Monaco di Baviera. Ma, in un certo senso, la Germania giudica anche se stessa, per tutto quello che non fu fatto, dal 2000 al 2007, permettendo così agli assassini di realizzare il loro folle piano. La «pista nera» non fu mai presa sul serio, le indagini di concentrarono sulla piccola criminalità, la rete di informatori che agiva nella galassia dell'estrema destra non seppe capire o non volle vedere. Nonostante molti possibili indizi, nessuno collegò i delitti anti-immigrati alla conclamata clandestinità di due pericolosi estremisti, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, e della loro «sposa nazista».
Beate non parlerà, probabilmente, come ha fatto fino a questo momento. Ieri è comparsa per la prima volta in pubblico. Vestita elegantemente, giacca nera e camicetta chiara, grossi orecchini d'argento, non è apparsa a disagio. Quella di tacere è stata sempre la sua scelta. Fin dal novembre del 2011, quando si costituì alla polizia quattro giorni dopo la morte dei due Uwe. Un apparente omicidio-suicidio, deciso per non cadere nella mani degli agenti che li avevano inseguiti e circondati nel loro covo, a Zwickau, in Sassonia, al termine di una rapina. «Sono io quella che cercate» fu la sua unica frase. Ma quello che c'era da scoprire si trovava ormai a portata di mano. In una roulotte semidistrutta, accanto ai cadaveri, la pistola con cui in varie città tedesche erano stati eliminati otto turchi e un greco colpevoli solo di essere uomini venuti da lontano per cercare lavoro in Germania. Nei giorni successivi fu rivelato il contenuto di un dvd, prodotto dagli assassini, in cui si rivendicavano i delitti con immagini della «Pantera rosa». Uno spietato cartone animato dell'orrore.
Il compito dei giudici sarà quello di rispondere a molti interrogativi ancora aperti e di stabilire il ruolo della donna negli omicidi (dieci vittime in tutto, perché va aggiunta alla lista una giovane poliziotta), in due attentati antistranieri e in 15 rapine. Con lei ci sono altri quattro imputati, accusati di complicità e favoreggiamento, uno dei quali ha la scritta «morte agli ebrei» tatuata sullo stomaco. Dalle indagini è risultato chiaro che Beate era il «volto normale» del gruppo. Si occupava di organizzare la vita quotidiana della cellula, tra un assassinio e l'altro. La sua scelta per l'estremismo nero affonda nell'ultima fase della giovinezza, a Jena, in Turingia (nell'ex Germania Est), dove è nata nel 1975. L'incontro con Mundlos, prima, e con Böhnhardt poi, completò la sua educazione criminale. «Le idee politiche sono l'unica ragione del nostro allontanamento, ma furono un motivo forte», ha dichiarato la madre.
Rinviato di tre settimane per il problema dei posti riservati alla stampa (erano rimasti esclusi tutti i giornalisti turchi), il processo di Monaco dovrebbe concludersi nel gennaio 2014. Ma forse serviranno addirittura due anni per completare il lavoro e ascoltare i 606 testimoni. Intanto, le prossime udienze sono state sospese dopo la richiesta dei legali della Zschäpe di ricusare il presidente della corte. Si riprenderà il 14 maggio. «È un evento storico», ha commentato Kenan Kolat, capo della comunità turca in Germania, chiedendo la massima severità per gli imputati. Ma l'impressione è che la giustizia non basti. Si tratta anche di pretendere tutta la verità.

Repubblica 7.5.13
Insieme a due amanti-complici aveva fondato un gruppo neonazista

Uccidevano immigrati, venditori di kebab. Ieri è apparsa in aula
Processo a Beate “la nera” che voleva essere Hitler
di Andrea Tarquini


