giovedì 9 maggio 2013

il Fatto 9.5.13
“I dinosauri vadano via Il Pd non lo molliamo”
Dalla Napoli delle sconfitte fino all’Irpinia di De Mita
“Che bluff, anche i Giovani Turchi sono finiti al governo”
di Enrico Fierro


Dalla Napoli delle amare sconfitte alle colline del feudo mastelliano di Ceppaloni, fino all’Irpinia dell’eterno De Mita, passando per Pontecagnano (Salerno), dove le ultime speranze del Pd sono affidate a ragazzi che non hanno ancora spento 30 candeline. È il viaggio in quella base del partito che, teme Fabrizio Barca, sta letteralmente impazzendo. Ragazze e ragazzi che credono ancora nella politica, fanno campagna elettorale, attaccano manifesti, animano blog, partecipano a riunioni, investono il loro tempo gratis. Gente che quelli di Roma hanno messo nel frullatore del governissimo con Berlusconi, Alfano e Micciché. È un viaggio dei “pazzi” che non poteva che iniziare da un vicolo stretto al centro della città di Napoli, via dei Fiorentini: qui c’era il Cremlino partenopeo, la Federazione del Partito comunista. Un pezzo di storia. Da queste stanze sono passati personaggi come Salvatore Cacciapuoti, operaio antifascista, “uomo di marmo” (sei anni di carcere speciale fascista) e combattente delle Quattro giornate, poi Giorgio ‘o chiatto (Amendola) e Giorgio ‘o sicco (Napolitano), Abdon Alinovi, Maurizio Valenzi (primo sindaco comunista di Napoli), e un giovane operaista di nome Antonio Bassolino. Scontri epici tra “miglioristi” e “ingraiani”. Un secolo fa. “Quando passavo da queste parti da piccolo mio padre mi diceva guarda, qui c’è il partito, con la P maiuscola”. Gennaro Acampora, studente di Economia di 26 anni e regolare tessera del Pd in tasca, per un attimo si abbandona ai ricordi. In via dei Fiorentini il partito non c’è più, al suo posto un albergo a tre stelle, un garage e un bar tavola calda (pizze fritte e babà alla crema). Triste metafora dei tempi. “Tempi di delusione e rabbia. Nitto Palma alla commissione Giustizia, l’uomo che volle Gigino Cesaro, ’a purpetta, capolista del Pdl a Napoli. Un atto vergognoso nei confronti di iscritti ed elettori del Pd napoletano”. Gennaro è consigliere della Municipalità Arena San Carlo, quella che comprende la Sanità, il rione di Totò. “Abbiamo tradito gli elettori, il mai con Berlusconi è stato stracciato in pochi secondi e la base, quella che fa vivere il partito, è stata tenuta fuori da tutto. La cosa che fa più male è che la gente ci considera tutti uguali, ma io non sono né Cesaro, né Nitto Palma”.
“IL PD È DIVISO per potentati, dominato dai personalismi esasperati dei soliti baroni che della crescita del partito se ne fottono, perché per loro l’importante è controllare pezzi di potere”. Massimo Donise, 45 anni, geometra, è il segretario del Pd di Ceppaloni, paese noto per l’aglianico e per Clemente Mastella e signora. Il partito anche qui è a pezzi, si vota per le comunali e i democrat non sono stati in grado di presentare una lista. “Ci sono solo il Pdl e una civica controllata dai mastelliani”. Roberta D’Amico, diciottenne all’ultimo anno di liceo, è invece in piena campagna elettorale. A Pontecagnano, pianura salernitana, si vota. “Sono candidata in una lista di trentenni”. La città è governata da un boss del Pdl in rotta col partito, Ernesto Sica, già coinvolto in una brutta storia di dossier contro il governatore della Campania Caldoro. “La battaglia non ci spaventa – dice con la forza dei suoi diciotto anni Roberta – ho iniziato a fare politica per la storia di Peppino Impastato. Il Pd si sta suicidando? Non credo, i dinosauri lo stanno affondando con scelte sbagliate che paghiamo noi, con le correnti che ci tolgono il respiro. Sono loro che devono andar via, noi non lasceremo il Pd”.
NELLE STANZE del circolo di Serino, sulle montagne irpine, c’è la foto di Enrico Berlinguer che sorride, qui c’era la sezione del Pci. Marcello Rocco, 27 anni, è il segretario in perenne rottura con in vertici provinciali, regionali e nazionali del partito. “Anna Finocchiaro o uno di questi segretari senza un congresso, senza primarie, allora è davvero la fine. Ci hanno raccontato la favola che Rodotà divideva, cosa ci unisce, Berlusconi? Ma anche i giovani turchi sono stati un bluff, è bastato offrirgli qualche posto da sottosegretario per placarli”. Pochi chilometri più giù a valle, ad Avellino città, si vota per eleggere sindaco e consiglio comunale. L’ex sindaco Pd, bocciato alle primarie per il Parlamento, ora capeggia una lista di appoggio al Pdl. Il fu partito di Bersani, invece, ha presentato una lista incompleta. Troppe divisioni sul nome del candidato sindaco, l’ex direttore dell’Unione costruttori. Dalle colline di Nusco, Ciriaco De Mita sta a guardare in attesa di riprendersi la città con un suo uomo.
“La verità – riflette con amarezza Carmine Schettino, militante sotto i trent’anni – è che il Pd non esiste, da una parte ex Dc dominati da Nicola Mancino, dall’altra ex comunisti. Tutti non vedevano l’ora di diventare demitiani, nella cultura politica e nel modo di gestire il potere. Aspettiamo i congressi e decideremo se restare o andar via”. “Siamo all’auto-distruzione”, parla Pier Gaetano Fulco, 26 anni, militante di Caserta. “Moriremo democristiani, da Marx siamo passati a Cencelli. E ora cosa racconto a quei giovani dai 14 ai trent’anni che si sono avvicinati a noi solo perché speravano in una Italia migliore?”.

Repubblica 9.5.13
La protesta della base
I militanti di Occupy preparano l’assedio ai big
In arrivo da una dozzina di città, presidieranno l’assemblea nazionale
Magliette con lo slogan “Siamo più di 101” per ricordare i traditori del voto su Prodi
di Diego Longhin e Simona Poli


ROMA — Saranno tutti schierati davanti all’ingresso della Fiera di Roma e lo slogan sulle magliette sarà eloquente: «Siamo più di 101». Non è una contro-assemblea degli Occupy Pd, ma un modo per spiegare che loro «sono contro quelli che vorrebbero affossare il Pd», spiega Fabio Malagnino da Torino, uno dei motori del movimento della Pallacorda. «Vogliamo discutere con gli altri, portare le nostre rivendicazioni, stare dentro il partito — dice Malagnino — noi non siamo per un ritorno al passato, per una cancellazione delle primarie. Nel momento in cui si vuole guardare avanti sarebbe incredibile tornare al passato su un elemento fondativo dei Democratici. Un punto che ci distingue dagli altri». Parole che si sentiranno riecheggiare anche durante l’assemblea. A Roma gli Occupy Pd arriveranno da una dozzina di città. Oltre a Torino, Bologna, Reggio Emilia, Prato e Firenze, Napoli, Cagliari, Roma, Catanzaro, Parma e Bari.
Lorenzo Rocchi è tra i promotori degli autoconvocati a Prato, una delle prime città in cui è scoppiata la rivolta degli iscritti nell’intervallo tra il fallimento dell’elezione di Marini e quello dell’elezione di Prodi, quando scoppiò il caso dei 101 franchi traditori. Il 19 maggio a Prato gli Occupy si riuniranno di nuovo: un’assemblea nazionale del movimento. «Il nostro obiettivo è di essere più dei 101 franchi tiratori », conferma Rocchi. «I vertici devono ascoltarci, toccare con mano la frustrazione che hanno creato nella base. Il partito va rifondato, ha ragione Barca, così le cose non funzionano più e a noi questo modo i far politica non piace». Durante le primarie lui sosteneva Bersani: «Ma non se ne può più degli scontri persona-listici, prima D’Alema contro Veltroni, poi Bersani contro Renzi, ora Civati contro i giovani turchi, basta. Occupy protesta contro le divisioni del partito, noi vogliamo che il congresso riporti il Pd sul giusto binario che è quello di un partito con una forte identità di sinistra. La «via di mezzo» non serve a niente». E il governo Letta? «Speriamo che sia una parentesi, necessaria per fare una nuova legge elettorale ma con una scadenza ravvicinata ». Renzi segretario? «È il miglior candidato del mondo se si mette al servzio del partito. Se invece fa l’ennesima corrente allora diventa un peso».

il Fatto 9.5.13
Il professore Stefano Rodotà
“Letta fa spogliatoio? Ma come parla?”
di Giampiero Calapà


Non posso più tirarmi indietro. Sono in un frullatore ma... ”, neppure finisce di dirlo e squilla il telefono. Tutti vogliono Stefano Rodotà, dopo la fallita candidatura al Quirinale, a 80 anni il giurista sta vivendo una seconda giovinezza. Tutta di corsa, tra un intervento al liceo Tasso, richieste dalle università di tutta Italia, trasmissioni televisive, una conferenza a Berlino sui beni comuni la prossima settimana, il “cantiere” di Sel sabato, l’incontro ieri con i parlamentari grillini, senza streaming, che poi rivelano: “Ci ha detto che se fosse stato in Napolitano ci avrebbe dovuto darci l’incarico”. E lui corre ancora: “Sì, sono in un frullatore”. Squilla di nuovo il telefono, è la nipote. Il suo volto si fa dolce, stacca e riprende la conversazione: “Che fare? Bisogna ricostruire la sinistra”.
Cosa direbbe in un caminetto del Pd?
È una storia che non mi appartiene più.
Si fanno i nomi di possibili nuovi segretari: Anna Finocchiaro, Speranza. Cosa ne pensa?
Se mi telefonassero terrei aperta la discussione.
In attesa del segretario, De Benedetti ha dato l’investitura a Renzi: l’unico nome spendibile.
Al netto della sua destrezza comunicativa io guardo ai contenuti. Quelli di Renzi non sono i miei, non c’entrano nulla con la cultura di sinistra. Lasciamo perdere il giubbotto di Fonzie da Maria De Filippi (ride Rodotà), lui può davvero essere un buon interlocutore. Si deve parlare anche con la destra. Altra cosa è Berlusconi, che mette a rischio l’ordine costituzionale.
Letta ha portato il governo in ritiro in abbazia, mentre il Pd riunisce il caminetto.
Non so che consiglieri d’immagine hanno, un disastro. “Fare spogliatoio”: ma come parlano?!
Professore, non è capo dello Stato, ma è ormai un punto di riferimento per la sinistra.
Ho una maggiore legittimazione a proseguire il lavoro svolto in tutti questi anni, sento un carico di responsabilità spropositato. Durante il voto parlamentare per il Quirinale ero tranquillo, adesso ho una certa tensione: non ho la bacchetta magica, ma non posso tirarmi indietro.
Sabato parteciperà al “cantiere” di Sel. Si farà un nuovo partito?
Le cose fatte di fretta, come Rivoluzione civile di Ingroia, non funzionano. Bisogna ricostruire un’agenda della sinistra.
Primo obiettivo?
Chiedere con forza al presidente Napolitano di rivolgere un appello alle forze politiche per fare subito la riforma della legge elettorale.
Dei grillini lei ha detto che hanno voglia di imparare a fare politica.
Non è sindrome da professore. Si sono messi al lavoro con grande impegno. Ogni tanto incorrono in qualche scivolone, ma è normale, sono figli di molte realtà. Non firmo cambiali in bianco neppure con loro, ma sbaglia chi vede un pericolo in Grillo e di conseguenza attacca il web. E lo dico con tutto ciò che da Grillo mi distingue. L’assenza del vincolo di mandato parlamentare è un valore di democrazia, ad esempio: ho votato in dissenso dal Pci contro il concordato Craxi, so cosa significa.
Quindi, adesso, che fare?
La Controconvenzione per la difesa della Costituzione e la rete costituente dei beni comuni.
L’embrione del Partito della Sinistra per l’Europa: Pse. Le piace come nome?
Potrebbe essere riduttivo. Sono europeista, bisogna cambiare un’Europa che ignora la costruzione di uno Stato autoritario in Ungheria e le sue stesse carte fondamentali. Bisogna lavorare tanto. Ma potremmo rendere questo nome un promemoria per il futuro.

l’Unità 9.5.13
Rodotà: l’incarico andava dato al M5S
Il giurista ai parlamentari: al posto di Napolitano io avrei nominato un esponente 5 Stelle
di Giuseppe Vittori


ROMA In attesa della riunione con il loro leader Beppe Grillo, prevista per domani, i parlamentari del Movimento 5 stelle sono riuniti ieri a Montecitorio con Stefano Rodotà, che è stato il loro candidato per la presidenza della Repubblica. Non sono pochi i messaggi sui social network che socializzano l’entusiasmo e l’emozione dei deputati grillini per il primo faccia a faccia con il giurista in nome del quale hanno condotto la battaglia per il Quirinale.
Qualcuno di loro riferisce anche qualche battuta di Rodotà. «Al posto di Napolitano, avrei dato l’incarico al M5S», ha detto Rodotà secondo quello che racconta Claudio Messora, uno dei responsabili della comunicazione del gruppo M5S. Rodotà, secondo la cronaca via Twitter di Giulia Di Vita, è tornato sulla vicenda delle votazioni per la presidenza della Repubblica. «Mi dicono “Ti dovevi ritirare!” Ma come? Avrei dovuto sbattere la porta in faccia a chi mi ha votato fin dal primo scrutinio?», ha osservato. Per la cronaca Rodotà aveva ottenuto alle “quirinarie” dei 5 Stelle 4677 voti, ed era arrivato terzo dopo Milena Gabbanelli e Gino Strada, che avevano preferito rinunciare.
«Una persona di sinistra come me, che sente forte la voglia di cambiamento, forse un pezzetto di strada l’ha fatto», ha detto ancora il giurista, che si è complimentato anche con il deputato a 5 stelle Alessandro Di Battista, che ha pronunciato «il più bel discorso politico finora: quello in aula sui Marò». In realtà lo hanno corretto soddisfatti grillini quel discorso era il frutto, come hanno sottolineato gli esponenti grillini, di una elaborazione collettiva.
Rodotà si è dichiarato anche antico sostenitore della trasparenza: «La luce del sole ha detto è il miglior disinfettante».
Intanto Grillo in attesa di affrontare lo spinoso caso delle diarie mette all’indice sul suo blog il conduttore di ’Ballarò’ Giovanni Floris, con un singolare referendum: «Lo considerate un dipendente assunto dal pdmenoelle alla Ra ?». Manco a dirlo, il sì stravince con il 91,64 per cento. Solo l’8,37 per cento, 4.189 persone, ha spuntato l’opzione «un vero giornalista». Ma è sparita, dal risultato finale del sondaggio, che ovviamente non ha valore statistico non essendo basato su un campione rappresentativo della popolazione, la terza opzione: una casella «altro» con lo spazio per la compilazione libera dei lettori del blog. Che fin dai primi istanti, a migliaia si sono scatenati con insulti, parolacce, invettive. Ora il link è stato rimosso dal sito, per evitare, probabilmente, nuove accuse al M5S di fomentare l’odio e la violenza verbale in forma anonima sul web.
Il sondaggio è una ritorsione di Grillo per la rilevazione presentata nella puntata di martedì sera del talk show di Raitre, basata, ha raccontato Grillo nel suo post, su questa alternativa: «Definirebbe il MoVimento 5 Stelle un gruppo integralista che non va oltre la protesta la vera opposizione che serve al Paese».

il Fatto 9.5.13
Giustizia
Il Pd cede, passa Nitto Palma M5S: “L’ha voluto Napolitano”
L’ex magistrato amico di Previti guiderà la commissione al Senato
Il Pd vota scheda bianca e non si accorda con le opposizioni
di Caterina Perniconi


L’amico di Previti la spunta in commissione al Senato con i voti di Pdl e Monti. Ma i 5 Stelle denunciano: “Avevamo offerto il nostro appoggio per Casson, poi è intervenuto il Colle e i Democratici hanno votato scheda bianca”.

