venerdì 10 maggio 2013

il Fatto 10.5.13
Pd. Viaggio nella rivolta
La tratta delle lacrime Pd: “Il Pci era bitter, noi siamo prezzemolo”
Da Torino a Treviso: “Chiediamo un partito forte, invece ogni giorno si cambia linea”
di Antonello Caporale


Domani ci sarà lui qua: tutto il partito a piangere insieme al condannato. E questo evento così immorale non gli costa voti. Anzi ricompatta, tiene ferma la sua barra. Perciò la mia quantità di incazzatura è notevole, allearsi col Pdl annienta ogni orgoglio. Adesso questi nostri cosiddetti big devono farmi il piacere di non sfiorare Brescia. Ce la vediamo da soli che ci fanno solo danno. L'unica invitata è Debora Serracchiani per il momento”. Nella città della Loggia si vota tra due settimane ed è in arrivo Silvio, carico della seconda condanna e straripante di energia vitale. Mariastella Gelmini, come una vice ape regina, rassicura il capo e già cinguetta: “Saremo tantissimi”. Ecco il punto, ecco la ferita che a Emilio del Bono, candidato del Pd alle comunali di fine mese, brucia sotto la pianta dei piedi. “Scarpiniamo da mattina a sera e siamo a un passo dal fregare il Paroli, sindaco immobile di una città avvelenata nel senso proprio del termine e iniziata alla corruzione”. A Brescia nacque la prima giunta Dc-Pds, sindaco Corsini. La città della Loggia partorì l'Ulivo, Mino Martinazzoli, l'ultimo segretario del Ppi, lo sostenne e lo guidò, dopo essersi pensionato da Roma. La Leonessa aspetta Silvio ma forse, alla fine, una legnata gliel'assesterà. Malgrado ogni tradimento, malgrado il suicidio di massa che i dirigenti romani stanno praticando, malgrado le correnti e gli odi, qui il Pd perde poco: dal 28 al 26%. Prima forza comunque, e a distanza quegli altri del Pdl, con i cinquestelle ridotti al lumicino del 5%. Sicuri di giungere al ballottaggio e di giocarsela per benino. “Noi non annunciamo che smacchieremo il giaguaro, fessi una volta ma due no! ”. Giorgio De Martin, segretario cittadino, finalmente un militante dal sorriso facile e dall'animo aperto alla battaglia dentro questo mortorio che è il Pd del nord, quello pedemontano, la linea che congiunge Torino a Treviso, il viaggio delle lacrime. “Andiamo in osteria a festeggiare” dice Giorgio.
Il nuovo dolciastro al posto del Campari
Andiamo e troviamo Marco l'oste, la mano a sorreggere il piatto l'altra a indicare gli ingredienti: “Questo è il prezzemolo, lo vedi? Buono su ogni pietanza ma da solo non sarà mai il piatto forte. Ecco, il Pd è come il prezzemolo: partito da guarnizione. Col Pci ci divertivamo. Il Pci per me era come il bitter Campari: o amore sconfinato oppure odio puro, nessuna via di mezzo. Oggi noi di sinistra siamo l'Aperol: produciamo indifferenza”.
Trecento chilometri a ovest, rulli di tamburi. Sono gli ivoriani a far casino oggi davanti al municipio di Torino, la casa di Fassino, la città dove la contestazione ha raggiunto la sua massima espressione simbolica: il servizio d'ordine si è rifiutato di garantire l'incolumità ai dirigenti. Si è presentato in piazza ma ha tutelato i militanti: loro sono stati offesi, loro rischiano di rimetterci la pelle, cioè la speranza, la passione, tutta la vita. “Sono dirigenti impauriti che non ascoltano più, che fuggono dalle responsabilità. Se avessero fatto un referendum, facciamo o no l'accordo col Berlusca?, l'avrebbero pure vinto perchè la base alla fine è realistica. Ma hanno paura e fuggono, si disperdono nell'aria. Ci sono ma è come non ci fossero. La botta è stata forte e il risultato del M5S è stato un colpo allo stomaco: pensavamo che prendesse i voti a quegli altri, poi abbiamo capito che erano i nostri. Ma questo non è più un partito, sembra un accampamento dove ognuno s'alza e illustra il suo piano del cavolo. Abbiamo prima eletto Boldrini e con la stessa naturalezza votato Alfano. Io tra l'altro avevo capito che Enrico Letta si fosse dimesso come Bersani, era suo vice. Ho voglia di combattere ancora ma se perdo questa battaglia sparisco, rinuncio”. Saluto Daniele Viotti, leader del movimento gay, e mi dirigo verso Va-rese. Un'ora e mezza d'auto. Il tempo di riordinare il taccuino e riflettere sulle parole di Ascanio Celestini: “Manca uno sguardo comune, un'orizzonte collettivo. Ogni giorno si rinegozia il punto di vista, ogni giorno cambia l'obiettivo”. Tratteggiava i caratteri del movimento grillino: avesse atteso ancora qualche settimana quel giudizio sarebbe stato perfetto anche per il Pd. Arriviamo a Varese e, senza fermarci in città, deviamo per Malnate, 15 mila abitanti. Al municipio una piccola staffetta dei dolori: col sindaco Samuele Astuti alcuni ragazzi e dirigenti del partito della zona. Aureliano viene da Tradate, Andrea da Vedano Olona, Tommaso da Cassano Magnago, il paese di Bossi. “Adesso governiamo noi là”. Giovanissimi, bravi ragazzi. Hanno subito il primo colpo vero della loro militanza: “Noi non abbiamo altri papà che il Pd, siamo nati democratici e non sappiamo dove andare”.
Quali giaguari: “Siamo un animale vivo, non diamoci per finiti”
La prima cosa che ha fatto Letta è l'annuncio del taglio dell'Imu “e a me è venuto il mal di testa. Sono sindaco di questa cittadina e so che quei soldi ci permettono la sopravvivenza”. È Samuele Astuti che parla, prosegue il suo assessore ai servizi sociali, Filippo Cardacci: “Ho trent'anni e da me viene gente anziana in lacrime perchè non c'è lavoro. Io ho bisogno di un partito forte, che mi copra le spalle, mi indichi una via. Dobbiamo fare un altro sessantotto, questa è la verità”. OccupyPd e chissà se domani all'assemblea dei mille, la moltitudine di cacicchi che si riunisce per approvare l'ultima trattativa correntizia troverà loro all'ingresso della sala... A Monza riunione in corso. La città ha eletto due dei tre deputati che non hanno voluto approvare la scelta dell'inciucio, perciò niente occupazione, “piuttosto riflessione, discussione, contestazione. E' un animale vivo questo Pd, non diamolo per finito perchè non ci credo”. Vivo dice Andrea Esposito, segretario regionale dei giovani democrat, vive ripete Gabriele Riva, il segretario provinciale di Bergamo. Siamo nella periferia della città, la federazione sembra un centro di analisi cliniche: “Quel che noto è che i parlamentari locali vengono da noi e discutono, approvano, solidarizzano. Poi vanno a Roma incontrano i capicorrente ed eseguono gli ordini”. Roma ladrona, anche vista da sinistra. Si va a Tre-viso dove pure la Lega è sfasciata. Si vota anche lì per il rinnovo del consiglio comunale. E come a Brescia i capibastone del Pd non sono desiderati. Antonella Tocchetto, consigliera comunale: "La nostra gente non ha mai visto con favore la politica romana. Probabilmente a sostegno di Giovanni Manildo, il nostro candidato, verrà la Serracchiani”. La logica prima che l'aritmetica. Meglio soli che male accompagnati.
(IV - Fine)

La Stampa 10.5.13
I deputati under 30 incontrano OccupyPd
Oggi il faccia a faccia con i giovani militanti «Vogliamo indirizzare il timone dell’Assemblea»
Le proteste sono scattate dopo il voto contrario a Prodi al Quirinale
Domani i «contestatori» indosseranno t-shirt con la scritta «Siamo più di 101» riferita ai franchi tiratori
di Francesca Schianchi


Qualcuno gli ha detto no, invitandolo pure alle dimissioni senza tanti complimenti. Qualcun altro ne ha fatto una questione logistica, «vediamoci sabato, quando saremo tutti a Roma». Altri però hanno accolto l’invito di Fausto Raciti, deputato e segretario nazionale dei Giovani democratici: «Noi ci saremo», conferma Antonella Pepe da Napoli come Pierpaolo Treglia da Bari. Così oggi, alle cinque del pomeriggio, al circolo Pd Woody Allen, Raciti e una decina di altri parlamentari under 30 proveranno a incontrarli. Loro, la galassia composita e variegata di OccupyPd, quei militanti, perlopiù ragazzi, che all’indomani della bocciatura di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica hanno dato il segnale più clamoroso di rabbia e insofferenza, occupando circoli e sedi locali del partito. E che all’Assemblea di domani promettono di esserci, con una t-shirt eloquente, «Siamo più di 101», perché, come spiega Treglia, «il messaggio è che la base del Pd è più forte dei 101 franchi “traditori” che hanno affossato Prodi».
«Non vogliamo essere portavoce di nessuno, né mettere il cappello su nulla. Vogliamo solo confrontarci per capire se sia possibile, insieme, indirizzare il timone dell’Assemblea di sabato e del partito», spiega Raciti. Un tentativo di asse generazionale, visto poi che «molti di questi parlamentari sono stati eletti grazie a noi, alle primarie», ricorda la Pepe: «Dobbiamo pensare insieme un percorso per arrivare a un congresso vero, che sciolga i nodi del Pd». «Vogliamo cercare di fare sintesi», conferma la deputata 28enne Giuditta Pini, non bloccare le contestazioni di sabato, garantisce. Poi, un nuovo appuntamento di OccupyPd è stato fissato ieri, in un documento sottoscritto da circa 200 militanti: un incontro il 19 maggio, a Prato. Al grido ambizioso di «noi siamo il Pd e lo ricostruiremo».

il Fatto 10.5.13
Lettera aperta degli Occupy che oggi arrivano a Roma


SAREMO oggi a Roma all’incontro promosso dai giovani deputati Pd. Sabato parteciperemo all’assemblea nazionale che dovrà essere il punto di partenza: dobbiamo affrontare i nodi mai sciolti del partito. Il 19 saremo a Prato per una grande assemblea nazionale di #occupypd’'. È quanto scrivono i ragazzi di #occupypd in un appello partito postato su Facebook e che ha ricevuto in poche ore centinaia di adesioni tra i giovani e meno giovani del Partito Democratico. L'incontro si terrà alle 17 presso il circolo Pd “Woody Allen” in via La Spezia, 79. “#Occupypd non è un soggetto politico. Così abbiamo chiamato il momento in cui un’intera generazione (e non solo) ha deciso di prendersi cura del Pd, di "occuparsi" appunto, di continuare ad incarnare quell'idea di cambiamento per la quale tanto ci è stato chiesto di fare durante i lunghi mesi di campagna elettorale” si legge nell’appello. “In questi giorni è andata in scena la schizofrenia e la fragilità del Pd, che ora ha bisogno di essere rifondato. Ogni momento di discussione e confronto, pertanto, deve essere non solo presieduto ma anche sostenuto per impedire che, ancora una volta, tutto cambi per non cambiare nulla”.

Repubblica 10.5.13
#OccupyPd, “Insieme per cambiare”
di Carmine Saviano

qui

La Stampa 10.5.13
Screzio sul Valle
Rodotà sbotta contro i grillini: “Pensano come nel Ventennio”
di Giuseppe Salvaggiulo


La ferita non è profonda, ma sanguina parecchio perché è la prima nel tessuto che connette il Movimento 5 Stelle all’arcipelago di movimenti che ha come punto di riferimento Stefano Rodotà. Marcello De Vito, candidato sindaco del M5S a Roma, liquida l’occupazione del teatro Valle con linguaggio che neanche il sindaco di destra Gianni Alemanno ha mai usato, impegnandosi in caso di elezione allo sgombero. Il corto circuito è duplice: Rodotà è stato il candidato del M5S alla presidenza della Repubblica e il Valle è il simbolo delle battaglie per i beni comuni e dell’elaborazione giuridica che lo stesso Rodotà, con altri docenti, porta avanti da anni.
De Vito, nell’intervista a Micromega, non solo si guarda bene dall’esaltare il modello-Valle (in due anni teatro rivitalizzato anziché privatizzato con oltre 500 serate e 2000 artisti italiani internazionali, 1800 ore di formazione professionale, 850 volontari, decine di laboratori pubblici, 170 mila euro raccolti per creare una fondazione), ma ne promette l’estinzione («Ci può essere sicuramente un dialogo, ma noi siamo per la trasparenza quindi faremo dei bandi pubblici e affideremo il posto a chi presenta la proposta più credibile») e alla domanda «Vuole sgomberare il Valle? », risponde lapidario: «Difendiamo la legalità». E dunque ieri, alla riunione della Costituente dei beni comuni presieduta da Rodotà proprio al Valle, queste parole non potevano passare inosservate. È stato proprio il giurista a chiedere una presa di posizione inequivocabile. «Questo non ha capito proprio nulla», ha esordito riferendosi a De Vito, «perché non riconosce la necessità di pratiche sociali per i beni comuni e tratta questioni così delicate come un affare di ordine pubblico, da governare con la polizia». Quanto allo sgombero, Rodotà non si è risparmiato l’evocazione «della cacciata di massa vissuta molti anni fa, quando deportarono le persone in periferia per fare posto alla via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali». Ma sbaglierebbe chi provasse a strumentalizzare la polemica forzando un ripiegamento di Rodotà nell’alveo del centrosinistra tradizionale. Al quale il giurista non riserva nuove frecciate. Lanciando la Contro-Convenzione costituzionale, «perché in ogni caso proveranno a mettere le mani sulla Carta», ha raccontato di telefonate di esponenti del Pd che lo incoraggiano a opporsi alla logica delle larghe intese, non potendo essi farlo pubblicamente. «Per la serie: armiamoci e partite... ».

Repubblica 10.5.13
Rodotà: “Mai detto cosa dovesse fare Napolitano e io non avrei dato l’incarico a un grillino”


ROMA — Se fossi stato eletto presidente della Repubblica «avrei dato un incarico per formare un governo che prendesse in parola il Movimento 5Stelle per le dichiarazioni che aveva fatto, dunque ad una personalità diversa dagli appartenenti a quel movimento». Lo precisa Stefano Rodotà a proposito delle parole pronunciate mercoledì durante il suo incontro con i grillini. «Nessun riferimento — aggiunge — a quel che ha fatto o avrebbe dovuto fare il presidente Napolitano. Trovo irrispettoso mettersi abusivamente nei panni degli altri, a maggior ragione se sono quelli del Presidente della Repubblica».

l’Unità 10.5.13
Nel circolo dei pendolari non si occupa, si sciopera
di Jolanda Bufalini


Il circolo non lo possono occupare perché sono pendolari, però sono molto arrabbiati i 220 iscritti al Pd di Fonte Nuova, piccolo paese alle porte di Roma. E allora la segreteria ha deciso una forma nuova di protesta, lo sciopero dei volontari, o militanti, che dir si voglia, anche perché, spiega il segretario Giacomo Marchese: «Noi siamo in periferia ed era tempo di lanciare un segnale». Il loro, spiegano in una lettera aperta alla segreteria del partito, non è uno dei circoli «dei bei quartieri della capitale dove le Tv sono sempre a caccia del militante deluso». Però delusi sono anche loro.
«Da oggi scrivono nella lettera, mandata anche ai parlamentari del Lazio e al Pd regionale cesseremo ogni attività di propaganda, ogni incontro pubblico, ogni evento, fino a quando non avremo risposte dagli organismi superiori, risposte che per la verità sarebbero già dovute arrivare dopo la incommentabile vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica». Ne hanno digerite tante, ma non ne vogliono più sapere fino a quando non avranno capito una serie di cose, fino a quando qualcuno non si deciderà a spiegare cosa è successo ai circoli che per statuto, sono «le unità organizzative di base attraverso cui gli iscritti partecipano alla vita del partito» e invece si sono trasformati in «primarifici».
Le domande della lettera, che saranno il fil rouge dell’assemblea degli iscritti convocata per il 26 maggio (alla quale sono invitati i parlamentari del Pd eletti nel Lazio) sono tante, a cominciare da: «Come si è passati dall’esclusione categorica di un governo con il Pdl cioè con Berlusconi al governo sostenuto (e ben rappresentato) dal Pdl?».
Per Ermanno Iannacci, responsabile comunicazione, il nodo da sciogliere è ancora più radicale: «Che partito vogliamo? Sono passati cinque anni dalla nascita del Pd e ancora discutiamo su partito liquido o solido, vocazione maggioritaria o alleanze. Intanto abbiamo perso due elezioni, gli elettori hanno deciso che non siamo affidabili per governare. Non c’è una questione su cui il Pd esprima una posizione chiara e netta, a cui sostituisce l’appello alla responsabilità. Addirittura, in campagna elettorale
c’era qualcuno che sosteneva che l’agenda Monti era la nostra». Il problema, aggiunge, «è quello della militanza, io resterò comunque un elettore del centrosinistra ma voglio sapere se ha senso dedicare il mio tempo libero al partito».
Per il segretario del circolo Giacomo Marchese «il passaggio del Quirinale è in contraddizione con la volontà dell’elettorato, che non avrebbe voluto le grandi intese». E un fatto molto grave è avvenuto con Prodi: «Hanno votato contro il padre nobile del Pd per impallinare Bersani». In questo modo «il partito si è consegnato a Napolitano e alle larghe intese». Una resa, sostiene, senza condizioni: «Ci siamo messi nella condizione di subire invece di esprimere una linea... si poteva, per esempio, mettere al primo punto la legge elettorale, definire dei tempi». Alla obiezione che anche Marini è stato impallinato dal voto dei franchi tiratori, il segretario del circolo risponde che «anche quello, certamente, è stato un errore, però di scala diversa. È stato un errore della dirigenza che non ha cercato la condivisione». E alla obiezione che, se è vero che l’elettorato Pd era contro le larghe intese, è anche vero che le elezioni il Pd non le ha perse ma non le ha nemmeno vinte, risponde che «si poteva giocare diversamente, tornare a votare, dopo aver inchiodato Grillo alle sue responsabilità. In Grecia si è votato e lì la crisi morde più che da noi».
Un gruppo dirigente, quello del circolo pd alle porte di Roma, che si è speso, al tempo delle primarie nazionali, per Bersani. «Sarebbe stato dice Marchese un bravo presidente del Consiglio e un ottimo capo coalizione», però, in quelle primarie era in gioco anche «l’idea di partito rispetto a Renzi». E tuttavia, questi militanti che rivendicano il loro impegno nella «partita delle regionali, nonostante si sostenga che le elezioni si vincono nelle grandi città», guardano criticamente alle primarie: «nella competizione interna si finisce per non fare sintesi». Separare elezione del segretario e del candiadto premier? «Forse nelle condizioni attuali sì», risponde Giacomo Marchese, «anche se rispetto all’Europa è un’anomalia». Ermanno Iannacci: «Chiediamo un percorso certo fino al congresso, si farà battaglia sul partito che si vuole».

