domenica 12 maggio 2013

l’Unità 12.5.13
Berlusconi contestato
Tensioni e scontri con centri sociali e Cinquestelle
Tafferugli prima del comizio, circondato Brunetta
Fischi al capogruppo grillino Crimi
Epifani: «Rischiamo di toccare il fondo»
Letta: «Buona notizia per il governo»
Renzi: noi col governo
Si apre la partita del congresso Epifani potrebbe giocarla
La candidatura già annunciata di Cuperlo non esclude quella del segretario
In campo potrebbe esserci anche il sindaco di Firenze
Oggi i ministri «in ritiro» a Sarteano con il presidente del Consiglio


il precedente: 1943
Il Codice di Camaldoli è un documento programmatico di politica economica stilato nel luglio 1943 da esponenti delle forze cattoliche italiane. Funse da ispirazione e linea guida per la politica economica della Democrazia Cristiana, che si stava formando in quel periodo e che dopo la seconda guerra mondiale fu per diverse legislature il maggiore partito di governo.
Il documento fu elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi dal 18 al 23 luglio 1943 nel monastero di Camaldoli, nel Casentino. Vi parteciparono circa cinquanta giovani dell’Azione Cattolica Italiana e dell'Istituto cattolico di attività sociale. I lavori furono coordinati da Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo ed assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica.
Nessuno dei firmatari era presente in rappresentanza di enti religiosi o politici: ciascuno dei partecipanti ne assunse la responsabilità a titolo personale.

Repubblica 12.5.13
Crimi contestato: “L’avete salvato”

BRESCIA — Il grillino Vito Crimi contestato in piazza: fischi e urla, «Berlusconi l’avete salvato voi». Succede a Brescia, ovviamente non al raduno ai piedi del Duomo promosso dal Pdl, ma in mattinata. Davanti al Tribunale, Libertà e Giustizia ha chiamato i bresciani a solidarizzare con i magistrati, da sempre nel mirino dell’ex premier.

il Fatto 12.5.13
Il Caimano: “Sistemerò i giudici”
Alfano plaude, Letta e Colle zitti
Un governo ai suoi ordini
di Antonio Padellaro


Dopo ciò che è successo ieri a Brescia, un governo degno di questo nome dovrebbe cessare all’istante di esistere e il premier dovrebbe altrettanto inevitabilmente dimettersi. Per tre ragioni almeno. Primo: in una piazza spaccata a metà, da una parte i fans azzurri, dall’altra i contestatori grillini e quelli con le bandiere rosse, il “delinquente” confermato in appello per evasione fiscale Silvio Berlusconi ha sferrato l’attacco finale alla magistratura, annunciando che imporrà al governo, che lui controlla, la sua personale riforma volta a neutralizzare l’azione penale e a ridurre i pm al rango di obbedienti funzionari al servizio dei politici. Secondo: Alfano vicepremier e ministro degli Interni e Lupi ministro delle Infrastrutture erano lì, in prima fila, ad applaudire le frasi eversive, malgrado fino all’ultimo il Pdl avesse smentito la partecipazione di membri del governo. Un colpo reso ancora più efficace perché sferrato di sorpresa. Terzo: attorniato dai suoi ministri festanti, il Caimano ha detto, chiaro e tondo, che si deve a lui se questo governo è nato e che solo per generosità non lo farà cadere “con un fallo di reazione” dopo la sentenza Mediaset che l’altroieri l’ha condannato a 4 anni di carcere e a 5 di interdizione dai pubblici uffici.
Insomma, con schietta ruvidezza Berlusconi ha finalmente detto ciò che tutti avevano capito: Enrico Letta non conta niente e se non ubbidisce alle disposizioni di palazzo Grazioli – oggi l’abolizione dell’Imu, domani la demolizione della giustizia e della legalità – può tranquillamente tornarsene all’amato subbuteo. Di fronte a tanta insultante arroganza, il Pd riunito a Roma ha reagito con alcuni pigolii e l’unica dichiarazione maschia è di Rosy Bindi. Dopo il suicidio assistito (da Napolitano) del partito, l’Assemblea nazionale è parsa una mesta cerimonia funebre con tanto di esecutore testamentario, l’ottimo Guglielmo Epifani. Non parliamo naturalmente dei milioni di elettori e militanti traditi da un gruppo dirigente desideroso, a quanto pare, di farsi annettere dal cavaliere. A un certo punto Epifani ha detto: “Abbiamo rischiato di toccare il fondo”. Non è esatto, segretario. Dopo i ceffoni di Brescia, adesso state scavando con buona lena.

Repubblica 12.5.13
L’ombra del Caimano sul caos della sinistra
di Curzio Maltese


CENTO anime e nessuna identità. Il dramma pirandelliano del Pd, il «caro defunto» lo chiama qualcuno, prosegue con toni e riti sempre meno comprensibili al comune cittadino. Anche ieri, nel giorno dell’elezione di Epifani, si sono fatti rubare la scena da Berlusconi, nel bene o nel male. Tumulti da prima pagina a Brescia, minuetti dal palco della Fiera di Roma.
Nella lunga lista degli intervenuti, a rappresentare con tutele da manuale Cencelli tutte le correnti interne, non se n’è trovato uno capace di stare sul fatto del giorno. E magari dire con chiarezza che un condannato in appello per evasione fiscale dovrebbe dimettersi, insieme ai ministri manifestanti, invece di arringare le folle in piazza. Così, per dare un contentino ai poveri elettori. I quali, al solito, stanno da un’altra parte. Sono in piazza a Brescia, a contestare Berlusconi, l’innominato dell’assemblea Pd. Quello che i dirigenti del partito debbono fingere di considerare davvero uno statista, un alleato affidabile, una sponda per le riforme necessarie a rilanciare il Paese. Non un caimano che pensa ai troppi affari suoi, convoca l’ennesima piazza eversiva e vi raduna i ministri appena nominati a fare da claque per i soliti attacchi alla magistratura.
L’unico che aveva intenzione di dirlo, il sindaco di Bari Michele Emiliano, non l’hanno neppure fatto entrare nella sala dell’assemblea. È rimasto fuori a masticare amaro: «Ci stiamo mettendo una vita per nominare un camerlengo. Berlusconi per scegliere il suo (Alfano, ndr) ha impiegato due minuti».
Questo è più o meno il senso di un’altra giornata vissuta come in un acquario. Con qualche momento patetico, come la salita sul palco di Pierluigi Bersani, salutato con uno svogliato tentativo di standing ovation, subito abortito. «Si vince insieme, si perde da soli» ha detto l’ex futuro premier, guardando dalla parte dei dalemiani, i quali naturalmente applaudivano. Per quattro anni avevano fatto finta di essere bersaniani e un minuto dopo la sconfitta su Prodi intorno a Bersani non c’era più nessuno.
Nel caos calmo del Pd, il blocco dei dalemiani e quello dei popolari, in pratica i post comunisti e i post democristiani, costituiscono l’unica certezza. Sono stati loro i registi delle ultime scelte del partito. Il boicottaggio della candidatura di Prodi, l’affossamento della linea Bersani, il ripescaggio di Napolitano e l’alleanza con la destra. La nuova «svolta di Salerno» dicono dal palco. Una bella inversione a U in autostrada, secondo altri. Sono passati vent’anni e comandano sempre loro. Hanno usato Veltroni contro Prodi e poi Bersani contro Veltroni, adesso Letta contro Bersani. Ora la strategia prevedeva la nomina di un reggente di scarso peso, Guglielmo Epifani, per traghettare il partito fino all’autunno, in attesa di farsi venire una buona idea per far fuori Matteo Renzi.
Il sindaco di Firenze, persona sveglia, l’ha capito. Nel suo intervento, uno dei pochi comprensibili e perfino affascinanti, si è permesso di ricordare a chi da vent’anni elabora vecchie soluzioni per nuovi problemi che il mondo cambia in fretta, senza aspettare i tempi del centrosinistra italiano. Si è permesso pure qualche soddisfazione personale e qualche brillante battuta da esperto di twitter: «Se non si prendono i voti degli elettori delusi del centrodestra, poi tocca prendere i ministri della destra». Renzi è l’unico in grado di dare una nuova e moderna identità a un partito mai nato e aggrappato a due identità vecchie e ormai inutili, ex Pci ed ex Dc. «Una sinistra che da decenni non conosce e quindi non riconosce il nuovo mondo del lavoro che dovrebbe rappresentare», spiega il sociologo e neo eletto Franco Cassano. Per queste ragioni gli oligarchi del Pd, dalemiani ed ex popolari, ora cercano di usare Enrico Letta contro il sindaco di Firenze. La scelta inconsueta di far finire l’assemblea del partito con le conclusioni del presidente del Consiglio in carica è significativa. La strategia è far durare il governo il tempo necessario per rottamare il rottamatore e presentare alle elezioni Letta candidato premier del centrosinistra. Più tardi, con calma, dalemiani e popolari penseranno anche a come far fuori Letta, come hanno fatto con ben sette leader del centrosinistra. Un merito che è limitativo attribuire al vanesio Berlusconi. Hanno già deciso tutto. Poi però le cose cambiano, il mondo corre in fretta come dice Renzi, Berlusconi torna a rivelare la natura di caimano. La politica e la vita alla fine sono quel che accade mentre elabori progetti sbagliati.

Corriere 12.5.13
Il centrodestra sale al 35,6% Pd e Grillo pagano le divisioni
Il Pdl avanti anche grazie al calo di Monti
di Renato Mannheimer


Le intenzioni di voto degli italiani sembrerebbero, secondo tutti i sondaggi pubblicati di recente, avere modificato significativamente il quadro emerso solo poco tempo fa dalle elezioni politiche.
L'elemento che più colpisce è la notevole crescita della base di consenso per il Pdl, che oggi viene stimata tra il 27 e il 30% (Ispo rileva il 29,1%). Per la verità, il trend positivo per il partito di Berlusconi si era già manifestato durante la campagna elettorale. Dal 16% attribuito nel novembre 2012, il Cavaliere era riuscito già in gennaio a passare al 19%, per ottenere poi alle elezioni il 21%. L'incremento di voti del Pdl derivava — e deriva ancor più nelle ultime settimane — principalmente da due settori di elettorato. Da un verso, Berlusconi ha beneficiato della progressiva erosione del centro, che ormai si avvia sotto la soglia dell'8%. Ma, specialmente, il Cavaliere è riuscito a recuperare progressivamente una buona parte dell'elettorato che lo aveva votato in passato e che, però, almeno fino allo scorso anno, si dichiarava deluso dalle sue performance governative. Come si sa, nelle elezioni del 2008 il Pdl riuscì a ottenere addirittura il 37,4%. Molti dei votanti di allora si erano rifugiati nell'astensionismo o in altre scelte politiche (qualcuno anche nel Movimento 5 Stelle): in parte costoro stanno, a torto o a ragione, ridando fiducia al Cavaliere.
Le formazioni di centro — e la Lista civica con Monti per l'Italia in particolare — appaiono, come si è detto, in crisi di consenso. Già il risultato elettorale si era dimostrato inferiore rispetto alle aspettative che erano maturate durante il governo Monti, ma, comunque, la coalizione di centro era riuscita in febbraio a superare il 10%. Oggi questo obiettivo sembra molto lontano. In particolare, è la lista dell'ex presidente del Consiglio ad avere perso progressivamente appeal tra gli elettori, fino a superare oggi di poco il 6% (ma, secondo diversi altri istituti di ricerca, a raggiungere un valore ancora inferiore, tra il 5 e il 6%).
All'interno del centrosinistra, anche il partito maggiore di quest'area, il Pd, appare subire una erosione del seguito elettorale, collocandosi sotto il 24% (23,6% è il dato rilevato da Ispo, ma Ipr stima il 22%, Euromedia il 20,5%, Lorien il 24%, Demos il 25%, mentre solo Ipsos assegna il 26,5%). La difficile situazione del Pd in termini di consensi, rispecchia ovviamente il travaglio che sta subendo il partito, alla ricerca di un nuovo leader che sappia fermare le profonde divisioni interne (tanto che il 40% dell'elettorato del Pd dichiara di ritenere probabile, nel medio periodo, addirittura una vera e propria scissione). Ma, in realtà, come ha bene illustrato Polito sul Corriere di venerdì, i problemi del partito nel raccogliere le adesioni degli elettori emergevano già dall'esito delle consultazioni di febbraio, che vedevano un forte allontanamento dei giovani, dei ceti popolari e degli stessi votanti delle regioni «rosse», che rappresentavano tradizionalmente lo «zoccolo duro» del supporto per il Pd. Questo trend è proseguito nelle ultime settimane, accentuandosi a causa dell'irritazione di una parte della base per l'accordo di governo con il centrodestra. Qualcuno sembra migrare verso sinistra, come mostra l'incremento di voti ottenuto in queste settimane da Sel (che supera il 5%, a fronte del 3,2% ottenuto alle elezioni). La crescita di Sel «compensa» l'andamento negativo del Pd tanto che nel complesso il centrosinistra ottiene oggi grossomodo lo stesso risultato di febbraio.
Infine, va registrata la lieve diminuzione, rispetto all'esito elettorale, del Movimento 5 Stelle. Che, come si sa, ebbe, subito dopo il voto, un forte incremento di consensi, che si è tuttavia esaurito successivamente. Oggi il M5S si colloca attorno al 24% (ma alcuni istituti di sondaggi lo collocano sotto il 23%), a fronte del 25,6% emerso dal voto di febbraio: si tratta, con tutta evidenza, dell'effetto delle fratture che nelle ultime settimane si sono manifestate tra gli eletti del movimento di Grillo.
Insomma, a poco più di due mesi dalle elezioni, il Pdl riesce a dominare, ancora una volta, lo scenario politico. Se ci fossero le elezioni oggi, potrebbe profilarsi una vittoria del partito di Berlusconi. Ma, secondo gran parte degli osservatori, al Cavaliere non conviene in questo momento provocare la caduta del governo per ritornare al voto: una scelta siffatta potrebbe provocare la riprovazione di una parte del suo stesso elettorato (oltreché del presidente della Repubblica Napolitano) e recargli danno sul piano del consenso. E una nuova situazione di instabilità potrebbe convogliare ancora una volta voti verso la protesta rappresentata da Grillo. È quindi ragionevole ipotizzare che Berlusconi continui per ora a gestire il suo vantaggio che, peraltro, appare accrescersi di giorno in giorno, senza che le vicende giudiziarie lo danneggino in termini di seguito elettorale.

Repubblica 12.5.13
L'esecutivo appena nato a Brescia rischia il crac
di Eugenio Scalfari

qui

il Fatto 12.5.13
Pd, il funerale frettoloso di un partito imploso
Alla Fiera di Roma, tra dirigenti che sbadigliano, giovani nati vecchi e “cacicchi” che picchiano suulle scelte sbagliate
di Antonello Caporale


L’inumazione del Pd si è svolta ieri alla fiera di Roma. È stato un rito breve e senza lacrime, come succede per quelle zie lontane e sconosciute che si conducono al cimitero alla svelta perchè domani c’è da andare al lavoro e i figli premono per tornare in città. La sala semivuota garantisce libertà di passeggio nel capannone 10 della fiera di Roma, lato nord. Alle undici del mattino incontro Marco Follini già ai cancelli di uscita: “Tutto deciso ieri”. Bene così, tutto fatto e già visto, perchè perdere tempo per esempio ad ascoltare Roberto Speranza, il capogruppo con i piedi saldamente in aria? In effetti non ha tutti i torti Follini. Speranza dal palco: “Dobbiamo essere autonomi. L’autonomia significa riformismo”. In realtà quella frase non significa niente e infatti ogni cosa va per il verso giusto: lui parla e gli ascoltatori – nella cifra va compresa la quota dei congiurati - sbadigliano, o leggono i giornali o barattano la presenza per qualche photo -opportunity.
RICHIESTISSIMA Alessandra Moretti, la vice sindaco di Vicenza, che a sua insaputa è divenuta volto noto e ossessivo del Pd. Nessun pensiero e molti forse in testa. Ottima per gli intervistatori. Un clic in posa, sulle scale d’emergenza. Un clic in posa, ai piedi della scala, appoggiata al muro, a braccia conserte, a braccia allungate. Grazie molte. Performance appena più modesta quella di Matteo Orfini, il terzo dei giovani turchi, l’unico non accasato. I due compagni, Andrea Orlando e Stefano Fassina, si sono rifugiati al governo. Lui è rimasto a spasso, attorniato dai fotografi. Ancora a braccia conserte, poi a braccia allungate, foto intera di tre quarti, sorridi un po’ diamine. Grazie Orfini.
Sembra una scampagnata fuori porta, un pic-nic tra amici. Spensieratissimo Latorre, oggi sembra vestito da tronista, scarpe lucide e intonate all'abbigliamento ganzo. Sorride, ne ha viste tante e tanto peggio per i delusi, questo partito è così. E giù scappellotti a Michele Emiliano, il sindaco di Bari. Scappellotti tiepidi e felici, come chi ritrova un amico a una festa. “Non mi fanno parlare, ma che ci faccio qui? Questo partito non lo sopporto più”, dice Emiliano contrito. I democratici non si sopportano se sono in più di cinque, bisogna dirlo. E infatti si riuniscono per clan separati. I lucani di Pittella, gli aquilani col sindaco Cialente, i veneti. Ciascuno padrone a casa sua. Per esempio Vincenzo De Luca, sindaco fasciocomunista di Salerno. Ha il tono del padrone e parla ai suoi compagni sputandogli in faccia: “Bisognerebbe vergognarsi”. Lo applaudono, senza sapere che lui a questo partito non ha mai creduto, l’ha svillaneggiato e chiuso nel recinto della sua segreteria. Parla Renato Soru, l’imprenditore illuminato e nei corridoi si volantina contro Soru. I giornalisti dell’Unità non gli perdonano di averli messi nei guai. Tutti i torti non hanno. All’ingresso resistono cento di-sgraziati con la maglietta bianca che recita la scritta: siamo più dei 101. Poco di più, sì.
La spedizione dei cento. Roma, che sta per votare il sindaco (e sta correndo il rischio di vedere rivincere Gianni Alemanno) neanche se ne accorge che il suo Pd è riunito ai massimi vertici per processare la sua classe dirigente, indicare gli errori commessi, le irresponsabilità. Infatti del gruppetto dei civilissimi contestatori, che non hanno naturalmente ingresso in sala, la delegazione più nutrita (venticinque) è quella calabrese. I romani (e i milanesi, i genovesi, i livornesi) non avevano tutti i torti ad annullare l'incontro ravvicinato: quale processo? Quale sconfitta? Pierluigi Bersani ha risolto in un rapido tiro di sigaro la sua disgraziata conduzione e ha concluso con una frase da nobel del superfluo: “Le vittorie hanno tanti padri, le sconfitte nessuno”. Si è preso la croce e se l’è portata via a gambe levate. Colpiscono i volti, sono volti bugiardi, persone che non sentono il dramma, non si accorgono che il partito sta schiattando sotto le loro poltrone. Osservatori esterni, ospiti di se stessi: “Mi sembra che il partito si stia sciogliendo”, dice il salernitano Valiante. Lo spiega con quella approssimazione del turista per caso.
ECCO LÌ CESARE Damiano, sempre elegante, concede la sua interpretazione alle tv. E Civati, gonfio di carte e di appelli unitili, è un perdente di successo e infatti si fa la fila da lui. Dicono che ci sia Veltroni e pure D’Alema. Si rivede l’antico Alfredo Reichlin, uno dei pochi comunisti in sala, e ha il volto contrito. In lui almeno emerge la consapevolezza del naufragio, gli altri si godono in mare la giornata di sole. Non hanno croci da portare, sanno che anche questa volta l’hanno avuta vinta: lo stipendio corre in alto, qualche auto blu è disponibile nel parcheggio, un passaggio a Porta a Porta sarà ineluttabile. “Impossibile ripartire senza riconoscere una fine”, dice Arturo Parisi. Ma a chi lo dice?

il Fatto 12.5.13
Il Pd balcanizzato si affida all’ex Psi
Pd verso Epifani, segretario di compromesso in un partito balcanizzato
L'ex segretario Cgil cresciuto all'ombra di Cofferati è sempre stato guardato con diffidenza per le sue origini socialiste. Ma l'assemblea di oggi dovrebbe sancire la sua successione Bersani, almeno per garantire, in un partito sempre più diviso, la transizione fino al congresso di ottobre. Intanto Renzi rischia di essere messo in ombra dal neopremier Letta
di Cosimo Rossi

qui

il Fatto 12.5.13
Epifani segretario, i democratici e la ricostruzione
“Entusiasmo zero”
Appena eletto l’ex sindacalista dice solo “So quanto è difficile il compito”
di Wanda Marra


“Come sto? Abbastanza male. Come del resto tutto il Partito democratico”. Il tono di Matteo Orfini è ironico, la considerazione tristemente veritiera. Alla Fiera di Roma un Pd ai minimi termini elegge il segretario che deve condurlo al congresso. Nei suoi turbolenti anni di vita mai il clima è stato più sfilacciato. Più piatto. D’altra parte lo dicono i numeri: Guglielmo Epifani, il nome uscito dall’estenuante trattativa tra le correnti, viene eletto con 458 voti, su 593 votanti, 59 gli astenuti, 76 le schede bianche. La direzione si affretta a dare le percentuali: l’85,8%. In realtà, l’assemblea contava, in origine, un migliaio di delegati. “Grazie della fiducia. Cercherò di mettercela tutta per fare bene. So quanto è difficile”, commenta il neoeletto, sorriso smagliante, cravatta rossa. A vedere le espressioni dei delegati che escono a elezione compiuta sembra quasi impossibile. Soddisfazione nelle dichiarazioni ufficiali, facce più cupe che mai. La giornata si trascina. L’epilogo è dato per scontato, ma con qualche timore. Bersani fa il discorso dell’amarezza: “Si vince insieme e si perde da soli. Bisogna dirlo ai giovani che c’è sempre un dispiacere su questa strada qua”. Un insegnamento ai posteri: così è la politica. Epifani l’ha voluto lui, ed è accanto a lui che sta seduto. L’applaudono tutti, in piedi. Ma sembra un gesto doveroso, più che sentito. L’applausometro della giornata non registra né punte, né contestazioni. Matteo Renzi, al primo intervento in un organo ufficiale del Pd, viene accolto con blando entusiasmo. Inizio a effetto: i tre episodi che più l’hanno colpito nel 2013? “Aver visto due Papi in Vaticano”, il fatto che “la Samsung investe tre volte la Apple” e “l’autorottamazione di sir Alex Ferguson” (ex ct del Manchester United). Qualche provocazione: “Mi hanno criticato per aver chiesto i voti del Pdl, ora ci siamo presi i ministri”. Chiarisce: “Non dobbiamo subire il governo, ma guidarlo”. Poi, la formula: “Più che un occupyPd serve un open Pd”. L’hashtag scala le classifiche di Twitter. Un vecchio dirigente: “La leggerezza di Renzi fa bene”. Leggerezza che si appesantisce immediatamente al contatto col Pd. Poi, si torna all’attività preferita dei Democratici : l’autocoscienza. Fassina: “Il governo è di compromesso, non un inciucio”. Nel frattempo, arriva la notizia che Alfano, ministro dell’Interno, va a manifestare a Brescia: “È una cosa che va condannata senza se e senza ma”. E quindi? “Non c’è un e quindi”. La Bindi, nella sua posizione di dimissionaria combattente, ci va giù un po’ più dura: “Posso fare lo sforzo di sostenere il governo Letta ma non mi si può imporre la retorica pacificazione”. Fassino informa la platea che gli avevano chiesto di candidarsi, ma lui ha declinato. Prende la parola Cuperlo. È già in corsa per il congresso. “Non ha senso stare al governo con un piede sì e uno no, bensì dobbiamo starci con il nostro senso critico”. Si rivolge a Renzi: “I voti del centrodestra non li conquisti offuscando la radicalità delle tue idee, ma ridando alle persone una ragione di riscatto”. Brevi applausi. Sembra che nessuno ci creda.
PARLA Epifani. Ritmo lento, senza acuti. Tutti aspettano che dica qualcosa sulle sue regole d’ingaggio: è pronto a non ricandidarsi a ottobre? Non tocca l’argomento. La sensazione generale è che stia ipotecando il ruolo pure per il futuro. “Non ho cercato l’incarico, ma non potevo sottrarmi”. Poi al Pd: “Un grande e serio partito non deve avere paura del congresso. Ma le discussioni siano esplicite”. E al governo: “Letta può contare sul nostro appoggio”. Applaudito meno di Renzi. Nei corridoi gli uomini ponte del sindaco di Firenze e Franceschini, Lotti e Giacomelli parlano di assetti futuri. Si aspetta la costituzione della segreteria e il cambio dello Statuto tra premier e reggente. “Più che una segreteria, sarà una gestione collegiale”, dice Orfini. Tutto rimandato ad altre sedi, è già tanto se il partito a sera esce con un segretario. D’Alema e Veltroni ci sono, ma non si vedono. Pure i ribelli sono in tono minore. Gozi, Puppato, Zampa annunciano la loro astensione. Pippo Civati, che aveva parlato di epifania di candidature, non presenta né la sua, né quella di qualcun altro. Anche lui (come Cuperlo e Gianni Pittella) combatterà in autunno. Alla fine, Epifani è candidato unico. Un vero fremito d’emozione lo dà Linda, delegata, maestra elementare: “La mattina in cui si era deciso di votare Prodi mi sono sentita in Paradiso. E poi sono precipitata”, dice piangendo. L’uccisione del padre, la ferita finale che aleggia sul partito moribondo. L’unico che prova a infondere un po’ d’entusiasmo è il premier Letta. “Il governo non è il mio ideale, ho lottato per averne un altro. E se posso dirlo, non lo è neanche il premier”. La platea si lascia scappare una mezza risata. Lui rivendica la scelta di “Cécile” a ministro dell’Integrazione. Cita Mina e il motto del Liverpool: “You’ll never walk alone”. Chiarisce che “Guglielmo è un segretario senza aggettivi”. Il suo profilo riformista è una garanzia. E lunedì il neosegretario nell’ultima tradizione democratica va da Napolitano. Puntualizza Letta: “Difenderemo la magistratura qualsiasi cosa accada”. Intanto Alfano è sulla via di Brescia. Si alza in piedi mezza sala alla fine. Tocca alla Sereni. “Aspettando i risultati non so che fare. Potrei mettermi a cantare, ma in questo Pier Luigi, eri più bravo tu”.