Meno di due mesi fa manifestava davanti al Tribunale di Milano. E nel giorno in cui da quel Palazzo arriva la sentenza di appello del processo Mediaset, Francesco Nitto Palma viene eletto presidente della commissione Giustizia del Senato. Un altro simbolo della forza politica di Silvio Berlusconi, che ha voluto il suo corazziere in un posto chiave, e lo ha ottenuto.
LA MAGGIORANZA si è spaccata anche nella quarta votazione, quella del ballottaggio. I montiani hanno mantenuto fede al Pdl mentre i senatori del Partito democratico hanno scelto la scheda bianca nonostante l’indicazione del governo fosse quella di eleggere Palma. Una cambiale troppo pesante da pagare. Ma la tentazione di fare opposizione a Berlusconi è durata poco, al punto di non organizzare nemmeno un’offensiva. L’unica strada per contrastare l’elezione dell’ex magistrato era quella di trovare un candidato più anziano. Perché i voti pro e contro erano 13 pari, e la legge favorisce la maturità. Invece l’unico accordo alternativo, quello su Felice Casson, sarebbe stato perdente e alla fine non si è nemmeno realizzato. “Noi Casson l’avremmo votato” dice il grillino Michele Giarrusso, a sua volta eletto segretario della Commissione, alzandosi dalla poltrona di pelle color crema della saletta al piano ammezzato di palazzo Madama. “Abbiamo reso nota la nostra disponibilità sia allo stesso Casson, sia al capogruppo Luigi Zanda” insiste. Allora perché non fare almeno un gesto simbolico? “È arrivata una telefonata dal Colle – continua Giarrusso – perché altrimenti il governo sarebbe stato a rischio e Palma non poteva saltare. Noi in terza votazione abbiamo continuato su un nostro nome solo per poter arrivare al ballottaggio e dare fino all’ultimo la possibilità al Pd di ripensarci. Ma Zanda ha deciso di continuare su quella strada”. Versione smentita dai democratici: “Napolitano non ha mai parlato con me” dice Zanda, “e nemmeno con altri, l’avrei saputo. Tutte le decisioni sono state assunte dagli otto senatori Pd che si sono più volte riuniti e ad alcuni incontri ho partecipato anch'io”. Forse Napolitano ha parlato direttamente con Casson? “Io non ho il suo numero e credo che il Capo dello Stato non abbia il mio visto che non mi ha mai chiamato” scherza il magistrato democratico. “Non ce l’avrei fatta comunque, non aveva senso”. Di certo qualcosa durante questa votazione nel Pd è successo. Perché prima del quarto voto il foglio consegnato ai “colleghi” del Pdl con i nomi concordati per vicepresidente e segretario di maggioranza erano quelli dei democratici Luigi Manconi e Monica Cirinnà. “Poi ci hanno ripensato e hanno cambiato indicazione in Felice Casson e Rosaria Capacchione” racconta il senatore pidiellino Franco Cardiello. Per di più Roberto Calderoli, uscendo dall’auletta, ha confermato le due schede bianche della Lega, che andrebbero a creare un dubbio su chi ha dato il tredicesimo voto a Palma. Forse un democratico?
ALLA FINE A BENEFICIARE del solito caos nel Pd è stato Nitto Palma, che alle 14 era andato con i colleghi Cardiello e Giacomo Caliendo alla messa in ricordo di Giampiero Cantoni, già presidente della commissione Difesa, molto amico di Silvio Berlusconi. I colleghi dicono che lì era apparso molto teso. Come a fine votazione, quando ha accolto i giornalisti nella sala della seconda Commissione pregandoli di essere veloci “perché sono in astinenza da fumo”. Ma alla prima domanda sul suo ruolo divisivo nella maggioranza, Palma è invece partito con una lunga requisitoria contro i giornali che non rispettano la sua vita, buona parte della quale vissuta “blindato” perché a rischio di pallottole di ogni genere, “rosse, nere, di mafia, di camorra... non voglio più che le persone a me vicine vengano a chiedermi se quello che hanno letto è vero”, dice scandendo tutte le sillabe con tragica teatralità. Ma le sue battaglie sulla salva-Previti, o l’archiviazione lampo dell’inchiesta Gladio, non sono difficili da verificare. C’è anche chi invece non aspettava altro che questa elezione per complimentarsi con l’ex magistrato: alla fine della conferenza stampa nella ressa dei giornalisti si è infiltrato il deputato Luigi Cesaro (tirato in ballo nelle inchieste che coinvolgono Nicola Cosentino per camorra). Una bella stretta di mano, la nomina è fatta, hanno di che festeggiare.

il Fatto 9.5.13
Il duello
Lega o Sel per la Giunta che deciderà sul Caimano
di Marco Palombi


Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato. É l’ultima casella che manca – al netto delle bicamerali come Copasir e Vigilanza Rai – per completare il risiko delle poltrone parlamentari: alla Camera, dove le Giunte sono due (Elezioni e Autorizzazioni a procedere) se la sono sbrigata martedì eleggendo rispettivamente D’Ambrosio del M5S e Ignazio La Russa. A palazzo Madama invece niente, non si sa nemmeno quando la Giunta si riunirà: la convocazione di ieri è stata annullata e ancora non si sa nulla della prossima. L’unica cosa certa è che – da regolamento – il presidente va eletto entro dieci giorni dalla nomina dei componenti, quindi entro la prossima settimana. A che si deve questo ritardo? Semplice: quella poltrona – che per prassi viene concessa all’opposizione – è parecchio importante e lo è diventata ancor di più ieri con la conferma in appello della condanna del senatore Silvio Berlusconi. La Giunta elezioni e immunità, infatti, fa due cose: decide se un tizio ha i requisiti per essere eletto (o se li ha persi) e dà il via libera per l’uso di intercettazioni o l’arresto nei confronti di un membro del Senato. Se, ad esempio, il Cavaliere venisse condannato anche in Cassazione all’interdizione dai pubblici uffici sarebbe compito proprio di quella Giunta dichiararlo decaduto dalla sua carica. É vero che i membri dovrebbero solo prendere atto della sentenza, ma con Cesare Previti – dopo la condanna al processo Imi-Sir nel novembre 2006 – tra fare le fotocopie del dispositivo e ascoltare l’interessato in audizione ci misero otto mesi esatti a togliergli la poltrona. E dire che formalmente c’era una maggioranza ostile, visto che successe durante la breve legislatura del centrosinistra.
SE NON BASTASSE la decadenza post-condanna, questa è la stessa Giunta in cui si dovrebbe discutere dell’ineleggibilità di Silvio Berlusconi in quanto concessionario pubblico: “Non appena sarà costituita, bisogna accelerare la discussione”, ha messo a verbale ieri la capogruppo 5 Stelle Roberta Lombardi. Insomma, il governo delle larghe intese per sopravvivere ha bisogno che quell’organismo non sia guidato proprio da un vero oppositore: e infatti fino a ieri il candidato unico, assai caldeggiato dal Pdl, era il leghista Raffaele Volpi, colonnello maroniano in quel Brescia. Fino a ieri perché ora quella carica è tornata in discussione. Le altre opposizioni – che poi sono il minuscolo gruppo di Sel e il M5S – rivendicano la presidenza per se: i primi candidano Dario Stefano, i secondi Michele Giarrusso. “Noi l’abbiamo chiesta – ha spiegato Loredana De Petris di Sel – perché sarebbe grave se andasse invece a qualche partito che, pur situato all’opposizione, è stretto alleato del Pdl”. Per il Movimento, però, neanche Sinistra, ecologia e libertà è vera opposizione: “Si è presentata a tutti gli elettori in alleanza con il Pd ed è solo per questo motivo che siede in Parlamento”, ha scritto ieri Roberto Fico. E il Pd, appunto? Preferirebbe il candidato di Sel, che sarebbe “più ragionevole”, ma per il momento sta a guardare. La querelle sulla Giunta s’intreccia, infatti, con quella sulle più prestigiose presidenze di Copasir e Vigilanza Rai, sulle quali grillini e vendoliani sono in zuffa aperta: i primi le vogliono entrambe, ma i secondi hanno già prenotato il controllo dei servizi per Claudio Fava. E così viene bloccata la Giunta che deciderà su Berlusconi. E non solo: anche il neopresidente della commissione Agricoltura Roberto Formigoni, su cui pende un rinvio a giudizio, potrebbe averci a che fare tra qualche tempo.

il Fatto 9.5.13
Berlusconi delinquente anche il appello
Confermata la condanna a 4 anni per frode fiscale nel processo Mediaset
Ma il colpo più duro è l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici


il Fatto 9.5.13
Scudo di governo, il nuovo piano di B.
Lui fa il responsabile. I suoi attaccano i giudici ma solo quelli milanesi
E il Pd? Non dice nulla
di Fabrizio d’Esposito


La botta è forte, fortissima. Scuote Palazzo Grazioli alle sette e mezzo di sera e fa svanire il piccolo trionfo dell’elezione di Nitto Palma alla commissione Giustizia del Senato. Chi ha parlato con Silvio Berlusconi a quell’ora riferisce che “il presidente è tanto tanto tanto amareggiato, l’amarezza prevale sulla rabbia”. Niente furia cieca e vendette da consumare sulla pelle del governo di Enrico Letta. Questa, almeno, la versione ufficiale. Che poi viene impartita ai tanti berlusconiani incaricati di dichiarare: “Distinguere, distinguere, distinguere”. E così il mantra della responsabilità, ripetuto come una litania in questi giorni, viene sostituito dall’ossessione della “pacificazione e della coesione nazionale”. Con i suoi il Cavaliere fa finta di non indossare per il momento la maschera del Caimano e raccomanda: “Me l’aspettavo, sono un perseguitato ma in questa fase storica la sentenza di Milano va contro la pacificazione che vogliono Napolitano ed Enrico Letta, dovete battere su questo, guai a minacciare ritorsioni sull’esecutivo. I nostri avversari direbbero che il governo rischia per i miei problemi giudiziari, invece dobbiamo proseguire sulla linea della responsabilità, i sondaggi ci stanno dando ragione”.
L’ordine viene raccolto e il risultato è quasi un paradosso: il governo diventa uno scudo dietro cui ripararsi e additare “i giudici milanesi come gli ultimi giapponesi che combattono la guerra nel nuovo clima della pacificazione”. Ecco Renato Schifani, già seconda carica dello Stato e oggi capogruppo del Pdl a Palazzo Madama: “Continua la persecuzione giudiziaria nei confronti del presidente Berlusconi, leader politico che ha il consenso di dieci milioni di elettori. Evidentemente, per una certa magistratura la stagione della pacificazione è ancora lontana, e forse non arriverà mai”. Fabrizio Cicchitto, neoeletto presidente della commissione Esteri a Montecitorio, si prende il compito di “rassicurare” il premier: “Non cadremo nella provocazione insita in tutto ciò e cioè non faremo ricadere sul governo le conseguenze di ciò che sta avvenendo sul piano politico giudiziario”.
LA STRATEGIA è questa e pare reggere, sempre per il momento. Il Pd non commenta gli attacchi del Pdl ai magistrati (linea dalemiana allo stato puro) e i ministri berlusconiani si tengono alla larga dalle dichiarazioni. Solo il M5S applaude, sostenuto dall’ironia del leader Beppe Grillo: “Ora lo faranno senatore a vita”. L’equilibrio è fragilissimo e deve fare i conti con un doppio binario. Su uno, appunto, corrono i guai giudiziari di B. e il Cavaliere vuole continuare a fingersi statista per prendere tempo e confidare nella Cassazione, dove è arrivato il previtiano Santacroce e dove il processo potrebbe essere annullato con rinvio e far scattare la prescrizione. Nel frattempo non è esclusa la possibilità di mobilitare in piazza il Pdl contro “la persecuzione giudiziaria ad personam”, anche perché a breve dovrebbe arrivare la sentenza di primo grado del processo Ruby. Su questo fronte la chiamata alle armi è pure per Mediaset: domenica sera, su ItaliaUno, al posto delle Iene, andrà in onda “La guerra dei vent’anni, Ruby ultimo atto”, sempre nel nuovo filone della pacificazione e dell’offensiva finale contro la magistratura, quella di Milano in particolare.
SUL SECONDO binario viaggiano invece le minacce al governo Letta in merito a Imu, esenzioni fiscali, Iva ed Equitalia. Il Cavaliere lo ha ripetuto ieri a ora di pranzo ai vertici del Pdl e soprattutto alla delegazione di governo pronta per il ritiro nel-l’abbazia di Spineto: “Se queste cose non si fanno, la fiducia non è scontata”. A Renato Brunetta, capogruppo alla Camera e mancato ministro, B. ha rinnovato poi l’appello a “marcare a uomo” Alfano e chiedere al premier Letta di incontrare i presidenti dei gruppi parlamentari per concordare i provvedimenti. Un comportamento da padrone, reso ancora più evidente dalla liquidazione della famigerata Convenzione per le riforme, architrave su cui poggia il discorso d’insediamento di Letta, con l’indicazione del limite di tempo per la verifica del lavoro svolto: 18 mesi. Ha detto B. : “Io presidente della Convenzione? Scherzavo, la Convenzione è una perdita di tempo, meglio usare le procedure attuali”. Una dichiarazione che non ha scalfito l’ottimismo del capo dello Stato davanti al plenum del Csm: “C’è il clima giusto per fare le riforme, troppo a lungo attese”. In ogni caso, il risultato è che il governo, come hanno capito anche nel Pd, “ancora non è partito”. E ieri Alfano ha dovuto parlare a lungo con il premier per tranquillizzarlo: “Silvio non vuol far saltare il banco”. Un caos da pacificazione. E il voto a ottobre potrebbe avvicinarsi.

Repubblica 9.5.13
Felice Casson: “L’ex premier dovrebbe fare un passo indietro, è questione di opportunità e di etica”
“Questa alleanza mi imbarazza”


ROMA — Da ex pm è «in forte imbarazzo ». Da esponente del Pd ritiene che nel suo partito «ci sia troppa tolleranza». Ma il senatore Felice Casson, protagonista della battaglia anti-Palma, è convinto che Berlusconi resterà al suo posto.
Condanna Mediaset. Che ne pensa?
«Innanzitutto direi che non è assolutamente una sorpresa. Da quello che si è letto e si conosce, la sentenza di primo grado era già molto solida ed era prevedibile la conferma».
Il Pdl parla di giustizia ad orologeria.
«Mi verrebbe da chiedere quanti sono gli orologi perché i processi sono tanti, le campagne elettorali e gli impegni istituzionali sono moltissimi ed è scontato un incrocio temporale tra tutti questi impegni di Berlusconi».
La sentenza avrà conseguenze sul già fragile governo Letta?
«Sono convinto che non ne avrà nessuna, anche perché non è definitiva, quindi non produrrà effetti giuridici immediati».
Il Cavaliere non deve fare un passo indietro?
«Distinguerei i due aspetti. Da un punto di vista giuridico non ha alcun obbligo. Da quello politico la questione è di opportunità e di sensibilità personale e anche etica. Su quest’ultima decisione nessuno può incidere».
Non è imbarazzante per il Pd questo nuovo scandalo?
«Io personalmente non sono solo in imbarazzo, ma sono molto in difficoltà. Però nel Pd ci sono sensibilità diverse».
Che vuol dire «essere in imbarazzo »?
«Di fronte a sentenze di condanna e rinvii a giudizio per reati gravi, un politico dovrebbe adeguare il proprio comportamento pubblico».
Trova che nel Pd ci sia una soglia troppo bassa rispetto a reati e condanne simili?
«C’è una discrasia tra parole e comportamenti. In campagna elettorale avevamo indicato due temi come fondamentali, lavoro e moralità. Sul secondo aspetto nel Pd c’è troppa tolleranza».
Però, nel rifiuto di votare Palma, è emerso un Pd duro.
«Per fortuna i componenti hanno recepito il segnale negativo
che veniva dalla candidatura di chi, tra l’altro, è stato l’ultimo ministro della Giustizia del governo Berlusconi che abbiamo contestato in maniera molto dura in Parlamento. Era ovvio che non potevamo sostenerlo adesso».
La Convenzione per le riforme andrà avanti?
«Io contesto in radice la necessità stessa della Convenzione. Nella Carta ci sono già gli strumenti per cambiare le norme attribuendo al Parlamento la competenza».
Un Berlusconi candidato presidente con quattro processi addosso che effetto le faceva?
«Ero convinto che il Pd non avrebbe dovuto votarlo».
Lei è stato prima giudice istruttore e poi pm. Non non sarà in difficoltà a votare leggi con questo Berlusconi?
«Ho votato la fiducia turandomi il naso perché entrando in un partito si accetta la disciplina del gruppo. Altrimenti se ne esce».
(l.mi.)

La Stampa 9.5.13
Il viceministro Pd “Fino al terzo grado resta innocente” Bubbico: nessuna ricaduta sulla maggioranza
«Ai contestatori dico che il momento è grave Serve pazienza»
di Francesco Grignetti


Viceministro Filippo Bubbico, ha sentito? Il tribunale di Milano ha appena confermato la condanna per Berlusconi.
«..... (silenzio) ».
Vorremmo capire con un esponente importante del governo e del Pd, se temete contraccolpi sul governo.
«Lei mi vuole portare in mare aperto».
Un ragionamento a caldo.
«A caldo dico che a malapena ho saputo che c’è stata la conferma in secondo grado».
Ma secondo lei la navigazione del governo ne potrebbe risentire?
«Se mi chiede di ragionarne ad alta voce, non mi sottraggo. Da una parte dico che la conferma in appello di una condanna di primo grado sostanzia quella condanna. D’altra parte, il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio e quindi quella condanna, finché non diventa definitiva, è nulla».
Il nulla? Viceministro, non si nasconderà il problema politico.
«Non me lo nascondo, ovvio. Ma non si può tralasciare che sul piano squisitamente giuridico la posizione non è mutata. Certo, si può effettuare un apprezzamento di altra natura. Definiamola valutazione culturale e politica. Però non dimentichiamo mai i principi di garanzia».
Andiamo al punto. Contraccolpi oppure no?
«Guardi, anche da questi primi pochi giorni di attività verifico che le difficoltà che abbiamo di fronte sono davvero notevoli. Il Paese è allo stremo. Bisogna fare qualcosa e nei tempi più veloci possibili. Il presidente Letta ha impresso un ritmo alto proprio per tentare di risalire la china. Cerchiamo un fattore di inversione del ciclo che è davvero devastante. E quindi avremmo bisogno di poterci concentrare sulle priorità del Paese».
E come la mettiamo con gli antiberlusconiani militanti. Lei non le sente già, le proteste?
«La questione, per carità, non può essere elusa. Le accuse sono pesanti. E però questo è un tema che sta dentro la valutazione, per ora, solo di chi è protagonista della vicenda. Quando l’esito sarà concluso, allora, e solo allora, è evidente che quell’esito avrà una ricaduta anche di natura politica. Non foss’altro per le implicazioni che determina sul fronte del diritto, perché l’interdizione costituisce una limitazione nell’esercizio di determinate funzioni. Certo il nostro dibattuto politico spesso è orientato dalle emergenze di giornata, ma anticipare la discussione politica oggi, mi parrebbe, come dire?, non utile».
Insomma, semplificando, lei dice: teniamo il governo di coalizione al riparo dalle polemiche di giornata e rimandiamo un eventuale redde rationem alla sentenza definitiva. Se ne riparla tra un anno?
«Il governo ora deve occuparsi delle emergenze».
E che cosa direbbe a quell’area che scalpita dentro il suo partito? Chi glielo spiega a OccupyPd perché ingoiare il rospo?
«Viviamo un’epoca di profonde contraddizioni. Io stesso sono lacerato. Capisco chi chiede un cambiamento profondo. E dall’altra avverto il senso di responsabilità nei confronti di chi perde il lavoro, di chi lo ha già perso, di chi è disperato. È il momento che è segnato da una crisi drammatica e che ci chiede di esercitare atti di responsabilità nei confronti del Paese piuttosto che misurare le coerenze di natura individuale. Ai giovani che ci contestano dico che stiamo vivendo un passaggio estremamente complicato».

l’Unità 9.5.13
Il segretario Pd
Ancora senza intesa ma sabato si vota. Il coordinamento non scioglie i nodi
Scontro sulla data del congresso Bersani: «Prima possibile» Ma si farà in autunno
Pd ancora senza intesa. Un comitato guiderà l’assemblea
Il coordinamento non scioglie il nodo del segretario. Sabato ci sarà il voto, congresso in autunno
di Maria Zegarelli


Sarà un comitato ristretto a tentare in extremis di individuare un segretario di garanzia. Cresce l’ipotesi Speranza. Sabato all’Assemblea si presenterà un candidato e si voterà. Nel Pd si discute anche del congresso. Bersani: farlo prima possibile. L’assemblea deciderà sulla data: ma è probabile che si vada in autunno.

