lunedì 13 maggio 2013

La Stampa 13.5.13
Stefano Rodotà:
«Il governo Letta rafforzerà enormemente Berlusconi e farà erodere il consenso a sinistra»
«Se il Pd non ascolta la base si avvia verso la dissoluzione»
Rodotà: il segretario deve bloccare i regolamenti di conti tra i leader storici
intervista di Riccardo Barenghi


Se il Pd ci avesse creduto, oggi lui sarebbe il presidente della repubblica e magari al posto del governo Letta-Alfano ci sarebbe un governo Bersani-Grillo. Questo fa notare, senza rancore, Stefano Rodotà all’inizio di un’intervista in cui parla soprattutto del Partito democratico e del suo futuro.
Rodotà, Guglielmo Epifani è l’uomo giusto al posto giusto?
«Lo conosco da molti anni e lo considero un uomo serio e capace. Ma il problema è che lui è stato chiamato al capezzale del Pd, che finora non è stato ciò che si proponeva di essere. Le due culture politiche che dovevano amalgamarsi non sono neanche riuscite a dialogare tra loro. Quindi o Epifani riesce dove altri finora hanno fallito o sarà tutto inutile».
Un compito immane per il neo leader. Cosa potrebbe o dovrebbe fare Epifani?
«Deve essere capace di rispondere alla profonda esigenza di cambiamento che c’è nel Pd, sia tra molti parlamentari sia tra migliaia di militanti, e penso a Occupy Pd. Altrimenti se dovesse accompagnare l’ennesimo regolamento di conti tra i leader storici che vogliono controllare il partito con le loro correnti e correntine, sarebbe destinato al fallimento. E la cosa sarebbe molto grave non tanto per Epifani quanto perché la dissoluzione del Pd rappresenterebbe una catastrofe per la sinistra e per tutta la democrazia italiana. A quel punto si aprirebbe una voragine politica e ci troveremmo di fronte alla polarizzazione tra Berlusconi e Grillo».
Ma lei è stato candidato al Quirinale proprio da Grillo...
«Il mio nome è uscito dalla consultazione on line del Movimento 5 Stelle, ma poi sarebbe dovuto diventare il nome di tutto il centrosinistra. L’obiezione secondo cui il Pd non poteva votarmi perchè ero appunto il candidato di Grillo, non sta in piedi: pure Scalfaro era il candidato di Pannella ma poi fu un ottimo capo dello Stato».
Però Grillo spara ogni giorni dichiarazioni quantomeno imbarazzanti.
«Certo e infatti non sono certo d’accordo con lui sul golpe che sbandiera, sulla sua opposizione allo ius solis o sul vincolo di mandato per i suoi parlamentari. Tuttavia penso che adesso il suo Movimento si è parlamentarizzato e dunque deve fare i conti con questa scelta e gli altri devono fare i conti con loro».
Torniamo al cambiamento, è Matteo Renzi il Pd del futuro?
«Il peso di Renzi è aumentato parecchio, lui è stato capace di sbandierare il nuovo con molta disinvoltura. Oggi ha una rendita di posizione che può spendere più di alri. Ma io penso anche a personaggi come Giuseppe Civati, Laura Puppato, Gianni Cuperlo, Fabrizio Barca. Con i quali mi sento più in sintonia di quanto non lo sia con Renzi».
Cos’è che non le piace di Renzi?
«L’ideologia del nuovismo nel metodo e molti contenuti nel merito, a cominciare da quelli sul lavoro. Ma io non dico “a morte Renzi”, perché quello che mi interessa è che si apra una discussione interna per capire quale sia la cultura politica del Pd, se ne ha una, e se voglia mantenere legami, seppur tenui, a sinistra. Non solo con i partiti politici, come la Sel di Nichi Vendola, ma anche con tutto quel mondo che conduce battaglie sul territorio e che ci ha consentito di vincere le ultime elezioni amministrative e i referendum sull’acqua e il nucleare. E pensi che Bersani, che pure aveva avuto coraggio schierando un partito riluttante su quel voto, dopo la vittoria non ha neanche ritenuto di incontrare quelli che quella battaglia avevano promosso».
Senta Rodotà, in tutta franchezza che ne pensa del governo Letta?
«E’ ovvio che ci sono emergenze drammatiche, ma la mia impressione è che questo governo abbia cominciato male, andando nella direzione sbagliata, ovvero il blocco dell’Imu. Quando invece la priorità è l’occupazione. E poi chi può pensare che questa maggioranza possa fare cose decenti sul conflitto di interessi, la corruzione e i diritti a cominciare da quelli dei figli degli immigrati? E’ evidente che si tratta di un governo che rafforzerà enormemente Berlusconi, erodendo il consenso per il Pd. E l’unico modo per togliere al Cavaliere il potere di vita e di morte sul governo è cambiare immediatamente la legge elettorale, altrimenti lui potrà continuare a ricattare governo e Pd: “Se non fate come dico io si torna al voto e col porcellum vinco sia alla Camera che al Senato”».
Ma se si cambiasse subito la legge elettorale, l’attuale parlamento, eletto col vecchio sistema, sarebbe delegittimato e si tornerebbe per forza al voto in tempi rapidi.
«Meglio così».

Corriere 13.5.13
Sergio Cofferati:
«Guglielmo? Non si sceglie così il leader»
«Si crea un problema di rapporti tra il neosegretario e i sindacati»
«E’ un nuovo errore che separa il partito dai suoi elettori»
«Siamo all’evaporazione di una forza politica»
intervista di Aldo Cazzullo


«Il Pd ha fatto un passo indietro sul piano della democrazia interna. Un altro errore, che separa il partito da iscritti ed elettori, e accentuerà la crisi. Se mettiamo insieme un Pd che si chiude e un governo già in difficoltà, siamo a una sorta di evaporazione di una forza politica».
Sergio Cofferati, perché il modo in cui è nata la segreteria Epifani le sembra un passo indietro?
«Nulla da obiettare sulla scelta di Guglielmo. Ma l'assemblea che l'ha eletto segna un arretramento molto preoccupante della vita democratica interna al Pd. Bersani fu eletto con un milione e 600 mila voti. Epifani con 450».
Bisognava fare in fretta.
«Come argomento non vale. Si sono fatte le primarie per i parlamentari nelle vacanze di Natale; figurarsi se non si poteva eleggere in altro modo il segretario».
Trova sbagliato distinguerlo dal candidato premier?
«No, questo è ragionevole, accade in molti Paesi europei. Quel che trovo privo di qualsiasi traccia di buonsenso è distinguere la legittimazione del segretario, eletto da un'area ristretta di persone, com'è stato per Guglielmo, mentre il candidato premier dovrebbe essere scelto con le primarie. Questa differenza è distruttiva, perché mette le due figure su un piano diverso nel rapporto con il nostro popolo. Non c'è nessuna ragione per giustificarla, se non l'idea che il premier debba avere una legittimazione più forte del segretario del partito. Non va bene».
È la prima volta che la sinistra si affida all'ex leader della Cgil. Non era accaduto né a Di Vittorio, né a Lama, né a Trentin, né a lei. Come mai?
«Lama concorse alla segreteria del Pci in contrapposizione a Natta, ma non divenne segretario. Credo che storicamente fosse l'effetto di un'autonomia molto radicata del sindacato: la distinzione di ruoli passava dalla distinzione dei percorsi politici».
Ora l'autonomia è in pericolo?
«Lo diranno i fatti. È evidente che si crea un problema sul piano dell'immagine nei rapporti tra il nuovo segretario del Pd e i sindacati. Diciamo che il tema dell'autonomia diventa ancora più forte per ragioni oggettive, al di là delle intenzioni delle persone».
Epifani ha le caratteristiche adatte per guidare il partito?
«Il problema non sono le caratteristiche di Guglielmo e del lavoro difficilissimo che gli viene affidato. È il contesto che rischia di travolgere tutto. La situazione sta peggiorando di giorno in giorno. E siamo solo all'inizio».
Si riferisce al governo con il Pdl?
«Sì. Non si era mai visto nella storia della Repubblica il ministro degli Interni partecipare, con altri ministri, a una manifestazione di partito contro la magistratura, uno degli organi dello Stato. Avevamo visto cose bizzarre, tipo i ministri di Prodi manifestare contro le azioni del loro governo; ma quelle erano, come si diceva un tempo, "contraddizioni in seno al popolo". Qui siamo a un grave vulnus istituzionale su un tema delicatissimo come la giustizia».
Al momento del patto con Berlusconi la sua sensibilità all'argomento era nota.
«Ma mi preoccupa la mancanza di risposta da parte del Pd. Ho sentito e letto solo commenti imbarazzati e imbarazzanti. Mi sarei aspettato una presa di posizione forte: la richiesta di dimissioni di Alfano, oppure di un vertice di maggioranza per affrontare la questione. È evidente la dipendenza del Pd dalla scansione degli argomenti che decide il Pdl».
Anche questo era prevedibile, non crede?
«Sì, ma in un arco di tempo brevissimo siamo già in una situazione inaudita, e per qualche verso pericolosa. C'è una situazione economica e finanziaria gravissima. L'allarme sulla crisi sociale l'ha lanciato Mario Draghi. E da noi si parla di Imu».
Lei difende l'Imu?
«È una brutta tassa, voluta da Berlusconi e applicata da Monti nel peggior modo possibile. Andrebbe rivista. Ma adesso la priorità assoluta è il lavoro. Purtroppo il Pd è in un governo sostanzialmente impossibilitato a prendere provvedimenti efficaci: sulla giustizia Berlusconi farà azioni durissime di condizionamento della magistratura; sul versante economico sta imponendo i suoi temi. E il Pd rischia di ripetere, su scala molto più grande, l'esperienza fatta con Monti, quando ha votato misure contro i più deboli, mentre il Pdl pur votandole contestava il governo».
Teme un ritorno alla violenza politica?
«No. Il disagio sociale di rado si è espresso con la violenza. È molto più diffuso l'abbandono della vita democratica. Chi non ce la fa più rinuncia alla socialità, si vergogna della povertà, si chiude in casa. Sento che il governo vuole peggiorare la già pessima riforma Fornero, aumentando la flessibilità in entrata. Servirà solo a togliere diritti ai più giovani. Ci vorrebbe invece un piano straordinario di investimenti pubblici».
Renzi come lo trova?
«Penso debba decidere in fretta se vuole candidarsi alla segreteria del Pd o no».
Ed Epifani al congresso si candiderà?
«Non vedo come glielo si possa impedire. Più che decidere chi è il leader, è importante decidere cosa è il Pd. La commissione di Bruxelles sollecita i partiti nazionali ad arrivare alle Europee dichiarando la loro appartenenza alle grandi famiglie politiche. Nel partito socialista europeo c'è il vecchio Psi, ma non c'è il Pd. Vendola vuole entrare. Noi cosa aspettiamo?».

Corriere 13.5.13
Riccardo Terzi, segretario della Spi Cgil:
«Non è una soluzione Così si resta con il Pdl»
di Al. T.


ROMA — Il 4 maggio aveva scritto un articolo sull'Unità per spiegare perché se ne andava dal Pd, anzi perché «il Pd lascia andare alla deriva il suo progetto». Ora Riccardo Terzi, segretario della Spi Cgil, non cambia idea e anzi semmai la rafforza: «La scelta di Guglielmo Epifani alla guida del Pd non mi pare che sia la soluzione. Del resto, qualunque scelta si faccia, restano nodi politici irrisolti e un governo sbagliato. Eleggere Epifani non è né un passo indietro, né un passo avanti, è semplicemente un tentativo di ricucire una ferita con una persona autorevole». Che ha esordito spiegando che «bisogna metterci la faccia», nel governo: «Appunto — spiega — la sua elezione è la conferma di un errore, di una scelta sbagliata, l'alleanza politica con il Pdl, dettata da presunte ragioni di necessità che non esistono». Epifani è l'ultimo di una lunga serie di sindacalisti finiti in politica: «Scelte personali — dice Terzi — io per esempio ho fatto il contrario, ho cominciato in politica e ora voglio restare nel sindacato, che è molto più interessante».

Corriere 13.5.13
Prima mina il voto a Roma
E Renzi guarda a sinistra per smarcarsi dal governo
Il segretario: mi do un mandato a termine
di Maria Teresa Meli


ROMA — «La mia sarà una gestione collegiale», ha già assicurato a tutti i maggiorenti del Pd Guglielmo Epifani. Il neoleader del Partito democratico pensa di creare un organismo snello, che abbia le funzioni della segreteria e poi di un coordinamento politico (il caminetto, per intendersi) in cui saranno rappresentate tutte le correnti. Ma l'idea sarebbe quella di operare un ricambio generazionale anche in questo secondo organismo. L'obiettivo, insomma, è quello di non contornarsi di un caminetto composto dai soliti noti.
In segreteria dovrebbero entrare, tra gli altri, Matteo Orfini per i «giovani turchi», Enzo Amendola per i dalemiani, Antonello Giacomelli per i franceschiniani. E ovviamente ci saranno anche i rappresentanti di bersaniani, lettiani e renziani. A proposito di questi ultimi, corre voce, benché il sindaco smentisca, che la componente renziana abbia chiesto la guida di tre dipartimenti — Organizzazione, Enti Locali ed Economia — e che potrebbe ottenerne almeno due, perché non è intenzione di Epifani entrare in urto con Renzi.
Ma il segretario sa che la sua partita più difficile la gioca, tra poco più di venti giorni su un altro terreno. Saranno le amministrative e, soprattutto, quelle capitoline, il vero banco di prova della sua segreteria. Per questa ragione già l'altro ieri, all'assemblea nazionale ha voluto rimarcare con forza l'appoggio a Ignazio Marino, che sembrava invece essere stato lasciato solo dal partito in questa campagna elettorale. Epifani sa bene come funzionano certe cose. Se il centrosinistra vincerà a Roma, quel risultato diventerà un volano per la sua segreteria. E in questo modo l'ex leader della Cgil potrà puntare alla ricandidatura al congresso d'autunno, anche se adesso dice di escludere una prospettiva del genere: «Mi sono dato un mandato a termine, un mandato di cinque mesi e questo renderà tutto più facile», ha confidato ai suoi. Un inizio difficile, invece, con una batosta elettorale nella Capitale rischia di compromettere il suo futuro politico. Ma Epifani, che è uomo abile e accorto, sa già tutto questo e si sta preparando in vista dell'appuntamento con le elezioni amministrative.
Chi da Firenze guarda con attenzione alle mosse di Epifani e del Pd tutto è Matteo Renzi. Il sindaco rottamatore sembra aver acquisito una certa sintonia con il suo partito. Lo dimostra con evidenza una scena che è avvenuta l'altro ieri, nella sala dell'assemblea nazionale del Pd. Renzi aveva appena finito di parlare, che subito Alfredo Reichlin si andava a complimentare con lui. Già, l'ex comunista Reichlin, il dirigente politico che è dietro l'iniziativa di Fabrizio Barca e la candidatura di Gianni Cuperlo, un uomo lontano anni luce dal sindaco di Firenze, e che pure ora ha capito anche lui che il primo cittadino di Firenze può essere una «risorsa» — e pure qualcosa di più — per il Pd. La scena di Renzi in mezzo alla sala della nuova fiera di Roma, con un capannello di dirigenti del partito attorno, mentre Bersani, da solo, infilava la via dell'uscita, prefigura quello che potrebbe essere il futuro. A patto, naturalmente, che la popolarità del sindaco rimanga intatta.
Lui continua a dire che comunque resterà a Firenze e si candiderà di nuovo per guidare la sua città. E a qualche amico che gli chiedeva perché non tentasse la strada della segreteria ha motivato il suo no in due modi. Primo: «Ricordatevi quello che è successo a Veltroni. Io non voglio farmi logorare». Secondo: «Una mossa del genere, da parte mia, potrebbe avere contraccolpi sul governo, mettere in pericolo Letta e io non lo voglio assolutamente». Però Renzi non vuole nemmeno restare a guardare e farsi sorpassare lungo la strada che porta a palazzo Chigi dall'attuale presidente del Consiglio. È questa la ragione per cui prossimamente si assisterà a uno strano fenomeno. Approfittando del fatto che Letta e Franceschini sono inevitabilmente schiacciati sull'alleanza con il centrodestra di Berlusconi, Renzi scarterà a sinistra.
Ha già dato un antipasto della sua strategia, chiedendo al Pd di cavalcare la battaglia dello «ius soli» e della riforma radicale della legge Fornero. E adesso, gli ex Ds che prima lo guardavano con diffidenza hanno mutato atteggiamento. Perplessi sul governo e contrariati dal potere che vanno conquistando Letta e Franceschini, ora, puntano le loro carte su Renzi.