l’Unità 10.5.13
Piero Ignazi: «Mi iscrivo ora perché quando un amico è in affanno lo si soccorre
Ora però un congresso vero per un partito vero non una passerella»
«Il Pd resta l’unica possibilità ma basta illusioni bipartitiche»
di Bruno Gravagnuolo


ROMA «Un partito-associazione, che si divide ma poi sceglie leader e programma. Non una passerella mediatica, e neanche un partito elettorale che occupa lo Stato». Lo sogna così Piero Ignazi il Pd e per questo ci si iscrive, nel pieno della bufera. Ha molto in comune con Fabrizio Barca che si è molto ispirato, nella sua «memoria» sulla forma-partito, all’ultimo saggio di Ignazi: Forza senza legittimità (Laterza). Titolo che descrive in negativo ciò che il Pd non deve essere per il politologo, docente di Politica Comparata a Bologna.
Professor Ignazi, dopo anni di cortese distanza, ha dichiarato solennemente che prenderà la tessera del Pd. E lo fa nel momento meno felice per il Pd. Come mai?
«Quando un amico è in affanno lo si soccorre. Del resto a sinistra non c’è altro, se non un arcipelago minoritario. Il Pd malgrado tutto rimane l’unica forza alternativa alla destra. O meglio, è la colonna portante di ogni possibile coalizione in tal senso, visto che in Italia non può esistere un bipartitismo all’americana. Era solo un’invenzione da politologi, perché in Europa le forze intermedie contano parecchio come si è visto anche nella “maggioritaria” Inghilterra».
Ma non c’è stata un’implosione sul Quirinale che ha fatto venire a galla una sorta di anarchia ingovernata?
«Non è venuto a galla nulla. Nulla di trasparente. E poi un conto è la discussione su Marini altro la liquidazione di Prodi. Qui il Pd si è svelato simile alla Dc di una volta, che peraltro andava oltre le faide, in virtù della divisione di Yalta. Ma non c’è stata una crisi verticale di valori, come accade con la fine di Dc e Pci. Ci sono stati gravi errori di gestione politica, prima nella campagna elettorale, poi nella partita sul Colle. Nondimeno un firmamento ideale, magari non ben definito, persiste ancora nel Pd».
Non c’è un difetto genetico nel Pd?
«Ma fu lo stesso anche con Veltroni! Ferito il capo, il partito va in crisi. Il Pd è nato come federazione di gruppi dirigenti, priva di elaborazione culturale. Non c’erano linee divisorie visibili su cui schierarsi. Qualcosa c’è stato negli anni 90: la divisione tra la prospettiva di Michele Salvati e quella di Salvatore Biasco. Liberal e riformatrice la prima, neo-socialdemocratica la seconda. Non si è scelto, né si è fatta una sintesi tra i due punti di vista, perché ciò avrebbe disturbato i manovratori. Di qui anche la stravaganza del Pd in Europa, contortamente accanto al Pse, ma “diverso”. Insostenibile». Lei parla di Salvati e Biasco, allievi di Sylos Labini. Ma quale dev’essere il baricentro ideale in un partito che annovera un forte tratto di cattolicesimo sociale? «Ci possono essere delle mediazioni tra una sinistra liberal e una socialdemocratica. Quanto al cattolicesimo sociale, esso non può che dividersi tra adesione alla destra e scelta di sinistra, come nel resto d’Europa. Dopo la fine del confessionalismo e del collateralismo, non vedo problemi a riguardo in Italia. Senza dubbio, dal punto di vista analitico, il cattolicesimo pesa nel Pd, sia per via del Pci, che guardava in modo speciale ai cattolici, sia per via di Prodi, con la sua idea dell’Ulivo e del partito coalizionale. Ma a mio avviso i nodi da sciogliere sono quelli della “constituency”...».
Tradotto in prosa allude per caso ai gruppi sociali di riferimento del Pd? «Già, è esattamente questa la “constituency” di una partito, la sua ragion d’essere. Prima degli anni 80 i socialdemocratici rappresentavano in primo luogo la classe dei salariati. Poi, con i mutamenti economici, il “blocco” si è esteso a ceto medio dipendente, piccola impresa e individualismo di massa, con corredo di diritti civili. Ecco, da noi una neo-socialdemocrazia deve mettere ancora insieme tutte queste cose. E fare i conti con la forza del lavoro autonomo, decisivo in Italia, e che spinge il Paese a destra». Dunque, un progetto alternativo in economia, neokeynesiano, alternativo all’individualismo proprietario e al populismo?
«Certo, ma non si tratta tanto di contrapporsi, quanto di conquistare. La constituency ritrovata deve dar luogo a un partito, e a un blocco, non tanto “alternativo”, termine troppo totalizzante, bensì distinto e “distintivo”». Veniamo all’oggi. Segretario forte o reggente prima dell’inevitabile congresso?
«Mi sembra irrilevante. Decisivo è il congresso invece, vera arena di opzioni in lotta, tra cui scegliere. E qui veniamo alla natura del partito. Deve essere un’associazione di condivisione, in grado di esprimere classe dirigente, e non una passerella mediatica per leader. E il tutto in base a un progetto che traduca in valori gli interessi privilegiati. Partito di programma quindi, con feste e case del popolo magari, ma non affidato a obsolete sezioni, o al mito della rete. Troppo generico? D’accordo. Ma dopo la crisi del modello industriale ancora non scorgiamo la forma-partito del futuro».
Qualcosa lei lo intravede, con Barca, nella ripulsa del partito-stato distributore di risorse...
«Sì, e va detto no al partito-stato centrico, e sì a un partito-società, che esprima altresì classi dirigenti al vertice e in periferia, ma senza occupare capillarmente l’amministrazione divenendo forte senza legittimità». Segretario e premier: due figure che debbono coincidere, oppure no? «Dovrebbero coincidere a mio avviso, benché in Europa non sempre abbiano coinciso. Sarebbe il segno di una vera selezione dei gruppi dirigenti, a cominciare dal premier scaturito dalla contesa programmatica e che alla fine vince le elezioni ed esprime governo con relative piattaforme».

l’Unità 10.5.13
«Non chiudete le cronache dell’Unità»


Un forte «no» alla chiusura delle cronache de l’Unità in Emilia-Romagna e Toscana. Ad opporsi al piano industriale che prevede, tra l’altro, la cancellazione dei dorsi regionali, sono stati, ieri, esponenti locali dei partiti del Centrosinistra e sindacati, lavoratori e semplici lettori, che hanno partecipato alle due iniziative organizzate dalle redazioni a Bologna e Firenze. «La crisi non può giustificare tutto, c’è un piano delle scelte da considerare esordisce Marco Macciantelli, a nome della federazione Pd di Bologna, nell’affollata sala del circolo Passepartout -. E noi riteniamo sbagliata e inaccettabile la scelta di chiudere le pagine dell’Emilia-Romagna. A Roma devono sapere che noi non siamo d’accordo. Diteci che cosa fare per aiutarvi». Presenti, tra gli altri, la parlamentare Pd Sandra Zampa, l’assessore comunale Alberto Ronchi, oltre a esponenti di Pd e Sel. Poi, il mondo della cultura e del lavoro, Cgil e Fiom: hanno preso la parola dipendenti di Coop Adriatica, Breda e Magneti Marelli, descrivendo l’importanza che l’Unità E-R ha avuto nel raccontare le loro vertenze. Anche a Firenze molti esponenti politici, istituzionali e sindacali hanno preso parte all’iniziativa in sostegno del giornale. Tra loro i parlamentari Pd Elisa Simoni, Federico Gelli e Francesco Bonifazi oltre a vari consiglieri, al segretario regionale della Cgil Alessio Gramolati e a rappresentanti del mondo dell’associazionismo. «L’Unità deve essere preservata, soprattutto nella sua capacità di rappresentare i territori ricorda l’assessore regionale Gianfranco Simoncini -. Non possiamo perdere ulteriori voci, il rischio è che ci sia un concentramento delle testate in mano a pochi grandi gruppi». Il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Marco Ruggeri ha scritto al direttore Claudio Sardo per chiedere «un serio piano di rilancio che non prenda le mosse da quelli che appaiono come facili risparmi, destinati ad essere vanificati a causa della perdita di spessore del prodotto».

il Fatto 10.5.13
E l’Unità chiederà di non chiudere le sedi di Bologna e Firenze


NO AI TAGLI LINEARI e alla chiusura delle cronache della Toscana e dell’Emilia Romagna, che insieme valgono il 40% delle vendite, perchè il rilancio dell’Unità può partire solo dai territori e da una diversa impostazione strategica. È il messaggio, in sintesi, lanciato ieri dal Cdr e dalla Rsu dell’Unità di Firenze che in una conferenza nella sede dell’Associazione Stampa Toscana hanno fatto il punto della vertenza rispetto al piano industriale presentato dalla proprietà del quotidiano. Cdr e giornalisti hanno spiegato di “essere aperti al dialogo, consci che un rilancio del giornale non può che ripartire dai territori” e per questo “chiediamo un incontro con la proprietà e che non proceda con scelte unilaterali”. Per tenere alta l’attenzione sulla loro vertenza i giornalisti dell’Unità hanno annunciato l’intenzione partecipare all’assemblea del Pd. E a Bologna l’appoggio del partito è già arrivato: “Siamo contrari – hanno scritto esponenti locali del Pd – all’ipotesi di chiusura dell’edizione locale de L’Unità, prospettata dal piano industriale della proprietà del quotidiano”.

l’Unità 10.5.13
Pd, ipotesi Speranza. Ma l’intesa non arriva
Incontro tra esponenti bersaniani e Areadem, si punta sul capogruppo ma i giovani turchi sono contrari: «Così la candidatura non è di garanzia»
All’Assemblea i manifestanti di «Occupy Pd»
di Maria Zegarelli


ROMA «Per arrivare a fare un congresso serve che il Pd esista ancora, noi dobbiamo garantire questo passaggio dell’Assemblea altrimenti il partito non c’è più». Marina Sereni, vicepresidente dell’Assemblea insieme a Ivan Scalfarotto, la spiega così la curva a gomito che i democratici dovranno affrontare e superare domani senza uscire di strada. Ecco perché ieri mattina la Commissione di garanzia (formata da Sereni, Scalfarotto, Zanda, Speranza, Sassoli e Amendola) si è riunita per cercare di preparare le manovre. «Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per far sì che l’Assemblea nazionale di sabato sia un punto di ripartenza del Pd in questo momento così difficile per il Paese. L’obiettivo afferma una nota della commissione è che l’Assemblea elegga un segretario con la più ampia condivisione, che porti il nostro partito al congresso nei termini previsti dallo Statuto e che ci guidi rilanciando l`iniziativa del Pd».
Trovare la sintesi, prima di ogni altra cosa, perché va bene stabilire l’ordine del giorno dei lavori, ma se non si arriva a sabato con una proposta in grado di unire il partito per eleggere il segretario-reggente che dovrà portare al congresso d’autunno, allora sì che i democratici rischiano di diventare ex Pd, prima ancora che ex Dc o ex Ds. E così sono partiti i colloqui per capire se optare per un segretario «sperimentale», cioè giovane, come Roberto Speranza, oppure «solido», con una dose di esperienza alle spalle per poter affrontare i prossimi difficilissimi mesi. Ieri pomeriggio Pier Luigi Bersani ha incontrato i suoi, una cinquantina, per discutere anche di questo passaggio. «Noi dobbiamo farci carico di guidare questa linea di rinnovamento responsabile», ha spiegato ai suoi aggiungendo che l’asse con Franceschini deve restare solido e che sul nome di Speranza può esserci convergenza (anche con Enrico Letta).
«Dal momento che il nome di Speranza nasce come un’operazione di corrente commenta però il giovane turco Matteo Orfini noi non siamo d’accordo. In un’intervista a l’Unità Bersani ha sostenuto che bisogna uscire dal correntismo, giusto, peccato che poi organizzi una riunione con la sua corrente».
È l’annuncio di una battaglia che i giovani turchi sono intenzionati a portare avanti fino in fondo e che molto probabilmente vedrà al loro fianco parecchi dalemiani. «Noi non facciamo storie sui nomi ma sul metodo prosegue Orfini -. Avremmo sostenuto Gianni Cuperlo e hanno detto che non va bene. Allora perché non Claudio Martini o Sergio Chiamparino?». I giovani turchi vedono nella candidatura di Speranza una linea chiara anche per il congresso, un tentativo da parte di Bersani e i suoi di riprovare la scalata con un volto nuovo, da contrapporre a Renzi. Non a caso Pina Picierno, Areadem, a chi dà per scontato l’esito del congresso (nel caso in cui non si cambiasse lo Statuto e leadership e premiership coincidessero) ribatte che «non è affatto detto che a vincere sia Renzi, Speranza è preparatissimo e non ha nulla da temere da un confronto».
Dal canto suo Speranza continua a ripetere di essere «innamorato del ruolo di capogruppo» e di avere intenzione di svolgere al meglio la sua funzione, che «è un onore, dal momento che si tratta del gruppo parlamentare più grande dopo la Dc del 1948». Per sé, dice, non chiede altro. Se dovesse diventare lui segretario, infatti, dovrebbe dimettersi da presidente dei deputati Pd (ieri c’era chi faceva i nomi come possibili successori di Gianclaudio Bressa, che ha smentito e di Guglielmo Epifani) a poche settimane dal suo insediamento. I veltroniani non esultano sul suo nome ma neanche si mettono di traverso purché chi assumerà il ruolo di segretario sabato «sia una figura di garanzia» e non metta ipoteche sul congresso, stessa linea del renziano Dario Nardella. Matteo Renzi dice di non essere appassionato, non ora, neanche alle eventuali modifiche statutarie, ma è probabile che domani sia a Roma per l’Assemblea. «Non mi candido» ripete a chi glielo chiede, compresi molti suoi parlamentari che premono affinché prenda in mano il partito. Pippo Civati e Laura Puppato già da ora annunciano disobbedienza. «Il problema per me non è che Letta sia di destra (anche perché d’accordo con lui ci sono molti esponenti di sinistra) scrive Civati -. E non mi interessa che ora ci sia un segretario di sinistra o di destra a fare da contraltare... L’importante è che sia segretario fino al Congresso, garante del Congresso e del pluralismo. Per tutte e tutti». Puppato ha preparato un documento critico verso l’alleanza Pd-Pdl. «Ho sintetizzato il pensiero di molto, ribadendo la centralità del Parlamento e la necessità di trovare condivisione sulle leggi anche con Sel e M5S».
Ma dall’Assemblea potrebbe uscire anche un candidato outsider dal momento che i ragazzi di Occupy Pd, ancora furibondi contro i 101 franchi tiratori su Prodi, hanno annunciato la loro presenza massiccia e potrebbero riscuotere consensi tra i delegati malpancisti (intanto salutano come positiva la loro iniziativa alcuni deputati tra cui Giuditta Pini, Fausto Raciti, Laura Coccia, Anna Ascani, Chiara Gribaudo, Enzo Lattuca). Di sicuro per ora c’è l’ordine del giorno: elezione del segretario e convocazione del congresso. Bersani interverrà durante il dibattito ma non aprirà i lavori, non si parlerà di modifica dello Statuto e molto probabilmente interverrà il premier Enrico Letta (che in mattinata dovrebbe però essere presente ai funerali delle vittime di Genova). Sarà Luigi Zanda a presentare un documento di sostegno al governo. Dalla rosa dei nomi dei possibili candidati esce Gianni Cuperlo, «non mi candido all’Assemblea ma al congresso», dice.
Restano in campo oltre a Speranza e Chiti, anche Nicola Zingaretti su cui c’è forte pressing ma altrettanta resistenza del diretto interessato, e Piero Fassino e Anna Finocchiaro. Per ogni candidatura basteranno 75 firme, i delegati che hanno confermato la loro presenza sono circa 750. Ma scommettere sulla loro disponibilità a votare per il candidato «unitario» potrebbe essere un azzardo.

il Fatto 10.5.13
Finché c’è caos c’è Speranza
Domani l’Assemblea. La Puppato presenterà un documento per un dialogo con M5S e Sel
di Wanda Marra


Se andiamo avanti così, domani sarà il caos totale e quelli che ci aspettano fuori ci tirano le uova”. Parola di dirigente democratico. Dopo due settimane di trattative continue ed estenuanti, l’attivismo Pd (partito senza conduzione, copyright Monti) il giorno prima dell’Assemblea è alle stelle: riunioni, processioni, telefonate, coordinamenti. Il tema è sempre lo stesso: trovare un segretario a tempo che vada bene a tutti, non disturbi le ambizioni di nessuno e sia pronto a farsi da parte tra cinque mesi. Una “mission impossible”.
IL VOTO sulla presidenza della Repubblica insegna. Dal caminetto dell’altroieri sera era uscita una task force, un gruppo di “sondatori”. Composto dai capigruppo Speranza e Zanda, dai vicepresidenti del partito, Sereni e Scalfarotto, da David Sassoli e Enzo Amendola. Il ruolo dei sei è però stato immediatamente ridimensionato: più che altro devono organizzare l’Assemblea, fare scalette, cercare di far sì che almeno dal punto di vista logistico tutto fili liscio. E al massimo provare a tratteggiare un profilo: molto giovane o molto vecchio. Le trattative, quelle vere, si fanno altrove. E così mentre i 6 si sono incontrati diligentemente una prima volta alle 13 in Senato e un’altra nel tardo pomeriggio, con l’ex responsabile Organizzazione, Nico Stumpo, Pier Luigi Bersani ha riunito la sua corrente in uno spazio eventi dalle parti di piazza di Spagna: 40 fedelissimi di un segretario dimissionario che vuole continuare a contare. E che fa asse con Dario Franceschini. L’orientamento porta a convergere su Roberto Speranza. Ma lui ha qualche perplessità a lasciarsi trascinare. Poi, Massimo D’Alema non lo vuole, perché è di Bersani e i Giovani Turchi non lo vogliono, perché di corrente. E allora, continua la ridda dei nomi. Spuntano nuovi giovani: Maurizio Martina, segretario della Lombardia (quotazioni medie), Amendola, segretario della Campania (quotazioni medio-alte), Stefano Bonaccini, segretario dell’Emilia Romagna (quotazioni basse). In molti spingono per Nicola Zingaretti, che si ritrae. Poi, si torna sui “vecchi”: tra i nomi più gettonati, Claudio Martini, che è sufficientemente sconosciuto da non dare troppo fastidio. Ma rimangono in campo figure a vario titolo “autorevoli” come Piero Fassino, Sergio Chiamparino e Anna Finocchiaro. Quest’ultima resta la candidata di D’Alema. Il primo, Gianni Cuperlo, ha fatto sapere che vuole correre direttamente al congresso. Per ora. Il Lìder Maximo, tanto per creare ulteriore scompiglio tra i Democratici ieri e l’altroieri è stato a Firenze a presidiare un evento sull’Europa. Con Renzi, si sono parlati a stento. Gli accordi sono quelli già stretti, per portare rapidamente Matteo alla premiership. Lui intanto ha conferito con Barroso e Cameron. E ha ribadito che non è interessato alla segreteria. Domani però a Roma ci sarà. Potrebbe non esserci, invece, D’Alema: “Sono a Barcellona, proverò ad arrivare alla fine, per la votazione”. Al caos si aggiunge l’incognita ribelli. Laura Puppato ha preparato un documento contro le larghe intese, da sottoporre ai vari “dissidenti” (Civati, la Zampa, Gozi). Vuole maggioranze variabili, ovvero dialogo su alcuni provvedimenti con l’M5S e Sel e non esclude di chiedere i voti all’Assemblea. Potrebbe trovarne parecchi e mettere ulteriormente in difficoltà l’esecutivi. Oggi è la giornata decisiva, non è escluso che il Pd si presenti diviso e si spacchi in Assemblea.