ROMA Stavolta nessuna diretta streaming, il coordinamento allargato del Pd si svolge a porte chiuse, con la tensione che si legge nei volti di chi entra e nessuno fa alcunché per nasconderla. E la conclusione a cui arrivano è il sintomo di quanto lacerato sia il partito: nessun nome, neanche ieri sera, per il successore di Pier Luigi Bersani da qui al congresso. Spetterà a una commissione, formata dai capigruppo Luigi Zanda, Roberto Speranza, dai vicepresidenti dell’Assemblea Ivan Scalfarotto, Marina Sereni e il coordinatore dei segretari regionali Enzo Amendola, sondare gli umori tra oggi e domani, e arrivare all’Assemblea di sabato con una proposta, si spera condivisa. Sarà la stessa commissione a tenere la direzione del parlamento Pd i cui lavori saranno aperti da un discorso di Rosy Bindi che confermerà le sue dimissioni e ne spiegherà i motivi e, molto probabilmente da un intervento del premier Enrico Letta
Al Nazareno arrivano alla spicciolata dirigenti e segretari regionali dopo una girandola di incontri andati avanti per tutto il giorno e dai quali è stato chiaro sin da subito che era impossibile arrivare a un punto di incontro entro la serata. Troppi veti incrociati, troppe spaccature. «La situazione è molto delicata, il senso di responsabilità e compostezza non può essere affidato soltanto a qualcuno» dice Pier Luigi Bersani aprendo i lavori del caminetto allargato. A chi gli aveva ventilato la richiesta di restare lui in carica fino al congresso ha risposto che non se ne parla, concetto ribadito in un comunicato durante il pomeriggio. «Non tocca a me proporre soluzioni né fare relazioni» dice facendo un chiaro riferimento a quel senso «di responsabilità venuto meno» nelle scorse settimane. Stavolta tocca all’Assemblea trovare una soluzione condivisa (serve una maggioranza di oltre 700 delegati) ma è qui che viene il bello. Il partito sembra ormai prigioniero di lotte intestine, proprio mentre prende il via il governo Letta-Alfano e ci sarebbe bisogno di una guida solida. Per tutto il giorno c’è chi chiede un segretario «autorevole», chi spinge per una soluzione super partes, chi come Rosy Bindi ritiene che chiunque sia «non debba far parte del vecchio gruppo dirigente» e chi come Pippo Civati vorrebbe Pierluigi Castagnetti.
Ieri mattina Bersani ha incontrato Matteo Renzi, nelle sede del partito, per un colloquio che è durato dieci minuti, clima sereno, dicono da entrambe le parti, ma il sindaco è stato franco, come sempre. «Segretario io non faccio storie sui nomi, va bene tutto, purché venga riconosciuto anche a noi un ruolo nel partito». Renzi non ha posto veti né su Anna Finocchiaro (sui cui esistono perplessità dettate dal suo ruolo di presidente della commissione Affari costituzionali che avrà un peso ancora maggiore se dovesse saltare, come sembra, la Convenzione) né su l’altro nome che ieri ha preso quota, quello del capogruppo alla Camera Roberto Speranza, indicato al sindaco da Bersani e su cui avevano dato il via libera sia i lettiani sia da Areadem. «Non abbiamo nulla da dire sul nome di Finocchiaro ma riteniamo che Speranza sia un altro segnale verso il rinnovamento», è stato il ragionamento del sindaco, che poi a pranzo ha incontrato i suoi parlamentari. «Non saremo noi a metterci di traverso, ragazzi, a noi interessa la premiership», ha spiegato ai suoi. «Matteo noi non possiamo non interessarci anche del partito perché se continua così alle prossime elezioni ci saranno solo macerie», è stata l’obiezione di una parlamentare. «Non dobbiamo disintessarci, ma lasciare che decidano loro sul nome, noi chiediamo che ci assegnino l’organizzazione», ha replicato Renzi. E il nome per quel ruolo il sindaco lo ha fatto chiaramente: il deputato Luca Lotti.
Dunque Roberto Speranza quale reggente? Resta tutt’ora il candidato più consistente, a Renzi non dispiacerebbe anche perché potrebbe liberarsi la casella del capogruppo alla Camera, ma a mettersi di traverso, chiedendo un nome «forte e autorevole» sono in molti, a cominciare dai sostenitori di Gianni Cuperlo come i Giovani turchi, Beppe Fioroni, molti segretari regionali da Amendola a Manciulli a Bonaccini. Cuperlo poi è sostenuto anche da Massimo D’Alema, ieri assente per impegni a Firenze, da dove ha augurato «successo e unità», ma registra il niet dei bersaniani (troppo fresco lo strappo tra Bersani e D’Alema), mentre Walter Veltroni avrebbe preferito figure come Sergio Chiamparino o Pierluigi Castagnetti. Goffredo Bettini lancia il sindaco di Torino, Piero Fassino, con il quale lo stesso Renzi non nasconde di avere grande sintonia.
Alla fine, davanti all’impossibilità di trovare già da ieri la soluzione al rebus su cui si arrovella il partito da giorni, ecco la commissione. «Una volta scelto il metodo – dice Bersani – ognuno faccia il suo perché bisogna arrivare a un vero congresso con una discussione vera. Non possiamo sprecare questa opportunità». Cuperlo, ribadisce di essere «a disposizione in questa fase difficile», annuncia di fatto la sua candidatura al congresso, chiede di accelerare i tempi, «per chiudere a fine luglio». Fa appello a non sciupare l’occasione di sabato che «può essere una ripartenza o mostrare un partito incapace». Stessa linea Fioroni: «Dobbiamo eleggere il segretario e fissare la data del congresso, ma il segretario deve essere autorevole perché deve in questi mesi del congresso deve dare la linea di un partito che incide sull'attività di governo evitando il vuoto di questi giorni». Per Dario Franceschini «non c'è tempo per pasticci e rinvii, noi dobbiamo eleggere il segretario sabato». Da oggi tocca alla commissione.

il Fatto 9.5.13
Ecco l’ultima trovata dei democratici: i sondatori
Non c’è accordo sul segretario da eleggere dopodomani e così adesso un gruppetto farà le consultazioni interne
di Wanda Marra


Ore 17:00, fuori da Montecitorio. I fedelissimi di Matteo Renzi, Simona Bonafè, Maria Elena Boschi, Matteo Richetti, Luca Bonifazi, David Ermini, si aggirano alla ricerca di una gelateria. Loro al coordinamento del Pd, meglio detto caminetto, quello da cui dovrebbe uscire il nome che sabato all’Assemblea verrà incoronato segretario (a tempo), non vanno. Però lanciano una pista: “Non sarebbe male Roberto Speranza, no? È giovane, è un buon messaggio agli elettori. Sarebbe un buon traghettatore. E a Matteo andrebbe bene”. Ecco, l’ultimo nome del possibile reggente (anzi no, tecnicamente un segretario) che viene messo sul tavolo prima del vertice. È il capogruppo a Montecitorio, l’ex portavoce di Bersani alle primarie, dirigente, ma soprattutto uomo di fiducia dell’ex segretario. Uno che in queste settimane ha avuto il compito di gestire “materialmente” i problemi, dalle consultazioni con Napolitano al gruppo di Montecitorio.
IL BORSINO dei candidati oscilla che fa paura. Anna Finocchiaro sale in mattinata. Poi, scende in picchiata. Gianni Cuperlo si “mette a disposizione”, Matteo Renzi si precipita a Roma per assicurare a Pier Luigi Bersani che per lui vanno bene proprio tutti, persino la Finocchiaro. Ovvero per chiarire: niente alibi, non è colpa mia se non vi mettete d’accordo. Lui vuole la modifica dello Statuto per correre alla premiership. “Però, se è uno giovane meglio”. Tradotto: Speranza. Il “congelando” Bersani manda una nota ufficiale alle agenzie, a scanso d’equivoci: “Non tocca a me proporre soluzioni, né fare la relazione, la mia idea è che tutto sia affidato a un procedura trasparente e democratica che valorizzi il ruolo dell’assemblea”. Come dire: non provate a incastrarmi per reggere la baracca dopo avermi fatto fuori.
E alla fine, il punto di caduta della totale incapacità di decidere del Pd è ancora una volta un rattoppo, una mediazione, un rimando. E così, arrivano i sondatori. Un gruppetto formato da Marina Sereni e Ivan Scalfarotto (vice presidenti dell’Assemblea) insieme ai capigruppo Luigi Zanda e Roberto Speranza, al coordinatore dei segretari regionali, Enzo Amendola e a David Sassoli, capo delegazione al Parlamento europeo. Dovranno guidare l'Assemblea e istruire la pratica sul nuovo segretario. Dunque, trovare un nome.
LA RIUNIONE fila via liscia. E rigorosamente senza un punto d’approdo. Al Nazareno i partecipanti arrivano in ordine sparso. Il neoministro Orlando, il neo viceministro, Fassina. E Marco Minniti, Cesare Damiano, Matteo Orfini. Peraltro, nessuno è in grado di spiegare di quale organismo si tratti, visto che ci sono i big e la segreteria, i segretari regionali e qualche personalità non ben etichettabile. Scuro in viso, Bersani entra a capo chino. Fa la relazione iniziale. Dice sostanzialmente due cose: o si mettono ai voti una serie di nomi, o ci si affida a un gruppetto che decida il da farsi. E poi, chiede un congresso presto. Tocca a Cuperlo. Sostenuto da dalemiani e Giovani turchi, il segretario lo vuol fare. Bersani e i suoi per ora hanno detto di no. Ma poi soprattutto a lui non basta la reggenza, vuole candidarsi al congresso. “Sono a disposizione - dice - il congresso deve essere nel tempo più ravvicinato possibile”. Un’anticipazione a prima dell’estate è possibile, anche se molti temono l’effetto negativo che potrebbe avere sul governo la battaglia nel partito. Un’altra cosa che dovrà decidere l’Assemblea. Parla Dario Franceschini: “Eleggiamo un segretario. Poi cambiamo lo Statuto”. E il Pd “sostenga il governo”. Stessa posizione di Beppe Fioroni. E di Franco Marini. Che anche chiede sostegno al governo.
E alla fine, arrivano i sondatori. “L’Assemblea di sabato eleggerà un segretario che convocherà il Congresso”, spiega Marina Sereni lasciando la riunione. “È stato dato mandato a un ristretto gruppo di persone di ascoltare i gruppi dirigenti e i segretari per organizzare i lavori dell’Assemblea non solo per quanto riguarda la segreteria ma anche sulla fase politica”. Dopo l’Assemblea, si discuterà pure del famoso cambio di Statuto. Oggi insomma iniziano le consultazioni del Pd. Intanto Renzi (che ieri ha deciso di non candidarsi nemmeno alla presidenza dell’Anci) incontra Massimo D’Alema: sono entrambi a Firenze per un meeting sull’Europa. Controconsultazione.

La Stampa 9.5.13
I democratici e la crisi
Pd, ora spunta Speranza Ma nel partito è caos totale
Scontro sull’anticipo del congresso
di Carlo Bertini


Pd, ovvero il caos totale. A 48 ore da un’assemblea dove saranno forse più numerosi i dissidenti di OccupyPd davanti ai cancelli della Fiera di Roma che i delegati in sala, tutto è possibile: al «caminetto dei big» (assenti però D’Alema, Veltroni e Renzi) si è deciso solo che sabato si fisserà la data del congresso e si eleggerà un segretario garante, ma a trovare il nome più «unitario» ci dovrà pensare un gruppetto di sherpa, la franceschiniana Marina Sereni, il renziano Ivan Scalfarotto, il dalemiano Enzo Amendola, coordinatore dei segretari regionali e i due capigruppo Speranza e Zanda. Non c’è ancora accordo sul «reggente», non c’è accordo sull’anticipo del congresso, né sul posticipo, quindi si terrà come previsto a ottobre Non c’è accordo sulle modifiche statutarie per eleggere il segretario senza primarie. Nomi per la reggenza ne circolano a iosa, Speranza è tra i favoriti, la Finocchiaro pure, più sullo sfondo Chiti e Chiamparino. Ma i più smaliziati tra i big del Pd sono pronti a scommettere che non sarà nessuno di questi.
Basta poco per capire su cosa si fonda la scommessa. Renzi incontra Bersani e non pone veti sulla Finocchiaro, ma oltre a strappare per il suo fedelissimo Luca Lotti la carica clou di segretario organizzativo, per traghettare la ditta fino al congresso gradirebbe un giovane come Speranza. Pure Bersani, Letta, Franceschini vedrebbero bene Speranza, anche se il primo e il secondo avrebbero preferito Epifani. D’Alema e i «turchi» propendono per la Finocchiaro come reggente e tifano per Cuperlo al congresso. I «giovani turchi» per tutto il giorno chiedono di anticipare le assise ma gli altri resistono.
Fioroni concorda per anticipare il congresso, ma gli ex Ppi di fede governativa no, e molti lo posticiperebbero altro che anticiparlo. La Bindi veste i panni della rottamatrice, «eleggiamo un segretario che non provenga dal vecchio gruppo dirigente». Sulla modifica dello statuto che eviti l’automatismo tra leader e candidato premier, Fioroni dice che si può fare, un veltroniano doc come Morando no, un bersaniano doc come Migliavacca frena e la Bindi pure. «Siamo in alto mare su tutto», ammette Franceschini all’ora di pranzo e fino a sera, quando al Nazareno si riunisce il coordinamento allargato ai segretari regionali, la musica è una polifonia dodecafonica in cui ogni capocorrente dice la sua.
«Non ho proposte da avanzare, ultimamente le mie proposte hanno avuto poca fortuna... », dice Bersani aprendo il «caminetto», dove fa un appello alla massima coesione «perché adesso è più facile smontare che tenere insieme».
«Io sono a disposizione», annuncia Gianni Cuperlo subito dopo, ufficializzando di fatto la sua candidatura a guidare il Pd. Ma la conta sul segretario vero non ci sarà fino a ottobre perché le procedure congressuali comportano tempi lunghi, si comincia con i circoli, poi le federazioni provinciali e via dicendo. E il nodo politico vero riguarda il governo, perché un dibattito congressuale infuocato potrebbe indebolire Letta nei suoi primi mesi di azione: per questo la maggioranza delle correnti del Pd decide che fino all’autunno il partito dovrà essere retto da un garante, un segretario pro-tempore. E se la figura più gettonata per questo ruolo è quella di Anna Finocchiaro è perché sarebbe disposta a fare da reggente senza ricandidarsi dopo, come del resto anche Speranza. Se toccasse a lui, al suo posto di capogruppo potrebbe salire Epifani. Ma per tutto il giorno sulla formula del reggente ognuno la pensa in modo diverso, «occorre un segretario già sabato senza una conta o pasticci, ma con una scelta politica», dice Franceschini. Anche sul metodo per arrivare a questa scelta transitoria, le idee divergono. «La prima strada per la quale propendo va nel segno della trasparenza e dello spirito del tempo. Si raccolgano in assemblea le firme per la presentazione delle candidature», propone Bersani. «La seconda è che s’incarichino 3-4 persone di raccogliere elementi e di presentare una proposta all’assemblea». E alla fine si sceglie questa strada, mandato agli sherpa.

Repubblica 9.5.13
Democratici senza guida, partito-caos
"Ora rischiamo la liquefazione"
E scoppia la guerra tra D'Alema e il segretario dimissionario e ne fanno le spese Cuperlo ed Epifani. Civati: "SIamo vicini al disastro totale"
Minniti”: Ci siamo già rotti l'osso del collo, ora ci rompiamo il resto".
di Goffredo De Marchis

qui

Repubblica 9.5.13
Nencini scrive al premier: dica se c’è un pregiudizio
“Socialisti esclusi da tutto Letta ci spieghi perché”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — È sdegnato, il leader del Psi Riccardo Nencini: «E allora ho scelto uno strumento ottocentesco. Ho preso penna e calamaio. E ho scritto a Enrico Letta. A lui, che si era negato. A lui, perché la fiducia l’ho data al suo governo. E gli ho chiesto: c’è un pregiudizio contro di noi? Dovevi dirlo prima della fiducia».
Il Psi è fuori dalla guida delle commissioni. E lei s’infuria.
«Non è un problema di poltrone, né di Presidenze. Le commissioni hanno un Presidente, due vice e due segretari. È la cabina di pilotaggio. Volevamo esserci. Mai un gruppo della maggioranza era stato escluso. Dai tempi del primo governo De Gasperi! Mai in sessant’anni!».
Stavolta è accaduto. Perché?
«Credo per l’appetito pantagruelico dei partiti. Ma è Letta che deve rispondere. E dire se le cose vanno corrette. Scriverò anche a Boldrini e Grasso per chiedere: i regolamenti tutelano le minoranze, ma chi tutela la maggioranza? C’è una lesione dei regolamenti?».
Altrimenti trarrete le conseguenze verso il governo?
«Non cambio idea così facilmente. Questo governo è l’unica scelta che l’Italia doveva fare».

Repubblica 9.5.13
L’amaca
di Michele Serra


Ai fautori delle larghe intese sfugge la folle anomalia italiana.
Qui non si tratta di superare o smussare le differenze ideologiche tra destra e sinistra, compito improbo ma concepibile in tempi di emergenza sociale. Si tratta di fare finta che non gravino, sul leader di uno dei due schieramenti, processi e sentenze; di disinnescare uno scontro ventennale non sull’Imu o altre somme e sommette, ma sull’indipendenza della magistratura e sulla giudicabilità del potere politico. Così che ad ogni stormire di scartoffia, ad ogni refolo di tribunale, tutti tremano e sono costretti a sperare che una tregua o una distrazione o un caritatevole trucco possano rimandare a chissà quando il Giorno del Giudizio, che non varrà – capite la pazzia – solo per Lui, varrà per tutti, per il governo, per la legislatura, per la destra idolatra che se lo è scelto senza fiatare, per la sinistra imbelle che se lo è sciroppato fino a questa disperata partnership, per tutto lo sciagurato Paese che vive, da vent’anni, in ostaggio di un uomo che altrove (vedi Bernard Tapie in Francia) sarebbe stato rimesso al suo posto in un paio d’anni al massimo.
Ieri era Nitto Palma, oggi una sentenza, domani un nuovo scontro al penultimo sangue tra avvocati, magistrati e parlamentari sempre inchiodati alla stessa croce. È politica, questa? O è la sua sospensione fino a nuovo ordine?