La Stampa 13.5.13
Epifani: “Ho scelto un mandato a tempo: è questa la mia forza”
«Basta fratture e distinguo Serve una linea condivisa per aiutare l’esecutivo»
Sostegno al governo: «Dobbiamo prendere l’iniziativa e lavorare perché si realizzi l’agenda economica e sociale»
E il partito già mette in conto una sfida Renzi-Letta per la futura premiership
di Carlo Bertini


Chiamato ad uno sforzo impervio come mettere pace nel Pd, Guglielmo Epifani è fiducioso di farcela, «la mia forza, che userò, è che mi sono dato un mandato a scadenza precisa di cinque mesi, portare il partito al congresso», ragiona in queste ore il neo segretario con i suoi interlocutori. Facendo così capire di non essere intenzionato a ricandidarsi, perché «se pure darò il massimo, la mia forza sarà che non sto cercando altro. Non volevo questa nomina e l’ho accettata per questo periodo transitorio». Insomma, quando tutti glielo hanno chiesto, Epifani non poteva rifiutare e malgrado ciò è sorpreso da quel che è successo all’assemblea nazionale, «è un mezzo miracolo che alla fine ci sia stata un’unità così larga». In effetti, i prodromi non facevano ben sperare e comunque ora si volta pagina e «nel Pd è ora di mettere da parte tutte queste fratture e divisioni, di trovare una linea condivisa, a partire dal sostegno al governo». È questo il punto su cui batte di più il segretario, con tutti coloro con cui parla è da qui che parte, con una tesi precisa, quella che «noi dobbiamo sostenere il governo e intestarci la politica economica e sociale, questa deve diventare la nostra forza. E quindi intestarci tutto ciò che riguarda il lavoro: dagli investimenti per l’occupazione, ai fondi per le aziende, dal rifinanziamento della cassa integrazione agli esodati, fino alla detassazione delle nuove assunzioni». Lo dice anche al Tg1, quando ricorda che «questo sarà l’anno più duro della crisi, quindi questo è un governo che deve dare una risposta sul finanziamento della cassa integrazione, sul rinvio dell’iva non far pagare l’Imu alle fasce popolari, sostenendo gli investimenti. Quello che chiediamo al governo è di fare presto e bene e Berlusconi sbaglia, invece di dedicarsi al bene del paese, mette in continuazione delle micce sotto il governo, ma è un segnale di debolezza non di forza».
In pubblico attacca il nemico numero uno, accusandolo di indebolire l’azione dell’esecutivo, ma in privato Epifani parla dell’atteggiamento del suo partito che «invece di vivere questo governo in modo imbarazzato e passivo, deve impegnarsi a fondo e lavorare affinché l’agenda economica e sociale si veda e porti dei risultati tangibili». Insomma, questo è il punto «e questa deve essere la nostra finalità, senza cadere nelle provocazioni di Berlusconi. Se riusciamo a recuperare un’unità d’intenti e a mostrare capacità di fare le cose, credo che il Pd ricomincerà a respirare e ad avere una prospettiva». Con una postilla non indifferente, «perché non dimentichiamo che è un partito in grado di esprimere due giovani che hanno capacità e popolarità come Letta e Renzi. Ma è importante che ora tutti giochino la stessa partita.
E non è un caso se nel day after la nomina di Epifani, nel Pd già si guarda avanti e le due figure più sugli scudi siano proprio le due citate dal segretario. «E’ chiaro che se il governo marcia bene, lo sfidante naturale di Matteo alle primarie per la premiership sarà Letta», ragiona un renziano del cerchio ristretto. Quindi Renzi ha già messo in conto uno scenario del genere. Ora va dicendo che a maggio si ricandiderà a sindaco, anche se non si può mai escludere del tutto una candidatura al congresso del Pd, che andrebbe decisa a breve, entro luglio.
Anche Letta, a detta dei suoi, non ha nessuna intenzione di candidarsi per il partito, «ormai il suo è un profilo istituzionale...». E se un bersaniano come Speranza ammette che «Renzi in questo momento è la risorsa più forte sul piano della relazione con l’opinione pubblica», è il segnale che anche a sinistra può far proseliti. E forse proprio in vista di una battaglia con un leader a lui affine nel profilo politico come Letta, non ci sarebbe da stupirsi se Matteo continuerà a lanciare segnali a quel mondo lì. «Del resto, già da mesi è concentrato molto sui temi del lavoro nei suoi interventi», fanno notare i renziani.
Restando all’oggi però, il Pd si occupa di poltrone: per l’organismo snello (oltre al nuovo “caminetto” delle correnti) che nominerà Epifani, i renziani si aspettano di vedere o Luca Lotti all’organizzazione, o Yoram Gutgeld all’economia o Angelo Rughetti agli enti locali. I dalemiani punteranno sul giovane campano Enzo Amendola, coordinatore dei segretari regionali, i «turchi» su Matteo Orfini e per i franceschiniani si fa il nome di Antonello Giacomelli. Mentre il tesoriere Antonio Misiani, bersaniano, potrebbe essere affiancato da un gruppo «plurale».

La Stampa 13.5.13
La posta in gioco per il Pd
di Elisabetta Gualmini


La deprimente Assemblea di sabato ha formalmente aperto il Congresso Pd che, a meno di colpi di mano, dovrebbe concludersi in ottobre, secondo le innovative regole scelte nel 2008, con l’elezione di un nuovo leader da parte di tutti i cittadini che abbiano voglia di partecipare.
Sia gli accordi presi dai maggiorenti nella riunione del «caminetto» tenutasi pochi giorni prima, sia il testo criptico (as usual) di un ordine del giorno approvato sabato, sia l’entusiasmo impalpabile con cui Epifani è stato ascoltato da una platea ridotta a un terzo nel dopo-pranzo, dicono che il neo-segretario dovrebbe essere traghettatore e garante di una breve fase transitoria. Nella quale sarebbe ragionevole attendersi che nuovi attori si facciano ora avanti per contendersi la guida del partito. Corposi indizi lasciano invece intendere che non andrà così, per il prevalere di «istinti di sopravvivenza» che già hanno portato quel partito ben oltre la soglia della auto-dissoluzione. Chi si aspettava un taglio netto col passato, una cura da cavallo al corpaccione agonizzante del Pd, capace di rianimarlo e di rimetterlo in corsa, non poteva che rimanere deluso, via via che scorreva lo spartito degli interventi, tutti rigorosamente sottotono, in una gara ad apparire modesti, monocordi, elusivi sui clamorosi fallimenti del gruppo dirigente dimissionario, appassionanti come la lettura del codice civile alla fine dei matrimoni. Con l’eccezione, va riconosciuto, del candidato in pectore Gianni Cuperlo, decisamente fuori standard per chiarezza e profondità, l’unico ad aver pronunciato la parola «sconfitta».
Tra gli indizi visibili al pubblico ci sono i calorosi abbracci, di consolazione e incoraggiamento, tra Bersani, Franceschini, Letta ed Epifani. A conferma che quest’ultimo potrebbe non essere il traghettatore verso un nuovo inizio (che si tratti di far girare la ruota lungo il viale delle rimembranze già solcato da Bersani o di imporre un’agenda alternativa con il metodo Renzi) ma, tutto al contrario, il garante dello status quo. Il rappresentante del «patto di sindacato» che controlla il Pd dal 2010 (Bersani, Letta, Franceschini). E dunque dell’accordo di governo Pd-Pdl, l’ultima spiaggia a cui questo gruppo dirigente è approdato dopo una sconclusionata navigazione a vista. Le parti si sono invertite rispetto ai piani fatti alla vigilia delle elezioni: la «non vittoria» di Bersani ha portato i post-Dc in prima fila; e con quello che ieri era il nemico pubblico numero 1 (Berlusconi) si è oggi dovuta stringere una «alleanza organica» (si sarebbe detto nella Prima Repubblica). Ma il «patto di sindacato» regge. Viene prima di tutto. Anche se per tenerlo in piedi e rimanere a galla si devono fare salti mortali sul piano logico che pochi comuni mortali riescono a seguire.
Non è facile spiegare come Epifani, che da segretario della Cgil fu un combattente tenace contro il governo Berlusconi, ora sia il principale sostenitore dell’accordo con il nemico. Ce lo ricordiamo nell’ottobre del 2010, alla manifestazione Fiom a Roma, mentre urlava e infiammava la piazza, in un crescendo di bordate contro il Caimano, al centro del palco tra due tostissimi come Landini e Cremaschi che ascoltavano annuendo. «Una politica di destra che ha umiliato il Paese, che ha tagliato scuola e ricerca e ha mandato a casa i precari. Che ha usato la crisi per colpire i diritti dei lavoratori». Il leader che ha spinto la Cgil sulla via delle intese separate, dicendo no alla riforma del modello contrattuale del 2008, il primo degli strappi da Cisl e Uil sino a Pomigliano. Ora è lui la stampella su cui si regge il governissimo con Berlusconi, con il problema giustizia grande come una casa.
Ma se questa è la base di partenza, il Congresso Pd potrebbe rivelare sorprese. Il discrimine potrebbe diventare, per l’appunto, quello che separa i difensori dello status quo (patto di sindacato interno, larghe intese) e chi ritiene che vada superato (sotto tutti e due i punti di vista). Che poi vuole anche dire, chi scommette sulla durata dell’attuale governo per più di dieci mesi e su Enrico Letta come bandiera elettorale del Pd anche nelle prossime elezioni, e chi pensa che la nuova bandiera non potrà che essere Renzi, il prima possibile.

Corriere 13.5.13
La sfida neoradicale e giacobina al Pd
Gli antagonisti del no a tutto
di Ernesto Galli Della Loggia

qui

l’Unità 13.5.13
Perché continuare a comprare il nostro giornale
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Per più di venti anni ogni mattina ho comprato in edicola il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ma dopo la formazione del governo con il centrodestra non so se lo farò ancora.
Silvano Chiaradonna

A cinquant’anni quasi di distanza da quando firmai il mio primo articolo su l’Unità sono un veterano del giornale su cui scrivo ancora oggi e sento, per questo motivo, il dovere di rispondere al grido d’angoscia del lettore che non ha più il coraggio di comprarla quando, spinto dalla forza dei fatti, il Pd ha accettato l’idea, a lungo ritenuta blasfema, di guidare un governo insieme a Berlusconi e ai suoi. Dicendogli, prima di tutto, che la decisione è stata presa di fronte a un incalzare di eventi che ha reso, al momento, impossibile la formazione di un governo diverso in un Paese che di un governo aveva un bisogno assoluto e urgente. Ma dicendogli soprattutto che un grande partito non può evitare, se non è nelle mani di un padrone, la convivenza al suo interno di posizioni diverse e che il giornale fondato da Antonio Gramsci, che di questa diversità non può non tenere conto, ha continuato a credere, tuttavia, in quel processo di rinnovamento nella continuità portato avanti con particolare chiarezza, nell’ultimo anno, dalla segreteria di Bersani. Niente di più sbagliato, da questo punto di vista, che indebolirla per chi come me continua a credere nella forza di idee che resistono anche alle alleanze più pericolose. Come duramente propose Togliatti da Salerno alleandosi a Badoglio e ai Savoia odiati e disprezzati allora, da sinistra, almeno quanto il Berlusconi di oggi.

l’Unità 13.5.13
Ora un congresso per cambiare
di Enrico Rossi

Presidente Regione Toscana

LA SCELTA DI EPIFANI, FATTA SABATO DALL’ASSEMBLEA DEL PD, È UNA SOLUZIONE di equilibrio oppure, se si preferisce, di completamento. Può essere utile purché si chiariscano subito tre punti: 1) che al congresso ci si arrivi quanto prima e si apra immediatamente la discussione; 2) che il nuovo segretario del Pd, anche allo scopo di tutelare da ripercussioni negative il governo Letta, non potrà correre come candidato premier; 3) che il segretario Epifani sia di garanzia e quindi non ricandidabile.
Epifani viene dalla Cgil, un’organizzazione dei lavoratori dipendenti alla cui storia e alle cui proposte politiche mi sento molto vicino. Ma il Pd non può permettersi di dare anche soltanto l’immagine o alimentare il dubbio di essere il partito del solo lavoro dipendente, proprio quando c’è da ricostruire un blocco sociale più ampio in cui insieme a disoccupati, precari e lavoratori dipendenti possano riconoscersi e sentirsi rappresentati anche i titolari di partite Iva, gli artigiani, i piccoli imprenditori, insomma tutto il ceto medio colpito dalla crisi e senza il quale non si può né vincere, né rinnovare il Paese.
Epifani non può certo rappresentare l’idea di rinnovamento, poiché ha già svolto un ruolo primario di rilievo nazionale nella Prima e nella Seconda Repubblica. Queste caratteristiche del nuovo segretario Pd, se non si chiariscono subito i punti richiamati, possono mettere il Pd in una situazione di oggettiva difficoltà verso iscritti ed elettori. Infatti non c’è futuro se non si dà risposta allo sconforto e alla rabbia di tanta parte del popolo democratico e di sinistra che, disorientato e deluso dal fallimento di Bersani e dal governo con il Pdl, chiede di discutere, di essere ascoltato e di essere subito protagonista e artefice del cambiamento del gruppo dirigente nazionale e di una rigenerazione culturale, progettuale e programmatica del Pd.
Spero che a nessun sfugga il fatto che, con il governo di necessità, di cui io stesso rivendico le ragioni e il dovere di sostenerlo per rispondere alle emergenze sociali e istituzionali, non sono certo venute meno le ragioni più profonde della sinistra, che superata la fase attuale, reclamano un’idea e un progetto di società e un impegno politico che nasca dalla critica del fallimento delle politiche liberiste, dei tagli e dell’austerità, che non hanno prodotto né equità, né sviluppo.
Spero infine che tutti avvertano la febbre che scuote il partito e il disagio del popolo del centrosinistra che vuole avere un Pd che li rappresenti, per le loro idealità e la loro storia, pena l’affievolirsi della passione politica e una lenta, inesorabile e silenziosa scissione.
Epifani è una soluzione frutto di un accordo di palazzo, certo dignitosa, purché il suo significato sia contenuto nei limiti della garanzia e delle regole per lo svolgimento del congresso. È infatti di un confronto vero che c’è bisogno per rilanciare il Pd e convincere che possiamo essere il riferimento per tanti, donne e uomini, che ancora credono che valga la pena di impegnarsi per una società diversa e migliore.
Possiamo farcela, dicevamo sabato, ma non ci resta molto tempo.

l’Unità 13.5.13
La crisi Pd riflesso del ko della destra
La sinistra ha perso radicalismo sociale
Dipende dalla forma-partito, ma non solo
di Carlo Buttaroni