Corriere 12.5.13
L'ex sindacalista punta già alla conferma
Il sostegno dell'asse Letta-Bersani-Franceschini. Renzi: io voglio fare il sindaco

di Maria Teresa Meli

ROMA — Il clima non è dei migliori. Il Pd è in affanno e si arrocca: vietato l'ingresso ai giornalisti. Non si sa mai. Spiegazione ufficiale: potrebbero confondersi con i delegati e partecipare alle votazioni. Spiegazione ufficiosa: con tutti questi cronisti, dirigenti, parlamentari o anche semplici iscritti possono sbizzarrirsi nelle critiche e questo nuocerebbe al partito.
Il clima non è dei migliori: si va in bagno blindati. In mattinata — tarda — è Matteo Renzi a dover fare pipì. Cinque uomini del servizio d'ordine del Pd lo accompagnano in bagno ed evitano ogni contatto con i cronisti. Nel pomeriggio tocca a Pier Luigi Bersani: le guardie del corpo diventano sei. L'unica che ne è sprovvista alla nuova Fiera di Roma è Anna Finocchiaro e qualche parlamentare del Pd osserva malizioso: «Usa la scorta solo quando va a fare la spesa».
Il clima non è dei migliori. L'asse Letta-Bersani-Franceschini ha vinto ed è riuscito a imporre Guglielmo Epifani, ma preferisce non stappare champagne o prosecco. Meglio, molto meglio, fare finta di niente. E non dire che i tre che non hanno vinto niente portano nomi e cognomi di peso in quel partito: Matteo Renzi, Massimo D'Alema e Walter Veltroni.
Nella grande guerra che si è aperta da qualche giorno in qua — meglio far sopravvivere il governo o il partito — hanno vinto i sostenitori della prima ipotesi. Non importa, poi, se l'applauso al presidente del Consiglio è fiacco o se Beppe Fioroni a metà mattinata osserva: «Enrico tarda a venire perché qui non lo accoglieranno bene: ancora non hanno capito — o fanno finta di non aver capito — che governiamo con il Pdl». Quello che è stato deciso è deciso: i bersaniani non verranno cacciati, i franceschiniani avranno un posto al caldo, i lettiani seguiranno il loro premier che, nonostante i boatos, è bene intenzionato a ricandidarsi alla premiership se questa avventura governativa gli andrà bene. Perché no, del resto?
Poi c'è Epifani. Letta, Franceschini e Bersani appuntano le loro speranze su di lui. È il miglior alleato del governo e ha sostenuto il segretario fino in fondo: non sarà certo il successore di Cofferati a fare piazza pulita della classe dirigente del Pd che ha fallito. Non solo: l'ex leader della Cgil non ha intenzione alcuna di fare il Re Travicello. Traghetterà il partito sino al congresso e oltre. Nel senso che si ricandiderà. D'altra parte non si può chiedere a uno come lui, con la sua storia, il suo passato, la sua leadership sindacale, di limitarsi a fare il Caronte tra un tracollo del Pd e un congresso del medesimo. Ci mancherebbe altro. E infatti nessuno glielo chiede. Anzi, Marina Sereni, alla vigilia dell'assemblea, nella riunione della corrente dell'«Area dem» che fa capo a Franceschini e Fassino, precisa: «Nessuno gli chieda una cosa del genere». E nessuno, effettivamente, ha posto a Epifani questo interrogativo. Anche perché la risposta sarebbe stata ovvia. Per quale ragione Epifani dovrebbe correre con lo svantaggio incorporato? Proprio lui che, venendo dai socialisti, può chiudere l'eterna querelle del Partito democratico tra ex comunisti ed ex democristiani?
In sala, i tre che non hanno vinto, ma nemmeno perso, neanche si parlano. D'Alema arriva tardi, dalla Spagna, si siede in prima fila, si guarda in giro e confida ai pochi a cui rivolge la parola: «Prima o poi dovremo affrontare anche il tema del perché abbiamo perso. Bisognerà fare un esame di quello che è successo, perché fare finta di niente sarebbe un suicidio». E ancora, sempre D'Alema, all'orecchio di un amico: «Bisognerà ridare la parola ai cittadini in tempi non lunghi». Guarda caso, è lo stesso convincimento di Walter Veltroni. L'ex segretario del Pd sfiora l'assemblea nazionale: arriva presto e se ne va ancora prima, senza aver proferito verbo dal palco.
Matteo Renzi, invece, rompe un antico — consolidato — tabù decidendo di parlare. Un discorso per dimostrare che anche lui, quello accusato di rilasciare interviste e di non parlare mai nelle sedi del partito, c'è e non disdegna il Pd. «Gliele ho dette tutte, ma senza acrimonia», osserva subito dopo il sindaco rottamatore. Che ora deve affrontare la sua possibile e futuribile rottamazione. «Io di Letta mi fido», continua a dire. I due hanno siglato un patto generazionale. Ma è ovvio che Renzi non può fare affidamento sul fatto che il premier decida di non ricandidarsi alle prossime elezioni. C'è chi, tra i renziani, spera ancora che il primo cittadino di Firenze si prenda il mese che resta per pensarci e poi si candidi direttamente alla segreteria. E chi invece esclude questa prospettiva. «Ha già visto che fine ha fatto Walter, che si è fatto maciullare dal Pd». Lui sembra comunque non nutrire dubbi: «Mi ricandido a sindaco di Firenze e continuerò a fare questo lavoro se i fiorentini mi diranno di si». E fa spallucce quando gli si dice che questo governo potrebbe durare fino al 2015: «E dov'è il problema? Io voglio fare il sindaco, non il segretario».
Poi però, quando le mille telecamere che lo inseguono si dileguano e lui resta tra pochi amici, spiega: «Questo governo non è quello che volevamo, come ha ammesso anche Letta. Ma è meglio tenerselo per le cose necessarie e urgenti che ci sono da fare. Deve avviare la soluzione di problemi importanti che assillano il Paese, dopodiché passerà la mano e si tornerà a una dialettica normale tra i poli. Insomma, se dopo i 18 mesi indicati da Letta, verranno fatte le riforme che dovevamo fare sarà un fatto importante, poi ognuno tornerà alla sua esperienza politica, noi e loro». Renzi sembra sicuro che questo sia l'epilogo. Alcuni dei suoi sostenitori, però, sembrano più pessimisti, e temono che lasciando il partito ad altri, il sindaco perda anche la strada della premiership.

La Stampa 12.5.13
E ora si litiga su poltrone e congresso
È già un caso la possibile ricandidatura di Epifani.
Napolitano lo incoraggia a lavorare per la tenuta del partito
di Carlo Bertini

qui

Repubblica 12.5.13
“Sta lavorando per succedere a se stesso ma Guglielmo non rappresenta il nuovo”
di G. C.

qui

Corriere 12.5.13
Il nodo dello statuto e delle primarie

L'assemblea di ieri ha fissato il congresso a ottobre. Prima di quella data bisognerà sciogliere un nodo determinante: se cambiare o meno lo statuto ove sancisce che il segretario è automaticamente il candidato premier. A questa decisione ne è legata un'altra: se mantenere le primarie anche per il segretario o soltanto quelle per il candidato premier

Corriere 12.5.13
Applausi, urla e «vaffa» tra colonnelli e dissidenti
Ma i big stanno in posa
di Fabrizio Roncone


ROMA - Al bar, a mezzogiorno, arrivano i panini con la porchetta. Non sono buoni come quelli che preparavano alle feste dell'Unità, ma aiutano a distendere gli animi. Nei limiti.
Dentro, nel padiglione numero 10 della nuova Fiera di Roma, sul palco è intanto il turno di Renato Soru, che inizia a parlare con un tono di voce da orazione funebre.
Franco Marini, accigliato, esce e si prende sottobraccio Miguel Gotor (storico, filologo di Aldo Moro, deputato, consigliere di Bersani: e non estraneo — sembra — alla sciagurata trovata elettorale del «giaguaro da smacchiare»). Luciano Violante sta da una parte con Lucia Annunziata. Passa Piero Fassino (bisognerebbe andargli a chiedere se davvero, l'altra sera, nel gran pasticcio delle trattative, per un paio d'ore gli sia stata prospettata la possibilità di poter diventare il segretario reggente: ma forse è meglio soprassedere).
Torna Pippo Civati, uno dei dissidenti. Ha questa tecnica, Civati (la stessa che usa anche in Transatlantico): cammina a passi corti, e poi va avanti e indietro, l'aria sempre un po' assorta e cupa, come pronto a dire qualcosa di decisivo. Questo atteggiamento attira sistematicamente i cronisti, anche quelli che l'hanno intervistato poco prima, per sentirsi dire frasi tipo: «Non c'è il rischio di morire democristiani, c'è il rischio di morire e basta».
Le metafore che circolano nel backstage di questa assemblea sono comunque scarsamente allegre. Sentite Roberto Giachetti: «Il partito è in agonia, ma invece di somministrarci un antibiotico forte per cercare di guarire, ci stiamo attaccando all'ossigeno». Nico Stumpo — un quarantenne calabrese cresciuto nei ranghi del partito, ex colonnello bersaniano, formalmente ancora responsabile dell'organizzazione — raccoglie le firme per Epifani e la pensa diversamente: «Stiamo prendendo la miglior decisione possibile».
Dipende dai punti di vista.
Viene fuori Michele Emiliano.
«Assurdo! Non mi ci vogliono, sul palco!» (urla).
C'è un regolamento, sindaco.
«E ci sarà pure, va bene: ma io sono pur sempre il sindaco di Bari e il presidente del Pd in Puglia, o no?».
Cosa avrebbe voluto dire, al microfono?
«Oh, beh, una cosuccia su Epifani... Avrei voluto ricordare che è andato in pensione facendo il deputato e che adesso, non soddisfatto, s'è messo a fare il camerlengo lanciandosi in questa avventura senile...».
Alcuni, conoscendo gli improvvisi scatti d'ira di cui Emiliano è capace, prudentemente annuiscono. Nicola Latorre, con un sorriso dei suoi vorrebbe buttarla sul ridere, mima una specie di pugno, ma poi capisce che non è aria, e rientra in sala. Bersani ha appena finito di parlare. Due minuti e mezzo di discorso, poi un applauso lungo, che è sembrato affettuoso. Abbracci con Zanda, Speranza e la Sereni, seduti al tavolo della presidenza. Freddezza, poco dopo, per la prodiana Sandra Zampa, che annuncia l'intenzione di non votare Epifani. Tra un po' parlerà Renzi (gira voce che, da qui al congresso, abbia chiesto di poter controllare, con uno dei suoi, l'organizzazione del partito: vera o no, qualcuno vada a riferire questa voce a Stumpo).
Il senatore Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, uomo saggio e — dicono — potente, è l'unico parlamentare a varcare la porta della sala stampa. I giornalisti seguono la diretta dei lavori di YouDem su due grandi megaschermi. Il direttore di YouDem, Chiara Geloni, monaca guerriera di rito bersaniano, è mesta e solitaria. Più rilassato il direttore di Europa, Stefano Menichini (l'edizione online del quotidiano va piuttosto bene). I giornalisti dell'Unità, invece, fanno volantinaggio: si prospetta un piano di tagli, l'ennesimo, dopo anni di sacrifici: «L'Unità vuole cambiare, non morire».
Un po' di chiacchiere tra i delegati origliate al bar.
«Quando ho visto Veltroni, ho pensato: ma perché cavolo l'abbiamo fatto dimettere da segretario, eh?». «Ci hai pensato? Siamo riusciti a mettere a Palazzo Chigi un democristiano e a darci un segretario socialista». «Hai visto Marino? No, dico: ti è chiaro, sì, che a Roma le elezioni le rivincerà Alemanno?...».
Ecco David Sassoli.
Il capogruppo al Parlamento europeo l'altra sera è andato a fare un dibattito al Circolo Woody Allen, nel quartiere di San Giovanni, qui a Roma. Ma è finita male.
«Beh, male...».
Male. L'hanno insultata.
«Veramente è filato tutto liscio finché non s'è alzato un matto che mi ha cominciato a urlare contro...».
Gli umori della base sono pessimi.
«Bah... diciamo che qualche vaffa, ogni tanto, bisogna saperlo accettare».
Fuori, all'ingresso, ci sono gli insorti di Occupy Pd#. Indossano magliette bianche su cui è scritto «Siamo più di 101» (riferimento al numero dei franchi tiratori che impedirono l'elezione a Presidente della Repubblica di Romano Prodi) sono fermi dietro alle transenne e, in verità, a contarli, non saranno più di cinquanta. Chiedono di poter entrare.
Con ammirevole sprezzo dell'imbarazzo, il viceministro Stefano Fassina decide di non evitare un tentativo di confronto.
E si avvicina.
Fassina: «Faremo un congresso e...».
Uno di loro (tra lo sprezzante e l'ironico): «E come lo vuoi fare questo congresso, eh?».
Fassina: «Guardate: io penso che...».
Un altro di loro: «Racconti cazzate, racconti...».
Va avanti per tre minuti. Poi anche fotografi e cameraman si stufano. Non c'è notizia. Prima sono stati addirittura spietati, in certe valutazioni. Stavano tutti intorno ad Anna Paola Concia, ma poi, quando è spuntata la Puppato, hanno mollato di colpo la Concia (E lei, sportiva: «Andate, andate dalla Puppato, che è più importante...»).
Si sono ripetuti, poco dopo, con Matteo Orfini. Mollato al sopraggiungere della Bindi.
L'ego di Orfini ne era rimasto duramente segnato. Adesso però c'è un fotografo che gli propone qualche scatto.
«Ecco, stia fermo così... un bel sorriso, eh?». E Orfini sorride.
«Bravo, perfetto! Adesso... a braccia conserte, forza!».
E Orfini lì, in posa, a braccia conserte.

il Fatto 12.5.13
Epifani è il segretario Pd, Civati: “Nome in continuità con il passato”

un video qui

il Fatto 12.5.13
Base in rivolta
I ragazzi di Occupy protestano: “Buffoni è già tutto deciso”
Sit-indavanti alla Fiera di Roma
Sulle magliette “Siamo più di 101”
di Enrico Fierro


Dentro il partito dei potenti vecchi e nuovi, fuori il partito che non conta. “A parlare, a decidere le sorti nostre e di chi vuole una Italia migliore c’è il partito che ha paura del partito. Non è un gioco di parole, ma la verità: hanno paura dei loro militanti”. Ragazza dai capelli rossi. Ragazzo dai capelli neri: “Epifani non ci rappresenta”. Sono insieme ad altri under 30 e tutti indossano la maglietta “Siamo più di 101”, il riferimento è a quelli che hanno impallinato Romano Prodi e spianato la strada alla pacificazione berlusconiana. Occupy Pd, militanti alla ricerca di una speranza. Vogliono entrare ma non possono. Premono e il servizio d’ordine li respinge. “Noi non possiamo parlare, ma dentro ci sono affaristi, mogli e amanti”. Fernanda Gigliotti non è più under 30, è calabrese e fa l’avvocato, un posto dentro l’Assemblea che si appresta a votare Guglielmo “il traghettatore” ce l’ha, si iscrive a parlare ma non le daranno la parola perché, come in tv, il tempo è tiranno. E lei parla con i giornalisti, delle “false primarie in Calabria, di vecchi tromboni che hanno fatto eleggere la moglie, di affaristi che girano nel partito...”. Passa Luciano Violante, “il saggio”, e fende la folla di giovani con passo di bersagliere. Non li degna di uno sguardo, eppure, una volta tanti anni fa, quando parlava di mafia, i giovani lo adoravano. Arriva Stefano Fassina e si ferma. “Parla con noi, non solo col Pdl”, gli fa un ragazzo con la maglietta. “Ragazzi, combattiamo insieme”, è la fiacca esortazione. “Avete bruciato i nostri sogni”, di nuovo il ragazzo con la maglietta. “Abbiamo un congresso”. I ragazzi di occupy in coro: “Ma se avete deciso già tutto, buffoni”. Fassina va via. In sala Gianni Pittella parla di “Europa, Mediterraneo, giovani”. È eurodeputato e viene dalla Basilicata, nella sua terra il partito è devastato da scandali e arresti. Nel corridoio Michele Emiliano, il sindaco di Bari, ha un battibecco con Nicola Latorre, pugliese e dalemiano di ferro. “Nicò se andate avanti così non prenderete più un voto”. Nicola si gratta. Il sindaco va fuori a incontrare i ragazzi di occupy. “Epifani è andato in pensione da deputato e ora vuole vivere questa avventura senile di segretario”. Il sindaco è imbufalito, “sono il presidente del Pd pugliese ma non ho diritto alla parola in una assemblea dove ci sono persone passate ad altri partiti. Uno schifo”. Dentro volano parole, decine di interventi. Giovanni Ma-noccio, che i trent’anni li ha passati da tempo, incita i ragazzi ad entrare. È il sindaco di un piccolo comune calabrese dove si parla l’albanese antico, Acquaformosa. “Sto facendo progetti per l’accoglienza, mi occupo di come salvare i piccoli centri, resistiamo, ma questi temi non trovano spazio nel dibattito politico”. Alla fine fanno entrare una delegazione di occupy, una di loro può anche parlare. Così Cecilia Cioria, torinese di vent’anni con la faccia da bambina, legge un documento. Reset della dirigenza, congresso aperto, inclusività e chiarezza su obiettivi e tempi del governo. Dalla sala, piena di deputati, assessori, consiglieri regionali e capicorrente, la guardano con sufficienza e le concedono un timido applauso.

il Fatto 12.5.13
Assemblea Pd, Occupy: “Epifani? Non ci rispecchia”

un video qui

il Fatto 12.5.13
La sinistra che verrà. Riguarda lo speciale con Rodotà e Padellaro:



l’Unità 12.5.13
L’invasione di Occupy: «Non siamo nemici, ascoltateci»
Arrivano da tutta Italia, con una parola magica: «partecipazione»
Spirito critico, non ostile
di Jolanda Bufalini


Hanno le magliette con la scritta: «Siamo più di 101», quando passa matteo Orfini glie la regalano e lui si presta, ma con un po’ di imbarazzo, alle foto. Passa il sindaco di Reggio Emila Graziano Del Rio e il gruppo dei reggiani si stacca, «Sindaco, sindaco!», foto ricordo con il sindaco. Sono partiti in auto alle due di notte, alle quattro, sono arrivati per primi nella landa deserta della Nuova Fiera di Roma, dove anche prendere un caffè, se non sei delegato, è un’impresa. Da Torino, da Bologna, Reggio, Modena, da Cosenza e da Catanzaro, dalla Toscana, dall’Abruzzo, dalla Campania, dalle Marche, da Bari si annunciano cinque macchine che non riescono ad entrare.
Il gruppo delle regioni rosse è il più numeroso, spiegano così l’accoglienza festosa al sindaco di Reggio Emilia: «Non abbiamo nulla contro il sindaco, siamo un unico popolo, non siamo nemici, vogliamo farci ascoltare». E sul successo nelle loro regioni dei Cinquestelle: «È la protesta per lo scollamento fra dirigenze ed elettori».
I più arrabbiati sono i calabresi, contro il commissariamento del partito nella regione: «Il commissario D’Attorre è stato eletto parlamentare ma il partito non è stato per niente ricostruito», dice Giovanni caporale da Cosenza.
Quando arriva Matteo Renzi, Patrizia Cini, da Firenze, lo incoraggia: «Sei il più bravo!». Ha fatto tutta la campagna delle primarie per Renzi. Eppure il documento di Occupay Pd è molto polemico con il governo delle larghe intese, non corrisponde alle cose che sta dicendo il sindaco di Firenze. «Non importa sostiene Patrizia nel movimento di Occupay ci sono tutte le idee, la parola magica è partecipazione».
Pasquale Squillaci, 38 anni, ingegnere, libero professionista di Catanzaro ma «il lavoro non c’è», è d’accordo con la fiorentina Patrizia: «Va bene il confronto fra due-tre visioni, quella socialdemocratica o quella cattolico democratica, ma non fra decine di correnti che servono solo a dividere le poltrone». Pasquale è contento perché a Catanzaro, venerdì, hanno avuto un incontro con Fabrizio Barca, «senza esposizione mediatica, Barca ha evitato i riflettori per avere un confronto con noi iscritti. È stato molto interessante».
Ludovica è di Torino, fra i primi a occupare le sedi, «Sul nome di Marini spiega per dire no all’alleanza con il Pdl». Adesso, «dovrebbe essere chiaro su cosa lavora questo governo, dovrebbe avere un tempo limitato. Altrimenti che governo d’emergenza è?» Vorrebbero che si facessero alcune cose urgenti e necessarie: «La Cig in deroga, il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione», qualcuno si spinge fino al «reddito minimo garantito, magari per un tempo limitato, per fronteggiare la crisi» e, certo, «la legge elettorale». La cosa che li ha fatti arrabbiare di più della vicenda del Quirinale è «il tradimento verso Prodi, il fondatore. È anche un tradimento degli elettori. Prodi non avrebbe fatto le larghe intese».
Si tratta per entrare ma la risposta che arriva dall’Assemblea è che può entrare una delegazione di una decina. Riunione sul prato, gli occupay decidono di entrare in delegazione solo per chiedere due cose, spiega Lorenzo D’Agostino, studente barese che studia a Bologna: l’ingresso per tutti (non sono un esercito, forse sono di più dei 101 ma non molti di più), e la possibilità di leggere il documento che hanno stampato in un volantino. «Vogliamo entrare, vogliamo essere ascoltati», «Ci siamo anche noi, basta con questa democrazia elitaria», «Hanno riportato indietro le lancette della storia», «qualcuno sa su quale progetto è stata fatta la scelta di Epifani? Bisogna discutere nei circoli». Arriva il «no» della presidenza dell’Assemblea. Tutti di nuovo fuori, seduti davanti alle transenne: «Sono il simbolo del partito che vogliono». Però continuano i saluti festosi verso i delegati: «Qualcuno di loro ci vuole bene», dicono indicando Paola Concia. Gli occupay non sono soli, i romani volantinano un documento di autoconvocati. «Siamo preoccupati dice Roberta Inguscio del circolo di Trastevere per la crisi di credibilità e per la frammentazione del Pd, tanto più che siamo impegnati in una campagna elettorale difficile». Nell’atrio il comitato Renzi del III municipio distribuisce un dossier sulle primarie nazionali. Sottotitolo: «Il boomerang dei respingimenti democratici».