Repubblica 9.5.13
Un decreto contro il Porcellum
di Gianluigi Pellegrino


La legge elettorale è un’emergenza democratica ed anche il banco di prova sulle reali intenzioni di questo governo. Vuole essere conseguente con lo stato di eccezione che lo ha generato oppure ha voglia di tirare a campare?
Se l’emergenza nazionale è insieme economica, politica ed istituzionale, mettere rimedio al porcellum non è meno urgente delle misure che si impongono per rilanciare lavoro e investimenti.
Un Paese senza un sistema elettorale conforme a Costituzione e riconosciuto dai cittadini è semplicemente privo di agibilità democratica. Orfano delle stesse precondizioni di una democrazia occidentale.
E sarebbe davvero grave se il nuovo esecutivo dovesse cedere alla tentazione di affidare la propria durata non all’utilità degli interventi urgenti cui è chiamato, ma alla oggettiva impossibilità di rimandarci alle urne con l’attuale legge elettorale. Grave ed odioso: ci sentiremmo sudditi- sequestrati più che cittadinigovernati.
Enrico Letta ne sembra consapevole avendolo messo tra le priorità nel discorso programmatico. A prescindere da eventuali e più complessive riforme meglio è comunque togliere di mezzo questa legge elettorale inguardabile e incostituzionale e far rivivere quella precedente (il mattarellum) che aveva dato buona prova di sé. Il nuovo premier ha ripetuto l’obiettivo anche nella sua prima apparizione televisiva intervistato da Fabio Fazio davanti a milioni di italiani.
Ora però si tratta di passare dalle parole ai fatti.
Purtroppo le ragioni per diffidare dei buoni propositi non mancano. I partiti tradizionali hanno dato prova di predicare bene e razzolare malissimo sul tema. Si è fatto finta di lavorare alla riforma per poi offrire pannicelli caldi come improbabili primarie ridotte a foglie di fico per scelte di apparato che infatti gli elettori non hanno in alcun modo sentito come proprie. E si è finiti come apprendisti stregoni, paralizzati e sconfitti da quel porcellum di cui si sperava di approfittare.
Quanto ai nuovi arrivati, anche della effettiva volontà del Movimento Cinquestelle è lecito dubitare perché in realtà il porcellum calza a pennello a Beppe Grillo, in quanto azzera l’importanza dei candidati sul territorio ed esalta il ruolo del guru e padre- padrone.
Ed allora, contrariamente a quel che dice una superficiale retorica, la materia non sta nelle esclusive mani del Parlamento, ma all’iniziativa del governo che qui si gioca la carta preliminare della sua credibilità. Non è difficile intuire che ad agitare i sonni di ministri e sottosegretari vi sia che un cambiamento urgente delle legge elettorale finisca con l’agevolare un sollecito ritorno alle urne, ponendo ulteriormente in luce la scarsa legittimazione di un Parlamento di nominati, scempiato da un premio di maggioranza abnorme che alla Camera ha dato il 55 per cento dei seggi a partiti bocciati da oltre due italiani su tre.
Ma provvedere subito si deve perché alla fine ricondurre il Paese ad una normalità democratica dovrebbe essere la prima e più ambiziosa missione di questo esecutivo, pur coincidendo con l’esaurimento del suo compito di eccezione. Peraltro, come
espressamente ammonito dal Consiglio di Europa, l’intervento sulle norme elettorali trova maggiore legittimazione proprio quando non ci si trova all’estremo ridosso di un ritorno alle urne, atteso che altrimenti è come cambiare le regole in corsa, per non dire che qualsivoglia ipotesi verrebbe a quel punto guardata con le sole lenti deformanti dei sondaggi di giornata.
Anche per questo il governo ha il dovere di garantire immediatamente, diremmo prima di ogni cosa, l’abolizione del porcellum. Che non può più essere bloccato dal dibattito su quale diverso sistema adottare. Nè può essere il paravento per forzare riforme costituzionali palingenetiche quanto confuse.
L’evidente incostituzionalità della norma attuale (segnalata di recente anche dal presidente della Consulta) giustifica pienamente un intervento con decreto d’urgenza che se non può spingersi a fare opzioni su sistemi diversi, può senz’altro abolire la norma-porcata ripristinando il mattarellum e costringendo il Parlamento a pronunciarsi nei 60 giorni imposti per la conversione del decreto.
Nessun tecnicismo elettorale è perfetto. Ed è decisiva la concreta prassi applicativa che ne fanno i partiti. Ma è certo che nessun sistema è peggiore di quello che noi abbiamo oggi. Superarlo è un obbligo prioritario di un governo che vuole essere di salvezza nazionale e che peraltro solo in questa fase di avvio può sperare di imporsi a partiti riottosi. Salvo non voglia replicare, persino in brutta copia con l’aggravante della spartizione partitica, la parabola non proprio esaltante del governo Monti.

l’Unità 9.5.13
Sinistra, la sfida della realtà
Cambiare la realtà. Questa la vera sfida del partito
Che senso ha «reggere» una situazione che si è fatta insostenibile?
Il partito Pd è da buttare se non saprà darsi un senso ben oltre questa esperienza di governo e le necessità che lo stringono da ogni lato
di Massimo Adinolfi


Il governo Letta è un governo politico. Il governo Letta è un governo di necessità. Possono queste due affermazione stare insieme? Temo di no. Almeno non a lungo. Almeno non per chi assegna alla politica se non proprio il compito storico di far fiorire sulle basi del regno della necessità quello della libertà, come diceva il vecchio Marx nel «Capitale», almeno quello di far comunque fiorire qualcosa, che non sia soltanto la quadratura dei conti o i compiti a casa richiesti all’Italia dall’Europa.
Qualcosa, insomma, che abbia dalla sua qualche buona «ragione» e non soltanto delle «cause»: sempre esterne, arcigne e insormontabili. Le ragioni, infatti, possiamo farle nostre; non così le cause, che non possono essere rivendicate, ma solo subite. È una distinzione concettuale (e reale) alla quale purtroppo non si presta più alcuna attenzione e lo sottolineo non per caso, ma per indicare innanzitutto un terreno culturale sul quale il Pd dovrebbe provare ad attestarsi con forza: contro un naturalismo troppo étriqué, che investe anche ambiti un tempo riservati quasi esclusivamente all’azione umana, colora di sé le politiche economiche come quelle sociali, e toglie spazio e senso d’essere a tutte, ma proprio a tutte le culture che sono confluite nel partito democratico (e, invece, si sposa senza troppa difficoltà ma con una buona dose di ideologismi con i principi neoliberisti in economia, con la religione del mercato, della concorrenza, della competitività come regola di vita degli individui e degli Stati).
Se ora guardiamo all’esperienza politica del partito democratico dalla crisi del governo Berlusconi ad oggi, vi troviamo un costante, quasi univoco richiamo a vincoli, compatibilità, necessità, dati di realtà: gli esami davvero per il Pd sembrano non finire mai. Che si trattasse della formazione del governo Monti o dei richiami europei a vecchi e nuovi parametri economici, il Pd ha chinato il capo, e progressivamente ristretto i propri orizzonti, precludendosi del tutto il compito di guardare oltre lo stato di necessità: di un qualche regno della libertà ha fatto mostra di non saperne più nulla, neppure alla lontana, neppure per sentito dire. Certo, per questo bagno di realtà ha usato e continua ad usare lo ha fatto ancora Reichlin, su queste pagine il valore, l’etica severa della responsabilità. Contro la nobile ma sterile etica della convinzione. Il che è giusto, se si tratta di scongiurare quel riflesso, sempre presente a sinistra, di rinchiudersi nella purezza presunta delle proprie soggettive, a volte idiosincratiche certezze, lasciando perdere la sfida del governo e il terreno oggettivo dell’azione politica. Ma è sbagliato, drammaticamente sbagliato se rimane l’unica parola che il Pd intende consegnare alle giovani generazioni, ai tanti che non votano più, ai molti che la bronzea necessità spinge non dentro, e neppure solo ai margini, ma proprio fuori dalla realtà economica e sociale del Paese.
Tanto più che il costante appello alla «responsabilità» finisce con lo svuotarsi di qualunque senso, se diviene solo la maniera di cambiare nome alla necessità, invece di cambiare le necessità che ci  governano.
Ora, io non dico per questo che questa esperienza di governo sia da buttare: concedo a tutti, tanto più a un governo a guida Pd, il beneficio d’inventario. Dico invece che il Pd è da buttare se non saprà darsi un senso ben oltre questa esperienza di governo e le necessità che lo stringono da ogni lato. E se andrà al congresso per dire come vuole cambiare la realtà, non come intende prenderne atto. (L’Europa, diceva un vecchio liberale, è l’unico continente che ha un contenuto, il che vuol dire che essere europei significa proprio questo: non star fermi al dato naturale, ma investirlo di nuovi contenuti e nuovi significati. Vorrei ascoltare l’Europa quando mi dice questo, non altro).
Guardo perciò a cosa si muove oggi, tra i democratici, in cerca di qualcuno o di qualcosa sia sul piano della capacità di leadership che su quelle delle politiche che propone che non intenda la missione del partito come la ricerca della posizione da tenere, perpetuando lo stato di necessità. Scegliere un reggente anziché un segretario è un’altra volta stare entro i limiti della realtà data, senza provare a indicare non già come raggiungere il regno della libertà, ma dov’è, almeno, una possibile via d’uscita. Che senso ha, infatti, «reggere» una situazione che si è fatta insostenibile, dove si continua a recitare a soggetto?
La realtà questo almeno la modernità ha insegnato a tutte, ma proprio a tutte le culture politiche del Pd è prima un compito che un dato. E chi ti racconta come stanno, purtroppo, le cose dice il falso: non perché le cose non stanno come dicono, ma perché in generale le cose non «stanno» affatto, ma si muovono. E chi invece ti racconta il contrario ti racconta solo una parte della realtà, e ti nasconde quell’altra parte che dipende da quello che tu puoi fare, e che può essere, per fortuna, più di quello che è stato fatto (e, ahimé, «ti» è stato fatto).

l’Unità 9.5.13
Il Dottor Sottile e il Migliore
Se pure Amato rimpiange il Migliore
di Michele Prospero


COSA MANCA DI ESSENZIALE NELLA CONGIUNTURA STORICA COSÌ DIFFICILE CHE SCUOTE L’ITALIA E MINACCIA LA SOPRAVVIVENZA STESSA DELLA SINISTRA? Ma è ovvio: manca la cultura politica dei comunisti italiani. Parola di Giuliano Amato che nella bella intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere di ieri non si limita a rendere l’onore delle armi al vecchio partito. Ma se la prende con «i bisnipoti dimentichi della vera grande lezione del Pci» e che da anime belle sono incapaci di svolgere una funzione nazionale adeguata ai tempi.
È giusto dissentire su scelte politiche al alto rischio e mostrare un non dissimulato disagio per mosse difensive non preventivate, come quella che ha condotto al varo del governo Letta sorretto da una maggioranza anomala e di sicuro indigesta. Ma non è possibile farlo con una regressione a forme di primitivismo politico. Il Pci, che è diventato il «partito nuovo» proprio appoggiando il governo non proprio edificante del maresciallo fascio-monarchico Badoglio, aveva impresso nel suo codice genetico la natura strutturalmente ambigua della politica.
Questa composizione duale dell’agire politico, che ne rimarca l’inevitabile dimensione tragica, l’aveva colta con efficacia lo storico del pensiero Meinecke, ricavandola ovviamente da Machiavelli. La politica, scriveva, ha un contenuto a così elevato tasso culturale da sfiorare le vette della spiritualità, del progetto razionale. Possiede però anche un tratto così ferino e demoniaco da lambire i bassifondi più empi della naturalità, della manovra disinvolta. Chi avverte il fuoco dell’impegno politico deve prendere la politica per intero, cioè nel suo doppio corpo descritto dal segretario fiorentino. Vie di fuga non sono ammissibili.
Etica e calcolo, ragione e forza, idea e natura, progetto e male sono coessenziali nell’impasto che in ogni tempo definisce la politica. Ha perciò ragione Amato a prendersela con una facilona «volontà di purificazione attraverso lo zainetto sulle spalle» che pretende di dare lezioni di etica pubblica. Dopo aver impedito altri governi per risolvere la crisi seguita al voto, i nuovi campioni della morale politica riscoprono la morsa di una coscienza infelice solo accaldandosi sullo spettro della riduzione della diaria. Gratta il moralista radicale e scopri il culto umano, molto umano del feticcio del vile denaro.
L’unica cosa che convoca la coscienza interiore per questi alfieri dell’intransigenza etica sono gli emolumenti.
Il compromesso, il negoziato sono ineliminabili strumenti della lotta politica. Non è possibile infatti scegliere l’avversario preferito o definire le migliori condizioni oggettive, così lineari che risparmiano l’onere di scelte tragiche.
Ci sono momenti che consentono solo l’adozione di scelte drammatiche, costose e dall’esito incerto. E bisogna assumerle, anche se non danno un facile lustro, perché gli attori non hanno più alternative.
È facile comportarsi come fa qualche novello deputato che non si lascia sfuggire neppure una telecamera per annunciare al mondo i propri giovanili dolori. O scrivere l’estetica del franco tiratore. Nella maledetta tragicità che connota sempre la politica c’è scritta ben impressa una parola: obbedienza, senso della disciplina.
Tutto questo, avverte Amato, rientra nell’abc della politica e «Togliatti non avrebbe avuto difficoltà né a capirlo, né a farlo capire». Chi va alla ricerca del compromesso comunque, anche quando la situazione richiede «impeto», è da criticare senza indugio perché gioca un ruolo subalterno e inadeguato. Ma anche chi non sa essere «rispettivo» quando la situazione esige negoziati, suggerisce trattati di armistizio, svolge una funzione negativa. Dosare compromesso e conflitto, aggressione e negoziato è compito di una politica attrezzata a governare la contingenza.
Questa precauzione, di per sé elementare, appare difficile da assumere. Il guaio di oggi, come si esprime un folgorante Amato, è che «dal governo dei professori siamo passati al Parlamento dei fuoricorso». E il problema però è che proprio la sospensione della politica con i tecnici ha evocato l’irruzione di una anti-élite che celebra l’incompetenza perché nel governo uno vale uno.
Dallo straordinario edificio barocco che era il Pci, con le sue cerimonie, i suoi riti, i suoi selettivi percorsi di carriera, le sue sorveglianze e promozioni si è precipitati alla selezione della (anti) classe politica con curricula, provini, autopromozioni.
Anche Amato, che pure ha condotto un lungo duello a sinistra a sostegno del riformismo del Psi e contro quelli che giudicava come ritardi del Pci, deve ammettere che «un po’ di togliattismo sarebbe stato bene rimanesse pure nei suoi eredi». Parole sante. Senza il paradigma togliattiano niente Repubblica dei partiti, e solo partiti di Repubblica. E niente classi dirigenti costruite con un elevato senso dello Stato ma solo incompetenza abissale in nome però dell’etica dell’anti-inciucio che ha per suo sommo sacerdote Marco Travaglio.

il Fatto 9.5.13
La storia riscritta
Amato non sbagliò mai, tutta colpa dei morti
di Giorgio Meletti


Ce lo potevamo trovare presidente della Repubblica, il professor Giuliano Amato. Uno che invade una pagina del Corriere della Sera, gentilmente concessa, con uno sfogone per riabilitare “la mia storia calpestata”. Uno che, considerando le critiche imboscate di “diffamatori di professione”, le rintuzza inventandosi la fantasmagorica novella secondo la quale il prelievo forzoso sui conti correnti bancari, che il suo governo fece scattare il 9 luglio 1992, fu colpa dell'allora ministro delle Finanze Giovanni Goria, detto Gianni. Un morto che non si può difendere.
SEGUITE il racconto di Amato e cercate la differenza da una mano di briscola, con ammicchi e tutto. Il governo doveva trovare 30 mila miliardi di lire per tamponare la falla nei conti pubblici, ma “passai un'intera notte a cercare alternative, e tutto l'apparato dei ministeri non riusciva ad andare oltre la proposta di aumentare l'Irpef”. Accerchiato da incapaci privi di fantasia, il socialista Amato sbotta: “Queste cose le potete chiedere alla Thatcher, non a me”. L'intervistatore, Aldo Cazzullo, che mai disturba lo sfogo con obiezioni o richieste di chiarimento, forse è troppo giovane per ricordare che in epoca di concertazione furono i sindacati, dal moderato Sergio D'Antoni della Cisl allo scatenato Giorgio Cremaschi della Cgil, a intimare al governo di non toccare l'Irpef. Amato ha sempre ragione, anche quando la spara grossa nessuno fa “boom! ”. E dunque fu lui a difendere i lavoratori dalla rapacità di Goria, il quale a quel punto sfoderò l’idea del prelievo dai conti correnti. “Risposi: 'Gianni, lavoraci e dimmi domattina cosa ne pensa Ciampi'. Il mattino dopo ci fu un equivoco: capii che Goria con la testa mi dicesse di sì quando chiesi se Ciampi era d'accordo; in realtà Ciampi non l'aveva neanche sentito, e la misura passò”.
Uno può anche sentirsi male. La famosa manovra da 90 mila miliardi, con cui il governo Amato salvò l’Italia, nacque dunque così? Con un premier che chiede, un ministro che ammicca, un premier che capisce male? “E così la misura passò”. Ma in quale bar di quale periferia è accaduto? E perché Amato, dopo “una vita in cui ho manifestato capacità, competenze e nulla altro”, prende per così scemi i suoi lettori ed ex elettori?
IL PRELIEVO sui conti correnti è passato alla storia per la sua iniquità. Fu preso lo 0,6 per cento delle giacenze in banca: un miliardario che il giorno prima avesse investito tutto in Bot non pagò niente, un pensionato che il giorno prima avesse venduto una casa per comprarne un’altra per il figlio, trovandosi sul conto solo per quella notte, per esempio, 200 milioni di lire, dovette consegnare un milione e 200 mila lire alla Patria. Ma quella misura era molto tecnica, e non fu concepita da uno svagato Goria tra una strizzata d'occhio e un colpo di sordità, bensì scritta negli uffici della Banca d'Italia dallo staff dell'allora vicedirettore generale Tommaso Padoa-Schioppa (un altro che non può più testimoniare) mentre gli uomini dell'altro vicedirettore generale, Antonio Fazio, si occuparono di mettere a punto l'altra sorpresa fiscale, l’Ici sugli immobili. Fazio, l’allora direttore generale Lamberto Dini e l'allora governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, sono vivi e possono farci sapere se è vero che il governo Amato varava le stangate fiscali come fossero partite a dadi, e che il prelievo dai conti correnti fu deciso senza sentire il parere della Banca d'Italia perché quel distratto-ne di Gianni Goria “in realtà Ciampi non l’aveva neanche sentito”. Il venerato pensatore socialista ha l'antipatica abitudine di riscrivere la sua storia infierendo sui morti. Inveisce sul “signor Grillo” perché lo chiama “tesoriere di Craxi”: “mente sapendo di mentire: usa il termine che possa farmi apparire il più spregevole possibile”. Amato ha ragione, lo spregevole titolare non è lui, ma Vincenzo Balzamo, morto 21 anni fa. Poi c'è la pensione da 31 mila euro al mese. Amato tuona: “Un falso clamoroso. È una cifra lorda comprensiva del vitalizio, che verso in beneficenza”. Quindi è vero, ma l'intervistatore si dimentica di chiedergli a chi versa il vitalizio e da quando.
MA IL PROFESSOR Amato è dottor sottile, grande giurista e in quanto tale giudice di se stesso. Quando non basta, schiera la figlia avvocato che tempesta di querele, a quanto pare, “questi incorreggibili propalatori di falsi”: “Mia figlia si lamenta, dice che sono diventato un lavoro pesante per lei, ma è soddisfatta, perché le vince tutte”. Tutte quali? È come la beneficenza: mai un esempio, mai un'informazione precisa, mai un'obiezione dell'intervistatore.