E se la crisi del Partito democratico fosse, in realtà, il riflesso della crisi della destra e non della sinistra? Se derivasse dalla responsabilità di assumersi il peso del fallimento delle teorie iperliberiste? Se il disorientamento nascesse dalla scoperta di una società dove le classi sociali sono aumentate anziché ridursi? Se il problema non derivasse dall’impossibilità di governare i grandi processi economici e sociali, ma dall’aver disperso il radicamento sociale dopo anni di avvitamenti verticistici ed elitari?
Il Pd ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato, occupa le prime tre cariche dello Stato, la presidenza del Consiglio, la maggioranza dei ministri, guida gran parte delle commissioni parlamentari e detiene la maggioranza dei presidenti di Regione. Perché allora non esercita queste leve per entrare nel cuore della società e assumere la rappresentanza del mondo del lavoro, dei ceti medi produttivi, delle piccole e medie imprese che hanno urgente bisogno di un governo che sposti il baricentro delle scelte politiche dalla finanza alla società e all’economia reale? Perché, anziché dilaniarsi nel tentativo di trovare equilibri interni, non esercita il potere istituzionale e politico per dispiegare una reale azione riformatrice nella società?
È innegabile che disaffezione politica e rabbia sociale hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi che ha travolto il Pd, e che una parte di responsabilità si ritrova nella coabitazione forzata con il centrodestra, nel governo Letta ora, nel governo Monti prima. Ma le ragioni profonde della crisi del Partito democratico non devono sfuggire e occorre riprenderle nei termini politici che gli sono propri. Il Pd oggi appare costretto nella contraddizione fra politiche di stampo socialdemocratico e un neocentrismo ispirato a un’agenda liberale, costrette a convivere nello spazio stretto dell’opposizione a Berlusconi. È questo che ha prodotto un deficit di progettualità politica e che è esploso proprio nel momento in cui il Pd è stato chiamato a sostenere il peso principale della governabilità, dopo il fallimento delle ricette economiche liberiste.
LA SINISTRA EUROPEA
L’Europa suggerisce vie alternative allo stallo politico della sinistra italiana: in Francia come in Germania, i partiti della sinistra democratica sembrano muoversi verso la riscoperta (o quantomeno la rielaborazione) dei valori tradizionali delle socialdemocrazie europee, facendo leva sull’incompatibilità di politiche di austerità con la crescita e l’occupazione, nonché ponendosi contro le ricette della destra liberale che hanno portato l’Unione alla situazione economica attuale. E proprio su queste basi si fonda un documento che i socialisti francesi hanno recentemente approvato in vista della Convenzione sull’Europa di giugno che, a sua volta, porrà le basi di una strategia comune di tutti i partiti socialisti e democratici del Pse. Affrontare la destra, è scritto nel documento, significa rimettere le ragioni della crescita e del lavoro al centro del dibattito politico, indignarsi per il degrado delle condizioni di vita dei popoli, per l’oblio in cui sono stati relegati i valori fondanti del progetto europeo. Significa affermare un’integrazione solidale con misure economiche e sociali che abbiano come principi ispiratori quelli del benessere e della tutela dei cittadini.
«È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico ha scritto recentemente il premio Nobel per l’economia Paul Krugman riferendosi alle politiche del rigore Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito. (...) Se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. (...). I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese sulla sanità e la previdenza ovvero sui programmi assistenziali mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata. (...) Da quando abbiamo optato per l’austerità, i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione».
Queste riflessioni rendono evidente quale dovrebbe essere, per il Pd, il «campo economico e sociale» di riferimento per proporre la sua idea di Paese. Ma le questioni economiche e sociali non esauriscono le ragioni della crisi politica del Pd. Esse riguardano anche il modello di partito, che inevitabilmente risente del modo di specchiarsi nella società. Se il partito di massa, nelle sue varie declinazioni conosciute anche nel nostro Paese, sembra tramontato e «irrecuperabile», essendo venuta meno la possibilità di costruire una cornice ideologica «forte», bisogna chiedersi se davvero l’alternativa obbligata è quella di partito prevalentemente «elettoralistico». Se la tradizionale dimensione rappresentativa e partecipativa che regolava, in forme molto varie, l’organizzazione dei partiti del Novecento, oggi sembra insufficiente a contenere una società più complessa, davvero l’unica via è quella di un mix tra forti leadership personali e forme destrutturate, «liquide», di organizzazione?
Tuttavia è proprio la crisi economica e sociale a dirci che, seppur in forme completamente diverse dal passato, non si può fare a meno di attori politici organizzati, dotati di una base associativa, che si propongono di svolgere un ruolo di rappresentanza degli interessi sociali, di orientamento e di elaborazione delle politiche pubbliche, di organizzazione del consenso. Se prendiamo in considerazione tutte le «classiche» funzioni che i partiti storicamente hanno svolto in passato dalla strutturazione del voto all’aggregazione e alla rappresentanza degli interessi sociali, al reclutamento del personale politico si nota come siano ben lungi dall’essere inutili. Articolare, rappresentare e ricomporre interessi sociali diffusi, proporre obiettivi di trasformazione sociale, promuovere inclusione e coesione sociale, alimentare lo spirito civico dei cittadini attraverso la partecipazione, promuovere una visione della politica come azione collettiva: questi i compiti che non possono essere svolti da partiti di stampo elettoralistico o leaderistico. La crisi del Pd nasce anche da qui: aver dato per scontato la dimensione atomizzata e individualistica della società, dando l’idea di non avere bisogno di quei corpi e strutture intermedie che servono, invece, a instaurare un rapporto diretto tra leadership e base. Il Pd, piaccia o no, è sembrato troppo spesso un team di politici prevalentemente tesi alla conquista di cariche pubbliche. E la responsabilità di questo piano inclinato non è ascrivibile a un leader o un gruppo dirigente bensì nel decadimento di una visione sociale che ha stentato a trovare una nuova forma politica tra le nebbie della seconda Repubblica.
La chiave per il Pd, adesso, è smetterla di guardare al suo interno per rimettere radici nella società, ridefinendo un’efficace circolarità di rappresentanza e partecipazione. Perché è solo grazie all’attivarsi di questa circolarità che può arricchirsi la qualità di politiche autenticamente riformiste, grazie all’apporto di conoscenze, competenze ed esperienze in grado di interagire con i luoghi deputati alla decisione politica. L’organizzazione del partito va riprogettata esattamente su queste esigenze. Sapendo che la casa dei riformisti dovrà essere ancora più grande e comprendere la sinistra democratica europea.

l’Unità 13.5.13
I Pirati bocciano il voto on line
Al congresso del partito tedesco è fallito il tentativo di rendere obbligatorie e vincolanti le assemblee su Internet:
«I sistemi di votazione elettronici sono manipolabili»
E se lo dicono loro...
I fautori della proposta chiedono post-congressi regionali in cui rivotare (ma su schede di carta)
I risultati sconfessano gli attuali dirigenti, che non nascondono la delusione
di Paolo Soldini


Politica in rete? No, grazie. Al congresso dei Piraten tedeschi concluso ieri (forse) a Neumarkt, anonima cittadina del Palatinato che probabilmente non passerà alla storia per l’evento, è fallito il tentativo di rendere obbligatorie e vincolanti le cosiddette Ständige Mitgliederversammlungen (Smv), ovvero le assemblee permanenti on line dei militanti.
La proposta di introdurre l’obbligo è stata votata dal 58,1 per cento dei delegati mentre per passare avrebbe dovuto avere l’assenso di tre quarti dell’assemblea congressuale. Se le Smv fossero passate, praticamente tutte le decisioni del Piratenpartei, comprese quelle oggetto dei congressi stessi (anche quello in corso), avrebbero dovuto essere prese con votazioni elettroniche sul tipo, per capirci, di quelle che in Italia vengono teorizzate dal Movimento Cinque Stelle e i cui esiti non avrebbero potuto essere messi in discussione.
DEMOCRAZIA NON ELETTRONICA
I fautori dell’innovazione, che avevano presentato la loro mozione il primo dei tre giorni di discussione e poi avevano imposto una «pausa di riflessione» di 48 ore sperando di convincere i riottosi, comunque non si sono rassegnati e hanno rifiutato di considerare definitivo il no dell’assemblea. Hanno annunciato, perciò, l’indizione di una specie di post-congressi in cui si rivoterà sulla proposta regione per regione. Non elettronicamente, però, ma con schede e urne tradizionali. In un certo senso, insomma, il congresso di Neumarkt continuerà nelle prossime settimane. E non è dato sapere se i sostenitori dell’obbligo elettronico convocheranno dei post-post-congressi nel caso che le loro posizioni vengano di nuovo battute.
Al di là degli aspetti vagamente surreali dello scontro cui si è assistito nei tre giorni del congresso, la questione discussa dai Piraten è molto seria perché investe il rapporto tra democrazia e partecipazione nei tempi delle nuove possibilità offerte dalle tecnologie. Un tema sul quale quella formazione politica è nata, sul quale si è esercitata in modo certamente più serio di quanto si è visto a Neumarkt e con cui ha raccolto l’interesse e il consenso di una quota consistente dell’elettorato, soprattutto giovanile.
Nella primavera dell’anno scorso il Piratenpartei ha messo in fila una serie di risultati sorprendenti nelle elezioni regionali: l’8,9 per cento a Berlino, il 7,4 nella Saar, l’8,2 nello Schleswig-Holstein e il 7,8 nella Renania-Westfalia. Poi sono arrivati duri contrasti al vertice del partito, con le dimissioni di due esponenti di spicco, Julia Schramm e Matthias Schrade, motivate con critiche pesanti ai metodi del presidente Bernd Schlömmer. Il motivo dell’abbandono di Julia Schramm, fra l’altro, dice molto sulle contraddizioni che popolano le idee dei suoi compagni.
Dopo aver scritto un libro, «Klick mich» («Cliccami»), sul proprio «esibizionismo da internet», la donna ha ritenuto di non doverne autorizzare la riproduzione gratuita sulla Rete. Cosa che con qualche ragione, va detto le è costata pesantissime critiche dai compagni pirati, perché evidentemente fuori dalla linea del partito contraria ai copyright. A far perdere molti consensi, poi, è stata anche la notevole indeterminatezza dei programmi economici e sociali offerti nella sbandierata «open source democracy».
La discussione a Neumarkt è stata  illuminante sulle contraddizioni in cui finisce inevitabilmente per cacciarsi una strategia di “politica liquida” che pretenda di vivere e affermarsi solo sulla Rete. Si tratta di difficoltà molto simili a quelle con cui debbono (o dovrebbero) fare i conti capi e militanti del Movimento Cinque Stelle in Italia, anche se gli esponenti di spicco degli stessi Piraten tengono molto a distinguersi dai grillini, sia perché attribuiscono loro un atteggiamento negativo verso l’Unione europea, sia per il loro modello “dittatoriale” fondato sulla leadership di Grillo e Casaleggio.
IL RISCHIO DEL POPULISMO
L’esito del voto è stata una sconfessione per i dirigenti attuali, che non hanno nascosto la delusione. «Abbiamo mostrato d’essere un partito che ha paura di prendere delle decisioni», ha commentato il membro della presidenza federale Klaus Peukert e sulla «paura» ha insistito anche il più conosciuto dei deputati di Berlino, Martin Delius. Dall’altra parte, invece, è stata evidente la soddisfazione: «Il risultato mostra che il Piratenpartei non vuole gli Smv; ora dobbiamo solo augurarci di esserci lasciati alle spalle questo dibattito».
Molti hanno sottolineato i rischi di semplificazione e di populismo che la «democrazia diretta elettronica» porta con sé. Ma le ragioni più profonde dell’opposizione alle «assemblee permanenti vincolanti» sono state spiegate da un altro esponente del partito conosciuto a livello federale, il leader parlamentare dello Schleswig-Holstein Patrick Breyer: «I sistemi di votazione elettronici sono manipolabili». Chi controlla il sistema può piegarlo come vuole. E già.

La Stampa 13.5.13
Prima grana a Montecitorio. I polpastrelli anonimi dei deputati
di Carlo Bertini


È una delle prime grane che la Boldrini ha dovuto affrontare, una delle meno pubblicizzate ma foriera di sicure polemiche e quindi piuttosto spinosa: con i tempi che corrono la Camera non può permettersi di fare spallucce sul fenomeno dei «pianisti» e quindi la ritrosia di alcune decine di deputati a lasciare le impronte per essere identificati nel voto elettronico ha richiesto un intervento: e forse in queste ore la vicenda sta per essere risolta - o quasi - alla radice.
Fino a mercoledì scorso, stando ai dati dei «piani alti», erano una sessantina i deputati che non avevano consegnato le cosiddette «minuzie», cioè che avevano rifiutato per motivi di privacy di farsi prendere le impronte.
Una procedura, quella del voto con il polpastrello identificabile dal congegno posto in ogni «scranno», che obbliga alla presenza fisica in aula solo tutti gli onorevoli che lasciano le impronte, mentre i «pianisti» non identificabili possono evitare sanzioni alla diaria, fino a trecento euro mensili per i più assenteisti.
Questa settimana finalmente partono i lavori delle commissioni e la novità è che anche di fronte ogni auletta sono state installate finalmente le macchinette per le impronte: ma la possibilità di «bigiare» i lavori e risultare presente resta un vulnus del sistema che sostituisce i vecchi registri: se un deputato con una toccata e fuga lascia le impronte e se ne va evita così le multe per le assenze in commissione. In aula chi non lascia le sue «minuzie» può votare lo stesso usando il polpastrello, solo che non può essere identificato. E nel primo scorcio della nuova legislatura, questa sessantina di obiettori, circa il 10% del totale, distribuiti solo tra i gruppi Pdl e Lega, ha già destato qualche protesta da parte degli altri colleghi.
La presidente della Camera avrebbe deciso di porre rimedio alla questione, provando a rendere obbligatoria la consegna delle «minuzie»: sembra infatti, che malgrado le sedute d’aula svoltesi fin qui siano state per la maggior parte dedicate a voti di fiducia ad appello nominale, quando si è proceduto invece con voti elettronici i presidenti di turno hanno notato anomalie come lucette accese rosse o verdi spuntare fuori da banchi vuoti. In quegli scranni infatti chiunque può votare e niente di più facile che farsi sostituire da un collega. A quanto sembra la moral suasion ha prodotto i suoi frutti e gli irriducibili dovrebbero limitarsi ad una quindicina...

Repubblica 13.5.13
Manifestazione per Giorgiana Masi ma la Questura vieta il corteo
Centinaia di persone stamattina hanno partecipato a un corteo per ricordare Giorgiana Masi, uccisa il 12 maggio del '77

qui
 

Corriere 13.5.13
Femminicidio, non è tempo di rinvii, serve subito un piano del governo
di Fiorenza Sarzanini


Una settimana fa, dopo l'omicidio di cinque donne, il governo annunciò che si sarebbe mobilitato per affrontare l'emergenza. Rispondendo all'appello di convocazione degli Stati Generali di «Feriteamorte», il progetto di Serena Dandini e Maura Misiti, prima il ministro delle Pari Opportunità Josefa Idem, poi il suo collega dell'Interno Angelino Alfano dichiararono che nella prima riunione l'Esecutivo avrebbe messo a punto un piano di interventi. Trovando anche le risorse economiche necessarie a finanziare i centri antiviolenza. Non è accaduto.
Ormai da un anno il Corriere della Sera sollecita la creazione di un coordinamento nazionale che possa ascoltare chi già si occupa ogni giorno di questi problemi. Bisogna rendersi conto che la piaga del femminicidio riguarda tutti, uomini e donne. Bisogna comprendere che soltanto una vera attività di prevenzione può diminuire il numero delle aggressioni e dei delitti. Ecco perché si deve agire in fretta, ma soprattutto perché questi temi non possono diventare oggetto di propaganda politica. Poter contare su una banca dati e su piccoli gruppi di magistrati che all'interno delle procure siano dedicati esclusivamente a questo tipo di reati, può servire ad applicare le leggi che già ci sono. Modificare l'articolo 612 bis che punisce gli atti persecutori prevedendo che si possa procedere d'ufficio e non a querela di parte come previsto attualmente, può aiutare quelle donne che non hanno il coraggio o la possibilità di uscire allo scoperto.
Anche il Parlamento deve fare la sua parte ratificando la Convenzione di Istanbul che fornisce all'esecutivo un ulteriore strumento di intervento. Lo abbiamo detto più volte: non servono stanziamenti eccezionali o misure straordinarie. Basta avere la volontà di agire e la consapevolezza che soltanto una vera attività integrata tra le varie autorità consente di raggiungere gli obiettivi. Non è più tempo di rinvii. Il ministro Idem ha convocato per la prossima settimana le associazioni che si occupano di questi temi. Sarebbe bene che in quell'occasione ci fosse già il piano da poter discutere. Per dimostrare che il governo vuole davvero intervenire e non limitarsi ai proclami.