Repubblica 12.5.13
Pd, "inclusività e reset della dirigenza"
L'Assemblea parte con OccupyPd
Alla Nuova Fiera di Roma. All'esterno del padiglione i militanti di OccupyPd monopolizzano l'attenzione: "Non accettiamo che il Pd si metta a ripensare il funzionamento delle Istituzioni con il Pdl"

di Carmine Saviano
qui

La Stampa 12.5.13
Civati e l’area critica: spero sia la mia ultima scheda bianca
La prodiana Zampa: “Non mi pacifico con questo partito”
«Il neo eletto credo non rappresenti la discontinuità di cui c’è bisogno»
di Francesca Schianchi


«Spero che sia la mia ultima scheda bianca», sospira Pippo Civati alla fine di una lunga giornata di Assemblea. Sono le cinque del pomeriggio, Guglielmo Epifani è appena stato eletto segretario con 458 sì. Ma c’è anche chi dice no: lo fanno quei 76 che lasciano la scheda bianca, come Civati, e i 59 che la annullano. E se molti non hanno espresso la loro contrarietà, c’è anche chi lo dichiara prima, e lo motiva.
Spesso con parole dure verso il partito e quello che è successo nelle settimane scorse. Prendi Sandra Zampa, deputata di Bologna, vicinissima a Romano Prodi di cui è anche portavoce: «Io non mi voglio pacificare con questa destra né con questo partito, se questo vuol dire fare finta che stiamo già superando quanto è accaduto», dice con voce gelida dal palco. «Il voto dei 101 franchi tiratori corrisponde a un disegno politico preciso: arrivare al governo delle larghe intese. Credo che sarebbe corretto e doveroso che dicano il perché, che spieghino le loro ragioni prima di tutto agli elettori», chiede. Non uno, dei 101 che preferirono non scrivere il nome di Prodi sulla scheda, ha mai ammesso di averlo fatto. Un mistero assoluto: tanto che gira voce ci sia qualcuno che sta cercando di stilare una lista, di individuare chi sono, ma vai a sapere, è impossibile da verificare, visto che tutto avvenne nel segreto dell’urna. «Il congresso che ci attende deve essere celebrato al più presto – insiste la Zampa – è tempo che ci chiariamo perché così siamo un danno per la democrazia italiana». Motivo per cui, aggiunge, pure lei si astiene sul voto.
Ma prima di lei parla anche il ligure Andrea Ranieri, sindacalista Cgil, ex senatore dei Ds: «Io non voterò per Epifani», esordisce. Critico sul governo con Berlusconi – «mio padre era un comandante partigiano, morto un anno fa a 97 anni. Prima di chiudere gli occhi mi ha detto: La cosa che mi dispiace di più è andarmene che ancora lui comanda» – ed esigente col Pd: «Voglio un congresso in cui le alternative politiche siano esplicitamente affermate. Senza confronto aperto non c’è nessuna unità possibile».
Tra i più contesi dai taccuini dei cronisti è Civati, il più in vista dei dissidenti. «Più che un appello all’unità, quello di oggi mi sembra un appello all’unanimità», interviene dal palco. Aveva pensato pure a una candidatura alternativa, «molti stamattina hanno chiesto anche a me di candidarmi», assicura, «ma non aveva senso: ci scontreremo al congresso», che lui immagina di fare il 29 settembre («giorno in cui fanno gli anni due persone, una a cui vogliamo bene, un’altra meno», allude a Bersani e Berlusconi) perché il motto, propone, dev’essere «tanto meglio tanto prima». Già, il congresso. E’ lì che i dissidenti promettono di dare battaglia. Sarà da fare «con candidature e tesi politiche vere e contrapposte, perché dell’unanimismo falso e ipocrita non ne possiamo veramente più», chiede anche il deputato prodiano Sandro Gozi. Il Pd «si è suicidato il 19 aprile», con l’affossamento di Prodi: «Io ho molta fiducia nelle capacità di Letta ma non c’è più fiducia tra noi, dobbiamo ricostruirla». E poiché Epifani «credo non rappresenti la discontinuità di cui c’è bisogno», anche lui lascia la scheda bianca. Lo scontro, quello vero, è rinviato in autunno.

il Fatto 12.5.13
Nasce Rossa, “movimento di anticapitalisti”


“UN CANTIERE” della sinistra anticapitalista, che vuole essere alternativo alla destra, al Pd e anche al centrosinistra che Sel vorrebbe ricostruire. È “Rossa”, il movimento dal nome provvisorio che ieri ha mosso il primo passo ufficiale con un’assemblea in un cinema parrocchiale di Bologna, riempito da circa 300 persone. Ad aprire i lavori Giorgio Cremaschi, sindacalista di minoranza della Cgil: “Siamo nel quartiere Bolognina, non lo sapevamo. Il Pd è nato qui, speriamo di non fare lo stesso percorso...”. Dopo un minuto di silenzio per i morti nel porto di Genova, è stato letto un messaggio del regista britannico Ken Loach, a detta del quale “i vecchi partiti del centrosinistra sono ormai compromessi dal loro programma di austerità”. Quindi, Cremaschi ha spiegato il documento fondativo: “È necessario un movimento anticapitalista e libertario, qui e ora. Dobbiamo rendere attuale il socialismo”. Tra gli altri promotori Giovanni Russo Spena, Franco Turigliatto e diversi sindacalisti. Il prossimo appuntamento di Rossa sarà a settembre. Per ottobre, è stata proposta una manifestazione contro il “governo Napolitano e la troika europea”.

il Fatto 12.5.13
Marchini: “Pagavo i conti del Pd, eppure oggi mi attaccano”
La replica a Goffredo Bettini che l’aveva accusato di seminare zizzania:
“Coprivo i buchi delle loro società”
di Luca De Carolis


“Mi criticano per i soldi investiti nel mio movimento. E allora mi chiedo: quelli dati alle loro campagne elettorali e per coprire i buchi delle loro società erano democratici, e quelli per la mia lista invece sono reazionari?”. Alfio Marchini ci va giù duro, e l’obiettivo è dichiarato: Goffredo Bettini. Ieri in un’intervista al Corriere della Sera il demiurgo del Pd romano l'aveva punto così: “Mi pare che la strategia di Marchini sia finalizzata a mettere zizzania nel centrosinistra: lui, nonostante le risorse, le tante apparizioni tv e l’appoggio dei giornali, non arriverà al ballottaggio”. Marchini non ha affatto gradito, e al Fatto dice: “Bettini è un amico, l’ho sentito per telefono anche 15 giorni fa. Credo che il suo sia un tentativo goffo di scoraggiare il voto disgiunto a mio favore, facendo passare un distorto concetto di voto utile, fuori della realtà in un sistema a doppio turno. Questo è il classico doppiopesismo di quella sinistra che ha regalato l’Italia a Berlusconi negli ultimi vent’anni”. È davvero forte l’irritazione dell’erede della dinastia di costruttori ‘rossi’: “Per decenni io e la mia famiglia abbiamo sostenuto il principale partito d’opposizione alla luce del sole, sia nelle principali campagne elettorali, sia nelle emergenze come nel caso de l’Unità. Ho sempre ritenuto che un partito glorioso non potesse chiudere i battenti per la mancanza di risorse”. Ora Marchini corre da solo per il Comune, e cresce nei sondaggi: “Il mio movimento è nato proprio per rompere il consociativismo che ha rovinato questo Paese”.
NATURALE chiedersi: in un eventuale ballottaggio il suo appoggio a Marino, fortemente voluto da Bettini, è ancora possibile? L’imprenditore risponde così: “Vorrei comprendere in che veste parla Bettini: se come consulente di Marino (senatore dimissionario a seconda delle convenienze), se come dirigente del Pd, oppure a nome de 'Il Campo', il nuovo partito di cui ha annunciato la fondazione su La Stampa”. C’è una frattura da ricomporre, insomma. E non pare semplice: “Quando annunciarono la candidatura di Marino, avevo detto che avrebbe resuscitato persino Alemanno: guardando gli ultimi sondaggi, ahimè, posso dire di essere stato un buon profeta”. Intanto a Roma la campagna elettorale sta mostrando la sua faccia violenta e un po’ oscura. Venerdì notte, ignoti hanno sbarrato con dei chiodi la porta del comitato elettorale di due candidati della Lista Marchini, Alessandro Onorato e Giovanna Marchese Bellaroto.
Ieri mattina, blitz contro i gazebo di Alemanno e Marino a piazza Bologna dei militanti del “Comitato elettorale Nessuno sindaco”. Coperti da maschere bianche, hanno occupato per qualche minuto i due banchetti, disseminandoli di propri manifesti. Una candidata della lista civica Marino, Francesca Mal-vani, “è stata circondata, spintonata violentemente e insultata” come spiega in una nota lo stesso Marino, che parla “di clima di intimidazione”. Sentito telefonicamente, un esponente anonimo del comitato “Nessuno” smentisce: “È stato un flash-mob goliardico, non ci sono state violenze o insulti, e lo dimostreremo con un video che diffonderemo nelle prossime ore”. Chi siete? “Un aggregato di precari, studenti e lavoratori, un comitato comunista. Invitiamo al non voto perché nessuno rappresenta le nostre istanze”. Farete altre azioni di queste tipo? “Sicuramente sì”. Da partiti e candidati condanna unanime, con il comitato Alemanno che punta il dito contro “gli amici dei centri sociali e di tante sigle colorate di rosso”. Il segretario del Pd Lazio, Enrico Gasbarra, parla di “un’escalation di violenze politiche e intimidazioni che hanno creato in città un clima pesante”. E Marchini: “Non so se certe persone siano manovrate. Ma di certo c’è un’intelligenza dietro chi danneggia un nostro comitato elettorale la notte prima dell’apertura”.

Corriere 11.5.13
Marchini: «Con questa sinistra Berlusconi vincerà sempre, l'unico voto utile è per noi»
Il candidato sindaco: miei soldi al centrosinistra erano democratici, ora sono diventati reazionari. Mi candido perché amo Roma
di Ernesto Menicucci

qui

l’Unità 12.5.13
Rodotà: no a nuovi partitini
«Dopo la sconfitta va ricostruito un tessuto culturale per battaglie comuni»
di Rachele Gonnelli


Stefano Rodotà sale sul palco di piazza Santi Apostoli ed è quasi commosso, lo ammette. È la prima volta che affronta il suo nuovo personaggio pubblico di capo di Stato mancato di fronte a migliaia di persone. Molte venute in pullman, treno, nave da Toscana, Sardegna, Puglia, Milano, Napoli, alla prima manifestazione nazionale di Sinistra ecologia e libertà dopo le elezioni che l’hanno riportata in Parlamento.
Le note della canzone La bandiera tricolore, quella della Repubblica romana di Giuseppe Mazzini e Garibaldi, gli fanno da introduzione in un sventolio di bandiere, tricolori appunto, di Sel. E non appena si avvicina al microfono si scatenano cori da curva Sud«c’è solo un presidente, un presidente» che lo imbarazzano un po’. «Su di me c’è un investimento eccessivo che può andare in direzioni sbagliate», li rabbonisce. Ma ammette «ora mi ascoltano» e non accetta di essere indicato come responsabile della rottura dell’alleanza tra Sel e Pd. Anzi, proprio al Pd si appella perché quanto prima si mandi in soffitta il Porcellum, «una legge con gravi vizi di incostituzionalità» per tornare almeno alla precedente legge elettorale, il Mattarellum. Per il resto, secondo Rodotà «non è il tempo dicreare partitini e frettolose fasi costituenti della sinistra, non ha funzionato». Non c’è alcuna polemica con Sel. Quando Nichi Vendola sciorinerà di lì a poco il comizio finale tutti gli altri che si succedono sul palco erano esterni, non di partito, da Maso Notarianni a Gad Lerner, da Concita De Gregorio al sindaco di Cagliari Massimo Zeddail governatore della Puglia non farà che voltarsi a guardarlo, ringraziarlo, citarlo.
Sia Vendola che Rodotà iniziano i loro discorsi con la parola «sconfitta». Non c’ però l’aria triste e ripiegata vista altrove. In effetti di nuovo soggetto della sinistra non se ne vede traccia, è piuttosto una manifestazione di orgoglio, un Sel Pride, e contemporaneamente il rilancio di una apertura a tutto campo attraverso i «cantieri dei diritti» così li definisce il leader -, cantieri che insieme alla Commissione per i Beni comuni presieduta dallo stesso Rodotà e a molte associazioni da Sbilanciamoci al Cospe che hanno aderito all’appello, si pongono l’obiettivo di riconnettere i pezzi della sinistra diffusa, a tratti dispersa. O meglio, come dice Rodotà e Vendola precisa, con l’obiettivo di ricostruire innanzitutto un tessuto culturale che consenta di fare proposte, lanciare idee e campagne di mobilitazione trasversali, in Parlamento e nella società.
«È vero che i cantieri inventati sono fin troppi precisa sotto il palco Nicola Fratoianni noi ci mettiamo a disposizione come punto di riferimento per costruire una rete, vogliamo parlare al popolo delle primarie e a quello del Movimento Cinque Stelle, sfidando tutti sui contenuti. Le forme vengono dopo. Certo, oggi è un momento in cui sventoliamo le nostre bandiere, perché abbiamo sempre rinunciato alla nostra visibilità per lealtà alla coalizione e ora ci riprendiamo un attimo questo spazio. Pronti da domani a battaglie comuni contro il programma F35, per il reddito di cittadinanza, per la ridiscussione delle grandi opere, per lo ius soli e il rifinazionamento della spesa per istruzione, ricerca, sanità, cultura. «Su questi temi abbiamo delle proposte concrete già pronte, le presenteremo e vedremo chi le vota». Così sul femminicidio, la politica economica, il lavoro, la democrazia.
A ben vedere la piazza Santi Apostoli sancisce la spaccatura di Italia Bene Comune, l’alleanza siglata con il Pd di Bersani, e contrassegna Sel come partito di opposizione al governo delle larghe intese. È il momento di maggiore frizione con il Pd, anche se non c’è enfasi sul divorzio. Ignazio Marino, candidato del centrosinistra ancora unito, è in prima fila dietro le transenne. Sorride quando Vendola lo saluta dal palco, facendo convergere su di lui una frotta di fotografi e telecamere: «La Cosa giusta cita il titolo e leit motiv della manifestazione è Ignazio Marino sindaco di Roma».
L’idea di fondo dunque è quella di rilanciare il centrosinistra «quel patto che il Pd ha deciso di rompere per governare insieme alla Pd venendo meno all’impegno con gli elettori» e Vendola lo considera «un suicidio politico, una resa a Berlusconi» -, di rilanciare il cambiamento «dal basso». Continuando perciò a incalzare il Pd e anche a cercare di riannodare dei fili, come fa Massimiliano Smeriglio vice presidente della Regio Lazio con Nicola Zingaretti, che martedì prossimo intanto ha programmato una iniziativa a Roma di confronto con Fabrizio Barca sul suo manifesto per il partito nuovo. Per Smeriglio anche le stagioni congressuali che si annunciano in autunno, del Pd e di Sel, dovrebbero essere convocate in contemporanea, in modo da facilitare il dialogo. «Mai torneremo a rinchiuderci in logiche ristrette di appartenenza a partitini identitari. Noi non siamo autosufficienti ma neanche il Pd lo è», sostiene Smeriglio. Vendola fa gli auguri al reggente Guglielmo Epifani ma ribadisce il più netto dissenso da un partito che, afferma, sembra aver «accettato l’andreottismo come vitù nazionale». Eppure ha parole di grande condivisione con le proposte di ministri come Cecile Kyenge o Josepha Idem. E giudizi molto duri su Grillo, i suoi toni, la sua idea autoritaria di rapporto con i parlamentari. Quello di Sel si annucia come un gioco di sponda. «Per uscire dall’apnea e recuperare diritti e legalità».

La Stampa TuttoLibri 12.5.13
Rodotà: La nuova frontiera dei diritti
“Ma la proprietà è divisa per tutti”
“Dall’acqua alla Rai, alla conoscenza sul Web: più dell’appartenenza conta la gestione dei beni”
di Mirella Serri


Il giurista Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto Civile alla Sapienza di Roma, è tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

“A gli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più ti ama». Recita a memoria - «Felicità raggiunta, si cammina» di Montale - Stefano Rodotà.

Dopo le settimane burrascose che l’hanno visto al centro della contesa per l’ascesa al Colle, il noto giurista è tornato il professore di sempre. E prosegue nella non casuale evocazione montaliana: da anni ragiona sul complicato tema dei diritti e i versi del poeta ligure esemplificano bene il diritto alla felicità, lo stesso che si affaccia nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. In una versione aggiornata con nuovi capitoli arriva in questi giorni in libreria Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni (Il Mulino), pietra miliare sul tema dei patrimoni, delle forme societarie ma anche sui beni più anomali, come l’ingegno o la privacy. E da qualche tempo è sugli scaffali il bellissimo excursus Il diritto di avere diritti (Laterza). Rodotà, in Italia solitario hidalgo (ha il physique du rôle di un nobile spagnolo), è stato uno dei padri fondatori della riflessione sul rapporto tra libertà e nuove tecnologie. La nostra epoca, Norberto Bobbio, la chiamava l’età dei diritti. Professore, pos­ siamo continuare a consi­ derarla tale? «A fianco delle conquiste classiche, come il diritto alla libertà personale, alla manifestazione del pensiero, alla libertà di associazione, nascono sempre inedite acquisizioni. Oggi c’è chi parla di “diritti di nuova generazione”’. Non mi convince. Se viene applicata ai cellulari questa definizione ha una sua ragion d’essere, vuol dire che l’ultimo arrivato surclassa tutti gli altri modelli. Ma in campo legislativo le new entry non cancellano il passato ma lo rendono più ricco e funzionale alle nostre esigenze». Lei parla di una lunga mar­ cia dei diritti. Si è arresta­ ta? «Ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità, sostituita dalla più moderna solidarietà, è stato aggiunto quello di dignità. Quando è accaduto? Con la Costituzione tedesca del ‘49 che all’articolo 1 recita: “La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”. Dopo l’olocausto, che aveva reso gli uomini privi di ogni umanità, si sente la necessità di introdurre un’innovazione. Un principio che sarà la linfa dell’ordinamento europeo».
Altri recenti diritti? «L’autodeterminazione. Il Codice di Norimberga, è un altro esempio, nasce dalle carte del processo che si è svolto al termine della seconda guerra mondiale anche contro i medici nazisti che avevano perpetrato torture e sperimentazioni sui detenuti nei campi di sterminio. Si è avvertita l’urgenza di tracciare una linea di divisione tra sperimentazione lecita e tortura. Piergiorgio Welby, militante del partito radicale, proprio in base al principio di autodeterminazione chiese ripetutamente che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita». Dopo la repressione del 1848 in Francia la proprietà era diventata veramente una forma di religione. Alexis de Tocqueville parla­ va come di un perenne «campo di battaglia tra chi possiede e chi non possie­ de». E’ ancora attuale la questione? «All’improvviso, l’Italia ha cominciato a essere percorsa dalla “ragionevole follia dei beni comuni”, come è stata definita: l’acqua e la conoscenza, la Rai e così via, tutto è diventato tale, persino “i poeti sono un bene comune”, è stato detto. Esagerando, ovviamente. In realtà la dimensione collettiva scardina la moderna dimensione proprietaria. Ci porta al di là della tradizionale gestione pubblica dei beni. Che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo delle generazioni future. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell’”appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione. Se si considera, ad esempio, la conoscenza consentita dalla Rete, l’accesso è un diritto fondamentale poiché contribuisce alla libera costruzione della personalità». E il diritto d’autore, va a far­ si benedire? «Il web offre tante opportunità inedite: la musica si scarica gratis ma i concerti sono sempre più affollati. E se un’opera letteraria viene consumata online lo scrittore potrà avere molti altri benefici: in America, dove questo accade sempre più di frequente, si può, grazie alla notorietà acquisita sul web, diventare un conferenziere superpagato. In politica la Rete è stata capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire nuove soggettività politiche. Il movimento 5Stelle, che deve il suo successo a internet, poi però riempie le piazze. Vecchi e nuovi diritti si integrano e i cittadini da questo mix possono trarre molti vantaggi».

l’Unità 12.5.13
Camusso al governo: no al solito balletto
di Giuseppe Vittori


Arriva la prima critica della Cgil al nuovo governo guidato da Enrico Letta. A Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, non è piaciuto come l’esecutivo ha prima promesso l’intervento sull’Imu e soprattutto sulla cassa integrazione e poi non ha fatto nulla, rimandando il provvedimento tanto atteso. Le emergenze sociali del mondo del lavoro, dei pensionati e delle famiglie non possono più attendere soluzioni adeguate, secondo la Cgil che prepara iniziative unitarie con Cisl e Uil. «C'è un Consiglio dei ministri che prima dice le cose e fa i titoli, e poi rinvia le soluzioni» ha commentato Susanna Camusso, parlando a Palermo alla festa dello Spi Cgil. «In questi giorni ha aggiunto sta ricominciando un balletto insopportabile, si vuole distruggere il sistema fiscale per dare a chi ha troppo e togliere a chi ha troppo poco. Siamo contro l'abolizione dell'Imu, non ci stiamo, perché sarebbe un modo per restituire a chi ha già molto. Se si vuole introdurre un elemento di giustizia si guardi invece a chi ha una sola casa e poi si proceda a una progressione per gli altri».
«Il tema della cassa integrazione è un tema d'unità del Paese ha continuato la leader Cgil e le regioni che hanno esaurito i fondi sono sia a Nord che a Sud. Ragione per cui non si può più aspettare, bisogna dare la certezza che ci sia il rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga bisogna dare la certezza che le risorse per rifinanziare gli ammortizzatori in deroga non vengano sottratte dalle poche altre risorse per il lavoro e si costruisca un principio di equità in questo Paese».
La questione della giustizia sociale e dell’equità è strettamente legata alle politiche redistributive e al fisco. Camusso ha voluto dedicare una riflessione all’evasione fiscale e al suo impatto sull’economia del Paese. «In questo Paese dovrebbe essere scontato, e invece ha costantemente il sapore di una verità rivoluzionaria, che l'evasione deve portare in galera. Non alle mediazioni e al passare da un'altra parte, in un altro luogo» ha detto, «non abbiamo bisogno di maestrini che ci dicano che le norme ci sono già ha aggiunto -. Perché come tutti noi sappiamo, la norma c'è quando si applica e determina concretamente delle conseguenze. E non quando si riempiono le piazze contro le sentenze sull'evasione».
La Cgil, assieme ai sindacati confederali, chiede al premier Letta di guardare con attenzione ai soggetti sociali che in questi anni si sono battuti per alleviare gli effetti sulla crisie e che hanno qualche cosa da proporre per l’interesse generale. «Sappiamo che il governo si appresta a due giorni di ritiro. Possiamo intepretarlo come il fatto che il governo vuole darsi delle regole. Al governo diciamo che la squadra che c'è da fare è quella con il Paese» ha aggiunto, «vorremmo sollecitare Letta a cominciare a dire quali sono gli appuntamenti, a incontrare tutti i soggetti. Fino a ora abbiamo avuto la sensazione che si guardi più all'interno che al Paese, lo diciamo con nettezza, le risorse che si dedicano al lavoro sono poche. Non si può accettare che, per colpa di un'emergenza, si finanzi la cig attingendo da altre voci del lavoro. Non è vero che non si possono costruire soluzioni differenti, così non ci stiamo».

l’Unità 12.5.13
Scissione Cinquestelle, parte il conto alla rovescia
Verso un gruppo autonomo a Camera e Senato. «Ci stiamo contando»
Rodotà sempre più amato. Grillo teme uno scippo di leadership
di Claudia Fusani


C’è chi scandisce una specie di conto alla rovescia, «tempo un mese e del Movimento resterà ben poco» alludendo anche a «rivelazioni pesanti». Chi, all’opposto, tenta di riportare dritta la barra e butta acqua sul fuoco: «La polemica sui nostri stipendi da parlamentari sta rasentando il ridicolo. Tanto rumore per nulla» dice il deputato emiliano Michele Dell'Orco. C’è chi racconta di un Grillo spossato e preoccupato dopo la due giorni romana a tu per tu con i “suoi” parlamentari dai quali non si aspettava tali e tanti squilli di rivolta. Altri lo immaginano persino geloso del gradimento riscosso da Stefano Rodotà, l’altro giorno, quando ha incontrato i deputati Cinque stelle alla Camera con manifestazioni di vera emozione. Sta circolando una tesi pericolosa: «Rodotà unisce, Grillo divide».
Non c’è solo la polemica sul diritto di cittadinanza su cui il grande capo s’è detto «contrario» mentre la base approva. O quella, «umiliante» come dice il senatore siciliano Campanella, sulla diaria, sui soldi da restituire oppure no. O l’altra, sul diritto di partecipare ai talk show e di esprimere opinioni personali magari diverse dal pensiero unico che dovrebbe essere dominante alla faccia del motto fondativo dei Cinque stelle «uno vale uno». Il malessere tra i Cinque stelle è molto di più. E va parecchio oltre la critica.
Mettendo insieme dichiarazioni che sono anonime per richiesta dei diretti interessati («dateci un po’ più di tempo per organizzarci meglio e capire come ci dobbiamo muovere») e altre esplicite emerse dalla due giorni a tu per tu con il Capo Beppe, il risultato è che un pezzo dei 163 parlamentari eletti potrebbe presto prendere un’altra strada. Si tratta di una trentina, ma forse cinquanta, eletti che non ne possono più: «Grillo deve smetterla di trattarci come servi e per di più sciocchi. Il detto “io ti ho creato e io ti distruggo” con noi non funziona». Ma è quello che emerge dai post pubblicati in questi giorni («Houston, abbiamo un problema. Di cresta») e la diaspora sembra matura.
I ribelli rifiutano l’ipotesi di transitare nel gruppo Misto che fa veramente tanto vecchia politica. E però «se fossimo una ventina qui alla Camera e una decina al Senato potremmo dare vita a una costola indipendente dei Cinque stelle». Una costola che guarda decisamente a sinistra, verso Sel con cui alcuni deputati ma anche alcuni senatori hanno evidenti sintonie di vedute e di opinioni. E che potrebbe aver già trovato un padre fondatore, uno di quei nomi da Pantheon, come Stefano Rodotà.
Se si vuole capire bene cosa sta succedendo tra i Cinque stelle bisogna infatti andare indietro fino a mercoledì quando il gruppo parlamentare ha organizzato l’incontro con il Professore che stava per diventare Presidente grazie alla candidatura Cinque stelle. Quell’incontro, che l’ex Garante della privacy ha dedicato soprattutto all’importanza delle capacità di mediazione in politica, si è concluso con applausi ed ovazioni, raccontano testimoni, «quasi liberatori». Il giorno dopo, giovedì, è arrivato Grillo e, si fa notare, «pensa che neppure tutti erano informati del suo arrivo».
Se è presto, forse eccessivo, per parlare di scippo di leadership, un problema di dualismo tra «Rodotà che unisce e Grillo che divide» esiste. Serpeggia. E s’ingrossa.
Ieri il leader Cinque stelle ha preferito dedicare il post di giornata («la marcetta su Brescia») ai nemici di sempre, Berlusconi, Letta e il governo che come le tre scimmiette non vede, non sente e non parla della gravità di quanto è successo ieri a Brescia. O ai temi classici come un decreto che taglia lo stipendio ai parlamentari.
Ha ripreso a parlare degli altri per lasciare sbollire gli animi in casa. Ma certe ferite non sono più curabili. Ad esempio il no secco alla legge sulla cittadinanza per gli stranieri che nascono in Italia (ius soli) che ha costretto il brillante onorevole Di Battista ha smentirsi pubblicamente dando la colpa (in modo poco elegante) a un giornalista che gli aveva carpito con l’inganno certe affermazioni. Ieri due deputati Cinque stelle ancora ricordavano, con amarezza, lo scontro verbale in assemblea tra Grillo e il senatore Campanella. «Ti sbagli Beppe, Venturino (il vice governatore siciliano cacciato perchè non ha restituito la diaria, ndr) non è un pezzo di merda» ha detto Campanella. «Zitto tu, chi credi d’essere, cosa hai fatto negli ultimi due mesi» ha replicato il leader. E Campanella: «Non mi pare una domanda pertinente ma ti rispondo: ho lavorato dodici ore al giorno». Offese ed umiliazioni. Quando è così, le storie sono finite.