BERLINO Accenni di sorriso gelido sul volto pallido, le spalle a telecamere e parenti delle vittime per disprezzo. Eleganza da fredda leader: abito-pantalone nero, camicetta bianca, piccoli orecchini d’argento, capelli neri ben curati. Così ieri mattina Beate Zschaepe, classe 1975, pasionaria e capocolonna del terrorismo neonazista, si è presentata in aula a Monaco. È lei l’eroina negativa della tragedia, l’anima nera assassina della Germania nostalgica e razzista, cui la Germania migliore, quella al potere, intenta il processo. Fredda e decisa, incoraggiata dai messaggi amorosi che il camerata norvegese Breivik, il mostro di Utoya, le invia dal carcere, è apparsa così in aula la Beate teenager di 20 anni fa, quando da ragazza senza arte né parte nei tristi palazzoni di periferia di Jena, ex Ddr travolta dalla riunificazione, entrò nella galassia nera perché innamorata di due ragazzi. Fu lei, nel ménage- à-trois, la manager della
lotta armata.
«Chi? Lei, Beate la vicina modello? Ma com’è possibile, era sempre così carina e gentile, accudiva ai nostri bimbi ai giardinetti, si occupava di cani e gatti di tutti, una brava ragazza…». Reazioni incredule dei vicini la dicono lunga, forse anche sulla voglia di rimuovere, certo sulla genialità criminale con cui Beate organizzò il gruppo di fuoco. Nationalsozialistische Untergrund, cioè gruppo clandestino nazionalsocialista, si chiamò il trio infernale. Lei amministrava conti e contatti segreti, lei procurò l’automatica cecoslovacca col silenziatore ai suoi due amanti. È una causa nobile, pensava, intimidire questi stranieri che ci strappano identità e patria.
C’è tutto il dissesto morale dell’Est tedesco nella storia di Beate. La madre, odontotecnica, il padre un romeno che lei non conobbe mai. Mamma disoccupata e alcolista dopo la riunificazione. «Mia nonna ebbe cura di me, di una cosa sola mi pento oggi, di non averla più visitata e ringraziata», ha detto Beate agli inquirenti. Confessando almeno un rimorso. Divenne diciottenne nel caos lumpenproletario dei palazzoni di periferia a Jena post-89, Winzerla o Lobeda. Frequentò senza slancio corsi di qualifica professionale, sognava di diventare maestra d’asilo, poi divenne giardiniera. La cotta per Uwe Mundlos, figlio d’un insegnante, intelligente e brillante, nazista
convinto, fu la sua prima svolta. Si amarono, poi lui fu chiamato sotto le armi. Il nuovo colpo di fulmine venne quasi subito: con Uwe Boenhardt, anche lui neonazista, noto picchiatore. «Lei ci sembrò la nuora ideale», dissero i genitori del secondo Uwe.
Uwe primo tornò congedato, l’ideale comune fece di loro un trio amoroso infernale. Vissero insieme per anni, andavano a letto in tre e in tre passarono all’azione, in un’escalation. Cortei contro gli antinazisti, pestaggi dei venditori di sigarette vietnamiti, concerti nazirock. L’appartamento nella palazzina soppalcata col tetto spiovente a Polenzstrasse a Zwickau fu il loro nido d’amore e covo di morte. Là, per tredici anni, dal 1998 al 2011, pensarono le azioni. Lei era la fredda manager, i due Uwe passavano all’azione in tutto il paese. «Sono mio marito e suo fratello, viaggiano spesso per lavoro », diceva sempre ai vicini con cui era così gentile, per coprirli a ogni missione. Colpi alla nuca, a tradimento. Abdurrhaim Oezuedogru, Enver Simsek e Ismail Yasar, un sarto e due venditori di Kebab, caddero sotto i colpi della ‘Ceska’ a Norimberga, il fruttivendolo Habil Kilic e il negoziante Theodoros Bulgarides nei loro negozietti a Monaco, Halit Yozgat nel suo internet café a Kassel, altri due venditori di Kebab, Mehmet Kubasik a Dortmund, Sueleyman Taskoepru ad Amburgo e Mehmet Turgut a Rostock. Fu “giustiziata”, come pericolosa antipatriottica, Michèle Kiesewetter, giovane poliziotta che chiedeva indagini più serie su quegli omicidi misteriosi.
Invano: per anni, polizia e servizi si accanirono a parlare di faide tra immigrati, non ascoltarono mai le famiglie delle vittime. I due Uwe si tradirono da soli il 4 novembre 2011, con un’ennesima rapina in banca ad Eisenach per autofinanziarsi. Andò male, circondati dalla polizia si uccisero. Beate reagì subito, da vera capo: salutò i vicini portando loro un’ultima volta cibo per gatti, dette alle fiamme la palazzina incurante della vecchia signora paralitica della porta accanto. Passò gli ultimi giorni fuggendo, e inviando messaggi a gruppi neonazisti, media e organizzazioni turche per rivendicare le azioni. Con “Pogromly”, un monopoli antisemita online per neonazi, e un macabro cartoonvideo, la Pantera rosa trasformata in killer xenofobo gioioso. Poi si consegnò agli agenti. Così spavalda è arrivata in aula l’altro ieri. «Sembra una manager a una conferenza aziendale», ha detto Mehmet Daymagueler, avvocato dei parenti delle vittime.

il Fatto 7.5.13
Dietro le sbarre l’ultimo aguzzino di Auschwitz
Lpschis, 93 anni, preso in Germania
Presto altri arresti di nazisti
di Alessandro Oppes