Repubblica 9.5.13
Un governo a tempo
di Franco Cordero


Abbiamo un governo e con quanta festa l’accolgono i commenti: ringiovanito, «fresco», senza cariatidi inamovibili; vi figurano sette donne; non esistono precedenti. Ottimisti falsari proclamano che niente sia più come prima. Nuovo cielo, nuova terra (
Apocalisse, XXI capitolo). La politica diventa geometria non euclidea: tolto il quinto postulato, risultano pensabili triangoli la somma dei cui angoli non dia 180°; era classico quesito teologale se Iddio possa comporre tali figure (sì, secondo Cartesio, contraddetto da Spinoza). E qual è il postulato rimosso? L’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge, due canoni malvisti dalla parte dominante nel ventunesimo secolo. I maestri cantori li mandano in soffitta (metafora giolittiana, a proposito del marxismo in casa socialista).
Il tempo storico ha degli scatti. Ogni tanto gli scenari mutano improvvisamente. Venerdì 19 aprile tiravano il fiato milioni d’italiani, confortati dall’idea d’un trasloco. L’uscente dal Quirinale aveva idee pericolose: che Silvio Berlusconi sia rispettabile statista; e ad ogni passo raccomandava «larghe intese», refrain ossessivo. Dio sa con quale titolo (forse la «justice retenue » posseduta dai monarchi francesi ancien régime) aveva ammonito tribunali e corti: pendano congelati i dibattimenti relativi all’insigne politico, dove manca solo la sentenza; e nella tattica berlusconiana la stasi vale battaglie vinte, con tanti saluti alla divisione dei poteri, nonché al conto dei voti («omnipotence de la minorité», direbbe Tocqueville).
Riconsideriamo l’eventus mirabilis. I predestinati alla vittoria sbagliano ogni mossa, nel modo più goffo, mentre il Re di denari imbonitore sfiora l’en plein recitando parti da vecchio comico con punte torve. Vengono fuori tre schieramenti minoritari e complica lo stallo la corsa al Quirinale. Avesse la testa sul collo, il Pd sosterrebbe Prodi, insidiato dai bicameristi, finché le Cinque Stelle convergano, ma circolano idee torbide: la candidatura fallita al primo colpo nasceva dal patto sotto banco con l’affarista supremo; gli avevano sottoposto dei nomi affinché scegliesse; e saltando al capo opposto (terzo salto in quaran-tott’ore), mandano emissari al Quirinale con una supplica. Li salvi ricandidandosi. Eroicamente lui accondiscende. Rieletto sul campo, ripete l’oracolo: esiste una sola via, intendersi con Silvius Magnus; il quale non sta nella pelle, tanto gli piace questa musica; e passa al Totem l’inno delle serate osées: «Meno male che Giorgio c’è». Infatti, traghetta un Pd più morto che vivo, come se nel 1932 Hindenburg, vegliardo feldmaresciallo, presidente dell’odiata Repubblica nata a Weimar, installasse un gabinetto presieduto da von Papen, nel quale siedano lo stremato Brüning e l’invadente Goering. Avviene tutto in famiglia. Con arte democristiana i due Letta, zio e nipote, escludono dall’équipe falchi e poiane d’Arcore, intollerabili dagli elettori furenti, ma agl’Interni, vicepresidente del consiglio, va Angiolino Alfano, chierichetto scampanellante dallo sguardo severo, né tubano quali innocue colombe i quattro commilitanti (due, garruli, impersonano l’ultras cattolico vivamaria): comanda un padrone; e solo qualche farceur può raccontare che ormai il Caimano sia pesciolino rosso. «Governo politico», esclama l’ostetrico sabato 28, ore 17.15, uscendo dalla Vetrata.
La mutazione genetica sopravviene nel Pd, i cui rigoristi parlano d’espulsione se qualcuno non vota fiducia al nascituro. Qui viene in mente La fattoria degli animali, ultimo capitolo, dove maiali umanoidi camminano eretti e barano giocando a carte. Regna l’euforia d’una festa funebre: risulta ufficialmente morta la sinistra, già esanime; gli appetiti dicono quanto siano vivi i convitati. Il partito rosabiancofiore s’è tagliate le gambe: ogni cedimento ai modelli berlusconiani aggrava l’effetto ripulsivo nell’elettorato; e chi gli crederebbe quando, bruciato dalla mésaillance, risfoderasse intenzioni virtuose?
I falchi d’Arcore stridono, chiedendo politica forte, ossia poltrone, ma B. è troppo furbo per disfarsi d’un Pd ingaglioffito. Tutto sta nel tenere il governo sotto tiro. L’abbiamo visto irremovibile nell’imporre un suo fido presidente della commissione giustizia al Senato. Nel Pd ha un socio debole, quindi condiscendente (tutto fuorché le urne); e poiché il porcellum garantisce una Camera ubbidiente, la riforma elettorale scivola alla settimana dei tre giovedì. I ventidue resteranno in sella finché lui abbia cavato tutto l’utile: lo sappiamo giocosamente feroce; non farà sconti sul salvacondotto, servendogli il quale lo sventurato partner s’infogna, e cade l’intero sistema. Abolire l’Imu è slogan da fiera: sa che mancano i soldi; l’importante era mettersi dalla parte dei contribuenti scaricando l’ira sul povero partner. L’aspetto patetico sta nel fatto che due italiani su tre non vogliano finire così. Niente esclude, anzi pare probabile un governo dalla vita media o persino lunga, con l’incognita biologica: quanto duri lui; gl’interessati la studiano freddamente; correva l’ipotesi d’una successione familiare. Complimenti al Pd, senza dimenticare l’occasione persa dalle Cinquestelle (votare Prodi al quarto turno). Nelle storie umane esiste anche l’imponderabile. Speriamo che stavolta porti bene, ma resta il segno: post Berlusconem non vale più la discriminante vero-falso, né esistono figure così ignobili che uno debba vergognarsene; in trent’anni d’antipedagogia s’è allevate fameliche turbe berlusconoidi. Le grancasse indicano un guasto genetico.

Corriere 9.5.13
Come diventare italiani. Diritto del suolo e del sangue
risponde Sergio Romano


Ultimamente si sente ripetere anche da personaggi di alto livello, che è necessario stabilire in Italia lo «ius soli», perché «è giusto che chi è nato, cresciuto e ha studiato in Italia venga riconosciuto come cittadino italiano». Peccato che sia chiaramente una contraddizione in termini che sconfina nell'assurdo, dato che secondo lo «ius soli» si acquisirebbe la cittadinanza per il solo fatto del nascere in Italia (anche casualmente), ed è piuttosto difficile che un neonato sia già cresciuto e abbia già studiato! Quale Atena quando nacque dalla testa di Zeus… Possibile che non si possa approfondire seriamente questa delicata questione, e non limitarsi a slogan che hanno ben poco senso!
Giacomo Ivancich, Venezia

Caro Ivancich,
Preferisco il «diritto del suolo» perché non credo che certe materie, come quella della cittadinanza, debbano essere regolate da un fantomatico «diritto del sangue». Non mi piacciono i nazionalismi e in particolare quelli «biologici», frutto di teorie perniciose e screditate. Credo che un bambino nato in Italia da stranieri residenti nella Penisola sia potenzialmente un cittadino italiano. La legge potrebbe prevedere qualche limite e privare della cittadinanza, per esempio, coloro che lasciano definitivamente l'Italia. Una maggiore liberalità avrebbe per effetto l'aumento delle doppie cittadinanze, ma il fenomeno è il naturale risultato dei grandi cambiamenti della società umana negli ultimi decenni. Gli Stati nazionali non sono più creazioni mistiche. Le frontiere, soprattutto in Europa, non sono più barriere invalicabili fra opposti nazionalismi. Gli attori e i protagonisti dell'economia internazionale sono tutti transfrontalieri, destinati in misura crescente a trascorrere una parte della loro vita in luoghi diversi da quelli in cui sono nati e cresciuti. Se la persona che ha due passaporti si comporta correttamente in ciascuno dei Paesi a cui appartiene, la cosa non dovrebbe sorprenderci o, peggio, scandalizzarci.
Il maggiore problema italiano, comunque, non è quello dei bambini, ma dei loro genitori. Le leggi e le procedure che regolano la concessione della cittadinanza agli stranieri sono ancora troppo avare e macchinose. In molti Paesi europei sono stati introdotti esami di cittadinanza a cui sottoporre i candidati. I metodi adottati e le prove d'esame variano da Paese a Paese e rispondono a criteri diversi. I Paesi Bassi, ad esempio, cercano di scoraggiare i fondamentalisti e distribuiscono libretti d'istruzioni in cui appaiono, tra l'altro, nudi femminili e scene di matrimoni omosessuali. Negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna di David Cameron, i candidati devono rispondere a domande sulla storia nazionale del Paese di cui vogliono diventare cittadini. I quesiti sono discutibili e possono cambiare da un governo all'altro. Ma hanno almeno il merito di ridurre il tasso di discrezionalità e rendere la procedura più trasparente.
Non è tutto, caro Ivancich. Alla fine di questo percorso la cittadinanza è ufficialmente concessa durante una cerimonia generalmente organizzata nel palazzo municipale del Comune d'appartenenza alla presenza del sindaco o di una persona da lui delegata. Da un articolo recente del Financial Times apprendo che in Gran Bretagna il numero delle nuove cittadinanze è approssimativamente di circa 200.000. In Italia invece l'ostilità della Lega ha avvolto questa materia in una nebbia burocratica che non giova né al Paese né all'inserimento dei nuovi arrivati nella società italiana.

Corriere 9.5.13
Padova, abusi nel seminario minore
Il rettore finisce a processo
Don Temporin accusato di violenza. Il legale: «È estraneo e prova dolore per il ragazzo». La vittima: «Mi ha fatto giurare di mantenere il silenzio davanti alla Madonna»
di Nicola Munaro

qui

Repubblica 9.5.13
Il mistero vaticano di Emanuela Orlandi
Servizi, killer e i Lupi grigi i misteri che inquinano le indagini
di Marco Ansaldo


POCO dentro le mura leonine la piccola chiesa di Sant’Anna custodisce un segno che equivale a un estremo riconoscimento. Oltre una tenda rossa a pochi passi dall’altare, una porta e delle scale scendono in una cripta. Qui, fra cinquanta sepolcri nei quali dormono il sonno eterno preti, monsignori e personale laico un tempo in forza al Vaticano, riposa per volere del Papa anche Ercole Orlandi, commesso della Casa pontificia, trapassato aspettando un miracolo che non è mai avvenuto: la verità sulla scomparsa di sua figlia Emanuela. Il Vaticano non glie l’ha mai concessa questa verità, ma gli ha offerto la nobile sepoltura.
Fuori dal territorio vaticano, a Roma, in pieno centro. Un’altra chiesa, un’altra tomba. Oltre il grande portone della basilica di Sant’Apollinare dove ogni giorno si può lucrare l’indulgenza plenaria perpetua “pro vivis et defunctis” c’è il loculo dove riposava fino a un anno fa (il suo corpo è stato riesumato) Renatino De Pedis, boss dei Testaccini, e cioè la frangia più pericolosa e potente della Banda della Magliana. Con lui, sepolti, erano tanti segreti. Fra questi, si dice, la verità sulla Orlandi.
Se Emanuela fosse viva, avrebbe oggi 45 anni. Trenta dalla sua scomparsa, il 22 giugno 1983. E, tra le piste individuate sul suo caso, quella turca appare definitivamente da archiviare. Come nell’attentato al Papa di due anni prima, compiuto dal Lupo grigio Mehmet Ali Agca, molti hanno provato a inquinare per confondere le acque. Alcuni per mestiere, altri per protagonismo. E ci sono riusciti. Dai servizi segreti di vari Stati, a magistrati di scarsa affidabilità, allo stesso killer turco.
Agca anzi, con l’innegabile astuzia e l’ineffabile cinismo di cui è capace, nel suo ultimo libro ha mescolato come al solito montagne di bugie con gemme rarissime. È lì che bisogna andare, setacciando i brandelli di verità rimasti impigliati. Quando la giornalista Claire Sterling pubblicò su imbeccata della Cia l’abbozzo della cosiddetta pista bulgara, l’attentatore turco ci saltò sopra subito. «A me viene da ridere – rivela adesso - ma è grazie a questa ipotesi che mi balza alla mente un’idea: invento che durante il mio soggiorno a Sofia mi sia davvero incontrato con uomini dei servizi segreti bulgari legati all’Unione Sovietica». Agca dunque ci ha preso tutti in giro. Ma ha una credibilità vicina allo zero quando vuole spacciare che Emanuela sarebbe stata rapita dietro richiesta del governo iraniano, per convincerlo a non rivelare i mandanti dell’attentato, e far scattare la sua liberazione.
Markus Wolf, la mitica spia senza volto del servizio tedesco orientale, in un faccia a faccia in un caffè di Berlino prima di morire negò ogni coinvolgimento della Stasi sull’attentato e sulla scomparsa della ragazza: «Vede, infiltrare spie nella Santa Sede era per noi un lavoro molto difficile. Bisognava individuare le persone, io amavo reclutare i giovani, ma aspettare anche che crescessero. C’era una divisione, la XXesima, che lavorava sulla Chiesa. Ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo».
Nulla a che fare su Emanuela anche dal fronte turco, inventato dai servizi della Germania Est per depistare. Lo dimostrò l’ex colonnello della Stasi, Guenter Bohnsack. «Le lettere inviate in Italia sul caso della Orlandi? – rispose una volta con sicurezza – Le conosco. Le facevamo scrivere noi in turco. Chiedevamo la liberazione di Ali Agca e uno scambio con la ragazza. Ma era un trucco per distogliere l’attenzione dai bulgari, in quel periodo sotto tiro per l’attentato al Papa. Ce lo chiese direttamente il Kgb. E noi fabbricammo quei messaggi. Ecco qui», terminò l’ex spia, sparpagliando sul tavolo una serie di lettere originali.