La Stampa 10.5.13
Democratici nel caos. Speranza favorito per la reggenza
I dalemiani contrari: temono che Bersani diventi capogruppo
di Carlo Bertini


«Parliamoci chiaro: si rischia di arrivare a sabato senza una scelta condivisa», confessa a fine giornata un bersaniano, fotografando lo stallo più completo nel braccio di ferro con i dalemiani dopo un vortice di contatti a tutti i livelli. Anche a Nicola Zingaretti arrivano richieste da molte federazioni regionali, respinte nettamente dall’interessato. In realtà il congresso vero è già partito e le truppe già si organizzano, perché già a luglio ci saranno i candidati in campo, Cuperlo, Barca, forse anche Renzi, se non sarà tolto l’automatismo tra candidato premier e segretario; rispunta perfino Pietro Folena, già vice di Veltroni nei Ds, che dal suo blog si dice «pronto a dare un contributo in prima persona per un nuovo Pd e una nuova sinistra».
Bersani riunisce per la prima volta i suoi in uno «spazio eventi» accanto piazza di Spagna, sono una trentina, tra cui Zoggia, Gotor, Migliavacca, Stumpo e si discute di come affrontare la battaglia congressuale, qualcuno fuori ipotizza un’alleanza con Franceschini cercando un candidato da contrapporre a Cuperlo.
Ma oggi il problema è trovare un reggente e si oscilla su due modelli, un veterano «con collaudata esperienza politica e i nomi di Finocchiaro, Fassino, Chiti, sono tutti validi», dice la Sereni che guida la task force di esploratori, «e quello di investire su un giovane, cui non si può chiedere di non candidarsi poi al congresso, e il capogruppo Speranza o un segretario regionale possono rispondere a questo profilo». E questi giovani segretari regionali sarebbero il lombardo Maurizio Martina, bersaniano, o il campano Enzo Amendola, dalemiano, che potrebbero fare i reggenti se franasse la trattativa su Speranza.
Insomma, oggi si cercherà una figura condivisa su cui il grosso del partito possa convergere, ma nel Pd la situazione è drammatica, non si sa come discutere in assemblea sul governo, Letta ci sarà e interverrà anche se fuori le contestazioni sono già messe in conto. L’assemblea potrebbe infiammarsi sul sostegno alle larghe intese, la Puppato presenterà un documento con le firme di 40 deputati per maggioranze variabili con i grillini. E anche se si trovasse un nome condiviso per la reggenza, chiunque raccolga 75 firme tra i mille delegati, potrà candidarsi...
Per tutto il giorno il nome di Speranza sembra l’unico in grado di passare le forche caudine, lo caldeggiano Bersani, Franceschini, lo accetta Renzi e anche i veltroniani non si oppongono. A Letta sta bene anche se preferirebbe una figura più esperta in una fase delicata come questa per il governo. A non gradire questa soluzione, la più condivisa, sono dalemiani e «turchi» che preferirebbero la Finocchiaro, visto che Cuperlo si tira fuori per questa fase transitoria, «non sono in campo ora».
Speranza resiste, fa sapere di essere «innamorato del suo ruolo di capogruppo, voglio svolgerlo al meglio e non cerco altro». Certo è che lui risolverebbe un problema ma ne aprirebbe un altro, trovare un nuovo capogruppo: già nel suo caso, mancarono 90 voti su 300, ma se si riaprisse il file, lo scontro tra ex Ds sarebbe assicurato: solo per dirne una sul grado di tossicità dell’atmosfera, i dalemiani nutrono il sospetto che Bersani voglia far eleggere Speranza per farsi poi nominare lui capogruppo. Carica per la quale in realtà già girano dei nomi, quello di Epifani e del franceschiniano Bressa, che frena: «Non scherziamo», perché il gioco delle appartenenze impedisce due cariche alla stessa corrente in camera e Senato.

Repubblica 10.5.13
Speranza stoppa l’ipotesi di diventare reggente: “Sono innamorato del mio lavoro”
“Io preferisco fare il capogruppo dico no alla guida del partito”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — L’identikit del “traghettatore” emerso nelle ultime ore per guidare il Pd al congresso chiama in causa anche lui, il capogruppo democratico alla Camera Roberto Speranza. Che però sembra tirarsi fuori: «Io sono innamorato del mio lavoro di capogruppo. La mia ambizione oggi è guidare il gruppo, non il partito».
Presidente, è innegabile: il suo nome gira. È disponibile?
«Vengo da una lunga esperienza di amministrazione comuna-le, poi alla segretaria regionale. Ora capogruppo. È l’esperienza più bella che mi sia capitata, non ho alcuna altra ambizione che farlo al meglio».
Ma se il partito chiama...
«Il partito mi ha chiamato e non mi sono tirato indietro. Affidando a me, alla prima legislatura, il secondo gruppo parlamentare più grande della storia repubblicana. Una scelta coraggiosa, forse anche sorprendente. Non ho altre ambizioni».
Andiamo al cuore del problema: la chiamassero, direbbe no?
«Ho la sensazione che si parli troppo di persone e troppo poco della visione. La personalizzazione della politica è uno dei limiti di questa fase, perché non basta una persona. Non servono demiurghi, serve uno sforzo collettivo di ricostruzione».
Non mi sembra un no.
«Penso di essere stato chiarissimo ».
Dice?
«E’ sbagliato partire con un balletto di nomi. La mia ambizione oggi è guidare il gruppo, non il partito».
Questa sembra un no.
«Le ripeto: sono innamorato del mio lavoro. E non ho altre ambizioni».
Non è che teme di trovarsi a gestire una polveriera?
«Il Pd deve trovare la sua strada. Fare un congresso vero in tempi brevi. Dobbiamo darci una guida che ci accompagni verso l’assise, per rispondere alle grandi domande che sono affiorate. Il merito delle dimissioni di Bersani - a cui tutto il partito deve essere grato - è stato quello di far assumere a tutti le proprie responsabilità».
Lei dice: lasciamo perdere i nomi. Però guida la task force a cui spetta l’istruttoria per individuare il nome del traghettatore.
«Non è il problema di quel nome o di quell’altro. Non è un problema di correnti o correntine. Siamo a un passaggio decisivo, dobbiamo capire qual è la nostra funzione storica, a sei anni dalla nostra fondazione. Se invece...».
Dica.
«Se invece il dibattito congressuale diventasse solo una conta, commetteremmo un errore non recuperabile. C’è la dinamica sbagliata di leggere tutto dentro dinamiche di aree, correnti, correntine. Se partiamo dal nome, anche il mio, sbagliamo».
Che esistano correnti, anche in conflitto, è difficile da confutare.
«Ma noi ora siamo a un passaggio in cui è in discussione cos’è il partito. Non si può risolvere la questione con lo sport - molto diffuso - di testare il tasso di gradazione di vicinanza a un leader piuttosto che a un altro».
C’è un nome che considera più adeguato per l’incarico di reggente?
«In queste ore sono circolati tanti nomi autorevoli, ma la personalizzazione è un limite».
Che tempi immagina per il congresso?
«Bisogna evitare un congresso usa e getta, un’assise che si organizzi in dieci giorni. Penso che i circoli e i militanti debbano essere chiamati a discutere dell’identità del Pd. Penso che si arriverà a superare l’estate».
Congresso dopo l’estate dunque. Quanto al reggente, deve durare fino al congresso?
«Penso a una figura che ci accompagni al congresso».

Repubblica 10.5.13
Pd, tra i veti incrociati di corrente
riprende quota il reggente esperto
Tutto in alto mare alla vigilia della assemblea. Su Speranza il no di D'Alema e Veltroni. In corsa Fassino, Chiti, Epifani. Black list coi 101 anti-Prodi
di Goffredo De Marchis

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Corriere 10.5.13
Pd, l'accordo non c'è. «E sabato in assemblea può scattare la rissa»
Civati organizza i giovani ribelli
intervista di Monica Guerzoni

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La Stampa 10.4.13
Pd, Puppato portavoce dei “ribelli” contro le larghe intese in Parlamento

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Repubblica 10.5.13
La Puppato chiama i delusi: in 40 con me, più autonomi dal governo
di Tommaso Ciriaco


ROMA — È pronta a lanciare la sfida durante l’assemblea del Pd in agenda domani. Laura Puppato condensa lo scetticismo verso la linea ufficiale del partito in poco meno di tre pagine. Ma il contenuto è potenzialmente esplosivo, perché mira ad aprire una prima crepa nell’edificio delle larghe intese edificato solo due settimane fa. Su quel testo la senatrice spera di poter ottenere la convergenza di una quarantina di dirigenti.
Il cambio di passo prospettato è messo nero su bianco e parte da una distinzione sostanziale: «Dobbiamo distinguere l’azione dell’esecutivo da quella del Parlamento». Poi Puppato avverte: «Alla responsabilità che abbiamo verso il Paese, dobbiamo affiancare la lealtà verso i nostri elettori. Direi verso le nostre idee». Infine lancia il guanto di sfida: «Sulle singole leggi si possono e si devono trovare maggioranze variabili e trasversali». Uno scenario da incubo, per un esecutivo costretto a reggersi solo sul difficile equilibrio tra Pd e Pdl. E che vede Sel e grillini all’opposizione, anche se l’esito elettorale avrebbe «giustificato» un esecutivo con il M5S o «uno di scopo».
La candidata alle ultime primarie del Pd, invece, immagina un lavoro parlamentare slegato dagli accordi che hanno permesso la nascita dell’esperienza Letta: «I nostri gruppi - è l’auspicio - devono rivendicare la loro autonomia legislativa e lavorare nelle commissioni e in Aula a quei provvedimenti che avevamo promesso in campagna elettorale».
Solo l’assemblea dem dirà se l’operazione Puppato è capace di conquistare i malpancisti. Intanto, però, la parlamentare ha già messo in cantiere una nuova iniziativa, un incontro pubblico previsto per la prima metà di giugno a Treviso, alla quale potrebbe partecipare anche Fabrizio Barca. Proprio l’ex ministro, che da tempo chiede al Pd un cambio di passo, potrebbe incontrare la rotta della senatrice.
Al momento, però, non è all’orizzonte uno strappo. O almeno così tiene a ribadire Puppato nel documento: «Non porterò le mie idee da un’altra parte, perché il Pd è la mia casa. In questa fase l’unica scissione di cui dobbiamo preoccuparci è quella tra i dirigenti e gli eletti da una parte, e gli iscritti (ed elettori) dall’altra. Al contrario voglio aprire porte e finestre di questa casa alle persone che hanno le mie idee».
La mission, ambiziosa, è quella di costruire il programma in vista di nuove elezioni. Anche su questo la senatrice non si nasconde: «Il programma del Pd per i prossimi anni non può essere quello del governo Letta», ma quello da scrivere al termine delle larghe intese.

La Stampa 10.5.13
Consigliere politico di Walter Veltroni
Bettini: “Un nuovo partito a sinistra sono pronto a fare il segretario”
L’ex senatore: bisogna andare oltre Pd e Sel e cancellare tutte le correnti
intervista di Riccardo Barenghi


È stato il grande consigliere politico di Veltroni, ha messo in campo dirigenti come Nicola Zingaretti che ora governa il Lazio e Ignazio Marino che domani, forse, governerà Roma. Ma da quattro anni ha smesso di fare politica in prima persona, dopo l’addio di Veltroni dalla segreteria del Pd e dopo essersi dimesso da senatore. Oggi però Goffredo Bettini torna in campo, eccome. Non solo con un libro scritto insieme a Carmine Fotia e che si intitola “Carte segrete. Roma, l’Italia e il Pd tra politica e vita” (Aliberti) che presenterà lunedì al teatro Eliseo di Roma. Torna in campo soprattutto con qualche proposta su quello che secondo lui dovrà essere la sinistra italiana del futuro.
Bettini, non le basta più il Pd?
«Se restiamo chiusi in quel recinto non andiamo da nessuna parte. La mia idea è che si debba creare un nuovo soggetto politico di tutta la sinistra e di tutti i moderati che guardano a sinistra. Non solo una semplice sommatoria tra Pd e Sel, per capirci. Ma molto di più. Una casa comune nella quale possano trovare posto tutti coloro che in questi anni ci hanno consentito di vincere le ultime elezioni amministrative».
Si chiamerà ancora Pd il suo partito del futuro?
«No, deve avere un altro nome in grado di segnalare la novità politica. Io lo chiamerei Il Campo, proprio per dare l’idea di un cosa nuova e aperta».
E lei Bettini si candiderà a guidare questa sua creatura?
«È una ipotesi possibile, non escludo una mia candidatura. Ovviamente a condizione che si cancellino tutte le correnti che attualmente governano il Pd, che si superino le vecchie logiche sclerotizzate e che si costruiscano le decisioni attraverso la consultazione democratica degli iscritti. Primarie tematiche: il nucleare, la fecondazione assistita, l’eutanasia, l’art. 18, ma anche la partecipazione al governo con Berlusconi. Insomma ogni decisione rilevante, va sottoposta all’approvazione vincolante degli iscritti».
Domani si riunisce l’assemblea nazionale del suo partito, eleggerà un segretario reggente o un leader duraturo.
«Io preferisco una scelta limitata nel tempo, altrimenti non riusciremmo a discutere di nulla. Sarebbe inutile pure fare il congresso a ottobre se ci presentassimo con un leader che impegna il futuro. Invece dobbiamo avviare quel percorso che ci porti a una ricostruzione della nostra prospettiva politica e a una nuova forma partito. E a quel punto scegliere il leader».
E nel frattempo?
«Ci vuole un dirigente autorevole che sia in grado di tenere unito il partito, che abbia rapporti con tutte le anime del Pd, che sia riconosciuto anche all’estero. La persona giusta per me si chiama Piero Fassino».
Se lei venisse scelto come leader del Partito o magari del «Campo», sarebbe anche il candidato premier?
«No, le due figure vanno distinte. E al momento, malgrado io su molte questioni non sia d’accordo con lui, penso che l’uomo giusto per cercare di vincere sia Matteo Renzi».
Bettini, lei parla di elezioni future nonostante siano passati neanche tre mesi da quelle che il centrosinistra doveva vincere senza fatica. Che è successo?
«Intanto che abbiamo sbagliato a non pretendere le elezioni nel novembre del 2011 quando è caduto Berlusconi. Dovevamo andare al voto con un schieramento largo, la sinistra e il centro moderato, e proporre agli elettori una legislatura costituente».
Invece è arrivato il governo tecnico...
«Ma il problema vero è nato durante la campagna elettorale, quando noi eravamo così sicuri di vincere che già pensavamo a chi sarebbe stato il premier, ossia Bersani, chi avrebbe fatto il ministro. E non abbiamo capito quel che stava succedendo, il micidiale scollamento dei cittadini dalla politica, il fenomeno Grillo, la rimonta di Berlusconi. Per non parlare del dopo, quando ci siamo intestarditi sul governo di cambiamento con i Cinque stelle che non ne volevano sapere, senza capire che invece dovevamo puntare a un governo di scopo, con compiti e tempi limitati guidato da un personaggio autorevole scelto da Napolitano. Invece, grazie a questi errori, siamo finiti in un governo, al quale auguro comunque lunga vita ma che è frutto di un accordo politico con il personaggio da cui abbiamo cercato di liberare l’Italia negli ultimi vent’anni».