A quasi settant’anni dalla capitolazione del Terzo Reich, parte una nuova offensiva giudiziaria contro gli ultimi reduci del regime nazista. Il primo a cadere è Hans Lipschis, 93 anni, un ex-guardiano del campo di concentramento di Auschwitz, di origine lituana, arrestato nella sua casa di Aalen, nel sud-ovest della Germania, per ordine della procura di Stoccarda. Il suo nome era stato inserito di recente dal Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles al quarto posto di una nuova lista di 50 presunti criminali di guerra ancora in vita.
È PROBABILE che, nelle prossime settimane, a quello di Lipschis possano fare seguito nuovi arresti: l’Ufficio centrale per le indagini sui crimini del nazionalsocialismo di Ludwigsburg ha infatti deciso di applicare la nuova giurisprudenza emersa con il processo, due anni fa, a carico di John Demjanjuk, l’ex guardiano ucraino del lager polacco di Sobibor, condannato a cinque anni di carcere per complicità nella morte di 30mila ebrei sterminati in quel campo. Nei suoi confronti non erano emerse prove dirette ma solo elementi indiziari, considerati però sufficienti proprio perché risulta provata la sua attività lavorativa nel campo.
Lo stesso è avvenuto con Lipschis (in una situazione simile a quella di altre decine di ex-guardiani di lager ancora in vita, anche se tutti ultra-novantenni). Ad Auschwitz, dove vennero sterminate circa un milione e 300mila persone, il lituano originario di Kretinga avrebbe svolto la funzione di cuoco tra il 1941 e il ‘44. Per sua stessa ammissione (nelle scorse settimane era stato scovato e intervistato da un giornalista di Die Welt) fu prima soldato e poi sottoufficiale delle Ss, dove militò nella terza Panzer-Division, tristemente celebre per il suo coinvolgimento in numerosi crimini di guerra. Nel 1956, si trasferì negli Stati Uniti, dove visse indisturbato per 26 anni, lavorando nella leggendaria fabbrica di chitarre Harmony (la marca delle più grandi star, da Elvis Presley a Bob Dylan). Nel 1983 lo deportarono in Germania, proprio dopo aver scoperto il suo passato come membro delle Ss. Ma ci sono voluti altri trent’anni perché la giustizia tedesca decidesse di intervenire. Nonostante l’età, dopo una visita medica si è stabilito che può essere “in grado di sopportare la detenzione”. Del resto, il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, che a luglio compirà 100 anni, sconta ancora (seppure in regime di semi-libertà a Roma) una condanna all’ergastolo.

Repubblica 7.5.13
La sfida dell’opposizione: “Russia senza Putin”
Migliaia in piazza per chiedere una svolta. Navalnyj: “Via ladri e truffatori”


MOSCA — Nuvole nere e oscuri presagi non hanno fermato almeno 25mila persone scese ieri sulla piazza Bolotnaja per ripetere il oro slogan contro il Cremlino e invocare “
Rossija bez Putina”, una Russia senza Putin. Sentimenti contrastanti tra gli organizzatori divisi tra chi, come lo scrittore Boris Akunin, ha visto: «Tristezza e rassegnazione tra la gente». E chi come l'ex vicepremier Boris Nemtsov ha invece verificato: «La voglia intatta di cambiare le cose».
Di certo decidere una manifestazione contro il governo nel pieno del più grande ponte festivo dell'anno (dal primo maggio alla festa della vittoria del 9 maggio passando per la Pasqua ortodossa di domenica scorsa) è stata una decisione coraggiosa. E obbligata. Gli oppositori volevano celebrare l'anniversario della ultima grande adunata di almeno 200mila contestatori finita con disordini platealmente provocati dalla polizia. E tutt'ora strumentalizzata con una lunga indagine alla ricerca di presunti provocatori che ha già portato in carcere 27 persone. Scoraggiati dalla paura di violenze e dalle durissime restrizioni in atto contro ogni forma di dissenso, in molti hanno preferito restare a casa. A maggior ragione dopo l'incidente del mattino che ha visto la morte di un giovane operaio addetto al montaggio del palco, a causa di una imbracatura mal posizionata.
Certamente non c’erano ieri pomeriggio le famigliole al completo e le anziane signore delle ultime manifestazioni contro il governo. In compenso, prima assoluta per questo genere di raduni, c'erano centinaia di druzhinniki, volontari di appoggio alla polizia reclutati come ai tempi sovietici nelle fabbriche e negli uffici e ripagati con un giorno in più di ferie gratuite. Un ritorno all'antico che da un po' di tempo diventa sempre più evidente. Dalle leggi sugli “agenti stranieri” che stanno paralizzando le ong umanitarie alla fabbricazione di processi, palesemente artefatti, contro i simboli dell'opposizione. Con orgoglio, e con evidente amarezza, ne ha parlato dal palco lo stesso Aleksej Navalnyj, il più amato oppositore al governo, imputato a un processo che potrebbe costargli anche dieci anni di carcere: «Quando ho cominciato a oppormi ero un cittadino incensurato, poi sono arrivate le prime accuse assurde, adesso ho perso il conto dei processi contro di me. Non ci resta che andare avanti fino a cacciare Putin e la sua banda di ladri e di truffatori».
Dall'altra parte del fiume Putin taceva e faceva dire ai suoi portavoce di essere costantemente informato dell'andamento della manifestazione. Augurandosi che non ci fossero incidenti. Se non altro per evitare imbarazzi stamattina all'incontro straordinario con il segretario di Stato Usa John Kerry. Le tensioni sui diritti umani tra i due Paesi sono già fin troppe.
(n.l.)