Corriere 13.5.13
Ad «Amore criminale» i casi di femminicidio
di Aldo Grasso


Quando un programma affronta un tema delicato e grave come la violenza sulle donne, è sempre difficile parlarne in modo tecnico e non emotivo. Il contenuto è di per sé così importante che sembra poter legittimare ogni forma espressiva. È questo il caso di «Amore criminale», che è ricominciato su Rai3 con una nuova edizione (venerdì, ore 21.05). Il cambiamento più rilevante è stato quello in conduzione, con l'esordio di Barbara De Rossi. Per il resto, il programma è ormai un format che va da sé, e la nuova edizione ha mantenuto immutata la sua impostazione. Venerdì ci ha raccontato la storia tragica di Piera, uccisa a coltellate dal marito, vittima della sua morbosa gelosia, e quella (per fortuna con un finale meno drammatico) di Mihaela, perseguitata da un uomo conosciuto per caso in un bar. Alle testimonianze dei familiari delle vittime, dei loro avvocati e delle forze dell'ordine coinvolte nei casi, sono abbinate le ricostruzioni dei momenti più drammatici delle loro storie, rappresentate attraverso il metodo della docu-fiction. La cosa curiosa è che alla sua origine, ormai qualche anno fa, il programma era partito in seconda serata con un'impostazione molto più «narrativa», come fosse una sorta di racconto di genere, un esperimento di narrazione basata sul principio del true-crime. Poi, gli eventi della cronaca italiana, tanto drammatici da fare entrare nel dibattito sul tema il termine «femminicidio», usato per dare il senso di quella che è diventata ormai una vera e propria strage, l'hanno piegato in una direzione molto più realista e d'intervento, sul modello di una tv che ambisce a trasformare la società, secondo l'esempio di «Chi l'ha visto» (a cui assomiglia sempre di più). Ma utilizzare la musica di «Dexter» a commento dei casi raccontati non sarà un po' di cattivo gusto?

Corriere 13.5.13
Kabobo, il fantasma senza emozioni
«Io non dormo mai, adesso ho fame»
di Andrea Galli e Cesare Giuzzi

qui

La Stampa 13.5.13
Rinchiuso a San Vittore in isolamento e controllato a vista
L’uomo con il piccone all’esame degli psichiatri


Mada Kabobo Ghanese, 31 anni, arriva a Bari nel 2011 Con altri immigrati fugge dal centro di accoglienza: per protesta bloccano la tangenziale. Sconta l’arresto per l’evasione e va a Foggia; lo scorso marzo è a Milano

La notte di Mada Kabobo è stata breve e spaventosa, prima che decidesse di armarsi di una spranga e poi di un piccone per il suo raid di follia nel quartiere Niguarda. Ore passate da solo al buio, con gli occhi sbarrati dalla paura, per ripararsi da un violento temporale in una baracca del Parco Nord, due assi in croce, un tetto di lamiera e un puzzo insopportabile tutt’intorno.
E’ stato questo l’ultimo rifugio conosciuto del ghanese che ha seminato morte e terrore nel quartiere che gira intorno a piazza Belloveso. Il rifugio, provvisorio e meta anche di altri sbandati, lo hanno individuato i carabinieri organizzando sabato una battuta in grande stile, come se dovessero cercare un sequestrato.
Ripercorrendo a ritroso la strada fatta da questo 31enne impazzito, sono arrivati nel grande parco che segna i confini della periferia nord della città. Lui non ha raccontato nulla, chiuso nel mutismo assoluto da quando, alle 6,37 di sabato mattina, è stato fermato da una pattuglia dopo che aveva infierito sulla sua ultima vittima, Daniele Carella, 20 anni, che ancora lotta tra la vita e la morte.
«Ho fame», ha detto soltanto nel suo inglese stentato agli investigatori che lo interrogavano, poi ha chiuso gli occhi entrando in uno stato catatonico, mentre intorno i carabinieri cercavano di risolvere il suo mistero.
La sua presenza a Milano viene segnalata la prima volta a metà marzo scorso, quando viene fermato e identificato per un controllo che lo qualifica come immigrato in attesa di un verdetto per la richiesta di asilo politico.
Dunque, secondo la legge, impossibile da espellere, anche se il tribunale di Lecce ha già respinto la sua prima domanda e lui ha fatto ricorso.
Mada Kabobo, un metro e 78 di altezza, fisico asciutto, ventre appiattito dalla fame, adesso è un fantasma che ciondola silenzioso in una cella d’isolamento a San Vittore, controllato a vista e già sottoposto alle prime visite psichiatriche. Oggi o domani dovrebbe essere interrogato dal gip per la convalida dell’arresto. Sconosciuto alle persone della sua stessa comunità, agli sbandati clandestini che come lui si muovono attraverso l’Italia vivendo di stenti, Kabobo, appare come un solitario che la sofferenza psichica ha reso indifferente al mondo.
Nella baracca del Parco Nord i militari hanno trovato qualche vestito e nulla più. Alla sua identificazione sono arrivati grazie alle impronte digitali, registrate negli archivi delle forze dell’ordine dopo che l’uomo, arrivato a Bari nel luglio del 2011, aveva fatto domanda di asilo politico.
Il primo agosto di quello stesso anno era stato poi identificato insieme agli immigrati del centro accoglienza che erano fuggiti per bloccare tangenziali e binari in segno di protesta. Arrestato per la rivolta, in carcere a Lecce decide di rubare un televisore in una cella dei suoi vicini e non riuscendoci, lo distrugge. Uscito di prigione il 17 febbraio dell’anno scorso, fa tappa a Foggia dove ha un obbligo di dimora per rapina.
Ricompare a Milano a metà marzo dove viene controllato in viale Monza, davanti a una farmacia. Poi, il buio. Nessuno lo nota a Niguarda, nessuno ne segnala la presenza in altre zone. Kabobo, non ha amici, non ha parenti, è un invisibile, un intoccabile. E impazzisce nella sua solitudine.
Fino all’alba di sabato, quando decide di far sapere al mondo della sua esistenza. Distruggendo quella degli altri.

il Fatto 13.5.13
I cent’anni dell’ex nazista
Il sereno e lungo ergastolo di Erich Priebke
di Nello Trocchia


È lungo l’ergastolo di Erich Priebke. Cento anni da compiere il 29 luglio. E chissà se quei tanti giorni sono per lui segno di grazia o ragione di tormento. Lui, indicato come colpevole, e “graziato” dall’età, mentre le vittime delle Fosse Ardeatine sono state private degli anni. Della vita.
Priebke dagli occhi di ghiaccio non lascia trapelare nulla. La sua pena è una vecchiaia come quella di altri uomini. Anzi, senza la solitudine di tanti anziani.
“Devo andare dal capitano”, dice l’uomo di mezza età, distinto. Sguardo fiero e cadenza germanica. É l'ospite che in questa mattina di un soleggiato sabato romano farà visita a Priebke, il nullatenente “boia” delle fosse Ardeatine, condannato all'ergastolo per quell'eccidio, 335 persone fucilate nel 1944. Per Priebke, ex capitano nazista, una carcerazione “serena” tra uscite e visite. Come l'ospite che si presenta oggi alla casa dove l'ex ufficiale delle SS si trova ai domiciliari. Appena il cronista chiede informazioni, si fa guardingo mentre consegna i documenti ai militari che sorvegliano giorno e notte la residenza dell'ergastolano che sconta qui la sua pena. Priebke abita in una traversa di Piazza Irnerio, zona Boccea, il quartiere che dopo il Ghetto ospita la più nutrita comunità ebraica della Capitale. Un vicino racconta: “Che vuol che le dica... lo vedo spesso in giro. Una volta mi notò con giornali di sinistra sotto il braccio e mi chiese 'Lei mi odia? Ce l'ha con me?'. Io risposi che voglio solo che paghi per quanto fatto. Quello che mi fa riflettere è che non vedo mai resipiscenza, ripensamento”.
Non c’è odio nei vicini di Priebke, piuttosto il bisogno di ricordare. Il dovere della memoria. Alcuni lo descrivono come “Gentilissimo”, con il suo buongiorno di marca tedesca, e quel volume della tv più alto quando suona l'inno di Germania. Di estimatori dell'ex ufficiale delle SS se ne trovano sia tra gli estremisti di destra sempre più numerosi e tollerati, anzi accettati, che tra gli amici di un tempo. C'è chi qualche anno fa lo invitò addirittura a presiedere un concorso di bellezza e lui, l'ex ufficiale delle SS, partecipò solo con un messaggio video: “Ringrazio gli organizzatori per l'invito che considero un atto umanitario”. Per il suo avvocato Paolo Giachini Priebke “É un perseguitato, ha pagato solo lui”. Il nome di Priebke è tornato di attualità nei giorni scorsi dopo l'assoluzione del presidente della comunità ebraica capitolina Riccardo Pacifici e del giornalista del Tg2 Valter Vecellio accusati di sequestro di persona e ingiurie dall'ex ufficiale delle SS. Priebke ha perso, ma non ha i soldi per pagare le spese legali. É nullatenente e così Equitalia ha bussato alla porta di chi la causa l'ha vinta secondo un principio che ha il sapore della cinica beffa.
Pacifici ricorda che: “Prima di essere arrestato Priebke concesse un'intervista alla Rai per la quale doveva incassare 50 milioni di lire. Priebke, dopo una causa alla Rai, li ottenne con tanto di interessi. Noi provammo a bloccare quei conti, ma i soldi erano già scomparsi”. Ormai da anni Priebke vive in questa casa messa a disposizione dal suo avvocato Paolo Giachini. All'ex capitano nazista è concesso il permesso di uscire seguendo le disposizioni previste dal Tribunale, sempre accompagnato da agenti in borghese. Nei paraggi difficile evitarne la presenza. “Di solito scende e fa una passeggiata nei dintorni, va a Villa Carpegna, qualche anno fa correva anche, gode sempre di ottima salute”. Racconta Ugo che lo incrocia di frequente. “L'ultima volta l'ho visto qualche giorno fa - spiega Emilio, un altro vicino - gli daresti venti anni di meno, ogni tanto però va in farmacia. É umano anche lui, pare”.
Farmacia poco distante dalla sua dimora, pochi medicinali e poi la passeggiata. Te lo vedi davanti e ritrovi un passato tremendo che fa male perfino ricordare: “ L'ho visto di recente, lui sta bene, ma io non voglio che mio figlio lo incroci e mi chieda 'Chi è quel signore che gira con gli agenti?'. Sarebbe difficile spiegare perché è fuori visto quello per cui è stato condannato”. Già, difficile, impossibile dare un senso. Spiegare, soprattutto ai bambini. “Sta bello arzillo”, racconta Elisa nel supermercato a poche centinaia di metri dalla casa di Priebke: “Qualche mese fa mi chiese le uova di quaglia, si vede che ne conosce le proprietà”. La lunga vita, un dono che alle vittime di quegli anni è stato negato. E le piccole gioie che l’ex comandante non si nega, come le visite al vicino ristorante che prepara specialità marinare. “L'ultima volta è passato un mese fa”, racconta Elio, un cliente quasi interrogandosi sulla giustizia della vita più che di quella dei tribunali. L'ex ufficiale delle SS sceglie la grigliata di pesce. C’è chi, come Ada, si lascia andare a un moto di rabbia: “Ogni tanto in inverno vediamo un’auto di grossa cilindrata che lo scarrozza in giro. C'ha pure gli amici questo. Roba da cambiare cittadinanza. Ogni tanto penso di andarmene”. Il centenario Priebke non rinuncia ai giornali, si ferma all’edicola per comprare il Giornale prima di incamminarsi verso via Boccea e respirare il refrigerio di una villa romana nei momenti d'aria. Proprio di fronte al suo terrazzo e all'ingresso del palazzo ecco la sede di Sel, il partito di Vendola. A fine marzo hanno affisso una targa con l'epigrafe di Piero Calamandrei “Lo avrai, camerata Kesserling... ”. “Anche quel giorno – racconta un militante – Priebke scese per prendere aria. Abbiamo ricordato l'eccidio delle Fosse Ardeatine leggendo le lettere dei deportati e cantando Bella ciao”. Chissà cosa ha pensato l’ergastolano. Il suo avvocato e padrone di casa, Paolo Giachini, lo difende attaccando: “Lo ospito perché è un perseguitato. Priebke subisce un trattamento degradante”. Aggiunge: “ C'è una lobby di nemici di Priebke, enorme, fatta di partiti e comunità religiose, è offensivo che la tv pubblica venga usata per scopi personali, per pochi euro di una cartella esattoriale”. E ricorda quando Priebke iniziò a lavorare prima che il permesso venisse revocato: “Ecco, per questo non può pagare. Comunque se vogliono possono sempre rivalersi su di lui come prevede la legge”. Intanto mentre Equitalia chiede i soldi a chi ha vinto la causa, Priebke aspetta i 100 anni tra una grigliata di pesce, una passeggiata e la visita di buoni amici. La serena vecchiaia del comandante delle fosse Ardeatine.

La Stampa 13.5.13
L’avanzata degli estremisti I populisti fanno tremare l’Europa

A un anno dalle elezioni lavorano a un’alleanza delle destre
E Bruxelles prova a correre ai ripari
di Marco Zatterin

qui

La Stampa 13.5.13
La sanità e il welfare allo sfacelo fanno volare i nazionalisti inglesi
Il trionfo dell’Ukip alle amministrative spinge Cameron a sfidare apertamente Bruxelles
di Claudio Gallo


La scalata di Farage Nigel Farage, 49 anni, leader del partito anti-europeista e xenofobo Ukip, United Kingdom Independence Party, ha conquistato il successo elettorale alle recenti elezioni con il 23% dei voti

In tempi di crisi nera la gente vuole qualcuno su cui gettare la croce senza andare troppo per il sottile. In Gran Bretagna, culla storica dell’euro-scetticismo, l’Europa è il capro espiatorio, molto al di là delle sue molte colpe.
L’ondata di sentimento anti-europeo è fissata nel sondaggio di pochi giorni fa realizzato da YouGov per il «Times»: il 46% vuole andarsene dall’Europa, il 35 resterebbe e il 20 è indeciso. La sanità in sfacelo, i servizi in declino (anche se spesso restano migliori dei nostri), l’erosione del potere d’acquisto della classe media, creano una massa di insoddisfazione che alimenta la sfiducia nei partiti tradizionali. Ne approfittano, come nel continente, i populisti che appaiono come l’unica alternativa al sistema.
L’anti-europeista e xenofobo Ukip è letteralmente un grimaldello nel fianco destro dei conservatori: il successo elettorale del partito di Farage alle recenti amministrative inglesi sta scardinando la maggioranza. Con gli elettori in libera uscita, la destra euroscettica conservatrice alza la testa e chiede qui ed ora il referendum sull’Europa, promesso dal premier dopo il 2017.
Tra l’immigrazione e la piovra di Bruxelles, il dibattito cade così su argomenti ad alto tasso di emotività: si parla di riconquistare sovranità perdute, di sfuggire al socialismo reale di Bruxelles, di fermare le orde dall’Est. Si discute invece meno di economia e il Cancelliere Osborne non si stanca di ripetere che non esiste un piano B. Avanti con l’austerità e la politica monetaria, tra lo scetticismo del Fondo monetario.
In questo clima di assedio, ogni giorno un nuovo notabile tory si alza e dice che bisogna andarsene. L’ultimo è l’impopolare ministro dell’Educazione Michel Gove che ieri ha fatto un assist agli anti-Ue dicendo che lui al referendum voterebbe per uscire dall’Ue. A cominciare le danze era stato Lord Lawson, ministro dell’Economia della Thatcher regista del «Lawson Boom» degli Anni ’80, sfracellatosi poi contro la mega-inflazione dei primi Anni ’90. «L’Ue è irriformabile – ha scritto sul “Times” punzecchiando Cameron dobbiamo venircene via». Gli ha fatto eco un’altro ex ministro della Thatcher, Michel Portillo, grande campione delle cause perse.
Un gruppo di deputati tory di secondo piano (backbenchers, dei banchi dietro) presenterà un emendamento contrario al programma del governo perché non comprende la data del referendum dentro-fuori l’Europa. Considerato che il documento non avrebbe valore vincolante, Cameron subito ha fatto spallucce, dicendo che avrebbe lasciato libertà di coscienza, ma poi si è spaventato e ha intimato ai ministri di non votarlo. Così la prossima settimana assisteremo al paradosso del primo partito di maggioranza che presenta un emendamento contro il proprio governo. Questi continui fuochi d’artificio da destra erodono l’autorevolezza del primo ministro che rischia di finire nel tritacarne delle beghe di partito, come John Major a metà Anni ‘90.
Cameron cerca di rintuzzare le critiche e sostenere la sua posizione mediana contro gli opposti pessimismi: i filo-Ue che accettano secondo lui supinamente il giogo di Bruxelles e gli antiUe che vogliono sbattere la porta. Ai secondi, vero bersaglio polemico, ha detto l’altro giorno: «Credo che sia possibile cambiare e riformare l’Europa e cambiare e riformare il rapporto della Gran Bretagna con essa».
Voce fuori del coro, l’ex ministro degli Esteri conservatore sir Malcom Rifkind ha sostenuto che a Londra non conviene uscire dall’Ue. Si troverebbe al fianco di Svizzera e Norvegia che per accedere al mercato europeo devono accettare le regole di Bruxelles senza poter dire la loro. Rifkind ha accusato gli euroscettici del suo partito di voler abbandonare l’eredità della Thatcher che firmò Maastricht. Un’altro paradosso di questa intricata vicenda è infatti che le grandi scelte europeiste britanniche sono sempre avvenute durante governi conservatori. A gettare ancora un po’ di veleno nella discussione, il biografo della Thatcher, Charles Moore, ha detto nei giorni scorsi che Maggie dopo il ritiro dalla politica si era convinta che bisognasse abbandonare l’Europa. Il dibattito si è fatto così infuocato che intervengono anche i morti.