La Stampa 10.5.13
Bindi: “Attento Pd, rischiamo di apparire correi di Berlusconi”
L’ex presidente: “L’idea della pacificazione è irricevibile”
Prima di aderire all’Ulivo e al Pd, Rosy Bindi ha militato nella Dc, nel Ppi e nella Margherita
intervista di Federico Geremicca


“Il nuovo esecutivo: «Non è il governo del Pd, ma è presieduto dal vicesegretario e questo crea problemi»"
Il segretario reggente: «Non deve pensare di avere un futuro, ma solo un compito: la gestione fino al Congresso» L’avvertimento agli ex Ds"
"Non vorrei che qualcuno si convinca che, sfumata questa occasione, occorra rifare un partito di sinistra"
La rottamazione. Innovare non vuol dire «tutti a casa»: avere imboccato quella strada può provocare dei danni"

Scandisce bene le parole, quasi che il farlo potesse servire a controllare il travaglio - perfino la rabbia che la tormenta: «È l’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, e io non accetto paragoni tra allora e oggi: nel ’76 si affrontò l’emergenza cercando di costruire il futuro, adesso tentiamo - malamente - di chiudere con il passato. È per questo che noi dobbiamo sostenere con lealtà il governo, ma sapendo che non è il governo del Partito democratico; io, personalmente, farò quanto possibile: ma avendo chiaro che il Pd che ho in testa - e non credo di esser la sola è un partito alternativo alla destra. L’idea che è giunto il tempo di una “pacificazione” col berlusconismo, è irricevibile: venti anni di storia non si cancellano così».
Rosy Bindi e la sua inquietudine. E anche Rosy Bindi e la sua delusione: che la porta - a quattro anni dalla nascita del Pd - ad invocare un segretario pro-tempore «che crei le condizioni per un Congresso vero e, finalmente, per la fondazione del Partito democratico». Ma anche, in fondo, Rosy Bindi e il suo sgomento: che non è diversa da quella che attraversa il Pd, dalle Alpi alla Sicilia. Sembra incredibile, ma ad una manciata di ore da un’Assemblea nazionale che potrebbe rivelarsi perfino drammatica, non si sa chi sarà eletto segretario e non si è d’accordo nemmeno sul suo profilo e sul suo mandato. Tanto che Mario Monti può perfino ironizzare: «Scelta Civica partecipa a un governo che include il Pdl e un Pd a conduzione ignota... ».
Siete davvero messi così male?
«Benissimo non stiamo... ma ho fiducia nell’apertura di una fase congressuale che chiarisca e definisca profilo, ruolo e obiettivi del partito che vogliamo».
Quando farete il Congresso?
«Rispetteremo la scadenza statutaria».
E quando eleggerete il segretario?
«Nell’Assemblea di domani».
Lei ha un nome, un candidato?
«Io ho dei criteri, credo semplici e comprensibili. Il primo: abbiamo bisogno di un segretario al quale non si possa attribuire la responsabilità della situazione nella quale ci troviamo, un uomo o una donna - insomma - che non venga dal gruppo dirigente che ha fatto tanti errori, altrimenti tanto vale chiedere a Bersani di restare fino al Congresso».
Il secondo criterio?
«Vorrei un segretario che non venisse scelto perché di sinistra o perché del centro: vorrei, per esser chiari, un segretario semplicemente democratico. E che, uscendo eletto dall’Assemblea, non pensi di avere un futuro quanto - piuttosto - un compito: gestire il partito fino al Congresso con la collegialità».
Nomi ne circolano tanti, perfino troppi, segno che il Pd è del tutto diviso: lei non teme possibili scissioni?
«Non ho questo timore. Mi preoccupano, piuttosto, tentazioni che potrebbero farci dell’altro male».
Per esempio?
«Stavolta la sconfitta è stata bruciante, tanto che non l’abbiamo ammessa, rifugiandoci in giochi di parole: non vorrei che quanto accaduto faccia rinascere nella componente ex Ds - che non ha mai vinto - la convinzione che, sfumata questa occasione, occorra rifare un partito di sinistra, che si rassegni e si accontenti, magari, di gestire una qualche forma di consociazione».
Altre «tentazioni pericolose»?
«Insistere in una interpretazione sbagliata del cambiamento. Abbiamo ceduto alla tesi che innovare vuol dire” tutti a casa”, “tutti da rottamare”. Non è così, e aver imboccato quella strada può produrre danni. Leggo e sento che la condanna in secondo grado di Berlusconi non può avere ripercussioni sul governo; leggo della necessità di una “pacificazione” che, proposta oggi, somiglia piuttosto ad una chiamata di correità. Si innovi, e avanti i giovani: ma non si può riscrivere la storia così».
Però, avendo deciso di fare un governo con il Pdl, non potete certo attaccare un giorno sì e l’altro pure il leader di quel partito, no?
«Siamo in una fase oltremodo delicata perché c’è un governo che non è il governo del Pd, ma è presieduto dal suo vicesegretario. Questo crea problemi, inutile negarlo: e a maggior ragione reclama la scelta di un segretario che sostenga il governo, ma tenendo unito il partito e rendendo chiara ai nostri iscritti ed elettori l’eccezionalità della scelta compiuta».
Crede che il Pd possa - o addirittura debba - rinunciare alle primarie per scegliere il suo segretario?
«Possiamo discuterne, ma - per quanto mi riguarda - non sono disposta a rinunciare alle primarie. Con una avvertenza, naturalmente: che anche questa nostra ultima esperienza dimostra che non bastano per andare a Palazzo Chigi. Le primarie sono uno strumento, un metodo di selezione e di partecipazione: ma il problema che abbiamo di fronte oggi, il primo problema, è rivitalizzare il Pd, dargli una missione e riaprire i canali di dialogo con la società».
Insomma, dopo la sbornia nuovista il ritorno alla politica tradizionale...
«Io non ho la stessa idea di alcuni circa la funzione quasi salvifica dei partiti, che pure sono importanti e vanno riformati: non credo, insomma, che la soluzione sia semplicemente nel ritorno al partito delle tessere e delle sezioni. Ma ora sappiamo che anche le primarie, da sole, non bastano. Quel che occorre è rimettere in piedi e dare un futuro al Pd: un partito, non dovremmo mai dimenticarlo, nato con vocazione maggioritaria e per essere chiaramente e decisamente alternativo alla destra».

Corriere 10.5.13
Il Pd non sa cosa è successo nelle urne elettorali
Quella mappa dei voti ferma al 1919. Sinistra rinchiusa in un recinto angusto
di Antonio Polito


È davvero sorprendente che undici settimane dopo il più grande terremoto elettorale della storia della Repubblica, nessun organo dirigente del Pd abbia ancora fatto un'analisi del voto. Domani riparte la giostra dei nomi, dei segretari, dei reggenti, degli organigrammi. Le correnti sono in piena attività. Tutti vogliono decidere chi guiderà il partito, ma per fare che cosa nessuno lo sa. E finché non si studierà cosa è successo nelle urne alla sinistra italiana, è impossibile saperlo.
La prima cosa che bisognerebbe discutere è questa: la sinistra italiana ha ottenuto il suo risultato peggiore proprio quando ha creduto di poter fare da sola. La coalizione di Bersani ha infatti raggiunto una percentuale di voti alla Camera (il 29,5%) inferiore perfino alla tanto vituperata macchina da guerra di Occhetto, che ottenne il 32,75 nel 1994, all'alba della Seconda Repubblica. Il solo Pd di Veltroni ebbe cinque anni fa un risultato di gran lunga migliore di Bersani e Vendola messi insieme. Perfino Togliatti e Nenni, nella sconfitta storica del 1948, fecero un po' meglio sfiorando il 31%. A occhio e croce si direbbe che il primo cruccio del Pd dovrebbe essere quello di ricostruire un sistema di alleanze che gli consenta di uscire fuori dal recinto elettorale della sinistra, ormai dimostratosi troppo angusto per poter mai vincere le elezioni. D'altra parte, la coalizione con Vendola in Parlamento già non esiste più, ed è dunque inservibile come progetto politico su cui ricostruire.
La seconda osservazione andrebbe fatta sulla distribuzione geografica del voto per la sinistra: è sostanzialmente uguale a quella che era subito dopo il fascismo, nel 1948, e anche subito prima, nel 1919: al di fuori del quadrilatero delle regioni rosse, la sinistra è minoritaria ovunque (cito elaborazioni del Cise di D'Alimonte). Ma, rispetto a cinque anni fa, il deterioramento è stato minore nel Nord-Est, dove il Pd ha perso «solo» il 4% dei suoi voti, ampio al Nord Ovest (meno 8,3%), amplissimo al Sud (meno 9,5%), e più ampio che mai nelle regioni rosse (meno 10%). Questo vuol dire che la sinistra deve considerare a rischio perfino ciò che finora dava per scontato, perché è emerso un concorrente più in grado dell'avversario tradizionale di penetrare nelle sue roccaforti. Il Movimento 5 Stelle è stato infatti il primo partito in tutte le provincie delle Marche, in una provincia dell'Emilia Romagna e in una della Toscana (è il primo partito in 50 provincie contro le 40 del Pd). Tutto ciò nonostante che al vertice democratico stavolta ci fossero gli «emiliani».
La lezione da trarne è che la vera novità del competitore grillino non sta solo nel fatto di avere un messaggio più radicale, che si presume più «di sinistra» e che più d'uno nel Pd vorrebbe ora imitare; ma ancor di più sta nel fatto che è una forza più trasversale, capace cioè di attrarre elettori di destra oltre che di sinistra, qualità che al Pd invece manca. Dei quasi nove milioni di voti andati al M5S (cito elaborazioni dell'Ipsos di Pagnoncelli), il 30% viene da chi ha votato a sinistra nel 2008, ma il 31% viene da chi votò a destra, per Berlusconi e per Bossi; più un altro 36% che viene dal non voto e dal nuovo voto. Sarebbe bastato aver studiato questi dati per evitare qualche brutta figura e capire che per Grillo era impossibile dare via libera a un governo Bersani: i 5 Stelle non possono allearsi in Parlamento con nessuno, perché qualsiasi alleanza scontenterebbe un terzo del loro elettorato (è questo, tra l'altro, il vero punto debole del Movimento sulla lunga distanza).
Il partito di Grillo ha insomma raggiunto quell'interclassismo e quel trasversalismo sociale che erano l'ambizione alla base della nascita del Pd: ottiene più voti tra gli imprenditori e i dirigenti (25% M5S; 23% Pd) e tra i lavoratori autonomi (39% M5S; solo 15% il Pd); ma anche tra gli operai (29% M5S contro il 20% del Pd, che qui è battuto anche dal Pdl al 24%) e tra i disoccupati (33% al M5S e il 23% al Pd). L'unica categoria sociale in cui il Pd svetta rispetto ai concorrenti è quella dei pensionati: vi ottiene il 37% dei voti, contro il 25% del Pdl e un magrissimo 11% di Grillo. Non era dunque vero che si sarebbe intercettato meglio lo stato d'animo del paese spostandosi più a sinistra e identificandosi di più con la Cgil (sindacato nel quale, d'altra parte, i pensionati sono la maggioranza degli iscritti).
L'ultima lezione che il Pd potrebbe trarre da un'analisi del voto, se e quando la vorrà fare, è l'impressionante invecchiamento anagrafico del suo elettorato: la metà è composta da persone al di sopra dei 55 anni (e tra quelle oltre i 65% la percentuale è del 32%). Gli ultra-cinquantacinquenni sono invece solo il 19% dell'elettorato grillino; e tra i giovani che hanno votato per la prima volta il Pd raccoglie l'8% dei suoi voti, contro il 13% del M5S. Infatti alla sinistra è andata molto peggio alla Camera, dove votano i diciottenni, che al Senato: una differenza del 2,1%. Il che obbligherebbe a una revisione complessiva dei linguaggi, delle forme, dello stile della politica, dai comizi all'ossessione televisiva fino a un uso così ingenuamente ludico del web da sembrare provocatorio.
Alleanze, proposta, messaggio: prima di darsi un nuovo segretario il Pd dovrebbe decidere che fare. E quel che va fatto sta scritto nei dati elettorali. Bisognerebbe cominciare a leggerli.

Corriere 10.5.13
Berlusconi più forte scarica sul Pd il costo dell'alleanza
di Massimo Franco


L'accenno fatto ieri da Silvio Berlusconi alle riforme da approvare sembrava di maniera. Ma l'impressione è che conoscesse le dinamiche messe in moto nelle ultime ore dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano: niente Convenzione, e assegnazione del compito al Parlamento. Confermare che non sarà lui a mettere in crisi il governo di Enrico Letta anche dopo la sentenza di condanna a quattro anni, rafforza dunque il Cavaliere. Lo addita come sostenitore leale della maggioranza in «un momento cruciale» per l'Italia. E scarica sulle spalle del Pd il problema di gestire un'alleanza col capo del Pdl. La tentazione di aizzare la piazza contro «la magistratura politicizzata» rimane, con la manifestazione di domani a Brescia.
Il binario parallelo, però, è quello della stabilità e della collaborazione alle Camere per concordare e approvare alcune riforme istituzionali. Il sostegno a Palazzo Chigi viene evocato come la strada maestra per tirare fuori dalle difficoltà il Paese; e presentato come il contraltare a «magistrati politicizzati, accecati da un odio pregiudiziale». Giudici che, a sentire Berlusconi, «mi vorrebbero interdetto e politicamente morto». La cornice nella quale l'ex premier mette le sentenze che lo riguardano è tutta politica.
Si tratterebbe di tentativi di destabilizzare una maggioranza già difficile, ai quali «resisteremo». D'altronde, ieri il Consiglio dei ministri ha annunciato che lunedì o martedì sospenderà la rata di giugno dell'Imu, la tassa sulla prima casa, fino a settembre; e sarebbe una vittoria simbolica del Cavaliere, anche se apre un problema di copertura finanziaria. E il Pd si è guardato bene dall'attaccare Berlusconi dopo la sua condanna a Milano. Spera che arrivi per legge la sua decadenza da parlamentare. Sa che qualunque critica verrebbe interpretata come atto di slealtà verso un alleato, per quanto anomalo. Ma soprattutto, il partito è assorbito dalle lotte interne.
Il destino giudiziario di Berlusconi è dunque messo tra parentesi. Il timore è che altrimenti possa essere usato nel Pd come arma impropria congressuale. Il modo in cui lo brandiscono Movimento 5 Stelle e Antonio Di Pietro fa pensare. Il M5S è in difficoltà, e la visita di Beppe Grillo ieri in Parlamento non ha cancellato questa impressione; anzi, semmai l'ha accentuata, e non solo per le polemiche sulla restituzione della diaria di deputati e senatori grillini. Così, attaccare Berlusconi, e chiederne fin d'ora l'ineleggibilità, è un modo per ritirarsi in un recinto sicuro; e soprattutto per creare problemi a un Pd accusato di essere troppo silenzioso.
Al centrodestra basta questo, per ora. Se decidesse di abbandonare il governo, lo farebbe non su un tema impopolare come le vicende processuali berlusconiane, ma sull'economia. «Cominciamo un cammino che sarà faticosissimo», ammette il presidente del Consiglio. La stessa mini sospensione dell'Imu ha creato malumori negli enti locali contro Palazzo Chigi. Se non si trovano tasse che compensino la perdita del gettito di quella imposta, i servizi sociali di Regioni e Comuni dovranno essere ulteriormente ridotti. E molte giunte di centrosinistra, e non solo, già mandano segnali di inquietudine al premier.

La Stampa 10.5.13
Verso il congresso
Pd, si arruolano le truppe “A gennaio 4000 tesserati in più”
Polemiche sulle adesioni raccolte dalle federazioni e girate ai circoli
di Maurizio Tropeano


Nel solo mese di gennaio il partito democratico torinese ha raccolto 4100 nuove adesioni, il cinquanta per cento in più degli iscritti del 2011. E i 12 mila iscritti totali rappresentano il record di adesioni da quando i democratici hanno avviato il tesseramento, cioè dal 2009. Caterina Romeo, responsabile organizzativa non nasconde la sua soddisfazione per «la voglia di partecipazione legata anche alle primarie».
Ma è chiaro che questi numeri devono essere anche letti alla luce di quello che si può considerare il testamento politico dell’ex segretario Gianfranco Morgando: «Difficile accettare una frantumazione del partito, una balcanizzazione che non ha nulla di politico ma che si caratterizza per l’utilizzo di aggregazioni che vogliono spartirsi il potere interno e nelle istituzioni». E allora chissà quali sono le «tribù» del Pd che si sono rafforzate in vista del prossimo congresso. Già perché il boom si porta dietro accuse su pacchetti di tessere consegnati in blocco (firmate da una stessa persona o senza indicazione delle quote versate) alla federazione provinciale senza passare dai circoli.
Romeo, però, respinge al mittente le accuse di chiunque voglia parlare di un partito in mano alle truppe cammellate: «Credo che un partito debba essere lieto dell’aumento degli iscritti e non entrare in una situazione di panico generalizzato alla ricerca spasmodica del Dna di ogni nuovo militante».
Certo, pacchetti di tessere ci sono ma secondo la responsabile organizzativa sono il frutto della caduta di alcuni steccati politico/ sindacali. E così in via Masserano sulle 500 iscrizioni raccolte(ma secondo altre fonti le adesioni extra-circoli sarebbero molte di più) la metà circa è di delegati e sindacalisti della Uil che prima dello tsunami elettorale/parlamentare si erano fatti convincere dal programma di Bersani. Iscrizioni che potrebbero portare acqua al mulino alla componente della sinistra interna che raccoglie un’area vasta che va dal senatore Stefano Esposito al sindaco di Settimo, Aldo Corgiat. In questa campagna di tesseramento si sarebbero rafforzate l’area liberal-socialista che fa capo al consigliere regionale, Mauro Laus e al circolo Willy Brandt che vede tra gli animatori Prospero Cerabona. Anche l’ex segretaria provinciale, Paola Bragantini, uscirebbe rafforzata grazie alla adesioni raccolte alle Vallette ma anche nel quartiere 2 (Andrea Stara) e in Barriera di Milano (Nadia Conticelli). Il rafforzamento dei renziani nasce con le primarie e viene confermato dall’esito delle parlamentarie. È evidente il tentativo di riequilibrare la forza di alcune componenti interne a partire da quella del premier Enrico Letta che a Torino può contare sull’appoggio dell’associazione IdeaTo guidata da Salvatore Gallo.
Resta da capire con quali regole si svolgeranno i congressi e, soprattutto, se saranno aperti anche ai non iscritti ma agli elettori registrati. Proposta che oggi sarà rilanciata nel corso del primo Forum che si svolgerà in corso Moncalieri 18.