Repubblica 7.5.13
Mosca, fra gli attivisti nel mirino “Ci perseguitano ma non cediamo”
La lotta di Memorial, ong simbolo per la società civile
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — Brodskij sorride da un poster in bianco e nero. E’ una foto dei suoi ultimi anni di vita, da qualche parte a Venezia, quando il poeta, premio Nobel, simbolo del dissenso al regime sovietico, pensava che le cose avessero cominciato ad andare per il verso giusto. E invece adesso, nell’antica sede di Memorial nella centralissima Karetnyj Rjad, 200 dipendenti e migliaia di volontari sparsi per tutta la Russia, il tempo sembra marciare all’incontrario. Tornano gli antichi fantasmi, l’ostilità del regime, l’ottusità burocratica di una magistratura pilotata, perfino le stesse parole ricopiate senza pudore da un passato oscuro. Quello vissuto dai padri fondatori come il fisico Andrey Sakharov e la moglie Elena Bonner.
“Agente straniero” è un termine che mette i brividi a chiunque abbia vissuto quegli anni. Ed è l’accusa formulata contro tutta l’associazione che da vent’anni si batte per la difesa dei diritti umani in Russia e negli altri Paesi dell’ex Urss. Un attacco in simultanea sferrato anche contro tutte le altre organizzazioni “sorelle”, da Agorà che vigila sulle minacce ai giornalisti, a quella delle “mamme dei soldati”, alle filiali russe di Amnesty International, Human rights watch, perfino alle associazioni di genitori di bimbi malati che denunciano le scarse cure ricevute dai figli.
Il lavoro va avanti lo stesso ma con mille difficoltà in più. Aleksandr Cerkassov, corpulento dirigente quarantenne che un tempo faceva l’ingegnere, ieri organizzava le sue truppe per il solito compito di “monitoraggio del comportamento della polizia” alla manifestazione della Bolotnaja.
Distribuiva mappe e istruzioni ai ragazzi che avrebbero fotografato e denunciato ogni abuso. Teneva i contatti con gli avvocati pronti a intervenire a favore di eventuali arrestati. Faceva continuamente il punto con Irina, “nostra signora dei penitenziari” che ogni giorno fa il giro dei posti di polizia per segnalare fermi irregolari, detenzioni ingiustificate, piccole e grandi soperchierie coperte dal silenzio di Stato.
Lavoro duro ma a suo modo gratificante. Cerkassov ricordava con orgoglio il ruolo avuto l’anno scorso dopo gli scontri in quella stessa piazza: «A un ragazzo fecero togliere calze e scarpe ma con una violenza tale da strappargli anche le unghie. Fummo noi a ottenere un ricovero in ospedale e un trattamento umano». Oppure: «La polizia arrestava a piccoli gruppi di poche persone e le sparpagliava in tutte le stazioni della città. Dissero che erano solo poche decine ma gli arrestati furono esattamente 5169: riuscimmo a fare avere a ognuno di loro assistenza legale, scorte di acqua e cibo decente».
Piccole soddisfazioni ormai lontane. Cerkassov ammette che, di questi giorni, la maggior parte del tempo è dedicata alla ricerca di fondi. Da quando la nuova legge prevede che ogni finanziamento ricevuto dall’estero «non può essere speso per attività politica» i controlli sono spietati e paralizzanti. Nell’ultima spettacolare perquisizione di un mese fa, gli agenti della procura hanno sequestrato 9mila documenti contabili relativi alle donazioni ricevute da Memorial. E’ materiale più che sufficiente per incastrare tutta l’associazione e condannarla a pene pecuniarie che non sarà mai in grado di pagare.
Il problema è, come spesso avviene nell’era Putin, l’interpretazione della legge. Chiunque accetti donazioni dall’estero per attività politiche deve infatti registrarsi allo speciale albo degli “agenti stranieri” che vengono sottoposti a controlli a sorpresa in qualunque periodo dell’anno. Memorial e tutte le altre ong rifiutano di iscriversi. «Il motivo è semplice — spiega Cerkassov — Noi non facciamo attività politica ma attività sociale. In un Paese come questo non potremmo vivere senza le donazioni dall’Estero. Ma è ignobile definire attività politica di opposizione la nostra opera di garanzia per i diritti civili».
Pare che sia stata proprio un’idea personale di Vladimir Putin quella di dissotterrare la definizione “agente straniero”, cara a Stalin e ai suoi aguzzini, per applicarla a tutte le organizzazioni che in qualche modo intralciano il lavoro dello Stato. A Memorial, sanno che il finale non sarà cruento come in quegli anni di sangue. Niente deportazioni, né tantomeno fucilazioni, sono per il momento immaginabili. Ma il risultato sarà ugualmente frustrante: «Vogliono fermarci. Non ci sono ancora riusciti ma ci hanno già frenato in tante cose».
Accanto alla foto di Brodskij, c’è quella coloratissima di Natalia Esterimova, militante di Memorial, rapita e uccisa nel 2009 in Cecenia, da dove denunciava gli abusi dell’esercito russo contro la popolazione. Oleg Orlov che allora presiedeva Memorial ricorda ancora quegli anni cupi, le denunce contro il presidente filorusso della Cecenia, la dolorosa decisione di sospendere le attività su quel territorio per «non mettere a rischio la vita degli attivisti». «Lì — sospira — hanno usato metodi più brutali. Adesso c’è una strategia più raffinata e finto legale per arrivare allo stesso obiettivo: costringerci al silenzio».