La Stampa 13.5.13
Francia. Intervista a Dominique Reynié
«Crisi, rabbia e sfiducia Anche la democrazia adesso è a rischio»
L’analista: la politica non ha più risposte
«Per la prima volta dal 1945 non si può creare consenso con la spesa pubblica»
di Alberto Mattioli


Dominique Reynié Professore a Sciences- Po e presidente della Fondazione per l’Innovazione politica, è autore di «Populismes La pente fatale». Ha recensito 63 movimenti populisti nella Ue
Professore a Sciences-Po, presidente della Fondazione per l’innovazione politica (area di centro-destra), Dominique Reynié è autore di «Populismes - La pente fatale», ovvero «Populismi, la china fatale».

Professore, quanti movimenti o partiti europei possono essere definiti populisti?
«Io ne ho censiti 63 in tutti e 27 i Paesi dell’Ue, compresi quindi anche quelli che non hanno adottato l’euro».
Perché sono in crescita?
«Per tre ragioni. La prima è il declino demografico dell’area europea. Con effetti importanti sulla psicologia collettiva (sono Paesi per vecchi), l’economia (chi pagherà le pensioni?) e l’immigrazione. La ricomposizione etnoculturale dell’Europa, con massicci arrivi dai Paesi musulmani, provoca un’infinità di reazioni: da libri della Fallaci ai crimini di Breivik».
Seconda ragione?
«La crisi delle finanze pubbliche europee. Per la prima volta dal 1945, non si può più fabbricare consenso con la spesa pubblica. E infatti ovunque i governi sono in crisi di consenso».
Terza?
«La globalizzazione economica. I sistemi sociali europei sono sottoposti a tensioni che generano crisi di rigetto. E appunto i movimenti populisti».
Quindi, è possibile che vincano le prossime elezioni per il Parlamento europeo?
«Più che possibile direi probabile. C’è una crescita del voto di protesta, e non solo nei Paesi del sud dell’Europa, e anche il massiccio aumento dell’astensionismo. Questo è paradossale, perché il Parlamento è, alla fine, l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini».
La crescita dei populismi è un rischio per la democrazia?
«Credo che il rischio ci sia. L’impressione è che le nostre democrazie non abbiano gli strumenti politici per far fronte ai problemi che abbiamo visto. La crisi di fiducia è indiscutibile».
Che fare?
«Se in politica ci fosse una logica, questo ci dovrebbe portare a fabbricare una vera potenza pubblica europea. Se ne esce solo così. Infatti i populismi, tutti, di destra e di sinistra, hanno in comune il rigetto dell’Europa. Purtroppo, però, la politica è raramente logica».
Ultima domanda: il movimento di Grillo è populista? Ed è di destra o di sinistra?
«Difficile dirlo. Populista, di certo. Direi che combina degli elementi “di sinistra”, come il salario di cittadinanza, con una critica alla finanza che ha sfumature identitarie, dunque “di destra”, e perfino talvolta antisemite. In ogni caso, perfino nel variegato panorama europeo, il M5S è molto originale».

l’Unità 13.5.13
In Ungheria la crisi è anche un deficit di democrazia
Il no deI Parlamento europeo alla politica autoritaria del governo conservatore di Viktor Orbán, al potere dalla primavera del 2010
Leggi contro la stampa, limiti per i sindacati e nuova Costituzione di stampo nazionalistico
di Massimo Congiu


Si respira aria pesante in Ungheria. In questi ultimi anni il Paese, oltre che partecipare a una crisi globale di valori prima ancora che economica, ha messo a nudo un deficit democratico tale da provocare più volte la reazione delle istituzioni europee.
L’attuale governo conservatore di Viktor Orbán, al potere dalla primavera del 2010, ha dato luogo a una serie di iniziative che non lasciano dubbi sull’autoritarismo del primo ministro e dei suoi più diretti collaboratori. La legge restrittiva sulla stampa, la revisione del Codice del Lavoro che limita i diritti dei lavoratori dipendenti e il già angusto spazio dei sindacati, la nuova costituzione di stampo nettamente nazionalistico e gli emendamenti alla medesima approvati a marzo dal parlamento e contestati da Barroso e Jagland, sono espressioni di un sistema che intende controllare più che governare. Che oggi reagisce con collera all’approvazione, da parte del Parlamento europeo, della proposta fatta dall’eurodeputato verde Rui Tavares e che verrà votata a giugno, di dar luogo a una relazione sullo stato dei diritti fondamentali in Ungheria.
Le reazioni interne alla politica del governo non mancano anche se continuano a essere circoscritte ad ambienti progressisti che non hanno, oggi come oggi, un seguito di massa. Il grosso della popolazione ungherese resta lontano dalla politica un po’ per l’abitudine alla delega, un po’ perché a prevalere sono i problemi quotidiani, le ristrettezze economiche e la necessità di far quadrare i conti a fine mese. Così quello del mancato rispetto dei principi democratici non viene avvertito come un problema. «Sono molto triste e preoccupato dice un signore incontrato per strada -. In questo paese non ci sono più sicurezze. La democrazia? Bisogna vedere cosa si intende per democrazia aggiunge -. Per me può voler dire una cosa, per lei un’altra, ma è difficile parlarne quando si fa fatica a tirare avanti».
La sensazione è che da queste parti molta gente sia pronta ad accettare senza esitazioni un sistema dirigista pur di riavere le garanzie di un tempo: il lavoro, lo stipendio sicuro a fine mese, dei punti fissi. Il malcontento è diffuso, ma sulla protesta prevale l’abitudine a esprimere il proprio malumore in modo individuale e perciò meno visibile.
È nelle pieghe più profonde della rabbia che si inserisce Jobbik, il partito della destra radicale, cresciuto soprattutto nei centri abitati più poveri del paese alimentando le tensioni con le comunità Rom, usate come capro espiatorio ai problemi nazionali. «Jobbik è la soglia che gli ungheresi non avrebbero mai dovuto superare – dice Lajos Parti Nagy, scrittore e oppositore del governo – . I consensi dati a questo partito e al Fidesz dimostrano che il paese manca di un’identità democratica». La «gestione» Orbán qualche altro effetto l’ha provocato. Secondo il settimanale Hvg almeno mezzo milione di ungheresi ha deciso di espatriare. Non si tratterebbe di poveri e disoccupati provenienti dalle regioni più depresse, ma di giovani professionisti, soprattutto medici e operai specializzati che parlano lingue straniere e che, delusi dall’esecutivo o in ogni caso contrari ai suoi provvedimenti, puntano verso l’Austria, la Germania e il Regno Unito.
Per il settimanale si tratta di un’emigrazione dovuta per lo più da motivi politici. Tutto questo mentre la disoccupazione aumenta. Indagini recenti mostrano che attualmente almeno 500.000 ungheresi, ossia l’11,6% della popolazione in età lavorativa, sono al-
la ricerca di un impiego. La disoccupazione giovanile si aggirerebbe intorno al 27%. Tra coloro che hanno deciso di lasciare il Paese vi sarebbero anche studenti universitari contrariati dalla modifica costituzionale che impone a chi ottiene una borsa di studio statale di lavorare per dieci anni in Ungheria. All’inizio dell’anno giovani di varie facoltà hanno manifestato più volte per l’autonomia delle università con iniziative, però, non condivise da studenti più vicini alla politica del governo. «Orbán sta cercando una via ungherese per risolvere i problemi interni» assicura uno di loro. Ha fatto breccia il tentativo del primo ministro di presentarsi come difensore degli interessi nazionali interpretando il disappunto di quanti ritengono che l’Ungheria sia stata troppo a lungo sotto il «tallone straniero» prima degli austriaci, poi dei sovietici, convinti che ora non debba cedere ai «diktat» dell’Unione europea.
Lo scontro quindi è anche tra chi vede l’Ue come una possibilità di sviluppo e apertura e chi la considera l’ennesima sfruttatrice dell’Ungheria. Si va sentire la sindrome dell’accerchiamento, de «l’Europa ce l’ha con noi». È la tesi del complotto delle sinistra europee contro l’Ungheria, alimentata dall’esecutivo a fronte di un’opposizione ancora troppo debole e frammentata.
In più i socialisti (Mszp), tradizionali avversari diretti del partito conservatore di Orbán, il Fidesz (l’Unione civica ungherese) sono oggi in imbarazzo per via di documenti secondo i quali avrebbero chiesto, nel 2008, l’aiuto della criminalità organizzata e dei servizi segreti per impedire al partito di Orbán di andare al governo. Coperte fino a poco tempo fa dal segreto di stato e ora pubblicate per volere della Commissione parlamentare della sicurezza nazionale. «È lo scandalo del secolo» ha affermato il portavoce di Orbán.
I socialisti respingono le accuse e sostengono che i documenti sono stati manipolati dai servizi segreti attualmente in mano al Fidesz. Prendono però le distanze dalla classe socialista dirigente di allora, quando primo ministro era Ferenc Gyurcsány, che non fa più parte dell’Mszp. «Se anche tutta questa storia fosse vera aggiungono l’unica cosa da dire è che sono state iniziative personali». Difficile ora dire cosa ci sia di fondato in questa vicenda. Prevedibile è che il Fidesz farà di questa vicenda un’arma in vista delle elezioni del prossimo anno, accusando di «slealtà» e «immoralità» i socialisti.

La Stampa 13.5.13
L’America riconsegna pistole e fucili agli studenti
Malgrado le stragi, tolti i divieti. In Pennsylvania armi in classe
di Maurizio Molinari


Cinque atenei della Pennsylvania hanno deciso di consentire agli studenti di portare armi in classe, confermando la tendenza in numerosi Stati ad abolire le restrizioni alle armi da fuoco dall’indomani della strage di Newtown, in Connecticut, dove in dicembre nella scuola elementare «Sandy Hook»sono state uccise 26 persone, inclusi 20 bambini. La scelta dei college di Kutztown, Shippensburg, Edinboro, Slippery Rock e Millersville di ammettere studenti armati nei campus segue i pareri legali espressi dall’ufficio del governatore dello Stato e del Dipartimento dell’Istruzione. In base a essi, impedire a chi possiede un revolver di averlo con sè dentro il campus sarebbe una violazione del Secondo Emendamento della Costituzione, che tutela il porto d’armi.
La Pennsylvania è uno dei 23 Stati che lascia libertà di scelta agli studenti sull’avere o meno con sè armi da fuoco durante le lezioni anche se, in molti casi, la raccomandazione è di tenerle nei dormitori e non portarle in luoghi affollati, come classi ed eventi sportivi. «Il divieto assoluto di armi nelle Università è molto dubbio da un punto di vista legale» spiega Nils Hagen-Frederiksen, portavoce dell’ufficio legale del governatore, il repubblicano Tom Corbett. In realtà, dall’indomani della strage di Newtown sono numerosi gli Stati dove sono state allentate le restrizioni al porto d’armi sposando la tesi della «National Rifle Association» (Nra), che riunisce i portatori d’armi, secondo la quale più armi in circolazione corrispondono a maggiore sicurezza e prevenzione.
A fine aprile la governatrice dell’Arizona, Jan Brewer, ha proibito la distruzione delle armi consegnate volontariamente alle autorità, ordinando che vengano rimesse in commercio, mentre in Tennessee è stata approvata una legge che garantisce la privacy dei dati di chi possiede un revolver. Anche Arkansas, Maine, Virginia, Montana, Missouri e Kansas hanno approvato, a partire da gennaio, delle «leggi sulla riservatezza» a garanzia dell’anonimato di chi ha qualsiasi tipo di armi da fuoco nel timore che il Congresso di Washington possa decretare l’obbligo di redigere elenchi in ogni Stato.
L’Arkansas è andato oltre: il Parlamento ha approvato otto leggi che consentono di portare le armi nelle Chiese e, più in generale, in tutti i luoghi di culto, così come ostacolano indagini della polizia nei «Gun Show», le fiere dove si vendono armi. Kansas e Oklahoma non si sono limitati a varare leggi locali ma hanno promulgato il «riconoscimento automatico» di simili norme vigenti in altri Stati, per creare una continuità fra territori «amichevoli nei confronti delle armi» e chi le possiede. In South Dakota gli insegnanti sono stati autorizzati a portare armi a scuola «per difesa personale» e i semplici cittadini possono farlo «guidando moto da neve», mentre in North Dakota e Montana sono stati legalizzati i silenziatori «per ridurre il rumore delle esplosioni», come auspicato dalla Nra.