Repubblica 9.5.13
Non c’è ancora una verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Il flauto riemerso dal nulla e un supertestimone riaccendono le speranze della famiglia e l’attività degli inquirenti
I silenzi della Santa Sede, i soldi dello Ior e le trame malavitose della banda della Magliana si intrecciano con nuove oscure rivelazioni
Ma è da Papa Francesco che finalmente potrebbe arrivare la soluzione
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Oltre il grande portone della basilica di Sant’Apollinare dove ogni giorno si può lucrare l’indulgenza plenaria perpetua “pro vivis et defunctis” c’è il loculo dove riposava fino a un anno fa (il suo corpo è stato riesumato) Renatino De Pedis, boss dei Testaccini, e cioè la frangia più pericolosa e potente della Banda della Magliana. Con lui, sepolti, erano tanti segreti. Fra questi, si dice, la verità sulla Orlandi.
Monsignor Piero Vergari non vuole parlare con nessuno: «Solo silenzio, preghiera e studio; non altro». Anche perché lui, spiega, con Emanuela non ha mai avuto nulla di che spartire: «Mai vista, mai incontrata, mai conosciuta; dei seicento alunni della scuola di musica mai conosciuto nessuno neanche di nome! ». Quinto indagato — gli altri sono Angelo Cassani, Gianfranco Cerboni, Sergio Virtù e Sabrina Minardi — nel sequestro avvenuto il 22 giugno di trent’anni fa di Emanuela, Vergari comunica oggi col mondo soltanto via mail. Fino al 1991 rettore della basilica di Sant’Apollinare situata a pochi metri dalla scuola di musica frequentata da Emanuela, e a pochi passi da dove la ragazza è stata vista per l’ultima volta, don Vergari concede solo risposte brevi, poche parole per dirsi estraneo a ogni addebito, e la comunicazione che si interrompe bruscamente quando gli viene posta la domanda più importante: la sepoltura di De Pedis avvenuta nel 1990, due mesi dopo la morte, a Sant’Apollinare, l’ha perorata lei come in molti sostengono oppure le è stata imposta o suggerita dal cardinale Ugo Poletti, allora vescovo vicario del Papa nella diocesi di Roma e capo dei vescovi italiani? Silenzio. Nessuna risposta. Appena sente il nome del boss sepolto in Sant’Apollinare come fosse stato un santo, don Vergari si chiude a riccio. Eppure il sacerdote, che conobbe De Pedis quando era ancora cappellano al Regina Coeli, avrebbe le carte in regola per chiarire molte cose. Anche in Vaticano, infatti, non in pochi sono convinti che è soltanto rispondendo alla domanda su chi abbia spinto davvero per questa sepoltura, e soprattutto perché, che si potrà venire a capo di uno dei sequestri di persona più misteriosi della storia italiana.
Tutte le notizie partono dal Vaticano e portano a Sant’Apollinare. Un semplice coincidenza o qualcosa di più? A sorpresa è proprio un monsignore del Vaticano che intende restare anonimo a entrare con lucidità entro il mistero. Lo fa trent’anni dopo. Lo fa senza avere scoop da rivelare. Ma mostrando semplicemente una capacità unica di tirare le fila. Dice: «Giovanni Paolo II qualche mese dopo la scomparsa di Emanuela disse agli Orlandi che si trattava di “un caso di terrorismo internazionale”. Che sia così, ne siamo tutti convinti, ma la domanda resta una: cosa intendeva il Papa per “terrorismo internazionale”? Sono molti oltre il Tevere a ritenere che la scomparsa sia legata alla Banda della Magliana e insieme ad ambienti malavitosi italiani». Una tesi che significativamente unisce il magistrato Rosario Priore e l’ex fondatore dell’organizzazione criminale Antonio Mancini. La Banda aveva fatto pervenire fondi importanti allo Ior usati poi dal Vaticano per finanziare il sindacato polacco di Solidarnosc (appunto una vicenda dai contorni extra nazionali) e permettere così la caduta del comunismo. Qualcuno in Vaticano (don Vergari? o chi?) aveva contatti con la Banda e suggerì ai suoi membri di investire nello Ior (che fino al crack ambrosiano garantiva interessi a due cifre). «Quando la Banda volle riavere quei soldi indietro, Paul Marcinkus, allora presidente della banca vaticana, obiettò che non era possibile a causa del dissesto finanziario. Fu così che, dopo ulteriori richieste andate a vuoto, i clan malavitosi pianificarono il rapimento di un cittadino vaticano come, sono parole dei magistrati, “istanza di restituzione delle ingentissime somme”. I malviventi, insomma, decisero di rapire una ragazza vicina al Vaticano per fare pressione dentro le mura e riavere indietro i propri soldi». E cosa c’entra la sepoltura di De Pedis nella basilica di
Sant’Apollinare? «Come detto il Vaticano aveva un debito con De Pedis il quale, probabilmente, si era consultato prima di fare l’“investimento” nello Ior proprio con don Vergari, quando questi era cappellano del Regina Coeli. Così la sepoltura nella basilica nella quale don Vergari era rettore si spiegherebbe come una sorta di espiazione da parte del Vaticano, o comunque di qualche personalità del Vaticano, di un debito regresso. Come a dire: non ci avete ridato i soldi, pagate il conto così. Insieme, c’è anche la volontà di chi ebbe rapito Emanuela di indicare un luogo significativo per risolvere l’intero mistero».
La pista internazionale e quella interna. Per trent’anni le molteplici ipotesi sul sequestro hanno seguito due strade ritenute troppo superficialmente divergenti perché inconciliabili. Eppure, dentro i sacri palazzi, in molti sono oggi coscienti che pista interna e pista internazionale in realtà sono due facce della medesima medaglia. Dice ancora la fonte anonima: «Wojtyla, quando parlava di “caso internazionale”, si riferiva ai soldi sporchi (ovviamente lui ha scoperto dopo che fossero tali) finiti oltre Cortina, tardivamente consapevole che la provenienza di questi soldi era italiana. La Banda della Magliana, certo, ma anche Cosa Nostra: è agli atti il coinvolgimento del cassiere della mafia Pippo Calò».
Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ne ha sentite tante in questi anni. Senz’altro troppe. Per lui una nuova speranza è rappresentata da Papa Francesco. Dice: «L’ho salutato insieme a mia madre pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro fuori dalla parrocchia di Sant’Anna dov’era venuto a celebrare messa. Domenico Giani, capo delle gendarmeria, gli ha detto: “C’è la mamma di Emanuela Orlandi”. Si è avvicinato e ci ha detto: “Coraggio!”. Gli abbiamo chiesto di fare emergere una volta per tutte la verità e da come ci ha stretto la mano abbiamo capito che qualcosa farà. Tempo fa Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, mi ha ricevuto in un ufficetto sopra l’appartamento papale. Gli ho chiesto di aprire i fascicoli esistenti in segreteria di Stato su mia sorella. Ho avuto sincere promesse ma ancora nessun fatto».
Un giallo infinito, insomma, che probabilmente soltanto l’autorità papale potrà risolvere. Nell’attesa vi sono ulteriori fatti ad alimentare gli auspici degli Orlandi. Fra questi, l’ultimo ritrovamento, avvenuto qualche settimana fa, di un flauto traverso: è lo stesso strumento che Emanuela infilò nello zainetto prima di uscire il 22 giugno 1983 per andare a lezione di musica nel complesso di Sant’Apollinare. La custodia era nera e consumata agli angoli, la fodera interna rossa. La segnalazione del ritrovamento è arrivata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”. Il flauto è stato fornito dal supertestimone Marco Fassoni Accetti che, in un’intercettazione ambientale, si vede minacciato dalla moglie che gli dice di stare attento altrimenti «racconto la storia di Emanuela». Chi è Fassoni Accetti? Che legami ha con i presunti giri attorno a Sant’Apollinare? Di certo si sa che è un autore cinematografico indipendente che recentemente si è autoaccusato di essere stato uno dei telefonisti del caso Orlandi. La Procura sta indagando. Intanto ha acquisito il “reperto” e ha disposto una consulenza tecnica. Ma ciò che molto fa pensare è una traccia in più, un dettaglio che prospetta scenari inediti. Il flauto, infatti, si trovava sotto una formella raffigurante una stazione della Via Crucis. Un richiamo, quello alla Via Crucis, notevole. Il 4 settembre 1983, infatti, il cosiddetto “Amerikano”, l’uomo che chiamava a casa Orlandi fornendo prova di essere almeno in contatto con Emanuela (fece ritrovare la tessera della scuola di musica e uno spartito), chiamò e disse testualmente: «Nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via Crucis». Una sorta di messaggio in codice diretto a personalità interne al Vaticano, ma che si riferiva a un fatto vero: in quegli anni il rito pasquale celebrato dal Papa si concludeva proprio nella chiesa ai Fori, di fronte al Colosseo. Non solo, l’ultimatum posto dai sequestratori con cui l’“Amerikano” chiedeva la scarcerazione di Ali Agca in cambio di Emanuela, faceva riferimento di nuovo a Santa Francesca Romana. Gli investigatori nei giorni seguenti perlustrarono l’area ma non trovarono nulla. Dell’“Amerikano” di sa solo che il Sisde lo descrisse come «persona colta, raffinata, probabilmente legata ad ambienti ecclesiastici». Ambienti come possono essere quelli che ruotarono in quei mesi terribili attorno alla basilica di Sant’Apollinare. Ambienti che oggi, a trent’anni dalla scomparsa di Emanuela, potrebbero aprirsi una volta per tutte e consegnare quella verità che nessuno ha mai potuto conoscere, neppure Ercole Orlandi, padre di Emanuela, sepolto entro il recinto delle mura leonine senza aver avuto, dal Vaticano, alcuna giustizia.

Repubblica 5.4.13
Quel romanzo criminale che porta Oltretevere
di Giancarlo De Cataldo


L’intrigo internazionale non è mai esistito. Almeno su questo c’è accordo. La “pista” dei Lupi Grigi, terroristi dell’estrema destra turca che avrebbero rapito Emanuela Orlandi per ottenere la liberazione di Ali Agca, non è una cosa seria. Un bel passo avanti, dopo che per decenni mezzo mondo si è fatto menare per il naso dal killer dagli occhi di ghiaccio, fra una visione del Terzo Segreto di Fatima e l’annuncio dell’imminente liberazione dell’ostaggio, nel frattempo amorevolmente custodito in qualche sperduto monastero d’Oriente. A fabbricare i falsi comunicati, per mettere in difficoltà Papa Wojtyla, campione dell’anticomunismo, erano gli agenti segreti della Germania Est che, anni dopo, si sarebbero divertiti a rivendicare la prodezza.
Certo, si potrebbe obbiettare: chi ci dice che non mentano? Sono spioni, è il loro mestiere! Ma ci si dovrebbe chiedere, allora: perché una simile millanteria, ora che la Guerra Fredda, da motore dell’universo, è ridotta a archeologia da convegni universitari? Non è più plausibile che siano, per una volta, sinceri? Il fatto è che una maledetta, pervasiva ambiguità ha caratterizzato,
sin dalle sue prime battute, questa drammatica storia italiana.
Secondo Pino Nicotri, lo scrittore e giornalista che più di ogni altro ha indagato, con ossessiva meticolosità, sulla scomparsa della Orlandi, non si dovrebbe nemmeno parlare di rapimento, posto che la tesi del sequestro sarebbe nata in ambiente vaticano e soltanto dopo altri soggetti — e non solo gli spioni di Pankow — sarebbero intervenuti, trasformando un atroce caso di violenza in un intrigo internazionale. Alle trame complesse, però, una volta inscenate, ci si affeziona. Fascino e forza narrativa di un grande scenario lusingano l’inveterato gusto nazionale per il complottismo. E così voci e “piste”, ora grottesche, ora venate di tragico, involontario umorismo, si sono susseguite negli anni. Emanuela figlia segreta di un papa, ovvero nipote di un altro papa, o entrambe le cose; Emanuela viva, vegeta e sposata da qualche parte nel mondo; Emanuela a Londra, o addirittura a Roma, e persino protetta (e chissà poi perché) dai suoi stessi familiari. E via dicendo. In una pirotecnica girandola di rivelazioni che ha portato alla ribalta, nel corso degli anni, figure e figuri di un sottobosco mediatico degno di un tragico grand-guignol.
Alla fine, a contendersi il campo restano due sole ipotesi: Emanuela è rimasta vittima di un gioco erotico, ovvero è stata rapita dalla Banda della Magliana, ma senza il concorso di turchi, Servizi deviati e via dicendo. Entrambe le “piste”, come è sempre accaduto in questa storia che sembra non avere fine, conducono direttamente al Vaticano. Da un lato, il “gioco” erotico avrebbe coinvolto alti o medi prelati (secondo l’autorevole esorcista Padre Amorth, addirittura adepti del Maligno); dall’altro, Renatino De Pedis avrebbe rapito Emanuela per rientrare delle ingenti somme malaccortamente affidate allo spregiudicato finanziere in tonaca Paul Marcinkus. Che, peraltro, il Vaticano fosse l’epicentro della vicenda è noto sin dalle prime battute. Così come resta un punto fermo la scarsa, per non dire nulla, collaborazione delle autorità di Oltretevere. C’è un episodio emblematico che la dice lunga su quali e quante difficoltà abbiano incontrato coloro che si sono ostinati (e ancora si ostinano) a cercare la verità. A un certo punto, accogliendo finalmente una delle tante richieste dei nostri giudici, il Vaticano acconsente a lasciarsi intercettare: c’è un telefonista che comunica, dall’esterno, e dice di saperla lunga sul sequestro di Emanuela. Un certo giorno, costui chiama, e chiede di parlare con Sua Eminenza Casaroli. Seguono tre minuti di affannosa ricerca, passaggi da un centralinista all’altro, da un segretario a un sottoposto. Infine, una suora trafelata annuncia l’arrivo del cardinale. E a quel punto, la linea cade, l’intercettazione finisce, e i giudici (come troppo spesso è accaduto nella nostra felice Repubblica) restano con un palmo di naso.
Ora tutti gli esperti dicono che in Vaticano si respira aria nuova. Papa Bergoglio con questo “fattaccio” non c’entra per niente. Ha ricevuto il fratello di Emanuela, trovando per lui parole di conforto. Magari ci sono le condizioni perché il velo sia squarciato. Perché finalmente ci venga detto se la scomparsa di una ragazza di sedici anni nel centro di Roma è “cosa loro”, o se sono del tutto estranei.

il Fatto 9.5.13
La svolta
Marco Fassoni Accetti si è autoaccusato del sequestro. Nel suo passato: minori, sangue e foto
Caso Orlandi, ecco l’uomo che sa tutto: è lui il killer?
di Marco Lillo


Lo strano fotografo di 57 anni ha fatto ritrovare il flauto che dovrebbe essere quello della ragazza, cittadina vaticana, scomparsa nel 1983. Nei suoi racconti ai magistrati di Roma dimostra di conoscere particolari che non doveva sapere

L’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi è a una svolta. Questa frase è stata scritta e ascoltata troppe volte per crederci ancora, ma effettivamente c’è qualcosa di strano e di nuovo nell’ultima accelerazione dell’indagine: c'è un uomo di 57 anni – Marco Fassoni Accetti – che si autoaccusa di avere avuto un ruolo nel sequestro. Poi, visto che nessuno gli crede, porta come prova il flauto di Emanuela e comincia a raccontare trame senza capo né coda che coinvolgono i servizi segreti e il Vaticano. Ora però dalla sua biografia, grazie all’inchiesta giornalistica che sta conducendo la trasmissione Chi l’ha visto di Federica Sciarelli, si scoprono particolari inquietanti. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ieri è andato con la Polizia agli stabilimenti cinematografici De Paolis, il luogo nel quale è stato fatto ritrovare a Chi l’ha visto, da Marco Accetti, a distanza di 26 anni, un flauto identico a quello che la studentessa portava con sé all’uscita dalla sua scuola di musica quando è sparita a Roma.
I PM COMINCIANO a prendere sul serio un personaggio che a prima vista li aveva lasciati perplessi. Lunedì sono cominciati gli accertamenti della Polizia Scientifica per accertare se sul flauto vi siano tracce del Dna di Emanuela. Se davvero si scoprisse che quel “Rampone e Cazzani” è proprio il flauto di Emanuela, la posizione di Accetti, indagato con l’accusa di sequestro di persona aggravato dalla morte dell’ostaggio, si farebbe difficile. Fassoni Accetti ha raccontato di avere avuto un ruolo, quello del telefonista, nel sequestro di Emanuela Orlandi. All’inizio né i pm né i giornalisti lo stavano molto a sentire e per questo si è fatto accompagnare agli stabilimenti De Paolis facendo ritrovare il flauto. Ieri la trasmissione Chi l’ha visto è tornata a occuparsi della sua personalità istrionica e inquietante. Fassoni Accetti è stato arrestato (e poi condannato per omicidio colposo e omissione di soccorso) perché ha investito con un furgone un bambino di 12 anni, José G., figlio di un funzionario uruguayano dell’organizzazione delle Nazioni Unite, Ifad. La novità è che il fotografo in quel periodo – poco prima di essere arrestato – contattava anche ragazze dell’età di Emanuela Orlandi per proporre loro servizi fotografici a pagamento.
Accetti il 20 dicembre 1983 era uscito di casa per fare un servizio fotografico. E il piccolo José venne colpito dal furgone, secondo le perizie depositate nel fascicolo, sulla schiena. Accetti è stato condannato solo per omicidio colposo non per omicidio all’esito di un sequestro, come inizialmente si era ipotizzato. Emanuela Orlandi sparisce a giugno, sei mesi prima la morte di José, Mirella Gregori a maggio. Accetti ancora oggi coltiva la sua passione per l’immagine, il cinema, le frasi ad effetto. Sul suo sito c’è la foto di un bambino acciuffato da un adulto a testa in giù. Il titolo è “Rapimento di M. F.A. (Marco Fassoni Accetti, ndr) ad opera di lavorante nel giardino di un ricco”. Poi, tra mille scatti, ci sono anche la foto di un viandante assalito con un coltello e quella di una ragazza che somiglia un po’ a Emanuela Orlandi, stesa all’interno di una tomba. E poi scritti come “Mamma! Gridava mamma! Gridò mamma come quando nacque. E la sabbia lo allattò”.
FOTO E FRASI artistiche che oggi gli investigatori scrutano con interesse. Accetti si accusa di avere avuto un ruolo nel sequestro Orlandi e sembra quasi giocare con gli investigatori, come nei film americani stile Seven con Brad Pitt. Quando aveva 17 anni ha partecipato a un assalto al liceo Tasso di Roma insieme a un estremista di destra, Sergio Mariani, poi diventato famoso perché è stato il primo compagno di Daniela Di Sotto, ex consorte di Gianfranco Fini. La sua partecipazione all’assalto era stata estemporanea. Accetti non c’entrava nulla con Mariani e non faceva parte del Fronte della Gioventù eppure era lì. Aveva poi militato nei Radicali e secondo il padre (un imprenditore che aveva fatto fortuna in Libia dove Accetti è nato) aveva anche avuto qualche contatto con Lotta Continua. Comunque una testa calda. Grazie alla sua somiglianza con Roberto Benigni, nel 1999 Accetti compare a Domenica in e gli investigatori continuano a studiarlo. Accetti riferisce particolari che difficilmente un estraneo alla famiglia Orlandi potrebbe conoscere e non si riesce a capire come abbia fatto a trovare un flauto identico a quello di Emanuela. Una cosa è certa: ha ucciso con il suo furgone un bambino sparito a dieci chilometri di distanza, sei mesi dopo la sparizione di Emanuela Orlandi. José, un ragazzino che frequentava l’esclusiva St George school, esce di casa all’Eur alle 18 per tagliare i capelli lunghi e fare contenti papà e mamma. I genitori lo rivedranno con i capelli corti solo all'ospedale Sant’Agostino di Ostia, già morto. Alle 20 un autista dell’Atac lo aveva avvistato sul ciglio della strada che taglia la pineta di Castel Porziano, vicino a Ostia.
Era pieno di sangue, con le ossa fratturate. Marco Fassoni Accetti lo aveva investito e non si era fermato a prestare soccorso. Aveva invece parcheggiato il suo furgone Ford Transit lontano, a Casal Palocco e con calma era tornato in piena notte con la sua ex fidanzata sul luogo del reato. Alla ragazza in realtà aveva detto di avere un’urgenza: voleva recuperare la sua attrezzatura fotografica nascosta nella pineta, chissà perché. Non le aveva detto nulla dell’investimento del bambino. Accetti aveva sangue sul giaccone ed era tornato con delle grandi buste.
Diceva che un masso gli aveva rotto il parabrezza e le buste servivano per evitare che la pioggia penetrasse nell’abitacolo. Intanto a pochi chilometri da lì il piccolo José stava spirando. Ieri a Chi l’ha visto, Accetti ha fornito una versione diversa da quella finora offerta durante il processo negli anni Ottanta. Sì, si era reso conto di avere travolto il piccolo José, ma quando era sceso dal furgone per controllare, lo aveva toccato alla giugulare scoprendo che era già morto. Ed era scappato. Parole senza alcun rischio. Non può essere più processato. Almeno non per quell’omicidio.

l’Unità 9.5.13
Femminicidio, lettera delle senatrici
«Ratificare la Convenzione di Istanbul»


Ratificare presto la Convenzione di Istanbul e istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno dei femminicidi. È la richiesta di cui si fanno interpreti senatrici di tutti i gruppi parlamentari in una lettera inviata al presidente del Senato Pietro Grasso. «Riteniamo di dover sollecitare l’attenzione di questo Senato scrivono su una questione non più eludibile e che, ormai, ha assunto i contorni di una vera e propria emergenza sociale, culturale e politica. Soltanto in questi primi mesi del 2013 sono state uccise 34 donne. Un numero rilevante che, purtroppo, conferma il drammatico trend di questi ultimi anni, come evidenziano i dati forniti dall’Istat». «Il femminicidio avvertono non può più essere considerato un fatto privato. È necessario che le istituzioni intervengano al più presto, adottando misure adeguate: politiche attive, ma anche promozione di una nuova cultura dei rapporti tra uomini e donne, che superi la violenza e la misoginia». «In tal senso, siamo convinte proseguono le senatrici della necessità di un maggiore presidio del territorio e dell’aumento dei centri antiviolenza, così come della costituzione di uno strumento specifico, quale la task force prevista dal ministro Josefa Idem». E il Senato può e deve «svolgere un ruolo importante nella costruzione di questa nuova cultura. Le chiediamo, pertanto, il Suo impegno perché venga al più presto, da un lato, ratificata la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011 il primo strumento che definendo un quadro ampio di protezione di donne e bambine, riconosce la violenza sulle donne come violazione dei diritti umani e discriminazione che è stata approvata soltanto dal Governo nel dicembre scorso. Dall’altro, venga costituita una commissione parlamentare di inchiesta che delinei il fenomeno del femminicidio, fornendo analisi, interpretazioni e adeguate soluzioni».