Repubblica 5.7.13
Linguaggio
Quando tutti gli uomini usavano le stesse parole
Alla fine dell’era glaciale, prima del mito della torre di Babele, esisteva un unico idioma nato nel Caucaso
Uno studio pubblicato sulla rivista Pnas ricostruisce “l’antenato comune” che risale a 15mila anni fa
di Elena Dusi


Mentre le terre riemergevano dall’ultima era glaciale, e prima della costruzione della torre di Babele, c’è stato un periodo in cui gli uomini parlavano una lingua sola. Era un idioma arcaico, sconosciuto, nato probabilmente dalle parti dell’Anatolia o del Caucaso. Ma nonostante l’erosione cui l’uso quotidiano sottopone le regole del nostro comunicare,
gli “archeologi delle parole” sono convinti che di quella lingua madre comune a tutti i popoli dell’Europa e dell’Asia esistano ancora oggi delle tracce.
Ricostruendo l’albero genealogico dei termini più radicati e diffusi in tutte le lingue moderne, gli esperti dell’università inglese di Reading sono riusciti a dare una data di nascita al primo idioma parlato probabilmente dall’uomo. La loro ipotesi — 15mila anni fa — è molto più antica sia della tradizione biblica (4mila a. C.) che della barriera con la quale gli studi di paleo-linguistica si erano sempre scontrati (8-9mila anni fa). Da un punto situato nel cuore dell’Eurasia, la “lingua madre” si sarebbe diffusa seguendo poi le rotte dell’agricoltura e le migrazioni dei nomadi lungo le steppe.
L’autore dello studio pubblicato oggi su Pnas è Mark Pagel, una vita dedicata all’archeologia della comunicazione, da sempre convinto che le parole siano come i geni e che le lingue siano assimilabili alle specie viventi. Facendosi affiancare da esperti di biologia, ha cercato di ricostruire l’“antenato comune” delle lingue dell’uomo. È partito da alcuni termini molto conservati in tutti gli idiomi di Asia ed Europa e ha percorso la loro storia a ritroso. Osservando i rami di un albero, ha cercato di ricostruirne la radice ed è approdato appunto all’epoca di 15mila anni fa, in cui l’ultima era glaciale si stava dissolvendo e l’homo sapiens si preparava gradualmente alla rivoluzione dell’agricoltura e delle città.
La tecnica dello studioso inglese è stata criticata in passato, e forse lo sarà anche oggi. Ma nella loro ricerca Pagel e i suoi colleghi spiegano con chiarezza di aver calcolato che mediamente ogni parola ha il 50 per cento di probabilità di scomparire da una lingua
ogni 2-4mila anni. I cambiamenti avvengono più rapidamente se un significato può essere espresso da molti sinonimi. Esistono però termini talmente cardinali per un idioma da restare intatti anche oltre 10mila anni. Pagel ne ha trovati una ventina. Sono espressioni che ancora oggi usiamo con una frequenza superiore a una ogni mille parole pronunciate: questo, quello, cosa, no, chi, cosa, io, tu, dare, uomo, madre. I ricercatori hanno usato queste espressioni come “sonde” con cui esplorare il terreno profondo delle lingue, registrando le ricorrenze in luoghi ed epoche assai diverse, poi tracciando l’albero genealogico e stimando il punto d’origine: la radice, del tronco del linguaggio umano. Lo stesso metodo viene usato dai genetisti per disegnare la storia delle specie viventi attraverso le mutazioni del loro Dna. Una ricerca condotta due anni fa con un metodo simile aveva stimato che due lingue parlate in Siberia e in Alaska avevano un’antenata comune risalente a 12mila anni fa. Le parole, in fondo, si trasmettono dai genitori ai figli e mutano a seconda delle esigenze di una società secondo regole prevedibili. Lo stesso Darwin aveva definito “curiosamente simili” i raggruppamenti che esistono fra idiomi e specie viventi. E come gli organismi, le circa 7mila lingue del mondo sono soggette a estinzione. Si stima che tra il 50 e il 90 per cento di esse sarà scomparso alla fine del secolo.