Corriere 13.5.13
Spari alla festa della mamma, colpite 19 persone

qui

Corriere 13.5.13
Quel letto sull'aereo e le spese di Netanyahu


GERUSALEMME — Valanga di critiche per le spese di Benjamin Netanyahu. In piena austerity, il premier israeliano ha chiesto che un letto matrimoniale per lui e la moglie (foto) venisse montato sull'aereo che il mese scorso lo ha portato ai funerali di Margaret Thatcher. Costo: 127 mila dollari, a cui se ne erano aggiunti altri 300 mila per il volo, durato 5 ore e mezzo. Già in febbraio la stampa aveva reso noto che ogni anno il governo spende quasi 3 mila dollari del budget in gelati per il premier. Sprechi che fanno scalpore, specialmente adesso che il neoministro delle Finanze, Yair Lapid, ha proposto un piano di tagli e aumenti delle tasse per ridurre il deficit dello Stato. Una politica economica che combina una riduzione delle spese militari (quasi 800 milioni di euro in meno) all'innalzamento dell'1,5% (1% per le aziende) di imposte e Iva. L'esercito teme che la sforbiciata multimilionaria possa compromettere l'efficienza delle sue forze, impegnate sul fronte siriano, nella lotta agli Hezbollah e in allarme per la minaccia nucleare di Teheran. A soffrire di più per il programma Lapid sarà però la classe media, che, delusa, ha già manifestato sabato scorso per le strade di Tel Aviv. A protestare erano in 10 mila. Il malcontento riguarda soprattutto gli elettori «traditi» di Lapid, che confidavano in un piano di austerità punitivo solo nei confronti dei più ricchi.

l’Unità 13.5.13
Grammatica della libertà
40 anni fa Rodari scrisse le regole della fantasia
Il motto dell’autore era «Tutti gli usi della parola a tutti»
Un valore di liberazione che è la lezione più attuale e importante ancora oggi
di Giovanni Nucci


SCRIVEVA TULLIO DE MAURO NEL 1974 RIGUARDO ALLA «GRAMMATICA DELLA FANTASIA»: «COME CIMAROSA COL SUO MAESTRO DI CAPPELLA COME RILKE nelle Lettere ad un giovane poeta, come Goethe e Leopardi in certe loro pagine, un’artista ha messo in tavola le carte del suo gioco. E ne è nato, elegante e geniale, un classico».
Quello che sembra suggerirci è che questo libretto vada oltre il suo oggetto, la contingenza del suo tempo, del suo scopo dichiarato, dei suoi primi ed immediati lettori.
Su queste pagine potremo, in effetti, scrivere di Rodari una volta al mese, quindi praticamente una su due, il che è abbastanza imbarazzante: Rodari ha pubblicato circa cinquanta libri, si andrebbe avanti per quasi quattro anni, dopo di che si potrebbe ricominciare da capo trovando ogni volta una nuova meraviglia in quei libri, un motivo di incalzante attualità per poterne parlarne. Diventerebbe, così, la rubrica di un solo autore, condotta da un critico che legge e rilegge sempre gli stessi cinquanta libri. Sarebbe, in effetti, meraviglioso: tanto da assomigliare ad un racconto di Borges o (peggio, molto peggio!) di Gianni Rodari.
Ora, per quanto possiamo tranquillamente considerare i racconti e le poesie, e le filastrocche di Rodari universali, impermeabili al tempo e alla geografia, non dovrebbe essere altrettanto facile farlo per la Grammatica della fantasia che però (com’è, come non è) uscita giusto quarant’anni fa, sta lì imperterrita e ancora oggi ispira e aiuta gli scrittori e i poeti per ragazzi, così come gli accademici, i critici, i giornalisti, gli insegnanti, i librai, i promotori della lettura, i bibliotecari, gli editori, gli animatori, i maestri e i genitori. Già loro (si potrebbe dire) fanno una buona fetta della popolazione utile ed intellettualmente attiva, ma (si potrebbe obiettare) cosa dovrebbe interessare questo libro ad un sottosegretario, al capitano di un bastimento, ad un vigile urbano (a parte l’evidente motivo d’essere essi stessi molto probabilmente protagonisti d’una buona cifra di altri libri di Rodari)? Per rispondere prendiamo volentieri in prestito delle righe a riguardo di Marzia Corraini: «Mi limito, ed è assolutamente sufficiente, a osservare l’importanza di questo titolo (...). C’è una grammatica della fantasia. Ci sono regole o semplici modalità e stimoli per indicare una via. C’è la fantasia e la grande capacità di inventare partendo dal noto. E proprio qui sta la grandezza di Rodari, nel fa vedere come “usare la testa” liberamente per procedere verso la conoscenza attraverso piccoli progressi, prima sulla strada tracciata, poi tresgredendo, mettendo assieme opposti e lontani, immaginando sintesi e soluzioni non previste. Rodari certo, e con lui Munari e anche Alighiero Boetti, Toti Scialoja. Geniali autori e pensatori che ci hanno insegnato (...) che esiste anche una modalità da proporre, da segnalare, da indicare perché ognuno di noi possa utilizzare con originalità la propria fantasia o meglio il proprio “pensiero”».
IL VALORE ASSOLUTO DELL’ARTE
C’è, per tornare a De Mauro, un valore assoluto dell’arte, che non è detto siamo capaci di cogliere, e che va al di là del valore che presupponiamo di poterle attribuire. A volte quel valore si trasferisce alle opere che ne parlano, dell’arte. Volendolo cercare di esplicitarlo relativamente alla Grammatica della Fantasia di Rodari, citiamo ciò che ne dice lui stesso: «Io spero che il libretto possa essere ugualmente utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possano avere la parole. “Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo». Ed ecco che l’attualità del suo pensiero, del Rodari filosofo che in questo libro si esprime al meglio, viene subito fuori: non dobbiamo scordarci, oggi più che mai, il valore di liberazione che può avere la parola: proprio quando la libertà sulle parole sembrerebbe essere assoluta, e le sta invece sempre di più impoverendo di potere e di importanza. Perché se le parole sono strumento di liberazione, occorre salvaguardarle con la massima attenzione. «Tutte le parole a tutti quanti». Quindi.

La dimensione segreta dello scrittore rivelata da un libro:
Marcello Argilli, «Gianni Rodari. Una biografia», Einaudi, Torino 1990. Rodari è lo scrittore per bambini più noto nel mondo, l’unico che tutti gli alunni italiani conoscono, e tutti gli insegnanti nominano. Eppure dell’uomo Rodari, della sua personalità e della sua vita privata, del suo impegno si sa pochissimo. In questo libro, che per la prima volta ne tratteggia la psicologia, le abitudini, gli interessi culturali, emerge il Rodari bambino e adolescente, il giovane provinciale che si impegna nella politica e nel giornalismo, per diventare, appena trentenne, il poeta e lo scrittore che rinnova la nostra letteratura infantile. A questo filo biografico si acompagna una rivisitazione della sua opera per ragazzi, e il racconto, pur senza pretese sistematiche, illumina ampie zone della biografia dello scrittore, con una attenzione particolare alla novità dei suoi libri, alle difficoltà che questi inizialmente incontrarono, alla loro immensa fortuna e all’evoluzione poetica rodariana. Questo appassionante lavoro di recupero viene svolto da un amico trentennale di Rodari, Marcello Argilli, che con lui ha lavorato, avendo in comune le stesse fondamentali matrici culturali. L’autore non solo ha fornito di Rodari una personale testimonianza diretta, ma ha raccolto un’importante quantità di documenti, di lettere, di preziosi testi inediti.


Corriere 13.5.13
Eliade sedotto dall’India erotica
di Giorgio Montefoschi


Nel 1929, ad appena ventidue anni, Mircea Eliade, lo storico delle religioni rumeno, sbarca a Ceylon dalla motonave Hakone Maru che ha preso ad Alessandria d'Egitto e, dopo una settimana di stordimento, dovuta ai colori, ai profumi, al rigoglio della vegetazione, tocca la punta della penisola indiana e di lì — racconta in uno dei tre brani che compongono Erotismo mistico indiano (Castelvecchi, pagine 90, 9) — si reca in treno a Madurai, nel Tamil Nadu. Chi conosce i lunghi corridoi del grande tempio di Madurai in cui dimorano gli elefanti sacri, le sue aule fitte di colonne, i bui penetrali in fondo ai quali una fiamma illumina le statue del pantheon induista e i bramini seminudi che compiono il sacrificio e accolgono le offerte, sa qual è l'emozione ineffabile che comunica quel tempio famosissimo.
È una emozione non dissimile da quella che si prova negli altri sublimi templi dravidici dell'India del Sud (Kanchipuram, forse, coi suoi misteriosi suoni di tube il più bello); non dissimile da quella provocata dalla morbida campagna; dalle sue notti tiepide; dalla luce; dai palazzi sontuosi o diroccati dei maharaja; dai mercati brulicanti; dalla misteriosa «idea dell'India» che non ha un luogo inscindibile dagli altri, una parola definitiva.
Eliade rimane in India tre anni. Sa pochissimo inglese e niente di hindi e di sanscrito. Guidato da Dasgupta, uno storico della filosofia indiana incontrato nella biblioteca della Società Teosofica di Adyar, impara sia l'hindi che il sanscrito, studiando dodici ore, come minimo, al giorno. Intanto, sempre consigliato e guidato da Dasgupta, è arrivato a Calcutta. Dorme nella pensione — che va descritta: un piano, grandi stanze affacciate sull'ingresso-salotto con vecchi mobili e pianoforte, cortile, giardino tropicale — della signora Perri s, un'anglo-indiana. Costei ha una figlia attraente, Norinne, diciassettenne, che divide la sua camera con una ballerina del Globe Theater. L'amicizia è presto fatta. E spalanca notti assai intriganti, confuse, che spaziano da case incredibilmente ricche in cui si balla e si beve champagne ghiacciato di fronte a domestici coi piedi nudi, a più estenuanti ancora fumerie d'oppio. Questo, naturalmente, non impedisce al giovane Eliade di seguire all'università le lezioni di Dasgupta, e di leggere e tradurre, stare sui libri dall'alba al crepuscolo, sotto le pale dei ventilatori, la camicia zuppa di sudore. Né, gli impedisce, di muoversi, fare viaggi: a Jaipur, per esempio; o Benares (il momento indimenticabile in cui si approda al primo ghat sul Gange, l'Asi-Ghat, confinante con i campi); o ai duemila metri di Darjeeling da dove, nelle giornate limpide, si vedono i ghiacci eterni della catena himalayana.
Grandi anni; beati. E grandi incontri. Come quello con Giuseppe Tucci, il famoso orientalista, impegnato all'epoca nella ritraduzione in sanscrito di alcuni testi di logica buddhista di cui si erano smarriti gli originali, e di cui non si conservava che la traduzione cinese o tibetana; o quello con Tagore, nella sua università di Shantiniketan:con tutto il cerimoniale delle lezioni all'aria aperta e delle apparizioni del poeta mistico sempre impegnato a creare o a meditare, e quell'atmosfera per la quale ogni oggetto, ogni fiore, ogni sprazzo di luce era una epifania; o quello con l'esile maharaja di Calcutta, quasi povero per aver donato la maggior parte delle sue ricchezze in beneficenza.
L'incontro con il tantrismo («così scandalosamente trascurato tanto dagli intellettuali indiani che dagli studiosi occidentali») è la scoperta che suggella la prima permanenza indiana di Eliade. La scoperta di un'India non solo ascetica o idealistica, bensì custode di una tradizione che è dalla parte della vita e del corpo (non più considerate come illusione e sorgente di sofferenza), e che anzi esalta «l'esistenza incarnata come l'unica possibilità di conquistare in questo mondo la libertà assoluta».
Nuda — dicono i testi tantrici — la donna incarna la natura e il Mistero cosmico. L'unione sessuale è il rituale per mezzo del quale la coppia umana si trasforma in coppia divina.

Corriere 13.5.13
Responsabilità, il segreto della vita
Reale: «L'uomo è creato da Dio». Veronesi: «Ciascuno dispone di se stesso»
di Armando Torno


Lo Stato non può togliere all'individuo la libertà di morire secondo natura e non può imporre il prolungamento artificiale della vita. Né può levargli in modo violento la libertà: questo sarebbe pensabile soltanto in un regime assolutistico. Non soltanto simili imposizioni sono da considerare antiliberali, ma anche e soprattutto antiumane.
Abbiamo cercato di riassumere un concetto che Giovanni Reale e Umberto Veronesi condividono nel libro che hanno scritto insieme e che uscirà mercoledì, Responsabilità della vita. Nove densi capitoli e un'appendice dove il filosofo e lo scienziato discutono tra l'altro del significato di vita e morte, di quel grande mistero che continua a essere la salute, del medico o delle cure («curare l'anima per curare il corpo»), del caso Welby o di Eluana Englaro. Con l'importanza morale e sociale che hanno avuto e continuano ad avere.
Potremmo aggiungere che il pensiero condiviso da Reale e Veronesi collima con quanto sosteneva ne Il sistema tecnico (tradotto da Jaca Book) Jacques Ellul. Lo studioso francese metteva in evidenza quel che governa alcuni momenti topici della vita: «Non è praticamente mai il paziente a essere chiamato a decidere. È il tecnico. La Tecnica aumenta la libertà del tecnico, ossia il suo potere, la sua potenza. Ed è a questa crescita di potenza che viene sempre ricondotta la sedicente libertà dovuta alla Tecnica... Essa permette di modificare, di deviare, di respingere il processo naturale (che ad esempio porterebbe alla morte), è evidente che la decisione dell'uomo si sostituisce alla "decisione" della "Natura". Ma questa decisione non è quella dell'uomo interessato dal fenomeno, è quella dell'uomo detentore della Tecnica. Potere dell'uomo sull'uomo». Il prolungamento artificiale, se volessimo arrivare a una prima conclusione, significa negare all'uomo uno dei momenti più sacri della vita, giacché la morte è l'esatto contrario della nascita.
Il libro è una riflessione senza infingimenti sul vivere e sul morire, sul significato delle cure, sul ruolo che ha la tecnica in questa materia che è parte dell'uomo. Al di là delle considerazioni degli autori e di quelle di Ellul, va aggiunto che viviamo in un tempo in cui i confini della vita e della morte si sono spostati rispetto al passato. Reale, per esempio, dopo aver ribadito che «la tecnica non va divinizzata», chiama «caco-tanasia» ciò che «lo Stato minaccia di imporre», ovvero un accanimento terapeutico sui moribondi che non può certo recare una fine «felice»: la considera soltanto un prolungamento dell'agonia. E in tal caso la tecnologia, anziché offrire una porzione di paradiso sulla terra, realizza l'inferno. Veronesi in questo «confronto tra un credente e un non credente» sottolinea che la scienza si differenzia essenzialmente dalla tecnica. Quest'ultima è «semplicemente uno strumento della scienza» e «risponde solo al mercato»; in altre parole, la scienza «è un sistema di pensiero», mentre «la tecnologia mira a un obiettivo di applicabilità, e non si pone problemi etici». Ricorre poi all'efficace distinzione di Umberto Galimberti: «La scienza mira a conoscere tutto ciò che si può conoscere per migliorare la condizione umana, mentre la tecnica mira a fare tutto ciò che si può fare in un orizzonte privo di finalità».
È un confronto serrato, continuo. Il medico e il filosofo un tempo erano la medesima persona, in questo libro ritornano in mille occasioni a esserlo. Confessa Veronesi: «Ho imparato più in cinquant'anni di professione che il medico dovrebbe pensare più spesso che il suo compito non è soltanto quello di curare una malattia, ma quello di "comporre le dissonanze" e riportare ordine nel caos che essa crea a livello individuale». Da parte sua Reale ricorda che l'uomo moderno ha perso quelli che nella tradizione erano considerati, in modo emblematico, i momenti sacrali: il matrimonio, la nascita, la morte. Lo smarrimento del senso della morte, il non riconoscerne la natura, è l'uguale e contraria confusione che si è diffusa sul senso della vita.
C'è comunque, e non poteva non esserci, un disaccordo tra i due: riguarda l'eutanasia. Per Reale nel momento finale l'uomo va aiutato a lenire i dolori del trapasso ma non accetta che si interrompa la vita con strumenti o con farmaci in modo aggressivo e violento. Ciò non toglie che chi desiderasse accettare gli accorgimenti che la tecnologia è capace di mettere in atto, deve essere libero di farlo; ma allo stesso modo sia libero di respingerli colui che li rifiuta. Reale è un cattolico convinto; ribadisce: la natura l'ha creata Dio, la tecnologia l'uomo. Veronesi va oltre e sostiene che ogni individuo ha diritto di disporre della propria vita. Scrive, tra l'altro, che se un uomo «non vuole andare oltre in un dolore insopportabile, la medicina deve trovare il coraggio di anticipare la morte, scelta e agognata, e nessuno dovrebbe ergersi al ruolo di guardiano di una vita torturata e rifiutata come un incubo peggiore della morte». In margine è il caso di evidenziare che il termine «eutanasia» ricopre ormai un'area semantica molto ampia. Occorre distinguere i vari significati che include. Lo staccare la spina, per Reale, non rientra in essa: è semplicemente non essere vittima di un inferno che non è la natura.
Sia Reale che Veronesi invitano a meditare a fondo su un argomento che potrebbe portare, senza particolari problemi, a un abbraccio tra chi crede e chi no.

Il libro di Giovanni Reale (uno dei nostri maggiori studiosi di filosofia greca) e Umberto Veronesi (oncologo di fama mondiale già ministro della Sanità), «Responsabilità della vita. Un confronto fra un credente e un non credente», (Bompiani, Collana Grandi PasSaggi, pp. 272, 13), sarà disponibile in libreria da mercoledì 15 maggio.
Questo colloquio sarà presentato al Salone del libro di Torino (Auditorium), sabato 18 maggio ore 11. Interverrà all'incontro il direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio de Bortoli.