il Fatto 10.5.13
M’hai detto un Prospero
L’Unità ha un’idea: serve Togliatti


Ideona dell’Unità per salvare il Pd dal tracollo: riesumare Palmiro Togliatti, lo stalinista, l’uomo di Mosca, il complice del massacro degli anarchici in Spagna e tante altre cose. La modesta proposta si deve a uno dei più lucidi intellettuali del bersanismo trionfante: Michele Prospero, che ha molto apprezzato un accenno all’autointervista di Giuliano Amato al Corriere. Le “anime belle” che dissentono dall’inciucio Pd-Pdl dovrebbero imparare dal Migliore, anzichè “regredire a forme di primitivismo politico”. Perchè “gratta il moralismo radicale e scopri il culto del vile denaro”. Invece Togliatti, coi rubli sanguinanti di Mosca, non c’entrava. “Parole sante” quelle di Amato che invoca “un po’ di sano togliattismo” nella base dei giovani Pd che vanno in tv “per annunciare al mondo i loro giovanili dolori” per l’alleanza con B. E basta con “l’etica anti-inciucio del sommo sacerdote Travaglio”. Meglio l’etica dell’inciucio dei chierichetti Sallusti, Ferrara e Prospero.

il Fatto 10.5.13
Offresi ruolo importante
Nuove figure professionali: “cercatori” di segretari
di Alessandro Robecchi


Traghettatori, esploratori, sondatori. Ha creato più figure professionali il Pd in due settimane che la Bocconi in dieci anni. Il traghettatore dovrebbe portare il partito dal disastro Bersani verso nuovi lidi. Tipo Caronte, insomma, per gli ottimisti che sanno vedere la bara mezza piena. L’esploratore dovrebbe aggirarsi nella giungla delle correnti cercando un misterioso animale capace di sopravvivere in condizioni estreme (cattolici, sinistra, renziani e altri ecosistemi ostili). Quanto ai sondatori, si sa: è gente che va in giro alla disperata ricerca di qualcuno che voglia fare il segretario del Pd da qui al Congresso. Hanno provato con l’elenco del telefono e, arrivati alla lettera L, raccolti alcuni milioni di “No, grazie” e “Avete sbagliato numero, io sono di sinistra”, pensano ora di passare ai citofoni, ma potrebbe essere rischioso.
NON RESTA che l’ultima ratio: l’inserzione. Ma anche qui il Pd si divide. La prima stesura (stilata da esponenti dell’area bersaniana) recitava: “AAA, primario partito progressista offre ruolo di primo piano. Contratto a tempo. Benefits. Telefonare ore pasti”. Bello. Efficace. Ma i veltroniani hanno fatto notare che quel “primario” sembra un po’ esagerato.
Sulla parola “progressista” ha avuto da ridire la corrente renziana, che considera il termine obsoleto e démodé: “Non si potrebbe scrivere invece “primary cool company? ”. Filippo Penati, ha telefonato in sede dopo lunga assenza per chiedere “Quali benefits? ”. Civati, leggermente critico, ha approvato l’annuncio, ma ha chiesto di aggiungere la frase “twittare ore pasti”, più moderna.
VISTE le divisioni interne, la direzione ha deciso di compiere un nuovo sforzo organizzativo: un sondatore che interroghi la base sulla presenza di un esploratore che cerchi un traghettatore che porti in barca al Largo del Nazareno chiunque sappia scrivere un annuncio che accontenti tutti. Ad oggi, i candidati sono tre: Onofrio Gigliotti, carpentiere di Arezzo, Frida Colantuono, casalinga di Napoli e Otello Fierini, disoccupato di Sondrio. I tre formeranno una commissione, ma manca l’accordo su chi dovrà presiederla.
Il Fatto Quotidiano è comunque entrato in possesso della prima bozza dell’annuncio, che recita così: “Aiuto! Ci serve urgentemente un segretario finto per arrivare vivi a votare il segretario vero! ”. Il messaggio, sigillato in una bottiglia, verrà gettato in mare appena si troverà un accordo: per ora il partito è diviso tra la spiaggia di Ostia e il porto di Civitavecchia.

il Fatto 10.5.13
Il Pdl torna in piazza per protestare contro i magistrati
Berlusconi occupa i Tg
“Giudici accecati dall’odio, sentenza ridicola” e minaccia: “Sono patlogia seria che dobbiamo eliminare”
Pd e Colle: tutti zitti in nome di Letta
di Caterina Perniconi


Non è la prima volta. In occasione della “marcia” del Pdl su Palazzo di Giustizia a Milano, l’11 marzo scorso, non si levò nessuna immediata voce di protesta né dai vertici del Pd né dal Colle. Dopo 24 ore arrivò l’ammonimento ufficiale del Quirinale per i toni usati nei confronti dei giudici. Oggi l’aggravante è che i pidiellini, allora avversari, sono diventati alleati, ma continuano ad annunciare raduni di piazza contro la magistratura. Non c’è solo la manifestazione di domani a Brescia in ballo, ma anche l’ipotesi di tornare di fronte al tribunale milanese lunedì, alla ripresa del processo Ruby. Dove saranno “chiamati alle armi” addirittura i telespettatori Mediaset che domenica sera in prima serata, al posto delle Iene, troveranno un documentario su “la guerra dei vent’anni”, naturalmente riferito ai processi del Caimano.
“IO SPERO che ci vadano davvero, così il governo cade una volta per tutte” dice Pippo Ci-vati, l’unico dissidente democratico che ormai si muove in direzione ostinata e contraria rispetto al partito, conquistando i favori della base. “I ministri del Pd si sentono tutti compresi nel ruolo di novelli Moro e Berlinguer – dice Ci-vati – ma non si rendono conto che i colleghi del Pdl con un ruolo nell’esecutivo alla manifestazione di marzo c’erano andati tutti”. L’unica altra voce democratica fuori dal coro è quella del veltroniano Walter Verini: “In un paese democratico non si manifesta contro la magistratura che rappresenta un potere autonomo dello Stato. Sarebbe opportuno che in questo momento prevalga in tutti il senso di responsabilità”. Nessuna dichiarazione ufficiale invece dal Quirinale. Non erano certamente riferite agli attacchi di Silvio Berlusconi contro i magistrati le parole pronunciate ieri mattina da Giorgio Napolitano durante la cerimonia in memoria delle vittime del terrorismo, perché l’annuncio delle manifestazioni e l’offensiva televisiva dovevano ancora cominciare. “Bisogna fermare la violenza prima che si trasformi in eversione. In questo momento non possiamo essere tranquilli davanti a esternazioni anche solo sul piano verbale o sul piano della propaganda politica” ha detto il Capo dello Stato. Beppe Grillo ha capito che il riferimento era per lui – “mi dà dell’eversivo” diceva ai suoi uscendo dalla riunione a Montecitorio – ma ha colto l’occasione al volo per schivare le accuse del Colle e rigirarle verso “l’eversivo” Renato Brunetta, che ha definito i giudici “demolitori della democrazia”. Poi Grillo si è augurato di vedere il leader del pidielle dietro le sbarre: “In un qualsiasi Paese democratico un personaggio come Berlusconi sarebbe in carcere o allontanato da ogni carica pubblica, da noi è l’ago della bilancia del governo, punto di riferimento di Napolitano nel suo doppio settennato, protetto dall’opposizione del pdmenoelle formata a sua immagine e somiglianza, tutelato dai servi che ha nominato in Parlamento, difeso dalle menzogne delle televisioni e dei giornali”.
DAL PARTITO di Monti si leva solo la voce di Andrea Olivero che chiede di non “alzare il tono della polemica perché non serve a nessuno”. Tocca all’Associazione nazionale magistrati scagliarsi contro gli inaccettabili attacchi ai giudici: “L’Anm ancora una volta deve denunciare le dichiarazioni di numerosi esponenti politici e rappresentanti delle istituzioni che commentano singole iniziative o decisioni giurisdizionali, delle quali oltretutto non sono note le motivazioni, utilizzando espressioni violente e offensive estranee a ogni legittimo esercizio del diritto di critica”. Poi c’è chi non crede che le minacce di Berlusconi si realizzino: “Se queste manifestazioni antigiudici ci saranno davvero allora valuteremo il da farsi. Per me tutte le manifestazioni contro la magistratura sono sbagliate, indipendentemente da chi le fa, aspettiamo e vediamo”. Certo è che lo stallo del governo sull’Imu non aiuta e il Pdl sembra di nuovo pronto alla campagna elettorale.

La Stampa 10.5.13
Pd e Pdl “costretti” a sostenere l’esecutivo
di Marcello Sorgi


Una manifestazione, domani a Brescia, sicura e organizzata come una dichiarazione di guerra. E un’altra, non ancora certa, lunedi a Milano, davanti al Palazzo di Giustizia in cui Ilda Boccassini dovrebbe pronunciare la sua requisitoria sul caso Ruby e le notti del bungabunga. In una sola notte, la linea della responsabilità inaugurata da Berlusconi, dopo la condanna in appello al processo per frode fiscale sui diritti cinematografici Mediaset, è stata abbandonata: chi dice per una mezza rivolta dell’ala dura del Pdl, chi per un ripensamento dello stesso Cavaliere, che non ci ha visto più quando da Napoli è arrivata anche la richiesta di rinvio a giudizio della Procura per l’accusa di compravendita di parlamentari ai tempi dell’ultimo governo Prodi.
L’intenzione è di alzare nuovamente il tiro sulle toghe, ma cercando di tenere in piedi il governo di larghe intese, che a questo punto, invece, è destinato a traballare, sia per i toni prevedibili della prossima manifestazione del centrodestra, sia per le altrettanto immaginabili reazioni del Pd, impegnato nelle stesse ore nell’assemblea nazionale che dovrebbe designare il nuovo segretario o reggente. Nella quale, è già annunciata una mozione di Laura Puppato, critica sull’alleanza di governo con il centrodestra, e favorevole a continuare a cercare intese con il Movimento 5 Stelle in Parlamento su singoli provvedimenti. A cominciare, ad esempio, dall’ineleggibilità di Berlusconi che Grillo vorrebbe riproporre all’interno della Giunta parlamentare che ha il compito di convalidare l’elezione di deputati e senatori.
Una doppia svolta del genere - anche se è da vedere cosa succederà quando si passerà davvero dalle parole ai fatti - rischia di pregiudicare seriamente il cammino di Enrico Letta, che riunisce oggi il Consiglio dei ministri per discutere, tra l’altro, della controversa questione del taglio dell’Imu. Ma non fino al punto di rischiare di farlo cadere all’inizio del suo percorso. Per ragioni opposte, Berlusconi e il Pd hanno bisogno che l’esecutivo vada avanti malgrado tutto. Il Cavaliere perché intuisce l’insidia delle altre sentenze in arrivo e al di là delle sue reazioni quotidiane, di testa o di pancia, sa che il governo rappresenta per lui una protezione. E il Pd perché, sondaggi alla mano, è consapevole che la caduta di Letta e un repentino ritorno alle urne, anche se difficilmente porterebbero a un equilibrio politico più stabile, regalerebbero al Pdl il premio di maggioranza grazie al quale Bersani, pur senza vincere, ha portato centinaia di nuovi deputati alla Camera.

il Fatto 10.5.13
Un monito pericoloso
di Furio Colombo


Ieri, 9 maggio, commemorando al Senato le vittime del terrorismo, il Presidente della Repubblica ha pronunciato questa frase: “La violenza, anche solo verbale, può portare all’eversione. Va fermata”. Se la frase fosse stata detta al Congresso degli Stati Uniti sarebbe stata giudicata una grave violazione del Quinto emendamento, la libertà di opinione.
L’Italia è un Paese più complicato per la sua Storia, la sua memoria e il suo presente, in cui si svolgono scene dell’assurdo. Ma prendiamo la memoria, perché quella era la ragione del discorso: celebrare nel modo più solenne il ricordo di tutte le vittime di tutti i terrorismi. Questa ambientazione però non basta a chiarire. Al punto da suggerire a Grillo di interpretare le parole di Napolitano come una sgridata a uno dei più rissosi portaborse di Berlusconi, Renato Brunetta. È possibile. Come è possibile che il Capo dello Stato abbia inteso rivolgersi a coloro che liberamente e impunemente stanno mettendo in scena una sorta di aggressione verbale continua contro Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione. Per esempio una stupida deputata del Pdl ha detto, apprendo dal Tg3 (ore 19) che “ora la Kyenge ci forzerà ad adottare le sue leggi sulla poligamia”. Ciò che sta accadendo intorno e contro la prima persona nera diventata ministro in Italia fa davvero pensare a una violenza verbale così feroce che può diventare rapidamente violenza fisica. E poi c’è il dramma di Berlusconi. Il poveretto comincia a collezionare serie condanne, e nuove incriminazioni, dopo avere buttato nel disastro un intero Paese per sfuggire alla Giustizia. E dà l’impressione di non prenderla bene. Gli alleati del Pd e delle “larghe intese” annunciano marce e dimostrazioni, comprese le invasioni di tribunali. Lo hanno già fatto senza essere neppure sgridati. Perché non dovrebbero farlo ancora, e peggio? Ma la domanda resta. La frase del Presidente riguarda i furori ribelli e fuorilegge del berlusconismo (lo so, è una parola proibita, adesso) oppure la risposta appassionata di chi non sta al gioco e non intende permettere che il Paese precipiti nel disordine organizzato degli imputati di lotta e di governo? Meglio chiarire, prima che sia tardi.

il Fatto 10.5.13
Ignazio La Russa

È stato eletto alla presidenza della Giunta per le autorizzazioni della Camera poco meno di tre giorni fa. È in quota “opposizione” Ignazio La Russa, leader di Fratelli d’Italia, un movimento candidato assieme al centrodestra, che alla Camera (dove ha raccolto la maggiore rappresentanza ), non conta i deputati per costituirsi in gruppo politico. Alla Giunta l’hanno messo in quota opposizione in quanto i suoi non hanno votato il governo Letta. Ha preso un seggio “regalato” dal Pdl.

La Stampa 10.5.13
Senatori comprati,“Berlusconi a giudizio”
Dopo la condanna in appello a Milano, la procura di Napoli chiede il processo dell’ex premier per corruzione
di Guido Ruotolo


E adesso il gip di Napoli dovrà decidere se mandare a processo Silvio Berlusconi, per corruzione. Per essere stato «istigatore prima e autore materiale poi» della cosiddetta «operazione libertà», la compravendita, nella legislatura avviata nel 2006 e interrotta nel 2008, del senatore Sergio De Gregorio, eletto (nell’Idv) nello schieramento che sosteneva il governo Prodi e passato poi con l’opposizione in cambio di tre milioni di euro complessivi. Uno come finanziamento dichiarato a sostegno del movimento fondato dal senatore
Italiani nel Mondo, due in contanti e al nero.
I pm John Henry Woodcock e Vincenzo Piscitelli avevano chiesto al giudice dell’udienza preliminare il giudizio immediato dei tre indagati (con Silvio Berlusconi, il senatore Sergio De Gregorio e il faccendiere Valter Lavitola che avrebbe consegnato i contanti al senatore). In questo modo, saltando la fase dell’udienza preliminare, poteva iniziare subito il dibattimento. Richiesta respinta il 18 marzo scorso. E dunque adesso toccherà al gip decidere se e quando far celebrare il processo.
È una corsa contro il tempo perché incombe la prescrizione, che dovrebbe scattare nell’ottobre del 2015, essendo avvenuto l’ultimo versamento di denaro sul conto corrente di De Gregorio aperto in una filiale napoletana di una banca, nel marzo del 2008.
Insomma, anche se si dovesse celebrare il processo, gli imputati molto probabilmente non saranno giudicati con sentenza definitiva. Al massimo, i giudici potrebbero pronunciare la sentenza di primo grado.
La decisione dei pm napoletani naturalmente ha comportato diverse critiche da parte degli esponenti del partito di Berlusconi. Va detto che questa inchiesta prende spunto e comunque si poggia sostanzialmente sulle dichiarazioni di Sergio De Gregorio, e sulle successive verifiche del Nucleo di Polizia tributaria della Finanza del colonnello Nicola Altiero.
Per il gip che ha bocciato la richiesta di processo immediato, «all’esito di un’attenta e approfondita disamina delle dichiarazioni rese dal De Gregorio, non può farsi a meno di evidenziare che la prova circa l’esistenza di un accordo corruttivo intervenuto tra gli imputati è tutt’altro che evidente». E quindi: «Deve pertanto concludersi nel senso che le indagini svolte, per quanto complete, non consentono di ritenere allo stato superflua la celebrazione dell’udienza preliminare in vista della celebrazione del dibattimento».
È una questione tecnica, di procedura. Per la celebrazione del processo immediato, la legge stabilisce che «la prova deve risultare univoca e insuscettibile di particolari sviluppi in virtù degli apporti argomentativi consentiti alle parti nell’udienza preliminare».
Il punto dolente, secondo il gip. Perché il presidente Silvio Berlusconi non si era reso disponibile nelle tre date indicate dalla Procura di Napoli per essere interrogato prima della decisione del processo immediato. E i pm avevano bocciato l’indicazione di data alternativa per l’interrogatorio.
Ha scritto il gip motivando la bocciatura della richiesta di processo immediato: «Gli accertamenti bancari risultano tuttora in corso sicché ai fini della dimostrazione dell’esistenza dei flussi di denaro provenienti da Silvio Berlusconi, si deve necessariamente ricorrere alla prova testimoniale».
Adesso l’udienza preliminare dovrebbe dare una risposta agli interrogativi e alle indicazioni poste dal gip.

il Fatto 10.5.13
Ineleggibilità, ultimo rovello democratico
di Caterina Perniconi