Repubblica 7.5.13
La tesi è dell’archeologa Stephanie Dalley
Giardini pensili di Babilonia risolto il giallo: erano più a nord
di Enrico Franceschini


LONDRA Come mai i leggendari giardini pensili di Babilonia, descritti come una delle sette meraviglie dell’antichità, non sono mai stati trovati? Perché non erano a Babilonia, ovvero nei pressi dell’odierna Bagdad, bensì 450 chilometri più a nord, nella città di Ninive, vicino a dove oggi sorge Mosul. E non fu il re dei babilonesi, Nabuccodonosor, a commissionarli, bensì il re degli assiri, Sennacherib. Ad annunciare la scoperta è la professoressa Stephanie Dalley dell’università di Oxford, che ha dedicato diciotto anni a studiare testi antichi per risolvere il “giallo” dei giardini scomparsi e, come in un thriller di Agatha Christie, a un certo punto si è resa conto che non erano affatto scomparsi, erano semplicemente da un’altra parte.
Naturalmente, trattandosi di un’opera che risale al settimo secolo avanti Cristo, dei giardini non rimane traccia nemmeno a Mosul, o nella zona in cui sorgeva un tempo Ninive. Ma la archeologa-detective ha trovato una prova dell’errore in una traduzione sbagliata, fatta nel 1922, di un’iscrizione in assiro del 700 avanti Cristo. La traduzione corretta, con sua grande sorpresa, contiene la descrizione, da parte dello stesso re Sennacherib, di un palazzo di una bellezza “senza uguali” e di una “meraviglia per tutte le genti”, resa possibile da un sistema di acquedotti rivoluzionario per quei tempi, che precedeva di 400 anni l’invenzione di Archimede. Ed ecco i giardini pensili apparire davanti ai suoi occhi, “magnifici nella loro concezione, spettacolare impresa di ingegneria civile, brillanti dal punto di vista artistico”, insomma a pieno diritto una delle sette meraviglie del mondo. La ricercatrice di Oxford si dice consapevole che non tutti gli esperti concorderanno con la sua tesi, che è stata anticipata ieri alla stampa inglese ma sarà l’argomento di un libro di prossima uscita in Gran Bretagna, “The mistery of the hanging garden of Babylon”. Bisognerebbe fare ricerche a Ninive, ovvero a Mosul, per cercare prove ulteriori e più tangibili, osserva la professoressa Dalley, ma è una delle aree più pericolose dell’Iraq e per ora nessuno si azzarda a metterci il naso.

Repubblica 7.5.13
Metafisica della Rivoluzione
Il nuovo deve sempre legittimarsi come “conversione”. Una riflessione filosofica e politica
Il guardiano dell’ordine che si nasconde in ogni sovversivo
di Massimo Cacciari