Corriere 13.5.13
Non bisogna considerare scienza e tecnica come idoli
di Giovanni Reale


I l problema oggi più urgente e più difficile da risolvere per i medici è quello di non restare vittime del paradigma scientistico-tecnicistico, ossia non considerare scienza e tecnica come idoli.
In realtà, non pochi, invece, ne restano vittime, e non solo medici, ma anche uomini comuni e altresì di alto livello, e poi alcuni degli stessi prelati.
Ho sentito infatti dire, da molte parti e anche da religiosi, che nei casi dei malati — e qui parliamo soprattutto di quelli terminali — gli unici a decidere dovrebbero essere i medici, in quanto scienziati, e non gli interessati e i familiari.
E su questo punto potrei essere anch'io d'accordo, ma solo se il medico agisse non solo come tecnico e scienziato, ma applicasse il suo potere di scienziato e di tecnico con saggezza, ossia usasse la tecnica come «mezzo» e non come «fine». (...). Platone sviluppa il concetto dei rapporti fra «medico» e «sofferenze» in modo elevato: per diventare un buon medico e curare le sofferenze degli altri, un medico deve, prima, aver sofferto lui stesso quelle sofferenze.

Corriere 13.5.13
La giusta misura terapeutica tra perizia e conoscenza
di Umberto Veronesi


C i sono malattie che provocano un dolore terribile, ma è un male che si può dominare e annullare con le medicine. Solo il dialogo risolve invece le sofferenze. Bisogna aver voglia di parlare e bisogna saper parlare. Il messaggio che io cerco di infondere nei miei collaboratori è di esplorare chi ci sta dolorosamente di fronte, prima di mettere in atto qualsiasi terapia (...).
Esiste un «fil rouge» nella storia della figura del medico, che conduce a una missione, più che a una professione, in cui l'attenzione e l'amore per l'uomo e per l'umanità sono elementi imprescindibili. Dico sempre ai giovani che sono incerti se intraprendere gli studi di medicina che devono prima di tutto guardare dentro se stessi e capire se hanno una propensione alla solidarietà, un forte istinto di protezione dei più deboli e un certo spirito di sacrificio (...)
Non c'è dunque distinzione, a mio parere, fra «arte medica» e «scienza medica», ma esiste piuttosto una «giusta misura» che consiste nella compenetrazione armoniosa fra questi due aspetti, senza che uno prevalga eccessivamente sull'altro.

Repubblica 13.5.13
Il confessore diventa terapeuta
I colloqui con i sacerdoti cresciuti fino al 20% prima di Papa Francesco
L’Italia torna a confessarsi in Chiesa come dal terapeuta
Le nuove confessioni degli italiani
di Paolo Rodari


PUNTO di rottura. O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese italiane, in testa i santuari mariani, registrano un fenomeno che pare senza sosta: il ritorno della confessione. Quaranta- cinquantenni, tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote.
Punto di rottura. O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese italiane, in testa i santuari mariani, registrano un fenomeno che pare senza sosta: il ritorno della confessione. Uomini, donne, soprattutto quaranta-cinquantenni, tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote che, come scrisse nel XIII secolo il chierico inglese Tommaso di Chobham, «siede nel confessionale come Dio e non come uomo». Tornano a chiedere perdono perché — spiega il padre gesuita Francesco Occhetta — vedono soltanto in questo sacramento l’appiglio per rompere col passato, per ricominciare daccapo, fare nuova la propria esistenza». Non si tratta, dunque, di mera espiazione delle colpe. Anche, ma non solo. Né di trovare «una nuova etica» dentro il vivere quotidiano. Si tratta, soprattutto, «di cambiare cammino una volta per tutte». Spesso, dice Occhetta, «i peccati sono dolori che macerano nel profondo. Aborti mai confessati, ad esempio. Il sacramento permette di ricominciare, nonostante il dolore permanga. Ma i peccati sono diversi. E oggi, come secoli fa, è sempre il decalogo a essere disatteso». Dice monsignor Gianfranco Girotti, per anni numero due della Penitenzieria apostolica: «Al di là delle colpe gravi del passato — fra questi anche i tradimenti, le menzogne pronunciate a danno di altri, i torti comminati con l’intento di ferire e fare male — i fedeli cadono principalmente sui sette vizi capitali. È così da sempre: superbia, avarizia, lussuria (qui c’è la dedizione al piacere e al sesso), l’invidia, la gola, l’ira, e l’accidia (che non è depressione, quanto lasciarsi andare al torpore dell’animo fino a provare fastidio per le cose spirituali) albergano nella maggior parte delle confessioni di oggi».
Ancora prima dell’elezione al soglio di Pietro di José Mario Bergoglio, le chiese italiane hanno registrato un aumento di persone che chiedono di confessarsi attestabile circa intorno al venti per cento. Numeri certi non esistono, perché non esistono registri in merito nelle diocesi. Lo scorso febbraio, però, Civiltà Cattolica — la storica rivista italiana dei gesuiti — chiudeva un numero con un articolo intitolato proprio “Il ritorno della confessione”. Lo spunto era l’aumento dei penitenti riscontrato nelle principali basiliche romane, e insieme nei santuari italiani. Un aumento circoscrivibile all’ultimo anno, visibile a occhio nudo semplicemente contando le ore che i confessori hanno dovuto trascorrere chiusi all’interno dei confessionali. «La crisi economica è anzitutto crisi di valori», spiegano i gesuiti della Chiesa del Gesù, in centro a Roma. «Viviamo in una società in cui manca la figura del padre. Negli ultimi mesi la sofferenza causata da questo vuoto si è acuita inesorabilmente. E i nostri confessionali sono tornati a riempirsi. Dietro questo fenomeno c’è una nuova domanda di spiritualità. La domanda preme, finché rompe gli argini e implora risposte».
Point break, lo chiamano i surfisti. «Il punto di rottura di un’anima alla ricerca di Dio», la definisce padre Occhetta.
Dice san Gregorio di Narek, poeta, monaco, teologo e filosofo mistico armeno che «anche nella più oscura cisterna, brucia sempre una piccola fiamma. Voluta da Dio». È questa fiamma che spinge a uscire di casa e a entrare in un confessionale. Ma per dire cosa? Quali i peccati ricorrenti? La risposta non è semplice. Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato che il confessionale «non è una lavanderia». Molti, evidentemente, la usano così. Un luogo in cui lavare le proprie colpe indicando uno dopo l’altro quali dei dieci comandamenti sono stati disattesi. «Tante volte — dice Bergoglio — pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria. Confessarsi è un incontro con Gesù, ma con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo».
Non per tutti confessarsi è smacchiare i vestiti sporchi in una tintoria a gettoni. Esiste anche una tendenza opposta: la confessione come se fosse una seduta di analisi dallo psicologo.
Scrisse anni fa in merito più pagine monsignor Mario Canciani, ai tempi confessore di Giulio Andreotti, spiegando che i penitenti parlano soprattutto di «stress, impazienza e depressione». Dice: «Quasi ne chiedono scusa. Senza rendersi conto che non sono peccati».
Ancora Girotti spiega che «sempre più il confessionale viene usato come luogo in cui parlare di sé, dei propri problemi, in effetti un po’ come se si fosse a una seduta di analisi. Ma al di là di questi casi, e ai casi di coloro che confessano i peccati che potremmo impropriamente definire “classici”, noto che si offende Dio anche per altre vie, ad esempio con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili. Per non dire poi della sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come la frode fiscale, l’evasione, la corruzione». Ma quel è il peccato più confessato? Girotti non ha dubbi: «Sempre lui, il peccato contro il sesto comandamento: non commettere atti impuri. La sfera sessuale sembra essere quella più difficile da domare, o forse rode la coscienza più di altre offese». Lo disse ancora Canciani: «Al di là di tutto, il peccato più disatteso resta quello relativo al sesto comandamento. È un peccato che si riferisce alla vita privata della gente. In questo campo, purtroppo, si nota un distacco tra ciò che insegna la Chiesa e il disordine nel quale vivono tante persone. Mi riferisco quindi non solo alla sfera sessuale, ma anche ai divorziati o a situazioni familiari complesse. La Chiesa deve però accogliere tutti con amore».
Recentemente il Centro Studi sulle Nuove Religioni ha pubblicato un’indagine sul sacramento della penitenza a seguito dell’elezione di Papa Francesco. L’insistenza del Papa sulla parola «misericordia» ha spinto molti a tornare a confessarsi, in scia al trend precedente all’elezione. Fra questi, dice l’indagine, tante coppie per la Chiesa «irregolari» che spinte dal “fuoco” di Bergoglio si sono decise per un nuovo cammino.
Aumentano i penitenti, certo, ma diminuiscono i confessori. La crisi di vocazioni sacerdotali rischia sempre più di far sì che la Chiesa non sappia rispondere alla domanda. Così, in alcune diocesi, c’è chi abbozza nuove soluzioni. Una di queste, molto discussa ma prevista dal canone 961 del codice di diritto canonico, è l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale. Il codice dice che essa non può essere impartita se non vi sia imminente pericolo di morte e al sacerdote o ai sacerdoti non basti il tempo per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti. Insieme, può essere concessa se «vi sia grave necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come
si conviene, le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente». La pratica comunitaria nacque in Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai. Durante la messa i fedeli, su invito del sacerdote, riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. Poi il Concilio Vaticano II ricalibrò la spinta, ribadendo che la confessione auricolare resta l’unica via di remissione dei peccati gravi. Ma intanto il ritorno alla confessione individuale da parte di molti fedeli lascia in secondo piano altre dispute. Anche perché, come scrive sempre Civiltà Cattolica, coloro che tornano a confessarsi lo fanno dopo aver dialogato «con la propria coscienza». Dice la rivista: «Si assiste a un ritorno silenzioso ma significativo alla confessione da parte della generazione dei quarantenni e cinquantenni, che ridanno valore al sacramento, a volte dopo anni di lontananza. Coloro che ritornano a confessarsi dichiarano di averlo fatto dopo aver riletto il Vangelo, dialogato con la voce della propria coscienza, incontrato testimoni credenti e credibili».

Repubblica 13.5.13
Il pastore Paolo Ricca è uno dei più importanti intellettuali evangelici: “Ci si confida fra credenti”
“Ma per noi valdesi il perdono non ha bisogno di mediazioni”
di Vera Schiavazzi


«La sua autorità, la mia autorità come cristiano non è né maggiore né minore di quella del Papa: possiamo annunciare a un fratello o a una sorella che Dio lo ha perdonato dei suoi peccati, perché è questa la rivoluzionaria novità del Vangelo. Ma non possiamo dire: ego te absolvo…». Paolo Ricca, pastore valdese, docente, teologo, uno dei più importanti intellettuali evangelici italiani, riassume così il confine sottile che — da Lutero in poi, anche se il padre della Riforma avrebbe voluto conservare la confessione — separa i cattolici dai protestanti. Gli uni pronti a confessarsi e a “lavare” così ogni peccato, come lamenta Papa Francesco, gli altri dediti a parlare “direttamente” con Dio, in buona compagnia di credenti di altre fedi, come gli ebrei.
Professore, che cosa significa parlare direttamente con Dio?
«Vuol dire che per i protestanti non c’è bisogno di altre mediazioni umane. Nulla di straordinario: è quello che facciamo ogni volta che diciamo il Padre Nostro, una preghiera bellissima e breve, che contiene già tutto come ha raccomandato Gesù. Questa è la novità cristiana, non tanto il fatto che Dio perdoni, il che è condiviso da tutte le grandi religioni, quanto quello di perdonarsi gli uni con gli altri».
Io perdono te e tu perdoni me, e tutti e due siamo assolti?
«In un certo senso è così, come nella parabola evangelica del re che rimette a un servo il suo enorme debito. Quando però questo servo dimentica il beneficio che ha ricevuto e esige il suo piccolo credito da un altro poveraccio, allora il suo debito iniziale gli viene rimesso sulle spalle: essere perdonati è collegato alla capacità di perdonare i nostri simili. È il grande scandalo del messaggio cristiano».
Proviamo a calare questo principio nella vita moderna. Che cosa dovrebbe fare chi sa di essere in torto?
«Può meditare, rivolgersi a Dio nella forma in cui lo conosciamo, e cioè attraverso la Scrittura, può pregare, ma può anche parlare a un fratello o a una sorella. Dio ci ha già perdonati. Facciamo un esempio: un uomo tradisce la moglie, poi si rende conto di avere agito male. Può ritrovare la pace leggendo la Bibbia, pregando, il che non è fatto necessariamente di parole ma della consapevolezza di essere in ogni momento davanti a Dio, ma può anche confidarsi a un altro credente, che potrà annunciargli il perdono. La cosa migliore sarebbe se a perdonarlo fosse la moglie stessa».
Questo modo di chiedere perdono presuppone una conoscenza della Bibbia che pochi posseggono. Non è più rassicurante rivolgersi a un sacerdote?
«Forse. Hegel diceva che la nostra preghiera è leggere il giornale, perché riconosceva nella storia la presenza di Dio. Lutero, poi, era contrario a abolire la confessione, anche se voleva cancellarne il valore di sacramento: sosteneva che non c’è nulla da perdere nel conservare quel momento di conforto tra il credente e un’altra persona, spesso il pastore, che anche nelle nostre chiese svolge decine di dialoghi, ascolta e alla fine prega insieme al fratello o alla sorella. Ma storicamente ha prevalso il desiderio di differenziarsi dal cattolicesimo, così come nell’abolire il dialogo tra chi predica e l’assemblea. Concordo con lui: è stata una rinuncia».
C’è qualcosa che non può essere perdonato?
«No. Quando ero un ragazzo, dopo la guerra, ho ascoltato il pastore Martin Niemöller, a lungo prigioniero nei lager predicare a Torre Pellice. Ci disse che Gesù era morto “anche per Hitler”, proprio lui che era stato fatto rinchiudere dal Fuhrer per un suo sermone. Ancora oggi quella frase mi fa rabbrividire, ma ne riconosco la profonda verità».