Nella Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari di Palazzo Madama ci sono otto senatori democratici. Dipenderà da loro la sorte di Silvio Berlusconi, perché dovranno decidere sia sulla sua ineleggibilità, che dichiararlo decaduto in caso di condanna definitiva. Possono votare con il Pdl (salvandolo) o con i 5 stelle (facendolo fuori). Di certo per ora si muovono con i piedi di piombo.
Il Caimano conosce l’importanza di quell’organo al punto da aver bloccato l’elezione del presidente premendo sull’elezione di un leghista anziché di un membro di un’altra delle due opposizioni, Sel o M5S. “La Lega non mi risulta che stia all’opposizione, a cui spetta la poltrona di quell’organo di garanzia – dice Felice Casson, magistrato, primo degli otto membri Pd della Giunta – si sono astenuti sulla fiducia e hanno addirittura votato a favore di Palma in Commissione Giustizia, non la definirei di fatto opposizione”. Ma sull’ineleggibilità di Berlusconi come voterete? “La Giunta è un organo paragiurisdizionale perciò non ci sono vincoli di partito da rispettare. Ognuno studierà le carte e farà la propria valutazione”. Prudente anche la senatrice Denis Lo Moro, ex magistrato di estrazione diessina, che nella precedente legislatura da deputata ha presentato un progetto di legge per dichiarare ineleggibile anche chi ha una condanna in primo grado. “Politicamente il mio pensiero è chiaro – dice Lo Moro – ma in questo frangente non bisogna avere idee pregiudiziali. Io sono un tecnico e non posso avventurarmi in valutazioni etiche. Devo leggere le carte e decidere serenamente”. Claudio Moscardelli, ex Margherita, già consigliere in Regione Lazio, preferisce agire secondo una linea comune: “Non dobbiamo farci influenzare dai sentimenti personali ma discutere insieme e decidere a maggioranza”. Poi c’è Giorgio Pagliari, anche lui ex Popolare, che insieme al capogruppo Luigi Zanda ha sottoscritto l’appello di Micromega. “Politicamente ho espresso in quel modo il mio pensiero – dice Pagliari – ma da avvocato Cassazionista, prima di prendere qualsiasi decisione devo valutare tutto”. Stessa provenienza politica e stesso pensiero quello dell’avvocato Giuseppe Cucca: “Io sono abituato a parlare carte alla mano, chi è chiamato in quel ruolo perde il suo profilo politico”. Nella Giunta c’è anche l’ex presidente della provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane, politicamente più indipendente ma altrettanto prudente: “Appena la Giunta verrà insediata studierò le carte e mi comporterò di conseguenza”. Meglio un presidente leghista o di Sel? “Chiunque sarà dovrà assolutamente interpretare rigidamente le norme vigenti”. La renziana Isabella De Monte, classe 1971, alla prima legislatura in Parlamento, conferma la volontà di attendere. “Ho visto molta sobrietà nei miei colleghi in questi giorni e vorrei proseguire su questa linea, le larghe intese le abbiamo fatte per affrontare la crisi e non possiamo cambiare idea ogni dieci giorni”. La più arrabbiata è la senatrice Rosanna Filippin, lettiana di ferro, accusata per questo dalla Lega di aver “tradito” i suoi votando Palma in Commissione Giustizia. “Non mi faccio fermare da nessuno – dice – nemmeno da chi cerca di incastrarmi. Che bisogno c’è di fare un giochino simile? Vogliono dimostrare che il Pd è diviso? Lo abbiamo fatto vedere in mondovisione. Non mi piace l’approccio e di conseguenza mi comporterò”. Insomma, un presidente del Carroccio è escluso che lo voti. E su Berlusconi? “Mi preparerò con onestà e deciderò con trasparenza. Senza fare sconti a nessuno”. La decisione spetta a loro. A pungolarli i “dissidenti” Civati e Puppato che domani all’assemblea del partito presenteranno un documento dove l’ineleggilibilità di Berlusconi è scontata: per loro “è fuori”.

l’Unità 10.5.13
I diktat grillini e i ribelli nella «fattoria degli animali»
di Giommaria Monti


NOI NON SIAMO UN’AUTOMOBILE MIGLIORE, SIAMO UN NUOVO MEZZO DI TRASPORTO. GRILLO RIASSUME così la sua idea del M5S davanti agli eletti. Ma forse il movimento ricorda una forza del passato, non del futuro: lo stalinismo. Nell’era digitale, basta la gogna mediatica sul web e il responso di un pugno di internauti per decidere la sorte di chi ha violato il non-statuto dicendo la sua. Ne sanno qualcosa il senatore Mastrangeli, espulso per aver partecipato a un programma tv e ieri Venturino, vicepresidente dell’assemblea regionale siciliana. Reo ufficialmente di aver trattenuto una parte della diaria. Forse, piuttosto, per aver detto cose politicamente non in linea: invece di dialogare con il Pd abbiamo consentito a Berlusconi di rilanciarsi. Risultato: sei un pezzo di m... (Grillo dixit).
Ieri il fondatore del M5S è andato alla Camera a dare lumi ai suoi sulle grandi questioni che strangolano il Paese: i soldi ai parlamentari. Il web ride da giorni (la battuta migliore è la locandina del film di Nanni Moretti che diventa «Cara diaria»). Il capo ha dato la linea e chi dissente è fuori. Definire stalinista Grillo è solo una constatazione. Ma ieri al suo diktat i parlamentari non è che hanno risposto politicamente o si sono piegati. Anzi, hanno detto più prosaicamente: abbiamo famiglie bisognose. Primi segnali di incrinatura nella caserma di Grillo.
A noi risulta difficile considerare le analisi del professor Rodotà al pari di quelle della cittadina Lombardi che senza arrossire si domanda dove stia scritto che un presidente della Repubblica debba avere 50 anni. L’altro ieri il costituzionalista ha tenuto una lezione ai parlamentari Cinque Stelle che, raccontano le cronache, erano commossi ed entusiasti. Chi c’era ci dice che Rodotà ha demolito alcuni pilastri del grillismo: dall’idea della totale abolizione del finanziamento ai partiti alla distruzione del bicameralismo.
Adesso il leader ha cambiato atteggiamento verso la stampa: possono parlare ma non partecipare ai talk show. Da domani vedremo gli esponenti 5 stelle spiegare le loro proposte su Imu, lavoro, pressione fiscale e altre quisquilie di certo meno importanti dei privilegi della Casta. Ma prima di parlare, si ricordino di prendere la linea.
Gli suggeriamo una agevole lettura: è la «Fattoria degli animali» di Orwell. Scritto nel 1944, è la satira perfetta dello stalinismo. I sette comandamenti voluti dagli animali che avevano partecipato alla rivoluzione per cacciare il padrone, piano piano furono ritoccati da Napoleon, il maiale-leader metafora di Stalin. Così a «nessun animale dovrà dormire nel letto» viene aggiunto «con le lenzuola», a «nessun animale deve bere alcolici» viene aggiunto «in eccesso». Fino all’ultimo, definitivo: tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali di altri. E alla fine il maiale su due zampe non si distingueva più dall’odiato umano che avevano cacciato.

Corriere 10.5.13
Laura Boldrini
il problema del segreto di Stato e l'intreccio tra politica e regole

di Luigi Ferrarella

«Chiedo l'abolizione del segreto di Stato per le stragi di mafia e terrorismo», ha proposto durante le cerimonie del 25 aprile il presidente della Camera, Laura Boldrini, raccogliendo sul Corriere la convinta adesione di Vittorio Occorsio (nipote del giudice ucciso dai Nar nel 1976) alla vigilia della «Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo». Occasione durante la quale ieri il vicepresidente del Csm Michele Vietti ha aggiunto che togliere il segreto di Stato dalle stragi «è decisione che spetta al governo e della quale la magistratura è semplice destinataria. È interesse dell'opinione pubblica e dei cittadini che si faccia massima chiarezza perché, effettivamente, siamo già in ritardo».
Generosi auspici e buone intenzioni convergono però su un bersaglio sfuocato, perché, se già con la vecchia legge n. 801 del 1977 il segreto di Stato non poteva essere opposto sui «reati eversivi dell'ordine costituzionale», il comma 11 dell'articolo 39 della nuova legge n.124 del 2007 ha esteso l'inopponibilità del segreto di Stato da parte della Presidenza del Consiglio proprio anche ai «fatti di terrorismo», alla «strage», all'«associazione di tipo mafioso», persino allo «scambio elettorale politico-mafioso». Piuttosto, l'urgenza segnalata dai casi di uso del segreto di Stato controverso (sequestro Abu Omar e dossier Telecom), disinvolto (lavori nella villa sarda di Berlusconi) o persino surreale (diffamazione dell'imam della moschea di Fermo da parte del giornalista Magdi Allam) è assicurare l'effettività del controllo politico sul segreto di Stato, assegnato dalla legge a quel Comitato parlamentare Copasir guidato in passato proprio da ex membri governativi che in precedenza avevano concorso ad apporre il segreto.
E magari, invece di vagheggiare ciò che già c'è, la politica potrebbe cominciare a pretendere di sapere ciò che non si sa: per esempio se i servizi segreti, sulla scorta del parere possibilista espresso nel 2010 dai giuristi della Commissione Granata, effettuino «sotto l'usbergo delle garanzie funzionali» (e cioè in forza dell'autorizzazione del premier a commettere condotte altrimenti costituenti reato) delicate intercettazioni preventive anche fuori dai casi in cui per legge soltanto i procuratori generali potrebbero autorizzarle.

Repubblica 10.5.13
Un futuro per L’Aquila preda dell’indifferenza
di Salvatore Settis


L’Aquila è ancora in Italia? Il sindaco Cialente ha ammainato la bandiera italiana dalla sua città in rovina e riconsegnato la fascia tricolore al capo dello Stato per esprimere «preoccupazione, rammarico e mortificazione» per l’abbandono in cui giace la città deserta, dove da ottobre, nonostante il (buon) provvedimento Barca, non arriva un centesimo per la ricostruzione, paralizzando i cantieri e consegnando i cittadini a una condizione di «scoramento, sfiducia, rabbia, disperazione, povertà». «Lo Stato ci ha abbandonati», scrive il sindaco; «nella nostra Costituzione si respira la responsabilità istituzionale e democratica che si esprime nei diritti e nei doveri delle istituzioni e dei cittadini. Questo spirito non lo vedo nel comportamento dello Stato». Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei...), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma. Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi.
In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società. Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo -terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari? E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale? Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?
È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (synoikismos, “darsi una casa comune”). La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità. Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione.
Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel 1947 a Londra, per controllarne la crescita. Furono accuratamente pianificate a partire dagli spazi sociali, dai trasporti, da un calibrato rapporto città-campagna: l’esatto opposto di quel che offrono le bugiarde new towns di Berlusconi, che hanno devastato i suoli agricoli senza creare spazi per la vita sociale. E questo all’Aquila, dove gli Statuti medievali prescrissero agli abitanti di realizzare collettivamente, uti socii, gli spazi pubblici (la piazza, la fontana, la chiesa), prima di insediarsi uti singuli nelle loro case! Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali. L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei).
Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro? Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.

Repubblica 10.5.13
Edilizia e ambiente, ecco dove si può creare lavoro
di Luciano Gallino


Il nuovo governo ha dichiarato di volersi impegnare a fondo allo scopo di creare lavoro. Nel perseguire tale proposito dovrà compiere diverse scelte, alcune che gli sono note perché presenti da tempo nella discussione su questo tema, altre pressoché ignorate ma non di minore importanza. Il suo problema è quindi duplice: evitare di fare le scelte sbagliate tra quelle note, ma anche individuare scelte originali, attinenti a situazioni di cui al momento sia il governo sia i commentatori che lo spronano ad agire per creare lavoro sembrano ignorare.
Prima di toccare queste ultime, è opportuno un cenno a una scelta che sarebbe sbagliata, ma ha già fatto capolino in alcuni interventi del presidente Enrico Letta. Consisterebbe nel rispolverare l’idea che la flessibilità dell’occupazione – tradotto: una maggior facilità di licenziare, o di assumere tramite contratti di breve durata – serva a creare un maggior numero di posti di lavoro. La flessibilità è un ritornello diffuso dall’Ocse quasi vent’anni fa, con l’ausilio di un marchingegno chiamato Epl (acronimo inglese che sta per “legislazione a protezione dell’occupazione”). Quanto più elevato l’indice Epl osservato in un paese, dicevano i rapporti Ocse a metà degli anni Novanta, tanto più alto il suo tasso di disoccupazione. Circa dieci anni dopo, dietrofront: un altro rapporto Ocse diceva che gli studi empirici condotti su tale correlazione portavano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità era dubbia. Altri rapporti apparsi in tempi più videll’elettronica hanno concluso che il rapporto tra rigidità della protezione dell’impiego e il tasso di disoccupazione è assai ambiguo. Ad onta della sua inconsistenza, il ritornello dell’Ocse ha fatto presa in molti paesi e un risultato lo ha sicuramente avuto. Con il rapporto Virville in Francia, le leggi Hartz in Germania, le riforme del mercato del lavoro italiane del 1997, 2003 e 2012, tutte effettuate all’insegna della flessibilità, o sono stati creati milioni di precari, oppure quelli che erano già precari sono stati mantenuti in tale stato. Parrebbe dunque giunto il momento di congedare definitivamente l’idea di flessibilità.
La situazione che impone oggi nuove scelte sul fronte dell’occupazione e delle politiche economiche è la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie elettroniche.
È in corso da decenni, ma negli ultimi tempi ha fatto registrare sia una straordinaria accelerazione, sia una prepotente espansione in settori lavorativi e professionali che sembravano esserne immuni. Si sa qual è l’obiezione: la tecnologia crea tanti posti di lavoro quanti ne distrugge. Su tale assunto chi scrive ha espresso dubbi in un testo di quindici anni fa. Quel che sta succedendo con la diffusione mostra che esso non regge più. Recenti studi americani (per esempio Ford 2009, MacAfee e altri 2011) arrivano alla stessa conclusione: la tecnologia continua a creare posti di lavoro, ma ne sopprime molti di più. La differenza l’hanno fatta microprocessori sempre più potenti e minuscoli, e programmi (o software) sempre più complessi e intelligenti. Per cui da un lato il lavoro umano continua a venire espulso dalle fabbriche perché le auto, le lavatrici e i televisori li fabbricano oramai i robot, controllati da computer costruiti da altri computer. Dall’altro, la novità è che sia mansioni impiegatizie di medio livello, sia attività professionali di fascia alta sono sostituite da macchine. Non scompaiono soltanto l’impiegata del check-in all’aeroporto, il bigliettaio in stazione, la cassiera del supermercato, perché una macchinetta permette (o impone) al cliente di fare da solo, ovvero il libraio o il negoziante soppiantato dalla vendita in rete. Scompare anche il praticante con laurea e master di uno studio da avvocato, perché adesso c’è un software che in pochi secondi trova qualunque articolo di qualsiasi legge; il giovane architetto che trasformava in un dettagliato disegno tecnico lo schizzo del maestro, perché un computer lo fa meglio di lui; il matematico che disegnava complicati algoritmi per le transazioni di borsa computerizzate, perché ora che la sua banca ha acquistato un nuovo programma, di matematici gliene bastano due in luogo di dieci; l’insegnante delle medie che perde il posto insieme a metà delle colleghe, perché la sua materia gli studenti adesso la imparano con un sistema di e-learning che assegna pure i voti e fornisce consigli per studiare meglio. Risultato: senza scelte originali un tasso di occupazione intorno o al disotto del 5 per cento, il meno che si possa chiedere a una società decente, al posto dello scandaloso 12 per cento di oggi, l’Italia non lo rivedrà neanche fra trent’anni.
Con i suddetti sviluppi della tecnologia non siamo affatto dinanzi alla fine del lavoro, quale preconizzava Jeremy Rifkin dieci anni fa. Siamo dinanzi alla necessità di concepire in modo radicalmente diverso la creazione di occupazione e l’allocazione di questa a differenti settori produttivi. L’obiettivo primario dev’essere quello di creare posti ad alta intensità di lavoro. C’è soltanto da scegliere. Ci sono gli acquedotti che dalla sorgente al rubinetto perdono metà dell’acqua che convogliano e i beni culturali che cascano a pezzi. Ci sono milioni di abitazioni ancora costruite in modo da consumare energia in misura cinque o dieci volte superiore a quella necessaria per assicurare lo stesso livello di comfort e le scuole da mettere a norma per evitare che caschino in testa agli studenti. Ci sono migliaia di chilometri di torrenti e fiumi, e decine di migliaia di chilometri quadrati di boschi e terreni da sistemare affinché ogni volta che piove non ci scappi il morto e siano distrutte case e officine. C’è la metà almeno di ospedali da ristrutturare perché oggi terapie e degenze richiedono spazi organizzati in modo diverso rispetto a quando furono costruiti, mezzo secolo fa, e forse la metà degli edifici esistenti, in mezza Italia, che dovrebbero venire protetti dal rischio sismico con le tecniche oggi disponibili.
Tutto ciò significa milioni di posti ad alta intensità di lavoro, e qualifiche professionali che vanno dal manovale al perito all’ingegnere, che aspettano di venire creati a vantaggio dell’intero paese. Ci si potrebbero impegnare migliaia di piccole imprese, di cooperative, di artigiani, in parte forse coordinate da imprese pubbliche o private più grandi. E qui cade una seconda scelta originale che il governo dovrebbe decidersi a fare. È inimmaginabile che un’attività del genere si possa avviare con qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono e simili. È necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre di meno, e perché no a una idea un po’ più alta del paese in cui si vorrebbe vivere.

l’Unità 10.5.13
Il narcisismo nel terzo millennio
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Gli interventi di chirurgia estetica ai genitali sono aumentati rispetto al 2011 del 24%. La ricerca della perfezione estetica non riguarda solo il corpo e il viso. Adesso va di moda il ritocchino alle parte intime. Non solo le star si sottopongono a questi interventi ma anche persone cosiddette «qualunque». Ma la bellezza dovrebbe essere sentirsi bene con se stessi e con i pochi sguardi che possono travalicare l’intimità. FABIO SICARI
La cura ossessiva per l’aspetto del proprio corpo è una manifestazione fra le altre dell’individualismo esasperato dell’uomo occidentale all’inizio del terzo millennio. Ha origini lontane nell’infanzia (ossequiosamente, inutilmente dorata) dei bambini su cui tante madri e tanti padri poggiano soprattutto le loro aspettative di successo e ha concause profonde nel mito della bellezza, maschile e femminile, celebrato ogni giorno, ossessivamente, dalla pubblicità. Si sviluppa, sul piano psicologico (e spesso psicopatologico), con la messa in opera di difesa narcisistiche sempre più forti (e più deboli) mentre centrati sul Sé e sul modo in cui le rappresentazioni del Sé ritorna dagli occhi dell’altro, hanno sempre più difficoltà, troppi bambine e bambine di oggi, troppi ragazzi e ragazze di oggi, a proporre all’altro da cui vorrebbero essere solo ammirati le incertezze, le debolezze, le perplessità, il bisogno dell’altro. Quella che si impoverisce progressivamente in questo modo, però, è la capacità di provare e di dare empatia. Come accadeva a Narciso che solo di sé era preso e altro non faceva che specchiarsi nelle acque del lago. Ammirando la bellezza del suo viso, però, non le dimensioni o l’aspetto dei suoi organi genitali.