Repubblica 12.5.13
Il senatore Campanella insiste con le critiche al fondatore su indennità, ius soli e democrazia interna
“Espulsioni, insulti e minacce il suo stile da leader non funziona”
di Emanuele Lauria


PALERMO — Non gli va di passare per eroe. Ma Francesco Campanella, il senatore di 5 stelle che ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi in assemblea e dire a Grillo «tu sbagli», ora chiede «un confronto paritario» dentro il movimento. Perché con la logica «o così o sei fuori», spiega, «non si va da nessuna parte». Campanella definisce «fantasiose» le voci che vogliono un nugolo di deputati pentastellati in uscita dai gruppi parlamentari: «Ma ora occorre subito un nuovo incontro fra Beppe e i parlamentari per trovare una sintesi sulla questione della diaria ».
Tutto nasce da un insulto.
«Sì, il famoso “pezzo di m...” rivolto da Grillo a Venturino (il vicepresidente dell’Ars espulso per non aver restituito l’indennità, ndr). Io conosco il destinatario dell’epiteto: non sono d’accordo con le sue valutazioni ma non meritava di essere apostrofato così. Ma il punto non è questo».
E qual è?
«Io ho criticato un modo di porsi da parte di Beppe Grillo, un approccio ai problemi che secondo me non aiuta a trovare le soluzioni. Sulla questione della diaria e non solo. Come pronta risposta, dopo la riunione, ci siamo trovati sul blog di Grillo l’accusa di volere fare la cresta».
Che non vi è piaciuta.
«Vede, la questione è semplice. Alcuni di noi hanno manifestato dubbi sulla modalità di restituzione degli emolumenti. E bisogna dire che nel regolamento questa parte è scritta in maniera non chiara. Potete verificare sul web: non si parla mai, chiaramente, di rimborso della quota della diaria non spesa. È questione di interpretazione. Io sono per la rendicontazione delle uscite e per la restituzione della parte eccedente. Ma bisogna
ascoltare chi la pensa in modo diverso, non additarlo quale traditore o ladro ».
Al di là delle interpretazioni, Grillo dice che gli impegni vanno mantenuti.
«Ma qui, alla fine, siamo tutti d’accordo
nella restituzione di una parte dei compensi. Solo che qualcuno ha spese maggiori di altri, penso alle mamme che devono pagare una baby-sitter, o magari difficili da rendicontare. Non si può dimenticare che noi, a differenza degli altri parlamentari,
già rinunciamo a 3-4 mila euro al mese».
Giusto parlare di insofferenza crescente nei confronti del Capo?
«No, mi sembra un’espressione non fedele. Di certo, il ragionamento per cui “o si fa così o sei fuori” non funziona. Le espulsioni sono una sconfitta anzitutto per chi le decide. Servirebbe maggiore ascolto. Anche perché Grillo è un attivista, seppur autorevole, come tutti noi e la funzione di leader è estranea al movimento. Bisogna tornare a incontrarsi e sono certo che troveremo una sintesi».
Quanto incide, sul malessere attuale di alcuni grillini, i dubbi legati al mancato accordo col Pd?
«Io ero a favore del dialogo con Bersani e come altri guardavo con speranza a un’accettazione da parte del Pd della candidatura di Rodotà al Quirinale. Ma Bersani non era in grado di governare un partito con troppe anime».
Nel frattempo altre incomprensioni fra Grillo e la base. Come sulla vicenda dello ius soli.
«Lo dico subito: io, a differenza di Beppe, sono d’accordo al principio dello ius soli. Ma non credo che Grillo abbia chiuso la saracinesca: lui pensa che una vicenda così delicata meriti un dibattito più approfondito».
Insomma, si prospetta una spaccatura nei gruppi di M5S?
«Non mi risulta che nessun collega stia passando al misto. Ripeto, dobbiamo tornare a incontrarci con Grillo e superare le incomprensioni».
Altrimenti?
«Amo troppo questo movimento per chiedermelo. Un mio amico oggi mi ha detto che con una rottura di 5 stelle la gente non andrebbe più al voto. E il risultato elettorale del Friuli, dove ha perso M5S e ha vinto l’astensionismo, è emblematico».

il Fatto 12.5.13
Rainews24, i fatti al posto dei monologhi di Mineo
di Carlo Tecce


Conta la reattività per un canale d’informazione che trasmette 24 ore su 24: come per il portiere che deve parare i palloni, Rainews24 deve parare le notizie. Quando per un risarcimento – fu inserita in una terna di nomi per il Tg1 – il dg Luigi Gubitosi indicó Monica Maggioni per la successione a Corradino Mi-neo, c’era tanto scetticismo: perché la promozione sembrava, appunto, una restituzione di una promessa mancata. Poi si è ricordato, per dovere di cronaca, la firma che la Maggioni appose sotto un documento in sostegno di Augusto Minzolini, che diede il via a numerose epurazioni del direttorissimo. Un po’ in ritardo, ma non quando Minzolini stava per essere cacciato, la Maggioni prese le distanze e ottenne la direzione del settimanale Speciale Tg1. L’indice di ascolto parla in favore dell’ex inviata di guerra che, tenendo conto che si tratta di percentuali minime, spinge Rainews24 un pochino sopra il mezzo punto di share in media. Ma sarebbe bizzarro criticare il servizio pubblico se non fa servizio pubblico e poi pretendere milioni di telespettatori da un canale d’informazione. Quel che si nota, invece, è proprio la reattività: dimostrata durante l’elezione del presidente della Repubblica, la formazione del governo di larghe intese e il seguente insediamento con la contemporanea sparatoria davanti a Palazzo Chigi.
NESSUN direttore, o giornalista, si può negare un po’ di vanità: la Maggioni va in video, ma non lo militarizza come Mineo che stava fisso dal buongiorno alla buonanotte e oscurava il lavoro di una redazione, per certi aspetti, pletorica. Rainews24 sta facendo sbocciare nuovi volti, non solo che stanno bene nell’occhio di una telecamera, ma che sono capaci anche di gestire emergenze: come per la strage di Boston o, ancora, la follia di Preiti nel giorno di Enrico Letta e dei suoi ministri. Un canale d’informazione dovrebbe avere immediatezza, cronaca in tempo reale, commenti per contorno: non il contrario , come spesso capitava a Mineo. Il sabato appena passato ha fornito un’agenda di appuntamenti impressionanti: la manifestazione di Silvio Berlusconi a Brescia contro la magistratura per la condanna diritti Mediaset; la marcia romana dei Fratelli d’Italia con La Russa, Crosetto e Meloni; il raduno di sinistra con Nichi Vendola e Stefano Rodotà e, soprattutto, l’assemblea del Partito democratico che ha eletto Guglielmo Epifani segretario. L’unica cosa che Rainews24 doveva fare, e l’ha fatto, avendo un po’ di ritmo televisivo e distribuendo spazi uguali, era quella di accendere le telecamere: mostrare le facce e far sentire i discorsi al pubblico. Rainews24 non ha i mezzi di Sky che, grazie a molteplici finestre interattive può offrire tanti servizi in più, ma ha il dovere – in quanto servizio pubblico – di svolgere quel ruolo per cui è stato creato e pagato: dare le notizie, il più in fretta possibile, nel miglior modo possibile e magari senza quel fastidioso mantello istituzionale. Agli editoriali ci pensano gli editorialisti.

Repubblica 12.5.13
La deputata pd Pini, 28 anni: “Il presidente mi ha chiamato, forse verrà alla laurea”
“La mia tesi su Togliatti e un caffè con Napolitano”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Questa storia inizia la settimana scorsa. Squilla il cellulare di Giuditta Pini, ventottenne deputata del Pd. «Onorevole, è la Presidenza della Repubblica. Il Presidente vorrebbe incontrarla venerdì prossimo». Panico. «Va bene, ci sarò». Sette giorni dopo, di buon mattino, la parlamentare si ritrova nello studio del Capo dello Stato, faccia a faccia con Giorgio Napolitano. «Siedi pure. Posso offrirti un caffé? Un biscotto? ». Lei ringrazia, ma ha lo stomaco chiuso e la voglia matta di sapere perché si trova lì. «Non ci avevo dormito. Continuavo a chiedermi: che ho combinato?». Lo capisce in fretta: «Il Presidente fa uscire tutti. E dice: “So che hai scritto una tesi su Togliatti, ti va di parlarmene?”».
Pini viene da Modena. Veste molto casual, scarpe da tennis e zainetto. Indossa occhiali da sole rossi, anche in Parlamento. Come ai tempi dell’Onda studentesca del 2008. Deve discutere la tesi in Lettere e Filosofia. «Parla di Togliatti, del rapporto con la moglie Rita Montagnana e con Nilde Iotti. Della morale del Pci dal 1940 al 1960. E di come la stampa trattava la questione». Napolitano, incuriosito, l’ha chiamata.
Si è presentata al Quirinale di buon mattino. «Ehm, avrei un appuntamento con il Presidente... ». L’hanno identificata, poi su veloce verso lo studio presidenziale. «Gli ho parlato della tesi. Poi il Presidente è intervenuto. Conosceva Togliatti e mi ha parlato anche di Longo e di Pajetta». Si è commosso? «No, lui no. Io? No, ero terrorizzata, immobile sulla sedia... poi mi sono sciolta. Devo dirlo, il Presidente è un signore. Un padre della patria».
Discutono, le chiede della nuova esperienza: «Mi ha dato consigli, si è informato dei miei colleghi. Anche lui è diventato deputato a 28 anni. Ma allora si interveniva in Aula dopo tre anni... Erano carriere lunghe...». Il tempo scorre, il Presidente si informa dell’Emila dopo il sisma. L’agenda è fitta: «Glielo ricordano. Annuisce. Però prosegue...». Lo strano faccia a faccia è agli sgoccioli. «Mi dona l’autobiografia firmata. E mi dice: “Proverò a venire alla discussione della tua tesi». Panico bis.
Svestiti i panni quirinalizi, Pini scappa da una delegazione di OccupyPd. In jeans e occhiali rossi. Scioglie la tensione con una maxi Peroni e una sigaretta. E del Pd proprio non avete parlato? «No. E comunque - sorride mica lo direi...».

La Stampa 12.5.13
Donne, il volto sfregiato
di Lorenzo Mondo


La cronaca nera, prodiga di misfatti, ha offerto in pochi giorni grevi testimonianze, con diverse tipologie, sulle persecuzioni cui vengono sottoposte le donne nel nostro paese. Si è accertato intanto che la baby sitter di Ostia ammazzata con venti coltellate è stata vittima di un uomo che non accettava l’interruzione del loro rapporto. Aveva il diritto di vivere esercitando una piena libertà, anche se aveva frequentato incautamente uno già condannato a 18 anni per omicidio. È l’ennesimo caso del “femminicidio” che, con i suoi numeri imponenti, rappresenta ormai una emergenza nazionale. Ma ecco affacciarsi in questa impari guerra tra i sessi una nefanda variante. A Vicenza una donna ha denunciato di essere stata aggredita in casa da due incappucciati che l’hanno costretta a versarsi su un braccio e sulla schiena una bottiglietta di acido. E’ il seguito di due episodi che si sono presentati recentemente con ben altre conseguenze. Lucia, un avvocato di Pesaro, è stata sfregiata al volto con acido solforico da due sicari: assoldati con ogni apparenza da un collega, frustrato dall’abbandono. Stesso trattamento per Samantha, nel Milanese, ad opera di un ignoto scooterista: impiegata di un supermercato e incinta, ha riportato gravi lesioni a un occhio.
Lo spirito di sopraffazione nei confronti del genere femminile è una piaga atavica che in Italia conserva robuste radici. Un rapporto delle Nazioni Unite lo imputa a “una società patriarcale dove la violenza domestica non è sempre vissuta come un crimine... e persiste la percezione che le risposte dello Stato non saranno appropriate o utili” (quante molestie, minacce e denunce restano inascoltate dai familiari, dai vicini e dagli inquirenti).
La ministra Idem ha riconosciuto l’urgenza di un Osservatorio nazionale che affronti una buona volta il fenomeno. Ma quale aberrazione induce nel progredito Occidente ex fidanzati, amanti, mariti a inventarsi nuove “punizioni”, emulando le pratiche feroci di culture degradate, corrotte dai fondamentalismi etnici e religiosi? Lo sfregio è una condanna che dura. Al di là delle ferite non rimarginabili, sembra colpire nel profondo l’essenza della femminilità. E’ un attentato contro la seduzione suscitata dal volto e dagli occhi di una donna, quella che il maschio fattosi nemico ha desiderato e amato, della quale avrebbe voluto conservare il possesso. Paradossalmente, egli esprime con il suo gesto l’inferiorità, la carenza, nei riguardi di un essere che, anche per questa via, gli si rivela nell’intimo più dotato e più forte.

Repubblica 12.5.13
La paura e i Pavlov leghisti
di Michele Serra


È IN Italia dal 2011, in attesa di risposta alla domanda di asilo. Vive – diciamo così – nelle smagliature di una rete giudiziaria e poliziesca che non è in grado (anche per i costi molto elevati) di espellere chi non ha diritto, ma neppure di legalizzare chi lo avrebbe.
Nella rudimentale dialettica della politica italiana, niente è più prevedibile del riflesso pavloviano che l’evento scatena. Passano poche ore e la responsabilità di quel sangue viene scaricata addosso al ministro per l’integrazione del governo Letta, l’afroitaliana Cécile Kyenge: «Quei clandestini che il ministro dice di voler regolarizzare ammazzano la gente a picconate», dice il capo dei leghisti milanesi Matteo Salvini. Proprio così, dice. “Quei clandestini”, proprio quelli “che il ministro dice”, ammazzano la gente a picconate.
È una volgarità e una scempiaggine, come tutte le attribuzioni di colpa che esulano non solo dalle responsabilità personali (comprese quelle politiche), ma anche dai più elementari nessi di causa ed effetto: non tutti i clandestini sono assassini; non tutti gli assassini sono clandestini; il ministro Kyenge non ha mai dichiarato, in nessuna sede, che intende “regolarizzare” tutti i clandestini né tutti gli stranieri, men che meno quelli assassini e pazzi; tutt’altro è il dibattito che verte sul riconoscimento della cittadinanza ai figli di stranieri nati qui e qui residenti in modo continuativo, eccetera eccetera eccetera.
Ma non è questo il punto, ovviamente. Non interessano, là dove attecchisce la pianta della paura dello straniero e dove la si mette a frutto, né gli argomenti né le discussioni. Il punto è che Cécile Kyenge è un’italiana nera; peggio, è un’italiana nera diventata ministro. E come dimostrano le orribili scritte murali di questi giorni, e le infinite lordure razziste, segregazioniste, naziste consegnate al web, è considerata un affronto da vendicare o una bizzarria della quale ridere; donna, nera e ministro è uno scandalo intollerabile, come mostrare il nudo a un bacchettone, o la croce al vampiro. E si scatena la canea. Nella più affettuosa delle ipotesi la scelta di nominare ministro una donna nera viene dileggiata da polemisti di destra come “buonista”, una delle parole più stupide e di conseguenza più fortunate impresse (da polemisti di destra) nel vocabolario politico-mediatico nazionale; così stupida che, per esempio, trascura di riflettere sul fatto che una signora che da molti anni lavora sull’integrazione magari ha qualche attitudine o conoscenza in più (rispetto, per esempio, a Matteo Salvini) per fare, appunto, il ministro dell’integrazione.
Se poi un ministro di origine congolese (Africa centrale) si insedia poco prima che un clandestino di nazionalità ghanese (Africa occidentale) impazzisca e uccida, alla paranoia etnica che soprattutto nel Nord Italia sta vivendo una lunga e fortunata stagione non pare vero di poter sommare “negro” con “negro”. Come se un belga e un greco, un tedesco e un portoghese fossero, in quanto “bianchi”, la stessa cosa e magari la stessa malerba da estirpare. Nella geografia per sentito dire, le migliaia di chilometri di distanza diventano pochi palmi, nel mazzo generico e detestabile dell’invasore straniero i neri sono solo un mucchietto indistinto.
Ne sentiremo purtroppo delle brutte, nelle prossime ore, nei prossimi giorni e mesi. La paura dello straniero, specie sotto crisi economica, è un bacino inesauribile per chi fa politica. La Lega governa ancora la Lombardia e ha governato, per molti anni, il Paese: ma la retorica sulla “responsabilità di governo” non regge il confronto, a conti fatti, con l’irresistibile istinto originario, il richiamo della foresta. Ormai albanesi e rumeni, che a turno si videro attribuire il primato della pericolosità sociale, sono in buona parte integrati o ritornati nei loro paesi, che hanno economie in ascesa. I lavavetri polacchi, che parevano orde inarrestabili, sono appena un ricordo: rincasati anche loro, per migliore fortuna. Una ministra nera, che trama per aprire le porte di casa nostra ad altri neri armati di piccone, è una eccellente new entry nel campo della speculazione xenofoba. Chissà se Cécile Kyenge, quando ha accettato il suo incarico, ha messo nel conto l’odio che avrebbe catalizzato, così immeritatamente, così assurdamente eppure così prevedibilmente.

l’Unità 12.5.13
Cittadinanza: ecco cosa accade nel resto d’Europa


In Inghilterra acquisisce la nazionalità britannica chi nasce sul territorio britannico anche da un solo genitore che sia già cittadino britannico al momento della nascita, o che è legalmente residente nel Paese a certe condizioni (si deve possedere l’«Indefinite leave to remain» (Ilr), oppure «Right of Abode»). La nazionalità si può anche acquistare per «ius sanguinis«, cioè per discendenza, ma solo se almeno uno dei genitori è già cittadino britannico, a sua volta non per ius sanguinis. Altrimenti servono cinque anni di residenza legale. In entrambi i casi si deve passare un test di conoscenza della lingua e cultura britannica.
In Francia la cittadinanza può essere acquisita sia per filiazione (ius sanguinis) che per nascita (ius soli). Si è francesi se anche solo uno dei genitori è francese, anche se naturalizzato. Chi è nato invece da cittadini stranieri, se ha avuto almeno 5 anni di residenza in Francia dall'età di 11 anni e ne fa richiesta alla maggiore età (18 anni), può acquisire la cittadinanza. Il processo di naturalizzazione (che non è automatico) richiede che lo straniero maggiorenne dimostri almeno cinque anni di residenza, ma si riduce a due per chi ha studiato in una «Grande Ecole».
In Germania la cittadinanza si acquista per ius sanguinis, ma attualmente questo principio è attenuato da una riforma che introduce elementi di ius soli. I bambini nati dal primo gennaio del 2000 sul territorio tedesco da genitori non tedeschi acquisiscono la nazionalità se almeno uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni ed è residente in Germania da almeno 8 anni.
In Spagna la cittadinanza si acquisisce per nascita da padre o madre spagnola, oppure per nascita sul territorio anche da cittadini stranieri, di cui però almeno uno deve essere nato anch'esso in Spagna. Per naturalizzazione, dopo residenza legale per 10 anni, ma questo tempo viene ridotto a cinque anni per chi viene riconosciuto come rifugiato politico.