Corriere 9.5.13
«Un braccialetto elettronico per tenere lontani gli stalker»
Cancellieri: mai più scarcerazioni come a Reggio Emilia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Un dispositivo elettronico per tenere sotto controllo lo stalker sottoposto a provvedimento interdittivo. E così evitare che possa nuovamente avvicinarsi alla propria vittima. È una delle misure allo studio del governo per fermare le aggressioni di donne e così affrontare l'emergenza del femminicidio. Ma non l'unica. Perché l'azione coordinata tra i titolari dell'Interno, della Giustizia e delle Pari Opportunità dovrà proteggere chi ha già presentato denuncia e prevedere interventi per aiutare chi non ha il coraggio di uscire allo scoperto e ha bisogno di assistenza.
I pool specializzati
Lo dice chiaramente il ministro Anna Maria Cancellieri che annuncia la volontà di «rendere efficaci tutte quelle misure attualmente già previste dalla legge, spesso non applicate per mancanza di risorse». E poi spiega: «Parliamo di "braccialetto" per semplificare e dare l'idea di quello che dovrebbe essere lo strumento da utilizzare. Abbiamo la necessità di impedire a chi ha già mostrato comportamenti aggressivi di poter colpire e questa — al termine di un'approfondita indagine — potrebbe essere una soluzione efficace».
Non è l'unico provvedimento allo studio del suo dicastero: «Mi confronterò con i magistrati al fine di creare dei pool specializzati all'interno delle procure. Non dovrà mai più accadere che una persona indagata per reati così gravi possa tornare libera per errore come è accaduto a Reggio Emilia».
Soldi e personale
Cinque donne uccise in una settimana, altre aggredite, picchiate, violentate. L'appello al governo e al Parlamento lanciato da «Feriteamorte», il progetto curato da Serena Dandini e Maura Misiti, e rilanciato sul Corriere della Sera, trova risposte immediate. Due giorni fa il titolare del Viminale Angelino Alfano ha annunciato la discussione al prossimo consiglio dei ministri. Poi ha sottolineato la necessità di «trovare tutti i soldi che servono perché non può essere un limite di spesa o un vincolo di bilancio che possa fermare un governo che vuole difendere le donne». Una promessa che adesso dovrà essere messa in pratica. Perché non sono le leggi a mancare, ma i fondi. E questo sta provocando la chiusura di numerosi centri antiviolenza.
Nella relazione che lo stesso Alfano porterà a Palazzo Chigi sarà evidenziata la necessità di proporre al Parlamento la ratifica della Convenzione di Istanbul, in modo da ottenere proprio lo sblocco dei fondi attraverso la Convenzione «NoMore» che impone tra l'altro interventi per la formazione del personale e per la creazione di una banca dati che possa consentire la valutazione dell'entità del fenomeno per predisporre le misure di contrasto, del resto già prevista nel piano nazionale antiviolenza finora attuato solo in parte.
Procedura d'ufficio
Tra le misure allo studio di Cancellieri e Alfano c'è anche una modifica alla legge per prevedere l'arresto obbligatorio anche quando non viene presentata una denuncia da parte della vittima. Non è un mistero che le persone sottoposte a soprusi e abusi spesso abbiano paura di reagire. E talvolta arrivino addirittura a difendere il proprio aguzzino che le sottopone a una pressione psicologica alla quale non riescono a sottrarsi.
Gli «atti persecutori» sono puniti dall'articolo 612 bis del codice penale con «la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita». Questa pena «è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
La norma ha però un limite evidente: si procede solo di fronte «alla querela della persona offesa» che ha sei mesi di tempo dal momento del fatto per rivolgersi alle forze dell'ordine oppure alla magistratura. Proprio su questo si proverà adesso a intervenire con una modifica che invece dia all'autorità giudiziaria la possibilità di procedere anche se la vittima non ha presentato la denuncia. Se davvero il governo proporrà al Parlamento questa modifica, sarà sufficiente la segnalazione dei familiari oppure un referto medico per far scattare l'inchiesta e le eventuali misure interdittive per l'indagato.

il Fatto 9.5.13
La beffa di Priebke: il conto del processo agli ebrei
Cartella esattoriale alla Comunità di Roma per le spese legali dell’ex SS, considerato nullatenente
di Rita Di Giovacchino


Erich Priebke è nullatenente. Almeno tale si dichiara il Boia delle fosse Ardeatine condannato all'ergastolo nel 1998, anche se a causa della tarda età è sottoposto a una “dolce carcerazione” che trascorre in una casa a Boccea ospite del suo avvocato. L'ex ufficiale delle Ss compirà 100 anni il prossimo 29 luglio, è in ottima salute e in perfetta forma, dimostra almeno 20 anni di meno, ed è possibile incontrarlo al bar e al supermercato dove fa personalmente la spesa. Ma a questa anomalia se ne aggiungono altre che hanno riportato questo personaggio, a Roma mai dimenticato per il massacro che è costato la vita a 335 tra civili e militari, di nuovo sulle pagine dei giornali. A causa del dichiarato stato di indigenza, l'ex nazista si è rifiutato di pagare le spese processuali di una causa da lui stesso intentata.
COSA STRAORDINARIA a ricevere la cartella esattoriale sono stati il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici e il giornalista del Tg2 Walter Vecellio, entrambi accusati da Priebke di sequestro di persona e ingiurie, reati dai quali sono stati pienamente assolti. Ma Equitalia è implacabile, qualcuno deve pagare. Chi se non le vittime?
La denuncia risale al 1996. La sera del 1 agosto il Tribunale militare ritenne di non doversi procedere contro Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine dichiarando il reato prescritto. Vi furono tumulti in aula, l'ex capitano Ss fu riarrestato per ordine dell'allora ministro della Giustizia Flick, la condanna definitiva all'ergastolo arrivò nel marzo 1998. Il fatto non gli è andato giù e pur avendo perso la causa non intende pagare. Pacifici è incredulo: “La mostruosità giuridica sta nel fatto che a pagare debba essere chi è risultato innocente in tre gradi di giudizio perché l'imputato Priebke non ha beni pignorabili. Comunque non pagherò". Il presidente della Comunità ebraica intende rivolgersi al neo ministro della Giustizia Cancellieri, Vecellio invece ha già scritto al Presidente Napolitano. In discussione non è la cifra, 316 euro, ma il principio.
Il giornalista ha mostrato la cartella Equitalia al Tg2: " Non sono così pezzente da negare 300 euro allo Stato bisognoso. La legge prevede che la notifica della sentenza sia a carico del soccombente, se questo non paga delle parti. Ma è offensivo che sia applicata in questo caso. Un nazista che non ha nulla da perdere querela chi gli pare.
E PENSARE che ci siamo pagati gli avvocati e non abbiamo chiesto una lira di risarcimento, avrei avuto problemi ad accettare soldi da tale personaggio. Ero soltanto uno dei giornalisti che seguiva l'udienza, non a caso l'unico chiaramente ebreo. Dice di essersi offeso perché l'ho definito boia". Il Presidente della comunità ebraica ha buona memoria: “Prima di essere arrestato Priebke concesse un'intervista alla Rai per la quale doveva incassare 50 milioni di lire. Quei soldi furono poi bloccati, ma il nullatenente Priebke fece causa alla Rai e li ottenne quattro o cinque anni fa, con tanto di interessi. Noi provammo a bloccare quei conti, ma i soldi erano già scomparsi".

La Stampa 9.5.13
Scuola
Mancano soldi stipendi a sorteggio
di Roberto Travan


Precari, che più di così non si può. Al punto che per incassare lo stipendio possono solo più sperare nella dea bendata. E incrociare le dita. È accaduto ad Avigliana, all’Istituto comprensivo: otto scuole pubbliche, un centinaio di docenti, oltre mille allievi. Anche una dozzina di supplenti temporanei (insegnanti, personale di servizio) che lo scorso mese si sono contesi il «cedolino» con una lotteria. L’ha organizzata Carla Barella, la loro preside. «Tenuto conto dei fondi ministeriali a disposizione della scuola insufficienti per pagare tutte le supplenze del mese, si è proceduto a sorteggiare il personale che verrà retribuito subito. Le persone che non sono state sorteggiate verranno retribuite non appena il Ministero erogherà i fondi» ha spiegato nella mail inviata ai dipendenti. In cinque sono rimasti a bocca asciutta perché nelle casse dell’Istituto c’era solo la metà dei tredicimila euro necessari. Impossibile pagarli con i fondi dell’Istituto perché sono finiti da un pezzo: «Lo Stato non ci ha ancora rimborsato quelli dello scorso anno» spiega Laura Paino, responsabile amministrativa.

Corriere 9.5.13
Hawking boicotta la conferenza di Shimon Peres
Israele: oltraggioso e ipocritica

qui

Repubblica 9.5.13
Kerry a Israele: “Avanti con i due Stati”
A Roma summit sulla Palestina. Gerusalemme, arrestato il Gran Mufti
di Vincenzo Nigro


ROMA — La notizia del giorno rischiava di essere davvero brutta: a Gerusalemme la polizia ha arrestato ieri per 6 ore il Gran Mufti palestinese, lo sceicco Mohammed Hussein, accusato di avere ordinato i «disordini» esplosi martedì accanto alla moschea di Al-Aqsa. Dal presidente Abu Mazen a molti leader arabi, da tutto il Medio Oriente erano iniziate a piovere critiche e minacce su Israele. Ma il fermo del religioso è durato poco, per ora lo scontro è rientrato, si può tornare a sperare di negoziare la pace. Il rilascio del mufti ha aiutato quindi la missione di John Kerry, il segretario di Stato americano che da ieri, in Italia, ha messo in scena per 2 giorni una tappa importante nella sua operazione di “diplomazia separata”. Lo scopo di questo lavoro per giorni semi-clandestino è quello di riunire i canali diplomatici separati, di far ritrovare insieme le parti - palestinesi e israeliani - per negoziare un accordo per “due stati per due popoli”.
Per incontrare Kerry a Roma sono arrivati da Israele Tzipi Livni e Yitzhak Molko. La prima è il ministro della Giustizia del governo Netanyahu, che però ha avuto dal premier l’incarico di negoziatore con i palestinesi. Il secondo invece è un avvocato amico di Netanyahu che il premier del Likud ha incaricato di coordinare la trattativa con i palestinesi (in passato un altro esperto avvocato, Dov Weisglass, era stato il coordinatore per Sharon). Non ci sono commenti o annunci ufficiali, tranne uno, che però è assai importante. «Andrò a Gerusalemme e Ramallah il 21 o il 22 maggio, voglio vedere il premier Netanyahu e il presidente Abu Mazen», ha detto Kerry. Poi un’altra riunione con il ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh: la Giordania è una parte importante in tutta la partita, perché buona parte dei sudditi del suo re sono palestinesi, confina con Israele con cui ha relazioni diplomatiche e vuole dire la sua sulla nascita di un vero stato palestinese.
Kerry ha iniziato a lavorare con forza alla ripresa del negoziato fra Israele e Palestina immediatamente dopo la visita del presidente Obama del 20 marzo scorso. Ha chiesto a palestinesi e israeliani di dargli 3 mesi di tempo, di astenersi da commenti, attacchi, manovre pubbliche che interferiscano con la sua diplomazia segreta. A Roma i colloqui tra Kerry, la Livni e il ministro giordano sono stati super-riservati. Lo scopo è quello di far riprendere il negoziato di pace bloccato nel 2010. «Un accordo con i palestinesi è nell’interesse di Israele», ha detto la Livni al termine dell’incontro, durato tre ore. Kerry è riuscito già ad ottenere da Netanyahu un passo importantissimo, la sospensione della costruzione di nuovi insediamenti di coloni nei territori palestinesi. Netanyahu lo ha fatto in maniera “burocratica”, interrompendo la pubblicazione dei bandi amministrativi che tecnicamente permettono ai coloni di costruire. Nessun annuncio politico di Netanyahu, per limitare le reazioni della destra estrema israeliana, ma ieri il leader israeliano ha ribadito la sua volontà di andare avanti nel processo di pace in una telefonata con Obama.
Oggi la missione di Kerry continua: vedrà il presidente del Consiglio Enrico Letta, il ministro degli Esteri Emma Bonino e poi Tony Blair, ex premier britannico oggi inviato del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) in Medio Oriente. Ieri la stessa Bonino ha avuto incontri con la Livni e col ministro giordano Nasser Judeh: l’Italia sostiene il processo di pace, e lo farà anche fra i paesi dell’Unione europea, chiedendo a tutti i 27 di non ostacolare in nessun modo il lavoro degli americani.

il Fatto 9.5.13
La psicologa Camerani
Vittime come bambole di pezza e il carceriere diventa dio
di Elisa Battistini


Le tre ragazze di Cleveland sono libere, ma ora le aspetta un lungo percorso per superare l'esperienza traumatica. Come si fa a sopravvivere 10 anni segregate, legate spesso in catene, con numerosi aborti alle spalle? Cosa si diventa? E i carnefici? Erano sadici, si potrebbe dire subito. Ma la psicologa Chiara Camerani – direttrice del Centro europeo di psicologia, investigazione e criminologia – chiarisce che “nonostante l'aberrazione di questi comportamenti non abbiamo abbastanza dati per sapere se siano dei sadici sessuali. Possiamo supporre che siano degli psicopatici, soggetti che soffrono di cecità emotiva e considerano l'altro un oggetto di cui disporre a proprio piacimento senza provare rimorso o pentimento. Lo stato di deumanizzazione in cui sono state costrette le vittime fornisce un'indicazione in questo senso. E possiamo ipotizzare una famiglia d'origine in cui la donna è scarsamente considerata”. Di certo però i tre, legandole, le controllavano. Anche perché le vittime potevano aiutarsi a vicenda o cercare di fuggire.
Poco si sa, ancora, delle relazioni che intercorrevano tra le donne. “Tra un gruppo di prigionieri – continua la dottoressa Camerani – possono svilupparsi meccanismi competitivi, indotti dall'aggressore, per cui se fai male a un altro sopravvivi se no vieni punito. Oppure possono scattare meccanismi di aiuto o imitazione. Per esempio l'ultima arrivata si può conformare al comportamento delle precedenti vedendo che questi hanno permesso loro di restare in vita”. Quel che si può dire di certo è che ci sono alcune dinamiche psichiche sempre implicate in questi casi. “Dapprima – dice la psicologa – si priva la persona di ogni stimolo. Dai riferimenti temporali, all'isolamento in uno spazio, alle relazioni. Privazioni che rischiano di farci impazzire e conducono il soggetto ad aspettare, anche con ansia, l'unico stimolo che ha: il carnefice stesso. Parte poi un processo di regressione dovuto alla dipendenza dal proprio aguzzino. È lui che decide quando puoi mangiare, dormire, andare in bagno, vestirti. Entra in gioco la progressiva distruzione della personalità della vittima: il carnefice umilia, annienta, offende, stupra, scoraggia qualsiasi gesto. Inoltre spesso l'aggressore è gentile un giorno e quello dopo ti picchia. La vittima non si sa cosa aspettarsi ed entra in una fase di impotenza appresa, perdendo speranza riguardo all'efficacia delle proprie azioni perché la capacità di riconoscere i segnali esterni risulta inadeguata”. Spesso il sequestratore dice alle vittime che sono i genitori ad averle abbandonate: “Si fa in modo che i nemici siano percepiti all'esterno: fuori c'è il male, io in realtà ti sto salvando”. Non tutte le persone reagiscono a queste forme di violenza allo stesso modo. “C'è chi ha un attaccamento forte alla propria identità e nonostante tutto riesce a sapere sempre chi è e cosa sta succedendo. Altre persone vengono travolte e si adattano fino ad assumere il punto di vista dell'aggressione”. Una volta uscite la difficoltà principale è ricominciare a fidarsi: “Una persona dubita della propria capacità di valutare, non si sente più protetta e a volte si sente anche in colpa. Gli esseri umani hanno bisogno di trovare un senso, ritenendosi persino responsabili della violenza subita”.