La Stampa 10.5.13
Indagine dell’Istituto Superiore di Sanità
Sesso, per gli adolescenti il piacere conta più dei rischi
Ne parlano molto, lo fanno sempre più giovani, ma conoscono poco, pochissimo i rischi per la salute sessuale
In aumento i casi di malattie del passato come sifilide e clamidia
di Marco Accossato

qui

La Stampa 10.5.13
Torino
Falcone e Borsellino, la curva contro Andreotti


L’hanno ricordato così, Giulio Andreotti. Con centinaia di fotografie di Falcone e Borsellino esposte durante il minuto di silenzio più fischiato e contestato della storia del calcio. I tifosi granata prima di Toro-Genoa hanno dato vita ad una manifestazione tanto unica e spontanea di dissenso, mostrando nelle due curve dell’Olimpico l’immagine simbolo di chi lotta contro la mafia nel momento in cui lo speaker dello stadio chiedeva di ricordare il senatore a vita. Un po’ flash mob e un po’ protesta civile, ma l’immagine ha fatto il giro del web. Ritornando, alla fine, da dove era partita. Perché tutto è nato su Facebook e quasi per caso, quando un tifoso del Toro ha lanciato l’idea dopo l’ufficializzazione da parte del Coni di ricordare il 7 volte presidente del Consiglio. «Se in ogni stadio d’Italia, durante il minuto di silenzio per Andreotti, ogni spettatore esponesse la foto di Falcone e Borsellino sarebbe fantastico! Sono senza vergogna».
La proposta lanciata da Massimo Cambiano, storico esponente della Maratona che attualmente vive all’estero, è stata subito rilanciata da tanti tifosi granata ed è diventata realtà. C’è chi ha trovato l’immagine, chi la spedita ad altri contatti, chi l’ha stampata in centinaia di copie e chi l’ha distribuita allo stadio mercoledì. Soprattutto nella curva Primavera, dove il cuore del tifo era tappezzato dalla foto dei due giudici amici, e anche nella Maratona grazie a esponenti dell’ex gruppo ultrà dei Viking. Tutto in silenzio e in gran segreto per fare la sorpresa e spiazzare l’opinione pubblica.  Andreotti è stato ricoperto di fischi e insulti in tutti gli stadi, ma a Torino ha trovato anche l’esposizione dell’icona più potente e simbolica. In quello stadio che tra i suoi tifosi vede in prima fila il procuratore capo Caselli. Tifosissimo granata, primo accusatore di Andreotti nel processo per mafia e soprattutto collega e amico di Falcone e Borsellino che morirono nel 1992 negli attentati di Palermo. «Il silenzio è mafia» c’era scritto sotto quella foto esposta dai tifosi del Toro. Loro, Andreotti l’hanno ricordato così.

La Stampa 10.5.13
Primavera
di Massimo Gramellini


Mercoledì sera, durante il minuto di silenzio in memoria di Andreotti, la curva Primavera del Toro non ha fischiato, non ha insultato, non ha odiato nessuno. Ha esposto centinaia di foto di due eroi veri, Falcone e Borsellino. Oggi sono piuttosto orgoglioso di essere tifoso granata (e cittadino italiano).

Corriere 10.5.13
L’accordo di pace tra turchi e curdi è una rivoluzione epocale senza armi
di Lorenzo Cremonesi


Una nuova rivoluzione, questa volta non armata e però con importanti conseguenze politico-strategiche, scuote il Medio Oriente. L'accordo di pace firmato tra governo turco e guerriglia curda a metà marzo diventa realtà operativa. Negli ultimi tre giorni gruppi di miliziani armati del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk) stanno lentamente lasciando le basi sulle montagne della Turchia orientale per riposizionarsi tra i «fratelli» dell'enclave autonoma curda in nord Iraq. Non mancano gli attriti, tra cui la crescita di nuovi presidi dell'esercito turco nella regione di confine. Ma, se tutto funziona, l'evento sarà epocale. Termina un conflitto durato quasi un secolo e che solo nell'ultimo trentennio ha causato oltre 40.000 morti.
Alla fine oltre 2.000 guerriglieri saranno entrati in Iraq. E soprattutto la minoranza curda (circa 11 milioni, il 16 per cento della popolazione turca), anche nelle sue componenti più militanti, lavorerà per trovare formule di semi-autonomia e coesistenza pacifica con lo Stato centrale. Ciò ha implicazioni importanti. In primo luogo segnala il distacco tra il Pkk e la guerriglia curda in Siria. Un punto a favore del premier turco Recep Tayyip Erdogan, che da quando si è schierato a sostegno della rivoluzione in Siria teme i tentativi di Bashar Assad mirati a destabilizzare la Turchia facendo leva proprio sul Pkk. Sarà da vedere ora come i curdi siriani (2 milioni, il 9 per cento della popolazione totale) reagiranno: sosterranno la dittatura di Damasco, come molti di loro hanno fatto sino ad ora, oppure passeranno in massa tra le file della rivolta sunnita? È da sottolineare inoltre la totale libertà d'azione del governo autonomo curdo in Iraq, che permette l'accesso di gruppi armati nel proprio territorio senza neppure chiedere la luce verde del premier sciita Nuri al Maliki a Bagdad. Va detto che le basi del Pkk erano già da molto tempo presenti e attive sulle montagne remote dell'Iraq curdo. Però ciò avviene adesso alla luce del sole. Si rafforzano i rapporti di buon vicinato tra curdi iracheni e Ankara, ma crescono anche gli attriti con Maliki.

Repubblica 10.5.13
Sette eredi nel Paese del figlio unico,  bufera sul regista di Lanterne rosse
In Cina finisce sotto accusa il grande cineasta Zhang Yimou per aver violato la legge sulla famiglia
Ora rischia una multa di 20 milioni di euro ma è già diventato icona dei privilegi della casta
di Giampaolo Visetti


PECHINO Totale sette figli. Due maschi e una femmina dall’attuale consorte, l’attrice Chen Ting, sposata in segreto nel 2011. Una femmina dalla prima moglie, Xiao Hua. Due maschi e una femmina da altre due partner, mantenute anonime. Sette eredi nella patria della legge del figlio unico, che dal 1978 condanna i cinesi a restare soli. Il regista-mito Zhang Yimou, quasi 62 anni, prestatosi a diventare bandiera del nuovo nazionalismo di Stato, finisce a sorpresa nel mirino del regime che fino a ieri l’aveva protetto. Rischia una multa da 160 milioni di yuan: quasi 20 milioni di euro, il doppio del suo reddito annuale, miraggio per 1,4 miliardi di attoniti connazionali. A confermare lo scandalo, esploso sul web, il sito del «Quotidiano del Popolo», bollettino del partito. Su Zhang Yimou e i suoi sette figli ha aperto un’inchiesta la commissione per la pianificazione famigliare di Wuxi, regione del Jiangsu. Guai proporzionali alla prole: il pluripremiato regista di «Lanterne Rosse» e della «Foresta dei pugnali volanti», oltre che di aver violato la legge voluta da Deng Xiaoping, rischia anche l’accusa di concubinaggio. Usanze comuni, ai tempi dell’impero, promosse reato dopo la rivoluzione comunista di Mao Zedong.
Dalle stelle della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino, vetrina della nuova potenza globale, alla polvere di un’allargata famiglia illegale, simbolo dell’anacronismo del sistema. E il paradosso è che la star con un debole per le sue attrici, si scopre sola. Alle accuse dei leader, si aggiunge la gogna del popolo. Anche internet si schiera contro il compagno Zhang, eletto icona dei privilegi della «casta rossa». Nessuno difende la sua sovversione contro una legge che in 35 anni «ha risparmiato all’umanità 400 milioni di individui», come esulta il governo, ma che nemmeno i funzionari considerano oggi presentabile. Tutti insorgono invece contro i «nuovi imperatori capitalcomunisti», milionari, corrotti, dirigenti e raccomandati del partito che possono permettersi di ignorare le leggi.
L’affare Zhang Yimou fa così esplodere in Cina la bomba-disparità: ricchi e potenti al di sopra delle regole, poveri e dissidenti condannati all’ingiustizia. Effetto-boomerang per il presidente Xi Jinping, che ha promesso di stanare «sia le mosche che le tigri». Abbattere il regista del rinascente patriottismo, autore del film-immagine per l’anniversario della rivoluzione, significherebbe affossare le riforme sia promesse che richieste. Assolverlo preluderebbe ad abrogare la pianificazione demografica, ancora imposta dai falchi del politburo. Sulla svista della censura, che ha lasciato deflagare scandalo e polemiche, banchettano così dietrologie da nomenclatura. Tra esse, quella di un’ultima resa dei conti contro i nostalgici neo-maoisti legati all’ex leader Bo Xilai. Tra le protette di Zhang Yimou, coincidenza, Zhang Ziyi, protagonista della «Storia di Qiu Ju», accusata di essere «la prostituta del comitato centrale». Altri milioni di dollari, ancora il vecchio concubinaggio: a pagare proprio mister Bo, si dice alla vigilia di un epocale processo.

La Stampa 10.6.13
Mosca festeggia la vittoria in guerra
Ma i giovani si chiedono: “Perché i vincitori vivono peggio degli sconfitti?”
di Anna Zafesova

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La Stampa 10.4.13
Al bando il Wagner in versione nazi
La veste che il regista Burkhard C. Kosminski ha dato al suo «Tannhaeuser» ha profondamente indignato la platea
Dusseldorf cancella l’allestimento dopo l’insurrezione del pubblico

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La Stampa 10.5.13
“Adorare la Santa Muerte è un atto di blasfemia”
Il cardinal Ravasi da Città del Messico: “Quel culto non è religione”
di Pablo Lombo


È un culto blasfemo, una degenerazione della religione». Con queste parole il cardinal Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha condannato l’adorazione della Santa Muerte, diffusa in Messico soprattutto negli ambienti criminali. Parlando a Città del Messico, a margine di una serie di eventi per il dialogo tra credenti e non credenti, ha denunciato un culto che risale alle tradizioni indigene latino-americane, poi fuso con l’evangelizazzione dei missionari spagnoli: la Santa Muerte, rappresentata come una scheletro di donna riccamente vestito. I devoti la pregano su altari allestiti in casa, circondati dalle loro offerte: candele, cibi, bevande come la tequila, droghe come la marijuana. Recitano la formula-preghiera per invocarla, le chiedono favori, in genere quelli che gli altri santi non possono offrire. E anche i loro doni sarebbero irricevibili per gli altri santi.
Il cardinal Ravasi ha definito queste pratiche «antireligiose», aggiungendo: «La religione celebra la vita, ma qui c’è solo morte. Non basta prendere le forme di una religione perché ci sia religione. Questa è blasfemia». Anche perché il culto è particolarmente popolare nelle zone del Messico dove più imperversa il cartello della droga. Per il cardinale è importante che un Paese come il Messico, dove si stima che 70 mila persone siano state uccise negli ultimi sei anni in atti di violenza legati alla droga, mandi un chiaro segnale ai giovani: «La mafia, il traffico di droga e il crimine organizzato non hanno aspetti religiosi, non hanno niente a che vedere con essa, anche se usano l’immagine della Santa Morte».
Non ci sono statistiche sui devoti ma in Messico, così come nelle comunità messicane degli Stati Uniti, spuntano sempre più luoghi di culto. E accadono eventi inquietanti, come quello del marzo 2012, quando due bambini e una donna sono stati uccisi nello stato di Sonora (al confine con gli Stati Uniti) da un gruppo di otto persone che hanno poi ammesso di aver versato il loro sangue sull’«altare» della Santa Muerte per chiedere la sua protezione.
Come tutti i santi, anche questa ha una sua festa, el «Día de Muertos», Ognissanti, il primo novembre. Quel giorno tutti i cimiteri si riempiono di musica, fiori, balli e pietanze per rendere omaggio alla morte dei propri cari (familiari e amici ma anche star del cinema o della musica). Nonostante i tentativi degli evangelizzatori di sradicare questa tradizione indigena, esse è rimasta viva, pur trasformata nel corso dei secoli.
In passato il culto è stato condannato dai parroci e dai vescovi perché legato alla stregoneria popolare ma è sempre sopravvissuto con riti clandestini. Nel 1992, con la riforma della Legge per le Associazioni religiose e il culto pubblico, la Iscat, la «Iglesia Católica Tradicional Mex-Usa» - vincolata, secondo i suoi seguaci, alla Sucessione Apostolica della Chiesa Brasiliana - ha acquisito personalità giuridica ed è diventata la dimora della «Santa Muerte». Ma nel 2007 il Ministero dell’Interno del Paese ha cancellato questo status giuridico. Indifferenti a questi aspetti formali, i narcos, ma anche i membri di gruppi come la Mara Salvatrucha, continuano a pregare la loro «Santa Muerte» e a chiederle potere, protezione, fortuna, amore e pure la felicità.

Corriere 10.5.13
Ritorno a Dante, il poeta che dice Io. Nuovo classico oggetto di desiderio
Molti commenti alla «Commedia» con differenti chiavi di lettura
di Paolo Di Stefano


Che cosa significa oggi commentare un classico? Se chiedete a Saverio Bellomo, professore di filologia italiana a Ca' Foscari di Venezia, vi sentirete rispondere con un verbo: «avvicinare». Cercare, attraverso parafrasi e spiegazioni, di ridurre la distanza di secoli che separa il lettore attuale da un'opera antica non equivale affatto ad attualizzarla. Significa semplicemente renderla più comprensibile.
Il tentativo di «avvicinare» il lettore alla Commedia dell'Alighieri può sembrare per tante ragioni un azzardo: intanto perché il successo immediato procurò al poema dantesco una numerosa serie di commenti fino a superare la soglia di cento. Per quale ragione, dunque, l'Einaudi ha sentito l'esigenza di aggiungere a quelle esistenti una nuova edizione dell'Inferno, affidandola allo stesso Bellomo? Per di più per una collana di grande prestigio come la Nuova raccolta di classici italiani annotati, voluta nel 1939 da Leone Ginzburg, diretta dal grande filologo Santorre Debenedetti, poi da Gianfranco Contini e oggi da Cesare Segre: un'impresa che dalle origini ha guardato più volentieri ai cosiddetti minori che ai capolavori del canone.
«Su Dante si è detto tutto e il contrario di tutto», dice Bellomo, che ha studiato i più antichi commenti della Commedia, ben sette o otto prima del 1337. Dunque? Che altro c'era da aggiungere? Forse niente, ma l'esigenza era quella di selezionare e di esporre la materia secondo una prospettiva nuova. L'ottica adottata da Bellomo, per un pubblico non scolastico ma di lettori colti e «per piacere», è quella di gettare via il (molto) superfluo, prendendo in considerazione i punti di vista della sterminata critica precedente solo quando sia ritenuto indispensabile. Al lettore viene quindi risparmiato un sovraccarico eccessivo di chiose, discussioni e postille. «Concretezza» è la parola d'ordine di Bellomo: «Evitare i linguaggi criptici e ammiccanti, le terminologie tecniche e gratuite, dedicare spazio all'interpretazione letterale tenendo presente che l'italiano antico è spesso un'altra lingua per noi. Altro criterio: rinunciare all'operazione banalizzante dell'attualizzare, che è poco onesta e non paga».
Affrontando con l'editore Zanichelli i lavori per un'antologia liceale, nel 1968 Italo Calvino precisava una sua idea sulle note testuali che può valere a maggior ragione per un lettore «libero» da obblighi scolastici: «Mi pare — scriveva Calvino — che non possiamo dare per un breve brano una massa di note più lunga del brano. Se tante note sono indispensabili vuol dire che il brano è stato scelto male e va eliminato. Ma sono davvero indispensabili? Non ho mai visto un'antologia così annotata. Spaventiamo i ragazzi e i professori». Era quanto lo scrittore osservava in una lettera a Gianni Sofri, redattore e poi collaboratore di lunghissimo corso, che ha raccontato la sua esperienza nel recente Del fare libri (Zanichelli).
È fatale che ogni verso del poema dantesco richieda la sua bella quantità di note esplicative, ma c'è una misura che va rispettata a tutto vantaggio del lettore: perché se lo specialista può farne a meno, il profano rischia di essere sommerso e di finirne scoraggiato. «Nel mezzo del cammin di nostra vita» può diventare lo spunto per una cascata di citazioni da Alberto Magno e san Tommaso e di richiami al Convivio. E non è raro trovare edizioni che riportano in una pagina solo il primo verso seguito da una colata di minuscole noticine in calce e nella pagina seguente solo il secondo e così via: una pagina un verso, con un fiume di spiegazioni. Bellomo va in un'altra direzione. Per il primo verso, gli basta segnalare l'età di Dante ricordando che i 35 anni erano per l'autore «'l colmo del nostro arco». All'introduzione dei singoli canti viene delegato il compito di raccogliere le notizie relative ai fatti storici e ai personaggi evocati, alle loro colpe e alle loro pene, ai testi con cui Dante dialoga esplicitamente. Le note conclusive di ogni canto contengono invece gli elementi più tecnici, formali, stilistici, strutturali e i riferimenti alle fonti (novità del volume è un preziosissimo indice delle fonti).
«Leggendo la Commedia, a ogni piè sospinto si aprono valanghe di interpretazioni». Bellomo intende tornare a una sorta di grado zero o quasi, facendo in qualche modo «tabula rasa» della storia della critica, come auspicava persino Contini. Per questo, vengono recuperati i commenti antichi? «Sono utili perché ci fanno sentire più vicina l'epoca di Dante e permettono di ricreare quella sorta di verginità di cui abbiamo bisogno dopo secoli d'interpretazioni fantasiose».
Dunque, non si insiste troppo sulla lettura allegorica; e piuttosto che all'immagine dell'autore come Profeta (che ha avuto molta fortuna da Nardi fino a Padoan, Tavoni e Santagata) si preferisce dar risalto alla funzione del Poeta: «Non dobbiamo mai dimenticare che Dante è professionalmente un poeta e come tale ritiene che la poesia sia veicolo di verità e abbia origine nella Verità stessa. Da qui il valore sapienziale che viene attribuito in genere ai classici e in particolare all'Eneide: ovvio poi che da cristiano e da uomo del Medioevo Dante pensi che i casi della vita sono tutti guidati da Dio e che da lui solo deriva la Verità».
Dunque, Dante non si sentiva investito di alcuna missione profetica? Sbaglia chi attribuisce alla Commedia un valore quasi oracolare? «Questa strada ci porta verso interpretazioni per enigmi, numerologiche e misteriosofiche, con il rischio di trascurare gli aspetti meramente letterari. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che Dante si fa accompagnare nell'oltretomba da Virgilio e non da Isaia o da Geremia… Dico sempre ai miei allievi che se Dante dovesse indicare la sua professione sulla carta d'identità, metterebbe sicuramente Poeta e non certo Profeta». Più che profeta, Dante si configura come «arcipersonaggio»: un'intuizione di Marco Santagata (è appena uscita per Mondadori una sua Guida all'Inferno), che Bellomo accoglie volentieri sottolineando che «la continuità dalla Vita nova alla Commedia è data dalla presenza, oltre che di Beatrice, del poeta come personaggio che dice "io"». Nella fertile stagione attuale di studi danteschi spicca anche il Dante oltre la Commedia di Alberto Casadei (Il Mulino), che proprio ai rapporti intimi con la Vita nova dedica il capitolo finale.
È pur vero, d'altra parte, che la lettura di Dante richiede una conoscenza non banale della storia ma anche della cultura teologica: «È il guaio del leggere la Commedia oggi nelle scuole: la cultura di base si è abbassata, ma soprattutto manca ai ragazzi una cultura cattolica, perché non vanno più a dottrina e non conoscono gli episodi del Vangelo e della Bibbia. Una carenza preoccupante». Tutti aspetti che nell'insegnamento scolastico diventano una croce insopportabile: «Non ci sono testi letterari tanto entusiasmanti per gli studenti: Petrarca dopo un po' diventa noiosissimo perché devi coglierne le sottigliezze, Boccaccio ha una sintassi troppo complessa… Leggere Dante significa impossessarsi della lingua della letteratura italiana, dunque è utile anche per capire Leopardi. Ma in genere è facile affrontare la Commedia a scuola, perché è un fuoco d'artificio continuo, con trame e storie affascinanti, purché le liberiamo delle tante fregnacce che si sono accumulate nei secoli».