La Stampa 12.5.13
La rivelazione dello «Spiegel»: Migliaia di persone sottoposte a loro insaputa a test pericolosi
Aziende occidentali facevano oltre il Muro esperimenti altrove vietati
“Nella Ddr cavie umane per i farmaci”
di Alessandro Alviani


Migliaia di tedeschi dell’Est vennero usati come cavie dall’industria farmaceutica tedesco-occidentale, spesso a loro insaputa e col consenso della Ddr, che vedeva nei test un modo per procurarsi preziosi marchi occidentali. Le accuse di esperimenti clinici condotti su ignari pazienti orientali si rincorrono da mesi. Documenti inediti del ministero della Sanità della Ddr, della Stasi e dell’Istituto farmacologico citati ora dallo «Spiegel» ricostruiscono le dimensioni di un fenomeno a lungo dimenticato nella Germania riunificata.
Stando al settimanale, alcune aziende farmaceutiche occidentali commissionarono a più di 50 cliniche della Ddr oltre 600 studi farmacologici. Molti di più, cioè, di quanto noto finora: a fine 2012 il «Tagesspiegel» aveva scritto di 165 studi tra il 1983 e il 1989. Due settimane fa degli storici dell’ospedale Charité avevano parlato di 500 test commissionati da circa 50 case farmaceutiche occidentali a partire da metà Anni 70. In totale, secondo « Spiegel», fino alla caduta del Muro più di 50 mila persone subirono test, ad esempio per chemioterapeutici o farmaci per il cuore.
Svariati esperimenti ebbero conseguenze mortali e furono interrotti. «Spiegel» ricorda il caso di test condotti col Trental, un medicinale contro problemi vascolari prodotto dalla Hoechst (oggi nel gruppo Sanofi) e con lo Spirapril, un farmaco per abbassare la pressione del sangue sviluppato da Sandoz, oggi nel gruppo Novartis. Alla clinica universitaria Charité, a Berlino-Est, la Boehringer-Mannheim (poi inglobata nel gruppo Roche) sperimentò l’Epo su trenta neonati prematuri. Bayer testò la nimodipina, un preparato per migliorare il flusso sanguigno cerebrale, su degli alcolizzati in uno stato acuto di delirio.
Per ogni studio le aziende offrirono fino a 800 mila marchi occidentali (circa 400 mila euro). Alcuni manager della Schering AG, che oggi fa parte della Bayer, fecero ventilare addirittura una somma di sei milioni di marchi l’anno per dei test allo Charité. «Schering deve avere all’Ovest problemi etici», commentò allora un medico dello Charité. Al di là del Muro, invece, gli scrupoli sembravano scomparire. Ma le aziende interessate hanno spiegato che in linea di principio i test si svolsero seguendo severe disposizioni.

il Fatto e  The Guardian 12.5.13
Natalie Nougayrède, prima donna alla direzione
Io, dall’Est comunista alla guida di Le Monde
di Angelique Chrisafis


Nel suo ufficio all’ultimo piano della sede parigina di Le Monde, Natalie Nougayrède, 47 anni, la prima donna a dirigere il prestigioso quotidiano francese, ammette di essere arrivata in cima alla piramide in un momento in cui “Le Monde è in una fase particolare”. Dopo dieci anni di bilanci in rosso e timori di fallimento, due anni fa il quotidiano è stato acquistato da uno strano trio di uomini d’affari: Pierre Bergé, ex socio di Yves Saint-Laurent, Xavier Niel, magnate delle telecomunicazioni arricchitosi con le chat erotiche, e il banchiere Mathieu Pigasse. Promettendo di rispettare l’autonomia editoriale e la collocazione di centro-sinistra del giornale, i tre uomini d’affari finanziarono un’operazione di ammodernamento del quotidiano famoso per la sua prosa pesante e seriosa e per la mancanza di foto.
IL GIORNALE lanciò alcuni supplementi tra cui M e il popolare supplemento scientifico del sabato. Negli ultimi due anni il gruppo ha chiuso il bilancio in attivo, ma gli obiettivi sono più ambiziosi. La direzione era stata affidata a Erik Izraelewicz che lo scorso novembre ha avuto un infarto negli uffici del giornale ed è morto. Aveva 58 anni. “Perdere il direttore è un fatto traumatico. È stato un duro colpo per noi tutti”, dice Nougayrède.
A marzo, l’80% della redazione le ha manifestato il suo gradimento e Natalie è diventata la prima direttrice donna di Le Monde. “Abbiamo deciso che bisognava andare avanti dandoci nuovi obiettivi, ma conservando i fondamentali del giornale, in particolare la sua autonomia”. Il mese scorso il tema dell’autonomia del giornale dagli azionisti è stato messo alla prova quando Bergé ha attaccato la decisione di pubblicare un annuncio pubblicitario contro il matrimonio gay. Bergé, che sosteneva la posizione del governo sul matrimonio omosessuale, ha twittato una serie di commenti furibondi quando il giornale ha ospitato una pagina acquistata da una organizzazione che si opponeva al disegno di legge. Nougayrède si limita a commentare che l’annuncio “non viola le norme di Le Monde in materia di pubblicità. Gli azionisti hanno tutto il diritto ad avere le loro opinioni. Noi facciamo il nostro lavoro. Io dirigo il giornale e sono responsabile della sua autonomia, della qualità dei contenuti e del comportamento dei giornalisti”.
La direttrice aggiunge che gli azionisti non hanno il diritto di interferire sui contenuti giornalistici. “Abbiamo un accordo che vieta agli azionisti qualunque forma di intervento sui contenuti del giornale e sono decisa a pretendere il rispetto di questo accordo”. Per molti versi Natalie Nougayrède è una outsider. Non ha mai ricoperto ruoli di un qualche rilievo all’interno del giornale fondato nel dicembre del 1944 dopo la liberazione, sulle spoglie di un precedente quotidiano che si era compromesso con le forze di occupazione tedesche. La nuova direttrice è stata una infaticabile corrispondente nei Paesi dell’est europeo e nella Russia di Putin e ha ottenuto ambiti riconoscimenti per i servizi in occasione dell’assedio di Beslan e del conflitto ceceno. È ritornata in sede nel 2005 per occuparsi di rapporti con la stampa estera facendolo in modo talmente irriverente da provocare l’irritazione del ministro degli Esteri Bernard Kouchner. La sua idea di giornale si fonda sulla convinzione assoluta che giornalisti e politici non debbano avere rapporti troppo stretti. “Potrà sembrare una cosa ovvia, ma mi è sembrato utile sottolineare che nel raccogliere e pubblicare le notizie non debbono esistere vincoli di amicizia con gli esponenti del potere. Bisogna evitare di creare rapporti tali da mettere in pericolo la propria autonomia di giornalisti”.
Natalie Nougayrède intende garantire la reputazione del giornale che dirige puntando sul giornalismo d’inchiesta e sui reportage di qualità. Il mese scorso il reportage sui paradisi fiscali – realizzato in collaborazione con altri giornali europei – ha fatto lievitare significativamente le vendite e i contatti sul sito web. “In un momento in cui siamo invasi da informazioni provenienti da una infinità di fonti diverse e le agenzie di pubbliche relazioni sono attivissime in campo politico e in campo economico, è importantissimo avere dei punti di riferimento”, dice Natalie Nougayrède.
“Considero estremamente importante che i nostri articoli e le nostre analisi poggino su fatti certi e dimostrabili. Sono nemica giurata delle approssimazioni. Esigo che tutto quello che pubblichiamo sia vero e possa essere dimostrato. Potrà sembrare una regola ovvia e banale per i giornalisti inglesi o americani, ma credo che questo approccio debba essere sottolineato e ribadito in un Paese come la Francia dove per tradizione abbondano i commenti a scapito dei fatti. Per lunga tradizione i giornali francesi si schierano politicamente e commentano gli avvenimenti politici. Fermo restando che su certi temi ci schiereremo e prenderemo posizione, voglio che l’obiettivo principale del giornale sia quello di diventare una autorevole, affidabile fonte di informazioni e notizie”.
LA PRIMA MOSSA importante della nuova direttrice è consistita nel lanciare un supplemento giornaliero dedicato all’economia che si chiama Eco & Entrerprise. Le Monde conta molti lettori tra i colletti bianchi, i manager pubblici e privati, gli operatori finanziari eppure, a differenza di altri giornali, quali ad esempio il quotidiano di destra Le Figaro, non aveva in passato un supplemento dedicato espressamente alle questioni economiche. Il nuovo supplemento è molto eclettico e consente alla redazione di politica estera – la più grande tra tutti i giornali francesi – di svolgere inchieste giornalistiche e di scrivere reportage sui mercati emergenti e sulle nuove tecnologie. “Nel mondo in cui viviamo sono poche le notizie che non siano in un modo o nell’altro riconducibili all’economia”, dice Natalie Nougayrède.
La sfida più grande delle nuova direttrice è la rete. Al pari di altri giornali francesi, il sito di Le Monde (lemonde.fr) ospita contenuti gratuiti e contenuti a pagamento, articoli di approfondimento, analisi, materiale d’archivio, video e inchieste disponibili pagando un abbonamento di 15 euro al mese. Il sito, con i suoi due milioni di visitatori al mese, è il più grande di Francia nel campo dell’informazione. Attualmente il giornale conta 43 mila abbonati alla sola edizione online e 67 mila abbonati alla edizione online e a quella su carta. La circolazione è di circa 319 mila copie, ma il giornale è letto ogni giorno da 1 milione e 900 mila persone.
L’OBIETTIVO della direttrice è di triplicare o quadruplicare nel giro di pochi anni il numero degli abbonati alla versione online. Il mese scorso il giornale ha ammodernato l’edizione online con una nuova grafica, una maggiore facilità di navigazione e l’accesso esclusivo ad alcuni articoli prima che vengano pubblicati sul quotidiano in vendita nelle edicole. Grande successo ha avuto l’archivio digitale che risale al 1944. “Questo sta a indicare che oggi la gente sente il bisogno di punti di riferimento”, osserva Nougayrède. “I lettori non si accontentano delle notizie, ma vogliono contestualizzarle andando a vedere i precedenti”. Ultimo obiettivo della direttrice è quello di creare una unica redazione mettendo insieme i giornalisti del giornale su carta e quelli dell’online che ora appartengono a due mondi diversi. “È una autentica rivoluzione e intendiamo procedere poco alla volta”.
OLTRE a corteggiare i lettori di lingua francese in Africa e in altre parti del mondo, Natalie Nougayrède – che è bilingue ed ha vissuto in Gran Bretagna e in Canada – punta anche al mercato inglese pubblicando sul sito una selezione di articoli tradotti in inglese. “Certo la Francia non ha l’influenza che aveva 30 o 40 anni fa, ma rimane pur sempre un Paese che ha qualcosa da dire sui principali temi internazionali”. Il tradizionale giornale di carta esisterà sempre? “Non mi sembra il caso di seppellire il giornale cartaceo”, risponde. “Chi può dire cosa accadrà tra 50 anni! Una cosa è certa: per sopravvivere il quotidiano tradizionale deve puntare alla qualità e deve essere più selettivo”.
© The Guardian Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 12.5.13
Germania, Spiegel: I Verdi erano pro pedofili


Il partito dei Verdi tedeschi, negli anni ’80, era più impegnato di quanto si sapesse finora, a sostegno di organizzazioni pro pedofili. Lo scrive lo Spiegel, secondo cui il partito ecologista avrebbe finanziato direttamente un’associazione che si batteva per la liberalizzazione del sesso con i minori. Ansa

Corriere 12.5.13
Uccisa in casa a otto anni, non fu uno
sconosciuto ma il fratellino di 12: arrestato
La piccola massacrata a accoltellate mentre i genitori non c'erano
Polemiche per il fermo, previsto solo dopo i 14 anni
di  Alessandro Fulloni

qui

l’Unità 12.5.13
La distruzione della sintassi da Marinetti a Twitter
di Massimo Adinolfi


A che punto è la distruzione della sintassi? Giusto cent’anni fa, l’11 maggio 1913, sembrava che l’ora fosse finalmente scoccata, e Filippo Tommaso Marinetti si considerava pronto per esprimere il proprio lirismo «per mezzo di parole essenziali in libertà».
Solo un anno prima aveva scritto il «Manifesto tecnico della letteratura futurista» (c’è stato un tempo in cui anche la letteratura si è affidata ai tecnici?). Inutile dire che Marinetti nulla sapeva della grossa mano che Twitter gli avrebbe dato nell’impresa. Mica ne va solo della presidenza della Repubblica, con i tweet! Provateci infatti voi a rispettare sintassi e interpunzione nei soli 140 caratteri a vostra disposizione: impresa vana. Perciò comincerete anche voi, come il poeta, a «distruggere brutalmente la sintassi nel parlare», a non «perdere tempo a costruire periodi» (non ne avete lo spazio), a «infischiarvene della punteggiatura e dell’aggettivazione» e a «diminuire il numero delle vocali e delle consonanti» (le abbreviazioni!). Come vedete, all’immaginazione senza fili di Marinetti mancavano solo le faccine, tutto il resto c’era già.
Non per caso. Basta scorrere l’elenco dei «fenomeni significativi» che Marinetti snocciola prima di enunciare il suo programma letterario, per trovarci un bel po’ di cose che oggi non sono altrettanto significative solo perché sono divenute ovvie. Ad esempio: una «nuova sensibilità finanziaria». La finanziarizzazione dell’economia, che sta sul banco degli imputati della crisi, si era in realtà cominciata a formare già allora, in un epoca che, quanto a globalizzazione del commercio, non avrebbe nulla da invidiare alla nostra. E infatti Marinetti scrive: «Gli uomini conquistarono successivamente il senso della casa, il senso del quartiere in cui abitavano, il senso della città, il senso della zona geografica, il senso del continente. Oggi posseggono il senso del mondo». Posseggono cioè, o forse sono posseduti, dalla globalizzazione.
Oppure: «passione, arte e idealismo dello sport. Concezione e amore del record», dice Marinetti, che pure del doping non sapeva assolutamente nulla. Ma, senza tirare in ballo vicende spiacevoli, basta pensare che la Juventus, che ha già vinto il campionato, va ancora a caccia del record di punti nelle ultime partite che rimangono.
O ancora, prosegue Marinetti: «orrore di ciò che è vecchio e conosciuto. Amore del nuovo e dell’imprevisto».
Ogni riferimento alle vicende del Pd è evidentemente da escludersi, ma non la retorica giovanilistica che entra in politica proprio in quegli anni, quando cominciano ad apparire le prime «metafisiche della gioventù» (Walter Benjamin), mentre per Platone, cioè per il più castale dei filosofi, non bisognava accostarsi alla filosofia (e alla politica) prima dei cinquant’anni. Muffa! Vecchiume!
Infine, un ultimo esempio: l’«uomo moltiplicato dalla macchina». Che vuol dire: la mutazione antropologica, le questioni bioetiche, le protesi, la medicina performativa sono tutte cose già scritte in quel testo di cent’anni fa. Marinetti ignorava i dettagli, ma non aveva bisogno di conoscerli per comprendere come stesse cambiando il mondo.
Non aveva né l’ipod, né lo smartphone né internet, ma gli bastavano «il telegrafo, il telefono, il grammofono», oppure il cinematografo e il «grande quotidiano (sintesi di una giornata del mondo)» per «palpitare d’angoscia», leggendo di vicende che potevano accadere all’altro capo del mondo, in Cina o nel Congo.
In parte, per la verità, si sbagliava, perché noi palpitiamo di sicuro per la Cina, ma molto meno per il Congo, segno che tutte queste straordinarie trasformazioni e la grande distruzione che comportavano e la libertà che promettevano, persino alle parole, non andava a vantaggio di tutti, non avvicinava tutte le distanze, e non rendeva affatto il «mondo piatto», come scriveva ottimisticamente Thomas Friedman qualche anno fa. Dislivelli e sproporzioni, vette di privilegi e abissi di povertà non sono stati affatto distrutti.
Ma mentre Marinetti non sentiva il bisogno di mettere questo eguagliamento in cima alle sue preoccupazioni, noi forse un tal bisogno lo sentiamo, e comprendiamo che se la distruttiva velocità penetrata dentro le nostre vite quotidiane non può essere frenata, può forse essere messa in qualche forma e aggiustata di direzione. Perché va bene il «declamatore futurista» e l’«ortografia libera espressiva», ma alla fine qualcosa vogliamo pur continuare a capire. E a capirla, se possibile, con tutti.

l’Unità 12.5.13
La lingua originaria
Gli idiomi euroasiatici nascono da un unico codice
La scoperta viene da uno studio britannico: gli scienziati hanno preso in esame sette «famiglie» linguistiche e trovato un gruppo di parole che hanno gli stessi suoni
di Cristiana Pulcinelli


«TUTTA LA TERRA AVEVA UNA SOLA LINGUA E LE STESSE PAROLE», COSÌ COMINCIA IL BRANO DELLA GENESI CHE RACCONTA LA STORIA DELLA COSTRUZIONE DELLA TORRE DI BABELE. Il seguito è noto: gli uomini decisero di costruire una torre alta fino al cielo per arrivare a Dio e non disperdersi sulla Terra, ma Dio li vide e pensò di confondere la loro lingua, in modo che non si capissero più tra loro e quindi che non riuscissero a portare a termine il loro ambizioso progetto. Così fu. La torre fu abbandonata e gli uomini si dispersero sulla Terra, parlando tante lingue diverse tra loro.
Il racconto è la spiegazione mitologica del perché noi esseri umani, pur appartenendo tutti alla stessa razza, non ci capiamo. Sotto la leggenda dell’origine delle differenze linguistiche, però, potrebbe esserci qualcosa di vero. In particolare, sembra che circa 15.000 anni fa gli uomini avessero davvero una sola lingua. Per dirla in modo più scientifico: le lingue che oggi vengono parlate da miliardi di persone in Europa e in Asia discenderebbero tutte da un’unica lingua.
La scoperta viene da un’analisi condotta da un gruppo di ricercatori guidati da Mark Pagel dell’università di Reading nel Regno Unito ed è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the national Academy of Sciences.
Gli scienziati hanno preso in esame sette famiglie di lingue dell’Eurasia: altaiche (tipiche dell’Asia centrale e orientale), ciukotko-kamciatke (dell'estremo est della Russia), dravidiche (parlate in India meridionale, Sri-Lanka, Pakistan e Nepal), eschimesi, indoeuropee (la quarta famiglia al mondo per dimensioni che comprende 430 lingue vive, tra cui molte di quelle parlate in Europa), kartvediche (o caucasiche meridionali) e uraliche. In breve, le lingue parlate in un’area che va dal Portogallo alla Siberia e dall’India alla Svezia. Quello che hanno visto è che tutte derivano da una lingua ancestrale usata da gruppi di persone che probabilmente vivevano nell’Europa meridionale alla fine dell’ultima era glaciale.
Per i linguisti non è un’idea nuova: da anni si discute di una possibile superfamiglia di lingue euroasiatiche. Ma la dimostrazione di questa ipotesi non è semplice. Il problema principale è che le parole evolvono troppo rapidamente per preservare i tratti dei loro antenati. La maggior parte delle parole ha il 50% di possibilità di venir rimpiazzata da un altro termine che non ha nessuna relazione con la parola originaria) ogni 2000-4000 anni. Tuttavia, alcune parole hanno una vita più lunga. In uno studio di qualche anno fa, la stessa équipe guidata da Pagel aveva dimostrato che alcune parole possono sopravvivere, come suoni che rimangono associati allo stesso significato, per oltre 10.000 anni prima di venir rimpiazzate. Pensiamo alla parola fratello, in inglese è brother, in francese frère, in latino è frater e in sanscrito bhratr. Come si vede sono collegate fra loro nonostante le distanze temporali. Tra le parole che cambiano di meno ci sono i pronomi usati più di frequente, i numeri e alcuni avverbi.
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno individuato un elenco di 23 parole ritrovate in almeno quattro delle sette famiglie di lingue analizzate. La maggior parte delle parole sono quelle più usate, come i pronomi io o tu o nomi come madre, ma ci sono anche sorprese come ad esempio il verbo sputare, to spit in inglese, che si ritrova con le dovute differenze in molte lingue moderne, o la parola verme, in inglese worm, e l’inglese bark che in italiano si può tradurre con corteccia ma anche con barca, un legame stabilito probabilmente dal fatto che le prime barche venivano fatte proprio con la corteccia. «La corteccia era davvero importante per i popoli primitivi ha spiegato Pagel al quotidiano inglese The Guardian -, la usavano per isolare, per accendere il fuoco e ne ricavavano fibre. Ma non mi aspettavo di trovare nella lista il verbo sputare. Non ho idea del perché sia lì».
La ricerca conferma anche un dato che era emerso già precedentemente: il rapporto tra frequenza di uso attuale e probabilità di conservazione nel tempo. Le parole che, nell’uso quotidiano, si presentano con una frequenza superiore a una su 1000 hanno una probabilità da 7 a 10 volte maggiore rispetto alle altre di avere un’antica antenata. Come si spiega questo fenomeno? Gli studiosi pensano a due possibili risposte: nel caso delle parole più frequenti, nuove forme fonologiche possono emergere più raramente perché gli errori di percezione o di memoria o di produzione del suono sono meno comuni. Oppure, la mutazioni avvengono tutte con la stessa frequenza, ma il maggiore uso di una parola fa abbassare la probabilità che le nuove varianti vengano adottate dalla popolazione. Alla base di tutte e due queste spiegazioni c’è comunque l’ipotesi della «mano invisibile», applicata da Adam Smith all’economia: nessuno di noi inventa nuove parole o forme grammaticali, ma l’uso che facciamo della lingua (errori di pronuncia o slittamenti di significato) influenza la trasmissione della lingua stessa. Insomma, siamo noi individui a fare la lingua del futuro.

La Stampa 12.5.13
Berlino Anni 30 la Babilonia prima di Hitler
Hessel e Isherwood ripropongono il clima euforico ma fitto di paure della Repubblica di Weimar
di Luigi Forte


Tingel Tangel è il titolo di questo dipinto di Rudolf Schlichter del 1919

Si riaccendono le luci sulla scena della Berlino weimariana, che in poco più di un decennio divenne l’icona della modernità, dove nonostante inflazione, caos e miseria, un pubblico eclettico e stravagante folleggiava inconsapevole di fronte all’incombente apocalisse. Metropoli dai molti volti, immortalata dalla fantasia impietosa di artisti come Grosz o Dix, scenario eccentrico che ora riemerge con leggerezza e ironia da due romanzi d’epoca: Berlino segreta di Franz Hessel del 1927 tradotto per la prima volta in italiano da Eva Banchelli (elliot editore) e Addio a Berlino dell’inglese Christopher Isherwood riproposto da Adelphi nella versione di Laura Noulian. Dal libro uscito nel 1939, poi rilanciato come commedia e musical, il regista Bob Fosse trasse nel 1972 il film Cabaret con una splendida Liza Minnelli.
Berlino era la Babilonia tedesca che Joseph Roth sviscerò nei suoi elzeviri per il giornale Frankfurter Zeitung offrendo un singolare e ancor oggi vivacissimo affresco di quegli anni. Una strana congerie dove, a dar retta al caustico Karl Kraus, ogni scemo era un personaggio, e dove perfino una natura semplice come lo scrittore svizzero Robert Walser, che vi cercò inutilmente fortuna, sentiva profumo di peccato. Per l’ebreo Franz Hessel, nato a Stettino nel 1880 ma cresciuto nella capitale, la città era invece inafferrabile perché «sempre in procinto di trasformarsi e mai adagiata nel suo ieri». Di Berlino Franz Hessel fu un nostalgico cicerone. Nulla gli era meno congeniale del ritmo febbrile e caotico di quegli anni. Scrutava la metropoli, a cui nel 1929 dedicò un bizzarro vademecum, non con l’occhio del turista ma del flâneur, cioè di un passante con la dignità del prete e il fiuto del detective, come scrisse l’amico Walter Benjamin in una delle sue recensioni che diedero notorietà allo scrittore proiettandone il vagabondaggio oltre la soglia del suo tempo, al crocevia fra passato e presente. Berlino diventa per il viandante e outsider Hessel, che legge la strada come un libro, lo scenario di una malinconia che riscatta fantasmi lontani e ricompone un ordine e un senso dietro la dissoluzione della modernità. Nel romanzo essa rientra in uno spazio circoscritto, l’area a ridosso del Landwehr- kanal, la zona del vecchio Ovest in cui si muove una borghesia travolta dall’inflazione e votata al declino.
In dodici frammenti o scene, nell’ arco di una giornata di primavera del 1924 si snoda la vicenda dello studente Wendelin in procinto di partire, diviso fra molti amori, fra cui l’affascinante Karola, moglie dell’anziano professore di filologia Clemens Kestner. Salotti dell’alta borghesia in disarmo, pittoreschi cabaret e locali notturni, soubrette e dandy, omosessuali, libertini, affaristi e parvenu si spartiscono la scena di una città che pullula di reminiscenze mitologiche e cerca il suo segreto dietro il vuoto sfavillio di un presente senz’anima. Un segreto che il socratico Clemens, traduttore di Omero, scopre in un nuovo ethos, un’utopia capovolta per tempi d’indigenza. «Godi con gioia ciò che non hai», consiglia al frivolo Wendelin esaltando una libertà fatta di rinuncia. Hessel, sciamano della modernità dotato di poteri antichi, evoca un sedimento umano dietro l’artificiosa fantasmagoria del presente, attento tuttavia alle seduzioni della città che impressiona e riplasma nel suo linguaggio.
Durante il soggiorno berlinese tra il 1929 e il 1933, quando Hitler sale al potere, Isherwood si propone invece di cogliere la realtà in modo impersonale: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa», dichiara in Addio a Berlino composto da sei pezzi raccolti in una narrazione pressoché continuativa. In tal modo l’ex studente di Cambridge, per un breve periodo compagno di vita del poeta W. H. Auden, mette a fuoco con lucidità e charme narrativo la Berlino del tempo che nelle pagine di Hessel, archeologo della memoria, appare sfocata e stilizzata.
I flash dell’inglese raccontano un paesaggio urbano ancora pulsante fra luci e ombre, una metropoli carica di «falci e martelli e svastiche naziste», fra degrado sociale e violenze. Egli si immerge nell’attualità per rappresentare «la prova generale di una catastrofe» e annota: «Era una sensazione strana, misteriosa, paurosa, come dormire soli nella giungla». Sulla passerella del romanzo sfilano personaggi indimenticabili: la signora Schröder, stravagante e anziana affittacamere, l’aspirante attrice Sally Bowles, una belloccia che frequenta milionari senza gran profitto, studenti omosessuali, un ricco americano e un magnate ebreo, ma anche una famiglia proletaria con un figlio filonazista e un altro, Otto, che inneggia al comunismo. Mentre il perimetro della città si allarga tra le ville dei ricchi a Grunewald e il Kurfürstendamm, fra il vecchio quartiere intorno a Hallesches Tor e il trafficato Postdamer Platz, fra il boschetto del Tiergarten e il centro governativo intorno al viale Unter den Linden.
Stretta fra le sulfuree atmosfere della vita notturna, fra locali dai nomi esotici, la cupezza della crisi economica e i fuochi incrociati delle opposte fazioni politiche, la Berlino degli anni ruggenti rivive nelle pagine di Isherwood la sua tragica eclissi racchiusa alla fine in una manciata di parole: «Il sole splende e Hitler è il padrone di questa città»

Corriere Salute 12.5.13
Il vuoto del silenzio colmato da una musica inesistente
di Danilo Di Diodoro