Rammentare ancora che nel termine «rivoluzione», come in quelli di «rinascita» o di «riforma», suona l’idea di una restauratio magna di un passato, che si immagina poter costituire la solida terra su cui procedere, sembra ormai vano esercizio erudito. La novitas, il desiderio di res novae e verba nova, al di là di ogni «ripetizione», pervade tutta la nostra cultura. Infuturarsi appare l’imperativo. Pueri aeternianelano tutti a essere. Rivoluzione da tempo suona ormai soltanto come sinonimo di innovazione. Eppure, le cose non stanno così semplicemente. La paura si mescola al desiderio. La ricerca e il dubbio intorno al fondamento del «nuovo» si fanno sempre più assillanti, proprio in rapporto con la irresistibile affermazione della sua idea. Allorché il «nuovo» deve «giustificarsi» non può che «ri-convertirsi » a qualche passato, se non altro per spiegare da che cosa intende «secedere». I plebei romani, nelle loro secessiones, sapevano bene chi fossero i «padri» (i patrizi). Quale figlio, oggi, smanioso di «innovare », conosce i propri padri? Quale pretendente parricida partecipa, oggi, così intimamente come Bruto alla vita del suo Cesare? Ma il padre sopravvive sempre se non lo uccidi in te…Nessuno conosceva storia e ragioni del suo nemico meglio di un Marx o di un Lenin. Il semplice rottamatore finisce invariabilmente sepolto sotto le macerie che la storia, o la fortuna, per conto suo produce.
Perciò gli autentici rivoluzionari hanno spesso teso a far maturare il nuovo regime dall’interno delle forme politiche tradizionali. La loro arte è stata in qualche modo maieutica. Il «nuovo» si esprime, allora, come il trapassare del vecchio, non l’affermazione di una prepotente violenza, ma il prodotto dello stesso passato. Il «nuovo» si «giustifica» in quanto nuova dimora in cui le forme dei padri possono finalmente trovare pace. Così i novatores «riformisti» cercano di superare la paura che inevitabilmente suscitano: presentandosi come coloro che parlano e operano sulla base dell’autentico senso del passato. Si possono dare varianti «messianiche» di questa posizione: allora il rivoluzionario non è soltanto chi segna il «trapasso» d’epoca, ma colui che intende riscattare-redimere vittime e ingiustizie della storia o preistoria trascorsa. Egli si sente responsabile nei loro confronti; esse sono per lui presenze vive che è necessario ascoltare e «salvare». In ogni caso, risulta decisivo il rapporto col «tempo di ieri». Dove questa relazione non sia più riconosciuta come essenziale, «rivoluzione» finirà con l’indicare il «naturale» salto tecnologico- organizzativo all’interno dell’ininterrotto progredire del sempre-uguale. Rivoluzione diviene progresso. E le due idee tramontano insieme. Naturalmente, il quadro è del tutto diverso se riteniamo che le res novae non siano che metamorfosi di «archetipi» necessari ed eterni, oppure, all’opposto, che l’occasione dia davvero la possibilità alla virtù di inventare situazioni e ordini mai sperimentati. La cultura moderna sembra insistere su quest’ultima prospettiva. Ma Machiavelli docet: gli innovatori, i fondatori di «principati nuovi» debbono conoscere bene gli antichi exempla, debbono ben sapere che gli uomini camminano «quasi sempre per le vie battute da altri», che «tutte le cose che sono state» possono ancora essere. Non si dà una pura inventio novitatis.
Il nuovo si costruisce con i mattoni della storia — ma trasformandoli e costringendoli in forme mai prima costruite. Né eterno ritorno, né inarrestabile flusso di disordinati mutamenti. Il passato, come gli astri, inclina, non determina.
Ma ogni concepibile innovazione non presuppone forse un «ritorno»? Qualsiasi «salto» è possibile soltanto se un’energia che attingiamo in noi stessi lo fa apparire necessario. Senza una «voce» che costringe a sciogliere le cime e avventurarsi in mare aperto, mai potremmo vincere la paura del «nuovo», la violenza conservatrice della consuetudo.
Qui l’idea moderna di rivoluzione manifesta la sua origine teologica. Rivoluzione per eccellenza è la conversio, il ritorno a sé, il faccia a faccia col proprio vero volto, fino a provarne con angoscia tutta la miseria. Da questo tremendo spettacolo l’anima trae la forza per mutarsi tutta. La conversione a sé crea le condizioni imprescindibili per mutare mente e cuore e voler mutare il mondo a nostra immagine. La secolarizzazione di tale idea comporta l’abbandono o l’oblio del fatto che conversio era concepibile solo come gratia, che mai l’uomo da sé avrebbe potuto pervenire alla forza necessaria per mutarsi così radicalmente. Il desiderio di res novae, ha spezzato l’«ordine» che lo collegava a conversio.
D’altra parte, questa «deriva» si annuncia fin dal passaggio dalla narrazione della conversione per antonomasia, quella di Paolo, alla «confessione» della propria da parte di Agostino. Un raptus per Paolo; il Signore non si «insinua» nell’anima, ma vi irrompe all’improvviso, la sconvolge insieme al corpo stesso con inaudita violenza. In Agostino, invece, la conversio avanza a fatica, tra esitazioni, dubbi, sospensioni. È la storia di una vera metanoia, e cioè di un mutamento che interessa essenzialmente il nous, la mente; certo, è il Signore che chiama e che vince, ma l’eletto risponde perché riesce a convincersi della verità che gli si manifesta. Tale decisione cattura in sé l’esserci umano nella sua integrità, ma il timbro dominante è quello intellettuale-noetico — timbro del tutto estraneo nel racconto evangelico su Paolo. La idea moderna di rivoluzione lo secolarizza, facendo della decisione il prodotto di una volontà mossa dall’energia del solo intelletto. Rimane forse l’angoscia di fronte alle condizioni del saeculum; ma non si tratta dell’angoscia che mette di fronte a noi stessi, che ci fa sentire responsabili in tutti i sensi e che costringe a cambiar vita. L’innovatore di oggi non prova alcun bisogno di conversione; egli, anzi, è l’innocente, che si erge a modello dell’«ordine nuovo», figura futuri. L’agostiniano abisso del Sé si è forse richiuso per sempre sotto la folle idea di un’indefinita «rivoluzione permanente».

Repubblica 7.5.13
La serie tv su Masters & Johnson, rockstar dell’educazione sessuale
di Silvia Bizio