Repubblica 13.5.13
Il silenzio di Don Lisander
La poesia di Manzoni uccisa dalle nevrosi

Fobie, ossessioni, panico. Paolo D’Angelo spiega in un libro la parabola creativa che seguì l’uscita dei “Promessi sposi”
di Francesco Erbani


Fra i tanti quesiti che ronzano intorno alla storia della letteratura, uno riguarda Alessandro Manzoni: perché dopo I promessi sposi non scrisse più niente — niente di creativo, s’intende? Che cosa accadde nei decenni successivi al 1827, quando lo scrittore rielaborò la prima stesura del romanzo Fermo e Lucia (composto fra il 1821 e il 1823), lo risciacquò in Arno e gli diede il titolo che lo avrebbe reso leggendario nella letteratura di tutti i tempi? Fino al 1840 proseguirono le correzioni al romanzo, poi verranno la Storia della Colonna Infame, gli scritti sulla lingua, quelli di erudizione storica e filosofica. Ma nulla dettato dall’invenzione — narrativa, poetica o drammaturgica che fosse. Il suo stato di salute mentale, da sempre precario, peggiorò. Potrebbe bastare questo a spiegare un silenzio durato fino alla morte, nel 1873, una morte che colse Manzoni molto anziano, essendo lui nato nel 1785.
Le nevrosi di Manzoni è il libro pubblicato dal Mulino che Paolo D’Angelo, professore di estetica a Roma Tre, ha dedicato alla ricostruzione dei motivi di quello che appare un vero rifiuto della letteratura, un’amputazione volontaria della propria facoltà di scrittura che si spalanca come un buco nel cuore dell’Ottocento e che fa il paio — con molte differenze, però — con il silenzio di Gioacchino Rossini, il quale, composto il Guglielmo Tell nel 1828 a trentasei anni, non realizzerà più nulla per il teatro fino alla sua morte, avvenuta cinque anni prima di Manzoni, nel 1868.
Le nevrosi dicono molto dell’esaurirsi di una parabola creativa. Ma non tutto. Spiega D’Angelo: «Il rifiuto manzoniano della letteratura non resta una reazione inconsapevole e si traduce in una compiuta teoria dell’arte, o meglio della negazione dell’arte». E in effetti il lavoro di D’Angelo si snoda dalle fobie di Manzoni, ma poi le incardina sui tormenti che lo scrittore vive intorno al nodo dei rapporti tra letteratura, storia, verità e finzione. E, lasciando poi Manzoni al suo tempo, l’analisi arriva fino a lambire il dibattito attuale sulla non-fiction novel, il romanzo d’inchiesta, il romanzo che bandisce i materiali dell’immaginazione, vantando un’unica musa: la realtà. Sfiorando, infine, le pretese inverse di matrice postmoderna di limitare la storiografia al dato narrativo, più che documentario. Il silenzio di Manzoni, senza instaurare improbabili analogie o schieramenti antelitteram, richiama in qualche modo un precedente problematico di queste tensioni, una specie di premonizione culturale.
Ma andiamo per ordine. Manzoni smette con la letteratura d’invenzione, nonostante questa gli abbia assicurato un successo con pochi paragoni. Don Lisander era affetto da agorafobia: nel 1810 mentre a Parigi assisteva insieme alla prima moglie Enrichetta Blondel, in mezzo a una folla rumoreggiante, ai festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, fu colto da un attacco di vertigini. Anche la sua celebre conversione al cattolicesimo viene descritta simultaneamente a una crisi di panico. Quando camminava da solo c’era il rischio che lo cogliessero convulsioni, cui seguiva la perdita dei sensi. È lui stesso, a quasi ottant’anni, a raccontarsi «afflitto da balbettamento organico e nervoso», una patologia «che non gli permette di pronunziare due parole in pubblico» e che «a partire dall’età di trent’anni», non gli consente «di uscire se non accompagnato». Il quadro clinico, stilato da un solerte psichiatra lombrosiano, è ricco di claustrofobie, ipsofobie, acrofobie, ma anche ascetismi, allucinazioni, iperestesie, irascibilità. Si tira in ballo il nonno Cesare Beccaria, anche lui psicopatico. E che dire del fatto che lo scrittore fosse figlio illegittimo di Giovanni Verri, che suo padre legale, il conte Pietro Manzoni, fosse una figura mediocre, presto abbandonato dalla moglie Giulia che si trasferì a Parigi insieme a Carlo Imbonati?
Esiste un punto di contatto, spiega D’Angelo, fra l’agorafobia dell’uomo Manzoni, la sua paura dello spazio aperto, il suo bisogno di appoggio, e l’avversione che lo scrittore Manzoni manifesta per lo spazio aperto della creazione: «Tutto quello che si origina da una libera invenzione, che non può vantare un riscontro esatto nella realtà storica, gli pare immotivato, pericoloso, appunto un abisso nel quale si rischia di cadere».
Manzoni, più di molti altri suoi colleghi, è un tenace produttore di riflessioni sul fare letteratura. Queste accompagnano passo passo le tragedie e il romanzo. Egli sente la necessità di spiegare perché compie certe scelte artistiche o linguistiche. E in tanti scritti manifesta la convinzione che, spiega D’Angelo, «inventare è immorale quanto dire il falso». E che occorre trovare per la letteratura un sostegno: e il sostegno che regga l’incedere dell’autore nello spazio illimitato della creazione è la storia. «L’immaginazione è troppo autonoma e irriducibile perché Manzoni non l’avverta come un pericolo, anche nel campo che le sembra più proprio, quello dell’arte e della poesia».
Fino a un certo punto il rapporto fra storia e invenzione regge in equilibrio. D’Angelo segue il distendersi nervoso delle analisi di Manzoni dalla prefazione al Conte di Carmagnola (1820) arrivando a Del romanzo storico (pubblicato nel 1850, ma probabilmente elaborato già nel 1831). Di questo rapporto, inoltre, è intessuta interamente l’architettura dei Promessi sposi (Renzo, Lucia, Don Abbondio, Don Rodrigo, personaggi d’invenzione, la carestia, la peste, il cardinale Borromeo, vicende e persone reali). La storia è il vero fondamento della poesia. L’invenzione serve a integrarla, a fornire una visione dall’interno dei fatti narrati, perché racconta intenzioni e sentimenti che la storia non può documentare. Il romanzo è un altro mezzo per raggiungere la verità storica, persino più efficace della storiografia. Ma l’equilibrio dal quale germinano le tragedie e soprattutto il capolavoro, scrive D’Angelo, dura una breve stagione. Poi si rompe. È lo stesso Manzoni a rendersene conto.
Le prove che la spinta a fare storia e anche invenzione sia esaurita D’Angelo le rintraccia in scritti teorici e in testimonianze dei contemporanei. La Storia della Colonna Infame, la sua faticosa stesura, le revisioni con cui lo scrittore emenda le parti narrative a vantaggio del freddo resoconto, mostrano quanto Manzoni lascia che prevalga il “nevrotico” bisogno che sia la storia a dettare il passo. La storia non potrà acquisire tutta la realtà, ma nonostante le sue limitazioni — questo il pensiero di Manzoni nel saggio Del romanzo storico — sarà sempre meglio dell’invenzione, della poesia. E dunque della letteratura. E nella recensione che un contemporaneo dedica a questo scritto manzoniano, si nota «l’inquietudine profonda» da cui lo scritto nasce, frutto «di una coscienza sottile e inesorabile» e anche di «una mente condotta a ritornare sopra di sé, a ondeggiare, a disdirsi».

Le nevrosi di Manzoni è il libro di Paolo D’Angelo pubblicato dal Mulino (pagg. 213 euro 19)

Repubblica 13.5.13
Il capro espiatorio tra Edipo e Cristo
Un saggio dell’antropologo su “Vita e Pensiero”
di René Girard


Pubblichiamo parte di uno dei testi del nuovo numero della rivista Vita e Pensiero

La vendetta non è un’istituzione, è un fenomeno di cui non si sa se sia biologico o culturale, ma è specifico dell’uomo. Non c’è vendetta tra gli animali. Se la vendetta esiste, se è infinita, è evidente che la specie umana dovrebbe distruggersi da sé, subito, in partenza, prima ancora di esistere in quanto umanità. È in quel momento che avvengono crisi di rivalità mimetica, quelle crisi che si ritrovano, nei miti relativamente moderni, ma di cui devono esserci antecedenti molto antichi. Come si risolvono tali crisi? Sicuramente per motivi puramente meccanici, perché dal momento in cui gli uomini si disputano gli oggetti che desiderano non potranno mai capirsi. Ma la lotta diventerà così intensa che gli oggetti spariranno e resteranno solo i rivali. E dal momento in cui in un gruppo ci sono solo antagonisti si può essere certi che ci saranno forme di riconciliazione. Si creeranno alleanze contro un nemico comune che polarizzerà sempre più avversari, mimeticamente. È quella che si chiama “politica” ed è anche il fenomeno del “capro espiatorio”.
A partire dal momento in cui restano solo antagonisti, il flusso mimetico invece di dividere e frammentare, si polarizzerà sempre più contro e alla fine si dirigerà su un individuo qualsiasi, che appare come il colpevole della crisi. Se guardiamo i miti troviamo un numero notevole di casi in cui la violenza è collettiva contro un’unica vittima. C’è un passaggio dal “tutti contro tutti” al “tutti contro uno”. È quello che chiamiamo fenomeno del “capro espiatorio”. Penso che nelle società arcaiche questo tipo di fenomeno svolga un ruolo capitale; il sacrificio rituale diventa molto comprensibile. Le comunità riconciliate dalla vittima cambieranno atteggiamento nei suoi confronti. La vedono sempre come responsabile della crisi, in altre parole Edipo ha realmente commesso parricidio e incesto, attirando così la peste su Tebe, ma pensano anche che ora la vittima sia responsabile della riconciliazione. Di conseguenza, la vittima colpevole diventerà una divinità. Nel caso di Edipo è semplicissimo, si tratta di una divinità del matrimonio, delle regole del matrimonio che ha infranto lui stesso e che in qualche modo ha istituito infrangendole, cosa certo assurda ma che nondimeno svolge un ruolo essenziale nella genesi del religioso e dello stesso sociale.
Le somiglianze con il cristianesimo sono più forti che mai. Se osserviamo la crocifissione e la Passione, subito notiamo che è un fenomeno estremamente, incredibilmente mimetico. Ad esempio, il rinnegamento di Pietro: è evidente che interpretarlo in maniera psicologica come si fa sempre vuol dire insinuare che al suo posto noi avremmo resistito alla tentazione di rivoltarci a Cristo, e non è soddisfacente. In realtà avviene che quando Pietro si trova in mezzo a una folla ostile a Gesù, diventa ostile anche lui. È mimeticamente contagiato. E vi si trova in quanto il migliore tra i discepoli, li rappresenta tutti. Nessuno è in grado di resistere al mimetismo omicida della folla. Un’altra prova è Pilato: vorrebbe salvare Gesù, ma in quanto politico ha talmente paura della folla che le obbedisce fingendo di guidarla. Ma l’imitazione più caricaturale sono i due uomini crocifissi con Gesù che si voltano verso la folla e cercano di imitarla, vociferano con la folla, in fondo per far credere a se stessi di non essere crocifissi.
È il mito completamente spiegato e svelato. A questo punto gli antropologi vanno in visibilio, perché in fondo conoscono solo la logica del concetto. E si dicono che perché il cristianesimo fosse davvero diverso dalle altre religioni bisognerebbe che parlasse di altro. Ebbene, non è così. Il cristianesimo parla di quello che è essenziale nell’uomo, ossia del fondamento religioso delle società, che è anche il fondamento della cultura: il mimetismo violento. Deve parlare della stessa cosa dei miti. È dal momento in cui si vede quest’identità di argomento, questi rapporti estremamente vicini tra mitologia e cristianesimo, che di colpo dovrebbe apparire la differenza: nei miti i colpevoli, anche se alla fine vengono divinizzati, sono anzitutto colpevoli. Quando si parla del mito di Edipo si pensa al parricidio e all’incesto e oggi ci sembrano più veri che mai, il che è la prova che ci troviamo nel mito, perché quasi tutti credono nella psicanalisi, che non è altro che credere al parricidio e all’incesto invece di credere a una certa innocenza dell’uomo che là è reale. La differenza essenziale di Gesù è che la Passione presenta la vittima non come colpevole, ma come innocente. In altre parole, la Passione è l’unico mito che sa e proclama quello che i miti dissimulano perché non lo sanno: la vittima è un capro espiatorio innocente.
(Traduzione Anna Maria Brogi)

Repubblica 13.5.13
Renda, scampato per caso a Portella della Ginestra
È morto lo storico e dirigente del Pci siciliano. Scrisse opere fondamentali sul Sud e la mafia
di Tano Gullo


PALERMO. È stato in prima fila in tutti i momenti difficili degli ultimi settant’anni della storia siciliana: a Portella della Ginestra il giorno della strage; tra le bandiere rosse nei feudi occupati; nelle miniere asserragliato a difendere la dignità dei lavoratori e l’integrità dei “carusi”, piccole vittime di tempi senza pietà; nelle dorate stanze del Parlamento regionale, prima per dare corpo a una Autonomia agognata, poi a cercare di arginare quel federalismo, fabbrica di sprechi. È morto ieri a 92 anni lo storico Francesco Renda, politico, dirigente contadino, meridionalista, parlamentare, docente, nonché autore di una cinquantina di volumi sulle vicende isolane, alcuni ormai pietre miliari, come la monumentale Storia della Sicilia pubblicata da Sellerio nel 2003, in cui lo studioso ribalta tutti i luoghi comuni sedimentati nei secoli per pigrizia e superficialità.
«Apprendo con commozione la notizia della scomparsa di Francesco Renda — ha scritto
il presidente Giorgio Napolitano, sodale negli anni duri del centralismo democratico, in un messaggio ai tre figli — , intellettuale fortemente impegnato e profondo studioso della storia della Sicilia, che avevo avuto modo di conoscere in anni lontani e di apprezzare». Messaggi di cordoglio anche dal presidente Crocetta e da esponenti del mondo politico, culturale e sindacale. Oggi alle 11 una cerimonia nella sede della Fondazione Gramsci, di pomeriggio i funerali a Mazzarino, nel Nisseno, paese d’origine della moglie Antonietta Marino, fondatrice del movimento delle donne comuniste nell’isola, scomparsa tre anni fa in questi stessi giorni.
Nato a Cattolica Eraclea, Agrigento, in
una povera famiglia di braccianti, è riuscito a sfuggire a una vita segnata per la poliomielite che mina il suo fisico gracile rendendolo inadatto al lavoro dei campi. Uno zio calzolaio lo prende in bottega: le lesine e il cuoio non chiudono il suo orizzonte, così a dispetto della miseria riesce a intraprendere gli studi liceali. Tra i banchi acquisisce una coscienza politica e aprendo la sezione Pci del suo paesino si avvia nei primi passi di una escalation inarrestabile: dirigente della Federterra e della Lega delle cooperative, segretario regionale Cgil; cinque legislature all’Assemblea regionale e una al Senato, ordinario di Storia nell’Ateneo palermitano e autore di numerosi libri, il primo sul movimento contadino, l’ultimo su Federico II, nel mezzo La storia della mafia.
Uscirà postumo il racconto sulla Ducea di Bronte, regalata a Horatio Nelson, lavoro degli ultimi anni.
La sua vita, segnata dai contrasti per la sua cocciutaggine di coniugare i valori del comunismo con la lezione liberale di Croce, la racconta nel libro Autobiografia politica (Sellerio 2007). A cominciare da Portella: è lui che quel 1° maggio 1947, deve tenere il comizio. Per strada si buca una gomma della motoretta, perde una manciata di minuti quanto basta per scansare la gragnola di pallottole. Sarà lui nei giorni successivi (in aperta polemica con Girolamo Li Causi che incita i lavoratori a una reazione dura), a sedare gli animi ricordando l’eccidio dei Fasci.
Per tanto tempo lo studioso è convinto che sulle vittime di Portella e sulla mattanza di una sessantina di militanti della sinistra prima e dopo, ci sia la firma esclusiva della banda Giuliano. Poi, grazie anche a un’inchiesta di Repubblica che riporta documenti inediti degli archivi Usa, la svolta, e nell’Autobiografia Renda scrive che «in quel mondo spaccato a metà dalla “Guerra fredda”, ci sono troppi interessi internazionali convergenti sulla Sicilia e tutti orientati a bloccare l’avanzata delle sinistre».
Temperamento spigoloso, all’interno del Pci è una spina nel fianco di chi all’insegna della real politik intesse accordi arditi. Si oppone al governo Milazzo, con pezzi di Msi e dc, e su questo fronte rompe con l’amico Emanuele Macaluso, regista del ribaltone, con il quale si riabbraccia per la festa dei novant’anni. E anche negli ultimi anni non perde occasione di attaccare i vertici del Pd isolano per il sostegno a governi, come quello Lombardo, espressione della vecchia politica. Anche sulla mafia va controcorrente: «ormai è definitamente sconfitta», dice, suscitando ire furiose. «Una volta i Calò Vizzini operavano alla luce del sole, oggi i boss devono tramare nella clandestinità», replica. Nel campo storiografico opere che lasciano il segno; dopo avere letto gli studiosi che per un millennio ci hanno raccontato la Sicilia, comincia ad attingere dagli archivi e mette sottosopra certezze secolari: demolisce il mito di Federico II Stupor mundi, sostenendo che per la sua incapacità politica e l’ostinata ostilità a papa Innocenzo III perde la vita — e con lui i figli — e l’impero; esalta, per contro, Ruggero II fondatore del Regno; si scaglia contro la lettura monocorde che ritiene la civiltà siciliana originata dalla dominazione araba. Al piagnisteo che pone le dominazioni straniere come causa dell’arretratezza isolana, tesi della storico cinquecentesco Tommaso Fazzello, trappola in cui cadono Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e perfino Sciascia, controbatte che «grazie alle occupazioni straniere l’Isola si è trovata sempre al centro della grande storia mediterranea». E proprio sul Mare nostrum, «sdoganato dal crollo della Cortina di ferro», progettava di aggiornare un suo vecchio studio. Non ne ha avuto il tempo.