Una signora di 68 anni che da diversi mesi sta progressivamente perdendo l'udito, comincia a sentire, dall'orecchio sinistro, una voce maschile che canta canzoni della sua infanzia. Una stranezza incomprensibile. Dopo un po', a questa voce si aggiunge quella di un vero e proprio coro. La signora percepisce questa musica come se venisse dall'ambiente circostante, e la sente giorno e notte. È musica, ma non si tratta di un'esperienza piacevole, anzi il fenomeno è irritante, specie quando la signora cerca di addormentarsi. E non c'è modo di fermare questo maledetto concerto.
Il caso è riportato in un articolo, pubblicato, a fine 2012, sulla rivista Lancet, scritto da due medici inglesi, Christopher Johns e Tadas Zuromskis, che hanno avuto occasione di visitare la paziente. Tutte le analisi effettuate hanno escluso disturbi psichici, quindi non si tratta di allucinazioni dovute a una forma tardiva di schizofrenia, e le indagini consentono di escludere anche possibili cause organiche, come una forma di epilessia o un tumore cerebrale.
C asi di allucinazioni uditive in persone che non soffrono di disturbi psichici compaiono di tanto in tanto nella letteratura medica. Sul The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences è stato pubblicato di recente il caso di un signore portoghese di 75 anni con ridotta capacità uditiva, anche lui perfettamente sano di mente, che ha iniziato a sentire canzoni della musica popolare del suo Paese da entrambe le orecchie. Poteva riconoscere le canzoni, che ricordava di aver sentito molto volte, e le percepiva anche lui come se venissero dal mondo esterno, anche se si rendeva conto che così non poteva essere, visto che le sentiva ovunque si trovasse.
Questi casi, non dovuti né a una psicosi, né a una forma di epilessia, né a una lesione organica, vengono di solito diagnosticati come allucinosi musicali. Secondo Tim Griffiths, professore di neurologia cognitiva, alla Newcastle University Medical School, autore di un articolo in merito pubblicato sulla rivista Brain, le allucinosi musicali «si riscontrano più comunemente in soggetti con una sordità acquisita moderata o severa, e come tali potrebbero rappresentare una forma auditiva della sindrome di Charles Bonnet», così chiamata dal nome del suo scopritore vissuto tra il 1720 e il 1793.
D i norma questa sindrome è caratterizzata da complesse allucinazioni visive in persone che hanno importanti problemi di vista. I criteri diagnostici precisi sono stati fissati nel 1967 dal neurologo George de Morsier, che propose di chiamarla appunto sindrome di Charles Bonnet. Da allora si è però scoperto che, in alcuni casi il fenomeno è uditivo invece che visivo.
Alla base di queste forme di allucinazione, che non hanno nulla a che vedere con quelle di chi ha un disturbo mentale, c'è l'assenza di segnale. Vuole dire che, in mancanza di un segnale proveniente dall'organo di senso, in questo caso l'orecchio, le strutture cerebrali deputate alla sua elaborazione cominciano a produrre suoni che possono diventare strutturati e generare vere e proprie musiche. Si tratta quasi sempre di musiche da lungo tempo immagazzinate nella memoria, ed è per questo che spesso si tratta di brani imparati durante l'infanzia, di musiche di Natale, o comunque di canzoni popolari. In alcuni casi, però, succede esattamente il contrario, come è accaduto a un musicista professionista di 35 anni, il quale, in seguito a una piccola emorragia cerebrale che aveva coinvolto un'area uditiva, ha sperimentato un'allucinazione musicale che ripeteva in continuazione proprio la melodia del brano che stava studiando in quel momento. «Questo episodio rinforza l'ipotesi che i circuiti nervosi correlati alla memoria uditiva siano strettamente coinvolti con i meccanismi che generano allucinazioni visive» affermano Tanit Ganz Sanchez e i suoi collaboratori, autori di un articolo di revisione sull'argomento pubblicato sugli Arquivos de Neuro-psiquiatria.
N ella letteratura scientifica vengono riportati molti casi singoli di allucinazioni musicali, proprio perché la loro stranezza colpisce i medici. Ad esempio, è stato segnalato il caso di un paziente che poteva "cambiare disco", ossia modificare la melodia che sentiva. Bastava che cominciasse a canticchiare un nuovo motivo e quello un po' alla volta arrivava a sostituire il precedente. In un altro caso il cambiamento avveniva in maniera ancora più sconcertante: per modificare la musica, il paziente aveva scoperto casualmente che doveva sfogliare le pagine di un libro. A causa di questa segnalazione sporadica dei casi, e del fatto che si tratta di disturbi a cavallo tra l'otorinolaringoiatria e la neurologia, non sono molti gli specialisti in grado di comprendere tali fenomeni e di trattarli da un punto di vista terapeutico.
«Alcuni autori sottolineano come un supporto per il miglioramento dell'udito possa ridurre o anche eliminare le allucinazioni musicali» dicono ancora il dottor Tanit Ganz Sanchez e i suoi collaboratori. È un approccio logico, considerando che la causa del fenomeno sembra proprio da attribuire al silenzio forzato cui la sordità costringe il cervello. Sono state riportate anche cure effettuate con vari tipi di medicine, come anticonvulsivanti, antipsicotici, supplementi di vitamine, antidepressivi, e un farmaco anticolinergico di solito impiegato nel trattamento dell'Alzheimer. Ma non esiste un trattamento condiviso. Secondo Tanit Ganz Sanchez, la complessità di questi fenomeni richiede comunque l'azione combinata di più specialisti, anzi di un vero e proprio «team interdisciplinare integrato».

Corriere Salute 12.5.13
Immagini che riaffiorano alla coscienza


Per le classiche forme visive della sindrome di Charles Bonnet, un modello neurofisiologico sufficientemente adeguato è stato messo a punto, a partire solo dagli anni 90, sulla base di ipotesi avanzate però già negli anni 60. Tale modello indica come possibile causa delle allucinazioni un difetto che si crea lungo il percorso che le immagini provenienti dall'occhio fanno per arrivare alla corteccia cerebrale. Gli autori dell'articolo pubblicato sull'American Journal of Emergency Medicine dedicato alle allucinazioni visive (vedi articolo a fianco) spiegano che esistono oggi due teorie su come si sviluppano le allucinazioni di questo tipo:
la teoria della deafferentazione e quella del rilascio percettivo. In entrambi i casi, l'elemento di partenza è l'interruzione dell'input del normale stimolo visivo. Secondo la prima teoria, questa interruzione provoca un'ipereccitabilità dei neuroni della corteccia visiva, che cominciano a "sparare" immagini, come se non potessero tollerare la loro assenza; secondo l'altra teoria, l'interruzione del flusso di immagini fa sì che impulsi nervosi, provenienti da aree associative del cervello, emergano dal loro normale stato di soppressione, causando le allucinazioni. Una sorta di riaffioramento di immagini inconsce che hanno improvviso accesso alla coscienza.

Corriere Salute 12.5.13
La vista cala ma compaiono colori, facce, paesaggi. Che però non ci sono


Si vedono comparire all'improvviso orsi e mucche in camera, oppure paesaggi, o persone. È la sindrome di Charles Bonnet visiva, la prima a essere stata scoperta. A partire dal 1760, all'età di circa 40 anni, Charles Bonnet si ritrovò affetto da gravi problemi di vista che lo avrebbero portato a soffrire di questi sintomi (come era d'altronde accaduto al nonno, i cui problemi avevano condotto Bonnet alle prime riflessioni sulla malattia) e a darne la prima definizione. Nel 1902, oltre cento anni dopo la morte di Charles, le sue descrizioni di questo disturbo furono riportate all'attenzione della comunità scientifica da Théodore Flournoy, uno studioso legato alla psicoanalisi, che si occupava anche di spiritismo, e che pubblicò un articolo in merito sulla rivista Archives de psychologie. Questa sindrome è caratterizzata da allucinazioni visive che si presentano in persone perfettamente sane di mente con un importante difetto di vista. Una donna di 85 anni, descritta in un articolo pubblicato sulla rivista Optometry, un paio di anni fa, vedeva facce di persone sconosciute comparirle davanti e più volte al giorno. Immagini di qualità fotografica, ben diverse da quelle della realtà, che invece percepiva con difficoltà per il difetto di vista. In un altro caso, riportato dall'American Journal of Emergency Medicine, del novembre 2012, un signore di 57 anni vedeva comparire le facce dei suoi cugini sulle superfici degli oggetti. Fiori, persone vestite con abiti coloratissimi, cantieri di costruzioni e l'immagine di un vegliardo, rappresentato con dettagli vividi, erano le allucinazioni di un signore di 91 anni che non ne era né spaventato né infastidito più di tanto. Nelle forme visive della sindrome di Charles Bonnet le allucinazioni possono essere molto semplici o estremamente complesse. «Le allucinazioni semplici sono lampi di luce, forme geometriche come cerchi o triangoli — dicono i dottori Robert Yacoub e Steven Ferrucci, specialisti californiani, autori dell'articolo su Optometry —. Le allucinazioni complesse sono immagini ben formate, come animali o facce di persone». Tre quarti delle allucinazioni visive della sindrome di Charles Bonnet sono a colori e quasi sempre in movimento. Più un film che una fotografia. Spesso immagini di animali, nel 25% dei casi alberi o piante, nel 15% scene complesse o edifici. Di solito le apparizioni sono prive di qualunque aspetto minaccioso.

Corriere La Lettura 12.5.13
Il cervelletto di Lombroso
La neurocriminologia rilancia alcune tesi dello studioso. Ma serve cautela
Nuovi linguaggi, scienze, religioni, filosofie
di Edoardo Boncinelli


Sul «Wall Street Journal» è comparso qualche giorno fa un articolo a firma del neuropatologo Adrian Raine che fa il punto sullo stato attuale della cosiddetta «neurocriminologia», la moderna scienza che cerca di appurare se c'è qualcosa di evidente che non va nel cervello delle persone più propense alla delinquenza e spesso recidive. Questa è una vecchia questione, che ha le sue radici in un duplice ordine di obiettivi. Da una parte, un desiderio di prevenire — se possibile — che si commettano troppi delitti; dall'altra, la necessità di trovare attenuanti a chi ha commesso un delitto senza essere totalmente padrone di sé, cioè, come si dice spesso, non totalmente capace di intendere e di volere. Le finalità sono nobili, ma la storia della disciplina non ha affatto un andamento lineare.
È una vecchia questione, abbiamo detto. Il problema affonda le origini nella classica e veneranda fisiognomica, un tentativo abbastanza grossolano di classificare l'indole delle persone sulla base dei loro tratti somatici, soprattutto della testa e della faccia, ma non esclusivamente. Nell'Ottocento la questione fu ripresa su basi più «scientifiche», ma produsse solo osservazioni problematiche, quando non completamente false. La frenologia suddivise il cervello in una serie di aree immaginarie, ciascuna delle quali sovrintendeva a un'ipotetica funzione cerebrale. Fra queste c'era anche l'amore per la patria e l'amore per il coniuge; niente di serio purtroppo, e tutto finì solo per screditare ogni studio tendente a localizzare funzioni cerebrali. In questo clima acquisirono grande notorietà gli studi del nostro Cesare Lombroso, che con grande serietà e impegno indicò le caratteristiche fisiche che avrebbe dovuto avere il cervello di un delinquente. Molte di queste si sarebbero dovute riflettere sui tratti somatici dello stesso. Si trattava però di una serie di osservazioni corrette, ma prive di alcuna correlazione con la propensione a delinquere, o decisamente scorrette. La materia finì a poco a poco nel ridicolo, nonostante la notorietà e la fama universale del proponente.
Tutto questo non ha certo giovato alla nascita di una vera e propria scienza della criminologia, ma i tempi sono cambiati e il problema resta, anche se nessuno sa se appartenga al novero dei problemi che possono essere risolti.
Quali sono le ultime novità? Innanzitutto sembra abbastanza acclarato che molti, ma non tutti, coloro che hanno una propensione a delinquere abbiano un'amigdala di dimensioni ridotte. Questo potrebbe avere un senso. L'amigdala conserva, si dice, la nostra memoria emotiva; ci suggerisce cioè di volta in volta ciò che è pericoloso e ciò che non lo è, ma anche che cosa ci darà gioia una volta compiuto. Un problema all'amigdala quindi altera il nostro senso del pericolo e più in generale l'anticipazione del colore emotivo di un'azione. Soggetti con piccoli problemi all'amigdala possono non essere in grado neppure di riconoscere una faccia minacciosa da una che non lo è.
In un caso particolare si è osservato addirittura un ridotto sviluppo delle aree della corteccia cerebrale frontale ventrale, la quale sembra dire la sua su tutti i nostri «calcoli» di rischio comportamentale. Tutto ciò, ammesso sacrosanto, è un po' poco per permetterci di tirare conclusioni di carattere generale, ma è chiaro che un difetto anatomico è una condizione limite: se c'è, indicherà molto probabilmente qualcosa; ma se non c'è potrebbe di per sé non significare niente. Esistono però un certo numero di osservazioni di natura statistica. La statistica è un po' «la croce e la delizia» della scienza: moltissime volte è insostituibile, ma non sempre suggerisce cose che dimostrano poi di avere un significato. Rappresenta, insomma, un'indicazione e un suggerimento da approfondire.
Che cosa dice la statistica in questo caso? Innanzitutto che il gemello di una persona che ha una propensione al crimine ha anch'esso una propensione al crimine nel 50% dei casi, mentre per i fratelli questa correlazione è solo del 13%. C'è quindi una certa predisposizione genetica, ma non particolarmente alta; ci sono altre caratteristiche umane che hanno una correlazione ben più alta di questa nei gemelli. In mancanza di meglio però l'indicazione è incoraggiante. Nel delinquente abituale c'è una certa predisposizione genetica quindi, ma non solo. Come in tutti gli studi del genere, oltre alla costituzione genetica entrano in ballo altri fattori, detti genericamente ambientali, appartenenti cioè alla biografia di tali soggetti.
Aver subito un grave stato di denutrizione infantile, essere stato esposto ad avvelenamento da piombo, anche leggero, essere stato oggetto di maltrattamenti e abusi, sempre in età infantile, e aver frequentato ambienti culturalmente e intellettualmente degradati. Sono tutte situazioni che favoriscono la propensione al delitto, senza però che se ne possa concludere che chiunque le abbia sperimentate sarà incline al delitto. La situazione non è disperante, ma certo problematica, come succede sempre quando si procede «a tentoni». Non si tratta più di osservazioni inesatte o poco ponderate come nell'Ottocento e agli inizi del Novecento, ma la materia è ancora sufficientemente fluida. Secondo me occorre lavorare ancora molto, astenersi da tirare conclusioni troppo semplicistiche e, soprattutto, astenersi dal dedurre da tutto questo chiare indicazioni per la pratica forense.
Tutti siamo convinti che ognuno deve ricevere la pena corrispondente al proprio grado di colpa e che in certi casi questa pena può essere ridotta in ragione di certe condizioni obiettive. Ciò è giusto e umano. Quello che non è giusto è prendere per oro colato certe conclusioni ipotetiche e attribuire consistenza scientifica ad affermazioni che ancora questa consistenza non hanno. Ciò riguarda ovviamente i tribunali e la disciplina del diritto. La scienza può e deve contribuire anche a questa fondamentale funzione della società, ma solo in presenza di evidenze certe. Pena l'arbitrio e quindi l'ingiustizia, o almeno la non equità.

Corriere La Lettura 12.5.13
Speranza 1.0
Girano versioni svilite (2.0 o 4.6 o addirittura 5.9) di una virtù da riportare alla forma originale
di Paolo Giordano


Avrete sentito dire in giro che non c'è speranza per le nuove generazioni. Nel parlare comune — così come nel dibattito politico che spesso del parlare comune è un distillato — ricorrono infatti certe espressioni lapidarie («non hanno speranza questi giovani»), certe domande retoriche sottilmente autocommiseratorie («che speranza stiamo dando ai nostri figli?»), o ancora, certe esortazioni generiche e accorate («dobbiamo regalare un futuro a questi ragazzi!»). Ciò che stupisce è come, in tutti i casi, la speranza sia trattata come un bene effettivo, materico, un bene che si possiede, che si dà e si riceve e il cui ammontare può essere misurato da appositi strumenti — un patrimonio che una generazione eredita da quella precedente, inversamente proporzionale, si direbbe, alla frazione di debito pubblico che piomba sulla testa di ognuno il giorno della sua venuta al mondo: sono nato nel 1982, la mia aspettativa di vita secondo le statistiche è tot e la mia speranza è tot.
Nelle sabbie mobili di questa diffusa ineluttabilità, ci si aggrappa di tanto in tanto a delle storie esemplari che dovrebbero risollevare il livello medio di umore, come delle sporadiche iniezioni sottocutanee di fiducia. Si tratta quasi sempre di aneddoti di tipo «2.0», legati all'universo in ebollizione del web. (Vorrei permettermi un inciso al riguardo: «2.0», dicitura che viene largamente impiegata per descrivere in un solo blocco all'incirca tutto ciò che riguarda gli under 30, suggerisce che lo spartiacque tra l'epoca attuale e le precedenti, la «1.0» e tutte quelle in versione beta, sia l'affermazione su ampia scala della tecnologia digitale e il dilagare della comunicazione in Rete, benché la mia generazione abbia ben altre mutazioni da integrare ancora nel suo Dna, assai più delicate della sottigliezza stupefacente raggiunta dagli smartphone e della gestione di qualche centinaio di contatti sulla pagina Facebook. Tanto per dirne un paio: la caduta del Muro di Berlino e di gran parte dei dualismi ideologici secondo i quali siamo stati ancora, nostro malgrado, istruiti; e il crollo delle Torri nel settembre 2001 con cui abbiamo esordito, simbolicamente e fattivamente, nella maggiore età).
Alcune settimane fa l'impresa virtuosa di un ragazzo di appena 17 anni ha guadagnato posto sulle prime pagine di svariati quotidiani. Nick D'Aloisio ha messo a punto un'applicazione per telefonia mobile che riassume in poche righe testi più lunghi, evidenziandone i contenuti principali per una lettura rapida: si chiama Summly. L'invenzione, apprezzata dagli utenti e pubblicizzata da alcune personalità illustri come Ashton Kutcher e Yoko Ono (e dovrebbero spiegarmi che cosa ci azzecca Yoko Ono con le applicazioni per telefonia mobile, se davvero le manca il tempo per leggere i testi integrali e se, soprattutto, la buon'anima di John Lennon sarebbe felice di vedere la sua metà spirituale così sedotta dalle meraviglie dell'Information Technology), l'invenzione si è presto diffusa nel mondo virtuale, al punto che Yahoo! ha deciso di metterci sopra le mani e ha comprato da Nick D'Aloisio il brevetto per la cifra ubriacante di 30 milioni di dollari. Non solo: Yahoo! ha assunto il ragazzo nel suo staff a tempo indeterminato. Il precoce D'Aloisio si è sistemato e potrà organizzare una festa come si deve per i suoi diciotto anni. Dove sta la speranza in tutto questo? Soprattutto nella prova che qualunque adolescente molto creativo (o abbastanza sociopatico da starsene assiduamente incollato a un monitor) può realizzare una fortuna, che l'accessibilità a un ambiente globale, un ambiente anodino fatto di bit e righe di codice e dove tutti partiamo dallo stesso livello di ignoranza, fornisce una chance di successo a ognuno. È la versione accelerata, 2.0, del Sogno Americano. Datti da fare anche tu, perciò: spremiti le meningi e fatti venire un'idea geniale, vedrai che Yahoo! te la compra per una montagna di soldi e magari ti dà pure un posto fisso.
Ammesso che le vittorie altrui possano essere in qualunque caso una fonte di speranza (e non, al contrario, motivo di invidia e frustrazione), ci sono alcuni elementi dell'iperbole di Nick D'Aloisio che mi lasciano perplesso. Ho sempre pensato che la vera speranza germogli davanti alla possibilità del rovesciamento di un ordine costituito. La presenza di un nemico, di un'autorità opprimente da deporre fomenta una vitalità che in tempi più placidi non si esplica. Ma il successo di Nick D'Aloisio non è eversivo in nulla, anzi è esattamente il contrario: è il successo del venire assorbito nel sistema preesistente. La sua storia è divenuta esemplare quando il colosso Yahoo! lo ha inglobato: secondo questa logica macabra (e pericolosamente in voga) che separa il mondo tra sommersi e salvati, soltanto i vecchi, immoti e inamovibili poteri sono in grado di pescarti dall'oceano tumultuoso e portarti al sicuro nel loro olimpo dorato. Confida in loro, dunque, se hai bisogno di confidare in qualcosa. E, chissà, magari il prossimo a saltare sulla scialuppa della ricchezza potresti essere tu. La speranza che la vicenda di Nick D'Aloisio può, al limite, ispirare è perciò rigorosamente individuale. Non circola. E poi, Summly è di sicuro una grande idea, ma si esprime — ed esaurisce — in un tempo molto breve; la grandezza sta soprattutto nell'aver intercettato con astuzia un bisogno istantaneo di alcuni utenti e nell'averlo soddisfatto prima ancora che venisse espresso, dal che potremmo finire a parlare di capitalismo e profitto e della gigantesca macchina che tutti c'ingoia, se avessimo davanti a noi un tempo lunghissimo e la minima voglia di farlo.
Tutta questa severità nei confronti dell'innocente Nick D'Aloisio (che per festeggiare i milioni di dollari ha acquistato, udite udite, un nuovo paio di scarpe da ginnastica) mi permette di individuare per negazione almeno tre postulati che, credo, la speranza dovrebbe soddisfare per essere considerata davvero tale. E mi permette di interrogarmi su come la Generazione 2.0 sia combinata rispetto a essi.
Principio di sovvertimento. La speranza si sviluppa in presenza di un ordine da rovesciare. Ci stiamo certo scalmanando da ogni parte per rovesciare qualcosa, ma sembra che, per il momento, non abbiamo troppo chiaro che cosa vale la pena di essere rovesciato. L'astrazione dei meccanismi di potere, della finanza, la tessitura globale degli interessi hanno reso molto difficile, per noi 2.0, individuare con chiarezza il nostro antagonista. Quando frequentavo il liceo ci furono le prime manifestazioni contro la globalizzazione. «Domani c'è il corteo», si mormorava nei corridoi. «E contro cosa sfiliamo?». «Contro la globalizzazione». A ripensarci, avevamo le nostre buone ragioni, ma era oltremodo faticoso sfidare un nemico trasparente quanto un fantasma. Fra le molte insidie riscontrate dai 2.0, la mancanza di avversari evidenti mi appare tuttora come la peggiore.
Principio di generosità. La speranza necessita di essere condivisa, collettiva, altrimenti avvizzisce. Che alcuni eletti ce la facciano — «farcela» stando oggi a significare che la vita gli concede di mettersi al riparo dalle intemperie economiche — non aumenta di un briciolo l'ottimismo generale. Anche il superstite si porterà sempre addosso il rimpianto per i cadaveri lasciati indietro. C'è dunque bisogno che la speranza contempli la generosità. E forse, in questo, i 2.0 sono più in gamba di chi li ha immediatamente preceduti.
Principio di infinito. Proprio come l'arte, anche la speranza ha bisogno di un orizzonte all'infinito, di potersi dispiegare comodamente sulla sciocca convinzione che il miglioramento è per sempre. Gli aggiustamenti, le manovre per arrangiare, i rattoppi non la nutrono, anzi non fanno che affamarla. Qui e oggi, purtroppo, si cerca innanzitutto di puntellare un'enorme struttura pericolante.
Sarebbe vile a questo punto limitarmi alla demolizione di un esempio, senza proporne uno che mi appaia luminoso. Sarebbe scortese, fra l'altro, verso chi mi ha invitato qui, e pregato di congedarmi con una virata verso il positivo («Sei libero di organizzare il discorso come meglio credi» mi è stato detto. Poi, quasi si fosse d'un tratto reso conto del rischio, il mio interlocutore ha aggiunto: «Ma cerca di dire che una speranza c'è, alla fine»). Per cercare il mio controesempio, alcuni giorni fa mi sono piantato con le mani sui fianchi davanti alla libreria di casa e ho iniziato a scorrere i titoli sulle costole dei volumi. Ci sarà un libro, ho pensato, un romanzo che racconti di speranza fra questi. In effetti, quasi tutti parlavano anche di speranza, ma in quel modo del tutto implicito e controverso che i romanzi hanno di parlarne. La speranza nelle storie si fa sempre largo a fatica fra gli uragani dell'esistenza, balugina per un tempo brevissimo, è per lo più indiretta, disarmata, tutt'altro che adatta a un dibattito sui giovani nel quale ti è stato chiesto di giurare che una speranza esiste, pronta all'uso. Ho passato le prime lettere dell'alfabeto senza successo, finché mi sono imbattuto, sotto la G, in un libercolo sottile, compresso fra quelli più corpulenti ai suoi lati, una novella di Jean Giono intitolata L'uomo che piantava gli alberi, che lessi con emozione alcuni anni fa. Il racconto di Giono ha subìto la sorte che talvolta capita a certi libri apparentemente semplici e dalle dimensioni modeste: è finito per disgrazia nelle collane editoriali di narrativa per bambini o, peggio ancora, negli scaffali delle librerie dedicati alla saggistica ambientalista, quando in verità si tratta di un racconto morale assai più adatto agli adulti, che ha per tema centrale proprio la speranza, la speranza nella sua versione originaria, non la 2.0 quindi, e neppure la 3.0, la 4.6 o la 5.9.
È la storia di Elzéard Bouffier, un uomo che il narratore conosce per caso, passeggiando per le zone aride di «quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza, delimitata a sud-est e sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drôme». Bouffier vive solo e ogni giorno si dedica a piantare alberi, querce per l'esattezza. La mattina seleziona le ghiande, poi s'incammina, pratica dei fori nel terreno con un bastone, a distanza adeguata l'uno dall'altro, e le sotterra. Due guerre mondiali non sono sufficienti a distoglierlo dalla sua astrusa missione e il narratore, che torna a trovarlo anno dopo anno, assiste al miracolo lento della nascita di una foresta laddove prima c'era il nulla. Oltre alle querce, Bouffier pianta betulle e faggi. Una stagione tenta con gli aceri: non ne resiste uno, allora torna alle querce, senza demoralizzarsi. Quando Bouffier muore, a ottantasette anni, la regione ormai gigantesca che ha popolato di vegetazione è stata dichiarata parco nazionale. L'unico paese abitato al suo interno, Vergons, che prima era un luogo di gente sconfitta e rancorosa, si è trasformato in un paesino grazioso che attrae gioventù e turisti. «Più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier», scrive Giono, al termine del racconto. «Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c'è voluto in termini di costanza nella grandezza d'animo e d'accanimento, nella generosità per ottenere questo risultato, l'anima mi si riempie di un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un'opera degna di Dio».
Esistono versioni precedenti della parabola narrata da Jean Giono. La più celebre è la storia di Johnny Appleseed, Giovanni Semedimela, che a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo piantò e curò migliaia di meli in un'immensa regione spoglia del Midwest. E a ben vedere, Giono non fa che sviluppare qualcosa che la lingua italiana ci suggerisce in continuazione, ovvero che la speranza, soprattutto, la si coltiva. Non si possiede la speranza, non la si sottrae né la si regala, come in molti vorrebbero darci a credere: la si coltiva. Così il suo colore è il verde e così la sua raffigurazione è una donzella che tiene in mano un fiore, il capo ornato da spighe e papaveri, e così tutto il lessico che le ruota attorno, lo stesso che io ho utilizzato fin qui senza quasi accorgermene, è inerente alla vita arborea: germogliare, appassire, attecchire, generare... Ecco, forse converrebbe cominciare con il correggere il linguaggio troppo automatico, sovrappensiero che talvolta usiamo per riferirci alla speranza. Allora avremmo trovato anche la riformulazione della domanda dalla quale questo intervento ha preso il largo. Non più: esiste una speranza per la Generazione 2.0?, bensì: la Generazione 2.0 sta coltivando la sua speranza?, chi è venuto prima le ha insegnato come fare, come si prepara il terreno, quando è conveniente innaffiare e come si accudiscono gli arbusti fragili, oppure si è dedicato esclusivamente a razziare e abbattere ciò che già c'era?, e vivremo in tempo per vedere almeno un raccolto? Ma tutto questo sarà, forse, il tema di un incontro successivo.