Corriere 10.5.13
E l'altro «Inferno» di Dan Brown tradotto in un bunker


Un'esperienza che sembra un romanzo, in sintonia con il titolo del nuovo libro di Dan Brown, Inferno che uscirà il 14 maggio in contemporanea nelle versioni inglese, italiana, francese, tedesca, spagnola, catalana e portoghese (in Italia per Mondadori). Secondo quanto racconta il quotidiano inglese «The Independent», infatti, «i prescelti undici» traduttori del segretissimo libro — tra cui l'italiana Annamaria Raffo e i colleghi francesi, tedeschi, spagnoli e brasiliani — avrebbero lavorato in un bunker nel sottosuolo della sede Mondadori, senza telefonini e computer, tenuti al silenzio sul plot e a dar conto di ogni attività, compresi pasti e pause. Più «Inferno» di così. (i.b.)

Corriere 10.5.13
Il segreto delle dieci frasi scolpite da Dio nella pietra
La teoria ebraica della scrittura «a goccia a goccia»
di Armando Torno


Non è il caso di meravigliarsi se le Tavole della Legge, ovvero i Dieci Comandamenti, siano stati incisi su pietra. Documenti antichissimi confermano questa usanza anche per altri testi di carattere politico. Una prova? Eccola nel trattato fra Suppiluliumas, re ittita morto intorno al 1320 prima di Cristo, e Mattiuazza di Mitanni (Naharina nei testi egizi: fu un regno situato nel nord della Mesopotamia), dove è detto che una copia della tavola si sarebbe dovuta depositare nel tempio di Samas. Del resto si parlò per buona parte del Novecento delle stele di pietra con sculture e iscrizioni trovate da Sir William M. Flinders Petrie, descritte poi nel suo libro Researches in Sinai, uscito a Londra nel 1906. Il discorso di Mosè che si legge nel Deuteronomio testimonia quel che avvenne: «Quando io salii sul monte a prendere le tavole di pietra, le tavole dell'alleanza che il Signore aveva stabilita con voi, rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare pane né bere acqua; il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea» (9, 9-10; oppure Esodo 24,12).
Nel Talmud si trova una domanda: come è stato possibile che Dio abbia inciso la scrittura sulle Tavole della Legge? Una risposta, che passa tra l'altro attraverso un racconto dedicato a Rabbi Akiva — sovente citato come Rosh la-Chakhamim, ovvero Capo di tutti i Saggi, sostenitore della seconda rivolta giudaica, ucciso dall'imperatore Adriano — rammenta che l'acqua, anche se versata a goccia a goccia, può sciogliere la pietra e dare forma a cavità. Immaginiamoci, va aggiunto, le possibilità contenute nella Parola di Dio. Ma tale questione è una delle innumerevoli che si sono poste nei secoli. Per esempio, alcuni commentatori sottolinearono il fatto che la pietra delle Tavole della Legge era talmente preziosa che se Mosè avesse voluto farne commercio sarebbe divenuto l'uomo più ricco della terra. Né mancò chi aggiunse: era zaffiro. Altre questioni si dedicano a ulteriori particolari. Uno dei più celebri commentatori medievali della Bibbia, Rashi, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi (latinizzato in Salomon Isaacides e, tra le dizioni italiane, Salomone Isaccide), riteneva che il versetto dell'Esodo precedente la proclamazione dei Dieci Comandamenti, «Dio allora pronunciò tutte queste parole», fosse proferito in una sola espressione unitaria. Soltanto in seguito, nella medesima occasione, sarebbero stati rivelati uno ad uno.
Queste considerazioni si devono porre a margine del testo biblico e riflettono, per così dire, dei tentativi che si sono accumulati lentamente per meglio spiegare quel che accadde e come. Del resto, innumerevoli filosofi ebrei sono intervenuti sull'argomento. Basterà soltanto ricordare che da Moshe ben Maimon, il nostro Maimonide (morto al Cairo nel 1204) a Elia Del Medigo, maestro di ebraico di Pico della Mirandola (scomparso a Candia dopo il 1491) si trovano continue considerazioni sul Decalogo, nelle quali si sottolinea senza requie il fatto che in questo testo condensato è affermata la morale perenne, garantita dal Dio unico. Uno studioso quale Maurice-Ruben Hayoun, specialista di filosofia ebraica e professore a Heidelberg, nell'ampia voce sui Comandamenti che ha scritto per il Dictionnaire d'étique et de philosophie morale (Presses Universitaires de France 1996) notava: «Si è voluto fare del Decalogo una sorta di carta del monoteismo etico presso gli ebrei. Si è anche rilevato che l'unico riferimento al giudaismo è contenuto nella esortazione al rispetto del sabato».
D'altra parte ogni epoca ha necessità di meditare sui Comandamenti e di attualizzarne la messa in pratica. L'iniziativa del Corriere della sera, che ripropone la serie di commenti cominciata nel 2010 presso l'editrice Il Mulino e nella quale erano coinvolti teologi, filosofi ma anche economisti e giuristi, è per i nostri giorni (ora esce Non ti farai idolo né immagine con gli interventi di Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri). Alla fine degli anni 80 del secolo scorso, una lettura intelligente per riflettere sul tema la offrirono le dieci storie narrate nel film Decalogo (seguito poi dal numero del Comandamento) di Krzysztof Kieslowski. Per esempio, il primo di essi — a commento di «Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio fuori di me» — narra la vicenda di un professore di glottologia convinto che tutto sia ragione. Con il suo bimbo calcola al computer fino a dove ci si può spingere con i pattini su un lago ghiacciato; ma poi tutte quelle operazioni si rivelano fasulle, giacché la crosta cede e il ragazzo muore. Con grande semplicità il regista polacco aveva mostrato che nulla a disposizione dell'intelligenza umana è in grado di sostituire Dio.
Certo, si sono battute altre vie per illustrare le Tavole della Legge. Quella decisamente oleografica e concepita per un vasto pubblico che forse non aveva nemmeno letto una traduzione del testo biblico, fu il kolossal statunitense del 1956, I Dieci Comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, con Anne Baxter e Yul Brynner nei ruoli di Nefertari e Ramesse; Charlton Heston era un Mosè che anche sul Sinai sembrava appena uscito dal parrucchiere. Eppure, nonostante tutte le licenze e i limiti di una pellicola siffatta, essa lasciò traccia. Non è forse vero che immaginiamo l'Impero romano attraverso le scene di un film come Il Gladiatore? Per tale motivo qualcuno ricorda ancora qualche nota incisiva o carezzevole delle musiche di Elmer Bernstein che aveva il compito di rendere solenni le affermazioni proferite nei momenti topici. Come quando lo stesso Ramesse confessa a Nefertari, al suo ritorno dal Mar Rosso: «Il suo dio... è Dio».
Questi antichi precetti sono un punto di riferimento morale per gran parte dell'umanità e anche chi non accetta la rivelazione ne riconosce il valore. Anzi — non allontaniamoci dal cinema, dopo averne ricordato due momenti significativi — lo fa indirettamente, con ironia mista a disprezzo, persino qualche delinquente del grande schermo. Vi ricordate del teppista Malcolm McDowell che legge la Bibbia in carcere? Il film era Arancia meccanica del 1971, diretto da Stanley Kubrick, che causò tra l'altro un infelice giudizio — quasi urlato durante una proiezione — di Salvador Dalì: «Ora ho capito che Beethoven era un criminale!». Nella pellicola c'è una frase del malvivente che preferisce il Primo al Secondo Testamento: «Non mi era mai piaciuta l'ultima parte della Bibbia, perché è quasi tutta predica e non c'è vera lotta, e non c'è più tanto su e giù. A me piacciono le parti in cui quei vecchi ebrei si picchiano di santa ragione, e poi sturano alcune bottiglie di vino israeliano e si infilano a letto con le damigelle delle mogli».

Repubblica 10.5.13
La croce e il compasso
Potere e affari, il patto segreto tra Vaticano e Massoneria
di Alberto Statera


Un libro inchiesta svela i rapporti oggi sempre meno occulti tra due mondi che si sono a lungo combattuti e dichiarati incompatibili

Il “fumo di Satana” evocato da Papa Paolo VI quarant’anni fa è filtrato da qualche fessura pure nell’ultimo conclave, che ha eletto il gesuita Francesco a capo di una Chiesa ridotta come quella profetizzata dal vescovo Malachia, percorsa da lotte di potere e guerre per bande. Quel fumo ha l’odore acre della massoneria, una parola che fa tremare da secoli persino le foglie dei giardini vaticani. Eppure, logge ufficiali, logge segrete e logge spurie sono avvinghiate nel cuore di San Pietro. Questa, almeno, è la tesi di un libro-inchiesta di oltre 500 pagine che stanno per mandare in libreria Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti (Vaticano Massone. Logge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco – Edizioni Piemme).
Il tema, naturalmente, si presta di per sé all’accusa di complottismo, di insana volontà di vedere ovunque trame segrete e cospirazioni. L’ha messa in burla il Segretario di Stato uscente Cardinal Bertone quando ha irriso ai giornalisti che si improvvisano Dan Brown. Ma il libro è talmente documentato, ricco di testimonianze e di documenti inediti che una confutazione con questo argomento non reggerebbe. Tra l’altro, contiene la copia anastatica di una lettera scritta da Virgilio Gaito, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, insieme al Cardinale Silvio Oddi, a Papa Giovanni Paolo II per chiedere un “grande patto” di pacificazione tra Chiesa e massoneria, il riconoscimento ufficiale da parte del Vaticano della conciliabilità tra fede cattolica e appartenenza alla libera muratoria. «Pienamente consapevoli delle finalità perseguite dalla Massoneria universale, da sempre votata al miglioramento dell’individuo per il miglioramento ed il progresso dell’Umanità raggiungibili solo attraverso l’Amore e la tolleranza – scrivono il Gran Maestro e il Cardinale – riteniamo giunto il momento di lanciare un doveroso appello alla riconciliazione che ponga fine a quella secolare incomprensione tra Chiesa Cattolica e Massoneria ». Oddi, morto nel 2011, è stato considerato un grande protettore dell’Opus Dei, ma anche sponsor della discesa in campo nel 1994 di Silvio Berlusconi, tessera 1816 della Loggia P2 di Licio Gelli e, secondo il massone dissidente Gioele Magaldi, fondatore di una sua obbedienza denominata “Loggia del Dragone”. Wojtyla, del resto, si servì in Polonia a favore di Solidarnosc e contro il comunismo del bancarottiere piduista Roberto Calvi, finito ucciso con rito massonico a Londra sotto il Ponte dei Frati neri. Come il suo predecessore Paolo VI, che fece realizzare simboli esoterici sulla tomba della madre, si era servito dell’altro bancarottiere mafioso e piduista Michele Sindona. Ma sotto il papato di Wojtyla, nel 1983, vide la luce la “Dichiarazione sulla Massoneria” elaborata dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger, che dichiarava inalterato il divieto di appartenenza alla libera muratoria. Divieto disatteso durante il suo papato, secondo la messe di documenti e testimonianze raccolta da Galeazzi e Pinotti, tanto da aver probabilmente contribuito a provocare le dimissioni di Benedetto XVI e forse l’elezione di Francesco, primo Papa gesuita della storia, dopo che la Compagnia di Gesù, considerata uno dei canali dell’infiltrazione massonica in Vaticano, era stata commissariata da Wojtyla nel 1981.
Durante il pontificato di Ratzinger è cresciuto in Vaticano il potere dei gruppi integralisti in lotta tra loro, come Opus Dei, Comunione e Liberazione, Focolarini, Legionari di Cristo, che si sono contesi il controllo delle finanza e dello Ior. Ma l’ex banchiere Cesare Geronzi, intimo del cardinal Bertone, il quale raramente parla a caso, ha rivelato di recente di aver trovato simboli massonici in evidenza nello studio di un cardinale e che nella finanza cattolica l’Opus Dei non conta molto perché a contare è la massoneria. E dentro le Mura Leonine? Di certo la massoneria è entrata con prepotenza nel processo al maggiordomocorvo di Ratzinger che sottraeva documenti nella scrivania di uno degli uomini più potenti del mondo. «Mi sono messo al servizio di una loggia massonica che opera dentro il Vaticano – ha testimoniato tra le lacrime un dipendente laico della Segreteria di Stato – della quale fanno parte anche dei cardinali. Scopo della nostra azione portata avanti nella convinzione di fare il bene della Chiesa, è quello di mettere fine all’attuale situazione di anarchia che mette a rischio la cristianità».
Tra le migliaia di documenti sequestrati il 23 maggio 2012 nell’abitazione del maggiordomo “moltissime riguardavano la massoneria e i servizi segreti”, come hanno dichiarato gli agenti della gendarmeria che fecero le perquisizioni. Con un’attenzione quasi ossessiva per la figura del piduista Luigi Bisignani, che era di casa allo Ior fin dai tempi del riciclaggio della tangente Enimont. La rete di confidenti dell’ex maggiordomo comprendeva il vicario papale per la città del Vaticano monsignor Angelo Comastri e l’ex vicecamerlengo Paolo Sardi, indicati come appartenenti a una loggia massonica interna; il vescovo Francesco Cavina, ora alla diocesi di Carpi, ma in precedenza alla Segreteria di Stato, e l’ex segretaria di Ratzinger, Ingrid Stampa.
Bergoglio cresce e si forma in Argentina, una repubblica fondata su squadra e compasso, dove la massoneria e la Chiesa sono molto forti. È sostenibile la tesi che lo strapotere dei gruppi integralisti abbia originato come reazione la sua elezione al trono di Pietro? O che sia invece frutto di un patto tra massoneria e gruppi della destra cattolica? Nel libro di Galeazzi e Pinotti non troverete una risposta certa, ma la non peregrina ipotesi che la decisione di Ratzinger di dimettersi possa essere stata presa nella previsione dell’elezione del gesuita su un trono che lui non riusciva più a governare tra scandali e guerre intestine tra fazioni contrapposte per il potere e il denaro. Nella prima fase del conclave del 2005, del resto, il cardinale Bergoglio aveva raccolto il maggior numero di voti, ma poi rinunciò per convogliarli su Ratzinger.
Che fosse fumo di Satana o aria salubre quella respirata in conclave, i Gran Maestri delle tante massonerie italiane sembrano concordi nell’entusiasmo per l’avvento di Francesco. Uno per tutti: «Con Papa Francesco nulla sarà più come prima. Chiara la scelta di fraternità per una Chiesa del dialogo, non contaminata dalle logiche e dalle tentazioni del potere temporale». Firmato: Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.

Vaticano massone di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti Piemme euro 18,50

l’Unità 10.5.13
Rai Radio 3
A 80 anni dal rogo nazista ogni trasmissione adotta un libro


Oggi, ogni trasmissione di Radio3 adotterà un libro (o un autore), tra i libri bruciati nel rogo del 10 maggio 1933. Ottanta anni fa nella Piazza dell’Opera di Berlino i nazisti misero al rogo migliaia di libri. Gli autori erano etnicamente impuri, politicamente sgraditi o artisticamente «degenerati»; e dunque ebrei, socialisti o comunisti, scienziati e scrittori d’avanguardia. L’elenco comprendeva gran parte del pensiero e della letteratura moderni, la cultura del nostro tempo nei suoi aspetti più coraggiosi e avanzati. L’anniversario è l’occasione in primo luogo di raccontare una tragedia e in qualche modo di risarcire le vittime. Ogni trasmissione di Radio3 «adotterà» uno dei libri bruciati o degli autori perseguitati, ne riprenderà il messaggio e ne racconterà l’importanza, lasciandoci almeno immaginare cosa avremmo perso, se quei libri fossero davvero bruciati e cancellati dal nostro orizzonte. Tra i libri adottati «Tecnica del colpo» di Stato di Curzio Malaparte, «La nave morta» di B. Traven, «Addio alle armi» di Ernest Hemingway.

Articolo 21 liberi di...10.5.13
Il 10 maggio 1933 il “rogo nazista di Berlino”

Oggi, a 80 anni di distanza, “adottiamo” tutti un libro o un autore perseguitato #maipiulibrialrogo
di Stefano Corradino

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