LOS ANGELES Prima di Sex and the City e del Viagra, gli americani si affidavano a Masters e Johnson per imparare tutto quello che non conoscevano sul sesso. Dopo le ricerche di Alfred Kinsey sul comportamento sessuale di maschi e femmine, il professor William Masters e la sua assistente Virginia Johnson hanno fatto scoprire alle coppie i benefici sessuali, esortando tutti a togliersi i vestiti, godersi il sesso e soprattutto a scoprire le meraviglie dell’intimità. Incoraggiato dal successo del film con Liam Neeson Kinsey (2004), ecco un progetto in cui la vita, gli studi, gli esperimenti e il successo di questa coppia di sessuologi trovano luce sul piccolo schermo con la serie Masters of Sex della rete via cavo Showtime. Protagonisti Michael Sheen e Lizzy Caplan (8 gli episodi già prodotti, che debutteranno negli Usa a settembre). La serie è attesissima: per la tematica, l’ambientazione anni 60, e le scene molto spinte di sesso tra coppie: con sensori, catodi e rilevatori cosparsi sul corpo durante la copulazione, con Masters e Johnson a osservare dietro un vetro mentre svelavano i misteri dell’orgasmo e cercavano di stilare la mappa del piacere tra anatomia, endocrinologia e neurologia. La serie è tratta dal libro omonimo di Thomas Meier (2009), la cronaca appunto della vita e il lavoro di Masters e Johnson, «la coppia che ha insegnato all’America come amare». L’episodio pilota di Masters of Sex è stato diretto dal regista inglese John Madden (Shakespeare in love, Marigold Hotel) ; Madden è anche produttore della serie, fra i cui registi figura anche Michael Apted. Racconta Michael Sheen (il Tony Blair di The Queen, e poi in Frost/ Nixon e Midnight in Paris): «Non conoscevo Masters e Johnson quando Madden mi ha offerto la parte, poi mi sono reso conto che la ricerca di questi due studiosi è responsabile della rivoluzione sessuale anni 60. Dalla cattedra di medicina a St. Louis giunsero alla copertina di Time magazine.
Masters e Johnson erano diventati agli inizi degli anni 70 quasi le rockstar dell’educazione sessuale». «Al contrario di Kinsey », aggiunge la Caplan, «Masters e Johnson ebbero l’accortezza di non lasciarsi trascinare nel dibattito pubblico o nei botta e risposta coi critici. Mantennero sempre un atteggiamento scientifico e distaccato: questo è quello che abbiamo scoperto sul modo in cui gli umani fanno l’amore, questi sono i fatti. Leggete i risultati delle nostre scoperte, e arrivederci ».
Aggiunge Sheen: «Masters evitò sempre di difendersi dagli inevitabili attacchi, rifiutando di commentarli: lasciava che a parlare fossero i dati. Era bravo a non cadere nelle provocazioni. Così facendo, ha consentito ai suoi studi di diventare un paradigma importantissimo nel campo sociologico, medico, psicologico e perfino anatomico». Madden poi spiega che «il progetto poteva trovare ospitalità solo su una rete via cavo a pagamento, giacché le scene d’amore, pur nella loro scientificità da laboratorio, devono avere una certa dose di realismo. Si vedono corpi nudi impegnati nell’atto amoroso, ma tutto è simulato. È una serie vietata ai minori, ma anche i ragazzini dai 14 anni in su dovrebbero seguirla. Un po’ di educazione sessuale non fa male, soprattutto se raccontata in chiave di intrattenimento».

il Fatto 7.5.13
RaiTre
L’ordinario femminicidio dell’Amore criminale
di Patrizia Simonetti


Antonella, 23 anni, uccisa nell’avellinese con sei colpi di pistola in faccia esplosi dal compagno della madre, vittima della sua possessività. A lei ha dedicato la sua prima puntata Amore criminale, il programma di Raitre, quest’anno condotto da Barbara De Rossi, che con la sua storia venerdì scorso ha incollato al video 1 milione 383mila spettatori e che nella prossima racconterà di Giuseppina, accoltellata a morte a Carpi, nel modenese, dal marito “geloso”. “Abbiamo iniziato nel 2007 - racconta la regista Matilde d’Errico - due anni prima della legge sullo stalking e siamo stati i primi a capire che il video poteva essere uno strumento potente per dar voce alle donne che non ci sono più o che, per fortuna, sono sopravvissute. ”
DA ALLORA Amore criminale ha portato in Tv più di cento storie di donne vittime di violenza, attraverso interviste, ricostruzioni e docu-film e purtroppo ne ha ancora tante da raccontare. Del resto, se non bastassero giornali e notiziari a rilevarci quasi ogni giorno la drammaticità del fenomeno del femminicidio, basta scorrere i rapporti di associazioni come Telefono Rosa e la Casa delle Donne di Bologna: 124 le donne ammazzate nel 2012, per lo più per mano di chi avevano scelto come compagno di vita. Numeri talmente alti che lo rendono “fenomeno culturale”, dice il tenente Francesca Lauria della sezione Atti persecutori del reparto di Analisi criminologi-che dei carabinieri, che insiste su informazione e prevenzione: “Gli attuali autori di violenze sono stati bambini - sottolinea - e quindi ai bambini di oggi bisogna spiegare in modo corretto le giuste modalità di relazionarsi con l’altro sesso”. Ma la prevenzione va fatta anche sulle vittime che, se sopravvissute, spesso ancora definiscono la violenza subita come “qualcosa che è accaduto” e quindi, probabilmente, impossibile da evitare. Per questo Amore criminale racconta anche di donne che sono riuscite a salvarsi avendo captato in tempo i “campanelli di allarme” di una violenza imminente. Eppure non tutte, nonostante chiedano aiuto, ce la fanno. “Il governo dovrebbe dotare le forze dell’ordine del potere di agire velocemente senza essere bloccate dalla burocrazia” l’appello di un’appassionata Barbara De Rossi che fa capire con poche parole che sì, anche a lei è capitato di rischiare, sottovalutando segnali e confondendo una gelosia malata con l’amore. “Voglio aiutare le donne a percepire il pericolo perché spesso pensano di vivere un amore che amore non è”.