Corriere La Lettura 12.5.13
Non c'è più il progresso di una volta
Si è smarrita la fiducia in un miglioramento continuo All'uomo postmoderno non basta consumare di più
di Carlo Bordoni


Ha ancora senso parlare di progresso? Siamo abituati a pensarlo come una costante universale, la naturale propensione a migliorarsi. Invece è un'idea relativamente recente, nata in funzione della modernità. Di fronte alla scelta improponibile tra salute e lavoro, i cittadini di Taranto hanno disertato il referendum consultivo sulla chiusura dello stabilimento siderurgico dell'Ilva: in assenza di un futuro in cui credere, l'idea di progresso diventa insostenibile.
Il problema semplicemente non si pone per i classici greci e latini, che vedono nel futuro i segni di un peggioramento da evitare e invocano il passato, l'età mitica dell'oro da cui l'uomo è precipitato. Platone considera il presente un momento di decadenza, secondo una teoria della degenerazione della politica, frutto di un conservatorismo che teme il cambiamento e sogna il ritorno alla semplicità dell'esistenza. Orazio può scrivere Damnosa quid non imminuit dies? («Che cosa non rovina il passare dei giorni?»), nel convincimento che il tempo sia nemico dell'uomo e il domani infausto. Il costante sguardo volto al passato spiega la difficoltà di uscire dai limiti dell'esperienza umana, guardare oltre e immaginare il futuro. Prevale un generale pessimismo e persino in Lucrezio, dove per la prima volta appare il termine progresso, è accettata la prospettiva apocalittica di un mondo destinato a finire.
Per trovare un cambiamento bisogna attendere gli albori del XVII secolo e il filosofo inglese Francis Bacon: nelle sue opere il metodo induttivo nelle scienze rivela i primi sintomi dello spirito moderno e il fine della conoscenza è l'utilità (Commodis humanis inservire, «Servire al benessere dell'uomo»), concetti ripresi da Cartesio e poi da Montesquieu, Voltaire e Turgot.
In un vecchio libro degli anni Venti, intitolato Storia dell'idea di progresso (Feltrinelli), lo studioso irlandese John Bury illustra l'origine dell'idea di progresso, collocandola nel Settecento, al momento dello sviluppo delle scienze e dell'affermazione della modernità: «L'idea di progresso umano è una teoria che comprende una sintesi del passato e una profezia del futuro. Si basa su una interpretazione storica secondo cui gli uomini avanzano lentamente in una direzione definita e desiderabile, e ne deduce che l'avanzata continuerà indefinitamente. Questo implica che si arriverà un giorno a godere di una felicità generale, che giustificherà tutto il processo della civiltà».
Partita da un'unica matrice illuminista, l'idea di progresso si viene divaricando lungo il XIX secolo, al seguito di ideologie inconciliabili. L'idea modernista più marcatamente liberista, sulla via indicata da Adam Smith, si lega ai principi del mercato, volgendosi al consumismo. L'altra, nel percorso da Hegel a Marx, radicandosi nel concetto di storia, punta alla liberazione dal bisogno, all'uguaglianza e al controllo statale. Entrambe le visioni entrano in crisi nella seconda metà del secolo scorso: l'una si trova di fronte, oltre ai guasti della mercificazione, il problema di salvaguardare il pianeta dall'esaurimento delle risorse. L'altra perde credibilità in seguito al crollo dei regimi comunisti.
La simultaneità di entrambi gli eventi fa sospettare una radice comune, di fronte alla crisi della modernità e dei suoi principi fondamentali (le «grandi narrazioni» di Jean-François Lyotard), su cui si basava l'essenza del moderno: l'affidamento alla tecnica, la speranza di un continuo miglioramento, le ideologie. In una parola, la fiducia nel progresso. Che però viene perdendo consistenza di fronte all'incertezza e all'assenza di riferimenti su cui contare. L'uomo contemporaneo sembra così nuovamente incapace di andare oltre i limiti dell'esperienza e di guardare con fiducia al futuro, proprio come i classici. Se non torna con rammarico al passato, è perché ha smarrito il senso della storia ed è troppo occupato a sopravvivere. La sua è piuttosto una nostalgia del presente, il disagio indicato dall'antropologo Arjun Appadurai nel saggio Modernità in polvere (Raffaello Cortina), provocato dal desiderio per cose mai accadute, che si possono solo immaginare. Il progresso è superato dal postmoderno, su cui si sono esercitati a lungo i filosofi del pensiero debole, oppure siamo dinanzi a una diversa condizione del moderno? Di modernità plurali parla il sociologo Peter Wagner in Modernità (Einaudi), teorizzando un'idea di progresso che si adegua alle diverse formulazioni della società attuale.
Le interpretazioni più recenti, molte delle quali tese a favorire la ripresa di questa idea, ne testimoniano la crisi. Gli economisti Daron Acemoglu e James Robinson, in Perché le nazioni falliscono (Il Saggiatore), attribuiscono le ragioni della prosperità al progresso produttivo di stampo liberista, purché all'interno di sistemi politici democratici, confortati da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi che, in uno studio commissionato dall'ex presidente francese Nicolas Sarkozy, La misura sbagliata delle nostre vite (Etas), propongono di superare il prodotto interno lordo come indicatore dello sviluppo e di tener conto delle conseguenze ambientali della crescita. Chi invece confida ancora nelle possibilità della scienza, come il futurologo Byron Reese, autore del recente saggio Infinite Progress (Greenleaf), crede che «la tecnologia e Internet pongano fine all'ignoranza, alle malattie, alla fame, alla povertà e alla guerra».
Il concetto di progresso è tipico del linguaggio critico di matrice socialista, mentre nel gergo economico occidentale (l'Ocse) si preferisce il termine sviluppo, col rischio di misurare tutto in termini quantitativi: tonnellate di merci e manufatti, petrolio estratto, kw di energia elettrica. Lo stesso processo di acculturazione, secondo la logica positivista, segue l'esempio dell'industria: il progresso si misura dal numero di libri stampati o di giornali distribuiti, dalla percentuale di diplomati e laureati, dal tasso di alfabetizzazione. Ma il dato statistico non fotografa la realtà nella sua complessità e, soprattutto, non rende conto delle ingiustizie. Il presente sarebbe migliore del passato per il solo fatto che si consumano più merci e si possiedono più oggetti.
Le «magnifiche sorti e progressive», che per tre secoli hanno caratterizzato la storia dell'uomo, si sono arenate sulla soglia della tarda modernità. L'idea di progresso, più che alimentare il «principio speranza» di cui parlava il filosofo Ernst Bloch, assomiglia sempre più alla fine dell'utopia.

Un concetto in crisi
Tra i saggi sulla crisi dell'idea di progresso spiccano «Modernità in polvere» di Arjun Appadurai (Raffaello Cortina, a cura di Piero Vereni, pp. 328, 26) e «Modernità» di Peter Wagner (Einaudi, traduzione di Graziella Durante, pp. 240, 18)
Successi e fallimenti
In «Perché le nazioni falliscono» (Il Saggiatore, traduzione di Marco Allegra e Matteo Vegetti, pp. 527,
22) Daron Acemoglu e James A. Robinson indagano sui fattori della crescita economica e civile.
Il futurologo Byron Reese, nel libro «Infinite Progress» (Greenleaf, pp. 312,
$ 29.95) si mostra assai ottimista circa il futuro che attende l'umanità

Corriere La Lettura 12.5.13
La Politica che schiaccia le politiche
In Italia la lotta per il potere («Politics») prevale sulle scelte di contenuto («policies»)
di Danilo Taino


Una visione opposta rispetto ai Paesi anglosassoni: quasi Thatcher versus Andreotti
E nrico Letta si è messo nei guai. Per tante ragioni, tutte ben visibili. Una, che egli stesso ha voluto sottolineare, dà però l'idea delle difficoltà che dice di volere superare. «Ho imparato da Nino Andreatta — ha spiegato durante il discorso di presentazione del governo alla Camera — la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni». È una distinzione che nella lingua inglese è automatica, che sta nella differenza tra Politics e policy. In italiano, i concetti sono più confusi e dunque la lingua si è adattata alla realtà, non separa l'una cosa dall'altra. Ma è necessario farlo, ha detto il presidente del Consiglio: «Se in questo momento ci concentriamo sulla politica, le nostre differenze ci immobilizzeranno, se invece ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio per il Paese».
Buona fortuna. Farlo sarà difficile. C'è un abisso di consuetudine e di cultura da colmare. Le più recenti occasioni per rivisitare la storia politica degli ultimi decenni sono state le morti di Margaret Thatcher e di Giulio Andreotti, a un mese di distanza l'una dall'altra: sono due finestre spalancate su policy e Politics. I tanti ricordi della Lady di Ferro e soprattutto i commenti sulla sua eredità si sono in gran parte focalizzati sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni, sull'opposizione lineare al comunismo, sulla ridefinizione del rapporto tra Stato e mercato. Sulle politiche pubbliche, insomma. Non che Mrs. Thatcher non facesse politica nel senso che non si occupasse del potere, soprattutto di vincere le elezioni: lo faceva e come tutti i leader sapeva usare una dose di opportunismo quando la situazione lo richiedeva. Ma anche l'evento giudicato dai critici il suo capolavoro di cinismo — la guerra delle Falkland, grazie al successo nella quale si assicurò la seconda vittoria alle urne — fu un misto di princìpi irrinunciabili e di abilità politica.
Le commemorazioni di Andreotti sono state soprattutto la ricostruzione della sua abilità nel raggiungere e gestire il potere. Non che il politico italiano non avesse princìpi. È che non aveva politiche: più precisamente, le sue politiche di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, della Difesa, delle Partecipazioni statali e via dicendo erano subordinate (e dunque «flessibili») al gioco della politica intesa come rapporti di forza. Al potere. Le policies venivano dopo. Semplificando, nel caso della Iron Lady le politiche servono a conquistare il potere, che poi va usato per realizzarle. Nel caso di Andreotti prima si conquista il potere e poi si piegano le politiche per conquistare altro potere. Due schemi opposti: politiche-potere-politiche il primo, potere-politiche-potere il secondo. La differenza non è solo ampia, va anche in profondità: per stare sull'esempio Falkland, qualcuno pensa che, nei panni di Lady T, il leader italiano avrebbe preso il rischio di un intervento?
In questione, naturalmente, non sono Margaret Thatcher e Giulio Andreotti. Il problema è che una è stata la maggiore leader politica britannica del dopoguerra, il secondo è stato il maggiore leader politico italiano del dopoguerra. Prodotti e continuatori di due modi diversi — l'anglosassone e il latino — di trattare la sfera pubblica, lo Stato. Se Letta vorrà davvero mettere la policy al primo posto e subordinare a essa la Politics, dovrà costringere a un salto culturale non solo i partiti italiani, ma anche gran parte della società, cresciuta con l'idea che la politica sia solo questione di potere — da inseguire oppure da odiare, poco cambia.
Naturalmente, la Politica non è necessariamente brutta. La politikè epistéme, la scienza politica di Aristotele, consiste nel dare ai cittadini leggi, costumi, istituzioni duraturi nel tempo e che abbiano la possibilità di essere migliorati a seconda delle esigenze. Questa concezione della Politica contiene in sé la necessità di essere riempita di quelle che oggi chiameremmo politiche pubbliche, cioè azioni di lungo periodo finalizzate al benessere dei cittadini e a lasciarli liberi di cercare la felicità: policies. È la teoria della Politica introdotta da Machiavelli a dare però il segno di come si pone il problema nei tempi moderni, quelli dei prìncipi e poi degli Stati nazionali. Comunque si voglia leggere l'opera del segretario fiorentino, in Italia matura via via, anche attraverso il Risorgimento, l'idea di Politica come guerra di posizione, di conquista gramsciana delle casematte del potere, di marcia su Roma, di permanenza strategica nei gangli dello Stato durante la Prima Repubblica. Le politiche vengono dopo, subordinate alla conquista e al mantenimento del potere. Il «primato della politica», in fondo, in Italia non è una faccenda della sola sinistra comunista e spesso è stato interpretato come autonomia del politico, come preminenza sul privato, ma anche sulle politiche pubbliche.
Il pragmatismo americano, che rappresenta il modello opposto, mette al centro dell'azione la policy. Ciò nobilita la stessa Politics, che i cittadini vedono dunque meno autonoma, meno slegata dal mondo, non fine a se stessa e interessata solo al potere. Un'elezione presidenziale a Washington, una contesa per il governatorato della California, una sfida per fare il sindaco a Chicago sono certamente eventi che mettono in gioco il potere degli e negli Stati Uniti. Ma sono condotte discutendo di policy, di cose da fare, riforme da introdurre. Cioè dei famosi «contenuti»: dei quali in Italia si lamenta la mancanza, ma che rimangono nel cassetto durante le campagne elettorali come nella gestione dello Stato. È che da noi il confronto non è sulle politiche, ma è tutto nella sfera politica, che così svuotata diventa brutta, non amata, affare di pochi (si fa per dire) eletti.
Con l'effetto collaterale, ma grave, dell'annullamento, nella via italiana alla politica, di tutto ciò che è bipartisan e, ancora peggio, con il frequente svilimento dell'attività legislativa. Fare politiche pubbliche, infatti, significa sì fare leggi, ma anche seguirne l'applicazione, farne conseguire atti di governo e di gestione, misurarne gli esiti sul lungo termine. Ma se ogni iniziativa che dovrebbe essere di policy è finalizzata a guadagni di potere immediati, ne dipende che quel che conta non è tanto il suo successo, ma il successo politico della parte che l'ha voluta. Non solo: quando cambiano gli equilibri politici o il quadro istituzionale, vengono annullate le decisioni prese dal partito avverso. Condivisioni di politiche non-partisan che fanno il bene comune sono, a differenza che in molti altri Paesi, piuttosto rare in Italia. Molte leggi finiscono con l'essere un fiasco perché non sono policies: non sono linee da portare avanti nel tempo, ma sono alla mercé della volubilità politica e delle burocrazie, che facilmente possono far fallire un provvedimento legislativo, ma faticherebbero a rispondere della mancata attuazione di politiche chiare e misurabili.
In sostanza, in Europa e in Giappone prevale il confronto/scontro tra partiti. Nei Paesi anglosassoni, soprattutto in America, il confronto di policies, spesso ispirate e discusse fuori dalle organizzazioni politiche ufficiali. Nel primo caso, le lobby sono per lo più interne ai partiti, nel secondo sono esterne. Due mondi. Non basterà che Enrico Letta cambi i termini del linguaggio. Potrà però aiutare.

Classici e pragmatici
A parte Aristotele e i grandi autori «realisti» italiani, come Niccolò Machiavelli, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, cui va aggiunto anche il giurista tedesco Carl Schmitt, il confronto tra diversi approcci al tema delle «policies» può essere rintracciato nei lavori
di alcuni studiosi pragmatici anglosassoni
Pietre miliari
Harold Lasswell, un politologo americano nato nel 1902 e morto nel 1978, che tra l'altro insegnò a Yale, scrisse con Daniel Lerner nel 1951 un testo da molti considerato fondamentale, «The Policy Sciences». John Dewey (1859-1952), pedagogo e filosofo di gran fama, è invece considerato uno dei fondatori del movimento pragmatico statunitense: «The Public and its problems», del 1927, è una sua importante dissertazione sul rapporto tra Stato e cittadini. Diverse sue opere sono state tradotte in italiano
Il caso americano
Amitai Etzioni, sociologo israelo-americano nato nel 1929, ha affrontato
il problema delle politiche e della struttura partitica americana in un saggio uscito nel 2001, «Next. The road to the good society» (Basic Books)

Repubblica 12.5.13
La morte e lo scienziato l’ultima scelta di De Duve
di Piergiorgio Odifreddi


Il 4 maggio scorso Christian De Duve, premio Nobel per la medicina nel 1974, è morto. O meglio, vivendo in Belgio, ha potuto decidere di morire per eutanasia, essendo soddisfatto della vita che aveva vissuto per 95 anni, ma insoddisfatto di quella che avrebbe dovuto vivere per i postumi di una caduta. Aveva preso la sua decisione un mese fa, ma l’ha messa in pratica solo la scorsa settimana, per aspettare l’arrivo del figlio dagli Stati Uniti, e potersi congedare dal mondo circondato dalla famiglia al completo. De Duve era noto al pubblico informato per una serie di libri divulgativi di grande intensità: in particolare Polvere vitale e Alle origini della vita per Longanesi (1998 e 2008), e Come evolve la vita e Genetica del peccato originale per Cortina (2003 e 2010). Questi libri divulgavano una visione spirituale della vita, biologica e umana, che è stata spesso fraintesa, per colpa o per dolo, come religiosa: molti hanno dunque tentato di annettersi la sua figura, come esempio di scienziato credente. La sua fine coraggiosa e serena ha fatto giustizia di questi tentativi, e un’intervista da lui rilasciata al quotidiano Le Soir per spiegare la sua decisione non lascia dubbi. Alla domanda se avesse paura della morte, egli ha infatti risposto così: «Sarebbe troppo dire che la morte non mi spaventa, ma non ho paura di quello che verrà dopo, perché non sono credente. Quando sparirò sarà per sempre, e non resterà niente». Quanto alla religione, una volta a Venezia mi aveva detto testualmente: «La religione deve adattarsi alle scoperte scientifiche: se c’è un conflitto con la scienza, è lei che deve cedere». E lui l’ha costretta a cedere, quando si è trovato a dover prendere una decisione responsabile sul proprio fine vita.

Repubblica 12.5.13
L’epopea della Resistenza scritta a 230 mani
di Stefania Parmeggiani


In territorio nemico (minimum fax, pagg. 310, euro 15) è un libro folle. Innanzitutto perché i tre protagonisti, impegnati a nascondersi e a combattere nell’Italia dilaniata dall’occupazione tedesca, sperimentano la paura, il coraggio, il dolore, la fragilità, la rabbia, la violenza, la bestialità, la nostalgia fino a sfiorare o a precipitare nell’abisso della pazzia. Ma è un libro folle anche e soprattutto perché non possiamo dare un volto al suo autore. In territorio nemico è opera di 115 persone (46 donne, 69 uomini) impegnati nella sperimentazione del metodo Sic (scrittura industriale collettiva), ideato da Gregorio Magini e Vanni Santoni, due scrittori convinti che anche un libro, al pari di un film o di una canzone, possa essere un’opera d’arte collettiva. Non che simili esperimenti non siano mai stati fatti, anzi da tempo sono frequentati come gioco letterario o – lo dimostrano le opere del collettivo Wu Ming – come scelta politica. La differenza, questa volta, è di tipo metodologico e quantitativo. Il canone Sic, con le sue regole e procedure, è un metodo di scrittura di gruppo ispirato ai principi di divisione del lavoro propri del fordismo, della bottega dell’arte rinascimentale e dell’industria del cinema. Così si disse al Salone del libro di Torino del 2007, quando per la prima volta venne presentato al pubblico il progetto e così si ripete sulla piattaforma web (www. scritturacollettiva. org) aperta a chiunque voglia dare vita a una storia a più mani. Si può partecipare a gruppi ristretti, minimo quattro persone oppure lavorare a un romanzo aperto, opera di cento o più scrittori. Il primo passo è la stesura di un soggetto, che nel caso de In territorio nemico ha coinvolto 41 autori. Hanno raccolto quasi 300 pagine di aneddoti e testimonianze sulla Resistenza, un lavoro prezioso di recupero della memoria collettiva sul quale in settantuno hanno poi lavorato per scrivere quattromila pagine di testo: le schede dei personaggi, le descrizioni dei luoghi, le dinamiche degli scontri e degli attentati. Otto persone hanno poi lavorato alla composizione, 29 hanno fatto revisione letteraria o storica, 14 hanno tradotto le battute dei personaggi nei rispettivi dialetti per restituire quel mosaico linguistico che scandisce, da Napoli a Milano, l’epopea della Resistenza. Un lavoro lungo e paziente, quasi tre anni e mezzo, che secondo gli ideatori del metodo si contrappone ai “libroidi” e supera i limiti della creazione soggettiva. Il risultato dà conto di questi sforzi: l’intreccio narrativo si dipana tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 senza grumi di incoerenza o inutili compiacenze. La Storia, quella con la maiuscola, fluisce assieme alle vicende personali dei suoi protagonisti, restituendoci molto più che un romanzo sulla Resistenza. Un libro sull’umanità scritto da qualcosa che se non è umanità certo ci si avvicina: 230 mani.
In territorio nemico di Scrittura Industriale Collettiva (minimum fax pagg. 308, euro 15)

Repubblica 12.5.13
Se anche Marx viene trattato come un normale anticomunista
di Angelo Aquaro


Proletari di tutto il mondo, o di quel poco che resta, arrendetevi. «L’idea di Marx come nostro contemporaneo le cui idee stanno continuando a definire il mondo moderno ha fatto il suo corso. È venuto il tempo di rileggerlo come una figura storica di un passato sempre più distante: l’età della Rivoluzione francese, della filosofia di Hegel, dei primi anni dell’industrializzazione inglese e di quell’economia politica che da lì prese le mosse». Così scrive Jonathan Sperber, coraggioso e (finora) semisconosciuto prof dell’University of Missouri, autore del nuovissimo Karl Marx: Una storia del XIX secolo che la New York Review of Books ha appena ribattezzato “Il vero Karl Marx”. La recensione affidata al grande John Gray, esponente di quella London School of Economics che negli ultimi decenni è stato attivissimo laboratorio più “lab” che “lib”, è imbarazzantemente entuasiasta. Dopo avergli tagliato, a rasoiate di socialdemocrazia, la barba, al profeta decaduto, infatti, non restava che fare la pelle: fino a scoprire che fu figura così obliqua da scagliarsi lui stesso contro quell’idea di comunismo ai suoi tempi sorgente. «L’uomo che appena 5 anni dopo avrebbe scritto Il Manifesto del Partito Comunista» scrive Sperber commentando la polemica del giovane Marx contro l’Augsburg Allgemeine Zeitung «arrivò a invocare l’uso delle armi per sopprimere i lavoratori comunisti! ». Ed è qui che il castello di carte di Sperber, supportato da Gray, in fondo scricchiola. Marx il comunista che sconfessava il comunismo? Ma dai: poi dice che non dobbiamo più considerarlo un uomo del nostro tempo.