Corriere 9.5.13
La prigione costruita nella mente delle vittime che impedisce la fuga
di Donato Carrisi


La chiamano l'armata delle ombre. È la legione silenziosa degli scomparsi. Ventuno ogni giorno. La maggioranza torna indietro. Parecchi sono già morti. Di una moltitudine non si saprà mai nulla. Michelle, Gina e Amanda facevano parte della schiera. Arriva il giorno in cui il mostro vuole una famiglia. Rapisce i componenti del nucleo, ma sceglie soprattutto donne. Saranno un po' mogli e un po' figlie, a seconda di come lui le vorrà vedere. È un incesto fra paura e amore. Lui le adorerà o le punirà, ma soprattutto le educherà a volergli bene. E loro gliene vorranno, perché sarà l'unica possibilità di rimanere in vita. Ci chiediamo come sia stato possibile che, in dieci anni, le prigioniere di Cleveland non abbiano provato a fuggire o a chiedere aiuto: la casa del loro carceriere non è un bunker inespugnabile, e non erano certo sepolte in una cella sotterranea. La risposta è che la prigione non era intorno a loro, bensì dentro di loro. Ariel Castro, pazientemente, giorno per giorno, ha edificato delle mura nella loro mente. Non ha avuto bisogno di incatenare le ragazze, si è servito della loro paura per tenerle legate a sé e a quella casa. Ha fatto nascere in loro la paradossale convinzione che l'unico che potesse salvarle da Ariel Castro era Ariel stesso. Quante ombre silenziose si celano ancora oltre i muri delle nostre abitazioni, al di là dei nostri giardini, nella casa di fronte? Grattano le pareti, aspettando che qualcuno si accorga della loro esistenza. E nessuno riesce a sentirle.

il Fatto 9.5.13
Il conservatorio dei pedofili 30 anni di abusi a Manchester
Indagati i professori di canto: decine di alunni molestati dagli anni ’70 ai ’90
Il caso Savile ha aperto il vaso di Pandora delle denunce
di Caterina Soffici


Londra L’ultima indagine l’hanno chiamata “Operazione Kizo” e gli investigatori hanno tutta l’aria di voler seguire il filone pedofilo in modo massiccio, tanto che sul caso c’è una squadra di 22 agenti ed è stato attivato anche un numero verde nazionale dove le vittime possono chiamare per denunciare le violenze subìte. Questa volta si tratta di 39 insegnanti indagati per presunte violenze e abusi sessuali sugli alunni. Nel mirino, due importanti e prestigiosi collegi musicali di Manchester, il Royal Norther College of Music e la Chetham’s School of Music, uno dei conservatori privati più prestigiosi, retta da 31 mila sterline l’anno (35 mila euro ). I reati sono spalmati su tre decadi, anni ‘70, ‘80 e ‘90, ma arrivano al 2010.
Alcuni dei professori sarebbero già morti, ma la maggior parte è ancora viva e vegeta e continua a insegnare. Per questo l’indagine del musicisti pedofili fa così rumore. Finora l’unico sospettato di cui la polizia ha fatto il nome è un maestro di violino, tal Wen Zhou Li, che è stato arrestato con l’accusa di stupro. Lui nega, ma intanto è stato sospeso da entrambe le scuole. I principali indagati sono 10, ma le indagini procedono su dozzine di casi e di insegnanti. L’inchiesta è iniziata con una tragedia: una ragazzina si è uccisa a febbraio, dopo aver confessato di essere stata violentata dall’ex capo della musica di Chetam’s, Michael Brewer. Forse questo ha spinto decine di altre vittime a parlare, forse la morte della ragazza non è avvenuta invano. Le pratiche raccontate dalle confessioni delle vittime vanno da veri e propri assalti a palpeggia-menti e molestie. C’è chi racconta di professori che accarezzavano i seni delle ragazze mentre suonavano, chi voleva che gli toccassero l’erezione. Molti dei casi saranno archiviati perché sono troppo vecchi per poter essere perseguiti o perché l’attività sessuale non era illegale nel momento in cui ha avuto luogo. Avere rapporti sessuali con minori di 18 anni ma sopra i 16, cioè l’età del consenso, fino al 2003 non era reato penale.
Le indagini sono a largo raggio e coinvolgono anche gli altri conservatori della Gran Bretagna, tutte scuole di alta specializzazione, come la Yehudi Menuhin del Surrey e la St Mary’s di Edimburgo. Pare infatti che i professori quando venivano scoperti si spostassero da una scuola all’altra. Come mai questa ondata di denunce? Come mai la Gran Bretagna si scopre un paese di pedofili? Il caso di Jimmy Savile ha sollevato il coperchio su un mondo marcio, dove tutti sapevano e si coprivano a vicenda. Quello che colpisce è che non stiamo parlando di infanzia violata nella periferia del regno, tra i poveri e i de-relitti dove i reati, tutti i reati, non solo quelli a sfondo sessuale, fanno meno notizia.
No, questa è la crema della società inglese. Si tratta di noti presentatori della Bbc, di politici, di scuole private e istituzioni prestigiose. È un mondo di famosi e ricchi, gente di successo, molti insigniti di riconoscimenti della casa reale. Dove sta il marcio? Bisognerebbe forse rispolverare la famosa commedia “Niente sesso siamo inglesi”, per capire quanto la società britannica sia ancora legata alle regole di perbenismo di facciata. Quanto il “si sa ma non si dice” sia un codice di comportamento che protegge proprio le classi più abbienti. E quanto la reputazione sia considerata un valore da salvaguardare a tutti i costi. Finché una ragazzina non decide di parlare e rompe il sistema di omertà. Così anche altri trovano il coraggio di rompere il silenzio e dal passato riaffiorano le storie. Vecchie di 30 anni, ma vive e dolorose come allora. Come una sorta di seduta di psicoanalisi collettiva nazionale.

Repubblica 9.5.13
Meraviglie del possibile
Quandoi la filosofia esplora i confini deklla realtà
Due pensatori e un confronto sulle verità oggettive per il decennale della morte dello psicologo Paolo Bozzi
di Maurizio Ferraris e Achille Varzi


MAURIZIO FERRARIS E ACHILLE VARZI anticipano su Repubblica il dialogo che terranno domani alle 18 al Circolo dei lettori di Torino in occasione del convegno in onore di Paolo Bozzi organizzato dal laboratorio di ontologia dell’Università di Torino che incomincia oggi. In onore dello studioso si assegnerà il Paolo Bozzi Prize in Ontology a Michael Kubovy (University of Virginia) nel corso di un convegno a Gorizia e Trento il 16-17 maggio e il 30-31 maggio
Varzi:
Caro Maurizio, tu parli tanto di realtà. Ma la linfa della filosofia è il “senso della possibilità”. I filosofi non si occupano soltanto di come stanno le cose (quello lo fanno già tutti gli altri); si occupano anche di come potrebbero essere. Non guardano solo al mondo reale; guardano a tutti i mondi possibili, interrogandosi su quali siano e su come siano. È per questo che la filosofia può essere un potente strumento di emancipazione: la nostra capacità di lavorare per un mondo migliore è funzione della nostra capacità di concepire un mondo diverso. Se ci limitassimo a venerare la realtà…
Ferraris:
Guarda che anche per me la filosofia è l’arte del possibile. Le mie istanze realistiche le faccio valere non nei confronti di chi vuole inventare mondi possibili, ma nei confronti di chi afferma che il reale non esiste, o che è un’invenzione. Insomma, critico quella che Kant chiamava ignava ratio, e ti garantisco che ce n’è tantissima. Per me non si tratta di venerare la realtà, ma di non negarla.
Varzi:
Ci mancherebbe. La realtà è tutto. Io dico solo che non possiamo affidarci a lei come se fosse un libro già scritto. Ma forse qui dobbiamo chiarirci le idee sulla questione di fondo. Che cos’è, per te, la realtà?
Ferraris:
Domanda da un milione di euro, o almeno da cento talleri. Per me la realtà sono essenzialmente due cose, distinte ma collegate. La prima è quella che chiamerei “Epsilon-realtà”, cioè la realtà epistemologica, quella che i tedeschi chiamano “Realität”. È ciò a cui fa riferimento un giovane filosofo tedesco, il mio amico Markus Gabriel, quando dice che esiste tutto nel suo specifico campo di senso — Harry Potter nel campo di senso dei romanzi, gli atomi in quello della fisica — e che l’unica cosa che non esiste è il tutto tout court, perché non c’è un campo di senso capace di accogliere la totalità.
Varzi:
In tal caso l’articolo determinativo sarebbe fuori luogo: mi pare di capire che ci siano tante E-realtà, una per ogni campo di senso. Che è come dire che si tratta di realtà possibili. Non mi sembra che queste E-realtà catturino tutto ciò che intendi con “reale”.
Ferraris:
E infatti accanto alla Erealtà io metto anche la Omegarealtà (per indicare convenzionalmente la realtà ontologica), quella che i tedeschi chiamano “Wirklichkeit” e che si manifesta come resistenza in senso proprio, come inemendabilità.
“Reale” è insomma per me la combinazione di Erealtà e di O-realtà, che lavorano insieme. Il gioco degli scettici consiste nell’usare la prima per negare la seconda, ma è un’attività futile, perché la O-realtà non ha alcuna intenzione di farsi cancellare.
Varzi:
Non ho difficoltà a riconoscere che quella che chiami Orealtà ponga dei limiti alle Erealtà. Posso pensare di usare un cacciavite come apribottiglie, ma non come bicchiere. Resta però da capire bene, caso per caso, se e quando ci troviamo dinanzi a una resistenza che risiede davvero nella O-realtà piuttosto che nella Erealtà che più ci fa comodo.
Ferraris:
Il mondo è pieno di sorprese. Come diceva Amleto ci sono più cose fra la terra e il cielo di quante ne sognino le nostre filosofie. Chi sarebbe stato capace di immaginare la tragedia di Bersani?
Varzi:
Pochi. Ma proprio questo è il problema: quando ci si ritrova con una realtà che non avevamo nemmeno contemplato, è dura farci i conti. Secondo me è questo il senso profondo del monito di Amleto: tra il cielo e la terra ci sono un sacco di possibilità che le nostre filosofie (e la nostra politica) non riescono nemmeno a immaginarsi. Dopo di che naturalmente vale anche il discorso opposto: ci sono filosofie — e politiche — che si sono immaginate cose che non stanno né in cielo né in terra (Lichtenberg).
Ferraris:
Appunto.
Varzi:
Quindi il nocciolo della questione concerne l’interazione tra O-realtà e E-realtà. E bisogna fare molta attenzione a non spacciare la seconda per la prima. Sarò testardo, ma secondo me in molti casi si tende proprio a fare così: si vuole far passare per oggettive o naturali delle “resistenze” che a ben vedere risiedono soprattutto nella nostra testa e nelle nostre pratiche organizzatrici, quindi nei nostri giudizi e pregiudizi. Pensa alla retorica di cui si serve chi si oppone alle relazioni di coppia tra persone di colore diverso, o tra persone dello stesso sesso, dichiarando che non sono “naturali”.
Ferraris:
Su questo sono d’accordissimo. Il mio disaccordo concerne la tua inclinazione a trattare
ogni resistenza come se fosse una nostra invenzione. I semafori e le dogane li mettiamo noi, ma anche il mondo mette i suoi paletti. E qui cito Paolo Bozzi: se in un’isola c’è un sasso nero e tutti gli abitanti si sono convinti che il sasso è bianco, il sasso resta nero e gli abitanti dell’isola sono altrettanti cretini.
Varzi:
Touché (anche se i colori non sono proprio l’esempio migliore di proprietà naturali). Nota però che il mio scetticismo nei confronti dell’oggettività delle tue “resistenze” non implica la rinuncia a una nozione di verità solida e robusta. Si tratta solo di riconoscere che la verità riflette in buona misura le categorie a cui ci appoggiamo e le convenzioni che abbiamo deciso di adottare, e queste cose appartengono a quella che chiami E-realtà.
Ferraris:
Quindi mi stai chiedendo di dirti quali sono le verità (e falsità) che invece non dipendono in alcun modo da noi? Qui distinguerei tre tipi di oggetti. Gli oggetti ideali sono del tutto indipendenti: che 2 + 2 = 4 è una verità autonoma, benché i segni con cui la esprimiamo siano stati inventati da noi. Anche gli oggetti naturali sono indipendenti: né gli esseri umani né i dinosauri dipendono da noi. Certo, una frase come “I dinosauri sono vissuti tra il Triassico superiore e la fine del Cretaceo” dipende dal linguaggio con cui fissiamo le periodizzazioni “Triassico” e “Cretaceo”; ma ciò che la rende vera, e cioè il fatto che i dinosauri sono vissuti in quel particolare periodo, è quello che è a prescindere dal linguaggio. Infine ci sono gli oggetti sociali, e ovviamente in questo caso le verità che li riguardano dipendono da noi. Per esempio, siamo stati noi a stabilire che un euro equivalga — se non ricordo male — a 1936 vecchie lire. Tuttavia ciò non rende questa verità più negoziabile delle altre: l’ingovernabilità e l’opacità del mondo economico possono essere tanto dure quanto quelle del mondo naturale.
Varzi:
Non sono un fan degli oggetti ideali, ma in linea di massima la tua tripartizione mi sta bene, come mi sta bene dire che gli oggetti naturali non dipendono da noi.
Ferraris:
Dunque?
Varzi:
Dunque il nostro disaccordo riguarda l’ampiezza delle tre categorie. In particolare, hai ragione quando dici che io classificherei tra gli oggetti sociali molte cose che tu invece consideri naturali. È proprio qui che si gioca la partita. Come abbiamo imparato a dire che la questione ontologica “Che cosa esiste?” ammette un’unica risposta, e cioè “Tutto” (giacché sarebbe contraddittorio asserire l’esistenza di qualcosa che non esiste), così alla domanda “Quali oggetti sono inemendabili?” si può rispondere anzitutto con “Quelli naturali”. Ma proprio come la prima risposta non risolve il problema ontologico…
Ferraris:
… dato che possiamo non essere d’accordo sull’estensione di quel “tutto”…
Varzi:
… così la risposta al nostro quesito non risolve il problema, dato che possiamo non concordare sull’estensione di “naturale”.
Ferraris:
È comunque un bel passo in avanti, non credi? Almeno sappiamo su che cosa dobbiamo concentrare la discussione.
Varzi:
Meraviglie del possibile!

Repubblica 9.5.13
La polemica
“La Rai cancelli quel Trono pornografico”


ROMA — L’Associazione degli spettatori cattolici Aiart chiede la cancellazione del serial cult Il trono di spade dal palinsesto di Rai4, dove andrà in onda da stasera, perché lo ritiene «volgare, pornografico, con insistite scene di violenza e sesso». La richiesta viene respinta da Carlo Freccero, direttore di Rai4, che difende la qualità della serie vincitrice di numerosi premi. «Il trono di spade va molto al di là di un fantasy di routine» si difende Freccero «È riconosciuto universalmente come uno dei vertici assoluti della tv di qualità. Certo, affronta contenuti adatti a un pubblico maturo e come tale viene trasmesso con tanto di bollino rosso e alcuni tagli per il passaggio in prima serata».

Corriere 9.5.13
Il «Corriere» conferma la leadership su carta e digitale


MILANO — Il Corriere della Sera si conferma il primo quotidiano nazionale con una diffusione media giornaliera di oltre 479 mila copie, fra cartacee e digitali su Ipad, tablet e dispositivi vari. La leadership è certificata dai dati Ads (Accertamento diffusione stampa) relativi al mese di marzo.
Il quotidiano di via Solferino guida dunque la classifica con 420 mila copie cartacee e 58.492 digitali, quest'ultimo dato risulta però «penalizzato» dai criteri adottati per gli accertamenti: non vengono calcolate le copie vendute non ai singoli clienti ma a fornitori di device o operatori telefonici che poi le abbinano alla commercializzazione dei loro prodotti: considerando anche quelle «escluse» dalle regole le copie digitali del Corsera salirebbero quindi a 101 mila. Restando ai dati «ufficiali», è da registrare la crescita rispetto a gennaio, primo mese nel quale sono state conteggiate da Ads anche le copie digitali: la diffusione media giornaliera del Corriere della Sera era pari a 457 mila copie, di cui quelle digitali su Ipad e device vari erano a quota 45.616 (ai quali potevano essere aggiunte altre 40 mila non accertate). Al secondo posto per diffusione secondo i dati Ads c'è la Repubblica con 421 mila copie, delle quali 48.477 digitali. La leadership sul digitale «ufficiale» va invece al Sole 24 Ore: 58.949, di cui circa 21 mila in abbinamento alle copie cartacee, dati che portano la diffusione totale a oltre 287 mila copie, e quindi al terzo posto fra i quotidiani nazionali. In quarta posizione c'è la Gazzetta dello Sport con oltre 245 mila copie medie diffuse giornalmente (16.116 digitali, che salirebbero a 50 mila prendendo in considerazione anche quelle non contabilizzate da Ads), che raggiungono quota 270 mila nell'edizione del lunedì.
S. Bo.

Repubblica 9.5.13
L’indagine Ads
Repubblica prima in edicola, bene le copie digitali


ROMA — La Repubblica conferma il suo primato di quotidiano di informazione più venduto nelle nostre edicole. I dati dell’Ads (l’Accertamento diffusione stampa) certificano che il giornale diretto da Ezio Mauro ha toccato — in media, ogni giorno — quota 327 mila 587 copie. L’indagine si riferisce a marzo 2013. Il più diretto concorrente, il Corriere della Sera, si ferma a 315 mila 117 copie giornaliere. Le copie digitali di Repubblica, visibili ad esempio su tablet o smartphone, sono 48 mila 477 (contro le 44 mila 252 del Corriere).
Questo dato comprende le singole copie digitali ed anche le copie “multiple”. Capita sempre più spesso che uno stesso soggetto, metti un’azienda, acquisti un pacchetto
di accessi ad un giornale per i suoi dipendenti, che vengono tutti conteggiati come singoli abbonati alla testata.
Ancora in edicola, La Repubblica avvicina il tetto delle 410 mila copie quando è abbinato al suo storico settimanale Il Venerdì. Tra gli altri quotidiani nazionali, La Stampa è a 191 mila 546, il Messaggero a 133 mila 118, Il Sole 24 Ore a 126 mila 832, Qn-Il Resto del Carlino a 117 mila 396. Sul fronte dell’editoria di destra, Il Giornaleè a 119 mila 131 copie medie giornaliere. A sinistra, Il Fatto Quotidianoha all’attivo 54 mila 285 copie, L’Unità 23 mila 058. Tra i quotidiani locali del Gruppo L’Espresso, Il Tirreno si piazza davanti a tutti con 58 mila 030 copie medie vendute al giorno. E’ seguito da La Nuova Sardegna con 45 mila 195, poi il Messaggero Veneto con 43 mila 364. Rapporti di forza immutati tra i quotidiani sportivi. La Gazzetta dello Sport è ancora prima in edicola con 195 mila 631 copie e punte di 222 mila 097 il lunedì. Il Corriere dello Sport segue a quota 120 mila 819 copie (di media giornaliera) e 148 mila 874 nei lunedì. Il settimanale L’Espresso vende in edicola oltre 88 mila copie (sono 88 mila 105, per la precisione). Lo zoccolo duro dei suoi abbonati si attesta a 143 mila 157. Se si considerano infine le copie digitali, la diffusione complessiva del settimanale supera le 260 mila copie.