Repubblica 12.5.13
Quando il web è un osservatorio contro razzismo e stereotipi
di Loredana Lipperini


I siti delle associazioni contro il razzismo, specie di questi di tempi, meritano sempre una visita, e questa volta si può scegliere naga.it, realizzato da un gruppo di volontari laici che si occupano soprattutto di salute: i 300 iscritti, si legge, «garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura oltre a portare avanti attività di formazione, documentazione e lobbying sulle Istituzioni». Tra queste ultime, va segnalato e letto il rapporto Se dico rom, interamente scaricabile dal sito e dedicato alla narrazione di rom e sinti nella stampa italiana. Molto problematica, come si vede dai dati forniti: nel 30% degli articoli sono presenti dichiarazioni che si possono considerare discriminatorie, che rimandano cioè a «racconti di intolleranza sociale e discriminazione (37,2%), seguiti da quelli che fanno emergere una differenziazione tra un “noi” e un “loro” (32,3%) ». Dunque? Dunque l’appello di Naga vale non solo per i giornalisti ma per tutti i cittadini (ormai a pieno titolo comunicatori essi stessi, come ben si sa dalle recenti polemiche relative al web): ognuno di noi, scrivono, ha occasione di contrastare gli stereotipi. O di confermarli, come dice Federico Faloppa nell’introduzione: a volte, riportare un discorso altrui è «un modo semplice ma brillante per far dire ad altri ciò che si vorrebbe (ma non si potrebbe) dire in proprio». Leggete e meditate, come si diceva un tempo.

Repubblica 12.5.13
Giiuseppe De Rita
“Ho vissuto guardando l’Italia cambiare e dimenticare la sua saggezza plebea”
Tra la fede in Dio e la sociologia il presidente del Censis si confessa
Mio fratello sta morendo. Non condivido i suicidi assistiti ma non sono un guelfo
Nessuna nostra élite ha mai dato prova di coraggio e di efficienza
Che ricordo ha di Caffè? Che idea si è fatto della sua scomparsa? Le piacevano le sue analisi?
intervista di di Antonio Gnoli


Osservando Giuseppe De Rita dietro una scrivania affollata di oggetti (tra l’altro due testi di Lévinas sul Talmud e un crocifisso) si nota la compostezza elegante di un uomo che non dimostra ottant’anni. Chiede se può fumarsi il toscano che da un po’ si rigira tra le mani. E quando parla, argomenta con la voce sottile e penetrante che a me fa venire in mente l’ago delle vecchie macchine da cucire. Si avverte, ogni tanto, l’inflessione delle sue origini romane. E l’impressione che se ne ricava è che i sodi e puntuti ragionamenti non abbiano del tutto rinunciato a un leggero scetticismo, a quell’averne viste troppe perché davvero non si debba tener conto della natura italiana, così prodigiosa un tempo e oggi così inconcludente. De Rita non è un uomo di potere. Non lo è nel senso in cui abitualmente pensiamo a questa categoria. E tuttavia, egli ha fatto della sua creatura — il Censis che a novembre compirà quarantanove anni — un luogo effettivo di potere intellettuale. Grazie al quale ha spiegato, continuando a farlo, cos’è questo Paese, insieme paradossale e unico.
Vedo sulla scrivania L’italiano di Giulio Bollati. Chi siamo veramente?
«C’è un pensiero di Giulio, del quale sono stato molto amico, che ho fatto mio. L’Italia si compone di due popoli: il primo, la maggioranza, che spende la propria vita nel lavoro quotidiano; e un secondo popolo che pensa il sentimento del primo e per questo ritiene di essere il legittimo sovrano. Nessuno meglio di Bollati ha descritto la nostra élite».
Anche le sue velleità?
«Certamente. Scaturite dall’essere una realtà astratta e privilegiata. Ma soprattutto inconcludente. Non conosco élite italiana, tranne forse quella risorgimentale, che abbia dato prova di coraggio, di lucidità, di efficienza».
Lei fa parte di una élite.
«Parlo principalmente di élite politica. Il mio compito è stato quello di interpretare fenomeni sociali ed economici».
Ho appreso di una sua laurea in giurisprudenza.
«Sì, ma non mi interessava la carriera in quella direzione. Tanto è vero che alla metà degli anni Cinquanta fui assunto alla Svimez».
Si occupava di sviluppo del Mezzogiorno. Che giudizio ne dà?
«Positivo, se penso sia alla gente di qualità che ci ha lavorato, sia al grande sforzo di quegli anni di programmare un intervento così vasto e articolato. Il limite fu di aver sottovalutato le specificità locali, quell’incognita antropologica che il Sud ancora rappresentava».
A capo della Svimez c’era Pasquale Saraceno. Che personaggio è stato?
«Sembrava un contadino vestito a festa. Con un suo tratto di imprevedibilità. Ma la sua cultura meridionalistica gli derivava dai vari Caglioti, Cenzato, Menichella. Gente che era stata, come lui, nell’Iri. Io fui assunto da Giorgio Sebregondi, una straordinaria personalità intellettuale che sarebbe interessante riscoprire. Fu lui a creare alla Svimez la sezione di sociologia».
Personaggi quasi tutti nati dal fascismo.
«Non nel caso di Sebregondi che attraverso Felice Balbo entrò in contatto con i cattolici comunisti. Quanto agli altri è vero, ma non ebbero nessuna empatia con la cultura fascista. Il loro ai diversi livelli, si avvalse dell’importante direzione di Alberto Beneduce».
C’era anche Enrico Cuccia nel gruppo?
«Con noi non c’entrava, anche se ci capitava di incontrarlo. Aveva intrapreso un’altra strada. Dall’Iri — grazie anche all’appoggio del suocero Beneduce — passò alla Comit di Raffaele Mattioli. Noi, allora ragazzi, vedevamo con ammirazione questi personaggi che lavoravano alla ricostruzione del Paese. E proprio Mattioli secondo me era il più autorevole. Si era preso una passione sincera per Claudio Napoleoni, anche lui alla Svimez in qualità di economista. A volte Mattioli se lo portava al “Buco”, un ristorante romano dove ogni tanto capitava che li raggiungesse Piero Sraffa».
Lei vi partecipò mai?
«No, io non ero un economista».
Ha conosciuto Sraffa?
«Tutto quello che so di lui l’ho appreso, in larga parte, dal mio amico Napoleoni. Claudio era il vero intellettuale del gruppo, ma anche l’uomo più pigro che io abbia mai conosciuto. Per tornare a Sraffa non ho mai capito il successo del suo Produzione di merci a mezzo di merci, un libro che sospetto nessuno abbia capito. Io almeno lo trovai indecifrabile. E mi viene il dubbio che quest’uomo, amico di Wittgenstein e di Gramsci, che dialogava alla pari con Togliatti, fosse diventato il punto di riferimento della sinistra snob».
La sinistra, nel suo complesso, ha avuto diversi economisti come punto di riferimento. Tra questi, oltre Napoleoni, Paolo Sylos Labini e Federico Caffè. Le cito questi nomi, perché sono quelli che hanno gravitato sulla Svimez e poi sul Censis. Non le sembra che in loro pesasse una visione ideologica?
«Direi di no, anche se in modi diversi hanno tenuto conto della lezione di Marx. Erano dei tecnici con uno sguardo rivolto al sociale. Mescolavano la cultura del sapere con quella del fare. Ad esempio molti allievi di Caffè si rivelarono bravissimi nella col ruolo,
Giuseppe De Rita è nato a Roma il 27 luglio 1932.
Laureato in Giurisprudenza, è considerato uno dei massimi sociologi italiani

Repubblica 12.5.13
La rivoluzione di Georgia O’Keeffe dipingere l’universo in un fiore
di Melania Mazzucco


Nei musei del mondo ci sono intere stanze tappezzate di quadri di fiori. Le evitavo, annoiata dalla monotonia di opere che mi parevano tutte uguali: vaso poggiato su ripiano, con sfondo neutro. La maestria degli autori — per lo più olandesi e fiamminghi — consiste nel raffigurare i fiori come se fossero veri e gli mancasse solo il profumo. Coi petali vizzi o molli di rugiada, gli steli verde smeraldo o giallognoli e imputriditi, perfino con le mosche e gli insetti che ci ronzano sopra.
Ma la mia avversione per i quadri di fiori era anche un’avversione di genere (nel senso di gender). Per secoli i pregiudizi accademici hanno relegato la pittura di fiori al gradino più basso della gerarchia. Al primo posto c’era la figura umana (il quadro storico, religioso, mitologico). All’ultimo, la figura inanimata (la natura morta). Come pittura di genere, e di genere minore, le artiste donne avevano finito per specializzarsi proprio in quella, divenendo maestre del virtuosismo illusionista, come Rachel Ruysch, o dell’eleganza decorativa, come Margherita Caffi. Ma io respingevo l’associazione della pittrice con la produzione floreale, che implicava la svalutazione del suo talento. Sul finire dell’Ottocento, l’arte moderna ha capovolto la gerarchia, vedendo proprio in un genere così formalizzato il campo ideale per la sperimentazione pura: basti pensare alle
Ninfee di Monet e ai Girasoli di Van Gogh. Ma non mi sono riconciliata coi fiori dipinti dalle donne finché non ho scoperto questo scioccante capolavoro.
C’è un’umida macchia scura coronata da sinuose labbra viola, grigie e rosate. I colori, intensi e accostati arditamente, non servono a creare volume o a dare luce: sono colori assoluti. La forma illude: chiunque guardi crede di riconoscere nella sinuosa fessura, che si schiude trionfante e sensuale, un sesso femminile. Non rappresentato con la crudezza anatomica dell’Origine del mondo di Courbet: con una capacità poetica di astrazione quasi giapponese. Ma il titolo non consente equivoci. Il quadro raffigura un Iris nero.
Eppure la pittrice che l’ha dipinto rifiuta con radicalità la zavorra della tradizione e il suo trito simbolismo: sovvertendo ogni rapporto di scala e dimensione, reinventa il proprio soggetto. Quando prendi un fiore in mano e lo guardi — ha osservato una volta — è il tuo mondo in quel momento. Voglio dare quel mondo a qualcun altro. Così l’iris nero è un fiore-mondo. Visto in tutti i suoi dettagli botanici come attraverso la lente di un microscopio, o fotografato con un potentissimo zoom. Il quadro è infatti enorme. L’oggetto che rappresenta è ingrandito più di quaranta volte. Questa macro-pittura finisce per trasformarlo in una figura astratta, una sinfonia armoniosa di colore e linea, dipinta a olio con una sbalorditiva sicurezza. Le pennellate restano invisibili, come se il quadro si fosse dipinto da sé.
Invece Georgia O’Keeffe aveva impiegato venticinque anni per impadronirsi di una simile tecnica. Fra i pittori non si trova spesso un Rimbaud: la pittura ha rari geni precoci. Per quasi tutti è un lento, caparbio, faticoso apprendistato alla ricerca di se stessi. Il primo fiore dal vero, un arisaro, Georgia l’aveva disegnato nel 1901, in un collegio di Madison. Dopo una formazione accademica tradizionale, in scuole d’arte di vario livello, si era impiegata come illustratrice di pubblicità e poi come insegnante in provincia: sarebbe forse rimasta l’ennesimo talento femminile inespresso se non avesse incontrato
interlocutori aggiornati capaci di stimolare la sua ricerca. Così, a quasi trent’anni aveva ricominciato daccapo, ripartendo da un foglio di carta e da un carboncino. Tesaurizzando ogni nozione che aveva appreso e insieme dimenticando tutto, per creare una pittura originale, che fosse davvero espressione della sua personalità.
Iris Nero lo dipinse nel 1926, intorno ai suoi trentanove anni, al culmine della sua maturità di donna e di artista, al tempo della sua consacrazione professionale e del suo matrimonio. Quando i fiori giganti furono esposti per la prima volta a New York, i visitatori ritennero che i petali morbidi dischiusi attorno a un alvo oscuro evocassero una vulva, e che ognuno di quei fiori carnosi ed erotici fosse un intimo — imbarazzante e insieme provocatorio — autoritratto dell’artista. Il suo mentore (e marito), Alfred Stieglitz, aveva contribuito a creare la fuorviante identificazione dichiarando che Georgia si era aperta «come un fiore». I fiori giganti attirarono una folla di visitatori turbati e affascinati, perfino di pazienti nevrotiche mandate alla galleria d’arte dagli psichiatri che le avevano in cura per liberarle delle loro inibizioni. Offesa, O’Keeffe rifiutò qualunque interpretazione sessuale o psicanalitica della sua opera. Voleva che essa fosse valutata per le sue qualità pittoriche. Cioè per il disegno, la composizione, l’armonia della forma, l’uso rivoluzionario del colore. Quando dipingeva astrazioni, rappresentava le immagini della sua mente; quando dipingeva mele rosse, iris, petunie viola, calle, papaveri, tulipani, orchidee, camelie, fiori di cactus o di banano dipingeva non tanto l’oggetto in sé quanto l’esperienza di esso, dunque l’emozione che le trasmetteva. Riempire lo spazio in modo che la bellezza si mani-festi: questa — diceva — è l’arte.
Iris nero e i fiori giganti riscossero un successo travolgente, furono venduti a prezzi altissimi, e diedero finalmente a O’Keeffe la possibilità di vivere della sua pittura. Eppure poco dopo — e per molto tempo — smise di dipingere fiori. Negli anni Cinquanta giunse a dire di odiarli, e di averli dipinti solo perché costavano meno di una modella, e avevano il pregio di non muoversi. Abbandonò i colori per il bianco. Si dedicò a ossa di animali, scheletri, bucrani e pelvi raccolti pazientemente nel deserto del New Mexico, dove si era trasferita, e intorno ai settant’anni alle nuvole, che la sedussero quando prese l’aereo per la prima volta. Anche lei dovette rifiutare l’equazione di genere per essere considerata, come credeva di meritare, non la migliore delle pittrici, ma uno dei migliori pittori americani.
Georgia O’Keeffe: Black Iris (1926) New York Metropolitan Museum

Repubblica 12.5.13
Claudio Abbado. La sinfonia della mia vita
Alla vigilia dei suoi ottant’anni il grande direttore d’orchestra si confessa a “Repubblica”
La guerra, la famiglia, l’amore, le montagne e l’arte di sapere ascoltare
di Leonetta Bentivoglio


Quando Claudio Abbado affronta un’intervista, circostanza molto rara, il suo interlocutore dovrà misurarsi con le fertili qualità dell’attesa. Ci sono misteri piccoli e grandi nei suoi silenzi. In un mondo in cui tutti parlano di sé, e l’esposizione dell’ego è una pratica ossessiva, Abbado tende a ritrarsi, scansando l’esternazione per dare spazio all’ascolto. È come se sottolineasse che ogni parola ha un suono e un senso. Atteggiamento legato al fare musica. Perché «la musica insegna ad ascoltare», dice. «Ascoltando s’impara, e così dovrebbe essere anche nella vita: se tutti gli uomini conoscessero la musica, le cose funzionerebbero assai meglio».
Il 26 giugno Claudio Abbado compie ottant’anni, ed è un’età che il direttore d’orchestra milanese, uno dei più amati e ammirati musicisti del nostro tempo, porta con straordinaria leggerezza. Abbado è un mito musicale. Eppure non c’è mitologia nella semplicità del suo tratto. Persino nel pieno del lavoro, quand’è in prova con una
delle “sue” orchestre (“sue” perché le fonda e le modella, imprimendo loro una fisionomia all’insegna dell’eccellenza), esprime naturalezza e capacità di non farsi prendere dall’ansia. È una delle sue virtù più sorprendenti. Qualcosa che somiglia a un modo d’essere orientale, cui sono ascrivibili anche il suo amore per la natura, la sua profonda sintonia con gli amici e il suo vivere immerso totalmente nella musica.
Per il fedele e immenso pubblico che lo ammira, i suoi ottant’anni sono una festa. La celebreranno tra l’altro i suoi prossimi concerti a Berlino (18, 19, 21 maggio, con i Berliner Philharmoniker) e un concerto a Bologna il 9 con l’Orchestra Mozart e Radu Lupu al pianoforte, che sarà replicato alla Salle Pleyel di Parigi l’11. Nell’arco di mezzo secolo, l’insieme delle sue interpretazioni offre uno spaccato tra i più significativi e alti della direzione orchestrale del Novecento. Ne è una riprova il cofanetto che Deutsche Grammophon lancia per il compleanno, contenente vari cicli sinfonici da lui diretti e selezionati in 41 cd.
Le orchestre sono quelle che hanno scandito la sua carriera: la Mozart di Bologna (l’ultima nata, nel 2004), la Chamber Orchestra of Europe, la London Symphony, i Berliner Philharmoniker, i Wiener Philharmoniker, la Mahler Chamber Orchestra e la Lucerne Festival Orchestra. È anche in uscita il disco con la sua lettura della
Seconda di Schumann, eseguita dall’Orchestra Mozart: «Forse tra le sinfonie di Schumann è la più nuova e appassionata », sostiene. «La scrisse in anni in cui era innamoratissimo di Clara. Cosa che emerge dalla ricchezza del pezzo». L’amore è uno spunto ideale per dare il via alla nostra conversazione.
Conta di più l’amore o l’amicizia nella vita di Claudio Abbado?
«Sono sentimenti inseparabili, entrambi essenziali e spesso complementari. Amo certi amici e nutro amore per i figli. A Daniele, il maggiore, che fa il regista, mi unisce un’autentica amicizia. Abbiamo un rapporto libero e aperto».
E per quanto riguarda gli altri tre?
«L’amicizia e l’affetto sono una cosa sola sia con mia figlia Alessandra, sia con Sebastian che fa l’architetto a Londra e sia con Misha, il più giovane, che vive tra Londra e Cambridge. Suona il corno e il pianoforte, oltre al basso elettrico in un gruppo rock, e frequenta l’università. Un gentleman versatile».
Chi sono le persone alle quali oggi pensa con più amore, oltre ai suoi figli?
«Di sicuro una è mia madre, che fu donna di generosità meravigliosa. Fece scappare vari partigiani durante la guerra e riuscì a far passare in Svizzera molti ebrei. Tanti sono tornati a ringraziarla, nel dopoguerra».
Sua mamma Maria Carmela scrisse bei libri per ragazzi.
«Fu autrice di una raccolta di novelle siciliane ascoltate durante la sua infanzia in Sicilia e di un volume di fiabe tradotte da mio nonno Guglielmo Savagnone dal poeta persiano Ferdowsi».
Un nonno formidabile, narrano le cronache di famiglia.
«Un grande saggio, docente di diritto romano all’università di Palermo. Morì a no-
vantasei anni, restando lucido fino alla fine. La sua sapienza delle lingue antiche era sterminata. Aveva tradotto dall’aramaico il testo originale del Vangelo, e dalla traduzione emerse l’esistenza di altri figli di Maria oltre a Gesù. L’aver rivelato che Gesù aveva fratelli e sorelle gli costò la scomunica. Ne andava fiero, perché era un riconoscimento della rilevanza della sua scoperta. Quando io ero bambino veniva con noi in Val d’Aosta, e passeggiando in montagna mi consegnava frasi che sarebbero rimaste dentro di me per sempre. Rapide e lapidarie».
Mi dia un esempio.
«La generosità arricchisce».
Che ricordo serba di suo padre?
«Mio papà Michelangelo, violinista e insegnante al conservatorio, mi ha insegnato la disciplina. Da ragazzo odiavo certe sue durezze, ma crescendo ho capito l’importanza di quell’impostazione. Facevo il liceo e parallelamente studiavo musica: composizione, pianoforte, direzione d’orchestra… Alle due di notte non mi lasciava andare a letto se non avevo terminato tutto. Grazie a lui ho imparato che le cose cominciate vanno concluse e non rinviate».
La sua memoria del fascismo e della guerra l’ha condizionata?
«Certo. Il clima era tremendo. Rammento il suono delle fucilazioni dei partigiani a Milano, in via Fogazzaro, dove abitavamo. Il rumore somiglia a quello delle saracinesche dei negozi che calano bruscamente. Ancora oggi, ogni volta che lo sento, penso a quelle raffiche di morte. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è l’irruzione della Gestapo a casa nostra. Avvenne per colpa mia».
Quale colpa?
«Col gesso, sul muro esterno, avevo scritto “viva Bartòk”. Un po’ come si scrive “W il Milan”. Ero entusiasta del compositore ungherese, di cui stavo studiando i pezzi del
Microcosmo. Quelli della Gestapo pensarono che fosse il nome di un partigiano. Per dissuaderli dovetti mostrare loro una partitura di Bartòk».
Fu Bartòk il suo primo amore musicale?
«Fu Debussy. Quand’ero piccolo ascoltai i Nocturnes dal loggione della Scala. Una magia nella quale avrei voluto vivere per sempre. In seguito per me arrivarono Bartòk, Stravinskij, Prokofiev e la scuola viennese: Berg, Schoenberg e Webern. Poi, dopo la guerra, tanti altri sono stati i compositori che mi hanno catturato, e ogni volta c’è stata un’evoluzione. Il bello della musica è che non ha limiti. Si continua a esplorarla e affiorano idee sempre nuove. L’interpretazione musicale è un viaggio sconfinato».
Riascolta i suoi dischi del passato?
«Cerco continuamente di andare avanti e di comprendere di più. Avevo inciso la
Prima Sinfonia di Bruckner trent’anni fa, e di recente l’ho registrata in una nuova edizione (contenuta nel cofanetto in uscita per Deutsche Grammophon, ndr)
che mi ha aperto un mondo: Bruckner, dopo venticinque anni dalla prima versione, riscrisse la sinfonia facendone un pezzo tanto più moderno, pieno di anticipazioni della scuola di Vienna. Si dice, giustamente, che Mahler sia stato un precursore della musica moderna. Ora, con quest’edizione più tarda della Prima Sinfonia, capiamo che anche Bruckner aveva una genialità profetica».
A Berlino ha lavorato per dodici anni come direttore musicale dei Berliner. È stata la città più importante del suo percorso artistico?
«Ovviamente per me ha contato molto Milano, dove sono nato e cresciuto e dove per vent’anni ho fatto progetti e diretto alla Scala. È stato decisivo anche il mio periodo a Vienna, città culturalmente ricchissima, nella quale tra l’altro ho fondato il festival
Wien Modern. Ma credo che non esista al mondo una città che si sia sviluppata tanto velocemente come Berlino dopo la guerra. È viva, civile, stimolante, piena di verde e generosa di cultura, con nove orchestre sinfoniche, tre teatri d’opera e vari teatri di prosa».
Come trova oggi l’orchestra dei Berliner?
«Magnifica e molto ringiovanita».
Che significa per lei essere giovani?
«L’età come dato anagrafico non significa nulla. Quello che conta negli individui è la personalità».
Un uomo riservato come lei ha faticato a vivere per decenni sotto i riflettori?
«Spesso è molto bello sentirsi utili. Ieri camminavo qui a Bologna con mia figlia Alessandra, e continuavo a incontrare gente che mi ringraziava per quanto cerco di fare in questa città, dove suoniamo con la Mozart e dove sto sostenendo il progetto del nuovo auditorio di Renzo Piano. Ma confesso che quando, a fine Novanta, mi ammalai gravemente, i giornali scrissero troppo di me. Tanta invadenza ».
Come si difende dagli assalti?
«Se è una cosa è ingiusta o mediocre, io l’accantono. È una risorsa».
Oggi lei lavora meno di prima: dilaziona gli impegni.
«Sono comunque numerosi. Molti sono i concerti con la Mozart, anche in tournée, così come i dischi. E in estate sarò a Lucerna, con l’orchestra del festival. Inoltre con la Mozart abbiamo una residenza al Musikverein di Vienna e un’altra in Oman, Paese in grande espansione, dove hanno costruito un nuovo auditorio nel quale portiamo cicli regolari di concerti».
Quando non dirige quali sono le sue priorità?
«Lo studio, la lettura, i figli, i nipoti, gli amici, la natura. Mi piace camminare in Engadina, una valle a duemila metri d’altezza, luogo incontaminato che ritrovo ogni anno. Quanto alla Sardegna nove ettari di costa, di fronte a casa mia, sono diventati un parco naturale. Li strappai alla speculazione alcuni decenni fa, quando i soliti costruttori stavano per edificare qualche mostruosità edilizia. Vi piantai novemila piante. Ora sono tante, è diventato un bosco fiorito».